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assai meno di quanto ne avremmo sofferto nella vita normale, perché il nostro<br />
metro morale era mutato. Inoltre, tutti avevamo rubato: alle cucine, alla<br />
fabbrica, al campo, insomma «agli altri», alla controparte, ma sempre furto era;<br />
alcuni (pochi) erano discesi fino a rubare il pane al proprio compagno.<br />
Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la<br />
famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappre-sentato, perché, come gli<br />
animali, eravamo ristretti al momento presente. Da questa condizione di<br />
appiattimento eravamo usciti solo a rari intervalli, nelle pochissime domeniche<br />
di riposo, nei minuti fugaci prima di cadere nel sonno, durante la furia dei<br />
bombardamenti aerei, ma erano uscite dolorose, proprio perché ci davano<br />
occasione di misurare dal di fuori la nostra diminuzione.<br />
Credo che proprio a questo volgersi indietro a guardare l’«acqua perigliosa»<br />
siano dovuti i molti casi di suicidio dopo (a volte subito dopo) la liberazione.<br />
Era sempre un momento critico, che coincideva con un’ondata di<br />
ripensamento e di depressione. Per contro, tutti gli storici dei Lager, anche di<br />
quelli sovietici, concordano nell’osservare che i casi di suicidio durante la<br />
prigionia erano rari. Del fatto sono state tentate diverse spiegazioni; da parte<br />
mia, ne propongo tre, che non si escludono a vicenda.<br />
Primo: il suicidio è dell’uomo e non dell’animale, è cioè un atto meditato, una<br />
scelta non istintiva, non naturale; ed in Lager c’erano poche occasioni di<br />
scegliere, si viveva appunto come gli animali asserviti, che a volte si lasciano<br />
morire, ma non si uccidono. Secondo: «c’era altro da pensare», come si dice<br />
comunemente. La giornata era fitta: c’era da pensare a soddisfare la fame, a<br />
sottrarsi in qualche modo alla fatica e al freddo, ad evitare i colpi; proprio per<br />
la costante imminenza della morte, mancava il tempo per concentrarsi sull’idea<br />
della morte. Ha la ruvidezza della verità la notazione di Svevo, in La coscienza di<br />
Zeno, là dove descrive spietatamente l’agonia del padre: « Quando si muore si<br />
ha ben altro da fare che di pensare alla morte.<br />
Tutto il suo organismo era dedicato alla respirazione». Terzo: nella maggior<br />
parte dei casi, il suicidio nasce da un senso di colpa che nessuna punizione è<br />
venuta ad attenuare; ora, la durezza della prigionia veniva percepita come una<br />
punizione, ed il senso di colpa (se punizione c’è, una colpa dev’esserci stata)<br />
veniva relegato in secondo piano per riemergere dopo la liberazione: in altre<br />
parole, non occorreva punirsi col suicidio per una (vera o presunta) colpa che<br />
già si stava espiando con la sofferenza di tutti i giorni.<br />
Quale colpa? A cose finite, emergeva la consapevolezza di non aver fatto nulla,<br />
o non abbastanza, contro il sistema in cui eravamo stati assorbiti. Della<br />
mancata resistenza nei Lager, o meglio in alcuni Lager, si è parlato troppo e<br />
troppo leggermente, soprattutto da parte di chi aveva ben altre colpe di cui<br />
rendere conto. Chi ha provato sa che esistevano situazioni, collettive e<br />
personali, in cui una resistenza attiva era possibile; altre, molto più frequenti, in<br />
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