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l’ha conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a compiere su<br />
se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale: immagini, se può, di aver<br />
trascorso mesi o anni in un ghetto, tormentato dalla fame cronica, dalla fatica,<br />
dalla promiscuità e dall’umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno<br />
ad uno, i propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né<br />
trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o cento per<br />
vagone merci; di viaggiare verso l’ignoto, alla cieca, per giorni e notti insonni; e<br />
di trovarsi infine scagliato fra le mura di un inferno indecifrabile. Qui gli viene<br />
offerta la sopravvivenza, e gli viene proposto, anzi imposto, un compito truce<br />
ma imprecisato. É questo, mi pare, il vero Befehlnotstand, lo «stato di costrizione<br />
conseguente a un ordine»: non quello sistematicamente ed impudentemente<br />
invocato dai nazisti trascinati a giudizio, e più tardi (ma sulle loro orme) dai<br />
criminali di guerra di molti altri paesi. Il primo è un autaut rigido, l’obbedienza<br />
immediata o la morte; il secondo è un fatto interno al centro di potere, ed<br />
avrebbe potuto essere risolto (in effetti spesso fu risolto) con qualche<br />
manovra, con qualche ritardo nella carriera, con una moderata punizione, o,<br />
nel peggiore dei casi, col trasferimento del renitente al fronte di guerra.<br />
L’esperimento che ho proposto non è gradevole; ha tentato di rappresentarlo<br />
Vercors, nel suo racconto Les armes de la nuit (Albin Michel, Paris 1953) in cui si<br />
parla della «morte dell’anima», e che riletto oggi mi appare intollerabilmente<br />
infetto di estetismo e di libidine letteraria. Ma è indubbio che di morte<br />
dell’anima si tratta; ora, nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la<br />
sua anima sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere<br />
umano possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può essere<br />
grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema dà modo di valutarla. Anche<br />
senza ricorrere al caso-limite delle Squadre Speciali, accade spesso a noi reduci,<br />
quando raccontiamo le nostre vicende, che l’interlocutore dica: «Io, al tuo<br />
posto, non avrei resistito un giorno». L’affermazione non ha un senso preciso:<br />
non si è mai al posto di un altro. Ogni individuo è un oggetto talmente<br />
complesso che è vano pretendere di prevederne il comportamento, tanto più<br />
se in situazioni estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento<br />
proprio. Perciò chiedo che la storia dei «corvi del crematorio» venga meditata<br />
con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso.<br />
La stessa «impotentia judicandi» ci paralizza davanti al caso Rumkowski. La<br />
storia di Chaim Rumkowski non è propriamente una storia di Lager, benché<br />
nel Lager si concluda: è una storia di ghetto, ma così eloquente sul tema<br />
fondamentale dell’ambiguità umana provocata fatalmente dall’oppressione, che<br />
mi pare si attagli fin troppo bene al nostro discorso. La ripeto qui, anche se già<br />
l’ho narrata altrove.<br />
Al mio ritorno da Auschwitz mi sono trovato in tasca una curiosa moneta in<br />
lega leggera, che conservo tuttora. È graffiata e corrosa; reca su una faccia la<br />
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