Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno. 44
III La vergogna Esiste un quadro stereotipo, proposto infinite volte, consacrato dalla letteratura e dalla poesia, raccolto dal cinematografo: al termine della bufera, quando sopravviene «la quiete dopo la tempesta», ogni cuore si rallegra. «Uscir di pena è diletto fra noi». Dopo la malattia ri-torna la salute; a rompere la prigionia arrivano i nostri, i liberatori, a bandiere spiegate; il soldato ritorna, e ritrova la famiglia e la pace. A giudicare dai racconti fatti da molti reduci, e dai miei stessi ricordi, il pessimista Leopardi, in questa sua rappresentazione, è stato al di là del vero: suo malgrado, si è dimostrato ottimista. Nella maggior parte dei casi, l’ora della liberazione non è stata lieta né spensierata: scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e sofferenza. In quel momento, in cui ci si sentiva ridiventare uomini, cioè responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia dispersa o perduta; del dolore universale intorno a sé; della propria este-nuazione, che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli. Non «piacer figlio d’affanno»: affanno figlio d’affanno. L’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase d’angoscia. L’angoscia è nota a tutti, fin dall’infanzia, ed a tutti è noto che spesso è bianca, indifferenziata. É raro che rechi un’etichetta scritta in chiaro, e contenente la sua motivazione; quando la reca, spesso essa è mendace. Si può credersi o dichiararsi angosciati per un motivo, ed esserlo per tutt’altro: credere di soffrire davanti al futuro, e soffrire invece per il proprio passato; credere di soffrire per gli altri, per pietà, per compassione, e soffrire invece per motivi nostri, più o meno profondi, più o meno confessabili e confessati; talvolta così profondi che solo lo specialista, l’analista delle anime, li sa disseppellire. Naturalmente non oso affermare che il copione a cui ho accennato sia falso in ogni caso. Molte liberazioni sono state vissute con gioia piena, autentica: soprattutto da parte dei combattenti, militari o politici, che vedevano realizzarsi in quel momento le aspirazioni della loro militanza e della loro vita; inoltre, da parte di chi aveva sofferto di meno, o per meno tempo, o soltanto in proprio, e non per famigliari o amici o persone amate. E poi, per fortuna, gli esseri umani non sono tutti uguali: c’è fra noi anche chi ha la virtù ed il privilegio di enucleare, isolare quegli istanti di allegrezza, di goderli appieno, come chi estraesse l’oro nativo dalla ganga. E finalmente, tra le testimonianze lette od ascoltate, ci sono anche quelle inconscia-mente stilizzate, in cui la convenzione prevale sulla memoria genuina: «chi è liberato dalla schiavitù ne gode, io ne sono stato liberato, quindi ne ho goduto anch’io. In tutti i film, in tutti i 45
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