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I sommersi e i salvati

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impiccagioni pensassero gli altri, i professionisti. A me spettava capire, capirli.<br />

Non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti<br />

da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi delle SS, ed anche quegli<br />

altri, quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non<br />

avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo<br />

di pane, di mormorare una parola umana.<br />

Ricordo molto bene quel tempo e quel clima, e credo di poter giudicare i<br />

tedeschi di allora senza pregiudizi e senza collera. Quasi tutti, ma non tutti,<br />

erano stati sordi, ciechi e muti: una massa di «invalidi» intorno a un nocciolo di<br />

feroci. Quasi tutti, ma non tutti, erano stati vili. Proprio qui, e con refrigerio, e<br />

per dimostrare quanto mi siano lontani i giudizi globali, vorrei raccontare un<br />

episodio: è stato eccezionale, ma è pure avvenuto.<br />

Nel novembre del 1944 eravamo al lavoro, ad Auschwitz; io, con due<br />

compagni, ero nel laboratorio chimico che ho descritto a suo luogo. Suonò<br />

l’allarme aereo, e subito dopo si videro i bombardieri: erano centinaia, si<br />

prospettava una incursione mostruosa. C’erano nel cantiere alcuni grandi<br />

bunker, ma erano per i tedeschi, a noi erano vietati. Per noi dovevano bastare i<br />

terreni incolti, ormai già coperti di neve, compresi entro la recinzione. Tutti,<br />

prigionieri e civili, ci precipitammo per le scale verso le rispettive destinazioni,<br />

ma il capo del laboratorio, un tecnico tedesco, trattenne noi Häftlinge-chimici:<br />

«Voi tre venite con me». Stupiti, lo seguimmo di corsa verso il bunker, ma sulla<br />

soglia stava un guardiano armato, con la svastica sul bracciale. Gli disse: «Lei<br />

entra; gli altri, fuori dai piedi». Il capo rispose: «Sono con me: o tutti o<br />

nessuno», e cercò di forzare il passaggio; ne segui un pugilato. Certo avrebbe<br />

avuto la meglio il guardiano, che era robusto, ma per fortuna di tutti suonò il<br />

cessato allarme: l’incursione non era per noi, gli aerei avevano proseguito verso<br />

nord. Se (un altro se! ma come resistere al fascino dei sentieri che si<br />

biforcano?), se i tedeschi anomali, capaci di questo modesto coraggio, fossero<br />

stati più numerosi, la storia di allora e la geografia di oggi sa-rebbero diverse.<br />

Non mi fidavo dell’editore tedesco. Gli scrissi una lettera quasi insolente:<br />

lo diffidavo dal togliere o cambiare una sola parola del testo, e lo impegnavo a<br />

mandarmi il manoscritto della traduzione a fascicoli, capitolo per capitolo, a<br />

mano a mano che il lavoro procedeva; volevo controllarne la fedeltà, non solo<br />

lessicale ma intima. Insieme col primo capitolo, che trovai tradotto assai bene,<br />

mi giunse uno scritto del traduttore, in italiano perfetto. L’editore gli aveva<br />

mostrato la mia lettera: non avevo niente da temere, né dall’editore né tanto<br />

meno da lui. Si presentava: aveva la mia età precisa, aveva studiato per parecchi<br />

anni in Italia, oltre che traduttore era un italianista, studioso del Goldoni.<br />

Anche lui era un tedesco anomalo. Era stato chiamato sotto le armi, ma il<br />

nazismo gli ripugnava; nel 1941 aveva simulato una malattia, era stato<br />

ricoverato in ospedale, ed aveva ottenuto di trascorrere la convalescenza<br />

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