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I sommersi e i salvati

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IV<br />

Comunicare<br />

Il termine « incomunicabilità », così di moda negli anni ‘70, non mi è mai<br />

piaciuto; in primo luogo perché è un mostro linguistico, in secondo per ragioni<br />

più personali.<br />

Nel mondo normale odierno, quello che per convenzione e per contrasto<br />

abbiamo volta a volta chiamato «civile» e «libero», non capita quasi mai di<br />

urtare contro una barriera linguistica totale: di trovarsi davanti ad un essere<br />

umano con cui dobbiamo assolutamente stabilire una comunicazione, pena la<br />

vita, e di non riuscirci. Ne ha dato un esempio famoso, ma incompleto,<br />

Antonioni in Deserto rosso, nell’episodio in cui la protagonista incontra nella<br />

notte un marinaio turco che non sa una parola di alcuna lingua salvo la sua, e<br />

tenta invano di farsi capire. Incompleto, perché da entrambe le parti, anche da<br />

quella del marinaio, la volontà di comunicare esiste: o almeno, manca la<br />

volontà di rifiutare il contatto.<br />

Secondo una teoria in voga in quegli anni, e che a me pare frivola ed irritante,<br />

l'«incomunicabilità» sarebbe un ingrediente immancabile, una condanna a vita<br />

inserita nella condizione umana, ed in specie nel modo di vivere della società<br />

industriale: siamo monadi, incapaci di messaggi reciproci, o capaci solo di<br />

messaggi monchi, falsi in partenza, fraintesi all’arrivo. Il discorso è fittizio,<br />

puro rumore, velo dipinto che copre il silenzio esistenziale; ohimé, siamo soli,<br />

anche se (o specialmente se) viviamo in coppia. Mi pare che questa<br />

lamentazione proceda da pigrizia mentale e la denunci; certamente la<br />

incoraggia, in un pericoloso circolo vizioso. Salvo casi di incapacità patologica,<br />

comunicare si può e si deve: è un modo utile e facile di contribuire alla pace<br />

altrui e propria, perché il silenzio, l’assenza di segnali, è a sua volta un segnale,<br />

ma ambiguo, e l’ambiguità genera inquietudine e sospetto. Negare che<br />

comunicare si può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è colpa; per<br />

la comunicazione, ed in specie per quella sua forma altamente evoluta e nobile<br />

che è il linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti. Tutte le<br />

razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare.<br />

Anche sotto l’aspetto della comunicazione, anzi, della mancata comunicazione,<br />

l’esperienza di noi reduci è peculiare. É un nostro fastidioso vezzo intervenire<br />

quando qualcuno (i figli!) parla di freddo, di fame o di fatica. Che cosa ne<br />

sapete, voi? Avreste dovuto provare le nostre. Per ragioni di buon gusto e di<br />

buon vicinato, noi cerchiamo in generale di resistere alla tentazione di questi<br />

interventi da miles gloriosus; la quale, tuttavia, per me diventa imperiosa<br />

appunto quando sento parlare di comunicazione mancata o impossibile.<br />

«Avreste dovuto provare la nostra». Non è confrontabile con quella del turista<br />

che va in Finlandia o in Giappone, e trova interlocutori alloglotti ma<br />

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