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professionalmente (od anche spontaneamente) gentili e ben intenzionati, che si<br />
sforzano di capirlo e di essergli d’aiuto: oltre tutto, chi è che in qualsiasi angolo<br />
del mondo non mastica un po’ d’inglese? E le richieste dei turisti sono poche,<br />
sempre le stesse: quindi le aporie sono rare, e il quasi-non-capirsi può<br />
addirittura essere divertente come un gioco.<br />
É certamente più drammatico il caso dell’emigrante, italiano in America cento<br />
anni fa, turco o marocchino o pachistano in Germania o in Svezia oggi. Qui<br />
non è più una breve esplorazione senza imprevisti, condotta lungo le piste ben<br />
collaudate delle agenzie di viaggio: è un trapianto, forse definitivo; è un<br />
inserimento in un lavoro che oggi è raramente elementare, ed in cui la<br />
comprensione della parola, pronunciata o scritta, è necessaria; comporta<br />
rapporti umani indispensabili con i vicini di casa, i bottegai, i colleghi, i<br />
superiori: sul lavoro, in strada, al bar, con gente straniera, di costumi diversi,<br />
spesso ostile. Ma i correttivi non mancano, la stessa società capitalistica è<br />
intelligente quanto basta per capire che qui il suo profitto coincide ampiamente<br />
con il rendimento del «lavoratore ospite», e quindi con il suo benessere e il suo<br />
inserimento. Gli si concede di portarsi dietro la famiglia, cioè un pezzo di<br />
patria; gli si trova, bene o male, un alloggio; può (talvolta deve) frequentare<br />
scuole di lingua. Il sordomuto sbarcato dal treno viene aiutato, forse senza<br />
amore, non senza efficienza, e in breve riacquista la parola.<br />
Noi abbiamo vissuto l’incomunicabilità in modo più radicale. Mi riferisco in<br />
specie ai deportati italiani, jugoslavi e greci; in misura minore ai francesi, fra cui<br />
molti erano d’origine polacca o tedesca, ed alcuni, essendo alsaziani, capivano<br />
bene il tedesco; ed a molti ungheresi che venivano dalla campagna. Per noi<br />
italiani, l’urto contro la barriera linguistica è avvenuto drammaticamente già<br />
prima della deportazione, ancora in Italia, al momento in cui i funzionari della<br />
Pubblica Sicurezza italiana ci hanno ceduti con visibile riluttanza alle SS, che<br />
nel febbraio 1944 si erano arrogata la gestione del campo di smistamento di<br />
Fòssoli presso Modena. Ci siamo accorti subito, fin dai primi contatti con gli<br />
uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il sapere o no il tedesco era uno<br />
spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva in modo articolato, si instaurava<br />
una parvenza di rapporto umano. Con chi non li capiva, i neri reagivano in un<br />
modo che ci stupì e spaventò: l’ordine, che era stato pronunciato con la voce<br />
tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e<br />
rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio<br />
con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto del<br />
messaggio.<br />
Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati)<br />
arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso<br />
linguaggio: l’uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo<br />
necessario e sufficiente affinché l’uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un<br />
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