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I sommersi e i salvati

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cui non lo era. E noto che, specialmente nel 1941, caddero in mano tedesca<br />

milioni di prigionieri militari sovietici. Erano giovani, per lo più ben nutriti e<br />

robusti, avevano una preparazione militare e politica, spesso costituivano unità<br />

organiche con graduati di truppa, sottufficiali e ufficiali; odiavano i tedeschi<br />

che avevano invaso il loro paese; eppure raramente resistettero. La<br />

denutrizione, la spogliazione e gli altri disagi fisici, che è così facile ed<br />

economico provocare ed in cui i nazisti erano maestri, sono rapidamente<br />

distruttivi, e prima di distruggere paralizzano; tanto più quando sono preceduti<br />

da anni di segregazione, umiliazioni, maltrattamenti, migrazioni forzate,<br />

lacerazione dei legami famigliari, rottura dei contatti col resto del mondo. Ora,<br />

era questa la condizione del grosso dei prigionieri che erano approdati ad<br />

Auschwitz dopo l’antinferno dei ghetti o dei campi di raccolta.<br />

Perciò, sul piano razionale, non ci sarebbe stato molto di cui vergognarsi, ma la<br />

vergogna restava ugualmente, soprattutto davanti ai pochi, lucidi esempi di chi<br />

di resistere aveva avuto la forza e la possibilità; vi ho accennato nel capitolo<br />

L’ultimo di Se questo è un uomo, in cui si descrive l’impiccagione pubblica di un<br />

resistente, davanti alla folla atterrita ed apatica dei prigionieri. E un pensiero<br />

che allora ci aveva appena sfiorati, ma che è ritornato «dopo»: anche tu forse<br />

avresti potuto, certo avresti dovuto; ed è un giudizio che il reduce vede, o<br />

crede di vedere, negli occhi di coloro (specialmente dei giovani) che ascoltano i<br />

suoi racconti, e giudicano con il facile senno del poi; o che magari si sente<br />

spietatamente rivolgere. Consapevolmente o no, si sente imputato e giudicato,<br />

spinto a giustificarsi ed a difendersi.<br />

Più realistica è l’autoaccusa, o l’accusa, di aver mancato sotto l’aspetto della<br />

solidarietà umana. Pochi superstiti si sentono colpevoli di aver deliberatamente<br />

danneggiato, derubato, percosso un compagno: chi lo ha fatto (i Kapòs, ma<br />

non solo loro) ne rimuove il ricordo; per contro, quasi tutti si sentono<br />

colpevoli di omissione di soccorso. La presenza al tuo fianco di un compagno<br />

più debole, o più sprovveduto, o più vecchio, o troppo giovane, che ti<br />

ossessiona con le sue richieste d’aiuto, o col suo semplice «esserci» che già di<br />

per sé è una preghiera, è una costante della vita in Lager. La richiesta di<br />

solidarietà, di una parola umana, di un consiglio, anche solo di un ascolto, era<br />

permanente ed universale, ma veniva soddisfatta di rado. Mancava il tempo, lo<br />

spazio, la privatezza, la pazienza, la forza; per lo più, colui a cui la richiesta<br />

veniva rivolta si trovava a sua volta in stato di bisogno, di credito.<br />

Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare coraggio (in<br />

un momento in cui sentivo di averne) ad un diciottenne italiano appena<br />

arrivato, che si dibatteva nella disperazione senza fondo dei primi giorni di<br />

campo: ho scordato che cosa gli ho detto, certo parole di speranza, forse<br />

qualche bugia buona per un «nuovo», detta con l’autorità dei miei venticinque<br />

anni e dei miei tre mesi di anzianità; comunque, gli ho fatto dono di<br />

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