La parola e la cura
La Parola e la cura è una rivista rivolta a tutti i professionisti che utilizzano la parola nel loro lavoro, parla di counselling perché con questo termine indichiamo le comunicazioni professionali caratterizzate da una costante attenzione alla relazione con l'altro, alla qualità dello scambio comunicativo, all'efficacia dei messaggi.
La Parola e la cura è una rivista rivolta a tutti i professionisti che utilizzano la parola nel loro lavoro, parla di counselling perché con questo termine indichiamo le comunicazioni professionali caratterizzate da una costante attenzione alla relazione con l'altro, alla qualità dello scambio comunicativo, all'efficacia dei messaggi.
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Numero O Novembre 2014 <br />
Comunicazione Counsel(l)ing Salute <br />
) <br />
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Pietro Barbetta -‐ Stefano Beccastrini -‐ Giorgio Bert – Miriam Bertuzzi <br />
-‐ Marco Bobbio – Eugenio Borgna – Mauro Doglio -‐ Lina Jaramillo -‐ <br />
Silvana Quadrino -‐ Rosa Revellino -‐ Massimo Schinco -‐ Luvia Soto <br />
Cabrera -‐ <br />
COUNSELLING HUMANITIES <br />
Istituto CHANGE <br />
scuo<strong>la</strong> di counselling sistemico e comunicazione <br />
www.counselling.it
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
SOMMARIO <br />
INTRODUZIONE – Giorgio Bert <br />
2 <br />
EDITORIALE: Humanities: le radici e l’humus <br />
– Silvana Quadrino 3 <br />
EDITORIALE: Counselling e Humanities -‐ <br />
Mauro Doglio <br />
Filosofia e counselling – Mauro Doglio <br />
<strong>La</strong> dignità ferita – Eugenio Borgna <br />
Identità e complessità. Come cambiano i <br />
modelli di espressione – Rosa Revellino <br />
Retorica e counselling – Mauro Doglio <br />
Un dilemma immaginato. Le due culture – <br />
Giorgio Bert <br />
L’arte del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione -‐ Pietro Barbetta <br />
Antropologia, identità (e complessità) nel <br />
counselling -‐ Lina Jaramillo e Luvia Soto <br />
Cabrera <br />
<strong>La</strong> ricetta del<strong>la</strong> narrazione – Miriam Bertuzzi <br />
Ci salverà <strong>la</strong> musica? No, ma… -‐ Massimo <br />
Schinco <br />
Un ginecologo umanista – Stefano <br />
Beccastrini <br />
Un caso letterario: quando “fare di più non <br />
significa fare meglio” – Marco Bobbio <br />
Camminare, osservare, fotografare, <br />
riflettere: <strong>la</strong> complessità in una mattinata di <br />
scale e fotografie a Matera – Silvana <br />
Quadrino <br />
L’angoscia – Anton Cechov <br />
Prefazione di Giorgio Bert <br />
NEI RIQUADRI: Riflessioni dal seminario <br />
Counselling Humanities – I corsisti <br />
dell’istituto Change: Virginia <strong>La</strong>rraburo, Silvia <br />
Minetti, Giorgio Nantiat, Ilenia Visca, Fabio <br />
Freppaz, Anna Tavel<strong>la</strong>, Elena Griseri, <strong>La</strong>ura <br />
Martignone <br />
6 <br />
10 <br />
15 <br />
20 <br />
23 <br />
27 <br />
32 <br />
41 <br />
48 <br />
52 <br />
57 <br />
61 <br />
66 <br />
69 <br />
Pietro Barbetta -‐ Docente di Teorie <br />
psicodinamiche all’Università di Bergamo, <br />
responsabile del<strong>la</strong> didattica del Centro Isadora <br />
Duncan, didatta presso il Centro Mi<strong>la</strong>nese di <br />
Terapia del<strong>la</strong> Famiglia <br />
Stefano Beccastrini – Medico, studioso del<strong>la</strong> <br />
comunicazione e del cinema <br />
Giorgio Bert – Medico, cofondatore dell’Istituto <br />
CHANGE e di Slow Medicine, direttore di questa <br />
rivista <br />
Miriam Bertuzzi – Counsellor sistemica, psicologa <br />
Marco Bobbio – Medico, studioso dei problemi <br />
metodologici e sociali del<strong>la</strong> medicina <br />
Eugenio Borgna – Primario emerito di Psichiatria <br />
all’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente <br />
in Clinica delle ma<strong>la</strong>ttie nervose e mentali presso <br />
l’Università di Mi<strong>la</strong>no <br />
Mauro Doglio – Filosofo, supervisor counsellor, <br />
responsabile del corso triennale di counselling e <br />
presidente dell’Istituto CHANGE <br />
Lina Jaramillo -‐ Antropologa e counsellor <br />
sistemica <br />
Silvana Quadrino – Psicoterapeuta sistemica, <br />
pedagogista, supervisor counsellor, docente e <br />
cofondatrice Istituto CHANGE, cofondatrice Slow <br />
Medicine <br />
Rosa Revellino – Linguista, counsellor sistemica <br />
Massimo Schinco -‐ Psicologo psicoterapeuta, co-direttore<br />
del<strong>la</strong> Scuo<strong>la</strong> di Specializzazione in <br />
Psicoterapia Re<strong>la</strong>zionale Sistemica del Centro <br />
Mi<strong>la</strong>nese di Terapia del<strong>la</strong> Famiglia <br />
Luvia Soto Cabrera – Psicologa e coach <br />
2
INTRODUZIONE <br />
Giorgio Bert <br />
A dieci anni dal<strong>la</strong> prima uscita, <strong>La</strong> Paro<strong>la</strong> e <strong>la</strong> Cura si adegua, complice quel<strong>la</strong> che pudicamente si <br />
usa chiamare spending review, al<strong>la</strong> tecnologia digitale. In realtà si tratta di un passaggio su cui <br />
stavamo riflettendo da tempo: come spesso capita le crisi non hanno solo aspetti negativi, se <br />
facilitano <strong>la</strong> creatività e i cambiamenti. <br />
Questo è un numero zero e come tale ha una struttura abbastanza semplificata. Per le prossime <br />
uscite, a partire dal 2015, abbiamo progetti più ambiziosi, nel senso che il prodotto che ci <br />
piacerebbe presentare non si limiterà a due soli incontri annuali monotematici (che peraltro <br />
rimarranno), ma si amplierà a un discorso continuo interattivo, che permetterà di fornire <br />
informazioni in tempo reale, di <strong>la</strong>nciare proposte, di dare spazio a dialoghi e confronti con i <br />
lettori. <br />
In altre parole un prodotto flessibile, dinamico, certamente più complesso e più adeguato al<strong>la</strong> <br />
realtà oltre che al<strong>la</strong> nostra visione sistemica del<strong>la</strong> <strong>cura</strong>. <br />
Certo, ci muoveremo come è logico per prove ed errori, come avviene allorché si vuole esplorare <br />
un territorio ignoto; l’obiettivo tuttavia è, per quanto possibile, chiaro – almeno nel<strong>la</strong> nostra <br />
mente. <br />
Seguiteci, aiutateci, siate pazienti…
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
EDITORIALE <br />
Humanities: le radici e l’humus <br />
Silvana Quadrino <br />
Le parole fanno il loro giro, come il vento. Il termine <strong>la</strong>tino humanitas ci ritorna intorno agli anni <br />
’70 anglicizzato nell’accezione “medical humanities”; termine di difficile traduzione, che in <br />
sostanza vuole sottolineare <strong>la</strong> necessità di arricchire <strong>la</strong> formazione medica con apporti “altri”: non <br />
solo con le scienze umane e <strong>la</strong> filosofia, ma con tutte le arti espressive, letteratura, teatro, arti <br />
figurative, ecc. In Italia questa visione del<strong>la</strong> formazione medica si è fatta strada lentamente, <br />
faticosamente, e con scarso successo in ambito accademico. Sono pochissimi i corsi di <strong>la</strong>urea in <br />
medicina -‐ un po’ più numerosi forse quelli di scienze infermieristiche – che hanno inserito a pieno <br />
titolo le humanities nel loro percorso formativo. <br />
Humanities: abbiamo appiccicato il termine anche al counselling per vedere, come diceva <br />
Jannacci, l’effetto che fa. E anche per definire meglio possibile cosa è che vogliamo definire <br />
humanities, e che funzione può avere nel<strong>la</strong> formazione di un counsellor. <br />
Il vantaggio del counselling su altre professioni con un iter formativo più strutturato, e <br />
inevitabilmente più rigido in una realtà come quel<strong>la</strong> italiana, in cui l’università è autoconservativa <br />
per definizione, è quello di poter model<strong>la</strong>re e rimodel<strong>la</strong>re <strong>la</strong> formazione a partire dal<strong>la</strong> realtà che <br />
cambia e dalle esperienze di chi si sperimenta nel<strong>la</strong> pratica. Per ciò che riguarda il counselling le <br />
esperienze si stanno moltiplicando in questi anni, ed è questo che ci ha portati a riflettere su cosa <br />
può trasformare un aspirante counsellor in una persona capace di “essere” un counsellor, e non <br />
semplicemente di “fare” il counsellor. <br />
Sono andata a rivedere le indicazioni che le prime scuole di counselling (parliamo degli anni ’80) <br />
ricevevano per ottenere l’accreditamento dalle associazioni di categoria: quanto “psy”, e quante <br />
poche humanities! Psicologia generale, psicologia clinica, psicologia dei gruppi, modelli <br />
psicoterapeutici, storia del<strong>la</strong> psicologia… Tante cose da sapere, da imparare, da studiare. Ma passa <br />
davvero di lì l’ ”essere” counsellor? <br />
<strong>La</strong> prevalenza dello “psy” nel<strong>la</strong> formazione dei counsellor si è andata via via attenuando: si sono <br />
fatte strada altre radici, quel<strong>la</strong> pedagogica, quel<strong>la</strong> sociologica, quel<strong>la</strong> antropologica, che hanno <br />
reso più equilibrato e più arricchente il percorso legato al sapere, al formarsi culturalmente, <br />
indispensabile per un professionista che opera in una realtà complessa e in rapida trasformazione <br />
come quel<strong>la</strong> attuale. <br />
2
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Ma cosa nutre quelle radici, cosa trasforma l’apprendimento in attitudine, in capacità di entrare in <br />
re<strong>la</strong>zione con persone, di acuire <strong>la</strong> propria sensibilità nei confronti di ciò che accade nel<strong>la</strong> <br />
delicatissima re<strong>la</strong>zione io-‐tu su cui si basa il counselling? Come si affina <strong>la</strong> percezione dei confini, <br />
dei limiti, l’attenzione alle risposte interne (io) ed esterne (l’altro), all’equilibrio del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione <br />
basata sul<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong>? Cosa permette al counsellor, o almeno al counsellor che utilizza l’approccio <br />
sistemico, di vedere <strong>la</strong> complessità senza spaventarsi e senza sforzarsi di semplificar<strong>la</strong>? <br />
Stimo<strong>la</strong>ti dai contributi e dalle stimo<strong>la</strong>zioni dei corsisti che hanno condiviso con noi un primo <br />
momento di riflessione su questi temi abbiamo ipotizzato una prima distinzione, provvisoria e <br />
ridiscutibile, sul<strong>la</strong> quale fondare le riflessioni successive: <strong>la</strong> distinzione fra radici culturali e <br />
humus, nutrimento, arricchimento dell’ ”umano” del counsellor. <br />
Ogni professionista del<strong>la</strong> <strong>cura</strong> deve essere aiutato a diventare pienamente “persona che <strong>cura</strong> <br />
persone”. <strong>La</strong> funzione di quell’humus che facciamo coincidere con le humanities è esattamente <br />
questa: nutrire <strong>la</strong> persona counsellor, favorirne <strong>la</strong> crescita umana, farne uno strumento sensibile <br />
e ben temperato. <br />
Se vediamo come radici le <br />
discipline più strutturate, come <strong>la</strong> <br />
sociologia, l’antropologia, <strong>la</strong> <br />
pedagogia, che costituiscono un <br />
riferimento indispensabile per <br />
consentire al counsellor di sentirsi <br />
radicato, appunto, nel contesto <br />
culturale in cui vive e per <br />
perfezionare i suoi strumenti di <br />
conoscenza e di interpretazione <br />
del<strong>la</strong> realtà, attribuiamo a quelle <br />
che definiamo humanities <br />
caratteristiche meno definite, più formative e meno informative. Per questo non pensiamo che <br />
sia indispensabile farne un elenco, ma piuttosto chiedersi qual è <strong>la</strong> componente vitalizzante che <br />
fa sì che <strong>la</strong> letteratura, <strong>la</strong> filosofia, il cinema, <strong>la</strong> musica, <strong>la</strong> pittura, l’arte in generale, (e il viaggio, <br />
<strong>la</strong> fotografia, i giochi di ruolo, come hanno suggerito le riflessioni creative dei nostri corsisti) si <br />
facciano humus per chi si appresta a svolgere una professione di re<strong>la</strong>zione come quel<strong>la</strong> del <br />
counsellor. <br />
Quel<strong>la</strong> componente è <strong>la</strong> capacità autoriflessiva, che trasforma una esperienza, ogni esperienza, in <br />
esperienza che ha (e che dà) senso, che connette, che amplia l’orizzonte, che permette di dire: <br />
quello che ho visto, sentito, provato mi rende diverso da prima. <br />
3
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Nell’incontro con l’altro che chiede ascolto e re<strong>la</strong>zione il counsellor (e qualunque altro <br />
professionista che entra in re<strong>la</strong>zione con persone) deve saper accogliere e dare senso a ciò che <br />
avviene in quell’incontro. Per farlo non è sufficiente imparare ciò che le scienze umane hanno da <br />
insegnarci sul mondo in cui viviamo, sull’essere umano e sulle sue modalità di esprimersi e <br />
re<strong>la</strong>zionarsi con gli altri e con <strong>la</strong> realtà. Sono necessarie esperienze, e riflessione sulle esperienze. <br />
Quelle che definiamo humanities possono essere considerate esperienze di qualità più sottile e <br />
al tempo stesso più potente; non servono a far sapere, ma a far succedere. Cosa, non lo <br />
sappiamo: ognuno trasformerà quelle esperienze a suo modo, nel suo percorso di crescita <br />
personale e professionale; ma è essenziale che quelle esperienze avvengano, e siano molteplici e <br />
variegate. Poesia, autobiografia, teatro, cinema, musica… fruiti e agiti, vissuti comunque, e <br />
ripensati e trasformati e rivissuti e connessi. <br />
A chi si forma a una professione del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione deve essere offerta questa possibilità di nutrirsi di <br />
esperienze sottili e potenti, che non hanno obiettivi definiti, esattamente come l’humus in cui <br />
cresce una pianta non ne definisce <strong>la</strong> forma futura ma soltanto ne favorisce <strong>la</strong> crescita. Per <br />
questo vogliamo continuare ad ampliare gli orizzonti delle humanities, per moltiplicare le <br />
possibilità di vivere e proporre esperienze nutrienti nel percorso formativo dei counsellor e dei <br />
futuri counsellor. <br />
4
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
EDITORIALE <br />
Counselling e Humanities <br />
Mauro Doglio <br />
Homo sum, nihil humanum a me alienum puto <br />
Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo. <br />
Terenzio <br />
Questa fu l’educazione umanistica: non, come a volte si crede, <br />
studio grammaticale e retorico fine a se stesso, bensì formazione <br />
di una coscienza davvero umana, aperta in ogni direzione, <br />
attraverso <strong>la</strong> consapevolezza storico-‐critica del<strong>la</strong> tradizione culturale. <br />
Eugenio Garin L’educazione umanistica in Italia <br />
Il seminario sulle Counselling Humanities che abbiamo proposto ai nostri corsisti nel maggio di <br />
quest’anno -‐ al<strong>la</strong> riuscita del quale hanno col<strong>la</strong>borato con tanta passione -‐ cercava di rispondere a <br />
una domanda: quali sono le discipline sulle quali si basa, o potrebbe basarsi, <strong>la</strong> formazione e <strong>la</strong> <br />
pratica del counselling (e in partico<strong>la</strong>re del counselling sistemico)? <br />
<strong>La</strong> questione è rilevante per diversi motivi, uno dei quali è <strong>la</strong> necessità di definire il counselling a <br />
partire da una propria autonoma base culturale, che non sia immediatamente derivata dal <br />
retaggio psicologico. <br />
Abbiamo perciò provato a gettare uno sguardo sul grande e variegato mondo dei saperi e delle <br />
pratiche in <strong>la</strong>rgo senso umanistiche per vedere cosa vi avremmo trovato e raccolto. E il raccolto è <br />
stato ricco e nutriente: ci sono tanti stimoli, tante connessioni, tante suggestioni che collegano il <br />
counselling con molteplici aspetti del<strong>la</strong> vita e del<strong>la</strong> cultura. <br />
Una cosa che mi ha colpito riflettendo su questo materiale è <strong>la</strong> difficoltà di individuare <br />
precisamente i confini delle discipline del<strong>la</strong> conoscenza. Mi viene in mente <strong>la</strong> difficoltà a <br />
catalogare un autore come Bateson con i criteri del<strong>la</strong> suddivisione canonica delle facoltà: in quale <br />
scaffale mettiamo i suoi libri? Antropologia, psichiatria, filosofia, biologia…? <br />
Possiamo par<strong>la</strong>re di discipline solo come provvisori confini grazie ai quali riusciamo a identificare <br />
con maggior chiarezza alcune connessioni e alcuni rapporti tra i fenomeni, ricordando sempre che <br />
<strong>la</strong> disciplina (e quindi il punto di vista) che utilizziamo, mentre ci permette di vedere meglio <br />
qualcosa, può impedirci di vederne altre. <strong>La</strong> stessa storia culturale dell’occidente è <strong>la</strong> <br />
dimostrazione ininterrotta di come gli stessi fenomeni siano stati osservati, c<strong>la</strong>ssificati e trattati a <br />
seconda del<strong>la</strong> logica generale di comprensione vigente in un luogo o in un’epoca: le belle arti e il <br />
concetto di artista come noi li intendiamo non sono esistite fino al<strong>la</strong> fine del medioevo, e il <br />
medioevo stesso non è esistito fino a quando qualcuno non lo ha battezzato così. <br />
5
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Questa riflessione mi porta a pensare come sia fuorviante incaponirsi, come molti stanno facendo, <br />
sul<strong>la</strong> necessità che nel percorso del counselling siano presenti a tutti i costi insegnamenti di <br />
psicologia oppure che debbano esserne banditi. Forse bisognerebbe partire da un altro punto: <br />
cosa fa il counsellor e cosa gli serve per fare bene il suo <strong>la</strong>voro? Dove si possono reperire le <br />
conoscenze e gli strumenti culturali a lui indispensabili? <br />
Le riflessioni che seguono vorrebbero -‐ a partire dal<strong>la</strong> ricchezza dei <strong>la</strong>vori dei nostri corsisti -‐ <br />
contribuire a rispondere a queste domande. <br />
Provando a trovare un filo conduttore per l’analisi dei testi che i corsisti di Change hanno prodotto <br />
per il seminario – stralci dei quali sono pubblicati in questa rivista -‐ ho segna<strong>la</strong>to alcuni punti che <br />
mi sembrano rilevanti e ho cercato di individuare dove essi siano già presenti (almeno in parte) nel <br />
percorso formativo di Change. Per segna<strong>la</strong>re il carattere di <strong>la</strong>voro in progress di questo <br />
esperimento, ho inoltre cercato di segna<strong>la</strong>re connessioni con gli articoli di questa rivista <br />
Filosofia <br />
In primo luogo metto in luce una concezione ‘<strong>la</strong>rga’ del<strong>la</strong> filosofia, intesa come disciplina che <br />
interroga il reale e lo pone in questione. Una specie di strumento critico ad ampio spettro di <br />
azione, capace di portare l’attenzione su tutti i fenomeni del mondo interrogandoli (e anche <br />
sull’interrogazione stessa). I campi tradizionali del<strong>la</strong> filosofia rappresentano un repertorio <br />
sconfinato di stimoli e strumenti per pensare <strong>la</strong> realtà. Nei loro contributi al seminario, i corsisti <br />
hanno citato <strong>la</strong> logica, a questa possiamo aggiungere l’etica e tutta <strong>la</strong> riflessione sul linguaggio. <br />
L’aspetto che forse tocchiamo maggiormente nel percorso formativo di CHANGE è legato al<strong>la</strong> <br />
capacità del<strong>la</strong> filosofia di aiutarci a interrogare <strong>la</strong> realtà. Quando, nelle prime lezioni di “Basi del <br />
pensiero sistemico”, ci domandiamo: Cos’è <strong>la</strong> comunicazione? (strumento per capirci, modo di <br />
costruire <strong>la</strong> realtà); Come si può descrivere un fenomeno? (l’osservatore che osserva un sistema); <br />
Quali sono le re<strong>la</strong>zioni tra il modo in cui pensiamo e il mondo in cui viviamo? (predizione che si <br />
autodetermina); o quando nel seminario di etica ci chiediamo: In base a quali principi posso <br />
rego<strong>la</strong>re i miei comportamenti? Stiamo muovendoci in uno spazio di ricerca che condividiamo con <br />
pensatori che ci hanno preceduto da almeno tre millenni e su questioni, come quel<strong>la</strong> del <br />
re<strong>la</strong>tivismo, che non smettono di sollecitare dibattiti e riflessioni. <br />
(! per approfondire Filosofia e Counselling, articolo di Mauro Doglio) <br />
Antropologia <br />
Un altro aspetto fondamentale è una visione ampia dell’antropologia, vista come una disciplina <br />
che si interroga sull’altro ma che rivolge il suo sguardo anche sul soggetto stesso che osserva. <br />
L’incontro con l’altro costituisce l’essenza del counselling: Ma come avviene? Cosa produce in noi? <br />
Cosa produce nell’altro? In che modo possiamo pensarlo? In che modo il modo in cui pensiamo <br />
questo incontro ne determina l’esito? <br />
Nei testi dei nostri corsisti appare con grande evidenza come le idee dell’antropologia, <br />
dell’esplorazione, e del viaggio siano strettamente collegate: muoversi nel mondo, esplorarlo <br />
(anche solo il proprio quartiere) produce conoscenza e cultura e ci mette profondamente in <br />
discussione. <br />
Per <strong>cura</strong>re questo aspetto sono inseriti nel percorso di counselling di CHANGE momenti di <br />
confronto con culture diverse (“seminario Intercultura”) e domande re<strong>la</strong>tive al modo in cui <br />
affrontiamo l’incontro con l’alterità (aspetti che vengono trattati nel percorso di “Conoscenza di <br />
sé”). <br />
6
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Discipline retorico-‐letterarie <br />
Un altro grande ambito che è apparso chiaramente è quello delle discipline retorico-‐letterarie. In <br />
questa cornice raccolgo tutte le riflessioni sul linguaggio inteso come spazio del<strong>la</strong> narrazione e del <br />
discorso. I corsisti nei loro interventi hanno sottolineato come leggere storie sviluppi <strong>la</strong> curiosità e <br />
affini <strong>la</strong> capacità di cogliere <br />
differenze. È verissimo, ed <br />
esercitare il counselling <br />
richiede lo sviluppo di queste <br />
capacità. Accanto a questo, <br />
hanno anche segna<strong>la</strong>to <br />
l’importanza di possedere <br />
competenze elevate sul piano <br />
del<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e del<strong>la</strong> narrazione. <br />
Fare esperienza di storie, dei <br />
diversi modi in cui possono <br />
essere raccontate, delle <br />
emozioni che queste storie ci <br />
fanno provare; avere <strong>la</strong> <br />
possibilità di rifletterci sopra, <br />
di capirne bene le strutture <br />
narrative, permette al <br />
counsellor di famigliarizzarsi <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
con il materiale di cui sono <br />
fatte tutte le storie, anche quel<strong>la</strong> che il cliente racconta. Cosa significa ascoltare una storia? <br />
Quanto l’ascoltatore contribuisce al<strong>la</strong> storia che sta ascoltando? Quanto le storie (anche le <br />
autobiografie) sono prodotti finzionali? Queste e altre domande aiutano il counsellor a muoversi <br />
tra le storie senza farsi intrappo<strong>la</strong>re da esse, evitando quindi di pensare che una narrazione possa <br />
rispecchiare <strong>la</strong> realtà ‘vera’ delle cose, rappresenti <strong>la</strong> verità oggettiva. <br />
Le competenze retoriche poi permettono al counsellor di comprendere l’enorme potere del <br />
linguaggio, di accettare il fatto che noi parliamo un linguaggio ma veniamo anche par<strong>la</strong>ti da esso e, <br />
per ricordare il significativo proverbio che è stato citato nei vostri contributi, cambi lingua, cambi <br />
te stesso. <br />
Conoscere e utilizzare bene il linguaggio, dalle basi<strong>la</strong>ri competenze che permettono di <br />
comunicare con chiarezza, a quelle più raffinate che consentono di modu<strong>la</strong>re l’espressione per <br />
esprimere sfumature di senso, è una risorsa fondamentale per un <strong>la</strong>voro, come il counselling, che <br />
su di esso si basa. <br />
I nostri corsisti hanno sottolineato giustamente che le parole hanno un ‘peso’ che deve essere <br />
‘bi<strong>la</strong>nciato’: lo studio del<strong>la</strong> retorica, e le riflessioni, a lezione e nei <strong>la</strong>boratori, sulle sfumature <br />
linguistiche che fanno <strong>la</strong> differenza nel porre una domanda o nel proporre un riassunto, sono da <br />
collocare in questa cornice, e così anche tutte le riflessioni sulle narrazioni: dal<strong>la</strong> redazione delle <br />
schede libro al<strong>la</strong> richiesta di scrivere un’autobiografia. <br />
(! per approfondire Identità e complessità, articolo di Rosa Revellino; Retorica e Counselling, <br />
articolo di Mauro Doglio) <br />
7
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Teatro <br />
E’ stato giustamente sottolineato come il teatro, nel<strong>la</strong> forma del<strong>la</strong> ricerca dell’attore rispetto al <br />
personaggio, offra innumerevoli spunti per riflettere e pensare il counselling. Oltre a questo il <br />
teatro è uno spazio essenziale di crescita e formazione in quanto davvero ognuno di noi <br />
“rappresenta diverse parti” e una di queste, nel nostro caso, è quel<strong>la</strong> del counsellor. C’è un <br />
aspetto attoriale in tutte le professioni che hanno a che fare con <strong>la</strong> comunicazione che va <strong>cura</strong>to <br />
e sviluppato. <br />
Nel nostro percorso l’aspetto attoriale del<strong>la</strong> comunicazione (l’“actio” del<strong>la</strong> retorica antica) non è <br />
così ampliamente tematizzato, a parte il <strong>la</strong>voro sul non verbale, (una suggestione questa da <br />
mettere quindi in agenda) <br />
Arte <br />
Molta attenzione è stata dedicata alle riflessioni sull’arte in generale, sul cinema, sul<strong>la</strong> fotografia. <br />
Esse possono fornire modi nuovi e sorprendenti di osservare il mondo e di comunicare. Nel <br />
percorso li utilizziamo soprattutto come spunti per riflettere sui fenomeni comunicativi e <br />
re<strong>la</strong>zionali. Meno usate invece musica e danza, <strong>la</strong> cui profondità e intensità i nostri corsisti ci <br />
hanno richiamato con i loro contributi. <br />
Ci sono state anche diverse riflessioni sul rapporto tra sport e counselling che, credo, siano molto <br />
utili per ricordarci di mantenere attiva <strong>la</strong> nostra attenzione verso ‘tutto ciò che è umano’ e sul <br />
fatto che le esperienze, come quel<strong>la</strong> sportiva, che mettono le persone di fronte a se stesse <br />
(capacità di impegno, senso del limite) e al rapporto con gli altri (correttezza, gioco di squadra) <br />
sono importanti tasselli che contribuiscono a formare una persona dotata di un’ampia e ricca <br />
visione delle re<strong>la</strong>zioni, requisito certamente essenziale per un counsellor. <br />
Il sacro <br />
Un’ultima riflessione va a toccare <strong>la</strong> sfera del sacro ed è rappresentata dal contributo su <br />
Margherita Porete, <strong>la</strong> grande mistica del tredicesimo secolo. Un tema del genere non deve stupire <br />
chi si stia preparando a fare il counsellor, perlomeno il counsellor sistemico; <strong>la</strong> mistica e il concetto <br />
di sacro sono infatti argomenti che Bateson riprende in più punti del suo <strong>la</strong>voro. <br />
Penso che <strong>la</strong> loro utilità per <strong>la</strong> formazione e l’esercizio del counselling stia soprattutto nel <br />
segna<strong>la</strong>re il limite del potere di chi sta agendo nei confronti di qualcun altro. Qualsiasi sapere -‐ <br />
filosofico, medico, psicologico, religioso, ecc. -‐ rischia di trasformarsi in strumento di dominio. <br />
Credo che un’attenta riflessione sui limiti del nostro sapere, forse rappresentabile con i termini <br />
mistici del<strong>la</strong> ricerca di un vuoto interiore che possa essere riempito dal<strong>la</strong> vita dell’altro e quindi <br />
del<strong>la</strong> capacità di offrire contesti re<strong>la</strong>zionali accoglienti ma rispettosi, può aiutarci nel<strong>la</strong> <br />
strutturazione del counselling come intervento autonomo e sufficientemente distinguibile da tutti <br />
gli altri. <br />
8
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Filosofia e counselling <br />
Mauro Doglio <br />
In questo articolo proporrò una riflessione sul rapporto tra filosofia e counselling, non però <br />
nell’ambito del<strong>la</strong> consulenza filosofica, e cioè indagando su come con <strong>la</strong> filosofia si possa <br />
strutturare un intervento di consulenza, ma esplorando in che modo essa possa servire ai <br />
counsellor per fare meglio il proprio <strong>la</strong>voro e possa essere utile nel<strong>la</strong> formazione dei counsellor. <br />
Che cos’è <strong>la</strong> filosofia? <br />
<strong>La</strong> prima questione che si pone riflettendo sul<strong>la</strong> filosofia è <strong>la</strong> difficoltà a definire di cosa si tratti: <br />
definire <strong>la</strong> filosofia, ha detto qualcuno, è già di per sé un problema filosofico. Heidegger nel<strong>la</strong> sua <br />
conferenza intito<strong>la</strong>ta Che cos’è <strong>la</strong> filosofia? Sostiene che <strong>la</strong> domanda filosofica fondamentale parte <br />
dal modo in cui poniamo <strong>la</strong> questione del che cosa? <br />
Possiamo chiederci: che cos’è quel<strong>la</strong> cosa <strong>la</strong>ggiù nel<strong>la</strong> lontananza? Riceviamo una risposta: un <br />
albero. <strong>La</strong> risposta consiste nell’assegnare il suo nome ad una cosa che non conosciamo <br />
esattamente. Possiamo porre <strong>la</strong> domanda in modo ancora più ampio: che cos’è ciò che chiamiamo <br />
“albero”? […] si tratta di quel<strong>la</strong> forma di domanda che Socrate, P<strong>la</strong>tone e Aristotele hanno <br />
sviluppato. Essi domandano per esempio: che cos’è ciò – il bello? Che cos’è ciò – <strong>la</strong> conoscenza? <br />
Che cos’è ciò – <strong>la</strong> natura? Che cos’è ciò-‐ il movimento? (1) <br />
In questi modi diversi di domandare si mostra anche <strong>la</strong> differenza che <strong>la</strong> filosofia ha spesso cercato <br />
di mettere in evidenza tra il modo quotidiano di vedere le cose e quello specificatamente <br />
filosofico. Mentre per il modo quotidiano sono sufficienti le definizioni tradizionali o già date, <br />
quello filosofico non si accontenta di esse e cerca di andare oltre, ponendo in questione le cose e <br />
le persone per individuare l’essenza di ciò di cui su cui ci si sta interrogando, come faceva Socrate <br />
sul<strong>la</strong> piazza di Atene chiedendo agli uomini politici: cos’è <strong>la</strong> politica? E ai sapienti: cos’è il sapere? <br />
Questo atteggiamento votato al<strong>la</strong> ricerca rappresenta il modo di vita filosofico per eccellenza e <br />
spiega l’affermazione socratica contenuta nell’Apologia secondo cui: Una vita che non dia luogo <br />
ad esame non merita d’essere vissuta (2). Si può vivere <strong>la</strong> vita senza farsi domande sul senso delle <br />
cose, sul senso di ciò che facciamo e di ciò che siamo, oppure si può vivere filosoficamente, <br />
ponendo domanda: che cos’è? a fondamento del<strong>la</strong> nostra esistenza. <br />
Accanto all’indagine sull’essenza delle cose, siano esse lo spazio, il movimento oppure <strong>la</strong> natura <br />
stessa nel suo insieme, sviluppata dai filosofi precedenti, Socrate accentua quindi <strong>la</strong> riflessione <br />
sul<strong>la</strong> vita e le attività umane, aprendo <strong>la</strong> strada ai filosofi seguenti che si porranno come fine <br />
principale di definire <strong>la</strong> vita filosofica e di educare ad essa i loro discepoli. <br />
È merito di Perre Hadot aver ripreso negli ultimi decenni questo aspetto troppo tras<strong>cura</strong>to nello <br />
studio tradizionale del<strong>la</strong> filosofia. <strong>La</strong> filosofia nell’antichità non era infatti un esercizio puramente <br />
9
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
astratto di riflessione, ma un tentativo di trasformare <strong>la</strong> propria vita conformando<strong>la</strong> ai dettami <br />
del<strong>la</strong> ragione universale: in tutte le scuole filosofiche erano praticati esercizi destinati a far <br />
procedere il discepolo verso <strong>la</strong> saggezza. <br />
Esercizi destinati ad assi<strong>cura</strong>re il progresso spirituale verso lo stato ideale del<strong>la</strong> saggezza, esercizi <br />
del<strong>la</strong> ragione che saranno, per l’anima, analoghi all’allenamento dell’atleta o alle cure di una <br />
terapia medica: in termini generali consistono soprattutto nel controllo di sé e nel<strong>la</strong> meditazione. <br />
(3) <br />
Il controllo di sé è principalmente attenzione verso se stessi e si declina diversamente nelle diverse <br />
scuole: attenta vigi<strong>la</strong>nza sui propri pensieri e comportamenti nello stoicismo, rinuncia ai desideri <br />
superflui nell’epicureismo. Ma il principale <br />
esercizio del<strong>la</strong> ragione è <strong>la</strong> meditazione, <br />
diversa in parte da quel<strong>la</strong> buddista in <br />
quanto non basata su un atteggiamento <br />
corporeo, ma centrata maggiormente su <br />
aspetti razionali o immaginativi. Per fare un <br />
esempio, <strong>la</strong> concezione del<strong>la</strong> natura degli <br />
epicurei, basata sul combinarsi degli atomi <br />
nel vuoto infinito, potrà ispirare un esercizio <br />
meditativo di immaginazione in cui le cose <br />
umane appariranno insignificanti se <br />
osservate nell’infinità dello spazio e del <br />
tempo. <br />
<strong>La</strong> concezione del<strong>la</strong> filosofia come <br />
educazione a una vita virtuosa, come <br />
faticoso processo che impegna in prima <br />
persona il discepolo desideroso di <br />
raggiungere un livello più elevato di <br />
saggezza, è certamente molto difficile da <br />
comprendere per chi abbia incontrato <strong>la</strong> <br />
filosofia soltanto sui banchi di scuo<strong>la</strong>, dove <br />
nel<strong>la</strong> maggior parte dei casi appare come un <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
confuso – e molte volte noioso-‐ insieme di <br />
idee stravaganti, ma permette di capire su cosa si fondi e trovi i suoi strumenti oggi <strong>la</strong> consulenza <br />
filosofica. <strong>La</strong> decisiva consapevolezza di Gerd Aschenbach e degli altri che dopo di lui hanno <br />
sviluppato questo tipo di pratica, è che i metodi e i contenuti del<strong>la</strong> filosofia possono ancora oggi <br />
aiutare le persone a riflettere su se stesse, sui loro comportamenti e sul senso generale del<strong>la</strong> loro <br />
vita (4). <br />
10
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Una cartografia dell’essere <br />
A partire dalle indagini dei presocratici e di Socrate e dalle riflessioni di P<strong>la</strong>tone e Aristotele <strong>la</strong> <br />
filosofia si è diffusa prima a Roma e poi in tutto il mondo. Nel corso dei secoli quelle idee iniziali si <br />
sono sviluppate e complessificate e <strong>la</strong> filosofia ci appare oggi come una immensa cartografia <br />
dell’essere. A partire dalle sue origini questa disciplina ha infatti indagato argomenti come: <strong>la</strong> <br />
natura e le sue leggi, <strong>la</strong> società umana e i suoi ordinamenti, l’anima e le passioni, il funzionamento <br />
del<strong>la</strong> ragione e il linguaggio, il senso del<strong>la</strong> vita e del<strong>la</strong> morte. Si è creato così una specie di <br />
immenso repertorio a cui continuamente attingiamo ogni volta che vogliamo riflettere su uno di <br />
questi temi. Qualsiasi discorso che voglia avere una validità generale e un riconoscimento <br />
culturale sull’amicizia, sull’etica, sul<strong>la</strong> politica, sull’amore, non può prescidere da ciò che <strong>la</strong> filosofia <br />
dall’antichità ad oggi ha detto su questo argomento. <br />
Ma questa cartografia, forse <strong>la</strong> più imponente che gli esseri umani abbiano sviluppato, è diventata <br />
tanto potente da diventare qualche volta essa stessa il territorio che doveva descrivere. Nelle <br />
riflessioni dei primi filosofi sono state date risposte a questioni di importanza fondamentale, come <br />
quel<strong>la</strong> del rapporto mente corpo o del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione uomo donna che hanno determinato <strong>la</strong> vita e il <br />
pensiero di generazioni per millenni. Pensare il corpo e l’anima come entità separate (come nel<strong>la</strong> <br />
filosofia di P<strong>la</strong>tone) o <strong>la</strong> donna come una ‘brutta copia’ dell’uomo (in quel<strong>la</strong> di Aristotele) è <br />
diventato nei secoli un dogma, una sorta di verità indiscutibile per liberarsi dal<strong>la</strong> quale ci sono <br />
voluti (e ancora ci vogliono) grandi sforzi. <br />
Al confine del<strong>la</strong> filosofia <br />
Quest’ultima osservazione ci permette di guardare <strong>la</strong> filosofia anche da un altro punto di vista: <br />
essa ha rappresentato un elemento di straordinaria importanza per lo sviluppo del<strong>la</strong> cultura <br />
occidentale e del mondo intero, ma forse oggi i suoi confini si fluidificano di fronte ai cambiamenti <br />
che stanno avvenendo nel mondo. Basta un’occhiata allo strordinario libro di Elmar Holenstein <br />
At<strong>la</strong>nte di filosofia, per rendersi conto di come <strong>la</strong> tradizione culturale europea non sia che una <br />
concretizzazione limitata nel tempo di un plurimillenario flusso di migrazioni, incontri, scambi, <br />
contaminazioni. Per questo Holenstein risponde all’annoso problema di definire <strong>la</strong> filosofia <br />
affermando: <br />
Ha una filosofia chi nelle proprie azioni si orienta in base a principi fondamentali. E filosofo/a chi <br />
riflette su di essi (5) <br />
Con questa definizione <strong>la</strong> filosofia si apre ad accogliere l’attività pensante svolta nel tempo e nello <br />
spazio dei millenni a noi precedenti e (ci auguriamo) seguenti, corrispondendo al<strong>la</strong> necessità di <br />
quel pensiero globale e aperto verso l’altro che appare imprescindibile nel nostro tempo. <br />
Filosofia e counselling <br />
Proviamo ora a mettere in re<strong>la</strong>zione <strong>la</strong> filosofia, così come siamo venuti descrivendo<strong>la</strong>, col <br />
counselling. Il primo punto di contatto è <strong>la</strong> necessità, presente ovunque si svolga un’attività che <br />
11
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
richieda riflessione di formu<strong>la</strong>re domande di tipo filosofico; domande cioè che cercano di definire <br />
con precisione un concetto, come quando ci domandiamo cos’è il counselling? e domande che <br />
interrogano <strong>la</strong> realtà più profondamente di quanto non venga fatto nel<strong>la</strong> normale vita <br />
quotidiana, come quando mettiamo in questione concetti come l’adolescenza, l’ascolto, <br />
l’apprendimento, l’empatia e poniamo <strong>la</strong> domanda che cos’è? in re<strong>la</strong>zione a ciascuno di essi. <br />
Domande che, come impariamo dal<strong>la</strong> storia del<strong>la</strong> filosofia, non trovano mai una risposta definitiva <br />
ma sono importanti in quanto mantengono aperta <strong>la</strong> nostra curiosità e <strong>la</strong> nostra capacità di <br />
indagine, permettendoci di andare oltre le concezioni acquisite e le risposte scontate. <br />
Un secondo aspetto che <br />
connette counselling e filosofia <br />
riguarda <strong>la</strong> sollecitazione propria <br />
del<strong>la</strong> filosofia a mettere in <br />
questione <strong>la</strong> propria vita. Il <br />
counselling è un’attività <br />
delicata, inserita in punti <br />
nevralgici del<strong>la</strong> società e basata <br />
su una deontologia rigorosa; è <br />
importante quindi che, al di là <br />
dei momenti di supervisione a <br />
cui ogni counsellor è tenuto, ci <br />
sia una riflessione anche sul <br />
proprio modo di concepire <br />
l’esistenza e le re<strong>la</strong>zioni: anche <br />
<strong>la</strong> vita del counsellor merita di <br />
dare luogo ad esame. E nel<strong>la</strong> <br />
formazione del counsellor sono <br />
molto importanti i momenti, <br />
come il <strong>la</strong>voro autobiografico e <br />
di conoscenza di sé, in cui si può <br />
riflettere sul<strong>la</strong> propria <br />
esperienza e sul senso che <br />
diamo al<strong>la</strong> nostra vita e al<strong>la</strong> <br />
nostra attività. <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
Il terzo punto è collegato al <br />
repertorio di riflessioni e <br />
concetti che sono stati sviluppati nel corso del<strong>la</strong> storia filosofica dell’occidente. Quasi tutti i <br />
concetti rilevanti presenti nel<strong>la</strong> nostra cultura sono stati variamente esplorati e analizzati dal<strong>la</strong> <br />
filosofia: volendo par<strong>la</strong>re dell’amore non si può prescindere dal Simposio di P<strong>la</strong>tone, in cui è <br />
contenuta tra l’altro <strong>la</strong> famosa storia degli esseri divisi a metà e desiderosi di ricongiungersi. Il <br />
linguaggio e i suoi rapporti con <strong>la</strong> logica sono stati trattati da Aristotele, così come le passioni e le <br />
virtù. Una conoscenza, almeno nelle linee generali, del<strong>la</strong> carta geografica del<strong>la</strong> cultura dentro <strong>la</strong> <br />
12
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
quale viviamo può essere utile quindi anche al counsellor, sia per comprendere meglio quel<strong>la</strong> <br />
stessa cultura, sia per poter<strong>la</strong> mettere consapevolmente in discussione quando se ne presenti <strong>la</strong> <br />
necessità. <br />
Il quarto aspetto riguarda il posto che il counselling occupa nello spazio culturale contemporaneo. <br />
Se <strong>la</strong> filosofia giunge oggi ad al<strong>la</strong>rgare i suoi orizzonti fino ad accogliere culture lontane nel tempo <br />
e nello spazio e, con l’importante contributo del pensiero femminista, mette in questione <strong>la</strong> sua <br />
stessa tradizione interrogandosi sull’autonomia del soggetto e sul<strong>la</strong> struttra re<strong>la</strong>zionale <br />
dell’essere; il counselling può rappresentare una pratica comunicativa partico<strong>la</strong>rmente adatta a <br />
favorire questo processo di apertura e a sviluppare sul piano del<strong>la</strong> comunicazione sociale <br />
l’attenzione alle re<strong>la</strong>zioni. Per definizione infatti esso si fonda sul<strong>la</strong> capacità di accogliere il <br />
punto di vista dell’altro, di sviluppare processi di integrazione tra narrazioni diverse, di <br />
aumentare le possibilità di comunicazione e comprensione all’interno dei sistemi umani e tra di <br />
essi. <br />
NOTE <br />
1 heidegger, Martin, Che cos’è <strong>la</strong> filosofia, Genova, Il Me<strong>la</strong>ngolo, 1981; p. 16 <br />
2 P<strong>la</strong>tone, Apologia, XXVIII <br />
3 Hadot, Pierre, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 2005; p. 15 <br />
4 Aschenbach, Gerd, B., <strong>La</strong> consulenza filosofica. <strong>La</strong> filosofia come opportunità per <strong>la</strong> vita, Mi<strong>la</strong>no, <br />
Apogeo, 2004. <br />
5 Holenstein, Elmar, At<strong>la</strong>nte di filosofia. Luoghi e percorsi del pensiero, Torino, Einaudi, 2009; p. <br />
15. <br />
13
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
<strong>La</strong> dignità ferita <br />
Giorgio Bert intervista Eugenio Borgna <br />
G.B. -‐ Compito del counsellor è quello di aiutare <strong>la</strong> persona che a lui si rivolge in momenti di <br />
partico<strong>la</strong>re difficoltà a esplorare e a utilizzare al meglio le risorse che possiede ma che non è da <br />
solo capace di recuperare. Per fare questo, il counsellor dispone di pochi ma importanti <br />
strumenti: se stesso, le parole, <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione. Quest’ultima va costruita insieme all’altro: ponte <br />
gettato su di un fossato che non potrà mai essere riempito ma consente di abitare spazi condivisi. <br />
Il tuo bellissimo saggio, “<strong>La</strong> dignità ferita” (ed. Feltrinelli), tratta ampiamente del dialogo e del<strong>la</strong> <br />
re<strong>la</strong>zione tra il professionista del<strong>la</strong> <strong>cura</strong> e <strong>la</strong> persona che di <strong>cura</strong> ha bisogno. Anziché farti <br />
domande specifiche, che risulterebbero probabilmente banali e incomplete, preferisco chiederti di <br />
commentare alcune osservazioni tratte dal tuo libro, che mi paiono illuminanti per ogni <br />
professionista dell’aiuto. <br />
Le parole, dunque: cominciamo da esse: <br />
“Le parole, secondo <strong>la</strong> bel<strong>la</strong> espressione di Hoffmannsthal, non sono di questo mondo, sono un <br />
mondo a se stante (…) un mondo del tutto indipendente che ci avvicina al mistero dell’esistenza, <br />
del<strong>la</strong> gioia, del dolore, del<strong>la</strong> tristezza, del<strong>la</strong> speranza, dell’inquietudine dell’anima, dell’ombra e <br />
del<strong>la</strong> grazia; ma come rintracciarle, e come ritrovarle?” <br />
E.B. -‐ Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a se stante, lo diceva Hugo von <br />
Hofmannsthal, ma esse, egli aggiungeva, sono creature viventi, e di questo non sempre siamo <br />
consapevoli nelle nostre giornate divorate dal<strong>la</strong> fretta e dal<strong>la</strong> distrazione, dal<strong>la</strong> non<strong>cura</strong>nza e dal<strong>la</strong> <br />
indifferenza, che ci portano a considerare le parole solo come strumenti, come aridi e <br />
interscambiabili modi, di comunicare i nostri pensieri. Ma le parole, che ci salvano, non sono facili <br />
da rintracciare, e da trovare; e, come diceva Marina Cvetaeva, <strong>la</strong> grande scrittrice russa, dal<strong>la</strong> vita <br />
di<strong>la</strong>niata dal<strong>la</strong> solitudine e dal dolore (le lettere meravigliose che ha scambiato con Rainer Maria <br />
Rilke si leggono con stupore nel cuore), faticoso e febbrile è il <strong>la</strong>voro necessario nel trovare parole <br />
dotate di senso e di risonanze emozionali. Sì, su questo, sul<strong>la</strong> necessità di trovare parole fra noi <br />
leggere, così le chiamava Mario Luzi, parole che non facciano male, e non rendano più pesante <strong>la</strong> <br />
sofferenza, non si può non essere tutti concordi: al di là delle impostazioni teoriche, e del<strong>la</strong> <br />
formazione professionale. Ma, come trovare, e come rivivere, le parole che salvano, e che creano <br />
re<strong>la</strong>zione? <strong>La</strong> salvezza non può venire se non sul<strong>la</strong> scia di una premessa, che ci dovrebbe <br />
accompagnare in ogni momento del<strong>la</strong> giornata, e in ogni situazione del<strong>la</strong> vita, ed è quel<strong>la</strong> <br />
dell’ascolto. Ma come ascoltare? Ci sono infiniti modi di ascoltare, e non si è capaci di ascolto, in <br />
ospedale e negli studi medici in partico<strong>la</strong>re, se non quando si tengono presenti le attese e le <br />
speranze delle persone, e quando si cerca di mettersi in sintonia con <strong>la</strong> loro esperienza del tempo <br />
14
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
interiore, del tempo vissuto, che non ha nul<strong>la</strong> a che fare con <strong>la</strong> esperienza del tempo delle <strong>la</strong>ncette <br />
dell’orologio: del tempo misurabile. Non solo in psichiatria, ma in medicina e in ogni età del<strong>la</strong> vita, <br />
quante infinite occasioni di ascolto e di colloquio noi abbiamo, ma quante volte siamo capaci di <br />
immedesimarci nei pensieri e nelle emozioni delle persone, con cui entriamo in re<strong>la</strong>zione, <br />
cercando di intravederne le attese, e le speranze? Quante sofferenze, e quante ferite, eviteremmo <br />
se ogni volta seguissimo il cammino misterioso che porta all’intuizione e al<strong>la</strong> comprensione di <br />
quello che avviene in noi, nel<strong>la</strong> nostra <br />
interiorità, e negli altri: nelle loro <br />
attese, giuste o sbagliate, silenziose o <br />
gridate. In ogni nostra giornata, in <br />
forme ovviamente diverse, siamo <br />
circondati da sciami di attese: quelle <br />
delle persone che curiamo, o <br />
assistiamo, che ci chiedono aiuto: <br />
l‘aiuto di una <strong>paro<strong>la</strong></strong>, di uno sguardo, <br />
di un gesto, o di una semplice stretta <br />
di mano. Sì, il momento centrale del <br />
dialogo è contrassegnato dall’ascolto, <br />
e dal rispetto delle attese: delle <br />
attese inespresse ancora più <br />
importanti di quelle espresse, delle <br />
attese del cuore ancora più <br />
importanti di quelle del<strong>la</strong> ragione, <br />
delle attese che non il linguaggio delle <br />
parole, ma quello del corpo vivente, ci <br />
sa indicare. <br />
G.B. -‐ Sul colloquio e sul dialogo; e <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
sottolineo che il tema del rispetto <br />
delle attese circo<strong>la</strong> in tutto il tuo saggio come momento centrale del dialogo: <br />
“Non c’è colloquio, non c’è dialogo, se non ci sono <strong>la</strong> ricerca e il rispetto delle attese in chi par<strong>la</strong> e in <br />
chi ascolta (…) In ogni caso dovremmo sentirci responsabili delle ferite che quotidianamente <br />
causiamo al<strong>la</strong> dignità delle persone non tenendo presenti le loro attese che non riusciamo a <br />
valutare nei loro significati psicologici e umani.” <br />
Se il colloquio si mantiene legato agli aspetti strettamente tecnici, riduttivi e perde <strong>la</strong> visione <br />
sistemica, è difficile che da esso possa nascere una re<strong>la</strong>zione buona abbastanza: più che un <br />
dialogo avrà luogo uno scambio di monologhi (spesso con un monologo che predomina sull’altro): <br />
15
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
E.B. -‐ <strong>La</strong> percezione, o <strong>la</strong> ricerca, delle attese, che vivono e muoiono nelle persone, cambia <br />
radicalmente il modo di pensare e di costruire re<strong>la</strong>zioni. Se in famiglia, e nelle scuole, che sono gli <br />
emblematici luoghi del colloquio e del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione, si tenessero presenti le attese dei figli, e degli <br />
studenti, se si armonizzassero le reciproche esigenze, e i reciproci desideri, le re<strong>la</strong>zioni <br />
cambierebbero profondamente. Non ci sarebbero più soliloqui, colloqui nutriti di parole <br />
consumate e logorate, ma ci sarebbero colloqui che divengono re<strong>la</strong>zione, e scambio di esperienze <br />
Riflessioni dal seminario Counselling Humanities <br />
Counselling e letteratura <br />
Virginia <strong>La</strong>rraburu <br />
Per certe persone <strong>la</strong> vita è un esperimento, una promessa <br />
di avventure, di esperienze belle o non tanto. A volte però <br />
lo s<strong>la</strong>ncio vitale non è misurato al<strong>la</strong> nostra resilienza. Non <br />
abbiamo <strong>la</strong> pelle abbastanza dura per tutte le vite che <br />
vorremo vivere, per tutti gli sbagli che siamo tentati di fare. <br />
Non abbiamo neppure quel talento che ci vorrebbe per <br />
esprimere in lungo e in <strong>la</strong>rgo tutte le idee che ci folgorano <br />
per un attimo per poi scappare per sempre. Certe persone <br />
al risveglio a ma<strong>la</strong>pena presagiscono l'universo e le sue <br />
dimensioni, lo congetturano, lo attendono; <strong>la</strong>vano, <br />
pettinano e tirano a lucido <strong>la</strong> loro capacità di meraviglia. <br />
Solo che a volte ci tocca <strong>la</strong>vorare al catasto, ci viene <strong>la</strong> <br />
stitichezza o riceviamo una telefonata. Noi siamo i lettori. <br />
Noi abbiamo tanta o poca fantasia. A volte, seduti sul <br />
treno, a seconda del<strong>la</strong> distanza del<strong>la</strong> nostra destinazione, <br />
riusciamo ad immaginare <strong>la</strong> vita (anche i piccoli partico<strong>la</strong>ri) <br />
di due o tre dei nostri compagni di sventura (trenitalia <br />
entra sempre a gamba tesa nelle nostre illusioni) Succede <br />
che a volte nei grandi sforzi di fantasia consumiamo i <br />
colori, persino i grigi sbiadiscono e necessitiamo di stimoli <br />
per ridare vividezza ai toni. Ci sono i libri, e (benedetto <br />
mondo) ci sono gli scrittori. <br />
Certo che <strong>la</strong> commozione, <strong>la</strong> pioggia, <strong>la</strong> felicità, le stelle di <br />
cui par<strong>la</strong>no gli scrittori ci vengono più vive e familiari dalle <br />
pagine dei loro testi se abbiamo imparato ad amarle nel<strong>la</strong> <br />
vita “vera” nei momenti in cui ci sono state offerte senza <br />
che neppure le chiedessimo. Il vento freddo dell’oceano sul <br />
viso, il profumo del<strong>la</strong> legna che arde a casa del<strong>la</strong> nonna, lo <br />
sguardo inatteso del<strong>la</strong> persona amata costituiscono <br />
strumenti indispensabili per cercare di capire perché <br />
qualcuno abbia desiderato trattenere per sempre, in modo <br />
indelebile e con <strong>la</strong> stessa intensità con cui le ha vissuto, in <br />
modo che qualcuno potesse riconoscere e far suoi, <br />
momenti analoghi. <br />
e di attese. E non c’è dialogo <br />
autentico se non quando si riesca a <br />
mettere fra parentesi l’aspetto <br />
tecnico del discorso; e, a questo <br />
riguardo, vorrei ricordare quello che <br />
ha scritto in pagine bellissime V. E. <br />
von Gebsattel, uno dei grandi <br />
psichiatri di formazione <br />
fenomenologica del secolo scorso, e <br />
cioè che, nel<strong>la</strong> prima fase di una <br />
psicoterapia, <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione fra medico <br />
e paziente dovrebbe svolgersi su di <br />
un piano semplicemente umano che <br />
fa incontrare un destino con un altro <br />
destino; e solo dopo questa fase ce <br />
ne sarà una seconda contrassegnata <br />
da un momento tecnico, che <br />
consenta di riflettere sugli andamenti <br />
emozionali del transfert e del <br />
controtransfert, e sul movimento <br />
febbrile delle emozioni in chi <strong>cura</strong>, e <br />
in chi è <strong>cura</strong>to. Ma nell’ultima fase <br />
deve essere recuperata <strong>la</strong> <br />
dimensione personale del<strong>la</strong> <br />
re<strong>la</strong>zione, e cioè <strong>la</strong> comprensione <br />
umana del<strong>la</strong> persona che sta male. <br />
Se il momento tecnico è necessario <br />
nello svolgimento di una psicoterapia <br />
medica, non lo è invece nelle infinite <br />
altre modalità di dialogo, che <strong>la</strong> vita <br />
richiede, e che rientrano nell’area <br />
così vasta delle quotidiane re<strong>la</strong>zioni <br />
umane nelle quali siamo tutti <br />
immersi al di là delle professioni, e delle esperienze di vita. Sono modalità di dialogo che rientrano <br />
negli sconfinati orizzonti del<strong>la</strong> <strong>cura</strong> che oltrepassa, e include, quelli del<strong>la</strong> terapia che restano <br />
16
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
ovviamente di competenza medica. Sia nel<strong>la</strong> <strong>cura</strong> sia nel<strong>la</strong> terapia le parole hanno risonanze <br />
emozionali tanto più pregnanti e significative quanto più sincere e creative esse siano; ma le <br />
parole contano anche nel<strong>la</strong> misura in cui le si associ alle espressioni del corpo vivente, degli <br />
sguardi e dei volti, di chi <strong>cura</strong>, e di chi è <strong>cura</strong>to. Non dimenticando mai che <strong>la</strong> sofferenza ci rende <br />
infinitamente più sensibili al linguaggio dei volti e degli sguardi, del dicibile e dell’indicibile, delle <br />
<strong>la</strong>crime e del sorriso. Quanto più umane, e gentili, accoglienti, e tolleranti, sarebbero in questo <br />
caso le re<strong>la</strong>zioni umane. Un’ultima cosa: queste qualità umane, questa capacità di creare re<strong>la</strong>zioni <br />
dotate di senso, le ho constatate risplendere in persone dotate di intuizione e di grazia: al di là <br />
del<strong>la</strong> loro professione. <br />
G.B. – “Il discorso metaclinico e filosofico (…) sigil<strong>la</strong>to da una radicale umanità e da un assoluto <br />
rispetto del<strong>la</strong> dignità del paziente e del senso del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia, sollecita <strong>la</strong> medicina e <strong>la</strong> psichiatria a <br />
riflettere sulle radici esistenziali del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia e sulea connessioni che le legano alle scienze umane <br />
e alle scienze sociali”. <br />
Ecco quindi che il professionista del<strong>la</strong> <strong>cura</strong> non può non acquisire e ampliare costantemente <br />
quelle competenze che nascono dalle scienze umane e su di esse si basano; sembra che definirle, <br />
come oggi si usa, “humanities”, le renda più attuali e in qualche modo “scientifiche”; resta il fatto <br />
che, in qualsiasi lingua le si voglia chiamare, in assenza di esse non c’è né può esserci né dialogo <br />
né re<strong>la</strong>zione. <br />
E.B. -‐ <strong>La</strong> ma<strong>la</strong>ttia, <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia del corpo, e <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia dell’anima, sono esperienze psicologiche e <br />
umane, e non solo fisiche, che cambiano il nostro modo di essere al mondo. Cambia l’esperienza <br />
del corpo, del corpo fisico e del corpo vivente, cambia <strong>la</strong> fisionomia del mondo in cui viviamo, e <br />
cambia l’esperienza del tempo, quel<strong>la</strong> del tempo soggettivo, del tempo interiore, del tempo <br />
vissuto; e cambia così il modo, che ciascuno di noi ha di mettersi in re<strong>la</strong>zione con gli altri. Ma gli <br />
aspetti medici del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia si accompagnano a quelli umani e sociali che crescono <br />
vertiginosamente quando <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia sia <strong>cura</strong>ta in ospedale. Antitetica al<strong>la</strong> concezione <br />
naturalistica del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia, in psichiatria ma non solo in psichiatria, è oggi quel<strong>la</strong> più complessa e <br />
artico<strong>la</strong>ta che non ignora le grandi influenze svolte sul<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia dalle parole. A questo riguardo <br />
vorrei ricordare le cose che, sulle parole che si rivolgono ai ma<strong>la</strong>ti di tumore. ha scritto in un suo <br />
bellissimo libro un grande oncologo francese: David Kahyat. <strong>La</strong> chirurgia, <strong>la</strong> radioterapia e <strong>la</strong> <br />
chemioterapia, sono modalità fondamentali di terapia nei tumori, egli dice, ma ad esse è <br />
necessario aggiungerne una altra: quel<strong>la</strong> delle parole. Le parole sono dotate di un immenso <br />
potere, e quante persone ma<strong>la</strong>te sono ferite dalle parole troppo dure, troppo violente, troppo <br />
inumane, che i medici rivolgono loro. Una diagnosi comunicata in un corridoio, o al telefono, uno <br />
sguardo sfuggente nel momento di rispondere aduna domanda: tutto questo causa angoscia e <br />
disperazione. Così, è necessario scegliere parole che possano essere subito comprese, e non <br />
feriscano: (con le parole ho iniziato, e con le parole vorrei concludere il mio discorso). Questo è il <br />
compito, non facile ma necessario, di chi <strong>cura</strong>: scegliere parole, che possano essere subito <br />
comprese, e non facciano male, contribuendo a creare re<strong>la</strong>zioni umane che consentano al <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
ma<strong>la</strong>to di sentirsi capito, e accettato nel<strong>la</strong> sua fragilità e nel<strong>la</strong> sua debolezza. Ma questo è anche <br />
il compito, un compito diversamente importante, di quanti, non medici, abbiano a che fare con un <br />
ma<strong>la</strong>to nel quale <strong>la</strong> non<strong>cura</strong>nza delle parole e dei gesti ridesta ferite sanguinanti. <br />
<strong>La</strong> ma<strong>la</strong>ttia ha radici biologiche, certo, ma anche addentel<strong>la</strong>ti psicologici, e sociali, che possono <br />
lenir<strong>la</strong>, o aggravar<strong>la</strong>. Non si entra in re<strong>la</strong>zione con l’interiorità, con <strong>la</strong> soggettività, di un ma<strong>la</strong>to <br />
se non ci si educa ad ascoltarlo, e a dargli un aiuto con parole e con gesti, che nascano dalle <br />
regioni del cuore, e nel<strong>la</strong> consapevolezza che <strong>la</strong> tecnica, da so<strong>la</strong>, non basta a sanare le ferite <br />
<strong>la</strong>ceranti del corpo e dell’anima. Sono cose, queste, che <strong>la</strong> psichiatria come scienza umana ci fa <br />
conoscere; consentendoci di avvicinarci ad una migliore comprensione di quello che avviene nel<strong>la</strong> <br />
ma<strong>la</strong>ttia, e di quelle che ne sono le conseguenze psicologiche e umane. <br />
G.B. – Ancora una citazione dal tuo saggio: “<strong>La</strong> filosofia e <strong>la</strong> grande letteratura aiutano <strong>la</strong> <br />
psichiatria e <strong>la</strong> medicina, i medici e gli psichiatri, a meditare sul loro compito, sui loro modi di <br />
essere e di comportarsi, sulle loro parole talora incapaci di creare re<strong>la</strong>zioni dotate di senso e sul <br />
loro consegnarsi a una di<strong>la</strong>gante ideologia del<strong>la</strong> tecnica: in<strong>cura</strong>nte dell’anima di chi <strong>cura</strong> e di chi è <br />
<strong>cura</strong>to. <strong>La</strong> filosofia e <strong>la</strong> letteratura ci soccorrono nel difendere il fragile cammino del<strong>la</strong> dignità <br />
umana, così esposta al pericolo nel<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia, e almeno talora nei modi in cui <strong>la</strong> si vuole <strong>cura</strong>re.” <br />
E.B. -‐ Non è possibile confrontarci fino in fondo con le aree tematiche, che scaturiscono dalle <br />
domande alle quali ho cercato ora di rispondere, senza tenere presenti le forme di esperienza e di <br />
conoscenza ancorate al<strong>la</strong> poesia e al<strong>la</strong> filosofia che ci aiutano a meglio comprendere gli orizzonti di <br />
senso delle nostre emozioni, e del<strong>la</strong> nostra vita interiore. <br />
<strong>La</strong> psichiatria, nel<strong>la</strong> sua storia, si è sempre accompagnata al<strong>la</strong> filosofia e al<strong>la</strong> poesia dalle quali è <br />
stata indotta a riflettere sui modi con cui ci si avvicina al<strong>la</strong> conoscenza dell’altro da noi, delle sue <br />
sofferenze e delle sue angosce, delle sue speranze e delle sue illusioni, dei suoi silenzi e delle <br />
inquietudini del suo cuore. Ma ci sono state, e ci sono, grandi figure di poeti e di filosofi che <br />
hanno sperimentata <strong>la</strong> straziata vicinanza del<strong>la</strong> malinconia e del<strong>la</strong> angoscia, del<strong>la</strong> disperazione, <br />
come è avvenuto in Friedrich Hoelderlin e in Soeren Kierkegaard, in Giacomo Leopardi e in Georg <br />
Trakl, consentendoci di cogliere <strong>la</strong> dimensione profonda delle emozioni ferite che agitano il cuore <br />
dell’uomo. <strong>La</strong> filosofia e <strong>la</strong> poesia al<strong>la</strong>rgano i confini del<strong>la</strong> conoscenza dell’infinito arcipe<strong>la</strong>go delle <br />
emozioni senza le quali <strong>la</strong> vita sarebbe divorata dal<strong>la</strong> razionalità e dal<strong>la</strong> tecnica; e, come ha scritto <br />
Leopardi, solo se <strong>la</strong> ragione si converte in passione diviene strumento di esperienza e di <br />
conoscenza. Sì, <strong>la</strong> filosofia e <strong>la</strong> poesia, con le loro parole e con le loro immagini, con il loro <br />
pensiero, ci soccorrono nel creare re<strong>la</strong>zioni emozionali dotate di senso, nel sottrarci al dominio <br />
del<strong>la</strong> tecnica, e nel difendere il fragile cammino del<strong>la</strong> dignità umana anche nelle condizioni <br />
estreme di solitudine e di sofferenza. <br />
Ci sono, in ogni caso, infinite più cose in cielo e in terra di quelle che conoscano le nostre <br />
psichiatrie e le nostre filosofie. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Identità e complessità. <br />
Come cambiano i modelli di espressione. <br />
Rosa Revellino <br />
Noi tutti siamo dialogo e siamo debitori al linguaggio rispetto ad una caratteristica umana <br />
fondamentale che è quel<strong>la</strong> di condividere alcune esperienze concrete o anche solo manifestazioni <br />
del pensiero e del desiderio. Cioè il linguaggio ci mette sulle spalle un debito di essenza, un <br />
diritto-‐dovere di far risuonare il profondo e ci dà gli strumenti per attivare le nostre re<strong>la</strong>zioni più <br />
intime, gli affetti, che possono diventare effetti positivi o negativi del<strong>la</strong> nostra re<strong>la</strong>zionalità. <br />
Al<strong>la</strong> sua origine infatti il linguaggio è strumento: nel<strong>la</strong> retorica c<strong>la</strong>ssica, che possiamo immaginare <br />
come <strong>la</strong> gestazione massima del<strong>la</strong> forza del nostro dire, <strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> aveva proprio un uso <br />
strumentale. <strong>La</strong> retorica infatti è nata per persuadere i giudici durante processi pubblici che <br />
riguardavano l'attribuzione o <strong>la</strong> ridistribuzione di appezzamenti di terra: curioso pensare che al<strong>la</strong> <br />
sua origine il linguaggio nasca per ristabilire un possesso, una proprietà geografica, come se nel<strong>la</strong> <br />
<strong>paro<strong>la</strong></strong> potesse radicarsi un'appartenenza anche fisica, cioè in qualche modo una funzione <br />
identitaria. Fin da questo momento storico, V sec a.c, il linguaggio si compromette quindi con <strong>la</strong> <br />
rappresentazione, <strong>la</strong> credibilità, <strong>la</strong> strategia, ma tende, in modo profondo e materico, a ribadire un <br />
radicamento, un possesso. Per certi aspetti si potrebbe dire che il linguaggio diventi una <br />
fisionomia del diritto di stare, radicarsi ed esistere in un luogo, sia esso geografico, mentale o <br />
sentimentale. <br />
Questa funzione identitaria del linguaggio si perde però progressivamente nel corso dello sviluppo <br />
del<strong>la</strong> comunicazione, o delle nuove comunicazioni, che mettono in scacco <strong>la</strong> funzione p<strong>la</strong>stica del <br />
linguaggio, o “perfomativa”, diluendo<strong>la</strong> in declinazioni più moderne e segmentando lentamente <br />
l'identità linguistica originaria in stringhe o catene di significato depotenziato. Questo effetto del<strong>la</strong> <br />
modernità sembra colpire dunque al cuore <strong>la</strong> caratteristica originaria dei nostri atti linguistici: <strong>la</strong> <br />
re<strong>la</strong>zionalità. <br />
Dal modello matematico del<strong>la</strong> comunicazione di Shannon che si ispira al<strong>la</strong> biologia, al<strong>la</strong> teoria <br />
critica del<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> di Francoforte, allo strutturalismo di Saussure, al<strong>la</strong> Scuo<strong>la</strong> di Palo Alto per <br />
arrivare al<strong>la</strong> teoria degli Atti linguistici di Austin, solo per citare alcuni passaggi del<strong>la</strong> storia del<strong>la</strong> <br />
comunicazione, sono sempre gli aspetti di re<strong>la</strong>zionalità del linguaggio ad essere messi in <br />
questione. È solo <strong>la</strong> linguistica pragmatico-‐enunciativa che sembra far puntare l'attenzione non sul <br />
contenuto del messaggio ma sul suo destinatario. In questa diversa prospettiva di misure del <br />
discorso ad interessare il par<strong>la</strong>nte non è più <strong>la</strong> verità o falsità del dire, che da Aristotele in poi ha <br />
sostanziato una visione descrittiva del linguaggio, ma <strong>la</strong> spinta di re<strong>la</strong>zione che viene compiuta <br />
attraverso esso. In altri termini ciò che fonda <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di <strong>paro<strong>la</strong></strong> è l'identificazione con il proprio <br />
dire e <strong>la</strong> motivazione che spinge verso l'interlocutore per capire il significato del suo atto di <strong>paro<strong>la</strong></strong>, <br />
<strong>la</strong> possibile negoziazione di quello che mette in risonanza. Con lo sviluppo del digitale e <strong>la</strong> nascita <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
dei nuovi media assistiamo poi ad un'altra importante inversione di tendenza: oggi, senza cadere <br />
nel<strong>la</strong> trappo<strong>la</strong> di una eccessiva banalizzazione, è pur vero che <strong>la</strong> nostra comunicazione, che per <br />
definizione dovrebbe stabilire un accordo di comprensione tra gli astanti, un patto di fiducia, <br />
sempre di più assomiglia ad una fiction made, ad una narrazione libera. <br />
È il modello narrativo infatti che sembra dominare i moderni sistemi di comunicazione, compresa <br />
<strong>la</strong> comunicazione giornalistica, anche quel<strong>la</strong> più asciutta e denotativa. Le forme linguistiche <br />
moderne sempre più frequenti non sembrano più essere legate ad un bisogno di radicamento nel <br />
proprio dire, ad una necessità di possesso di sé. Si pensi al caso dell'equivoco e all'ambiguità. Per <br />
definizione l'equivoco, di per sé affascinante dal punto di vista linguistico e psicanalitico, è ciò che <br />
può essere inteso in più modi e che dunque può dar luogo a più interpretazioni e a più forme di <br />
rappresentazione. Così, in forme diverse, è l'ambiguità: ciò che può essere inteso da più parti, da <br />
più prospettive. Dominano quindi nel<strong>la</strong> scena linguistica spazi del dire in cui salta completamente <br />
il patto di fiducia tra interlocutori, in cui <br />
non c'è più un vero e proprio mittente e <br />
un destinatario, ma dove ognuno è un <br />
interprete di una comunicazione <br />
possibile, sempre in movimento, <br />
mutabile, e mutevole. <br />
Una smaterializzazione del reale, del <br />
fisico, che ci consegna uno spazio ibrido, <br />
che va riconfigurato di continuo, <br />
ridefinendo pubblico e privato, formalità <br />
e intimità. Saltano le frontiere e <strong>la</strong> <br />
postura del nostro dire si stabilizza su un <br />
limite pericoloso ma affascinante, tra il <br />
detto e il non detto. Lo spiega bene lo <br />
studioso Domenico Devoti nel suo <br />
articolo su mistica e micropsicanalisi: 1 si <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
assiste ad […] un più generale processo di <br />
re<strong>la</strong>tivizzazione e di decostruzione che ha <br />
investito i fondamenti stessi delle scienze, <br />
dunque l’epistemologia 2 e, più <strong>la</strong>tamente, <br />
lo “spirito” (esprit) stesso del<strong>la</strong> società <br />
postmoderna con l’intero suo assetto <br />
mentale rappresentato da tutti i <br />
parametri che ne costituiscono <strong>la</strong> cultura <br />
in senso antropologico (l’insieme dei modelli cognitivi, valutativi, operativi). Tale trasformazione – <br />
da qualcuno identificata come “deriva re<strong>la</strong>tivistica del pensiero postmoderno” – è un fenomeno <br />
carsico dai numerosi filoni sotterranei, come <strong>la</strong> critica delle forme del<strong>la</strong> logica c<strong>la</strong>ssica di tipo <br />
aristotelico, <strong>la</strong> spinta al<strong>la</strong> riflessività critica, l’anelito alle avventure del<strong>la</strong> differenza, <strong>la</strong> <br />
decostruzione di modelli di alterità tradizionali. Per dir<strong>la</strong> in modo sintetico, ci si è aperti ad una <br />
1<br />
D. Devoti, Mistica e micropsicanalisi. <br />
2 Disciplina che si dedica all’esame critico delle condizioni e dei metodi del<strong>la</strong> conoscenza scientifica, cioè <strong>la</strong> validità delle forme di <br />
2 Disciplina che si dedica all’esame critico delle condizioni e dei metodi del<strong>la</strong> conoscenza scientifica, cioè <strong>la</strong> validità delle forme di <br />
spiegazione, le pertinenza delle regole logiche di inferenza, le condizioni di utilizzazione dei concetti e dei simboli (cfr. E. Morin, Il <br />
metodo 3. <strong>La</strong> conoscenza del<strong>la</strong> conoscenza, Raffaello Cortina, Mi<strong>la</strong>no, 2006, pp. 21 e n.7). V. anche ibid. p.10: «Mentre innalza una <br />
vertiginosa Torre di Babele delle conoscenze, contemporaneamente il nostro secolo effettua un’immersione ancor più vertiginosa <br />
nel<strong>la</strong> crisi dei fondamenti del<strong>la</strong> conoscenza». <br />
20
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
scienza di processo anziché di stato, di divenire anziché di essere, con il suo nuovo armamentario <br />
logico e il suo repertorio di immagini grafiche teso a cogliere l’irriducibilità del<strong>la</strong> complessità <br />
caotica nel rifiuto di ogni riduzionismo 3 . Non solo <strong>la</strong> verifica empirica e <strong>la</strong> verifica logica non <br />
rappresentano più un fondamento certo per <strong>la</strong> conoscenza, ma è il reale stesso che si è disgregato <br />
sotto i colpi del<strong>la</strong> fisica quantistica (<strong>la</strong> particel<strong>la</strong> diviene una nozione limite tra concepibile e <br />
inconcepibile, tra onda, corpuscolo, unità elementare). E l’Universo come ordine <strong>la</strong>scia il posto ad <br />
una nozione magmatica di ordine/disordine/organizzazione, mentre <strong>la</strong> sua evoluzione e il suo <br />
divenire sembrano andare verso una dispersione irreversibile. <br />
Dunque, crisi dei fondamenti del<strong>la</strong> conoscenza scientifica, crisi dei fondamenti di quel<strong>la</strong> filosofica, <br />
crisi ontologica del Reale, crisi del mondo dei valori, crisi dei fondamenti del<strong>la</strong> dimensione <br />
spirituale. Il dubbio e <strong>la</strong> re<strong>la</strong>tività, le oscurità e i buchi neri, in questa crisi generalizzata di cultura e <br />
di pensiero, sono ormai ineliminabili, così come i concetti di processo, di liquidità, di <br />
contraddittorietà e di conflitto per qualunque tipo di fenomeno, fisico, mentale, biologico, <br />
sociale... <br />
Si affaccia dunque all'orizzonte <strong>la</strong> complessità dell'atto di <strong>paro<strong>la</strong></strong> che sfugge, come in un frenetico <br />
contrappunto, al rigore dei sistemi di controllo sulle nostre enunciazioni. <br />
Difficile a questo punto disegnare un confine tra identità e complessità: ciò che sembra prevalere <br />
è una progressiva sovrapposizione dei due concetti che nell'atto di <strong>paro<strong>la</strong></strong> si traducono in una <br />
sempre maggiore deresponsabilizzazione enunciativa in favore di una bulimia narrativa che apre <br />
mondi possibili, identità nuove che si possono bruciare anche molto velocemente e rinascere in <br />
fisionomie linguistiche stratificate. Una complessità dei sistemi espressivi che attesta un'altra <br />
complessità: del<strong>la</strong> definizione e dell'uso di un'unica, trasparente ed univoca identità. <br />
Riflessioni dal Seminario Counselling Humanities <br />
Counselling e viaggio <br />
Silvia Minetti <br />
Dunque, se c’è una cosa che mi è cara, di cui ritengo di sottolineare l’importanza avendo in mente <strong>la</strong> <br />
formazione del counsellor, è <strong>la</strong> dimensione del viaggio. <br />
Per quanto nel counselling si usi spesso e volentieri il viaggio come metafora, mi riferisco al viaggio-viaggio,<br />
al viaggio vero, a un’esperienza che, proprio come <strong>la</strong> poesia, è (qui attingo ad alcuni versi di <br />
Mauro Doglio) “metà silenzio e metà <strong>paro<strong>la</strong></strong>”. <br />
Mi riferisco al viaggio antropologicamente inteso, all’incontro con l’alterità, quell’esperienza che ti pone <br />
nel<strong>la</strong> condizione di non capire, dunque nel<strong>la</strong> possibilità di apprendere ad un livello nuovo. <br />
Quel<strong>la</strong> situazione che ti legittima a fare domande, forse, e ti porta a interrogarti, se vuoi. <br />
Ecco: il counsellor che vorrei essere ogni tanto <strong>la</strong>scia tutto, prepara uno zaino (con un libro di poesia <br />
dentro e un dizionarietto leggero) e si mette in cammino in cerca di silenzi e parole nuove (che non <br />
sempre capisce subito, magari poi, quando sarà già tornato). <br />
Il counsellor che vorrei essere non ha troppa paura di perdersi, di incontrare sguardi, storie, persone. <br />
E sottopone costantemente all’altro le sue “prove di traduzione”. <br />
E si ferma spesso a chiedere <strong>la</strong> strada. <br />
3 Cfr. G. Filoramo, Che cos’è <strong>la</strong> religione. Temi metodi problemi, Torino, Einaudi, 2004, p. 159. <br />
21
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Retorica e counselling <br />
Mauro Doglio <br />
Retorica? <br />
<strong>La</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> retorica evoca di solito negli ascoltatori reazioni sorprese e qualche volta preoccupate. <br />
Tornano al<strong>la</strong> mente occhialuti professori fissati su termini astrusi come ‘ipal<strong>la</strong>ge’ o ‘climax’, politici <br />
che pronunciano discorsi roboanti e lunghissimi ma privi di reale contenuto o persone abili con le <br />
parole che cercano di manipo<strong>la</strong>re gli altri usando tecniche raffinate. Il fatto è che <strong>la</strong> retorica può <br />
anche essere tutto questo, ma può esserlo perché ha una caratteristica positiva che dovrebbe <br />
render<strong>la</strong> un sapere essenziale a tutti coloro che si occupano di comunicazione; essa è infatti <strong>la</strong> <br />
prima e più importante riflessione che l’occidente ha sviluppato sul linguaggio e <strong>la</strong> <br />
comunicazione (1). <br />
Più o meno in contemporanea al<strong>la</strong> nascita del<strong>la</strong> filosofia, circa duemi<strong>la</strong>cinquecento anni fa, <strong>la</strong> <br />
civiltà greca si rendeva conto dell’immenso potere che scaturisce dalle parole, dal<strong>la</strong> capacità di <br />
sceglierle, di adattarle agli ascoltatori, di concatenarle in strutture di significato organizzate e <br />
finalizzate ad uno scopo. Possiamo individuare due grandi tradizioni a cui fa capo <strong>la</strong> retorica: <br />
quel<strong>la</strong> che <strong>la</strong> vede come uno strumento per comunicare idee sul<strong>la</strong> realtà e quel<strong>la</strong> che <strong>la</strong> considera <br />
il principale modo in cui gli esseri umani costruiscono <strong>la</strong> realtà. <br />
Una tecnica per comunicare <br />
<strong>La</strong> prima tradizione può essere fatta risalire ad Aristotele (2), ed ha caratterizzato <strong>la</strong> retorica <br />
essenzialmente come uno strumento per comunicare efficacemente al fine di portare <br />
l’interlocutore al<strong>la</strong> persuasione: sia che si dovesse convincere una giuria di tribunale, sia che <br />
l’obiettivo fosse di elogiare o biasimare il comportamento di qualcuno, sia che si dovesse <br />
deliberare in campo politico, erano necessarie competenze per rendere efficace il discorso. <br />
Il punto di partenza del<strong>la</strong> costruzione di un discorso è nell’individuazione dei contenuti: nel<strong>la</strong> <br />
suddivisione del<strong>la</strong> retorica c<strong>la</strong>ssica questa parte veniva chiamata inventio, che in <strong>la</strong>tino significa <br />
‘ritrovamento’. Si trattava di ricercare gli argomenti che potevano essere persuasivi per un dato <br />
pubblico, ad esempio: per convincere un gruppo di genitori a fare una certa scelta, argomentare <br />
che sarà di utilità per i loro figli rappresenta di solito un argomento efficace. <br />
<strong>La</strong> seconda parte era denominata dispositio e consisteva nel disporre gli argomenti nel punto più <br />
appropriato del discorso: non è infatti <strong>la</strong> stessa cosa far vedere prima gli aspetti negativi di una <br />
questione e poi quelli positivi o viceversa. <br />
L’elocutio rappresentava <strong>la</strong> terza parte del<strong>la</strong> retorica; si trattava di rivestire gli argomenti <br />
individuati con il giusto stile comunicativo. Gli antichi si erano accorti infatti che parole diverse <br />
producono sugli uditori effetti diversi e che usare le parole in un certo modo può creare dei veri e <br />
propri ‘effetti speciali del linguaggio’. Tutto il repertorio delle figure retoriche, tra cui spicca <strong>la</strong> <br />
metafora per <strong>la</strong> sua grande potenza comunicativa, serviva ad aumentare il potere che il discorso <br />
possiede di emozionare, insegnare, divertire. Si comprese anche che un discorso, per essere <br />
efficace, deve avere determinate caratteristiche che furono riassunte sotto il titolo di virtù del <br />
22
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
discorso. Prima di tutto è necessario che il discorso si adatti agli ascoltatori, se ho a che fare con <br />
persone di elevata cultura potrò utilizzare termini desueti e inserire citazioni letterarie, se parlo a <br />
gente semplice dovrò utilizzare termini comprensibili e al<strong>la</strong> portata di tutti; in secondo luogo dovrà <br />
essere corretto: se chi par<strong>la</strong> non usa correttamente lessico, grammatica e sintassi il valore del suo <br />
discorso diminuisce grandemente; da ultimo si dovrà ricercare <strong>la</strong> chiarezza, perché tutti devono <br />
poter capire quello che si intende dire, per cui saranno da evitare frasi ambigue, incomprensibili e <br />
soprattutto <strong>la</strong> confusione (come avviene ad esempio quando si aprono parentesi su parentesi <br />
senza chiuderle mai e ad un certo punto l’ascoltatore – e forse anche l’oratore -‐ non sa più di cosa <br />
si sta par<strong>la</strong>ndo). <br />
<strong>La</strong> quarta parte del<strong>la</strong> retorica era l’actio, ovvero tutti gli aspetti legati all’uso del<strong>la</strong> voce e al<strong>la</strong> <br />
gestualità del corpo. Per comprendere questo punto è necessario ricordare che i discorsi <br />
nell’antichità venivano prevalentemente tenuti davanti ad un pubblico, si veniva così a configurare <br />
una situazione a tutti gli effetti teatrale. <br />
<strong>La</strong> quinta era <strong>la</strong> memoria: in un’epoca dove il materiale scrittorio era un bene raro e prezioso, <br />
possedere una tecnica per memorizzare lunghi brani rappresentava una necessità. <br />
Una riflessione sul<strong>la</strong> realtà <br />
L’altra tradizione, che si contrappone al<strong>la</strong> visione più tecnica definita da Aristotele, viene fatta <br />
risalire a Pitagora e fu propugnata nell’antichità da retori e sofisti (3). Secondo questa concezione <br />
<strong>la</strong> retorica è una riflessione sul modo in cui, attraverso <strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong>, si costruisce <strong>la</strong> realtà. Non <br />
quindi solo uno strumento per par<strong>la</strong>re del mondo, ma una forza capace di creare il mondo. I retori <br />
e i sofisti insegnavano che, sul piano del<strong>la</strong> comunicazione, non esiste nul<strong>la</strong> di oggettivo e di valido <br />
universalmente, ma ogni cosa riceve senso e valore dal modo in cui è presentata nel discorso: su <br />
ogni argomento, dicevano, esistono almeno due visioni contrapposte e facevano praticare ai loro <br />
allievi l’esercizio che consiste nel par<strong>la</strong>re prima a favore e poi contro ad una certa tesi. Al<strong>la</strong> base di <br />
questo pensiero c’era l’idea che <strong>la</strong> realtà si manifesta nel<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e che solo attraverso l’incontro -‐<br />
e magari anche lo scontro-‐ tra punti di vista diversi, le situazioni si possano chiarificare e <br />
comprendere. <br />
Da questo punto di vista <strong>la</strong> retorica rappresenta quindi uno spazio in cui <strong>la</strong> complessità delle <br />
re<strong>la</strong>zioni umane può essere affrontata senza partire dal presupposto che ci sia un unico modo <br />
giusto di valutare le cose. È una pratica comunicativa adatta alle situazioni in cui non c’è un punto <br />
di vista dominante già dato a priori, ma dove l’accordo va cercato a partire da posizioni diverse, <br />
anche in contrasto tra loro. <br />
Retorica e counselling <br />
<strong>La</strong> retorica può contribuire in modo sostanziale al<strong>la</strong> pratica del counselling e al<strong>la</strong> formazione del <br />
counsellor, come del resto è utile ancora oggi a chiunque si occupi di comunicazione. <br />
In primo luogo permette di focalizzare l’attenzione sul<strong>la</strong> struttura del<strong>la</strong> comunicazione nel suo <br />
complesso: insegna infatti a considerare con attenzione il contesto, il ruolo dell’interlocutore, <strong>la</strong> <br />
scelta delle parole, <strong>la</strong> loro forza espressiva, gli aspetti non verbali e rende evidente che <strong>la</strong> <br />
comunicazione non si improvvisa, ma richiede competenze precise. <br />
Tra queste <strong>la</strong> principale e senz’altro l’attenzione all’interlocutore. Come il retore, anche il <br />
counsellor deve esplorare il mondo dell’altro e costruire <strong>la</strong> sua comunicazione sul<strong>la</strong> base di quello. <br />
Non solo se voglio persuadere qualcuno, ma anche se voglio intendermi con qualcuno devo <br />
23
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
conoscerlo, devo sapere quali sono che cose che ama e quelle che odia: tutta l’inventio è basata <br />
sul<strong>la</strong> ricerca dei luoghi comuni, oggi intesi soltanto come un repertorio di trite banalità, ma che <br />
all’origine indicavano gli argomenti su cui si poteva fare leva per trovare uno spazio di senso <br />
condiviso. Si può dire infatti che uno dei significati fondamentali del<strong>la</strong> retorica sia di negoziare <strong>la</strong> <br />
distanza tra le persone: dove ci <br />
troviamo noi, interlocutori che <br />
partecipiamo ad una <br />
discussione, rispetto ad un <br />
determinato tema? Cosa ci <br />
divide? Esistono tra noi punti di <br />
contatto? Le risposte a queste <br />
domande mettono in luce i <br />
valori su cui si basano le scelte e <br />
creano un terreno comune su cui <br />
è possibile incontrarsi. <br />
Un altro aspetto che accomuna <br />
<strong>la</strong> retorica al counselling è il fatto <br />
che entrambe sono ca<strong>la</strong>te in un <br />
contesto preciso. A differenza <br />
del discorso filosofico, che ha <strong>la</strong> <br />
pretesa di valere <br />
universalmente, il discorso <br />
retorico è sempre legato ad una <br />
situazione determinata: si sta <br />
par<strong>la</strong>ndo in questo momento, ad <br />
un derminato pubblico, riguardo <br />
ad un certo argomento. Nello <br />
stesso modo il counselling è un <br />
Riflessioni dal seminario Counselling Humanities <br />
Counselling e linguistica <br />
Giorgio Nantiat <br />
Il counsellor in, quanto professionista del<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong>, dovrebbe <br />
essere un po’ come una bi<strong>la</strong>ncia: deve saper riconoscere qual <br />
è il peso di una <strong>paro<strong>la</strong></strong>. Uso il termine peso in senso sia <br />
etimologico-‐storico che in senso semantico (che come ho <br />
detto prima sono proprio due aree di indagine del<strong>la</strong> <br />
linguistica). <br />
Il primo senso indica che ogni <strong>paro<strong>la</strong></strong> ha, nel<strong>la</strong> sua radice e <br />
anche nel<strong>la</strong> cultura in cui è utilizzata, una valenza specifica e <br />
che tale valenza può cambiare col tempo (ricordo che mia <br />
nonna, nata negli anni trenta, usava <strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> “negro” senza <br />
nessun intento razzista, ma ricordo anche il mio imbarazzo <br />
nel sentirglie<strong>la</strong> pronunciare). <br />
Il secondo senso, forse il più importante ai fini comunicativi, è <br />
quello prettamente legato al significato. Saper scegliere il <br />
termine che meglio esprime ciò che ci frul<strong>la</strong> in testa è tutto <br />
tranne che una questione banale. “Udire” non è “ascoltare” e <br />
non è neanche “sentire”, anche se nel<strong>la</strong> vita di tutti i giorni <br />
essi vengono usati come sinonimi. Ma, se nel<strong>la</strong> vita di tutti i <br />
giorni <strong>la</strong> comunicazione è un fatto spontaneo e quasi <br />
scontato, in una re<strong>la</strong>zione d’aiuto il counsellor non può <br />
permettersi <strong>la</strong> stessa leggerezza. <br />
intervento costitutivamente <br />
legato al contesto re<strong>la</strong>zionale in <br />
cui si svolge, l’intervento di counselling si model<strong>la</strong> sul<strong>la</strong> situazione che di volta in volta si presenta: <br />
si costruisce nel momento presente, per una determinata persona, in re<strong>la</strong>zione ad un determinato <br />
tema. <br />
Un altro importante aspetto che accomuna <strong>la</strong> retorica e il counselling è l’attenzione all’ordine del <br />
discorso, al<strong>la</strong> ‘disposizione’ degli argomenti e al progredire del percorso. Ciò che fa del counselling <br />
una comunicazione strategica è anche il fatto che le parti dell’intervento devono possedere un <br />
ordine. Ad esempio non è possibile individuare un obiettivo prima di aver fatto un’esplorazione <br />
sufficientemente ampia del contesto o cercare una soluzione prima che sia stato definita <br />
chiaramente una difficoltà. <br />
Essendo un’attività basata sul linguaggio, il counselling ha necessità di <strong>cura</strong>re <strong>la</strong> forma del <br />
proprio discorso. Quelle virtù del discorso raccomandate dai retori valgono dunque anche per i <br />
counsellor: par<strong>la</strong>re in modo appropriato all’interlocutore, con correttezza e in modo comprensibile <br />
sono elementi che contribuiscono in maniera grandissima all’efficacia dell’intervento. Se <br />
trascuriamo questi antichi precetti, infatti, è l’espressione interrogativa o infastidita che si delinea <br />
sul volto del nostro cliente a ricordarci quanto sono importanti <strong>la</strong> chiarezza nel formu<strong>la</strong>re una <br />
domanda o <strong>la</strong> precisione e <strong>la</strong> sintesi nel proporre un riassunto. <br />
24
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
<strong>La</strong> retorica ha sottolineato l’importanza del modo di porgere dell’oratore, e quindi dell’aspetto <br />
teatrale del<strong>la</strong> comunicazione (actio). Anche per il counselling questo è un elemento di grande <br />
importanza. Normalmente infatti il counsellor è presente davanti al suo cliente con il prorpio <br />
corpo e <strong>la</strong> sua comunicazione non verbale, <strong>la</strong> sua mimica, <strong>la</strong> sua postura, il tono con cui formu<strong>la</strong> le <br />
domande sono elementi determinanti per il successo di un intervento. <br />
Retorica, punteggiatura e persuasione <br />
Finora ci siamo occupati del<strong>la</strong> retorica come tecnica, come strumento per costruire discorsi, ma <br />
anche l’altra tradizione retorica può essere utile al counselling. L’idea che <strong>la</strong> realtà non sia un dato <br />
oggettivo, ma una creazione che si opera nel<strong>la</strong> comunicazione e nel<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione, permette al <br />
counsellor di disporsi con un atteggiamento di maggior apertura verso <strong>la</strong> narrazione dell’altro. <br />
Qualcosa di molto simile a quello che <strong>la</strong> retorica c<strong>la</strong>ssica aveva messo in luce par<strong>la</strong>ndo dei discorsi <br />
contrapposti, <strong>la</strong> sistemica lo ha tematizzato come punteggiatura, ma il punto cruciale è lo stesso: <br />
pensare <strong>la</strong> realtà delle re<strong>la</strong>zioni come l’incontrarsi di punti di vista diversi, nessuno dei quali può <br />
pretendere di avere una validità assoluta. <br />
Un’ultima considerazione riguarda <strong>la</strong> persuasione. <strong>La</strong> persuasione è il fine del<strong>la</strong> retorica e questo <br />
sembra essere il punto che <strong>la</strong> allontana maggiormente dal counselling. Il counsellor infatti tutto <br />
deve fare tranne che cercare di spingere una persona ad agire in base a intenzioni che non le <br />
appartengono. Ma ci sono due tipi di persuasione: una esterna e l’altra interna; una che ci giunge <br />
da altri, una che invece è il risultato di una maturazione che viene da dentro di noi, che sentiamo <br />
nostra e che siamo pronti a riconoscere e, nel caso, a difendere. È <strong>la</strong> differenza tra percepirsi <br />
soggetti del<strong>la</strong> propria vita assumendosi <strong>la</strong> responsabilità delle proprie scelte o sentirsi manipo<strong>la</strong>ti <br />
da altri e rimpiangere di non avere fatto quello che ci sentivamo di fare. Il counselling dovrebbe <br />
perseguire quel<strong>la</strong> persuasione interna che emerge dal<strong>la</strong> persona coinvolta nel<strong>la</strong> situazione; e <br />
dovrebbe farlo aiutando<strong>la</strong> a vedere meglio quello che sta avvenendo intorno a lei, a valutare <br />
consapevolmente i suoi obiettivi, a considerare con attenzione le conseguenze delle proprie <br />
azioni. <br />
<strong>La</strong> retorica intendeva persuadere qualcuno di qualcosa, il counselling permette a qualcuno di <br />
arrivare ad una persuasione su qualcosa. <br />
NOTE <br />
1 Doglio. M., Par<strong>la</strong>re per tutti. Arte del<strong>la</strong> comunicazione e re<strong>la</strong>zioni umane, Mi<strong>la</strong>no, Lupetti, 2004. <br />
2 Barthes, R., <strong>La</strong> retorica antica, Mi<strong>la</strong>no, Bompiani, 2010; <br />
Barilli, R., <strong>La</strong> retorica. Storia e teoria. L’arte del<strong>la</strong> persuasione da Aristotele ai giorni nostri, <br />
Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore, 2013. <br />
3 Kerfeld, I sofisti, Bologna, Il Mulino, 1988. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Un dilemma immaginato: le due culture <br />
Giorgio Bert <br />
Era il maggio del 1959 quando C.P. Snow, scienziato e scrittore inglese, tenne all’Università di <br />
Cambridge una serie di lezioni successivamente pubblicate col titolo Le due culture e <strong>la</strong> rivoluzione <br />
scientifica. Un testo che a rileggerlo oggi appare (e a molti apparve anche allora) superficiale e <br />
pieno di banali generalizzazioni e di giudizi arbitrari e gratuiti. In sintesi, secondo Snow, i <br />
“letterati”, cioè i cultori di quelle che oggi è d’uso definire humanities, sono, nel<strong>la</strong> loro arrogante <br />
ignoranza, una pal<strong>la</strong> al piede di coloro che marciano sul cammino luminoso del<strong>la</strong> conoscenza: <br />
cammino che al giorno d’oggi è praticato esclusivamente dagli scienziati. I “letterati” sono quindi <br />
in principio reazionari mentre gli “scienziati” sono ontologicamente progressisti “anche quando si <br />
definiscono conservatori”. <br />
Ecco un esempio delle sue argomentazioni: <br />
“<strong>La</strong> maggior parte degli scrittori professa opinioni sociali che sarebbero state démodé e poco civili <br />
al tempo dei P<strong>la</strong>ntageneti (…) Nove (scrittori) su dieci tra quelli che hanno dominato <strong>la</strong> sensibilità <br />
letteraria nel nostro secolo erano non solo politicamente stupidi ma politicamente malvagi. <strong>La</strong> loro <br />
influenza non ha forse reso Auschwitz più vicina? (…) Esiste in effetti una connessione, che i <br />
letterati colpevolmente stentano a vedere, tra certe forme di arte del ventesimo secolo e <br />
l’espressione più imbecille di sentimenti antisociali.” <br />
Gli scienziati, sostiene Snow, hanno invece “nelle ossa” il futuro e le chiavi del<strong>la</strong> conoscenza, e per <br />
questo i “letterati” sono in genere luddisti e antiscientifici. <br />
Stupisce che banalità del genere abbiano al tempo scatenato una polemica a livello mondiale. Il <br />
filosofo Giulio Preti, nello stroncare il testo di Snow, osserva (in uno dei miei libri preferiti: Retorica <br />
e logica: le due culture) che “molte delle cose che dice Snow valgono per l’Inghilterra – o forse solo <br />
per l’Università di Cambridge… Da noi, e non solo in Italia ma anche in Francia, negli Stati Uniti e <br />
forse anche altrove, le cose sono un po’ diverse”. <br />
All’epoca per <strong>la</strong> verità, molti di noi che facevamo ricerca scientifica in <strong>la</strong>boratorio, pur trovando <br />
esagerate le critiche di Snow (Auschwitz… andiamo!), ci <strong>la</strong>sciammo un po’ influenzare da esse. <br />
Perché mai – ci dicevamo -‐ se uno “scienziato” non conosce, sia pur vagamente, P<strong>la</strong>tone o <br />
Shakespeare o Dante o Montale passa per ignorante mentre non è considerato tale il “letterato” <br />
che ignora il secondo principio del<strong>la</strong> termodinamica? <br />
Posta in tal modo, <strong>la</strong> domanda può sembrare sciocca o almeno ingenua, ma così non è: essa <br />
sottintende infatti un mondo in cui <strong>la</strong> “vera” conoscenza, quel<strong>la</strong> scientifica, resta purtroppo <br />
patrimonio di pochi quando dovrebbe essere <strong>la</strong> cultura dominante; a questo proposito molti <br />
sostengono che, almeno in Italia, <strong>la</strong> “colpa” di ciò è da attribuirsi a Benedetto Croce, <strong>la</strong> cui critica <br />
per <strong>la</strong> verità –al di là dell’infelice termine di “pseudoconcetti”-‐ andava, più che al<strong>la</strong> scienza in sé, al <br />
positivismo imperante e non era pertanto, mi sembra, così mal posta. <br />
Il punto su cui vorrei soffermarmi è proprio questo: cosa significa “conoscenza” e “vera <br />
conoscenza”? <br />
<strong>La</strong> domanda nasce dal<strong>la</strong> lettura di un breve articolo pubblicato sul Corriere del<strong>la</strong> Sera/Salute <br />
(agosto 2014) da uno dei nostri maggiori genetisti, Edoardo Boncinelli (I figli e il carattere dei <br />
genitori: così si eredita (vizi compresi). L’incipit è il seguente: <br />
26
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
“Io uso dire scherzosamente che voler capire qualcosa di psicologia leggendo Proust è come voler <br />
capire qualcosa di astronomia leggendo Dante. Scherzi a parte, esistono due maniere diverse e in <br />
un certo senso complementari di accostarsi alle cose del mondo e par<strong>la</strong>rne. Da una parte c’è il <br />
rigore del<strong>la</strong> scienza e <strong>la</strong> sua volontà di spaccare il capello in quattro, dall’altra <strong>la</strong> piacevolezza e <strong>la</strong> <br />
vera e propria genialità del<strong>la</strong> letteratura che dipinge il mondo come noi lo vediamo, ma in generale <br />
molto meglio di noi, come singoli. Questo approccio ci conquista, come tutti quelli spontanei e <br />
«facili», ma bisogna rendersi conto che quel<strong>la</strong> non è conoscenza; conoscenza, intendo dire, sul<strong>la</strong> <br />
quale fare affidamento.” <br />
“Rigore” verso “piacevolezza”, <br />
insomma; “conoscenza” verso <br />
“non conoscenza”.. <br />
L’esempio mi sembra tuttavia <br />
inappropriato: l’astronomia <br />
dantesca, pregalileiana e <br />
precopernicana non conosceva i <br />
telescopi e poggiava sulle <br />
conoscenze disponibili nel <br />
tredicesimo secolo; ma il sole, <strong>la</strong> <br />
luna, gli astri erano e restavano <br />
indipendenti da quelle ipotesi: <br />
facevano ciò che avevano sempre <br />
fatto fin da miliardi di anni prima <br />
che il genere homo comparisse <br />
sul<strong>la</strong> terra, e che avrebbero <br />
continuato a fare dopo <strong>la</strong> <br />
scomparsa di quelle creature. <br />
Per <strong>la</strong> psicologia le cose stanno <br />
diversamente, e infatti essa non è <br />
una “scienza” allo stesso modo <br />
dell’astrofisica, pur impiegando <br />
all’occorrenza metodi scientifici. <br />
L’oggetto del<strong>la</strong> ricerca è infatti <strong>la</strong> <br />
“psiche”, <strong>la</strong> mente, e questa non <br />
esiste al di fuori degli esseri <br />
viventi e delle re<strong>la</strong>zioni tra essi. Il <br />
sorgere del sole o le maree sono <br />
prevedibili, i prodotti del<strong>la</strong> mente <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
non lo sono; i primi sono <br />
indipendenti dall’osservatore umano, i secondi no. I fenomeni mentali sono <strong>la</strong>rgamente narrativi <br />
e contengono emozioni e immaginari su cui nemmeno il più potente microscopio elettronico <br />
può darci informazioni complete ed esaustive. Infatti una cosa è individuare l’area cerebrale che <br />
si “accende” allorché si prova piacere o rabbia o paura; altra cosa è sapere che cosa in una data <br />
persona provoca piacere, rabbia, paura; se ciò rimane stabile o si modifica nel tempo; se quel che <br />
io chiamo “piacere” è simile a quello che tu chiami allo stesso modo. Le parole sono povere <br />
rispetto alle emozioni e alle sensazioni che indicano: <strong>la</strong> “paura” di perdere il treno non è quel<strong>la</strong> di <br />
27
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
non superare un esame né tanto meno quel<strong>la</strong> di morire. Per il momento almeno, nessun “rigore” <br />
scientifico è in grado di differenziarle. <br />
Ma allora che ce ne facciamo del materiale non scientifico, che costituisce poi <strong>la</strong> maggior parte <br />
del<strong>la</strong> vita? Certo, <strong>la</strong> vita è biologia e fisica e chimica ma è anche molto molto altro: amore, odio, <br />
re<strong>la</strong>zioni, piacere, ansia, timore, gioia… E poi: storie familiari, cultura, apprendimento; contesto <br />
ambientale, sociale, economico; convinzioni, certezze, dubbi; capacità di risonare con altre <br />
persone, con altre espressioni emotive… E tutto ciò sarebbe “non conoscenza” solo perché, come <br />
dice Boncinelli, “non misura e non confronta”? <br />
Bene: del<strong>la</strong> luna sappiamo quasi tutto, ci siamo anche andati a passeggio (“One giant leap for <br />
mankind”…); degli aspetti neurofisiologici, endocrini, immunitari delle emozioni conosciamo molte <br />
cose… Per non dire poi del vento, delle querce, delle api… Ma non potremo mai, così almeno <br />
credo, valutare “scientificamente” versi come questi: <br />
Tramontata è <strong>la</strong> luna <br />
e le Pleiadi a mezzo del<strong>la</strong> notte ; <br />
anche giovinezza già dilegua , <br />
e ora nel mio letto resto so<strong>la</strong>. <br />
Scuote l'anima mia Eros, <br />
come vento sul monte <br />
che irrompe entro le querce; <br />
e scioglie le membra e le agita, <br />
dolce amara indomabile belva. <br />
Ma a me non ape, non miele; <br />
e soffro e desidero. <br />
Eppure, a millenni di distanza, Saffo ci par<strong>la</strong>, ci emoziona, è con noi, è in noi: attraverso quei versi <br />
conosciamo, riconosciamo <strong>la</strong> natura, l’amore, noi stessi come nessun esame di <strong>la</strong>boratorio o test <br />
mentale sarebbe in grado di fare. “Soffro e desidero”… Al massimo rischieremmo una diagnosi… <br />
Leggiamo Proust <br />
Quando abbiamo passato una certa età, l’anima del bambino che fummo e l’anima dei morti da cui <br />
siamo usciti vengono a gettarci a piene mani le loro ricchezze e le loro malesorti, e chiedono di <br />
cooperare ai nuovi sentimenti che proviamo e nei quali, cancel<strong>la</strong>ndo <strong>la</strong> loro precedente effigie, le <br />
rifondiamo in una creazione originale. <br />
O Eliot <br />
Passi echeggiano nel<strong>la</strong> memoria <br />
lungo il corridoio che non abbiamo preso <br />
verso <strong>la</strong> porta che non abbiamo aperto mai. <br />
Ci commuove <strong>la</strong> tragica passione di Paolo e Francesca o di Romeo e Giulietta; ci emozionano Bach <br />
e Mozart ma anche Lucio Battisti <br />
Il carretto passava e quell'uomo gridava ge<strong>la</strong>ti <br />
al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti <br />
io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti <br />
il più bello era nero coi fiori non ancora appassiti <br />
28
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
O Gaber o i Beatles <br />
Tutta <strong>la</strong> gente so<strong>la</strong> <br />
Da dove viene? <br />
Tutte <strong>la</strong> gente so<strong>la</strong> <br />
qual è il suo posto? … <br />
Questi approcci saranno pure “spontanei e facili” ma sono davvero “conoscenza su cui fare <br />
affidamento” Forse <strong>la</strong> so<strong>la</strong>… <br />
Così ci <strong>la</strong>scia perplessi <strong>la</strong> conclusione dell’articolo, che in poche righe sembra cancel<strong>la</strong>re <br />
l’importanza di millenni di filosofia, di letteratura, di poesia, di pensiero, di arte… <br />
Cosa siamo quindi noi? L’ho detto tante volte e quasi mi è venuto a noia: siamo figli dei nostri <br />
geni, del<strong>la</strong> vita condotta fino a oggi e di una serie di piccole complicazioni, di carattere <br />
eminentemente casuale, che «modu<strong>la</strong>no» tanto l’azione dei geni quanto quel<strong>la</strong> del nostro stile di <br />
vita. Alcune di queste complicazioni possono essere studiate oggi con l’epigenetica, così che <br />
cominciamo a capirle meglio. Con maggiore soddisfazione intellettuale e con un’arma in più per <br />
prevederne e guidarne l’effetto. Studiare, quindi, studiare e ancora studiare, senza pregiudizi; <br />
continuando allo stesso tempo a leggere <strong>la</strong> letteratura e <strong>la</strong> poesia per nostra edificazione e diletto. <br />
Una risposta del genere <br />
all’antica domanda “chi sono <br />
io?” degrada gli aspetti <br />
sistemici, ecologici, storici, <br />
culturali del<strong>la</strong> nostra vita a <br />
“piccole complicazioni di <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
carattere eminentemente <br />
casuale” e riduce letteratura e <br />
poesia a meri strumenti di <br />
“edificazione e diletto”… <br />
Ritorno a C.P. Snow dopo <br />
oltre mezzo secolo? <br />
In questo contesto di <br />
confronto conflittuale tra le <br />
due (immaginarie) culture, <br />
dove si situa il counselling, <br />
dove <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di <strong>cura</strong>, che <br />
certo – come tutte le <br />
re<strong>la</strong>zioni -‐ non si muovono in un ambito dove “si misura e si confronta”? E per cominciare, da <br />
che parte stanno: da quel<strong>la</strong> delle humanae litterae (oggi, ce lo chiede l’Europa, chiamate <br />
humanities) o da quel<strong>la</strong> del rigore scientifico? Counsellor e professionisti del<strong>la</strong> <strong>cura</strong> devono <br />
rileggere (o leggere) P<strong>la</strong>tone o Dante o Shakespeare o Proust, oppure imparare il secondo <br />
principio del<strong>la</strong> termodinamica e, perché no, il ciclo di Krebs? <br />
Posto in questi termini semplificati, il dilemma si estingue: le “due culture” in conflitto <br />
semplicemente non esistono: almeno non in una visione sistemica in cui nul<strong>la</strong> è stabile e <br />
definitivo, tutto si intreccia, interagisce, si modifica e modifica l’ambiente, il contesto. Certo, <br />
riconosciamo appieno l’utilità di individuare e studiare segmenti lineari per meglio e più <br />
profondamente conoscere specifici aspetti del<strong>la</strong> realtà: rifiutiamo, con buona pace di Snow, il <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
luddismo e lo spirito antiscientifico. Non possiamo negare tuttavia che esistono altre e diverse vie <br />
al<strong>la</strong> conoscenza, su cui è possibile “fare affidamento”. <br />
Coloro che ricercano <strong>la</strong> conoscenza, a cominciare dagli scienziati, devono -‐ dice Bateson -‐ accettare <br />
una nuova disciplina probabilmente “più rigorosa del<strong>la</strong> vecchia”. Essi hanno “<strong>la</strong> responsabilità di <br />
un sogno, che è poi il modo di porsi di fronte al<strong>la</strong> domanda: . Le risposte a questo duplice enigma devono essere costruite intrecciando insieme <br />
<strong>la</strong> matematica, <strong>la</strong> storia naturale, l’estetica e anche <strong>la</strong> gioia di vivere e di amare: tutte <br />
contribuiscono a dar forma a quel sogno”. <br />
Riflessioni dal seminario Counselling Humanities <br />
Counselling e fotografia <br />
Ilenia Visca <br />
<strong>La</strong> fotografia permette di catturare dei momenti e di rivederli nel tempo, a distanza di tempo. <br />
<strong>La</strong> fotografia è uno sguardo sul mondo, che cambia a seconda di chi sta scattando, dell'istante in cui <br />
viene scattata, del modo in cui viene scattata e di chi osserva. <br />
Non vi è uno scatto uguale a un altro. <br />
<strong>La</strong> fotografia, attraverso le immagini, può emozionare, risvegliare ricordi, invitare al<strong>la</strong> riflessione, <br />
trasportare in mondi nuovi che non si conoscono, sve<strong>la</strong>re partico<strong>la</strong>ri, luci e ombre non catturabili <br />
dallo sguardo talvolta effimero del nostro occhio. <br />
Per questi e tanti altri motivi, intravedo molte affinità tra <strong>la</strong> fotografia e il counselling e per questo <strong>la</strong> <br />
inserirei tra le counselling humanities. <br />
Proviamo a rileggere quanto scritto prima, sostituendo al<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> fotografia, il termine counselling, <br />
scatto con narrazione, osservazione con ascolto e vediamo cosa accade... <br />
Il colloquio di counselling permette di catturare dei momenti e di rivederli nel tempo, a distanza di <br />
tempo. <br />
Il colloquio di counselling è uno sguardo sul mondo, che cambia a seconda di chi sta narrando, <br />
dell'istante in cui si narra, del modo in cui si narra e di chi ascolta. Non vi è una narrazione uguale ad <br />
un'altra. <br />
Il colloquio di counselling , attraverso le immagini -‐le parole-‐ può emozionare, risvegliare ricordi, <br />
invitare al<strong>la</strong> riflessione, trasportare in mondi nuovi che non si conoscono, sve<strong>la</strong>re partico<strong>la</strong>ri, luci e <br />
ombre non catturabili dallo sguardo, talvolta effimero del nostro occhio. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
L’arte del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione <br />
Pietro Barbetta <br />
L'arte del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione, l'arte nel<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione. <strong>La</strong> re<strong>la</strong>zione non è scienza, se per scienza s'intende ciò <br />
che intendono ai giorni nostri le accademie: qualcosa di quantificabile, calco<strong>la</strong>bile, prevedibile. <br />
<strong>La</strong> re<strong>la</strong>zione abita immediatamente il dominio qualitativo, non è misurabile. Per questa ragione <br />
par<strong>la</strong>re di “arte del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione”, piuttosto che di “scienza del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione” sembra appropriato. <br />
Da oltre cinquant'anni con Bateson, da oltre un secolo, con Freud, da oltre tre secoli, con Spinoza -‐ <br />
e potremmo regredire ancora nel tempo -‐ <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione viene costantemente ripresa e rimessa al <br />
centro, per poi essere di nuovo accantonata in nome di un'ottusa oggettività. <strong>La</strong> re<strong>la</strong>zione è <br />
democratica, l'oggettività totalitaria. <br />
È necessario regredire? In storia più spesso di quanto si pensi, al<strong>la</strong> ricerca delle radici, per <br />
parafrasare il titolo di un'opera di Primo Levi (2008), si ritrovano i ricorsi di cui scrive Vico (2012), e <br />
non è sempre vero che <strong>la</strong> storia si ripeta <strong>la</strong> prima volta sotto forma di tragedia, <strong>la</strong> seconda di farsa. <br />
A volte accade anche il contrario. Così oggi assistiamo al<strong>la</strong> tragedia del<strong>la</strong> tecnologizzazione delle <br />
scienze dell'uomo, che ripete in forma tragica <strong>la</strong> farsa pavloviana. <strong>La</strong> destra americana diventa <br />
sempre più simile al “bolscevismo scientifico”, quel materialismo volgare che passa per <strong>la</strong> <br />
riduzione dell'esperienza umana in meccanica, <strong>la</strong> chiamano psicologia evoluzionista, anche se si <br />
tratta di una riproposizione del darwinismo sociale. Nessuno ha ancora svolto un'indagine <br />
esaustiva su quanto le Accademie Scientifiche di Unione Sovietica e Stati Uniti si somigliassero, <br />
durante l'epoca del<strong>la</strong> guerra fredda, nel perorare le scienze del comportamento, di quanto Skinner <br />
altro non fosse che <strong>la</strong> versione americana di Pavlov. Con buona pace del senatore McCharty, <br />
morto di ipertensione a quarantott'anni, quattro anni dopo il suo omonimo (Giuseppe, Stalin e <br />
McCharty avevano lo stesso nome e <strong>la</strong> stessa sindrome) dall'altra/medesima parte del<strong>la</strong> barricata. <br />
“Regressione” è invece termine che pensa a una biografia che torna indietro. Si regredisce nel<strong>la</strong> <br />
re<strong>la</strong>zione con l'altro, a partire da una storia personale o sociale. Me<strong>la</strong>nie Klein (2006) ci ha <br />
proposto una visione del<strong>la</strong> regressione come fenomeno psichico, il soggetto occidentale <br />
contemporaneo può trovarsi a ripetere gesti, sensazioni, pensieri già esperiti prima, in altre <br />
circostanze. Genealogia del soggetto: questi gesti, questi pensieri, che si ripetono, funzionano <br />
altrimenti, in modo differente. Origine e funzione sono radicalmente eterogenei, come nell'origine <br />
darwiniana del<strong>la</strong> specie. <br />
Nel<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione il soggetto tras<strong>la</strong> i suoi affetti per <strong>la</strong> madre, o per il padre, verso l'altro <br />
generalizzato, ma questi non è quello; nel<strong>la</strong> ripetizione, c'è differenza. <br />
Michel Foucault (1969) invece ci ha proposto una visione del<strong>la</strong> regressione come fenomeno storico <br />
e sociale, <strong>la</strong> società si trova a ripetere le medesime funzioni in forma diversa. <strong>La</strong> funzione “potere”, <br />
un tempo esercitata comminando <strong>la</strong> morte, oggi si manifesta attraverso il mantenimento in vita. <br />
31
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Le forme del<strong>la</strong> reclusione dei corpi si specializzano. Tuttavia <strong>la</strong> reclusione è finalizzata al controllo: <br />
<strong>la</strong> governamentalità. <br />
Qualcuno avrà letto le Centoventi Giornate di Sodoma, del marchese De Sade (2007). Nessuno le <br />
ha mai raccomandate e certo non lo farò io adesso. B<strong>la</strong>nchot (2003) scrisse che se solo una <br />
giovane ne leggesse qualche pagina rimarrebbe sconvolta e corrotta per il resto dei suoi giorni. Di <br />
che si tratta? Un gruppo di libertini si rinchiude nel castello di Silling, presso <strong>la</strong> foresta nera, <br />
insieme alle sue vittime, il resto al lettore. Siamo agli albori del<strong>la</strong> nascita dei moderni ospedali, <br />
opere umanitarie, sanitarie, il cui intento è <strong>cura</strong>re i degenti, spesso i poveri: charity. <br />
Ma quante ambiguità, quanti equivoci. Come nelle parole di questa canzone di Joni Mitchell, del <br />
1994, a proposito del<strong>la</strong> carità: <br />
Non maritata, ragazza di <br />
Quasi ventisette anni <br />
Mi mandano dalle suore <br />
Perché i maschi mi guardano <br />
Marchiata a puttana <br />
Non andrò mai in paradiso <br />
Ma, gettata nel<strong>la</strong> vergogna, <br />
Sto alle <strong>la</strong>vanderie di Maddalena <br />
Molte ragazze gravide <br />
alcune dai loro padri, <br />
a Bridget <strong>la</strong> pancia <br />
glie<strong>la</strong> regalò il parroco <br />
Un manto di neve per coprire <br />
Le figlie disgraziate-‐degenerate <br />
Nelle chiazze goccio<strong>la</strong>nti <br />
Delle <strong>la</strong>vanderie di Maddalena <br />
Prostitute, morte di fame <br />
E tentatrici come me <br />
Donne cadute, schiavizzate, <br />
Strappate dai sogni <br />
Chiamano questo posto senza cuore <br />
Nostra Signora del<strong>la</strong> Carità, perché? <br />
Sì, carità! <br />
Queste crudeli spose di Gesù <br />
Ah, se avessero davvero adocchiato lo sposo! <br />
Comprenderebbero, <strong>la</strong>sciando cadere i sassi <br />
Nascosti dietro i loro rosari <br />
32
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Invece disseccano l'erba dove camminano <br />
Succhiano lentamente <strong>la</strong> luce dalle stanze <br />
Godono a spingerci nelle cloache <br />
Alle <strong>la</strong>vanderie di Maddalena <br />
Peg O'Connell è morta oggi <br />
Era sfrontata, civetta <br />
L'hanno infi<strong>la</strong>ta in un buco! <br />
Qualche campana suonerà a Dio! <br />
E un giorno anch'io morirò qui <br />
E nel<strong>la</strong> spazzatura <br />
Come un bulbo appassito <br />
Mi infileranno <br />
E mai fiorirà primavera <br />
Nessuna primavera, <br />
No, nessuna primavera <br />
Nessuna primavera <br />
Il caso ir<strong>la</strong>ndese di Magdalene è noto, anche grazie al film di Peter Mul<strong>la</strong>n (2002) e poi molti, molti <br />
altri. Degenerazioni, si dice. Eppure questo accade ancora oggi, con le fascette che legano ai <br />
lettini, con l'eliminazione del profumo personale nelle case di riposo, con <strong>la</strong> crudeltà dei <strong>la</strong>vori <br />
precari, con <strong>la</strong> piaga del gioco d'azzardo. Oggi il soggetto non è più portatore di diritti, il soggetto si <br />
deve conquistare privilegi. Qualsiasi cosa accada, oggi, è responsabilità del soggetto, in inglese <strong>la</strong> <br />
chiamano employability. Il soggetto si deve rendere flessibile al mercato, studiare per fare <br />
carriera. Chi, pochi, nelle grandi banche a duecentomi<strong>la</strong> dol<strong>la</strong>ri l'anno, chi, molti, nei call center a <br />
300 euro al mese. Tertium non datur. <br />
Quale <strong>la</strong> differenza tra Silling e Magdalene? E, più in generale, quante Magdalene, quanti Silling <br />
sono ancora là, negli ospedali, nelle scuole, nei luoghi di <strong>la</strong>voro? Quante prove INVALSI per <br />
mandare i bambini diversi nelle cloache cantate dal<strong>la</strong> Mitchell, quante scuole, che hanno a cuore <br />
un modo diverso di insegnare, verranno chiuse con l'INVALSI? Quante donne molestate sul <strong>la</strong>voro, <br />
quante persone mobbizzate? Sono silenti perché non godono dei diritti sindacali. Siamo in <br />
un'epoca di grande regressione. <br />
Tuttavia ogni regressione è anche ripresa. Quando si regredisce si torna indietro nel tempo, si <br />
riproducono gesti e azioni che sembravano superati, dimenticati, abbandonati. <strong>La</strong> re<strong>la</strong>zione <br />
terapeutica è definita, da molti psicoanalisti, come una regressione del<strong>la</strong> persona che frequenta <br />
l'analisi ai sintomi nevrotici primitivi, che sono i suoi meccanismi di difesa. Altri ritengono che <strong>la</strong> <br />
perdita dei meccanismi di difesa nevrotici possano produrre una regressione più marcata, verso <strong>la</strong> <br />
psicosi. In questi casi <strong>la</strong> psicoanalisi, proposta come scienza del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione, viene rappresentata <br />
come una scienza riparativa di un Io debole, da rinforzare. Costume behaviorista. <br />
Sandor Ferenczi (2004), Elvio Fachinelli (2009), Christopher Bol<strong>la</strong>s (2009) pensano invece <strong>la</strong> <br />
regressione come occasione di ripresa. Serve tornare indietro nel tempo, regredire, ma questa <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
regressione non potrà mai essere una ripetizione indifferenziata. Serve ricordare. C'è ripetizione e <br />
c'è al contempo differenza. <strong>La</strong> differenza sta nell'accoglienza del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione. Gregory Bateson <br />
(1984) ci ha insegnato che il significato emerge da una doppia differenza. L'osservatore del<strong>la</strong> <br />
differenza <strong>la</strong> nota, <strong>la</strong> annota, <strong>la</strong> annoda, <strong>la</strong>scia un segno che, a sua volta, nel circolo vitale, mostra <br />
una differenza. <br />
Per esempio: difficile, forse impossibile, per un soggetto torturato, che ha visto morire di<strong>la</strong>niate <br />
persone durante <strong>la</strong> guerra, mantenere un'integrità. Personalmente perderei gran parte del<strong>la</strong> <br />
fiducia che ripongo nel mio prossimo, giungendo infine a rimettere in questione anche le mie <br />
re<strong>la</strong>zioni più prossime, intime, familiari. Così molti reduci del<strong>la</strong> Shoah smisero per anni di par<strong>la</strong>re, <br />
di raccontare. Come nei due sogni di Primo Levi (1993, 2014) , di cui ho scritto in Figure del<strong>la</strong> <br />
re<strong>la</strong>zione (Barbetta, 2007), si insinua l'idea dell'indifferenza degli altri alle mie vicende. <br />
Eppure i sogni di Levi, prima e dopo <strong>la</strong> liberazione, sono il medesimo sogno dentro il campo e poi a <br />
casa, il sogno dell'indifferenza dell'altro. Questo sogno è un segno che significa, che diventa, in Se <br />
questo è un uomo e nel<strong>la</strong> Tregua, opera letteraria, che ci dice: “sapevi tu che il mondo può essere <br />
anche così?”. Il grande valore dell'opera d'arte: permetterci di regredire e di ripartire (Fachinelli, <br />
2009). <br />
Nei sogni di Levi, si tratta di una regressione analoga all'illusione del sosia: <strong>la</strong> Sindrome di Capgras. <br />
Chi era Capgras? Joseph Capgras e Jean Reboul-‐<strong>La</strong>chaux scrivono, nel 1923, un saggio su una <br />
partico<strong>la</strong>re forma di delirio: il delirio dei sosia. Per gli autori si tratta di una forma partico<strong>la</strong>re di <br />
delirio paranoico. I due cercano di spiegare il fenomeno del riconoscimento dei volti, una sorta di <br />
ambivalenza sempre presente tra due sentimenti che emergono da una visione: un sentimento di <br />
estraniazione e un sentimento di familiarità. Ci sembra di riconoscere una persona, non è lei, <br />
passiamo di fianco a una persona conosciuta e, pur avendo<strong>la</strong> guardata, non <strong>la</strong> riconosciamo <br />
immediatamente. Capgras, che era uno psichiatra interessato ai processi immaginativi, pensava <br />
che si trattasse di un disordine del<strong>la</strong> sensibilità accompagnato da un'interpretazione delirante, <br />
perciò lo considerava una forma del<strong>la</strong> follia. <br />
Il soggetto riconosce <strong>la</strong> fisionomia dei propri cari ma li sospetta come sosia che si sono sostituiti a <br />
quelli veri. Recentemente questa patologia si è presentata in alcuni pazienti neurolesi (Hirstein, <br />
Ramachandran, 1997). <br />
Però l'illusione del sosia ha anche origini sociali: lo stupro, <strong>la</strong> guerra, <strong>la</strong> dittatura, <strong>la</strong> reclusione, lo <br />
sterminio. Nasce dall'idea che non ci siano più codici materni, che anche le persone a me più care <br />
e vicine non possano che essere indifferenti al mio stato d'animo. Si ha <strong>la</strong> sensazione di capire che <br />
ciò che si è veduto con i propri occhi è irrappresentabile. L'altro vicino a me reagisce con <br />
indifferenza, non può esercitare alcun tipo di empatia, lo strappo è enorme, non può essere <br />
attraversato. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Georges Bataille (2003) aveva definito questa condizione come déchirure, propriamente uno <br />
squarcio che rende <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione con l'altro impossibile. L'altro non potrà che mostrare l'assenza del <br />
suo essere accanto a me, non perché l'altro possa davvero mostrarlo ma perché io affermo <br />
preventivamente questa indifferenza, rendo impossibile ogni conso<strong>la</strong>zione, nessuno potrà mai <br />
credere che l'uomo possa essere tanto crudele, dunque questa crudeltà è comune a tutti, è <br />
tollerabile. Ultimo residuo di zona grigia. <br />
Come nell'illusione dei sosia, l'altro non può più essere il tu materno che era prima, diventa sosia. <br />
In altri casi il mancato riconoscimento di una persona cara tende a somigliare al fenomeno <br />
neurologico del<strong>la</strong> prosopoagnosia. A differenza dell'illusione del sosia, nel<strong>la</strong> prosopagnosia <strong>la</strong> <br />
fisionomia del<strong>la</strong> persona familiare non viene riconosciuta affatto esplicitamente, ma il sentimento <br />
di vicinanza è presente. <br />
Si tratta del<strong>la</strong> condizione opposta: nell'illusione del sosia si riconosce <strong>la</strong> fisionomia del parente, ma <br />
non si attivano le forme affettive che generano il sentimento di vicinanza, quel processo che in <br />
neuropsicologia viene brutalmente designato come “assenza di memoria emotiva”, viceversa nel<strong>la</strong> <br />
prosopoagnosia le chiavi sentimentali <br />
sono attive, mancano le capacità <br />
dichiarative. Sento che mio padre è qui, <br />
vicino a me, ma non riesco a riconoscerlo. <br />
Accade spesso anche presso <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia di <br />
Alzheimer. <br />
Come nel caso di una donna, che dopo un <br />
internamento psichiatrico con <br />
contenzione prolungata al letto, in <br />
dimissione non riconosce più il proprio <br />
figlio. Nei casi meno gravi, senza un <br />
potenziale aggressivo, potremmo definirle <br />
ritiri dal mondo. <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
<strong>La</strong> re<strong>la</strong>zione parte da lì, da quel<strong>la</strong> <br />
nuova/antica posizione assunta dal soggetto del trauma; parte per riprendere. E poiché non ci si <br />
bagna mai nello stesso fiume, <strong>la</strong> ripresa percorre <strong>la</strong> differenza a partire da una regressione che <br />
non è <strong>la</strong> semplice ripetizione, senza differenza. <br />
Come trasmettere questi insegnamenti -‐ che abbiamo lentamente appreso a nostra volta -‐ agli <br />
psicologi, ai counsellor, ai giovani psichiatri, ai medici, agli educatori, agli infermieri, agli <br />
assistenti sociali, ai giovani insegnanti? Oggi che gli psicologi studiano come standardizzare i test, <br />
gli psichiatri come somministrare i farmaci ai pazienti, gli educatori come portare in gita gli utenti, <br />
gli infermieri come usare le fascette per il contenimento, gli assistenti sociali come ottenere <br />
l'assegno di invalidità, gli insegnati come usare le prove INVALSI. <br />
E prima ancora dobbiamo domandarci: è trasmissibile questo insegnamento? Qual è il punto <br />
d'incontro, il punto di partenza? <br />
Vediamo se c'è un punto, nei supposti saperi scientifici standardizzati, che ci insegna l'accademia, <br />
che non si chiude, un punto aperto, o semiaperto, nel quale infi<strong>la</strong>rci. I modelli accademici <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
contemporanei negano di prendere posizione. Si presentano come l'unico sapere, come necessari, <br />
negano <strong>la</strong> possibilità e leggono ogni evento a partire da un modello già dato anticipatamente, così <br />
ogni evento, ogni ripresa, perde le sue caratteristiche di evenemenzialità e diventa tipico. Non <br />
esistono punti di vista e, in un paradossale capovolgimento, ogni presa di posizione – che non sia <br />
quel<strong>la</strong> di questo sapere, che nega di prendere posizione – viene definita “ideologica”. <br />
Si tratta di un diniego, un mancato riconoscimento del<strong>la</strong> presenza costitutiva del soggetto nel suo <br />
sapere. Foucault e Bateson (1984) c'insegnano che il sapere consiste nel prendere posizione. Che <br />
non significa solo che Bateson abbia fatto battaglie per l'ecologia o Foucault per eliminare le <br />
istituzioni carcerarie, significa che, riga per riga, nelle loro opere, si sente pulsare <strong>la</strong> vita del<strong>la</strong> <br />
soggettività, del<strong>la</strong> significazione, ovvero del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione. <br />
Questo modello è trasmissibile? Si può insegnare le re<strong>la</strong>zione come arte? Io penso che un modo <br />
per insegnare <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione sia quello di stare nel<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione. Come a bottega una volta. Quando <br />
cominciavi, cominciavi a fare e imparavi facendo e guardando gli altri fare. Non importa che ci si <br />
metta in cerchio, sdraiati per terra, o che ci si tenga per mano. Si può anche stare in cattedra. <br />
Si può usare autoritarismo stando tutti in cerchio e sapere abitare <strong>la</strong> cattedra in maniera <br />
democratica, non confondiamo i comportamenti visibili con i sentimenti che si provano nel<strong>la</strong> <br />
re<strong>la</strong>zione. L'arte del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione si insegna nel<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione e se un maestro non è più disposto a <br />
imparare, allora è finita. Si tratta di apprendere <strong>la</strong> singo<strong>la</strong>rità irriducibile alle formule precostituite. <br />
Si tratta di fare l'opposto di quanto oggi l'accademia pretende. <br />
Un altro elemento devastante nel<strong>la</strong> formazione accademica contemporanea è <strong>la</strong> parcellizzazione <br />
dei saperi. Costoro non riconoscono più le ragioni che ci avevano portato, nel secondo <br />
dopoguerra, a studiare in termini interdisciplinari, a cercare di connettere, e non separare, <strong>la</strong> <br />
psicologia dall'antropologia, <strong>la</strong> sociologia dal<strong>la</strong> filosofia e tutto ciò dall'arte e dal<strong>la</strong> letteratura, <br />
come fossero singole discipline con confini rigidi. Oggi l'accademia premia il disciplinarismo <br />
sfrenato, spacciandolo per serietà scientifica. Abbiamo bisogno di tecnocrati, non di intellettuali, <br />
sembrano affermare costoro. L'autoritarismo dominante nei saperi accademici contemporanei è <br />
fatto di riviste indicizzate, burocratizzate, formate da comitati scientifici di potere. Una vera e <br />
propria mafia dei saperi. <br />
L'insegnamento sartriano (Sartre, 1972), che definisce l'intellettuale come un tecnico che riflette e <br />
mette costantemente in discussione i propri saperi, quello di Foucault, che definisce il sapere <br />
come una presa di posizione culturale, quello di Bateson, che invita a creare connessioni tra i <br />
saperi; tutto ciò ha a che fare con <strong>la</strong> necessità d'interrompere quei processi che portano al<strong>la</strong> <br />
guerra, al<strong>la</strong> violenza. I saperi disciplinari sono violenti, autoritari e marginalizzanti. Dalle prove <br />
INVALSI, ai Descrittori di Dublino (povero Joyce! Si rivolterà certo nel<strong>la</strong> tomba!), alle attuali <br />
valutazioni universitarie. <br />
Questi sono gli aspetti che rendono difficilmente trasmissibile il sapere re<strong>la</strong>zionale, l'arte del<strong>la</strong> <br />
re<strong>la</strong>zione. Un gioco di carriere narcisistiche, di pubblicazioni compulsive su riviste indicizzate, di <br />
marginalizzazione elegante delle differenze culturali, di stile, di pensiero. <br />
Tuttavia c'è ancora, tra i giovani, e gli anziani che ce lo insegnano, un istinto di conservazione del<strong>la</strong> <br />
dignità. Un honeste vivere, alterum non <strong>la</strong>edere, suum quique tribuere sopravvive a questo <br />
mussoliniano inno al<strong>la</strong> giovinezza, all'urgenza, allo sgomitare davanti alle porte di Harvard. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
L'unico modo per insegnare l'arte del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione è stare nel<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione, esserci come soggetto. <br />
Non posso insegnare senza imparare dall'altro. <br />
Quando, giovani, domandavamo a Gianfranco Cecchin (Cecchin, Barbetta, Toffanetti, 2005) come <br />
si coniugava <strong>la</strong> teoria dell'osservatore di Heinz von Foerster con <strong>la</strong> pratica del<strong>la</strong> consulenza, lui si <br />
riferiva al sistema di formazione che adotta <strong>la</strong> Scuo<strong>la</strong> di Mi<strong>la</strong>no. Quando si decise di fare <br />
formazione, si propose agli allievi di osservare direttamente le consulenze e le terapie. In questo <br />
modo gli allievi, anziché giudicare il sistema familiare, si fanno domande sul<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione tra il <br />
consulente e il sistema familiare, o <strong>la</strong> persona che frequenta le sedute terapeutiche. Domande <br />
sul<strong>la</strong> singo<strong>la</strong>rità di un evento, domande legittime, che non richiedono una spiegazione, ma <br />
costringono il docente a pensare insieme ai suoi allievi, a trasmettere un'esperienza vivente, a <br />
usare quel che Pier Paolo Pasolini (1972) aveva descritto nei termini di “stile libero indiretto”. <br />
Rimanere il più vicino possibile al discorso interno al<strong>la</strong> famiglia, al<strong>la</strong> persona. Si tratta di avvicinarsi <br />
il più possibile al discorso dell'altro, di rimanere a un solo passo di distanza. Non si tratta di <br />
identificarsi, ma di accogliere. <br />
Quest'arte ci permette di non <br />
pensare alle resistenze, alle <br />
ostilità, alle bugie. Al contrario <br />
ci rende appassionati per le <br />
narrative e le anti-‐narrative. <br />
Senza passione, senza <br />
desiderio, <strong>la</strong> consulenza diventa <br />
tecnocratica. <br />
Qualcuno ha par<strong>la</strong>to, a questo <br />
proposito, del<strong>la</strong> cesura <br />
incolmabile tra origine e <br />
funzione. <br />
Qual è l'origine di una <br />
qualunque istituzione, prima <br />
che questa svolga <strong>la</strong> propria funzione? Qual è il senso del nostro agire quotidiano? Persino in <br />
biologia, quando si assume questo punto di vista, si prende posizione. Darwin (2008), nello <br />
studiare l'origine delle specie, prese posizione contro <strong>la</strong> biologia dominante che sosteneva “<strong>la</strong> <br />
funzione crea l'organo”. Perché? Era troppo semplice, ci saremmo trovati a essere dei burattini <br />
nelle mani di un progetto teleologico imperscrutabile, dei sudditi di una divinità cieca. Tuttavia <br />
anche il darwinismo divenne una caricatura di se stesso quando Spencer ne propose una variante <br />
sociale: <strong>la</strong> sopravvivenza del più adatto. Le scienze sociali dominanti non hanno mai abbandonato <br />
questa premessa che produce discriminazioni e marginalità. Chi non ricorda le malefatte re<strong>la</strong>tive <br />
all'uso indiscriminato dei test intellettivi (Barbetta, Bel<strong>la</strong>, Valtellina, in pubbl.) negli Stati Uniti per <br />
respingere migliaia di immigrati. Oggi <strong>la</strong> storia si ripete, anche se spesso non si tratta di categorie <br />
specifiche (neri, ebrei, italiani, ir<strong>la</strong>ndesi, donne, gay, minoranze, ecc.) da respingere, ma di idee, di <br />
punti di vista, di posizioni. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
<strong>La</strong> primavera di Sabina <br />
Sabina diventa folle solo in primavera. Viene da Praga e nel 1968 aveva 14 anni. Quando <strong>la</strong> <br />
incontro ha passato i 50, <strong>la</strong> prima volta viene col marito e il figlio, entrambi nati in Italia, perciò <br />
“italiani”. Giungono a me su suggerimento di uno psichiatra del servizio ospedaliero di una grande <br />
città. Sabina <strong>la</strong>vora come tecnico del<strong>la</strong> riabilitazione in quell'ospedale da qualche anno, ma i <br />
conflitti con il suo “capo” duravano da qualche mese prima che lei entrasse in crisi. <strong>La</strong> goccia che <br />
aveva fatto traboccare il vaso era un chiaro atteggiamento di mobbing (chiaro in molti altri paesi, <br />
in Lombardia le cose vanno diversamente) da parte del “capo” di fronte al<strong>la</strong> totale “disattenzione” <br />
del<strong>la</strong> Direzione Sanitaria. In Lombardia “il capo ha sempre ragione”, da Formigoni a Maroni, <br />
passando attraverso quasi ogni forma di direzione sanitaria in cui il “capo” ha fatto carriera solo <br />
per <strong>la</strong> tessera politica che ha in tasca. <br />
Sabina, di origine “extracomunitaria”, benché cittadina italiana a tutti gli effetti, ha un accento, un <br />
tipo di accento per cui, secondo i deliri dei gruppi politici dominanti in questa regione – che <br />
vediamo appunto coincidere con <strong>la</strong> dirigenza sanitaria per parente<strong>la</strong>, tessera, amicizia intima, <br />
passione amorosa, e quant'altro -‐ si tratta di diffidare. Che sia una c<strong>la</strong>ndestina? Perché non si <br />
accontenta di fare <strong>la</strong> badante? Gli è che Sabina, di fronte alle nuove mansioni cui è stata costretta, <br />
senza alcun preavviso, dall'oggi al domani, mansioni degradanti rispetto al suo ruolo, salta per <br />
aria. Incomincia a delirare. <br />
Quando Sabina venne qui, oltre vent'anni fa, fu come il ritorno del<strong>la</strong> Primavera di Praga, poi i carri <br />
armati. Là arrivarono dall'oggi al domani, senza il consenso del<strong>la</strong> popo<strong>la</strong>zione, qui hanno <strong>la</strong>vorato <br />
sotto terra per vent'anni e hanno ottenuto il consenso del<strong>la</strong> popo<strong>la</strong>zione. Ma Sabina sa che qui, a <br />
differenza di là, le cose possono cambiare, <strong>la</strong> muove il principio di speranza (Bloch, 2005), che <strong>la</strong> fa <br />
smettere di delirare. Sabina ha trovato tanta gente che non ha temuto d'esserle solidale, a partire <br />
dai suoi familiari e dagli amici, e ne ha trovati altri e altri ancora. Ha sputo esercitare Politiche <br />
dell'amicizia (Derrida, 1995) <br />
Bibliografia <br />
Barbetta, P. Figure del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione, Pisa, ETS, 2007 <br />
Barbetta, P, Bel<strong>la</strong>, A., Valtellina, E. “The Complete Idiot’s Guide to Idiocy. Or, what “oligophrenia” <br />
tells us”, Trauma and Memory, in pubblicazione. http://www.eupsycho.com/ <br />
Bataille, G., <strong>La</strong> parte maledetta, Torino, Bol<strong>la</strong>ti, 2003 <br />
Bateson, G., Mente e natura, Mi<strong>la</strong>no, Adelphi, 1984 <br />
B<strong>la</strong>nchot, M., <strong>La</strong>utréamont e Sade, Mi<strong>la</strong>no, SE, 2003 <br />
Bloch, E., Il principio di speranza, Mi<strong>la</strong>no, Garzanti, 2005 <br />
Bol<strong>la</strong>s, C., Il mondo dell'oggetto evocativo, Roma, Astro<strong>la</strong>bio, 2009 <br />
Capgras, J. & Reboul-‐<strong>La</strong>chaux, J. (1923). “Illusion des sosies dans un délire systématisé chronique”. <br />
Bulletin de <strong>la</strong> Société Clinique de Médicine Mentale 2 6–16. <br />
Cecchin, G., Barbetta, P., Toffanetti, D., (2005) "Who was von Foerster, anyway?", Kybernetes, Vol. <br />
34 Iss: 3/4, pp.330 – 342 <br />
Darwin, C., Taccuini, Roma, <strong>La</strong>terza, 2008 <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Derrida, J., Politiche dell'amicizia, Mi<strong>la</strong>no, Cortina, 1995. <br />
Fachinelli, E., <strong>La</strong> mente estatica, Mi<strong>la</strong>no, Adelphi, 2009. <br />
Ferenczi, S., Diario clinico, Mi<strong>la</strong>no, Cortina, 2004. <br />
Foucault, M., Nascita del<strong>la</strong> clinica, Torino, Einaudi, 1969 <br />
Hirstein, W. & Ramachandran, V. S. (1997). “Capgras syndrome: a novel probe for understanding <br />
the neural representation of the identity and familiarity of persons”. Proc Soc Lond, 264, 437-‐444 <br />
Klein, M. Scritti (1921-‐1958), Torino, Bol<strong>la</strong>ti, 2006 <br />
Levi, P. Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1993 <br />
Levi, P. <strong>La</strong> tregua, Torino, Einaudi, 2014 <br />
Levi, P. <strong>La</strong> ricerca delle radici, Torino, Einaudi, 2008 <br />
Pasolini, P.P., Empirismo eretico, Mi<strong>la</strong>no, Garzanti, 1972 <br />
Sade, de, D.A.F., Le 120 giornate di Sodoma, Mi<strong>la</strong>no, Guanda, 2007 <br />
Sartre, J-‐P., P<strong>la</strong>idoyer pour les intellectuels, Paris, Gallimard, 1972 <br />
Vico, G.B., <strong>La</strong> scienza nuova, Mi<strong>la</strong>no, Bompiani, 2012 <br />
Riflessioni dal seminario Counselling Humanities <br />
Counselling e musical <br />
Fabio Freppaz <br />
Senza positivizzare in modo ridicolo il buon counsellor dovrebbe riuscire a stare nel dolore del proprio <br />
cliente, dovrebbe creare un contesto invisibile dove sia possibile affrontare temi complessi e a volte <br />
anche molto delicati, rendendo più fluido il racconto e consentendo altre narrazioni possibili. <br />
Dovrebbe, se riesce, alleviare quel senso di soffocamento che di fronte a qualche difficoltà del<strong>la</strong> vita <br />
può assalire ciascuno di noi. <br />
E’ da questo punto di vista che mi piace associare musical e counselling. Non so se uno sceneggiatore <br />
di musical saprebbe essere un buon counsellor ma so per certo che un buon counsellor potrebbe <br />
sfruttare l’abilità narrativa di alcuni sceneggiatori di musical apprendendo come sia possibile par<strong>la</strong>re di <br />
tutto, anche dell’AIDS, restituendo energia al prossimo con una diversa “punteggiatura”. Non posso <br />
non chiedermi: è o non è un vero e proprio effetto di empowering questo, prodotto da una <br />
comunicazione consapevole? <br />
Non so quale sia <strong>la</strong> risposta corretta ma so per certo che ci sono giorni in cui vorrei che <strong>la</strong> vita avesse <strong>la</strong> <br />
leggerezza e <strong>la</strong> fluidità di un musical. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Antropologia, identità (e complessità) nel <br />
counselling <br />
Lina Jaramillo e Luvia Soto Cabrera <br />
“A quanto ho capito, mi avete chiesto un resoconto onesto e introspettivo (cioè personale) del <br />
modo in cui io rifletto sul materiale antropologico e l’organizzo concettualmente; ma se <br />
assumo un atteggiamento onesto e personale circa questa riflessione, sono costretto ad <br />
assumere un atteggiamento impersonale sui risultati che ne conseguono. Anche se per una <br />
mezz’ora riuscirò a bandire orgoglio e ritrosia, mi sarà comunque difficile essere onesto.” <br />
Gregory Bateson <br />
Scrivere di identità ed antropologia non è un compito semplice, ed è ancora più difficile se <br />
vengono affrontati in re<strong>la</strong>zione ad una professione come quel<strong>la</strong> del counselling, soprattutto <br />
quando dall’autore ci si aspetta obiettività. Ho deciso di prendere in prestito <strong>la</strong> frase con cui <br />
Gregory Bateson, nel 1940, introduce <strong>la</strong> sua memoria “L’organizzazione concettuale del materiale <br />
etnologico” al<strong>la</strong> Settima Conferenza sui Metodi del<strong>la</strong> Filosofia e delle Scienze 4 [1] in quanto queste <br />
poche righe rappresentano al<strong>la</strong> perfezione il retro fondo del mio pensiero quando affronto il <br />
rapporto fra antropologia e counselling: come posso affrontare argomenti come cultura ed <br />
identità in maniera obiettiva e allo stesso tempo onesta? E ancora di più, come posso inserirli <br />
all’interno del percorso di counselling in maniera funzionale per il mio cliente? <br />
Questo documento, si presenta come è una sorta di sintesi – ad oggi -‐ dell’esercizio portato avanti <br />
negli ultimi anni per “organizzare concettualmente il materiale etnologico” frutto di esperienze <br />
vissute, personali e professionali, che mi portano a vedere il rapporto fra antropologia e <br />
counselling nel modo in cui ve lo propongo. Nel<strong>la</strong> prima parte del testo, viene illustrato il tema <br />
dell’identità, <strong>la</strong> sua complessità intrinseca e, di conseguenza, <strong>la</strong> difficoltà, nonché necessità, di <br />
introdur<strong>la</strong> e gestir<strong>la</strong> in un percorso di counselling. Nel<strong>la</strong> seconda parte invece, viene presentato un <br />
“ponte-‐strumento” (<strong>la</strong> mappa del<strong>la</strong> complessità) [2] con il quale, insieme a Luvia Soto Cabrera <br />
(cara amica e collega, psicologa e coach di professione), abbiamo cercato di sistematizzare e dare <br />
ordine a tale complessità. Il nostro obiettivo, è stato quello di costruirci un’ancora di salvezza, <br />
delle chiavi di lettura, per quei momenti in cui rischiavamo di perdere il cliente per <strong>la</strong> nostra <br />
incapacità di vederlo, oppure di affondare nelle sabbie mobili delle innumerevoli espressioni e <br />
rappresentazioni del<strong>la</strong>/e cultura/e e dell’identità nostra e dell’interlocutore. <br />
Cultura, identità e counselling: complessità e/o mancanza di chiavi di lettura? <br />
L’essere umano è cultura, ed è anche subcultura 5 , o ancora meglio è portatore di culture e <br />
subculture, che interagiscono e convivono fra di loro. Come ci ricorda Amartya Sen, nel<strong>la</strong> nostra <br />
vita quotidiana noi ci consideriamo membri di una serie di gruppi: facciamo parte di tutti questi <br />
4 Seventh Conference on Methods in Philosophy and the Sciences presso <strong>la</strong> New School for Social Research. <br />
5 In base al sesso, <strong>la</strong> c<strong>la</strong>sse sociale, il gruppo professionale. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
gruppi. <strong>La</strong> stessa persona, può essere, senza <strong>la</strong> minima contraddizione, di cittadinanza americana, <br />
di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, <br />
maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei <br />
gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista <br />
jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo <br />
cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese). [3] <br />
Le contraddizioni, nascono nel momento in cui veniamo spinti a pensare che quelle identità sono <br />
in contrasto fra di loro al<strong>la</strong> luce di un sistema di c<strong>la</strong>ssificazione, che come ci ricorda lo stesso Sen, <br />
viene spacciato per dominante e che divide le persone sul<strong>la</strong> base del<strong>la</strong> religione, del<strong>la</strong> comunità, <br />
del<strong>la</strong> cultura, del<strong>la</strong> nazione, del<strong>la</strong> civiltà. [3] Ma questa immagine, costruita in base ad un unico <br />
criterio di ripartizione, […] contrasta con l’universo di categorie plurali e distinte che p<strong>la</strong>sma il <br />
mondo in cui viviamo [3], categorie che tra l’altro, come <strong>la</strong> cultura stessa e l’identità, sono in <br />
continuo cambiamento. <br />
Noi esseri umani siamo culture, <br />
subculture ma siamo anche <br />
re<strong>la</strong>zioni, ed è nelle re<strong>la</strong>zioni con <br />
gli altri (nel nostro essere sociale) <br />
che <strong>la</strong> cultura si mantiene in vita; <br />
ed è per questo che sia <strong>la</strong> cultura <br />
che l’identità non sono entità <br />
statiche ma in continuo <br />
cambiamento. Questa malleabilità <br />
è ciò che ha permesso all’umanità <br />
di sopravvivere ed affrontare le <br />
avversità, ed è ciò che permette di <br />
sopravvivere a chi si trova a vivere <br />
in contesti diversi da quello in cui <br />
è nato e a trascorso i primi anni di <br />
vita. Ognuno di noi è cultura e <br />
subcultura, ed è anche una storia, <br />
<strong>la</strong> propria e quel<strong>la</strong> di chi ci ha <br />
preceduto, dei nostri antenati e <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
sono quelle a renderci unici; quello <br />
che siamo. [4] <br />
Riconoscere le pluralità dell’identità umana, comprendere <strong>la</strong> loro trasversalità e mutabilità, i giochi <br />
e le dinamiche dell’interazione fra di esse, sono <strong>la</strong> chiave per riuscire a capire l’essere umano nel<strong>la</strong> <br />
sua totalità e nel<strong>la</strong> sua complessità. Non solo i nostri clienti ma ancora prima, noi stessi. <br />
L’efficacia dei nostri interventi, dipendono dal<strong>la</strong> nostra capacità di entrare in quel<strong>la</strong> complessità, <br />
legger<strong>la</strong>, e dargli un senso per noi e per i nostri clienti. Questa capacità va coltivata, va <br />
alimentata attraverso un processo di ricerca dei mondi altrui, e di rie<strong>la</strong>borazione di quel <br />
materiale al<strong>la</strong> luce del soggetto che siede di fronte a noi, di ciò che ognuno di noi è come <br />
persona, e dei quadri di riferimento del<strong>la</strong> nostra professione. <br />
Le nostre culture sono le linee guida attraverso cui osserviamo il mondo, lo sperimentiamo ed <br />
entriamo in re<strong>la</strong>zione con ciò che ci circonda [5]; sarà il modo di viverle a guidare <strong>la</strong> nostra <br />
41
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
percezione sulle avversità, le rappresentazioni che facciamo sul nostro malessere, il linguaggio e le <br />
modalità che utilizziamo per raccontarlo, e <strong>la</strong> ricerca di strade per affrontarle. <br />
Addentrarci in questi mondi di senso e significato, può condurci su terreni intricati, in cui è difficile <br />
muoversi con efficacia, non solo perché potrebbe esserci più di un percorso appropriato da <br />
seguire, ma anche perché potrebbe essere necessario intervenire a diversi livelli (di counselling, <br />
psicologico, sociale, spirituale o religioso, ecc.) Questo ci porta al<strong>la</strong> necessità di 'affrontare <strong>la</strong> <br />
complessità’ per individuare ciò di cui ha bisogno il nostro cliente e se, e come, possiamo essergli <br />
veramente d’aiuto. Non possiamo dimenticare che anche le nostre discipline, così come sono state <br />
pensate all’interno del mondo occidentale, hanno dei grossi limiti negli strumenti che hanno a <br />
disposizione per <strong>la</strong>vorare con persone provenienti da altri mondi culturali [6] che il cui processo di <br />
costruzione dell’identità, e delle re<strong>la</strong>zioni con l’altro, passa attraverso logiche, linguaggi, e processi <br />
che spesso esu<strong>la</strong>no dal<strong>la</strong> nostra comprensione. In questo senso, Mulqueeney in riferimento ai <br />
popoli Maori del<strong>la</strong> Nuova Ze<strong>la</strong>nda ci ricorda come le nostre discipline considerano che “l’insight” e <br />
“il passaggio all’azione” siano conseguite tramite una ricerca verso l'interno, mentre spesso, altre <br />
culture portano gli individui a spostare lo sguardo verso l'esterno -‐ alle re<strong>la</strong>zioni che essi hanno <br />
con gli altri: le persone, Dio o gli Dei e <strong>la</strong> natura. [7] <br />
Creare una “mappa del<strong>la</strong> complessità” può aiutarci ad acquisire consapevolezza del<strong>la</strong> situazione: <br />
chi siamo in questo rapporto, che cosa stiamo facendo, e che cosa possiamo realmente fare <br />
insieme. <br />
<strong>La</strong> mappa del<strong>la</strong> complessità <br />
In un primo momento, questa mappa è stata pensata in specifico per l’incontro fra counsellor e <br />
cliente migrante, se consideriamo però <strong>la</strong> pluralità delle diversità e <strong>la</strong> sua trasversalità -‐ a cui fa <br />
riferimento Sen -‐ nonché l’omogeneità che accomuna gli esseri umani, potremo dire che dal <br />
momento che qualsiasi incontro fra counsellor e cliente è l’incontro fra due mondi, essa può <br />
sempre diventare uno strumento utile per dare ordire ai diversi elementi che entrano in gioco <br />
nel<strong>la</strong> costruzione del identità, e di conseguenza, nelle re<strong>la</strong>zioni che costruiamo. <br />
Tabel<strong>la</strong> 1 – Elementi per costruire una mappa del<strong>la</strong> complessità 6<br />
Consapevolezza del <br />
professionista – <br />
Culturale, personale e <br />
professionale <br />
(1) Consapevolezza culturale su: <br />
• Le proprie credenze, valori, stereotipi e pregiudizi [8] <br />
• Effetto delle esperienze precedenti con persone del gruppo etnico del cliente [9] <br />
(2) Componenti teoriche e strumenti: <br />
• Sul<strong>la</strong> base del<strong>la</strong> visione del mondo del cliente, <strong>la</strong> sua capacità di coping, di prendersi <br />
<strong>cura</strong> di sé, ecc. <br />
(3) Capacità di comunicare in ambito interculturale: <br />
• Essere in grado di cercare, riconoscere, validare e seguire <strong>la</strong> raffinatezza di tutte le <br />
forme di comunicazione utilizzato dai clienti [10] <br />
6 Lo schema si basa nel <strong>la</strong>voro di Sue et.al (1998) “Basic multicultural competencies” ripresso da Pedersen (2004), <br />
nonché nell’approccio professionale delle competenze. <br />
42
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
<strong>La</strong> visione del mondo <br />
del cliente, <strong>la</strong> qualità <br />
del<strong>la</strong> vita e le sue <br />
condizioni di <strong>la</strong>voro <br />
(4) <strong>La</strong> visione del mondo del cliente [8]: <br />
• Credenze, valori, stereotipi e pregiudizi (considerando <strong>la</strong> complessità dell’identità <br />
sociale) <br />
• Codici verbali e convenzioni del<strong>la</strong> comunicazione non verbale <br />
• Nel caso dei migranti, identificare bisogni, desideri, obiettivi e motivazione in <br />
re<strong>la</strong>zione al progetto migratorio <br />
• Approccio alle professioni del<strong>la</strong> <strong>cura</strong> e le discipline “del<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong>”, come il coaching, <br />
il counselling e <strong>la</strong> psicoterapia <br />
• Conoscenza del<strong>la</strong> lingue locale e agio/disagio nell’esprimersi <br />
• Consapevolezza del<strong>la</strong> percezione del cliente di fronte a figure professionali dello <br />
stesso gruppo di provenienza come “privilegiati” – espressione del<strong>la</strong> stratificazione <br />
sociale e l’ingiustizia <br />
(5) Strategie di sopravvivenza provenienti dal<strong>la</strong> “cultura del<strong>la</strong> povertà” del contesto di <br />
provenienza del cliente <br />
(6) Condizioni legali, sociali, economiche e di <strong>la</strong>voro, possibilità di esercitare diritti di <br />
cittadinanza nel paese ospite, e il loro effetto reale sul benessere e <strong>la</strong> qualità del<strong>la</strong> vita <br />
(7) Esperienze del passato, storia e condizioni globali: <br />
• Eventi storici (es. Storia di colonizzazione del<strong>la</strong> cultura del professionista in re<strong>la</strong>zione <br />
al<strong>la</strong> cultura del cliente) [11,12] <br />
• Esperienze precedenti con persone del gruppo etnico del professionista 2005) [9] <br />
• Predominio del<strong>la</strong> cultura moderna rispetto a quel<strong>la</strong> tradizionale <br />
• Re<strong>la</strong>zioni precedenti con altri professionisti del<strong>la</strong> <strong>cura</strong> [9] <br />
• Subcultura nomade (migrazione da e verso più di una nazione) <br />
Conclusioni <br />
Chi <strong>la</strong>vora come counsellor sa che lo strumento per eccellenza del<strong>la</strong> nostra professione siamo <br />
noi stessi. <br />
Essere consapevoli di ciò che siamo, di come stiamo di fronte ad un cliente e quindi, del<strong>la</strong> nostra <br />
capacità di vederlo, accoglierlo ed in seguito, di <strong>la</strong>vorare con lui, sono fondamentali per riuscire <br />
a svolgere il nostro <strong>la</strong>voro in maniera efficace. Il <strong>la</strong>voro del counsellor, come quello del <br />
antropologo, inizia dal<strong>la</strong> ricerca di ciò che fa parte del mondo dell’altro, delle sue <br />
rappresentazioni, di come esse determinano le sue emozioni, percezioni, ed il modo in cui entra <br />
in re<strong>la</strong>zione con ciò che lo circonda. E’ una ricerca faticosa perché l’universo umano e le sue <br />
raffigurazioni sono infinite, mentre limitate sono le categorie mentali e gli strumento su cui <br />
ognuno di noi conta per avvicinarsi ad esse. <br />
In questo contesto, fare il counsellor richiede a sua volta un atteggiamento onesto e personale, un <br />
<strong>la</strong>voro su chi siamo noi, e contemporaneamente, un operato impersonale sia sui risultati che ne <br />
conseguono – per citare Bateson – sia sul bagaglio culturale del nostro cliente. Cerco di spiegarmi <br />
meglio… Come ci è stato insegnato, non dobbiamo accettare <strong>la</strong> storia del cliente come vera, non <br />
dobbiamo accettare come vere le rappresentazioni ed i valori di cui sono portatori i nostri clienti. Il <br />
nostro compito è quello di rendergli funzionali per lui e per essere in grado di farlo, dobbiamo <br />
conoscerli, essere in grado di par<strong>la</strong>rne (conoscere i codici che ci permettono di interagire), e <br />
finalmente essere consapevoli di ciò che producono in noi. Quest’ultimo punto è fondamentale <br />
perché precondizione di quello precedente, nonché del riuscire a stare con il mio cliente in modo <br />
autentico, e di conseguenza, del<strong>la</strong> possibilità di costruire una re<strong>la</strong>zione. <br />
<strong>La</strong> sfida si trova nel mettersi in gioco, nel <strong>la</strong>vorare e riflettere su chi siamo, ciò che sappiamo (le <br />
nostre conoscenze) e ciò che siamo in grado di fare. Solo dopo questo esercizio, saremo davvero in <br />
grado di stabilire un rapporto con il cliente e con <strong>la</strong> sua diversità. Una diversità che non è solo <br />
legata al<strong>la</strong> cultura del suo gruppo di provenienza, ma anche al<strong>la</strong> sua storia (collettiva, famigliare e <br />
43
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
personale), alle sue condizioni sociali, economiche e di <strong>la</strong>voro 7 [13]. È facile sopravvalutare <strong>la</strong> <br />
cultura, o trattar<strong>la</strong> superficialmente, portandoci fuori strada e allontanandoci dal cliente; abbiamo <br />
bisogno di sviluppare <strong>la</strong> capacità di vedere <strong>la</strong> cultura e l'identità nel<strong>la</strong> sua intera complessità. <br />
Il passo successivo, dopo aver considerato e compreso <strong>la</strong> visione del mondo dei nostri clienti, è <br />
quello di sviluppare <strong>la</strong> capacità di capire quando le nostre competenze e strumenti non sono <br />
sufficienti. Per ovviare a questo, si possono essere intrapresi momenti di auto-‐formazione o <br />
partecipare in piccoli gruppi (es. “self-‐quick-‐training” e/o “petit comité”). Tuttavia, una visione più <br />
strategica può essere considerata: <strong>la</strong> conoscenza e <strong>la</strong> possibilità di aiutare i nostri clienti, può non <br />
riguardare un singolo professionista, ma un intero gruppo di essi. Ciò significa che una parte <br />
significativa del<strong>la</strong> nostra consapevolezza professionale deve essere quel<strong>la</strong> di sviluppare le <br />
competenze di dialogare e <strong>la</strong>vorare in una rete multidisciplinare. Nel fare ciò, abbiamo bisogno di <br />
impostare modelli di interazione con altre figure del<strong>la</strong> <strong>cura</strong> provenienti non solo dal<strong>la</strong> psicoterapia, <br />
l’etnopsichiatria o l’assistenza sociale, ma anche figure che appartengono ai mondi dei nostri <br />
clienti, come ad es. sciamani, naturopati, lider religiosi e comunitari ecc. <br />
Lo studio dell’uomo e del<strong>la</strong> sua diversità, ci porta sempre di più a capire noi stessi e fenomeni che <br />
si presentano all’interno delle nostre società. Come sottolinea Mason Durie, padre del counselling <br />
e l’etnopsichiatria neo ze<strong>la</strong>ndese, studiare gli approcci distintivi che altri popoli possono avere nei <br />
confronti delle re<strong>la</strong>zioni ed i processi che fanno delle negoziazioni di tali re<strong>la</strong>zioni, ci offrire alcuni <br />
spunti che potrebbero essere utilmente applicate al counselling (in generale). [14] <br />
Riferimenti bibliografici <br />
1. Bateson G. (1977). Verso un’ecologia del<strong>la</strong> Mente. Mi<strong>la</strong>no: Adelphi Edizioni. <br />
2. Jaramillo L. Soto Cabrera L. Confini e sfide nel <strong>la</strong>voro con clienti nel campo interculturale. <br />
Documento presentato al<strong>la</strong> Conferenza Internazionale “Intercultural Counselling and Education in <br />
the Global World”. Verona, Aprile 15-‐18 2013. <br />
3. Sen A. (2001). Lo Sviluppo e libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia. Ed. Mondadori. <br />
4. Jaramillo L. Narrazione e Società Complessa: Una Visione Antropologica. Intervento presso il <br />
convegno Bioetica e medicina narrativa – Nuove Prospettive di Cura. Ospedale San Camillo, giovedì <br />
24 maggio 2012. <br />
5. Helman C.G. (2007) Culture, Health and Illness. New York: Oxford University Press. <br />
6. Dupont-‐Joshua A. (2003) Working Inter-‐Culturally in Counselling Settings. New York: Brunner <br />
Routledge. <br />
7. Mulqueeney, N. (2012). Tumeke Bro’? A Personal Reflection of a Male White Counsellor <br />
Working with Male Māori Tamariki. New Zea<strong>la</strong>nd Journal of Counselling, 32 (1), 56-‐67. <br />
8. Sue, D. W. Arrendondo, P. and McDavis, R.J. (1992) Multicultural Counselling Competencies and <br />
Standards: A Call to the Profession. Journal of Counselling and Development, 7 (March-‐April) <br />
9. <strong>La</strong>unikari M., Puukari S. (Ed.) (2005) Multicultural Guidance and Counselling. Theoretical <br />
Foundations and Best Practices in Europe. Institute for Educational Research. University of <br />
Jyväskylä. <br />
10. <strong>La</strong>go, C. (2006) Race, Culture and Counselling. The Ongoing Challenge. G<strong>la</strong>sgow: MacGraw Hill. <br />
7 In riferimento al<strong>la</strong> definizione che dà l’ILO (International <strong>La</strong>bour Office) delle condizioni di <strong>la</strong>voro. Esse <br />
riguardano: i sa<strong>la</strong>ri (che possono, o no, soddisfare i bisogni); il tempo dedicato al <strong>la</strong>voro e <strong>la</strong> possibilità di <br />
conciliare <strong>la</strong>voro e famiglia; <strong>la</strong> sicurezza del <strong>la</strong>voro; le condizioni di salute. <br />
44
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
11. Pedersen P.B. (1987) Ten frequent assumptions of cultural bias in counselling. Journal of <br />
Multicultural Counselling and Development. January, 16-‐24. <br />
12. Beneduce R. (2007) Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura. <br />
Roma: Carocci. <br />
13. Oficina Internacional del Trabajo (1987) Introducción a <strong>la</strong>s condiciones y el medio ambiente de <br />
trabajo. Primera edición. Ginebra: ILO. <br />
14. Durie M. (2007) Counselling Māori: Marae Encounters as a Basis for Understanding and <br />
Building Re<strong>la</strong>tionships. New Zea<strong>la</strong>nd Journal of Counselling, 27 (1), 1-‐8. <br />
Riflessioni dal seminario Counselling Humanities <br />
Counselling e sociologia <br />
Anna Tavel<strong>la</strong> <br />
In che re<strong>la</strong>zione sta <strong>la</strong> sociologia con il counselling?<br />
<strong>La</strong> domanda è solo in apparenza semplice, poiché implica una serie di problemi di definizione a monte.<br />
Ogni disciplina è multip<strong>la</strong>, comprende, oltre alle diverse branche e artico<strong>la</strong>zioni interne, le<br />
innumerevoli stratificazioni succedutesi nel corso del<strong>la</strong> sua storia e posizioni teoriche talvolta molto<br />
distanti se non antitetiche. Questo mi ha posto davanti a una difficoltà quando ho tentato di scrivere<br />
poche righe su “counselling e sociologia”.<br />
Avendo <strong>la</strong>vorato per anni nel campo dell’inchiesta di tipo sociologico, mi sembrava evidente il legame<br />
tra approccio sistemico e Sociologia – intesa come studio di gruppi sociali e quindi analisi di partico<strong>la</strong>ri<br />
sistemi umani, delle re<strong>la</strong>zioni all’interno di tali sistemi e tra i sistemi e l’ambiente. Ma al momento di<br />
condividere questa “evidenza” mi sono trovata spiazzata dal<strong>la</strong> necessità di una definizione del<strong>la</strong><br />
disciplina.<br />
Di cosa parliamo quando parliamo di Sociologia?<br />
Posso pensare agli albori del<strong>la</strong> disciplina o alle sue tendenze più recenti e più ibride, al positivismo di<br />
Durkheim e al neopositivismo novecentesco, che hanno dato origine a un corpus di teorie e metodi di<br />
ricerca essenzialmente quantitativi, quanto al <strong>la</strong>voro di Weber e i filoni nati dal<strong>la</strong> sua riflessione<br />
(interazionismo simbolico, etnometodologia, ecc …), che nel<strong>la</strong> prassi si traducono nell’utilizzo di<br />
tecniche di ricerca qualitative e interpretative.<br />
Inoltre è estremamente difficile (e forse non è neppure auspicabile) individuare precisamente i confini<br />
delle discipline del<strong>la</strong> conoscenza. In base a quali criteri uno studioso delle tradizioni popo<strong>la</strong>ri può<br />
ritenersi un antropologo piuttosto che uno storico dell’età contemporanea? Dove passa il discrimine tra<br />
cultural studies, sociologia, etnografia? Se poi ci spostiamo sul piano delle pratiche <strong>la</strong> situazione è<br />
ancora più complessa, poiché esperienze diverse (ad es. interventi di arte pubblica, progetti di sviluppo<br />
di comunità, attività di ricerca/azione) par<strong>la</strong>no spesso lo stesso linguaggio e utilizzano i medesimi<br />
strumenti.<br />
Forse, allora, nel tentare di rintracciare nel mondo delle humanities le linee di pensiero che sostengano<br />
<strong>la</strong> riflessione teorica e <strong>la</strong> pratica del counselling sistemico, può valere <strong>la</strong> pena superare <strong>la</strong> distinzione tra<br />
discipline e ragionare in termini di paradigmi o almeno di incrociare paradigmi e discipline (adottate<br />
sempre come confini provvisori). Riprendo il concetto di paradigma di Kuhn, ovvero di prospettiva<br />
teorica che definisce orientamenti e criteri di scelta per ogni disciplina scientifica Un paradigma è una<br />
struttura concettuale che: a) è condivisa e riconosciuta dal<strong>la</strong> comunità scientifica; b) è fondata sulle<br />
acquisizioni precedenti del<strong>la</strong> disciplina stessa; c) indirizza <strong>la</strong> ricerca in termini di individuazione dei<br />
45
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
fatti rilevanti da studiare, di formu<strong>la</strong>zione di ipotesi e di definizione delle tecniche empiriche<br />
necessarie. Questa caratteristica di accordo rispetto ai paradigmi non è data nelle scienze sociali;<br />
tuttavia, un’ interpretazione del pensiero di Kuhn <strong>la</strong>rgamente condivisa, ritiene applicabile il concetto<br />
di paradigma alle scienze sociali, mantenendone tutte le caratteristiche, ad eccezione del carattere del<strong>la</strong><br />
condivisione. Le scienze sociali sarebbero, in questo senso, multi-paradigmatiche.<br />
Intendendo qui Paradigma non tanto come teoria, ma come visione del mondo, finestra mentale,<br />
griglia di lettura del<strong>la</strong> realtà che precede anche l’e<strong>la</strong>borazione teorica, appare che nel<strong>la</strong> storia delle<br />
scienze sociali ci sono almeno due visioni generali con carattere di paradigma, schematicamente<br />
suddivisibili in “positivismo” e “interpretavitismo”.<br />
Questi due approcci hanno orientato le risposte alle tre questioni di fondo che interessano le diverse<br />
scienze sociali e che sono – a propria volta – profondamente interconnesse: <strong>la</strong> questione ontologica (<strong>la</strong><br />
realtà -sociale- esiste al di fuori dell'osservatore?), quel<strong>la</strong> epistemologica (<strong>la</strong> realtà è conoscibile? Quale<br />
<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione tra studioso e realtà studiata?) e quel<strong>la</strong> metodologica (come può essere conosciuta <strong>la</strong><br />
realtà?).<br />
In estrema sintesi – e semplificando molto – possiamo osservare che, sul piano dell'ontologia, <strong>la</strong><br />
contrapposizione si pone tra realismo (<strong>la</strong> realtà sociale è reale, anche se, nel<strong>la</strong> versione di realismo<br />
critico del Novecento, si considera conoscibile solo in maniera imperfetta e probabilistica) e<br />
costruttivismo / re<strong>la</strong>tivismo (il mondo conoscibile è quello dei significati attribuiti dagli individui, che<br />
variano nel<strong>la</strong> forma e nel contenuto tra individui, gruppi e culture diverse).<br />
A livello epistemologico, <strong>la</strong> distanza si misura tra l'oggettività tipica del primo approccio – che<br />
considera soggetto e oggetto di ricerca come chiaramente distinti e punta a ottenere risultati<br />
probabilisticamente veri – e il secondo, che teorizza l'interdipendenza tra ricercatore e oggetto di<br />
studio e punta al<strong>la</strong> comprensione dei fenomeni.<br />
I differenti approcci epistemologici originano una metodologia sperimentale e descrittiva nel primo<br />
caso, interpretativa nel secondo.<br />
A me sembra che, lungo questa linea di ragionamento, il counselling (per lo meno il counselling a<br />
indirizzo sistemico), con <strong>la</strong> sua attenzione al<strong>la</strong> circo<strong>la</strong>rità (nelle re<strong>la</strong>zioni, nel<strong>la</strong> comunicazione, nel<strong>la</strong><br />
pratica dei counsellor) si ponga in re<strong>la</strong>zione con una visione interpretavistista (o umanista o<br />
soggettivista) del<strong>la</strong> realtà.<br />
Affondando le proprie radici in questa tradizione ampia, variegata, ma senz'altro robusta, il<br />
counselling definisce poi in maniera autonoma, originale e coerente con i propri fini, metodologie,<br />
strumenti e tecniche sue proprie.<br />
46
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
<strong>La</strong> ricetta del<strong>la</strong> narrazione <br />
Miriam Bertuzzi <br />
Tento di fare ordine nei pensieri per cominciare a sti<strong>la</strong>re una lista degli ingredienti che serviranno <br />
a scrivere del mio personale incontro con <strong>la</strong> Narrazione. Frugando in dispensa scelgo cosa <br />
utilizzare… <br />
1 diploma di counselling sistemico <br />
3 anni e mezzo di scuo<strong>la</strong> di specializzazione in psicoterapia sistemico-‐re<strong>la</strong>zionale <br />
circa 60 donne, tutte provenienti dallo studio Diana V <br />
una manciata di intraprendenza <br />
<strong>la</strong> tecnica del Focus Group per impastare il tutto <br />
tanto, tantissimo ascolto ed altrettante numerosissime storie di vita <br />
un pizzico di sobrietà <br />
Promosso e coordinato dal<strong>la</strong> Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori (INT) assieme <br />
all’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), il progetto DIANA5 è uno studio multicentrico che ha <br />
l’obiettivo di valutare se una sana alimentazione ed una adeguata attività fisica possano ridurre il <br />
rischio di recidive nel carcinoma mammario. Dal 2008 ad oggi le donne che sono state reclutate e <br />
partecipano al progetto hanno ricevuto indicazioni alimentari e dello stile di vita, sono state <br />
sottoposte a prelievi di sangue ed esami delle urine, visite per <strong>la</strong> misurazione del peso, del<strong>la</strong> <br />
circonferenza vita, del<strong>la</strong> pressione arteriosa, del polso ecc. All’interno di questo studio, io mi <br />
occupo di condurre Focus Group mensili con le donne che appartengono ai diversi gruppi del<strong>la</strong> <br />
ricerca: intervento, controllo, non eleggibili. <br />
Era il 2010, muovevo i primi nel progetto Diana5 e ancora non avevo le idee chiare rispetto a cosa <br />
poter fare all’interno dello studio; l’idea arrivò sotto forma di dilemma che mi rivolse <strong>la</strong> Dott.ssa <br />
Referente del progetto a Torino: “Ma secondo te, dopo che gli abbiamo insegnato tutte queste <br />
cose, sul<strong>la</strong> cucina, l’attività fisica e tutto il resto… perché non cambiano?” a cui io, forse un po’ <br />
ingenuamente, risposi: “potremmo chiederlo a loro”. Così, in veste di giovane specializzanda, <br />
tirocinante presso il reparto di psiconcologia di uno dei maggiori ospedali del<strong>la</strong> città, e con un <br />
bagaglio in divenire di counsellor sistemico, cominciai a pensare, immaginare e progettare un <br />
percorso di gruppo da proporre, con l’intento di conoscere i motivi che non permettevano alle <br />
partecipanti dello studio di intraprendere il cambiamento auspicato dal protocollo di ricerca e dai <br />
professionisti sanitari (medici, nutrizionisti, biologi, ecc.). <br />
47
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Dall’idea del cosa cucinare, bisognava ora decidere quali ingredienti utilizzare. Rovistai tra <strong>la</strong> teoria <br />
fresca degli anni universitari, pensando a quale strumento di conduzione sarebbe stato più <br />
efficace utilizzare con persone accomunate da una diagnosi di tumore al seno. Il focus group (o <br />
gruppo di discussione) nasce negli Stati Uniti ad opera di due sociologi degli anni ‘40 del <br />
Novecento, K. Levin e R. Merton, è una tecnica qualitativa utilizzata nelle ricerche delle scienze <br />
umane e sociali, in cui un gruppo di persone è invitato a par<strong>la</strong>re, discutere e confrontarsi riguardo <br />
all'atteggiamento personale nei confronti di un tema, di un prodotto, di un progetto, di un <br />
concetto, di una pubblicità, di un'idea o di un personaggio. Le domande sono fatte in modo <br />
interattivo, infatti, i partecipanti al gruppo sono liberi di comunicare con gli altri membri, seguiti <br />
dal<strong>la</strong> supervisione di un conduttore (Corrao, 2005). Pensai che questo sarebbe stato uno <br />
strumento idoneo per poter mettere in circolo motivi, <br />
sensazioni, vissuti e poter dare risposta a <br />
quell’allettante quanto ingarbugliato quesito “Perché <br />
non cambiano”. <br />
Oltre a stabilire quale strumento per l’impasto utilizzare, <br />
avevo certamente bisogno di identificare un contenitore <br />
adatto, dove poter incontrare e fare incontrare le <br />
persone che avrebbero partecipato ai gruppi. Tra le varie <br />
strutture sanitarie disponibili, venne scelto un luogo che <br />
quasi tutte avevano già abitato durante il periodo di <strong>cura</strong>, <br />
per sottoporsi ad esami e trattamenti clinici. Senza <br />
dimenticare di al<strong>la</strong>rgare il campo e tenere in <br />
considerazione anche gli altri “contenitori” di vita: <strong>la</strong> <br />
famiglia, il posto di <strong>la</strong>voro, i luoghi pubblici e privati di <br />
vita quotidiana, dove le partecipanti solitamente <strong>la</strong>sciano <br />
decantare quanto ascoltato negli incontri di Focus Group. <br />
Definiti luoghi e tempi, non restava altro da fare se non proporre <strong>la</strong> ricetta e aspettare di sapere <br />
chi avrebbe deciso di partecipare. Al primo gruppo (settembre 2011-‐ giugno 2012), corrispondente <br />
al gruppo di intervento dello studio, hanno aderito 32 donne, al secondo ( settembre 2012-‐ <br />
giugno2013) un totale di 18 donne provenienti dal gruppo non-‐eleggibili, infine al terzo gruppo, <br />
quello di controllo (gennaio-‐giugno 2014) le iscritte sono state 16. <br />
Le donne iscritte ai gruppi venivano invitate ad un primo incontro di orientamento, re<strong>la</strong>tivo a cosa <br />
sarebbe successo e non successo durante il percorso, e dall’incontro successivo si cominciava ad <br />
amalgamare gli ingredienti. Nei 3 anni consecutivi di <strong>la</strong>voro, l’attività proposta ha previsto incontri <br />
a cadenza mensile di 2 ore, ognuno con un argomento specifico (Alimentazione, Attività Fisica, <br />
Menopausa, Linee guida WCRF, Emozioni, Salute/Ma<strong>la</strong>ttia) che riprendeva ciò che durante lo <br />
studio Diana5 era stato ascoltato e sperimentato dalle partecipanti e che sarebbe servito a <br />
tracciare una sorta di filo narrativo. <br />
<strong>La</strong> vita è un percorso complesso e dinamico, che non può essere rinchiuso in un’unica storia. Il <br />
counsellor ha il compito di aiutare <strong>la</strong> persona a trovare o a ritrovare altri e diversi modi di <br />
raccontarsi, <strong>la</strong>sciando uno spazio narrativo non casuale ma guidato (Bert, Quadrino, 2004). <br />
48
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Partendo da questo presupposto di incertezza e curiosità, non potendo stabilire a priori cosa <br />
narrare, perché il bello di questo <strong>la</strong>voro è proprio non sapere cosa <strong>la</strong> persona che si ha di fronte <br />
racconterà, dirà o deciderà di non dire affatto, è stato però doveroso scegliere come mostrarmi <br />
dinnanzi al<strong>la</strong> narrazione, quali ingredienti di me portare nel <strong>la</strong>voro di conduzione del gruppo, quali <br />
delle tante teorie apprese, dei libri letti, degli insegnamenti dei maestri ascoltati. Ho scelto degli <br />
atteggiamenti, proposti ed utilizzati in maniera differente per ogni singolo gruppo ed ogni <br />
specifico incontro. Il rispetto innanzitutto, per le storie di vita portate dalle persone; stavo <br />
chiedendo alle donne dei gruppi di rive<strong>la</strong>re una parte intima di sé, di sve<strong>la</strong>re perché non potevano, <br />
forse non volevano, intraprendere un cambiamento, chi e che cosa faceva in modo che <strong>la</strong> <br />
situazione restasse immutata, anche ora che il tumore si era insinuato nelle loro vite e che lo <br />
studio Diana5 offriva <strong>la</strong> possibilità in qualche modo di allontanare il pericolo di una ricaduta. <br />
Il sistema ha in sé gran parte delle informazioni per cambiare, e non è predicibile quando, quanto <br />
e come cambierà (Boscolo, Bertrando, 1993). Oltre al rispetto, scelsi un atteggiamento di libertà: <br />
mi dissi che non potevo “control<strong>la</strong>re” il cambiamento ma soltanto permettere alle persone di <br />
par<strong>la</strong>rne, condividerlo attraverso <br />
narrazioni e racconti autobiografici. <br />
Insieme, in gruppo, è stato possibile <br />
mettere un po’ di ordine nel vissuto <br />
narrato dalle donne, fino ad arrivare al <br />
momento conclusivo in cui si inforna il <br />
composto e gli ingredienti avanzati, le <br />
bucce, gli scarti trovano <strong>la</strong> loro <br />
sistemazione in dispensa per una <br />
prossima ricetta, oppure <br />
nell’immondizia perché non più <br />
utilizzabili, non più voluti o desiderati. <br />
Le storie consentono alle persone di <br />
collegare aspetti del<strong>la</strong> loro esperienza <br />
lungo <strong>la</strong> dimensione temporale. <br />
Sembra che non ci siano altri <br />
meccanismi per <strong>la</strong> strutturazione <br />
dell’esperienza che catturino nello <br />
stesso modo il senso del tempo <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
vissuto, o che possano rappresentare <br />
in modo adeguato il senso del tempo <br />
vissuto (Ricoeur, 1983). <strong>La</strong> narrazione <br />
ha permesso di ripensare al<strong>la</strong> propria vita ed immaginare cambiamenti possibili. Così Beatrice si <br />
è iscritta ad un corso di ginnastica in ospedale, anche se questo ha obbligato il figlio ad assumere <br />
una baby-‐sitter; Marta ha cominciato a cucinare i legumi, sfidando i gusti del<strong>la</strong> famiglia; Valeria <br />
non ha più toccato i dolci, spostando gli incontri con le amiche dall’ora del tè al<strong>la</strong> tarda mattinata; <br />
Cristina ha ripreso a correre dopo il <strong>la</strong>voro, e ancora si domanda perché aveva smesso di farlo; <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Barbara ha ottenuto un contratto di <strong>la</strong>voro part-‐time, così ora potrà avere più tempo da dedicare <br />
al<strong>la</strong> cucina sana (così <strong>la</strong> definisce); Luisa si è trasferita in Francia e ogni tanto ci manda i suoi saluti. <br />
Questi e altri cambiamenti abbiamo visto succedersi dal primo degli incontri di gruppo, di volta in <br />
volta, fino all’ultimo. <br />
Gli altri sono lo specchio in cui guardarsi e capire chi si è (Kapuscinski, 2009), attraverso il <br />
confronto e l’ascolto delle storie delle altre donne, si è dato inizio al<strong>la</strong> fase del<strong>la</strong> lievitazione, <br />
arricchendosi di volta in volta di somiglianze e differenze, punti di vista ed opinioni in accordo o <br />
contrasto, semplici proposte e complessi traguardi da voler raggiungere, provocazioni e parole <br />
affettuose, sorrisi, <strong>la</strong>crime, e tanto altro ancora. In uno scambio fitto e ramificato di parole, non è <br />
mai mancato il desiderio di conoscere ancora e ancora <strong>la</strong> compagna seduta accanto, e dunque sé <br />
stesse attraverso l’altra. <br />
Ancora oggi continuo a non saper rispondere al<strong>la</strong> domanda iniziale “perché non cambiano”, ma <br />
quello che ho imparato in questi anni mi ha permesso di vedere come <strong>la</strong> narrazione possa <br />
diventare catalizzatore del cambiamento, permettendo in questo caso specifico alle donne del <br />
progetto Diana5 di vedere i mondi possibili che ancora avevano di fronte a sé e scegliere se e <br />
quale strada percorrere, sapendo che ci sarebbe stato un gruppo a sostenerle e rincuorarle o <br />
semplicemente ascoltarle. <br />
Ingredienti semplici e genuini hanno permesso di realizzare una ricetta croccante al punto giusto, <br />
dal<strong>la</strong> forma imperfetta e molto, molto saporita. Non credo esista una ricetta replicabile e <br />
nemmeno mi auguro di trovar<strong>la</strong> o che voi <strong>la</strong> troviate, <strong>la</strong> sfida resta nel saper creare dalle parole <br />
una narrazione che abbia un suono piacevole per chi <strong>la</strong> narra e che possa coinvolgere e incuriosire <br />
il terapeuta, in primis, il gruppo intorno che si nutre delle parole messe in circolo e magari qualcun <br />
altro ancora (professionisti sanitari, familiari, colleghi di <strong>la</strong>voro, amici). <br />
Concludo con l’immagine di un cerchio che mai si chiude, che possa e sappia accogliere una <br />
persona, una sedia, una narrazione che farà <strong>la</strong> differenza. <br />
Bibliografia <br />
- Giorgio Bert, Silvana Quadrino, Il counselling sistemico, Edizioni Change, 2004 <br />
- Luigi Boscolo, Paolo Bertrando, I tempi del tempo. Una nuova prospettiva per <strong>la</strong> consulenza <br />
e <strong>la</strong> terapia sistematica, Bol<strong>la</strong>ti Boringhieri, 1993 <br />
- Sabrina Corrao, Il focus group, Mi<strong>la</strong>no, FrancoAngeli, 2005 <br />
- Ryszard Kapuscinski, L’altro, Mi<strong>la</strong>no Feltrinelli, 2009 <br />
- Paul Ricoeur, Time and Narrative, Chicago, University of Chicago Press, 1983 <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Ci guarirà <strong>la</strong> musica? No, ma... <br />
Massimo Schinco <br />
<strong>La</strong> vita mi ha messo in una fortunata condizione. Esercito con passione <strong>la</strong> professione di psicologo <br />
psicoterapeuta e posso anche dedicarmi, seppur meno di quanto vorrei, all’altra mia passione, <br />
quel<strong>la</strong> per <strong>la</strong> musica; suono infatti il violino in una orchestra amatoriale, l’Orchestra Sinfonica <br />
Amatoriale Italiana: una bel<strong>la</strong> e bizzarra realtà costituita per tre quarti di sogno allo stato puro e <br />
per il resto da una ardita misce<strong>la</strong> di buon senso comune, incoscienza, tolleranza reciproca e buona <br />
volontà. Grazie anche al<strong>la</strong> partecipazione al<strong>la</strong> vita dell’Orchestra le due passioni si sono sempre più <br />
intersecate; anzi, io le vivo come due manifestazioni vitali che, pur nelle grandi differenze, hanno <br />
radici comuni. Benché, come tutte le radici, se ne stiano sotto terra e quindi ben nascoste allo <br />
sguardo diretto, da anni mi dedico ad investigare il sottofondo comune che lega tra loro il pensiero <br />
musicale, quello onirico e <strong>la</strong> capacità di cambiamento creativo che gli esseri umani in difficoltà <br />
sono capaci di manifestare. E’ di ciò che voglio brevemente par<strong>la</strong>re, ma non farò in questa <br />
occasione ricorso al<strong>la</strong> disamina di ipotesi, teorie e narrazioni cliniche. Mi baserò viceversa sul <br />
condividere con i lettori pochi ma significativi dati esperienziali tratti da come vivo io <strong>la</strong> pratica <br />
musicale, nel<strong>la</strong> cornice del<strong>la</strong> mia identità professionale di psicoterapeuta e delle riflessioni che <br />
essa costantemente mi suscita. <br />
Prove <br />
Le prove sono una cosa, l’esecuzione in pubblico un’altra. Anche come spettatore, non nego che a <br />
volte, se posso scegliere tra l’assistere ad una prova aperta o ad una rappresentazione o concerto, <br />
preferisco <strong>la</strong> prova aperta. Se poi <strong>la</strong> musica <strong>la</strong> faccio io, <strong>la</strong> cosa curiosa è che mi diverto in prova <br />
proprio per gli stessi motivi per cui, fino a qualche tempo fa, in prova soffrivo parecchio. E’ difficile <br />
spiegare questi sentimenti con un ragionamento e bisogna affidarsi a un linguaggio <br />
prevalentemente evocativo. Come diceva il Maestro Celibidache 8 , <strong>la</strong> prova è il tempo dei “no”; <br />
un tempo in cui l’intuizione e l’ascolto interno sono costantemente affiancati dal pensiero critico, <br />
dal<strong>la</strong> riflessione, dall’emersione di problemi e dal<strong>la</strong> ricerca delle soluzioni. Naturalmente il tutto <br />
avviene nel vivo di re<strong>la</strong>zioni attuali e contingenze concrete. Al di là di come ti senti tu in quel <br />
momento ci sono tante incognite ... Magari qualcuno in orchestra ha appena subito un tracollo <br />
sentimentale o <strong>la</strong>vorativo. Magari il direttore ha mal di denti, oppure mancano delle parti … Cose <br />
che possono capitare dovunque, naturalmente. Il guaio è che in orchestra <strong>la</strong> presenza e <strong>la</strong> <br />
disponibilità psicologica dovrebbero essere totali e incondizionate. <strong>La</strong> prova ha quindi un carattere <br />
transizionale, è un andirivieni continuo tra il mistero del<strong>la</strong> musica vissuta come fatto interiore e le <br />
problematiche terra-‐terra (di ogni genere e dimensione) legate al produrre musica come fatto <br />
fisico nel nostro solido mondo di cose; è un evento mondano, in cui ci si butta a capofitto <br />
nell’irragionevole ma necessario tentativo di osservare e ascoltare il mistero dall’esterno –– ma un <br />
mistero non può essere avvicinato dal di fuori se non illudendosi; difatti l’illusione è così totale che <br />
il pensiero riflessivo può permettersi di rimanere perfettamente lucido. <br />
8 Sergiu Celibidache (1912 – 1996), direttore d’orchestra, compositore e insegnante rumeno. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Credo che sia un fenomeno che manifesta <strong>la</strong> quintessenza di ciò che gli orientali chiamano “<strong>la</strong> rete <br />
di Maya”. Per questo le prove, come <strong>la</strong> vita in generale, possono essere molto frustranti, a volte <br />
noiose o sgradevoli, ma anche molto, molto divertenti. Quando <strong>la</strong> prova è finita e si torna a casa, il <br />
senso di discontinuità che si avverte tra l’esperienza musicale e <strong>la</strong> quotidianità ordinaria è ridotto <br />
– ciò che si è fatto non è poi così diverso dallo studiare per conto proprio. Infatti a volte, per conto <br />
mio, faccio proprio così: tra una seduta e l’altra studio un poco lo strumento, oppure <strong>la</strong>scio il <br />
computer su cui stavo scrivendo, studio un po’ e poi ci ritorno. <br />
Concerto <br />
Il concerto è un altro paio di maniche. Celibidache, che ho menzionato sopra, concludeva il suo <br />
discorso sui “no” tipici delle prove con <strong>la</strong> necessità di dire “sì” in concerto. Che cosa significa e <br />
che cosa implica questa affermazione? Anche qui dobbiamo affidarci a un linguaggio <br />
prevalentemente evocativo. Per usare termini che a molti sono familiari, intanto il “dire sì” <br />
implica un cambiamento nel<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione: <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione diventa complementare, cioè asimmetrica, e <br />
chi dice “sì” sta nel<strong>la</strong> posizione “down”, accetta di farsi definire da un interlocutore esterno. <br />
Questo interlocutore esterno si manifesta attraverso <strong>la</strong> musica stessa. Tutto ciò che è stato fatto <br />
in prova trova il suo senso, e il senso sta nell’aver cercato le migliori condizioni disponibili, lì e in <br />
quel momento, per <strong>la</strong>sciarsi rapire senza farsi portare via, in altre parole senza dissociarsi del <br />
tutto, in quanto il <strong>la</strong>sciarsi definire non richiede una risposta passiva, bensì personale, originale e <br />
consapevole. Il corpo infatti è ben presente, collegato al meglio delle sue possibilità con <br />
l’ambiente fisico, fatto di oggetti, di materiali, di altri corpi e condizioni fisiche che costituiscono <br />
l’irripetibile unicità di “quel<strong>la</strong>” esecuzione. <br />
Eppure il corpo – quando si suona bene – nel suo dire “sì” sta obbedendo a qualcosa che non è il <br />
solito, consueto modo di pensare e stare al mondo. Non è qui in discussione <strong>la</strong> definizione precisa <br />
di ciò che si situa a monte e a valle dell’atto del suonare, rimane il fatto che il fare musica ha <br />
caratteristiche trascendentali, generatrici di discontinuità. Quanto più il musicista è presente nel <br />
suo suonare, tantomeno è catturato dall’immagine riflessa del suo Io. Il suo agire apre un varco <br />
nel<strong>la</strong> continuità del<strong>la</strong> comune esperienza condivisa ed egli, compatibilmente con le sue possibilità <br />
tecniche e musicali, mette a disposizione del pubblico ciò che sta a monte di questo varco. Si <strong>la</strong>scia <br />
attraversare; così come un corso d’acqua nell’attraversare <strong>la</strong> terra ferma col tempo <strong>la</strong> model<strong>la</strong>, <strong>la</strong> <br />
muta, e <strong>la</strong> suddivide, anche il corso d’acqua scorre a seconda delle caratteristiche del terreno che <br />
attraversa. Che cosa c’è a valle? Che cosa riceve il pubblico? Non credo che susciterà molte <br />
dispute filosofiche, né guerre di religione, seguire in questo caso il “dottore angelico” quando <br />
sentenzia che “Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur” 9 . Qualcuno nel pubblico farà una <br />
bel<strong>la</strong> e profonda esperienza musicale, qualcun altro si farà una bel<strong>la</strong> dormita, qualcun altro ancora <br />
si commuoverà fino alle <strong>la</strong>crime; forse una gentile fanciul<strong>la</strong> si <strong>la</strong>scerà trasportare in giro per i <br />
mondi insieme ai suoi sogni più segreti, mentre il giovanotto che l’ha accompagnata si starà <br />
chiedendo se è arrivato il momento buono – vista l’atmosfera – per farsi più accosto, stringerle <br />
una mano e vedere che cosa succede. <br />
Se il ritorno a casa dalle prove non ha qualità speciali, oltre a quelle ordinarie del<strong>la</strong> soddisfazione o <br />
del suo opposto, del<strong>la</strong> stanchezza più o meno accentuata, del buono o del cattivo umore, ben <br />
diverso è il ritorno a casa dopo il concerto o <strong>la</strong> rappresentazione. <strong>La</strong> nostalgia del misterioso <br />
legame sperimentato suonando si trasforma in fratel<strong>la</strong>nza, se condivisa, e viceversa si volge in <br />
9 “qualsiasi cosa sia ricevuta, essa è ricevuta secondo le condizioni del ricevitore” San Tomaso d’Aquino, Summa <br />
Theologiae, 1a, q. 75, a. 5; 3a, q. 5. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
tossico se vissuta nell’iso<strong>la</strong>mento. Spettri di solitudine e tristezza sono in agguato, ed è molto <br />
meglio non rimanere soli. <br />
Musica e verità <br />
Da quanto ho cercato di tratteggiare fino adesso dovrebbe discendere con una certa chiarezza che <br />
non necessariamente <strong>la</strong> produzione di suoni più o meno organizzati (anche se tecnicamente e <br />
commercialmente ciò può comunque essere chiamato “musica”) coincide con <strong>la</strong> produzione e con <br />
l’esperienza autentica del<strong>la</strong> musica. Abbiamo musica quando questo “varco” si apre e l’ordine del <br />
mondo in cui i suoni vanno a fluire subisce una qualche trasformazione, più o meno duratura. <br />
Questo è ciò che i musicisti, e anche gli appassionati più sensibili, avvertono istintivamente come <br />
rapporto tra <strong>la</strong> musica e <strong>la</strong> verità, con tutti i problemi e i guai che si possono creare quando si par<strong>la</strong> <br />
di “verità”. Ad esempio, per Arturo Toscanini <strong>la</strong> musica di Mahler è prevalentemente fasul<strong>la</strong>, per <br />
Leonard Bernstein viceversa essa è tragicamente autentica in rapporto ai suoi tempi … Però, al di <br />
là delle differenze di giudizio sui singoli casi, i musicisti sono generalmente sensibili, anzi <br />
ipersensibili rispetto al tema del<strong>la</strong> contraffazione. Per fare un altro esempio più piccolo ma <br />
attuale, molti avranno presenti i durissimi giudizi di Uto Ughi su Giovanni Allevi in quanto pianista <br />
e compositore; ricorderanno che detti giudizi vanno oltre i confini del pensiero critico in campo <br />
musicale. Hanno una componente di irriducibile rifiuto viscerale. <br />
Il comune umano <br />
Questo tema del<strong>la</strong> verità, o dell’autenticità in musica, ci avvicina al fuoco principale del mio breve <br />
scritto. <strong>La</strong> musica è musica quando riapre il varco -‐ varco che così facilmente e anche quasi <br />
necessariamente si chiude -‐ da cui fluisce il sentimento di un “comune umano”; di questo <br />
“comune umano” io mi concentro su tre aspetti: il primo è il far parte di un sistema di tensioni, <br />
esistenziali più e prima che emotive; il secondo è il rapporto con il dolore e il terzo è <br />
l’incompletezza del<strong>la</strong> condizione umana; gioiosa o triste, compiuta o incompiuta nel<strong>la</strong> forma, <br />
drammatica o serena che sia, se non sento risuonare questi tre elementi non sento umanità nel<strong>la</strong> <br />
musica, oppure <strong>la</strong> sento contraffatta. Sono dunque i musicisti simili a dei mistici? Sì e no. Sì perché <br />
come i mistici osano, dopo aver percorso oscuri sentieri, mettere il piede su quel<strong>la</strong> soglia che è <br />
stata pietrificata dal dolore (ricordate quel<strong>la</strong> poesia meravigliosa di Georg Trakl su cui si soffermò <br />
perfino <strong>la</strong> cattiva coscienza di Heidegger? <strong>La</strong> trovate in nota 10 ). Questo roccioso e arido territorio <br />
dell’anima è descritto con accenti ineguagliabili dal monaco trappista e scrittore Thomas Merton <br />
nel<strong>la</strong> sua famosa “lettera sul<strong>la</strong> vita contemp<strong>la</strong>tiva”: <br />
10 Georg Trakl -‐ Una sera d'inverno <br />
Quando <strong>la</strong> neve cade al<strong>la</strong> finestra <br />
A lungo risuona <strong>la</strong> campana del<strong>la</strong> sera, <br />
Per molti <strong>la</strong> tavo<strong>la</strong> è pronta <br />
E <strong>la</strong> casa è tutta in ordine. <br />
Alcuni nel loro errare <br />
Giungono al<strong>la</strong> porta per oscuri sentieri. <br />
Aureo fiorisce l'albero delle grazie <br />
Dal<strong>la</strong> fresca linfa del<strong>la</strong> terra. <br />
Silenzioso entra il viandante; <br />
Il dolore ha pietrificato <strong>la</strong> soglia. <br />
Là risplende in pura luce <br />
Sopra <strong>la</strong> tavo<strong>la</strong> pane e vino. <br />
In Heidegger, M.: In cammino verso il linguaggio, trad. it. di Alberto Caracciolo, Mi<strong>la</strong>no, Mursia, 1998 <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
“Sono stato chiamato a esplorare un’area deserta del cuore dell’uomo in cui le spiegazioni non <br />
bastano più, e nel<strong>la</strong> quale si impara che solo l’esperienza conta. Un’arida, os<strong>cura</strong>, rocciosa zona <br />
dell’anima, talvolta illuminata da strani fuochi e abitata da spettri, che l’uomo evita <br />
ac<strong>cura</strong>tamente, tranne che nei suoi incubi. E in quest’area ho imparato che non si può veramente <br />
conoscere <strong>la</strong> speranza se non si è scoperto quanto <strong>la</strong> speranza sia simile al<strong>la</strong> disperazione.” 11<br />
Gli artisti sono al <br />
contempo del tutto <br />
diversi dai mistici perché <br />
il loro sentiero va in una <br />
direzione quasi opposta. <br />
Mentre il mistico <br />
percorre un sentiero di <br />
purificazione e <br />
annul<strong>la</strong>mento di sé, <br />
l’artista diventa maestro <br />
nell’arte dell’illusione. <br />
Basteranno pochi, <br />
piccolissimi esempi e ciò <br />
si comprenderà benissimo. Dal<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> lo spettacolo è meraviglioso, sognante e multicolore, ma <br />
come è diverso il palcoscenico se è osservato da dietro le quinte, in mezzo ad assi di legno, chiodi <br />
e nastri adesivi … E mentre il pubblico all’opera è turbato e commosso nel veder morire un tiranno <br />
grazie all’amoroso sacrificio di un innocente, nel<strong>la</strong> buca d’orchestra una tromba sputa senza <br />
ritegno saliva sul<strong>la</strong> testa del musicista seduto davanti, e il violinista non riesce a smettere di dar <br />
gomitate al ricciolo di un violino al<strong>la</strong> sua destra ... e così via. Eppure l’attraversamento di questa <br />
macchinosa illusione conduce i suoi protagonisti oltre, là dove l’essere umano scopre se stesso <br />
nel<strong>la</strong> sua nudità re<strong>la</strong>zionale e complementare, si scopre cioè come essere umano interpel<strong>la</strong>to. <br />
Dare un nome o una fisionomia al misterioso interpel<strong>la</strong>nte, bene, questa è una faccenda <br />
impegnativa e le risposte sono le più diverse; ma l’artista iso<strong>la</strong>to non si dà, non sussiste, per <br />
quanto dall’esterno a volte ciò possa essere difficile da cogliere. L’artista – al di là del livello cui <br />
giungerà <strong>la</strong> sua arte – è tale nel momento in cui raccoglie questo richiamo e si organizza per <br />
rispondere, come ho già detto sopra, nel modo migliore, più consapevole e personale di cui è <br />
capace, e mettendo questa risposta a disposizione degli altri. <br />
<strong>La</strong> musica <strong>cura</strong>? <br />
Ed eccoci al dunque. Ci salverà <strong>la</strong> musica? No, potrà darci forza ma non ci salverà. Ci guarirà? No, <br />
lenirà senz’altro i nostri dolori, ma non li guarirà. Il suo fascino, <strong>la</strong> sua capacità di abduzione sono <br />
dunque poco più che un’abile illusione? No, sono anche una potente illusione, ma non solo. Pur <br />
restando fermi sul fatto che <strong>la</strong> responsabilità del ricevente è decisiva, <strong>la</strong> musica vera è sempre una <br />
grande opportunità. Essa ci rimette “a posto”, e il posto è quel luogo, luogo dell’anima o luogo <br />
sociale, o entrambi, dove tocca rispondere facendosi sentire, e tocca anche mettersi d’accordo. <br />
Il potenziale positivo del<strong>la</strong> musica sta dunque in questo ri-‐accordarci con quelli che chiamerei “i <br />
necessari presupposti”. Presupposti che stanno nell’abbandonare l’illusione del<strong>la</strong> propria <br />
11 in Montanari, A.: Un viandante di regni. Thomas Merton, Abbazia San Benedetto, Seregno (Mi<strong>la</strong>no), pag. 80. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
compiutezza e nel <strong>la</strong>sciarsi interpel<strong>la</strong>re, nel saper dare una risposta attuale, unica, personale, di <br />
cui si è responsabili, e nel dar<strong>la</strong> insieme ad altri. Questo ha senz’altro a che vedere, e non poco, <br />
con le re<strong>la</strong>zioni di <strong>cura</strong>. Personalmente non vedo autentica <strong>cura</strong>, non vedo sviluppo di resilienza, <br />
non vedo <strong>la</strong> tensione a vivere buone re<strong>la</strong>zioni senza questi presupposti. A volte, poiché i sistemi <br />
viventi tendono a guarirsi da sé, il solo rimettersi in sintonia con questi presupposti apre <strong>la</strong> strada <br />
a processi di guarigione spontanea, o comunque facilita altri processi di guarigione in atto, o <br />
semplicemente rimuove le condizioni che li ostaco<strong>la</strong>vano. In questo senso, quindi, i linguaggi <br />
artistici e quelli terapeutici hanno delle aree di sovrapposizione, si basano su presupposti che in <br />
parte sono comuni. <br />
Ma <strong>la</strong> musica rimane musica, non è in se stessa né medicina né terapia né magia né educazione. <br />
Anzi, quanto più ci avvicineremo ad essa “solo” in quanto musica tanto più essa metterà a nostra <br />
disposizione il potenziale <strong>cura</strong>tivo ed educativo del suo linguaggio. Come tale, esso può anche <br />
essere utilizzato in una re<strong>la</strong>zione di <strong>cura</strong> se i partecipanti ci si trovano bene. Ci si esprime con il <br />
linguaggio verbale, con quello del corpo, con quello delle immagini, perché non con quello <br />
musicale all’interno di una re<strong>la</strong>zione di aiuto? Bisogna essere in grado di farlo, naturalmente, e a <br />
volte – non tante volte – l’ho visto fare egregiamente; io stesso lo faccio e non sta a me, ora, <br />
giudicare se bene o male. Però mi sembra pericoloso confondere indebitamente i due ambiti, <br />
cercando in modo ostinato di “piegare” <strong>la</strong> musica al<strong>la</strong> <strong>cura</strong> e viceversa, magari senza una esigente <br />
e faticosa preparazione. Se lo si fa i rischi principali a mio avviso sono due. Il primo, quello più <br />
ampiamente diffuso, è di vendere o offrire paccottiglia che <strong>la</strong>scia semplicemente il tempo che <br />
trova, non essendo né autentica musica né autentica <strong>cura</strong>. Il secondo, più raro ma non per questo <br />
meno reale, è quello di mettersi a giocherel<strong>la</strong>re e vociare scioccamente davanti alle porte del <br />
sacro. Le quali potrebbero anche aprirsi, e a quel punto sarebbe ben difficile distinguere chi e che <br />
cosa entrerà o uscirà prima che esse si richiudano. <br />
Bibliografia di riferimento <br />
Barenboim, D.: <strong>La</strong> musica sveglia il tempo. Feltrinelli, Mi<strong>la</strong>no, 2007 <br />
Bernstein, L.: The Unanswered Question -‐ Six Talks at Harvard, 1973. Kultur International Films, NJ <br />
USA. <br />
Bonhoeffer, D.: Atto ed essere -‐ Filosofia trascendentale ed ontologia nel<strong>la</strong> teologia sistematica. <br />
Queriniana, Brescia, 1993 – 2005 (Akt und Sein. Transzendentalphylosophie und Ontologie in der <br />
systematischen Theologie). Edizione it. a <strong>cura</strong> di Alberto Gal<strong>la</strong>s <br />
Cheah, E. An Orchestra Beyond Borders: Voices of the West-‐Eastern Divan Orchestra. Verso, <br />
London – New York, 2009. <br />
Guardini, R.: Ansia per l’uomo II. Morcelliana, Brescia, 1969 (Sorge um den Menschen -‐ Band II <br />
Werkbund Ver<strong>la</strong>g – Wurzburg, 1966) Traduzione dal tedesco di Albino Babolin. <br />
Marcel, G.: Homo Viator – Prolegomeni ad una metafisica del<strong>la</strong> speranza. Bor<strong>la</strong>, Roma, 1980. <br />
(Homo Viator, Aubier, Editions Montaigne, Paris, 1945). Trad it. di Luigi Castiglione e Mario Rettori. <br />
Schinco, M.: The Composer’s Dream – Essays on Dreams, Creativity and Change. Pari Publishing, <br />
Pari, 2011. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Un ginecologo umanista <br />
Stefano Beccastrini <br />
Differentemente dai libri – sia di letteratura che di saggistica -‐ nelle cui pagine iniziali l’evento si <br />
presenta piuttosto di frequente, è invece abbastanza raro che i film, nei titoli di testa o in quelli di <br />
coda, riportino una dedica a questa o quel<strong>la</strong> persona. Personalmente ricordo, in quanto era un <br />
mio caro amico, che L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci era dedicato proprio a <br />
Enzo Ungari, che al<strong>la</strong> sceneggiatura dell’opera stava partecipando proprio quando <strong>la</strong> morte lo <br />
colse troppo precocemente nel 1985. Di un’altra dedica cinematografica mi ricordo assai bene: <br />
quel<strong>la</strong> che apre <strong>La</strong> gente mormora (People will talk), 1951, regia di Joseph L. Mankiewicz, uno dei <br />
più colti e intelligenti cineasti che Hollywood abbia mai avuto. Come non restare colpiti da un film <br />
che si apre con una didascalia che, tra altre cose di cui diremo in seguito, afferma: “<strong>La</strong> nostra <br />
storia…tratta del<strong>la</strong> medicina…però, umilmente grati, <strong>la</strong> dedichiamo a colui che ha ispirato l’uomo <br />
nel<strong>la</strong> sua perenne battaglia contro <strong>la</strong> morte e senza il quale essa non è mai vinta: il paziente”? <br />
Proprio di tale film vorrei par<strong>la</strong>re in questo numero del<strong>la</strong> rivista, in quanto esso narra le vicende di <br />
un medico come pochi capace di utilizzare sapientemente <strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> quali metodi <br />
fondamentali del proprio mestiere di terapeuta del prossimo, di professionista dell’aiuto, di <br />
alleviatore del dolore altrui. <br />
Il film è ispirato a un’opera teatrale, intito<strong>la</strong>ta Frauenarzt Dr Med Hiob Praetorius (1934) di Curt <br />
Goetz. Questi fu un celebre drammaturgo, romanziere, attore tedesco. Sulle scene era sempre <br />
affiancato, nel ruolo di primadonna, dal<strong>la</strong> moglie Valerie von Mertens. Nel 1939, durante un <br />
viaggio in America, i due decisero di non tornare nel<strong>la</strong> Germania hitleriana e, posti sotto contratto <br />
dal<strong>la</strong> MGM, <strong>la</strong>vorarono per alcuni anni ad Hollywood. Tornati in Europa dopo <strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> guerra, <br />
vissero in Svizzera. Lo stesso Goetz diresse nel 1950, coadiuvato da Karl Peter Gillmann, <strong>la</strong> prima <br />
versione filmica del<strong>la</strong> sua vecchia ma non troppo invecchiata commedia (lui stesso interpretando il <br />
protagonista mentre Valerie von Mertens impersonava <strong>la</strong> paziente che il dottor Praetorius finisce <br />
con lo sposare). Il film, di produzione germanica e girato a Gottinga, si intitolò Frauenarzt Dr <br />
Praetorius (Il ginecologo dottor Praetorius). L’anno successivo, Joseph Mankiewicz girò ad <br />
Hollywood, e dunque in inglese, una nuova versione del<strong>la</strong> commedia teatrale di Getz ossia, <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
appunto, People will talk (l’unica a circo<strong>la</strong>re, doppiata, anche in Italia). Infine, nel 1965, Kurt <br />
Hoffmann girò, di nuovo in tedesco, una terza versione il cui titolo riprendeva par pari quello <br />
dell’originale teatrale. <br />
Joseph Mankiewicz, all’epoca in cui realizzò il film tratto da Goetz, aveva <br />
poco più di quarant’anni, essendo nato nel 1909 in Pennsilvanya, da una <br />
famiglia di origini ebraico-‐po<strong>la</strong>cco-‐germaniche. In gioventù studiò <br />
medicina ma, invece di una <strong>la</strong>urea, ne trasse soltanto una robusta <br />
antipatia verso i medici quali erano formati e sfornati dall’accademia dei <br />
suoi tempi (forse anche dei nostri, chissà). Nel film di cui stiamo <br />
trattando, questa brutta esperienza si sentirà eccome. Poi Mankiewicz <br />
finì a Hollywood, inizialmente quale autore di dialoghi (il nuovo cinema <br />
sonoro, negli anni Trenta, aveva bisogno di gente che sapesse scrivere <br />
dialoghi d’una qualche attendibilità, e non soltanto grammaticale). Nel <br />
1946 esordì nel<strong>la</strong> regia, filmando alcuni capo<strong>la</strong>vori quali – per i miei <br />
gusti di mankiewicziano eccentrico – Il castello di Dragonwick (il primo, <br />
appunto del 1946), Il fantasma e <strong>la</strong> signora Muir, (1947), Lettera a tre mogli (1949), Eva contro <br />
Eva (1950). Poi realizzò il film sul dottor Praetorius (a mio avviso tra i suoi più belli, ma pochi sono <br />
d’accordo con me) e poi ancora tanti altri capo<strong>la</strong>vori ma anche con alcuni disastrosi fallimenti, il <br />
più famoso dei quali fu Cleopatra (1963). Di <strong>La</strong> gente mormora scrisse personalmente, e <br />
interamente, <strong>la</strong> sceneggiatura. Evidentemente, era una storia che toccava corde profonde dentro <br />
<strong>la</strong> sua mente e dentro il suo cuore. Egli diceva di sé, sottolineando l’importanza che assegnava <br />
nelle proprie opere al buono, ma anche al mistificante, uso del linguaggio, del<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong>: “Sono un <br />
eretico…I miei film par<strong>la</strong>no un sacco… Al meglio, spero di essere stato … un abile e forse tagliente <br />
commentatore dei modi e dei costumi del<strong>la</strong> nostra società. Al peggio, un descrittore… dei vari <br />
aspetti del<strong>la</strong> condizione umana e del background sociale attorno ad essa. Nei casi ancora peggiori, <br />
una <strong>la</strong>gna”. Chi non vorrebbe, qualsiasi mestiere faccia medico compreso, potersi ricordare in tal <br />
modo presso i posteri? <br />
Nel maggio del 1950, l’anno precedente al<strong>la</strong> realizzazione di <strong>La</strong> <br />
gente mormora, Mankiewicz era all’apice del successo, tanto da <br />
venire eletto presidente del sindacato dei registi cinematografici <br />
americani (<strong>la</strong> Screen Directors Guild). Si era in un momento assai <br />
drammatico del<strong>la</strong> storia americana del 900 e le conseguenze si <br />
facevano sentire anche nel<strong>la</strong> città del cinema. Di<strong>la</strong>gava <strong>la</strong> psicosi <br />
maccartista, <strong>la</strong> cosiddetta “caccia alle streghe”: un gruppo di cineasti <br />
(i cosiddetti “dieci di Hollywood”), accusati di simpatie comuniste, <br />
finirono addirittura in carcere. Durante un soggiorno di Mankiewicz <br />
in Europa, quel torvo reazionario – seppure geniale uomo di cinema <br />
– che fu Cecil B. De Mille, cercò di imporre a tutti i membri del <br />
sindacato una dichiarazione di anticomunismo. Mankiewicz, una <br />
volta tornato e saputo del<strong>la</strong> brutta faccenda, si arrabbiò molto, censurando il comportamento di <br />
De Mille. Questi si vendicò, imponendo <strong>la</strong> convocazione di un’assemblea in cui il presidente fosse <br />
costretto alle dimissioni. Nel corso del<strong>la</strong> riunione, cui parteciparono oltre cinquecento registi <br />
cinematografici, si discusse a lungo, oltre sette ore, ma senza riuscire ad approdare a una <br />
soluzione accettabile da tutti. Al<strong>la</strong> fine fu il grande John Ford, un conservatore illuminato e di <br />
si<strong>cura</strong> fede democratica, a sbloccare <strong>la</strong> situazione. Disse all’incirca (per fare scena, poiché tutti <br />
57
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
sapevano chi fosse): “Mi chiamo John Ford e faccio western. Sarebbe l’ora di confermare quel<strong>la</strong> <br />
brava persona del nostro presidente e di andarcene finalmente tutti a letto”. Così avvenne e <br />
Mankiewicz uscì a testa alta dallo stupido “processo” che si era tentato di mettere in piedi contro <br />
di lui. Lo stato d’animo con cui visse quei momenti si ritrova, tuttavia, e ciò dona al film una <br />
partico<strong>la</strong>re connotazione emotiva, nell’opera che diresse l’anno successivo. <br />
Questa volta l’ambiente non è quello <br />
cinematografico, come nel caso dell’assemblea <br />
del sindacato dei registi, bensì quello medico ma <br />
<strong>la</strong> lotta al<strong>la</strong> fine trionfante contro l’ottusità, il <br />
conformismo, il potere arrogante del<strong>la</strong> <br />
tradizione accomuna i due contesti. A <br />
interpretare il ruolo del protagonista venne <br />
chiamato un simpatico divo come Cary Grant ma <br />
ciò non fu sufficiente a garantire al film un po’ di <br />
successo. Probabilmente, esso anticipava troppo <br />
i tempi (negli anni Cinquanta, sullo schermo, <br />
andava ancora di moda il dottor Kildare e dunque l’immagine del medico quale personaggio <br />
comunque bravo, buono ed eroico) e parve, all’epoca, eccessivamente dissacrante. Il dottor Noah <br />
Praetorius è un ginecologo bravo e gioviale seppure attraversato spesso da momenti di <br />
meditabonda malinconia (osservando un teschio e notando come i teschi ridano sempre, si chiede <br />
come mai gli uomini debbano morire per poi ridere per tutta l’eternità), anticonformista e <br />
umanista (dirige persino l’orchestra degli studenti di medicina), docente universitario (ma inviso a <br />
molti suoi colleghi). E’ un uomo, e un terapeuta, assai sensibile alle sofferenze, così fisiche come <br />
psichiche, altrui. Per esempio, all’inizio del film sta facendo lezione di anatomia ai propri studenti <br />
e, mostrando il cadavere di una giovane donna, dice loro “Era un essere vivente, con dei <br />
sentimenti, delle sofferenze, dell’amore, delle aspettative e delle speranze. Ecco, penso io, cosa <br />
dobbiamo <strong>cura</strong>re negli esseri umani, perché queste cose fanno parte dei loro mali…”. E’ un <br />
medico attento ai bisogni del paziente: nel<strong>la</strong> clinica da lui diretta, come spiega a un’infermiera, <br />
“…non si svegliano i ma<strong>la</strong>ti da un bel sonno per dar loro <strong>la</strong> co<strong>la</strong>zione quando fa comodo in cucina o <br />
agli infermieri, in ospedale i ma<strong>la</strong>ti non sono detenuti” (in realtà, i ma<strong>la</strong>ti sarebbero gli azionisti <br />
dell’ospedale ma tutti se lo scordano). Praetorius segue una precisa filosofia del<strong>la</strong> medicina, <br />
basata sull’idea che, come spesso usa dire, “…c’è una bel<strong>la</strong> differenza tra <strong>cura</strong>re una ma<strong>la</strong>ttia e far <br />
stare bene i ma<strong>la</strong>ti”. Egli vuol far star bene i ma<strong>la</strong>ti (anche se già nel concetto di “<strong>cura</strong>” è presente, <br />
almeno filologicamente ed etimologicamente, l’idea del “prendersi <strong>cura</strong>” e non soltanto del <br />
somministrare farmaci). Non ha trovato disdicevole, in gioventù, atteggiarsi – <strong>la</strong>vorando a Goose <br />
Neck, superstiziosa comunità montanara – a “guaritore”, generoso dispensatore di pillole e di <br />
sciroppi nonché, soprattutto, di “…parole, parole, parole…”. Egli somministrava pillole e sciroppi, <br />
si<strong>cura</strong>mente del tutto innocui, perché con le sue “parole, parole, parole” trovava poi il modo di <br />
aiutare ancor meglio i propri pazienti, di dare loro utili consigli, insomma di fare per loro una <br />
sorta di impegnativo “counselling di paese”. Come narra di lui un anziana donna del posto <br />
“…stava lì seduto con i ma<strong>la</strong>ti e par<strong>la</strong>va, par<strong>la</strong>va, par<strong>la</strong>va…”. Noah ha anche accolto in casa propria, <br />
quale fedele assistente ma anche vero amico, un condannato al<strong>la</strong> forca, di nome Shunderson <br />
detto “il vampiro”, il quale era sopravvissuto all’esecuzione e che lui si era ritrovato a studiare <br />
credendolo morto finché il presunto cadavere non gli dette un morso su un dito. Si prende inoltre <br />
<strong>cura</strong> – dopo un tentato suicidio del<strong>la</strong> ragazza – di una giovane allieva, Deborah Higgins (l’attrice è <br />
Jeanne Crain), messa incinta dal fidanzato poi morto in Corea. Finisce con lo sposar<strong>la</strong> – peraltro <br />
58
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
quasi subito innamorandosene davvero – per salvar<strong>la</strong> dallo scandalo. Messo sotto accusa presso il <br />
senato accademico, per i suoi metodi sanitari poco ortodossi, dal cupamente invidioso dottor <br />
Elwell (uno di quei medici, commenta nei suoi riguardi Praetorius, che quando diagnosticano in un <br />
paziente un tumore maligno pronunciano il termine “maligno” con il tono di chi dicesse “evviva”: <br />
insomma “un uomo piccolo ma non perché è basso ma perché è piccolo nel<strong>la</strong> mente e nel <br />
cuore…”), considera il futile processo cui è sottoposto come un’occasione per discutere “… se <strong>la</strong> <br />
medicina debba essere sempre più intimamente connessa con gli esseri che curiamo o se debba <br />
continuare sul<strong>la</strong> strada attuale, per diventare sempre più fatta di pillole e bisturi, finché <strong>la</strong> nostra <br />
evoluzione non ci trasformerà in medici elettronici…”. <br />
Al<strong>la</strong> fine viene scagionato da tutte le stupide accuse che Elwell gli aveva mosso e può tornare, <br />
felice, a dirigere <strong>la</strong> propria orchestra di studenti, conducendo<strong>la</strong> a intonare il gioioso, liberatorio, <br />
“Gaudeamus igitur” del<strong>la</strong> Ouverture Accademica di Johannes Brahms. Si tratta, forse, dell’unico <br />
film di Mankiewicz caratterizzato da un “happy end”, seppure faticosamente conquistato. Mentre <br />
l’orchestra suona e il coro intona il Gaudeamus, Deborah sente nel proprio ventre il primo <br />
movimento del bambino. Nel frattempo, il perfido Elwell scappa furtivo e sconfitto dall’università, <br />
mentre le note quasi lo inseguono. Si tratta di una sorta di metafora audiovisiva del<strong>la</strong> rivincita <br />
del<strong>la</strong> vita sul<strong>la</strong> non vita, del<strong>la</strong> bontà sul<strong>la</strong> cattiveria, dell’umanità sul<strong>la</strong> disumanità, dell’apertura <br />
agli altri sul<strong>la</strong> chiusura egoistica. Insomma, <strong>la</strong> metafora cinematografica di un’esistenza all’insegna <br />
del<strong>la</strong> generosità, di una medicina all’insegna dell’umanesimo. Noah Praetoris è probabilmente <br />
l’unico personaggio con il quale Mankiewicz, solitamente autore di opere cinematografiche <br />
contrassegnate dallo scetticismo e persino dall’esplicito cinismo (lo scetticismo e il cinismo degli <br />
idealisti delusi), si sia positivamente identificato: è anche lui di origini germaniche, è anche lui un <br />
umanista, è anche lui un uomo che possiede una visione disincantata ma appassionata del vivere, <br />
è stato anche lui vittima di assurde e inquisitorie persecuzioni. Nel<strong>la</strong> didascalia che compare <br />
all’inizio del film, quel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> dedica al paziente, si legge anche che forse “…qualcuno respingerà <br />
l’ipotesi che un simile medico esista davvero o possa essere esistito ma altri penseranno che, se <br />
non è mai esistito né esiste, sarebbe bene che esistesse…”. Sono personalmente convinto che i <br />
grandi personaggi che vivono sullo schermo del cinema (il dottor Praetorisus ci vive ormai da oltre <br />
sessant’anni) siano già vissuti anche nel mondo reale, magari molto tempo fa, o prima o poi lo <br />
facciano in futuro. In questo secondo caso, sono certo che egli sarà un bravissimo counsellor, <br />
amerà e praticherà <strong>la</strong> medicina narrativa, si iscriverà a Slow Medicine. <br />
59
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Un caso letterario: quando “fare di più non significa <br />
fare meglio” <br />
Marco Bobbio <br />
Nel romanzo autobiografico (Patrimonio. Una storia vera. Einaudi Torino, 2007) lo scrittore <br />
americano Phil Roth racconta <strong>la</strong> vicenda di suo padre Herman, partendo da momento in cui una <br />
paralisi del nervo facciale sve<strong>la</strong> <strong>la</strong> presenza di un tumore al<strong>la</strong> base del cervello. Due neurochirurghi <br />
consigliano un lungo e imprevedibile intervento chirurgico; anche solo <strong>la</strong> biopsia diagnostica <br />
prostra Herman per parecchi giorni. I due figli si consultano e decidono che l'intervento e il <br />
successivo ricupero sarebbero troppo pesanti da sopportare. Nel frattempo Herman si fa operare <br />
del<strong>la</strong> cataratta, che lo limita molto nell'attività quotidiana, e trascorre un anno sereno (svernando <br />
per 4 mesi in Florida) , dimentico del tumore che sta progredendo dentro al cervello. Herman <br />
attribuirà a un fastidioso raffreddore le previste difficoltà al<strong>la</strong> deglutizione sopraggiunte. Phil e il <br />
fratello decidono di non procedere con l'alimentazione artificiale né di farlo attaccare al <br />
respiratore, quando al<strong>la</strong> fine lo portano in ospedale. <br />
Un caso emblematico di una decisione drammatica. Sottoporre a un importante intervento <br />
chirurgico al cervello un padre di 86 anni, autonomo e in ottime condizioni fisiche, che <br />
soggettivamente si sente limitato nel<strong>la</strong> vita di tutti i giorni solo dal<strong>la</strong> cataratta? Prima o poi ognuno <br />
di noi è costretto ad affrontare decisioni di questo genere per delle persone a cui è legato <br />
affettivamente, senza poter sapere a priori quali saranno le conseguenze di una o dell’altra <br />
decisione e senza poter sapere a posteriori se l'altra scelta sarebbe stata migliore. Dal momento <br />
del<strong>la</strong> diagnosi, Herman trascorse un anno sereno, non più tormentato dal<strong>la</strong> cataratta. Le sue <br />
ultime settimane di vita sono state dolorose e faticose; ma come sarebbero state comunque le <br />
ultime settimane, se si fosse sottoposto all'intervento? <br />
Per riflettere su un caso così ben descritto dal<strong>la</strong> penna di Phil Roth, proviamo a scomporre il <br />
romanzo negli elementi che hanno determinato quel<strong>la</strong> scelta e le successive conseguenze. <br />
I medici <br />
I due neurochirurghi consultati si soffermano sui tecnicismi dell'operazione, prospettando un esito <br />
più favorevole se venisse sottoposto all'intervento piuttosto che se aspettasse l'evoluzione <br />
naturale: il primo prefigura un'operazione di 8-‐10 ore, seguita da 4-‐5 giorni di degenza; il secondo <br />
di 13-‐14 ore, sottolineando che dovrà intervenire "in un punto dove si ammassano tutti i nervi e <br />
tutte le arterie: un terreno insidioso -‐ Mi sta dicendo che è impossibile? gli chiesi. -‐ Nient'affatto, <br />
rispose di scatto come se avessi messo in dubbio <strong>la</strong> sua competenza, si può fare certamente". Il <br />
primo neurochirurgo entra nei dettagli del<strong>la</strong> prognosi: "mi disse che il settantacinque percento <br />
degli operati sopravvive e sta meglio, il dieci per cento muore sotto i ferri e un altro quindici per <br />
cento o muore subito o subisce un peggioramento. -‐ Se sopravvive, chiesi, some sarà <strong>la</strong> <br />
convalescenza? -‐ Sarà difficile. Dovrà stare in un convalescenziario per un mese... forse anche 2 o <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
3. -‐ In altri termini sarà un inferno, dissi io. -‐ Sarà dura, disse lui, ma se non fa niente, potrebbe <br />
essere ancora più dura". Il secondo illustra <strong>la</strong> drammaticità del<strong>la</strong> vita se non si sottoporrà <br />
all'intervento: "Il tumore è a un punto critico, aggiunse il chirurgo, è prevedile che entro un anno <br />
abbia gravi disturbi. Di che genere? Forse inghiottire, disse lui. E questo, naturalmente evocò un <br />
quadro terribile, ma non molto peggiore di quello rappresentato dal suo ricupero dopo non una, <br />
ma due operazioni al<strong>la</strong> testa di otto ore l'una. Ci dovremo ripensare, dissi io. Ci stringemmo <strong>la</strong> <br />
mano, ma mentre se ne andava, il dottore si voltò indietro per ricordarci gentilmente una cosa -‐ <br />
Signor Roth, se dovesse accadere qualcosa, potrebbe essere troppo tardi per aiutar<strong>la</strong>". <br />
Riflessioni dal seminario Counselling Humanities <br />
Counselling e teatro <br />
Elena Griseri <br />
E' forse azzardato paragonare un momento di <strong>la</strong>voro del <br />
regista con l'attore, ad un colloquio di counselling? <br />
Stanis<strong>la</strong>vskij pensava che il regista dovesse essere <br />
pronto ad aiutare l'attore, con <strong>la</strong> massima profondità e <br />
sensibilità, nel momento in cui in lui fossero <br />
spontaneamente sorte domande sul<strong>la</strong> pièce e sul ruolo. <br />
Allo stesso modo: “...il counsellor non dà consigli, non si <br />
sostituisce all'altro. Ma aiuta il cliente ad ampliare <strong>la</strong> <br />
propria visione, a individuare alternative, a vedere altri <br />
mondi possibili, sempre a partire dal<strong>la</strong> concreta realtà e <br />
dalle realistiche possibilità del cliente stesso...” <br />
Queste le parole che ho estrapo<strong>la</strong>to dal libro “L'arte di <br />
comunicare” di G. Bert e S. Quadrino. <br />
Riportando <strong>la</strong> frase per intero e facendo un piccolo gioco <br />
di sostituzione (sostituisco <strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> counsellor con <br />
regista e <strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> cliente con attore) ecco cosa emerge: <br />
“Il regista non dà consigli, non fornisce indicazioni o linee <br />
guida di comportamento, non si sostituisce all'altro nel <br />
prendere decisioni o nell'effettuare scelte. Il regista ha il <br />
compito di facilitare da parte dell'attore <strong>la</strong> capacità di <br />
ampliare <strong>la</strong> propria visione, di individuare alternative, di <br />
vedere altri mondi possibili ma sempre a partire dal<strong>la</strong> <br />
concreta realtà e dalle realistiche possibilità dell'attore.” <br />
Il paziente <br />
Herman ha 86 anni quando "<strong>la</strong> paralisi <br />
si manifestò di punto in bianco, il giorno <br />
dopo aver vo<strong>la</strong>to a West Palm Beach <br />
per trascorrere i mesi invernali... <strong>La</strong> <br />
mattina dopo, guardandosi allo <br />
specchio del bagno, vide che metà del <br />
suo viso non era più sua. L'uomo che il <br />
giorno prima assomigliava a lui, ora non <br />
assomigliava più a nessuno: <strong>la</strong> palpebra <br />
inferiore dell'occhio danneggiato faceva <br />
una borsa che rive<strong>la</strong>va l'interno del<strong>la</strong> <br />
cavità ocu<strong>la</strong>re, <strong>la</strong> guancia da quel <strong>la</strong>to <br />
era floscia e senza vita come se sotto <strong>la</strong> <br />
pelle fosse stato tolto l'osso e le <strong>la</strong>bbra <br />
non erano più dritte, ma tirate giù <br />
diagonalmente attraverso il viso. Con <strong>la</strong> <br />
mano rimise <strong>la</strong> guancia destra dove <br />
l'aveva <strong>la</strong>sciata <strong>la</strong> sera prima, <br />
tenendove<strong>la</strong> finché non ebbe terminato <br />
di contare fino a dieci. Ripeté <br />
l'operazione diverse volte quel mattino, <br />
ma quando <strong>la</strong>sciava <strong>la</strong> pelle del<strong>la</strong> <br />
guancia, questa non rimaneva proprio a <br />
posto". E' vedovo da 7 anni, volitivo e <br />
tenace ("Sono fatto così, mi importa <br />
del<strong>la</strong> gente, non mi piace procrastinare" <br />
"Non ho mai detto mi arrendo"). <br />
Dopo l’incontro con il neurochirurgo, Phil riflette: "Mio padre incassò senza batter ciglio il <br />
verdetto del neurochirurgo, meglio di quanto feci io. Otto o dieci ore di intervento, poi cinque o <br />
sei giorni di degenza, e al<strong>la</strong> fine come sarebbe uscito? Dopo l'infanzia impoverita e l'istruzione <br />
limitata, dopo il fallimento del<strong>la</strong> calzoleria e del<strong>la</strong> ditta di cibi conge<strong>la</strong>ti, dopo <strong>la</strong> lotta per un posto <br />
direttivo, dopo <strong>la</strong> morte prematura di tante persone care, dopo tutte le difficoltà che aveva <br />
superato e alle quali era sopravvissuto senza amareggiarsi, abbattersi o disperarsi, otto o dieci ore <br />
di operazioni al cervello non era chiedere troppo? Non c'è un limite? <strong>La</strong> riposta è sì, sì, <br />
assolutamente, sì al<strong>la</strong> millesima potenza; questo era chiedere troppo. A 'non c'è un limite?' però <strong>la</strong> <br />
riposta è no". Phil ripensa anche all'esperienza del nonno rimasto paralizzato da un ictus all'inizio <br />
61
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
degli anni '40. "Quando sarebbe toccato a lui diventare vecchio, mi disse parecchie volte mio <br />
padre, non voglio fare <strong>la</strong> sua fine. Non voglio rimanere là disteso. Questa è <strong>la</strong> mia paura più <br />
grande". <br />
Con il referto del<strong>la</strong> biopsia, il neurochirurgo spiega loro che si tratta di un tipo di tumore <br />
estremamente raro, benigno, ma invulnerabile alle radiazioni. "Quando mio padre finalmente <br />
parve ricordarsi del<strong>la</strong> presenza del neurochirurgo, alzò gli occhi e gli disse: -‐ Bé, dottore, ho un <br />
mucchio di gente che mi aspetta dall'altra parte”. <br />
I figli <br />
Phil, il secondogenito, si assume in prima persona il carico del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia del padre: lo accudisce in <br />
casa, prende gli appuntamenti e lo accompagna dai medici, lo assiste nei giorni dopo <strong>la</strong> biopsia, lo <br />
invoglia a uscire quando rimane infossato e rabbuiato nel<strong>la</strong> poltrona, guarda con lui una partita di <br />
baseball, lo accompagnerà negli ultimi giorni. Sandy vive altrove, accoglie le riflessioni e condivide <br />
le scelte di Phil che cerca di capire e di bi<strong>la</strong>nciare i rischi e le sofferenze di due scelte escludenti, <br />
entrambe gravate da un'assoluta incertezza sull'esito. "Il pensiero che mio padre dovesse subire <br />
un'operazione difficile come quel<strong>la</strong>, a ottantasei anni di età, mi riusciva insopportabile. E se anche <br />
ce l'avesse fatta a superare l'intervento, <strong>la</strong> prospettiva del<strong>la</strong> guarigione... e se qualcosa fosse <br />
andato storto durante l'intervento...". Dopo una notte insonne, Phil decide di chiamare il vecchio <br />
medico di famiglia. "Senti, mi disse dopo avermi ascoltato fino in fondo, ecco come stanno le <br />
cose. Se muore sotto i ferri, be’, sarà morto a ottantasei anni. Non è l'età peggiore per morire. Se <br />
sopravvive, e l'operazione è andata bene, cosa che, come dice il chirurgo, si verifica nel <br />
settantacinque percento dei casi, benissimo. L'unico risultato negativo, per come <strong>la</strong> vedo io, è se <br />
subisce un ulteriore deficit neurologico in seguito all'intervento. Non è l'esito più probabile, ma è <br />
possibile e tu devi calco<strong>la</strong>rlo. -‐ Devo anche calco<strong>la</strong>re che cosa succede se non facciamo niente. Il <br />
chirurgo mi assi<strong>cura</strong> che peggiorerà in brevissimo tempo. Suppongo che sia quello che intendi tu <br />
per ulteriore deficit neurologico. -‐ Proprio così; molte cose potrebbero andare di traverso. -‐ <br />
Dunque, dissi io, in entrambi i modi potrebbe essere un inferno. Operare potrebbe essere l'inizio <br />
di un orrore e non operare l'inizio di un orrore diverso. -‐ Ma è più probabile, disse lui, che operare <br />
frutti qualcosa che in definitiva equivale a una di<strong>la</strong>zione dell'orrore più assoluto". Il medico poi <br />
conclude al telefonata con un riflessione generale "Ricorda solo questo: non puoi impedire a tuo <br />
padre di morire, e forse non potrai impedire a tuo padre di soffrire". <br />
Al<strong>la</strong> sera Phil telefona ancora al fratello, dicendogli che lo vede "così vecchio e così sconfitto" e <br />
soffermandosi su due questioni: ormai è chiaro che non c'è più niente da fare e, giudicando da <br />
come sta soffrendo per <strong>la</strong> biopsia, è fuori discussione pensare di sottoporlo a due operazioni; <br />
finalmente riesce a concretizzare i suoi pensieri, dicendo a se stesso e al fratello: "Speriamo di non <br />
fare tutto questo, tanto per fare qualcosa. Ogni tanto mi viene questo dubbio". <br />
L'epilogo <br />
"Passò quasi un anno prima che cominciasse, tutt'a un tratto, a perdere l'equilibrio. Intanto gli <br />
avevano tolto <strong>la</strong> cataratta, restituendo al suo occhio sinistro una vista quasi perfetta. Lui e Lil <br />
erano andati in Florida per i soliti quattro mesi". Cominciò ad avere mal di testa ogni giorno. Una <br />
sera quando si alzò per andare in bagno perse l'equilibrio e cadde, ma se <strong>la</strong> cavò con qualche <br />
contusione alle costole. Phil affrontò il discorso del testamento biologico che lui firmò senza <br />
scomporsi. Arrivò il momento che anche camminare per casa con il bastone a quattro punte era <br />
decisamente pericoloso e qualche tempo dopo comparvero i previsti problemi al<strong>la</strong> deglutizione; <br />
rischiava di soffocare ogni volta che cercava di ingerire dei cibi liquidi. "Lui attribuiva queste <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
difficoltà a un raffreddore che non se ne <br />
voleva andare. Ecco che arriva <strong>la</strong> resa dei <br />
conti, pensai, le conseguenze di aver deciso di <br />
non fare l'operazione -‐ Sta cominciando a <br />
diventare orribile, dissi a mio fratello. E per <br />
qualche settimana <strong>la</strong>sciammo tutti e due, che <br />
nostro padre continuasse a dare <strong>la</strong> colpa del <br />
suo nuovo problema al raffreddore". <br />
"<strong>La</strong> mattina presto del giorno in cui morì, <br />
quando arrivai al pronto soccorso <br />
dell'ospedale dove l'avevamo portato il fretta <br />
e furia, fui affrontato dal medico di turno, <br />
pronto a prendere misure straordinarie e ad <br />
attaccarlo a un respiratore. -‐ Senza <br />
respiratore non c'è speranza, anche se, <br />
manco a dirlo, soggiunse il medico, <strong>la</strong> <br />
macchina non avrebbe arrestato il progresso <br />
del tumore. Il dottore mi informò che per <br />
legge mio padre, una volta attaccato al<strong>la</strong> <br />
macchina, non sarebbe più stato staccato. <br />
Bisognava prendere subito una decisione". <br />
Phil si fece <strong>la</strong>sciare solo con il padre che <br />
respirava affannosamente. "Dovetti stare <br />
Foto di Giulio Ameglio <br />
seduto là molto al lungo prima di chinarmi il <br />
più possibile su di lui e accostando le <strong>la</strong>bbra al suo volto scavato e pesto, trovare finalmente il <br />
coraggio di sussurrare -‐ Papà, devo <strong>la</strong>sciarti andare. Era privo di sensi da parecchie ore e non mi <br />
poteva sentire, ma scosso, sorpreso e piangente glielo ripetei più volte fino a crederci io stesso". <br />
<strong>La</strong> decisione <br />
Non risulta (o non è stato raccontato da Phil Roth) come si sia giunti al<strong>la</strong> decisione di non operare. <br />
Non c'è stato un incontro tra Herman e i figli per soppesare i pro e i contro in modo da giungere a <br />
una conclusione concordata, non è mai stato chiesto a Herman né dai neurochirurghi (che peraltro <br />
pensano che non ci siano alternative al<strong>la</strong> loro proposta) né dai figli se avrebbe preferito farsi <br />
operare o no. <strong>La</strong> decisione viene sostanzialmente assunta da Phil, mettendo insieme le <br />
informazioni di due neurochirurghi, del medico di fiducia, <strong>la</strong> conoscenza del padre, l'osservazione <br />
di come ha reagito al<strong>la</strong> biopsia, il parere del fratello. <br />
Si è agito più sul piano emotivo che razionale, in un contesto, come quello degli Stati Uniti, patria <br />
dell'oggettività scientifica e dell'esplicitazione dei criteri. Avrebbe avuto senso chiedere <br />
esplicitamente a un ottantaseienne di prendere una decisione così difficile? Non possiamo <br />
aspettarci di coinvolgere nelle decisioni nello stesso modo un ragazzo di 12 anni, un uomo di 45, di <br />
70 o di 86. Ci sono implicazioni diverse. Phil si comporta, credo giustamente, come un mediatore <br />
emotivo, ruolo che dovrebbero assumere i medici quando devono esprimere un parere che non ha <br />
solo una valenza tecnica, ma anche emotiva. Sempre più spesso i medici si estraniano dal <br />
processo decisionale oggettivando (con una costante tendenza a privilegiare l’efficacia del<strong>la</strong> <br />
proprio intervento) i dati, <strong>la</strong>sciando soli paziente e parenti ad assumere una scelta incerta e <br />
drammatica. <br />
63
<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Solo Phil, che lo segue assiduamente, capisco che il vero problema per Herman non è <strong>la</strong> morte con <br />
o senza intervento, ma <strong>la</strong> cataratta che lo limita nell'attività di tutti i giorni: "Quando mi avranno <br />
rimesso a posto questo maledetto occhio ..! Se ci vedessi, potrei andare in banca, potrei andare <br />
dal dentista, non avrei bisogno di nessuno". Forse sottoponendosi all’intervento Herman avrebbe <br />
potuto vivere di più; certamente non meglio. <br />
Riflessioni dal seminario Counselling Humanities <br />
Counselling e viaggio <br />
di <strong>La</strong>ura Martignone <br />
Viaggiare… quante similitudini mi sembra di cogliere tra <strong>la</strong> preparazione e lo svolgimento di un <br />
viaggio e il counselling … <br />
Nell’organizzazione di un viaggio, dopo aver deciso una meta (scendendo eventualmente a <br />
compromessi tra i partecipanti), ci si attrezza di tutto l’occorrente per affrontarlo al meglio (vestiti, <br />
medicinali, documenti, vocabo<strong>la</strong>ri, moneta, guide turistiche, cartine geografiche, macchine <br />
fotografiche ecc.), ci si documenta su usi e costumi, sul clima, si studia <strong>la</strong> mappa del<strong>la</strong> zona, si <br />
decide (almeno a grandi linee) l’itinerario, si programmano i mezzi di trasporto e i ‘bivacchi’, <br />
insomma, si pianifica (in modo più o meno dettagliato a seconda dei gusti) perché tutto vada per il <br />
meglio e si possa sfruttare appieno <strong>la</strong> meravigliosa opportunità. <br />
Ma…quasi mai il viaggio si svolge come da programma: ritardi dei trasporti, cambiamento di orario <br />
di musei e chessò, di siti archeologici, maltempo, fraintendimenti linguistici, scioperi, malesseri, <br />
guasti, incontri imprevisti, luoghi inaspettati ecc. costringono ad una fantasiosa e pragmatica <br />
improvvisazione per riuscire ad ottenere il meglio del possibile dall’esperienza (e a volte sono <br />
proprio gli imprevisti che permettono di vedere cose che altrimenti avremmo perso…). <br />
E ovviamente non può mancare <strong>la</strong> curiosità di vedere altri mondi possibili, senza giudicare, senza <br />
modificare a nostro gusto, ma osservando con rispetto, nel rispetto delle diversità. <br />
Occorre inoltre, un minimo di preparazione e di attitudine al viaggio perché troppa <br />
improvvisazione e troppa spontaneità rischiano di mettere in guai evitabili e troppa rigidità rischia <br />
di togliere possibilità di scoperta. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Camminare, osservare, fotografare, riflettere: <strong>la</strong> <br />
complessità in una mattinata di scale e fotografie a <br />
Matera <br />
Silvana Quadrino <br />
Alcune situazioni si prestano più di altre a una esperienza come quel<strong>la</strong> che cercherò di descrivere: <br />
gli ingredienti di una esperienza riflessiva non sono rigidamente predefiniti ma devono equilibrarsi <br />
armonicamente, come nelle ricette del<strong>la</strong> cucina popo<strong>la</strong>re. <br />
Metti di trovarti per <strong>la</strong> prima volta in un luogo unico e irripetibile, come Matera; metti di avere <br />
quel<strong>la</strong> partico<strong>la</strong>re propensione all’appropriazione di immagini che comunemente si chiama <br />
passione per <strong>la</strong> fotografia; metti di avere in mente che vorresti scrivere qualcosa per una rivista <br />
sulle humanities nel counselling; metti di avere sottratto una mattinata a un congresso un po’ per <br />
noia un po’ per bisogno di bellezza; metti di avere un compagno di cammino con una mente <br />
sistemica come e più di te. Così comincia una mattina di salite e discese per i gradini che <br />
percorrono Matera in sentieri disordinati e sorprendenti, a dispetto delle mie ginocchia doloranti <br />
di cui non mi accorgo nemmeno. L’esperienza mi ha già presa. <br />
<strong>La</strong> complessità, ovvero: cosa guardare? <br />
Sotto di me, che guardo da un terrazzino <br />
gentilmente indicato dall’ente turismo con <strong>la</strong> <br />
scritta “Vista panoramica sui Sassi”, un <br />
agglomerato di costruzioni. Posso guardare, ma <br />
non definire quello che vedo né <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione fra i <br />
diversi elementi di quell’agglomerato: quelle <br />
case, quelle costruzioni di forma e dimensione <br />
diversa, sono separate, o sono l’una <strong>la</strong> <br />
continuazione dell’altra? Perché si somigliano? <br />
Perché sono anche diverse? Quale sarà stata <strong>la</strong> <br />
prima costruzione, intorno a cui tutto questo si è <br />
andato formando? E il tutto si è formato per somiglianza o per differenza? <br />
Disordine e armonia diventano stranamente sinonimi, ma perché? Cosa rende così potente e <br />
armoniosamente bello questo insieme di tetti, facciate, comignoli, muri, finestre, questa <br />
soffocante continuità di costruzioni che salgono a strati fino al<strong>la</strong> parte più alta del<strong>la</strong> collina, che <br />
fanno scomparire totalmente il terreno su cui sono state costruite, sostituendosi a lui? <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Accanto a me, turisti americani e giapponesi si affannano con zoom da fotoreporter professionali. <br />
Io ho una fortuna: ho dimenticato <strong>la</strong> mia fotocamera, mi arrangio con l’iphone, zoomare è <br />
possibile ma entro certi limiti. E improvvisamente mi nasce una domanda, che condivido con il <br />
mio compagno di cammino sistemico: un partico<strong>la</strong>re bene a fuoco renderà meglio il senso di <br />
questo luogo? Ma allora, quale partico<strong>la</strong>re? Perché quello? E che ne sarà, in quel<strong>la</strong> foto che verrà <br />
mostrata ad amici e parenti impazienti e un po’ annoiati, dello spirito di questo luogo, <br />
dell’emozione del<strong>la</strong> complessità che ci ha travolti, delle indescrivibili e inconoscibili re<strong>la</strong>zioni che <br />
fanno di questi partico<strong>la</strong>ri un tutto che ha un senso, anche se il senso è anch’esso inconoscibile? <br />
<strong>La</strong> vertigine sistemica ci sta travolgendo senza, ci assicuriamo a vicenda, alcun aiuto di sostanze <br />
più o meno legali. Scattiamo foto sistemiche, poi facciamo una prova: scegliamo un partico<strong>la</strong>re? <br />
Vediamo cosa ci dirà, cosa ci restituirà quando lo riguarderemo, in che modo riusciremo ancora a <br />
dargli senso? <br />
Io ho scelto questo partico<strong>la</strong>re. Adesso, mentre <br />
lo aggiungo all’articolo che sto scrivendo, trovo <br />
<strong>la</strong> risposta: ha senso per me perché è connesso <br />
al<strong>la</strong> mia esperienza, è collegato alle emozioni e <br />
a un luogo del<strong>la</strong> memoria. Ma quel<strong>la</strong> bottiglia, <br />
quel tavolo, quel<strong>la</strong> porta, potrebbero essere a <br />
Montalcino o a Bolzano, ad Alba o a Siracusa. <br />
Solo io posso sapere quale senso hanno per me. <br />
Se volete saperlo, dovete chiedermelo. <br />
Ho cercato di spiegare al mio amico, che nel <br />
frattempo aveva scelto di fotografare un <br />
partico<strong>la</strong>re del selciato da cui spuntava un <br />
incongruo fiore selvatico, e che sa di sistemi ma <br />
non di counselling, l’importanza di saper fare domande che diano senso, che non si fermino a <br />
scavare sul partico<strong>la</strong>re ma riaprano le connessioni con il tutto: se ci chiedessimo che cosa <br />
conteneva <strong>la</strong> bottiglia, chi è il maleducato che l’ha <strong>la</strong>sciata lì, se il tavolo è d’epoca, chi abita dietro <br />
quel<strong>la</strong> porta, sapremmo di più del luogo e dell’atmosfera che stiamo condividendo? O capiremmo <br />
di più sul perché abbiamo fotografato due cose diverse in una situazione e in un momento così <br />
simili? <br />
Parte una discussione su tutto quello che non sappiamo e ci illudiamo di poter sapere; sullo sforzo <br />
tutto umano di cancel<strong>la</strong>re l’inconoscibile con dosi sempre crescenti di oggettività e di certezze. <br />
Sull’ordine e sul disordine. <br />
L’ordine e <strong>la</strong> violenza dell’antiomeostasi. <br />
Confesso che sapevo poco del<strong>la</strong> storia di Matera. Me l’ha raccontata un tassista che per 12 euro <br />
mi ha fatto da guida al mio arrivo a Matera, storia per turisti (<strong>la</strong> storia raccontata dai tassisti e <br />
dalle guide non ufficiali è una “humanities”? Comincio a pensare di sì…) che ho aggiunto agli <br />
elementi che stanno dando senso al mio vagare sistemico per questi vicoli e per queste gradinate. <br />
Parlo solo del<strong>la</strong> storia recente, non di quel<strong>la</strong> delle sovrapposizioni di culture che pure è essenziale <br />
nel<strong>la</strong> creazione del complesso irripetibile di questa città. Parlo di una storia degli anni ’50 <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
cominciata con una apparentemente giustificabile indignazione, l’indignazione virtuosa di un <br />
uomo di governo (Alcide De Gasperi) che vede una città e i suoi abitanti con gli occhi di chi mai ha <br />
vissuto né vorrebbe vivere così: i Sassi, case scavate nel<strong>la</strong> roccia, misere e puzzolenti, <strong>la</strong> convivenza <br />
di persone e animali in una prossimità che ha del disumano. Incredibile, orribile, indegno di un <br />
paese civile. Che fare? Semplice: se c’è un “peggio” ( questo) ci sarà un “meglio”; e chi può saperlo <br />
più di un eletto dal popolo, che vuole il bene del popolo e che, in più, ha una solida fede cattolica <br />
che lo autorizza a rivestire di ideologia buona le sue decisioni? Parlo di De Gasperi, ma prima di lui <br />
anche Palmiro Togliatti, anche lui depositario di una fede seppure di diversa natura aveva reagito <br />
allo stesso modo : entrambi vedono una realtà inaccettabile e decidono che va cambiata. Togliatti <br />
lo proc<strong>la</strong>ma, De Gasperi lo fa. Parte lo “sfol<strong>la</strong>mento dei Sassi”. <br />
<strong>La</strong> domanda non sistemica è: è stato un atto giusto o sbagliato? <strong>La</strong> domanda sistemica è: cosa <br />
consentiva agli abitanti dei Sassi di vivere così, e cosa aveva impedito fino a quel momento un <br />
cambiamento? <br />
<strong>La</strong> risposta alle domande sistemiche in genere non c’è, ma è importante farsele comunque: perché <br />
un cambiamento che non è avvenuto nonostante gli effetti pesantemente negativi dello status <br />
quo (disagi, mortalità infantile, igiene scadente, ma<strong>la</strong>ttie infettive ecc.) è un cambiamento che <br />
necessita di tempo e di gradualità. E’ un cambiamento che non si può imporre solo perché sembra <br />
a fin di bene. <br />
<strong>La</strong> fretta di fare il bene degli altri porta ad azioni che hanno del<strong>la</strong> violenza. Il bene prescritto <br />
diventa obbligatorio, non accettare <strong>la</strong> prescrizione è peccato; è reato. Gli abitanti dei Sassi <br />
vengono costretti -‐siamo nel 1956-‐ ad abbandonare le loro case, il tessuto di storia , di re<strong>la</strong>zioni, di <br />
abitudini, per trasferirsi in quartieri assai più salubri, disegnati e progettati da architetti e urbanisti <br />
fieri di contribuire al bene di quelle persone proponendo un ben altro stile abitativo il cui nome ci <br />
<strong>la</strong>scia a bocca aperta: il Modello Scandinavo!!! A Matera!!! <br />
Ne abbiamo incontrate tante di porte di ferro come questa, <br />
inesorabilmente brutte nel<strong>la</strong> rozza essenzialità del loro <br />
significato di chiusura, di divieto imposto dall’alto. Sono il <br />
simbolo del passaggio dal<strong>la</strong> proposta di una vita migliore <br />
all’imposizione per legge di quel modello di vita: fra il 1960 e <br />
il 1970 abitare nei Sassi diventa illegale. <br />
Chi ne ha voglia può leggere di più sul<strong>la</strong> storia di Matera, <br />
sulle rivolte di quegli anni, sul<strong>la</strong> illusorietà di interventi <br />
progettati per fare il bene di tutti che finiscono per rive<strong>la</strong>rsi <br />
positivi solo per chi già era in posizione avvantaggiata, per i <br />
benestanti, per i ricchi. Io guardo questa porta e ricostruisco <br />
mentalmente una immagine raccontata dal mio tassista, le <br />
donne del popolo che ogni mattina uscivano dalle case <br />
“modello scandinavo” portando con sé una sedia e un <br />
fagottino di pane e formaggio, e andavano a sedersi davanti <br />
alle porte sprangate delle loro antiigieniche case nei Sassi per passare insieme <strong>la</strong> giornata, là dove <br />
erano le loro radici e i loro ricordi. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Dare senso o <strong>la</strong>sciare che il senso emerga da solo? <br />
Anche scrivere, raccontare, come fotografare, come osservare, fa parte di quell’humus che <br />
abbiamo fatto coincidere con le humanities. E a questo punto, mentre scrivo, potrei fare due <br />
cose: trarre le conclusioni, in ottica di counselling, evidenziare i punti che legano queste riflessioni <br />
all’agire del counsellor sistemico; o <strong>la</strong>sciare che chi legge senta somiglianze e connessioni , le <br />
scopra, ne sia illuminato. Da pedagogista, mi piace sempre di più <strong>la</strong> seconda opzione. <br />
Per questo <strong>la</strong>scio a chi legge <strong>la</strong> riflessione sulle immagini, sulle connessioni che ho fatto e sulle <br />
altre connessioni possibili, sul<strong>la</strong> complessità, sul<strong>la</strong> bellezza, sull’ordine e sul disordine. E su come <br />
tutto questo può influire sull’agire di un counsellor che si sente, soprattutto, persona in re<strong>la</strong>zione <br />
con altre persone. <br />
Nota: <br />
Grazie ad Antonio Bonaldi, Presidente di Slow Medicine e camminatore sistemico abituato a ben <br />
altri cammini sui sentieri del Tibet e nelle distese del<strong>la</strong> Groen<strong>la</strong>ndia, con cui ho condiviso una <br />
mattina di scale, fotografie e pensieri sistemici a Matera. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
L’angoscia <br />
Anton Cechov <br />
Prefazione di Giorgio Bert <br />
Anton Cechov. Un uomo che, anche all’apice del successo letterario ha continuato a fare il medico: <br />
(“<strong>La</strong> medicina è <strong>la</strong> mia legittima moglie – diceva -‐ <strong>la</strong> letteratura <strong>la</strong> mia amante”). Un <br />
atteggiamento che gli ha permesso di accostarsi agli altri con interesse, con empatica curiosità; <br />
che gli ha consentito di vederli, di ascoltarli come persone che spesso hanno, anche se non osano <br />
mostrarlo, un intenso bisogno non corrisposto di essere viste ed ascoltate. <br />
“Gli occhi di Jona inquieti e dolorosi seguono <strong>la</strong> gente, che corre ai due <strong>la</strong>ti del<strong>la</strong> via; non ci sarà <br />
fra quelle migliaia di persone neanche una che voglia ascoltarlo? Ma <strong>la</strong> fol<strong>la</strong> corre e non si <br />
accorge né di lui, né del<strong>la</strong> sua angoscia... L’angoscia è immensa, senza limiti. Se il petto di Jona <br />
scoppiasse e l’angoscia se ne riversasse fuori, inonderebbe tutto il mondo, e pure non si vede”. <br />
Jona protagonista di questo breve straziante racconto è un uomo solo. <strong>La</strong> sua vita è stata <br />
devastata da un evento tragico: per lui il mondo è cambiato per sempre; solo che il mondo reale <br />
non è cambiato affatto, e dopo quell’evento che lo ha distrutto non è né meglio né peggio di prima. <br />
Jona ha bisogno, un disperato bisogno di par<strong>la</strong>re di quell’evento, del<strong>la</strong> sua angoscia; di essere <br />
ascoltato:… non compatito, non conso<strong>la</strong>to… Ascoltato. Ma Jona è un vetturino, e gli altri in quel<strong>la</strong> <br />
gelida notte invernale vedono in lui solo uno strumento che deve portarli a destinazione al più <br />
presto e senza chiacchiere. <strong>La</strong> vita, lo sanno tutti, è piena di eventi drammatici; quello di Jona è <br />
solo uno tra i tanti… Stare ad ascoltarlo fa perdere tempo, rovina <strong>la</strong> serata… <br />
Questo è un racconto sul non essere visti né ascoltati, sull’infinita solitudine di un uomo <br />
angosciato, invisibile in mezzo al<strong>la</strong> fol<strong>la</strong> indifferente… che trova, al<strong>la</strong> fine, <strong>la</strong> so<strong>la</strong> possibile <br />
disperata forma di ascolto … <br />
Il mondo del counsellor, e non solo quello professionale, è il mondo di Jona. <br />
A chi mai canterò <strong>la</strong> mia tristezza?... <br />
Crepuscolo del<strong>la</strong> sera. <strong>La</strong> grossa, umida neve tùrbina fiaccamente intorno ai fanali or ora accesi e si <br />
posa in uno strato sottile e morbido sui tetti, sul dorso dei cavalli, sulle spalle, sui berretti di pelo. Il <br />
vetturino Jona Potàpov è tutto bianco, come un fantasma. Si è curvato quanto è possibile curvarsi <br />
a un corpo vivo, siede a cassetta e non si muove. Se anche lo coprisse un cumulo di neve, egli non <br />
sentirebbe il bisogno di scuoterselo di dosso... Anche <strong>la</strong> sua cavallina è bianca e immobile. Per <strong>la</strong> <br />
sua immobilità e angolosità di forme e le sue gambe rigide come bastoni è, anche da vicino, simile <br />
a uno di quei cavallucci di pane che i fornai vendono per una copeca. Con tutta probabilità essa è <br />
immersa ne’ suoi pensieri. Chi, uomo o bestia, è stato strappato all’aratro, ai paesaggi noti e grigi, <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
per esser gettato qui, in questo baratro, pieno di luci mostruose, di incessante frastuono e di <br />
uomini in corsa, non può non pensare. <br />
Jona e <strong>la</strong> sua cavallina non si muovono da quel posto da un pezzo. Sono usciti dal<strong>la</strong> rimessa ancor <br />
prima del pranzo e quanto a clienti niente e poi niente. Ma ecco sul<strong>la</strong> città discendono le ombre <br />
del<strong>la</strong> sera. Il pallore del<strong>la</strong> luce dei fanali cede a un color vivo, e l’andirivieni del<strong>la</strong> via si fa più <br />
rumoroso. <br />
“ Vetturino, via Viborg!” ode Jona. “Vetturino!”. <br />
Jona sussulta e attraverso le ciglia incol<strong>la</strong>te di neve vede un militare in cappotto col cappuccio. <br />
“ Via Viborg!” ripete il militare. “O che, dormi? Via Viborg!”. <br />
In segno di assenso Jona tira le redini, e a questo atto dal dorso del<strong>la</strong> caval<strong>la</strong> e dalle sue spalle <br />
casca <strong>la</strong> neve a strati... Il militare si siede nel<strong>la</strong> slitta. Il vetturino fa schioccare <strong>la</strong> lingua, allunga il <br />
collo come un cigno, si solleva e, più per abitudine che per necessità, agita <strong>la</strong> frusta. Anche <strong>la</strong> <br />
cavallina allunga il collo, piega le gambe ch’eran simili a bastoni e si mette in moto indecisa. <br />
“ Dove vai, demonio?” grida una voce a Jona, appena si è mosso, dal<strong>la</strong> fol<strong>la</strong> os<strong>cura</strong> che cammina <br />
davanti e dietro a lui. “Dove diavolo vai a finire? Tieni <strong>la</strong> destra!” <br />
“ Tu non sai guidare! Tieni <strong>la</strong> destra!” dice irritato il militare. <br />
Un cocchiere dal<strong>la</strong> cassetta d’una carrozza lo rimbrotta, un passante che attraversa <strong>la</strong> strada e che <br />
ha sfiorato con <strong>la</strong> spal<strong>la</strong> il muso del<strong>la</strong> cavallina, lo guarda con rabbia e scuote dalle maniche <strong>la</strong> <br />
neve. Jona siede a cassetta come sugli aghi, spinge i gomiti dai <strong>la</strong>ti e si guarda intorno, come <br />
asfissiato, quasi che non capisca dove si trovi e perché. <br />
“ Come son tutti furfanti!” dice argutamente il militare. “Spiano l’occasione per scontrarsi apposta <br />
con te o cascare sotto il cavallo. Certo si sono messi d’accordo.”. <br />
Jona dà uno sguardo al passeggero e muove le <strong>la</strong>bbra... Vuole evidentemente dire qualche cosa, <br />
ma dal<strong>la</strong> go<strong>la</strong> non esce niente altro che un mugolio. <br />
“ Cosa?” domanda il militare. <br />
Jona torce le <strong>la</strong>bbra ad un sorriso, sforza <strong>la</strong> go<strong>la</strong> e dice rauco: “Un figlio, signore... mi è morto <br />
questa settimana.”. <br />
“ Uhm!... E di che cosa è morto?”. <br />
Jona si gira con tutto il torso verso il passeggero e dice: <br />
“ E chi lo sa? Di febbre, pare... È rimasto due giorni all’ospedale ed è morto... volontà di Dio.”. <br />
“ Svolta, diavolo,” si sente gridare nell’oscurità. “Sei ammattito, vecchio cane? Guarda dove vai!”. <br />
“ Va, va...” dice il passeggero. “Così non arriveremo neanche domani. Va più svelto.” <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
Il vetturino allunga di nuovo il collo, si solleva e con grazia pesante agita <strong>la</strong> frusta. Parecchie volte <br />
poi si volge a gettare un’occhiata al passeggero, ma questi ha chiuso gli occhi, e evidentemente <br />
non è disposto ad ascoltare. Depostolo in via Viborg, Jona si ferma presso una trattoria, si piega <br />
sul<strong>la</strong> cassetta e di nuovo resta immobile... <strong>La</strong> neve umida di nuovo imbianca lui e <strong>la</strong> cavallina. <br />
Passa un’ora, due... <br />
Sul marciapiede, battendo rumorosamente le soprascarpe e litigando passano tre giovanotti: due <br />
alti e sottili, il terzo piccolo e gobbo. <br />
“ Vetturino, al ponte del<strong>la</strong> Polizia!” grida con voce stridente il gobbetto. “Per tre... un ventino!”. <br />
Jona tira le briglie e fa schioccar <strong>la</strong> lingua. Il prezzo di un ventino non è conveniente, ma ora non gli <br />
importa del prezzo... Rublo o soldo, per lui ora è tutt’uno, purché ci sia qualcuno da condurre... I <br />
giovani, urtandosi e dicendo male parole, si avvicinano al<strong>la</strong> slitta e vi salgono tutti e tre insieme. <br />
Comincia <strong>la</strong> discussione sul problema chi debba sedere e chi stare in piedi. Dopo un lungo bisticcio <br />
e capricci e rimproveri, decidono che in piedi deve restare il gobbetto perché è il più piccolo. <br />
“ Su, muoviti!” dice con <strong>la</strong> sua vocina stridente il gobbetto, accomodandosi e respirando sul<strong>la</strong> nuca <br />
di Jona. “Picchia! Ma che berretto hai, buon uomo! In tutta Pietroburgo non ne trovi uno <br />
peggiore...”. <br />
“ Ih, ih! Jona ride. “È quel che c’è...”. <br />
“ Su, quel che c’è, sbrigati! Ci vuoi portare così adagio per tutta <strong>la</strong> strada? Sì? E se ti dessi un <br />
golino?”. <br />
“ Mi duole <strong>la</strong> testa...” dice uno dei due altri. “Ieri dai Dukmàsov io e Vaska abbiamo bevuto, in due, <br />
quattro bottiglie di cognac.”. <br />
“ Non capisco a che scopo mentire!” si arrabbia l’altro. “Menti come un animale.”. <br />
“ Che Dio mi punisca, se non è vero...”. <br />
“È vero, come è vero che un pidocchio ha <strong>la</strong> tosse.”. <br />
“ Ih!” Sorride furbescamente Jona. “Gente allegra!”. <br />
“ Che il diavolo ti porti!...” il gobbetto si indigna. “Vai o non vai, peste che non sei altro! Che si <br />
guida così? Ma dàgli con <strong>la</strong> frusta! Su, diavolo! Su! Come si deve!”. <br />
Jona sente dietro <strong>la</strong> schiena agitarsi il corpo e tremare <strong>la</strong> voce del gobbetto. Ode le contumelie che <br />
gli sono rivolte, vede delle persone e questo gli alleggerisce nel petto il senso del<strong>la</strong> solitudine. Il <br />
gobbo continua a insolentire fino a che una insolenza artificiosa enorme non gli va di traverso e lo <br />
fa tossire. I due altri cominciano a par<strong>la</strong>re di una certa Nadezda Petròvna. Jona li sbircia, di tanto in <br />
tanto. Approfittando di una breve pausa, si volge indietro un’altra volta e borbotta: <br />
“ E a me... questa settimana... è morto... un figlio.”.<br />
“ Tutti morremo...” sospira il gobbo, asciugandosi dopo un attacco di tosse le <strong>la</strong>bbra. “Frusta, <br />
frusta! Signori, io assolutamente non posso più andare avanti così! Quando arriveremo dunque?” <br />
“ E tu dàgli un po’ di coraggio... sul<strong>la</strong> schiena!”. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
“ Vecchia peste, senti? Ti romperò le ossa, Capisci? Se si fanno cerimonie con voialtri, è come <br />
andare a piedi!... Senti? o t'infischi delle nostre parole?”. <br />
E Jona ode, più che non intenda, <strong>la</strong> voce che gli risuona dietro <strong>la</strong> nuca. <br />
“ Il!...” ride. “Gente allegra! Che Dio conceda loro salute!”. <br />
“ Vetturino, sei ammogliato?” domanda uno dei due alti. <br />
“ Io? Ih... gente allegra! Adesso ho una moglie... <strong>la</strong> terra umida... oh, oh, oh... <strong>La</strong> fossa, voglio <br />
dire... Il figlio ora mi è morto ed io sono vivo... Strana cosa <strong>la</strong> morte! S’è sbagliata d’uscio... Invece <br />
di venire da me, è andata dal figlio...”. <br />
E Jona si volta per raccontare come è morto il suo figliuolo, ma qui il gobbetto respira di sollievo e <br />
dichiara che, grazie a Dio, finalmente sono arrivati. Preso il ventino, Jona guarda a lungo dietro ai <br />
tre sfaccendati, che dispaiono in un portone oscuro. È di nuovo solo, e di nuovo si rifà per lui il <br />
silenzio... L’angoscia calmata per poco ricompare e <strong>la</strong>ncina il petto con più forza ancora. Gli occhi <br />
di Jona inquieti e dolorosi seguono <strong>la</strong> gente, che corre ai due <strong>la</strong>ti del<strong>la</strong> via; non ci sarà fra quelle <br />
migliaia di persone neanche una che voglia ascoltarlo? Ma <strong>la</strong> fol<strong>la</strong> corre e non si accorge né di lui, <br />
né del<strong>la</strong> sua angoscia... L’angoscia è immensa, senza limiti. Se il petto di Jona scoppiasse e <br />
l’angoscia se ne riversasse fuori, inonderebbe tutto il mondo, e pure non si vede. Ha saputo trovar <br />
posto in un guscio così piccolo, che non <strong>la</strong> scorgeresti neanche di giorno col lume... <br />
Jona vede un portiere con un fagottino e decide di mettersi a par<strong>la</strong>re con lui. <br />
“ Caro, che ora è?” domanda. <br />
“ Son quasi le dieci... Perché ti fermi qui? Vattene!”. <br />
Jona si allontana di qualche passo, si curva e si dà tutto al<strong>la</strong> sua pena... Oramai considera inutile <br />
rivolgersi agli uomini. Ma non passano nemmeno cinque minuti, e si drizza, scrol<strong>la</strong> il capo, come se <br />
avesse sentito un dolore acuto, e scuote le briglie... Non ne può più. <br />
“ Al<strong>la</strong> stal<strong>la</strong>!” pensa. “Al<strong>la</strong> stal<strong>la</strong>”. <br />
E <strong>la</strong> cavallina, quasi che abbia capito il suo pensiero, si mette a trottare. Un’ora e mezza dopo, <br />
Jona siede già presso una grande stufa sudicia. Sul<strong>la</strong> stufa, sul pavimento, sulle seggiole, <br />
dappertutto c’è gente che russa. Nell’aria c’è un caldo grave, soffocante... Jona osserva i <br />
dormienti, si gratta e rimpiange di esser tornato presto a casa... <br />
“ Non sono andato a prendere l’avena,” pensa. “Per questo sono triste. Un uomo pratico del <br />
proprio mestiere, quando ha mangiato e dato da mangiare al cavallo, è sempre tranquillo...” <br />
In uno degli angoli si leva un vetturino giovine, borbotta assonnato e va verso il secchio dell’acqua. <br />
“ Hai sete?” domanda Jona. <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
Counselling Humanities <br />
“ Pare.”. <br />
“ Ecco... Al<strong>la</strong> tua salute... E a me, caro, è morto un figlio... L’hai sentito? Questa settimana <br />
all’ospedale... Una storia!” <br />
Jona osserva quale effetto producano le sue parole, ma non vede niente. Il giovine si è coperta <strong>la</strong> <br />
testa e dorme già. Il vecchio sospira e si gratta... Come il giovine aveva voglia di bere, così egli ha <br />
voglia di par<strong>la</strong>re. Presto farà una settimana che il figlio è morto e lui non è riuscito par<strong>la</strong>re con <br />
nessuno... Bisogna par<strong>la</strong>re con metodo, con qualche pausa... Bisogna raccontare come il figlio si è <br />
amma<strong>la</strong>to, come ha sofferto, che cosa ha detto prima di morire, come è morto... Bisogna <br />
descrivere i funerali e <strong>la</strong> sua corsa all’ospedale in cerca dell’abito del morto. Al paese è rimasta <strong>la</strong> <br />
figlia Anìs’ja... E bisogna par<strong>la</strong>re anche di lei... Che è poco quello di cui ora potrebbe par<strong>la</strong>re? Chi <br />
ascolta deve dare in esc<strong>la</strong>mazioni, deve sospirare, fare <strong>la</strong>menti... Con le donne sarebbe ancora <br />
meglio. Anche se sono stupide, dànno in singhiozzi dopo due parole. <br />
“ Vado a dare un’occhiata al cavallo,” pensa Jona. “Avrò sempre tempo di dormire... dormirò <br />
abbastanza lo stesso...”. <br />
Si veste e va nel<strong>la</strong> stal<strong>la</strong>. Pensa all’avena, al fieno, al tempo che fa... Al figlio, quando è solo, non <br />
può pensare... Par<strong>la</strong>re di lui con qualcuno può, ma pensare solo e disegnare a se stesso <strong>la</strong> figura di <br />
lui è penoso e insopportabile... <br />
“ Mangi?” domanda Jona al<strong>la</strong> caval<strong>la</strong>, vedendo i suoi occhi lucenti. “Mangia, mangia... Non siamo <br />
andati a comperar l’avena e dunque mangeremo del fieno. Sì... Sono vecchio ormai per il <br />
mestiere... a mio figlio toccava, non a me... Quello era un vero vetturino... Fosse ancora vivo...”. <br />
Jona tace per qualche tempo, poi continua: <br />
“ Così è, cavallina cara... Non c’è più Kusmà Jonyc... Se ne è andato, morto, inutilmente... Ora, <br />
diciamo, tu hai un piccolo puledro e tu di questo piccolo puledro sei <strong>la</strong> mamma... E d’improvviso, <br />
diciamo, questo stesso piccolo puledro muore... Non è una pena?”. <br />
<strong>La</strong> cavallina mangia, ascolta e soffia sul<strong>la</strong> mano del suo padrone... <br />
Jona si commuove e racconta tutto a lei. <br />
(Tratto dal<strong>la</strong> raccolta Racconti, volume primo, Garzanti, Mi<strong>la</strong>no, 1965, traduzione di autori vari) <br />
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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />
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