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I sommersi e i salvati

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VIII<br />

Lettere di tedeschi<br />

Se questo è un uomo è un libro di dimensioni modeste, ma, come un animale<br />

nomade, ormai da quarant’anni si lascia dietro una traccia lunga e intricata. Era<br />

stato pubblicato una prima volta nel 1947, in 2500 copie, che furono bene<br />

accolte dalla critica ma smerciate solo in parte: le 600 copie residue, riposte a<br />

Firenze in un magazzino di invenduti, vi annegarono nell’alluvione<br />

dell’autunno 1966. Dopo dieci anni di «morte apparente», ritornò alla vita<br />

quando lo accettò l’editore Einaudi, nel 1957. Mi sono spesso posto una<br />

domanda futile: che cosa sarebbe successo se il libro avesse avuto subito una<br />

buona diffusione? Forse niente di particolare: è probabile che avrei continuato<br />

la mia faticosa vita di chimico che diventava scrittore alla domenica (e neanche<br />

tutte le domeniche); o forse invece mi sarei lasciato abba-gliare ed avrei, chissà<br />

con quale fortuna, issato le bandiere dello scrittore in grandezza naturale. La<br />

questione, come dicevo, è oziosa: il mestiere di ricostruire il passato ipotetico,<br />

il cosa-sarebbe-successo-se, è altrettanto screditato quanto quello di antivedere<br />

l’avvenire.<br />

Malgrado questa falsa partenza, il libro ha camminato. É stato tradotto in otto<br />

o nove lingue, adattato per la radio e per il teatro in Italia ed all’estero,<br />

commentato in innumerevoli scuole. Del suo itinerario, una tappa e stata per<br />

me d’importanza fondamentale: quella della sua traduzione in tedesco e della<br />

sua pubblicazione in Germania Federale. Quando, verso il 1959, seppi che un<br />

editore tedesco (la Fischer Bücherei) aveva acquistato i diritti per la traduzione,<br />

mi sentii invadere da un’emozione violenta e nuova, quella di aver vinto una<br />

battaglia. Ecco, avevo scritto quelle pagine senza pensare ad un destinatario<br />

specifico; per me, quelle erano cose che avevo dentro, che mi invadevano e<br />

che dovevo mettere fuori: dirle, anzi, gridarle sui tetti; ma chi grida sui tetti si<br />

indirizza a tutti e a nessuno, chiama nel deserto. All’annuncio di quel contratto,<br />

tutto era cambiato e mi era diventato chiaro: il libro lo avevo scritto sì in<br />

italiano, per gli italiani, per i figli, per chi non sapeva, per chi non voleva<br />

sapere, per chi non era ancora nato, per chi, volentieri o no, aveva acconsentito<br />

all’offesa; ma i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come<br />

un’arma, erano loro, i tedeschi. Ora l’arma era carica.<br />

Si ricordi, da Auschwitz erano passati solo quindici anni: i tedeschi che mi<br />

avrebbero letto erano «quelli», non i loro eredi. Da soverchiatori, o da<br />

spettatori indifferenti, sarebbero diventati lettori: li avrei costretti, le-gati<br />

davanti ad uno specchio. Era venuta l’ora di fare i conti, di abbassare le carte<br />

sul tavolo. Soprattutto, l’ora del colloquio. La vendetta non mi interessava; ero<br />

stato intimamente soddisfatto dalla (simbolica, incompleta, tendenziosa) sacra<br />

rappresentazione di Norimberga, ma mi stava bene così, che alle giustissime<br />

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