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altro che un ramo della Gestapo), essi dovevano operare in segreto, non solo<br />
verso i tedeschi, ma verso tutti. In Auschwitz, impero concentrazionario che al<br />
mio tempo era costituito per il 95% da ebrei, questo reticolo politico era<br />
embrionale; io ho assistito ad un solo episodio che avrebbe dovuto farmi<br />
intuire qualcosa, se non fossi stato schiacciato dal travaglio di tutti i giorni.<br />
Verso il maggio 1944 il nostro quasi innocuo Kapò fu sostituito, e il nuovo<br />
arrivato si dimostrò un individuo temibile, tutti i Kapòs picchiavano: questo<br />
faceva parte ovvia delle loro mansioni, era il loro linguaggio, più o meno<br />
accettato; era del resto l’unico linguaggio che in quella perpetua Babele potesse<br />
veramente essere inteso da tutti. Nelle sue varie sfumature, veniva inteso come<br />
incitamento al lavoro, come ammonizione o punizione, e nella gerarchia delle<br />
sofferenze stava agli ultimi posti. Ora, il nuovo Kapò picchiava in modo<br />
diverso, in modo convulso, maligno, perverso: sul naso, sugli stinchi, sui<br />
genitali. Picchiava per far male, per produrre sofferenza e umiliazione.<br />
Neppure, come molti altri, per cieco odio razziale, ma con la volontà aperta di<br />
infliggere dolore, indiscriminatamente, e senza un pretesto, a tutti i suoi<br />
soggetti. È probabile che fosse un malato mentale, ma è chiaro che, in quelle<br />
condizioni, l’indulgenza che verso questi malati sentiamo oggi come doverosa<br />
laggiù sarebbe stata fuori luogo. Ne parlai con un collega, un comunista ebreo<br />
croato: che fare? come difendersi? agire collettivamente? Lui fece uno strano<br />
sorriso e mi disse solo: «Vedrai che non dura a lungo». Infatti, il picchiatore<br />
sparì entro una settimana. Ma anni più tardi, in un convegno di reduci, seppi<br />
che alcuni prigionieri politici addetti all’Ufficio del Lavoro all’interno del<br />
campo avevano il terrificante potere di sostituire i numeri di matricola sugli<br />
elenchi dei prigionieri destinati al gas. Chi aveva il modo e la volontà di agire<br />
così, di contrastare così o in altri modi la macchina del Lager, era al riparo dalla<br />
«vergogna»: o almeno da quella di cui sto parlando, poiché forse ne proverà<br />
un’altra. Altrettanto al riparo doveva essere Sivadjan, uomo silenzioso e<br />
tranquillo che ho nominato casualmente in Se questo è un uomo (Einaudi, Torino<br />
1958) nel capitolo Il Canto di Ulisse, e di cui ho saputo nella stessa occasione<br />
che introduceva esplosivo in campo, in vista di una possibile insurrezione.<br />
A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la riacquistata<br />
libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, ed in<br />
proporzioni diverse per ogni singolo individuo. Va ricordato che ognuno di<br />
noi, sia oggettivamente, sia soggettiva-mente, ha vissuto il Lager a suo modo.<br />
All’uscita dal buio, si soffriva per la riacquistata consapevolezza di essere stati<br />
menomati. Non per volontà né per ignavia né per colpa, avevamo tuttavia<br />
vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le nostre giornate erano state<br />
ingombrate dall’alba alla notte dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e<br />
lo spazio di riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato.<br />
Avevamo sopportato la sporcizia, la promiscuità e la destituzione soffrendone<br />
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