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III<br />
La vergogna<br />
Esiste un quadro stereotipo, proposto infinite volte, consacrato dalla<br />
letteratura e dalla poesia, raccolto dal cinematografo: al termine della bufera,<br />
quando sopravviene «la quiete dopo la tempesta», ogni cuore si rallegra. «Uscir<br />
di pena è diletto fra noi». Dopo la malattia ri-torna la salute; a rompere la<br />
prigionia arrivano i nostri, i liberatori, a bandiere spiegate; il soldato ritorna, e<br />
ritrova la famiglia e la pace.<br />
A giudicare dai racconti fatti da molti reduci, e dai miei stessi ricordi, il<br />
pessimista Leopardi, in questa sua rappresentazione, è stato al di là del vero:<br />
suo malgrado, si è dimostrato ottimista. Nella maggior parte dei casi, l’ora della<br />
liberazione non è stata lieta né spensierata: scoccava per lo più su uno sfondo<br />
tragico di distruzione, strage e sofferenza. In quel momento, in cui ci si sentiva<br />
ridiventare uomini, cioè responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena<br />
della famiglia dispersa o perduta; del dolore universale intorno a sé; della<br />
propria este-nuazione, che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da<br />
ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli. Non «piacer figlio<br />
d’affanno»: affanno figlio d’affanno. L’uscir di pena è stato un diletto solo per<br />
pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi<br />
sempre ha coinciso con una fase d’angoscia.<br />
L’angoscia è nota a tutti, fin dall’infanzia, ed a tutti è noto che spesso è bianca,<br />
indifferenziata. É raro che rechi un’etichetta scritta in chiaro, e contenente la<br />
sua motivazione; quando la reca, spesso essa è mendace. Si può credersi o<br />
dichiararsi angosciati per un motivo, ed esserlo per tutt’altro: credere di soffrire<br />
davanti al futuro, e soffrire invece per il proprio passato; credere di soffrire per<br />
gli altri, per pietà, per compassione, e soffrire invece per motivi nostri, più o<br />
meno profondi, più o meno confessabili e confessati; talvolta così profondi<br />
che solo lo specialista, l’analista delle anime, li sa disseppellire.<br />
Naturalmente non oso affermare che il copione a cui ho accennato sia falso in<br />
ogni caso. Molte liberazioni sono state vissute con gioia piena, autentica:<br />
soprattutto da parte dei combattenti, militari o politici, che vedevano realizzarsi<br />
in quel momento le aspirazioni della loro militanza e della loro vita; inoltre, da<br />
parte di chi aveva sofferto di meno, o per meno tempo, o soltanto in proprio,<br />
e non per famigliari o amici o persone amate. E poi, per fortuna, gli esseri<br />
umani non sono tutti uguali: c’è fra noi anche chi ha la virtù ed il privilegio di<br />
enucleare, isolare quegli istanti di allegrezza, di goderli appieno, come chi<br />
estraesse l’oro nativo dalla ganga. E finalmente, tra le testimonianze lette od<br />
ascoltate, ci sono anche quelle inconscia-mente stilizzate, in cui la convenzione<br />
prevale sulla memoria genuina: «chi è liberato dalla schiavitù ne gode, io ne<br />
sono stato liberato, quindi ne ho goduto anch’io. In tutti i film, in tutti i<br />
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