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aspetti del pensiero e del genio shakespeariano attraverso alcuni ...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO<br />

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA<br />

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA<br />

TECNOLOGIE E DIDATTICA DELLE LINGUE<br />

ASPETTI DEL PENSIERO E DEL<br />

GENIO SHAKESPEARIANO<br />

ATTRAVERSO ALCUNI DRAMMI<br />

Allievo<br />

Rosa Soresi<br />

Docente<br />

Marcello Cappuzzo<br />

1


INTRODUZIONE<br />

Andare a fondo nella comprensione <strong>del</strong>la grandezza<br />

<strong>del</strong>l’esperienza shakespeariana certo non è cosa facile né<br />

tantomeno accessibile a tutti. Numerosi studiosi, critici,<br />

shakespearologi, ‘bardolatri’, hanno cercato di interpretare la<br />

genialità di questo drammaturgo e poeta senza tuttavia<br />

raggiungere, in molti casi, il massimo <strong>del</strong>la sua comprensione e<br />

arrivando talvolta a conclusioni <strong>del</strong> tutto opposte l’una dall’altra.<br />

Hazlitt, Johnson, Bate, Coleridge, Hegel sono solo <strong>alcuni</strong> dei<br />

personaggi letterari e filosofici più illustri che si sono interessati al<br />

‘caso Shakespeare’ e che hanno tentato di spiegarlo al pubblico<br />

dei lettori e degli spettatori. Non è certo scopo di questo lavoro fare<br />

ciò che grandi pensatori e artisti come quelli su elencati hanno<br />

fatto, né tantomeno è sua intenzione essere una summa di tutte le<br />

ipotesi su Shakespeare. Ciò che si propone è di presentare <strong>alcuni</strong><br />

tra gli <strong>aspetti</strong> più salienti di William Shakespeare, seguendo<br />

principalmente le interpretazione di due grandi shakespearologi,<br />

Jan Kott e Harold Bloom.<br />

Per cominciare, vorrei porre l’attenzione sui diversi <strong>aspetti</strong> che i<br />

due studiosi mettono in risalto. Kott, innanzitutto, vede in<br />

Shakespeare colui che ha inventato la tragedia storica moderna in<br />

quanto colloca la scena dei drammi storici non in un ambiente<br />

remoto e astratto, ma in uno scenario attuale per gli spettatori <strong>del</strong><br />

suo tempo, come la Torre di Londra, il Palazzo reale, i campi di<br />

battaglia <strong>del</strong>l’Inghilterra. Inoltre, dà la chiave <strong>del</strong>l’interpretazione<br />

<strong>del</strong>la storia per Shakespeare. Secondo il critico, per Shakespeare la<br />

storia é tragica e nel leggere i suoi drammi (siano essi drammi storici,<br />

tragedie o commedie) ci troviamo dinanzi a due modi di guardare<br />

2


ad essa: il primo è che ha un senso e una direzione: il tragico sta nel<br />

prezzo che l’umanità deve pagare per il progresso, perché chi<br />

tenta di andare contro il corso <strong>del</strong>la storia ne viene<br />

immediatamente schiacciato. L’altra visione è che la storia non ha<br />

né un senso né una direzione, è una forza pari ad un ciclone, è,<br />

come la definisce Mario Praz, simile alla piattaforma mobile di una<br />

giostra <strong>del</strong> Luna Park: l’uomo si sforza di stare in equilibrio e di non<br />

cadere tra le risa degli spettatori, ma alla fine è comunque<br />

costretto a precipitare a terra: il risultato è uno spettacolo grottesco.<br />

Queste due visioni <strong>del</strong>la storia sono le due facce di quello che<br />

Kott chiama il ‘Grande Meccanismo’:<br />

Per la prima volta Shakespeare ha mostrato il volto umano <strong>del</strong><br />

Grande Meccanismo. Atterrisce col suo bisbiglio e il suo<br />

sogghigno spaventevole. Ma è affascinante.<br />

(Kott, 1992)<br />

Poiché il meccanismo <strong>del</strong>la storia denunciato da Shakespeare<br />

altro non è che lo stesso che investe noi lettori di oggi, Kott sostiene<br />

che Shakespeare è ‘nostro contemporaneo’. Anche noi, infatti,<br />

come i personaggi shakespeariani, stiamo su quella piattaforma <strong>del</strong><br />

Luna Park. Anche noi, come Shakespeare, stiamo vivendo in una<br />

fase <strong>del</strong>la storia caratterizzata da una forte disgregazione sociale, in<br />

cui si sta perdendo la credenza nei valori religiosi, nel bene e nel<br />

male morali, nel senso <strong>del</strong>la storia stessa. In forza di ciò è possibile<br />

accostarci al grande drammaturgo come a un contemporaneo<br />

senza falsarne i valori storici (dai quali tuttavia le sue opere non<br />

possono prescindere). Il lettore/spettatore, in definitiva, si riconosce<br />

nei personaggi shakespeariani perché anche lui come loro viene<br />

stritolato dall'ingranaggio <strong>del</strong>la storia, e nei drammi ritrova la propria<br />

3


dimensione umana, la dimensione <strong>del</strong>l'intelligenza, la ricerca <strong>del</strong><br />

senso <strong>del</strong>la vita e <strong>del</strong> proprio destino.<br />

Per Kott, inoltre, i drammi shakespeariani sono caratterizzati da un<br />

senso <strong>del</strong> grottesco che li avvicina fortemente alla sensibilità<br />

moderna. Infatti, come abbiamo detto sopra, ogni tentativo di<br />

fuga, di andare contro (e non incontro) ai movimenti <strong>del</strong>la grande<br />

piattaforma mobile <strong>del</strong>la storia, si risolve in una ridicola caduta, che<br />

nella tragedia diventa, appunto, grottesca.<br />

Bloom, invece, si interroga sulla genialità dei personaggi<br />

shakespeariani. Nella prefazione a ‘Shakespeare. L’invenzione<br />

<strong>del</strong>l’uomo’ afferma:<br />

e ancora:<br />

I personaggi di Shakespeare sono ruoli per attori e molto più di<br />

questo: l’influsso che hanno esercitato sulla vita è stato grande<br />

quasi quanto quello esercitato sulla letteratura postshakespeariana.<br />

Nessun autore mondiale eguaglia Shakespeare<br />

nella creazione visibile <strong>del</strong>la personalità […].<br />

(Bloom, 2006)<br />

[…] Shakespeare superò tutti i suoi predecessori (persino<br />

Chaucer) e inventò l’umano come lo conosciamo tuttora. […]. I<br />

personaggi shakespeariani (Falstaff, Amleto, Rosalinda, Iago,<br />

Lear, Macbeth, Cleopatra, per citarne solo <strong>alcuni</strong>) sono<br />

straordinari esempi non solo <strong>del</strong> modo in cui il significato viene<br />

generato anziché riprodotto, ma anche <strong>del</strong> modo in cui affiorano<br />

nuovi <strong>aspetti</strong> <strong>del</strong>la coscienza.<br />

(Bloom, 2006)<br />

In queste definizioni, Bloom, sulla scia di Samuel Johnson, mette in<br />

risalto la singolare abilità <strong>del</strong> drammaturgo nel creare un’ampissima<br />

varietà di persone di cui, straordinariamente, ognuno è un io<br />

autonomo. Questa straordinaria capacità di Shakespeare è<br />

‘superiorità d’intelletto’ (come già l’aveva definita Thomas Carlyle),<br />

con la quale, a parere di Bloom, nemmeno i principali filosofi,<br />

4


teologi e psicologi da Montaigne a Freud possono reggere il<br />

confronto.<br />

Nei paragrafi successivi esporrò <strong>alcuni</strong> <strong>aspetti</strong> <strong>del</strong> <strong>pensiero</strong> e<br />

<strong>del</strong>la genialità di Shakespeare <strong>attraverso</strong> <strong>alcuni</strong> drammi e <strong>alcuni</strong><br />

personaggi, in particolare mi soffermerò: sulla concezione <strong>del</strong>la<br />

storia, sull’umanità e contemporaneità dei personaggi da lui creati<br />

e, infine, sulla indissolubile triade amore – potere – morte <strong>del</strong>la<br />

tragedia <strong>del</strong>l’uomo <strong>shakespeariano</strong>.<br />

1. LA STORIA E IL GRANDE MECCANISMO<br />

La storia per Shakespeare è come un cerchio, un ‘Grande<br />

Meccanismo’, come lo chiama Kott, che si ripete nei movimenti e<br />

che va avanti incurante di ciò che gli sta accanto o v’incappa. È<br />

come l’ingranaggio di un orologio, le cui rotelle, muovendosi, si<br />

incastrano l’un l’altra e fanno muovere così tutto il resto. Ma è un<br />

ingranaggio gigante, in cui l’uomo è piccolissimo e se tenta di<br />

rallentarne, bloccarne o addirittura modificarne il corso ne rimane<br />

inevitabilmente e atrocemente vittima. Questa visione <strong>del</strong>la storia<br />

emerge in particolar modo dai drammi storici, con cui Shakespeare<br />

ha interpretato i conflitti e le guerre di successione che avevano<br />

intessuto la trama dinastica <strong>del</strong>l’Inghilterra <strong>del</strong> ‘400.<br />

Come vedremo più avanti, basta analizzare anche soltanto uno<br />

di questi drammi per capire il concetto di storia <strong>shakespeariano</strong>. Ma<br />

è, forse, nel Riccardo III, che rimaniamo più impressionati. In questo<br />

dramma storico il Grande Meccanismo va avanti in quella che Kott<br />

definisce una lunga Settimana dei Morti. Infatti, il gobbo Riccardo,<br />

duca di Gloucester, si fa strada sanguinosamente verso la Corona<br />

5


uccidendo chiunque possa essergli d’intralcio. Egli è, come lo<br />

descrive Rosanna Camerlingo, sarcastico e insondabile<br />

rappresentante <strong>del</strong>la sostanziale brutalità <strong>del</strong> potere. Il regicidio è<br />

l’arma che usa per diventare re, l’unica chiave che gli può<br />

permettere di aprire la porta <strong>del</strong>la sua incoronazione. Muoiono così<br />

tutti i re o i pretendenti re che possono precedere Riccardo nella<br />

successione degli aventi diritto. Kott descrive i tragici eventi così:<br />

Enrico VI è stato ucciso; il duca di Clarence, fratello <strong>del</strong> re, è<br />

stato ucciso; Edoardo IV è morto. Shakespeare condensa undici<br />

lunghi anni di storia nei primi atti <strong>del</strong> Riccardo III, come in una<br />

grande Settimana dei Morti. Esistono soltanto Riccardo e i<br />

gradini che lo separano dal trono. Ognuno di quei gradini è un<br />

uomo vivo. Ormai non rimangono che i due figli <strong>del</strong> re defunto.<br />

Devono morire anche loro. La genialità di Shakespeare sta nello<br />

sfrondare la storia di ogni elemento descrittivo, o aneddotico,<br />

direi, quasi, <strong>del</strong>l’intreccio. È una storia senza punti morti.<br />

(Kott, 1992)<br />

E nelle altre tragedie il meccanismo è sempre uguale: regicidio e<br />

incoronazione si susseguono continuamente. La scena si ripete negli<br />

altri drammi allo stesso modo, anche le facce sembrano le stesse,<br />

uguali i nomi (Enrico, Riccardo, Giovanni ricorrono continuamente)<br />

e sempre le madri piangono la sventura loro e dei loro figli. Sempre<br />

la prigione <strong>del</strong>la Torre, sempre Londra, la stessa Londra in cui<br />

vivevano gli spettatori al tempo in cui questi drammi venivano<br />

rappresentati, lo stesso palazzo reale e gli stessi campi di battaglia<br />

inglesi. Vedere lì, sul palcoscenico, gli ambienti in cui loro stessi<br />

vivevano, doveva incutere un forte terrore negli spettatori se si<br />

considera il pesante contesto di cru<strong>del</strong>tà, sangue e morte in cui<br />

erano immerse le scene.<br />

Poco importa, quindi, che il re sia cru<strong>del</strong>e e spietato come<br />

Riccardo o buono, come sembra apparire Enrico conte di<br />

6


Richmond alla fine di Riccardo III: il dramma che lo investirà sarà<br />

sempre lo stesso. E tutto avverrà con assoluta naturalezza, come se<br />

fosse l’ordine naturale <strong>del</strong>le cose.<br />

Un’atra importante osservazione di Kott è che in Shakespeare<br />

non ci sono dei che determinano la storia o che la influenzano, ci<br />

sono solo re di cui ognuno è a turno ora carnefice, ora vittima, e<br />

uomini vivi e veri, che hanno paura e che si limitano a guardare la<br />

grande scala <strong>del</strong>la storia. Sulla stessa scia Rosanna Camerlingo<br />

sottolinea come l’interpretazione shakespeariana <strong>del</strong>la storia non è<br />

né lineare né celebrativa né provvidenziale, ma è mostrata come<br />

una serie di eventi confusi su cui non veglia nessun confortante<br />

sguardo dall’alto. Lontani da qualsiasi intervento provvidenziale, i<br />

personaggi shakespeariani, buoni o cattivi che siano, arrivano alla<br />

fine all’ultimo gradino nel tentativo di fare un gesto estremo, un<br />

salto nel vuoto, come quello che vuole fare il cieco Gloucester in Re<br />

Lear: salta per mettere fine a tutto, ma il vuoto non c’è! Il salto fallito<br />

lo rende quasi ridicolo: nella sua tragicità diventa grottesco.<br />

Da questo cru<strong>del</strong>e meccanismo, per Kott, sembra non esserci via<br />

d’uscita:<br />

Nel mondo <strong>shakespeariano</strong> c’è una contraddizione tra l’ordine<br />

<strong>del</strong>l’azione e l’ordine morale. Questa contraddizione è il destino umano.<br />

Uscirne è impossibile.<br />

(Kott, 1992)<br />

2. PERSONAGGI O PERSONALITÀ FALSTAFF E AMLETO<br />

Gli spettatori di Shakespeare preferivano Falstaff e Amleto a tutti<br />

gli altri suoi personaggi, e lo stesso vale per noi, perché il grasso<br />

Jack e il principe di Danimarca dimostravano di avere le<br />

coscienze più complete <strong>del</strong>l’intera letteratura […].<br />

(Bloom, 2006)<br />

7


Nel fare questa affermazione Harold Bloom paragona i due<br />

personaggi shakespeariani al pellegrino Dante, al pellegrino<br />

Chaucer, a Don Chisciotte ed altri illustri nomi. Ciò che rende<br />

impareggiabili Falstaff e Amleto (e al loro seguito le altre grandi<br />

creazioni shakespeariane: Rosalinda, Shylock, Iago, Lear, Macbeth,<br />

Cleopatra) è la loro superiorità cognitiva, linguistica, immaginativa.<br />

Tutto in loro concorre a renderli due vere e proprie personalità, reali<br />

e dotate di forti carismi, in cui l’uomo si è potuto finalmente<br />

riconoscere, anzi, conoscere. Secondo Bloom, infatti, Shakespeare<br />

non crea tanto dei semplici personaggi che hanno affascinato e<br />

continueranno ad affascinare il pubblico, bensì vere e proprie<br />

personalità, coscienze umane. Falstaff, il più grande degli arguti, e<br />

Amleto, il più grande tra gli intelligenti, sono per Bloom il migliore<br />

esempio <strong>del</strong>l’ ’invenzione <strong>del</strong>l’umano’, sono l’inaugurazione <strong>del</strong>la<br />

personalità come noi oggi la conosciamo. Con Amleto e Falstaff,<br />

Shakespeare ha creato l’io come agente morale, ha creato sì dei<br />

ruoli, ma ruoli con una interiorità umana, che Hegel aveva già<br />

definito ‘liberi artefici di se stessi’, mentre Shelley ‘forme più reali<br />

<strong>del</strong>l’uomo vivente’. Con i suoi personaggi il drammaturgo ci mette<br />

faccia a faccia con i nostri sentimenti, ce li presenta come se<br />

ancora non li conoscessimo, ce li fa scoprire e riconoscere mentre i<br />

suoi personaggi si rivelano a noi nella scena <strong>del</strong> dramma.<br />

Nel fare ciò, secondo Bloom, Shakespeare ha<br />

inconsapevolmente creato la nostra psicologia, ancora prima <strong>del</strong><br />

grande Freud. Leggendo le sue opere, infatti, vediamo che i<br />

personaggi hanno tutte le sfumature <strong>del</strong>la psicologia umana: il<br />

bene e il male, il comico e il tragico, il forte e il debole, il maschile e<br />

il femminile. Le opere di Shakespeare sono così omnicomprensive<br />

8


<strong>del</strong>l’umano da essere state addirittura definite ‘Scritture secolari’, in<br />

quanto caratterizzate da un universalismo globale e multiculturale<br />

paragonabile soltanto a quello <strong>del</strong>la Bibbia.<br />

In forza <strong>del</strong>la sua genialità e <strong>del</strong> suo spiccato intelletto,<br />

Shakespeare, <strong>attraverso</strong> i suoi personaggi, ci indica come e che<br />

cosa percepire, come e che cosa provare come sensazione. Egli,<br />

infatti, ci vuole fare crescere, ma non come cittadini o cristiani,<br />

bensì come coscienze. Inoltre, cattura subito la nostra attenzione<br />

<strong>attraverso</strong> la forte vitalità che emerge dai suoi drammi. Tale<br />

vitalismo è dato sia dalle coscienze reali dei personaggi, sia dal loro<br />

linguaggio che è vivo, nuovo, appena inventato. Molte parole o<br />

frasi familiari <strong>del</strong>l’inglese moderno, infatti, furono coniate per la<br />

prima volta da Shakespeare. Circa 2000 parole inglesi e un numero<br />

imprecisato di frasi si debbono a lui. L’Oxford English Dictionary è<br />

fatto a sua immagine, dice Bloom.<br />

Per Bloom Shakespeare ha ‘inventato l’uomo’, non solo quello<br />

<strong>del</strong> rinascimento, ma quello di ogni tempo e in particolar modo<br />

quello <strong>del</strong>la modernità, ha plasmato e mo<strong>del</strong>lato dei ‘characters’<br />

con un <strong>pensiero</strong> moderno. In questo è nostro contemporaneo,<br />

come lo definisce anche Kott sotto altri punti di vista. Non è<br />

possibile, quindi, limitare Shakespeare al suo contesto, alla sua<br />

condizione contingente, alla sua epoca e al suo Paese: altrimenti<br />

non si spiegherebbe l’influenza su di noi. Il suo teatro-mondo, come<br />

forma conoscitiva superiore alle altre, ha determinato, per Bloom, il<br />

canone occidentale.<br />

Nel cercare una spiegazione a tale genialità, Bloom individua<br />

una possibile ma non esaustiva risposta in una certa ‘tensione’ <strong>del</strong>la<br />

società rinascimentale che Shakespeare avrebbe sfruttato per<br />

9


icavare tali personalità: la tensione dei rinascimentali ad unirsi a<br />

qualcosa di personale che però era più grande <strong>del</strong>l’uomo stesso:<br />

Dio o uno spirito. Una tensione o ansia che creava un vuoto tra la<br />

persona e il suo ideale personale e che Shakespeare avrebbe<br />

personalmente vissuto e usato nel creare i suoi personaggi.<br />

Analizziamo più in dettaglio la figura di Falstaff protagonista <strong>del</strong><br />

dramma storico Enrico IV - parte prima ed Enrico IV - parte<br />

seconda. Subito è evidente una certa incongruenza tra il titolo <strong>del</strong><br />

dramma storico e il protagonista. Bloom, infatti, insieme a molti altri<br />

studiosi, sostiene che il vero personaggio principale non è il re Enrico<br />

IV né tantomeno il principe Hal suo figlio, ma è Jack, il paffuto e<br />

scapestrato Jack. A chi ha denominato ‘Enriade’ la tetralogia<br />

composta da Riccardo II, Enrico IV – parte prima, Enrico IV – parte<br />

seconda ed Enrico V, Bloom risponde che il suo vero nome è<br />

‘Falstaffiade’, che più che dramma patriottico è tragicommedia,<br />

tutta intrisa <strong>del</strong>l’astuto umorismo falstaffiano.<br />

Ma chi è Falstaff Un ladro, un goloso, un lussurioso, un<br />

corruttore O ancora: un buffone di corte, un truffatore, un<br />

puttaniere, un cortigiano opportunista Sì. Tuttavia,<br />

paradossalmente rispetto al suo stile di vita, egli è<br />

fondamentalmente saggezza, arguzia, conoscenza di sé, dominio<br />

<strong>del</strong>la realtà. Gli estratti che seguono, tratti dai dialoghi di Falstaff,<br />

sono eccezionali nel mostrare la dirompente arguzia che nasconde<br />

la sua autentica saggezza, la quale distrugge le illusioni <strong>del</strong>la<br />

comune morale. Nel primo estratto, in una sorta di dramma nel<br />

dramma, Hal e Falstaff recitano le parti l’uno <strong>del</strong> re e l’altro <strong>del</strong>lo<br />

stesso principe Hal. Nel farlo, Falstaff mette astutamente in bocca al<br />

suo ‘rivale nello scontro verbale’ parole di adulazione per sé stesso.<br />

10


(Falstaff recita la parte di Hal rivolgendosi ad Hal nella parte <strong>del</strong> re padre)<br />

FALSTAFF. Ma dire che io conosca in lui più di male che in<br />

me stesso, sarebbe dir di più di quello che è a mia<br />

conoscenza. Ch’egli sia vecchio- tanto più è<br />

peccato- ne fan fede i suoi capelli bianchi; ma che<br />

egli sia – con tutto il rispetto per la vostra reverenza -<br />

un puttaniere, io assolutamente lo nego. Se il vin di<br />

Spagna e lo zucchero sono una colpa, che Dio aiuti<br />

i malvagi! Se esser vecchio e arzillo è peccato,<br />

allora più di un vecchio compagnone di mia<br />

conoscenza sarà dannato; se per esser grassi s’ha<br />

da essere odiati, allora le vacche magre <strong>del</strong><br />

faraone dovranno essere amate. No, mio buon<br />

signore, bandisci Peto, bandisci Bardolfo, bandisci<br />

Poins, ma quanto al dolce Gianni Falstaff, al gentile<br />

Gianni Falstaff, e tanto più prode in quanto è il<br />

vecchio Gianni Falstaff, non lo bandire dalla<br />

compagnia <strong>del</strong> tuo Arrigo, non lo bandire dalla<br />

compagnia <strong>del</strong> tuo Arrigo. Bandire il paffuto Gianni,<br />

sarebbe bandire il mondo intero.<br />

(Enrico IV-parte prima,II.3)<br />

Nell’estratto che segue, invece, siamo nel campo di battaglia di<br />

Shrewsbury dove, dopo aver condotto i suoi centocinquanta uomini<br />

verso una distruzione quasi totale, Falstaff rimane per sua fortuna<br />

incolume. Qui mette fuori tutto il suo disprezzo per l’assurdo e folle<br />

massacro <strong>del</strong>la guerra con la sua inconfondibile ironia.<br />

PRINCIPE. Che fai qui con le mani in mano Prestami la tua<br />

spada. Tanti nobili giacciono duri e rigidi sotto gli<br />

zoccoli di nemici trionfanti, e la loro morte è ancora<br />

invendicata. Ti prego, lasciami la tua spada.<br />

FALSTAFF. Oh, Hal, ti prego, dammi un momento di respiro.<br />

Gregorio il Turco ammazzasette non compì mai in<br />

battaglia azioni come quelle che ho compiuto io oggi.<br />

Ho pagato Percy, è al sicuro.<br />

PRINCIPE. Al sicuro, di certo, e vive per ucciderti. Ti prego,<br />

prestami la tua spada.<br />

FALSTAFF. No, per amor di Dio, Hal. Se Percy è vivo, non<br />

prenderti la mia spada, piuttosto la pistola, se la vuoi.<br />

PRINCIPE. Dammela. Dov’è, dentro il fodero<br />

FALSTAFF. Sì, Hal, scotta, scotta. Ce n’è da mettere a sacco una<br />

città.<br />

11


[Il principe la toglie dalla fondina e scopre che è<br />

una borraccia di vin secco.]<br />

PRINCIPE. Ma è il momento di scherzare e trastullarsi questo<br />

[Gli getta addosso la borraccia. Esce.]<br />

FALSTAFF. Bene, se Percy è vivo, lo infilzerò. Se viene sul mio<br />

cammino, bene. Se non viene lui e vado io sul suo di<br />

mia volontà, mi arrostisca come una braciola. Non mi<br />

piace il ghigno <strong>del</strong>l’onore sulla faccia dei sir Walter.<br />

Datemi la vita, e se posso salvarla, bene; se no, l’onore<br />

arriva indesiderato, e tutto finisce lì.<br />

[Esce.]<br />

(Enrico IV-parte prima, V.3)<br />

In quest’ultimo estratto, Falstaff risponde alle ingiuste (a parer<br />

suo) accuse di Hal per essersi codardamente finto morto pur di non<br />

farsi uccidere dal grande Percy detto Hotspur. Qui emerge il volto<br />

più umano di Falstaff, con la sua visione <strong>del</strong>le cose capovolta e<br />

tutta fuori dal tempo, con il suo onore “ipocrita” che fa parodia<br />

<strong>del</strong>le stragi nobili, <strong>del</strong>le leggi e <strong>del</strong>lo Stato:<br />

FALSTAFF. Sventrare me! Se mi sventri oggi, ti concedo di salarmi<br />

e mangiarmi domani. Sangue di Dio, quello era il<br />

momento di contraffarmi, se no quel bollente<br />

fracassone d’uno scozzese mi pagava lo scotto e<br />

saldava il conto una volta per tutte. Contraffarmi!<br />

Mento, non sono una contraffazione. Morire significa<br />

contraffarsi, perché un morto non è che la<br />

contraffazione <strong>del</strong>l’uomo, perché non ha la vita<br />

<strong>del</strong>l’uomo. Ma contraffare la morte quando un uomo<br />

così facendo vive, non significa essere una<br />

contraffazione ma la vera e perfette immagine <strong>del</strong>la<br />

vita.<br />

(Enrico IV-parte prima, V.4)<br />

Lontano da ogni forma di sentimentalismo, il vero Falstaff è colui<br />

che ci insegna a non moralizzare, a ridere di noi come ridiamo degli<br />

altri con un senso <strong>del</strong>l’umorismo che evita la cru<strong>del</strong>tà, sottolineando<br />

la vulnerabilità di ciascun io. Egli vive secondo un gioco infantile<br />

(ma non per questo puerile) che può esistere solo in un ordine<br />

12


diverso da quello <strong>del</strong>la moralità. È un gioco infantile ma intriso di<br />

saggezza e vitalismo. A.C. Bradley lo interpreta così:<br />

La gioia <strong>del</strong>la libertà conquistata con il senso <strong>del</strong>l’umorismo è<br />

l’essenza di Falstaff. Il suo senso <strong>del</strong>l’umorismo non si dirige<br />

soltanto o principalmente contro assurdità evidenti; lui è il<br />

nemico di qualsiasi cosa interferisca con la sua serenità, e<br />

dunque di qualsiasi cosa seria, e soprattutto di qualsiasi cosa<br />

morale e rispettabile. […] Per lui (queste cose) sono assurde; e<br />

ridurre una cosa ad absurdum equivale a ridurla a niente e ad<br />

andarsene via liberi e felici.<br />

(Bloom, 2006)<br />

Falstaff si rifiuta, in definitiva, di riconoscere le istituzioni sociali<br />

<strong>del</strong>la realtà; ciò non è né immorale né amorale, ma appartiene ad<br />

un’altra dimensione, all’ordine <strong>del</strong> gioco appunto.<br />

3. AMORE - POTERE - MORTE.<br />

Il tema <strong>del</strong>l’amore è continuamente presente nei drammi di<br />

Shakespeare e ancor più nei poemi e nei sonetti (ai quali, tuttavia,<br />

faremo solo qualche accenno).<br />

Bloom, riferendosi a questo sentimento, afferma:<br />

La varietà <strong>del</strong>l’amore appassionato tra i sessi costituiscono una<br />

<strong>del</strong>le preoccupazione costanti di Shakespeare […]. Più di<br />

qualsiasi altro autore, il drammaturgo ha mostrato all’Occidente<br />

le catastrofi <strong>del</strong>la sessualità e ha inventato la formula secondo<br />

cui il sessuale si trasforma in erotico quando incrocia l’ombra<br />

<strong>del</strong>la morte.<br />

(Bloom, 2006)<br />

Il sentimento <strong>del</strong>l’amore, infatti, per Shakespeare è il più grande<br />

tra i valori drammatici ed estetici ed assume variegate forme e<br />

qualità: da quella familiare, a quella erotica, a quella sociale, e<br />

finanche quella omosessuale. Shakespeare spoglia l’amore da ogni<br />

valore presunto e scontato che il lettore/spettatore potrebbe<br />

13


previamente attribuirgli ad un primo impatto e lo presenta sotto<br />

sfaccettature diverse. Nei prossimi paragrafi analizzeremo: il volto<br />

<strong>del</strong>l’amore irriducibile in Romeo e Giulietta, il connubio amoremorte<br />

in Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra, l’amore come<br />

desiderio di potere in Antonio e Cleopatra e, infine, il non-amore in<br />

Amleto.<br />

Amore irriducibile. Per quanto spesso sottovalutata perché quasi<br />

appartenente a una sfera mitologica, la tragedia Romeo e Giulietta<br />

è il manifesto di quella che Bloom chiama la religione <strong>del</strong>l’amore di<br />

Shakespeare. Nella tragedia il drammaturgo esprime la visione di un<br />

amore irriducibile, intenso e intriso di un forte idealismo. Il ‘sublime<br />

stato di innamoramento di Giulietta’, come lo definisce Bloom,<br />

tende a qualcosa di infinito ed è ricambiato dall’altrettanto<br />

innamorato Romeo, il quale tuttavia compie continuamente un<br />

sforzo per imitarne la grandezza. La sublimità <strong>del</strong> sentimento <strong>del</strong>la<br />

fanciulla si dichiara, per Bloom, come in una ‘epifania’, nelle<br />

battute seguenti:<br />

GIULIETTA. Il mio voto te l’ho dato prima che tu me l’abbia chiesto; eppure vorrei<br />

avere ancora da pronunciarlo.<br />

ROMEO. Vorresti rinnegarlo E perché, amore<br />

GIULIETTA. Per essere generosa e potertelo ridare. Ma io desidero solo quello che<br />

già ho. La mia generosità è come il mare e non ha confini, e il mio<br />

amore è altrettanto profondo: ambedue sono infiniti e così più do a te<br />

e più ho per me.<br />

(Romeo e Giulietta, II.2)<br />

La generosità traboccante di Giulietta ci rivela il volto di un<br />

amore puro, costruttivo, sano. Ma ciò che lo distingue dall’amore<br />

idealizzato di molte altre eroine è che è ben lontano da un amore<br />

platonico. Il sentimento di Giulietta per Romeo è terreno, reale,<br />

14


ealizzabile, non trascende la sessualità, al contrario di come<br />

avevano fatto le più famose eroine <strong>del</strong>la letteratura precedente.<br />

Giulietta è un’eroina tutta umana e l’amore tra lei e Romeo è il più<br />

sano e costruttivo di cui si era mai raccontato prima o forse di cui<br />

mai si racconterà. La loro intensa passione tende all’infinito perché,<br />

come ha detto Hazlitt, non si basa sui piaceri che i due innamorati<br />

hanno vissuto, bensì su tutti i piaceri che non hanno vissuto.<br />

Amore e morte. Possiamo partire ancora una volta da Romeo e<br />

Giulietta per parlare di come amore assoluto e morte siano per<br />

Shakespeare inseparabili. L’ombra <strong>del</strong>la morte minaccia ogni vera<br />

passione, sia essa sana e generosa come quella di Romeo e<br />

Giulietta, sia essa lussuriosa e materialista come quella di Antonio e<br />

Cleopatra nell’omonima tragedia. L’infinito a cui tendono gli<br />

amanti shakespeariani non trascende la realtà umana ma è<br />

realistico, è possibile. Forse è proprio per questo che non ha altra<br />

valvola di sfogo che la morte. La tragedia, perciò, per Shakespeare<br />

è l’unica forma in cui l’amore assoluto può svilupparsi e vivere, ma<br />

ciononostante morire. Così, mentre l’erotismo e la passione hanno<br />

pieno sfogo solo nella tragedia, nella commedia l’unica forma di<br />

amore possibile è quello di una semplice sessualità (Sogno di una<br />

notte di mezz’estate o La tempesta ce ne danno <strong>alcuni</strong> esempi). È<br />

così anche Antonio e Cleopatra, pur essendo due amanti tanto<br />

diversi da Romeo e Giulietta, finiscono per ritrovarsi uniti in una<br />

passione assoluta solo tramite il suicidio. La scelta di morire suicidi<br />

che i due protagonisti maschili, Romeo e Antonio, fanno per unirsi<br />

all’amata, è frutto di un fatale gioco che la stessa morte li ha sfidati<br />

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a fare. Un cru<strong>del</strong>e scherzo di cui entrambi rimangono vittime<br />

suicidandosi perché pensano che le loro amate siano morte.<br />

Amore e potere. La varietà di volti che per Shakespeare può<br />

assumere l’amore umano (e quindi l’amore dei suoi ‘umani’<br />

personaggi) assume, in Antonio e Cleopatra, sembianze <strong>del</strong> tutto<br />

opposte rispetto a quello di Romeo e Giulietta. La tragedia <strong>del</strong>la<br />

piccolezza <strong>del</strong> mondo, come la definisce il Kott, vede infatti<br />

protagonisti due potenti amanti: il triumviro Antonio e la regina<br />

d’Egitto Cleopatra, al cui cospetto il mondo diventa talmente<br />

piccolo da essere insufficiente al loro desiderio di potere. Infervorati<br />

l’uno <strong>del</strong>l’altro da una passione assoluta e lussuriosa, i due amanti,<br />

lungi dal donarsi generosamente amore, si tradiscono a vicenda<br />

per ragioni di Stato. Pur tuttavia la loro passione non demorde e<br />

vanifica ora i doveri di un re ora la dignità di una regina. Nella<br />

fulminea esposizione <strong>del</strong> dramma, in cui a Shakespeare bastano<br />

poche parole per dire tutto, i due amanti ci vengono presentati da<br />

due amici di Antonio prima ancora di entrare in scena:<br />

… stai bene attento e vedrai in lui il terzo sostegno <strong>del</strong> mondo<br />

trasformato nello zimbello di una puttana: guarda e osserva.<br />

(Antonio e Cleopatra, I. 1)<br />

Entrano sulla scena i due potenti e bastano poche battute <strong>del</strong><br />

loro dialogo iniziale a darci una chiara idea <strong>del</strong> loro tipo di amore:<br />

CLEOPATRA. Se è veramente amore, ditemi quanto.<br />

ANTONIO. Vi è miseria nell’amore perché può essere valutato.<br />

CLEOPATRA. Voglio stabilire un limite, per sapere quanto io sia<br />

amata.<br />

ANTONIO. Allora bisognerà che tu trovi un nuovo cielo e una<br />

nuova terra.<br />

(Antonio e Cleopatra, I. 1)<br />

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L’espressione di Antonio ‘nuovo cielo e nuova terra’ ci danno la<br />

miglior chiave di lettura: la passione che scorre tra i due è<br />

strettamente legata alla sete di potere e di dominio tanto sul<br />

mondo quanto sull’amato/a. Ma, come commenta Kott, si tratta di:<br />

Una terra troppo piccola per contenerli entrambi e un cielo che<br />

non possono mutare. Il mondo è ostile. La terra e il cielo devono<br />

crollare perché l’amore trionfi. Ma la terra e il cielo sono più forti<br />

di Antonio e Cleopatra. Gli amanti regali dovranno arrendersi,<br />

oppure scegliere la morte.<br />

(Kott, 1992)<br />

I due amanti scelgono alla fine il suicidio, unica via per non<br />

soccombere totalmente alla disfatta: i due non sanno e non<br />

vogliono perdere.<br />

La sconfitta è qualcosa che non accettano e la sconfitta nel<br />

potere di uno equivale al tradimento e all’abbandono da parte<br />

<strong>del</strong>l’altro. Infatti, quando Antonio perde nella lotta per il dominio sul<br />

mondo, Cleopatra entra in crisi, deve scegliere: Antonio o l’Egitto<br />

Calcola tutte le possibilità e prende la sua decisione: vendersi al<br />

nuovo Cesare pur di salvare il suo potere. D’altronde, come osserva<br />

Kott, Cleopatra ama l’Antonio Pilastro <strong>del</strong> mondo, ma una volta<br />

che è stato sconfitto egli non è più quell’Antonio. E Antonio non è<br />

da meno: egli ama la Cleopatra dea <strong>del</strong> Nilo e la Cleopatra che si<br />

è appena venduta a Cesare non è più Cleopatra. L’epilogo <strong>del</strong><br />

loro amore si riassume nelle parole di Antonio che Cleopatra ripete<br />

prima di morire:<br />

È misera cosa essere Cesare […] è invece cosa grande<br />

compiere quell’atto che dà termine a tutti gli altri, che incatena<br />

gli incidenti ed arresta il cambiamento; che addormenta e<br />

impedisce di assaporare quel fango che nutre il mendicante e<br />

Cesare.<br />

(Antonio e Cleopatra,V. 2)<br />

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Non–amore. C’è un solo personaggio in tutta la produzione<br />

shakespeariana che si disinnamora o che forse non ha mai amato.<br />

Questo personaggio è Amleto. Il principe di Danimarca, infatti,<br />

lungo lo svolgimento <strong>del</strong> suo dramma (se un dramma c’è), si<br />

disinnamora <strong>del</strong>la povera Ofelia, anzi a un certo punto nega <strong>del</strong><br />

tutto di averla mai amata. Se così fosse, si potrebbe affermare che<br />

egli non ha mai amato. Bloom ne è convinto. Infatti, quando la<br />

tragedia volge al termine Amleto non ama più nessuno, né la<br />

defunta Ofelia, né il defunto padre, né la defunta Gertrude, né il<br />

defunto Yorick. E allora, si chiede Bloom, quando muore, Amleto<br />

ama qualcuno Probabilmente no: in quel preciso momento il<br />

principe si libera da ogni affettività. Persino il gesto che compie nel<br />

salvare Orazio dalla sua intenzione al suicidio non è determinato<br />

dall’affetto: Amleto lo salva solo perché il sopravvissuto lavi il suo<br />

nome offeso. Tutto ciò, sostiene Bloom, sottolineerebbe un<br />

atteggiamento critico di Shakespeare nei confronti <strong>del</strong> sentimento<br />

<strong>del</strong>l’amore e, per diversi studiosi, sfocerebbe in un forte scetticismo.<br />

Tuttavia, Bloom sostiene che più che essere scettico, Shakespeare<br />

aveva una concezione <strong>del</strong>l’amore molto vicina a quella di Auden<br />

quando dice: .<br />

Ciò significa, secondo il critico, che per Shakespeare l’amore esiste,<br />

ma è un sentimento profondo e inevitabile, che non può essere<br />

determinato dalla persona e che spesso si rivela terribile, distruttivo,<br />

irreparabile.<br />

CONCLUSIONE<br />

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Per finire, <strong>attraverso</strong> questo lavoro ho voluto scoprire il ‘mistero’,<br />

se così lo si può definire, <strong>del</strong>la grandezza e genialità di questo<br />

scrittore. Nel corso <strong>del</strong>la ricerca ho scoperto come William<br />

Shakespeare sia dotato di genialità, universalità, superiorità di<br />

intelletto (per dirla con Carlyle) talmente vasti da essere addirittura<br />

difficilmente comprensibili. Dalla lettura di Harold Bloom e Jan Kott,<br />

ma non solo, ho dedotto che queste qualità shakespeariane<br />

derivano principalmente da una profonda comprensione <strong>del</strong>la<br />

natura umana oltre che da una grandiosa inventiva, originalità e<br />

vitalità artistica.<br />

Aldilà <strong>del</strong>le spiegazioni che si possano trovare per il fenomeno<br />

<strong>shakespeariano</strong>, vorrei concludere con la nota di elogio che Mario<br />

Praz pronuncia nell’introduzione a Shakespeare. Tutte le opere:<br />

Tutta la letteratura inglese potrebbe interpretarsi in chiave di<br />

questo Sommo, e dappertutto potrebbero avvertirsi<br />

prefigurazioni o echi di lui, nel quale convergono come in una<br />

maestosa confluenza le acque di molti fiumi. La sua personalità<br />

certo eclissa chiunque le stia vicino; uno squisito manierista e<br />

perfetto cortigiano come Sidney può mettere quante più<br />

sottigliezze psicologiche voglia nella sua Arcadia: tutto apparrà<br />

un <strong>del</strong>izioso giuoco alessandrino accanto a quell’imitabile<br />

fusione di creanze un po’ leziose e d’autentica vita che si ritrova<br />

in ogni dialogo di Shakespeare.<br />

(Praz, 1993)<br />

Rosa Soresi<br />

19


BIBLIOGRAFIA<br />

- Bertinetti P. (a cura di), Storia <strong>del</strong>la letteratura inglese, vol. 1,<br />

Torino, Einaudi, 2000.<br />

- Bloom H., Shakespeare. L’invenzione <strong>del</strong>l’uomo, Milano, BUR,<br />

2006.<br />

- Kott J., Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli<br />

editore, 1992.<br />

20


- Levin H., Shakespeare and the devolution of the times.<br />

Perspectives and commentaries, New York, Oxford University<br />

Press, 1976.<br />

- Praz M. (a cura di), Shakespeare. Tutte le opere, Milano,<br />

Sansoni editore, 1993.<br />

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