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prigionieri che non conoscevano il tedesco, quindi quasi tutti gli italiani, sono<br />
morti nei primi dieci-quindici giorni dal loro arrivo: a prima vista, per fame,<br />
freddo, fatica, malattia; ad un esame più attento, per insufficienza<br />
d’informazione. Se avessero potuto comunicare con i compagni più anziani,<br />
avrebbero potuto orientarsi meglio: imparare prima a procurarsi abiti, scarpe,<br />
cibo illegale; a scansare il lavoro più duro, e gli incontri spesso mortali con le<br />
SS; a gestire senza errori fatali le inevitabili malattie. Non intendo dire che non<br />
sarebbero morti, ma avrebbero vissuto più a lungo, ed avrebbero avuto<br />
maggiori possibilità di riguadagnare il terreno perduto.<br />
Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i primi giorni di<br />
Lager sono rimasti impressi nella forma di un film sfuocato e frenetico, pieno<br />
di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza<br />
nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui<br />
tuttavia la parola umana non affiorava. Un film in grigio e nero, sonoro ma<br />
non parlato.<br />
Ho notato, su me stesso e su altri reduci, un effetto curioso di questo vuoto e<br />
bisogno di comunicazione. A distanza di quarant’anni, ricordiamo ancora, in<br />
forma puramente acustica, parole e frasi pronunciate intorno a noi in lingue<br />
che non conoscevamo né abbiamo imparato dopo: per me, ad esempio, in<br />
polacco o in ungherese. Ancora oggi io ricordo come si enunciava in polacco<br />
non il mio numero di matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva<br />
nel ruolino di una certa baracca: un groviglio di suoni che terminava<br />
armoniosamente, come le indecifrabili contine dei bambini, in qualcosa come<br />
«stergìsci stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire<br />
«quarantaquattro»). Infatti, in quella baracca erano polacchi il distributore della<br />
zuppa e la maggior parte dei prigionieri, e il polacco era la lingua ufficiale;<br />
quando si veniva chiamati, bisognava stare pronti con la gamella tesa per non<br />
perdere il turno, e perciò, per non essere colti di sorpresa, era bene scattare<br />
quando era chiamato il compagno col numero di matricola immediatamente<br />
precedente. Quello « stergìsci stèri » funzionava anzi come il campanello che<br />
condizionava i cani di Pavlov: provocava una subitanea secrezione di saliva.<br />
Queste voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come su un nastro<br />
magnetico vuoto, bianco; allo stesso modo, uno stomaco affamato assimila<br />
rapidamente anche un cibo indigesto. Non ci ha aiutati a ricordarle il loro<br />
senso, perché per noi non ne avevano; eppure, molto più tardi, le abbiamo<br />
recitate a persone che le potevano comprendere, e un senso, tenue e banale, lo<br />
avevano: erano imprecazioni, bestemmie, o frasette quotidiane spesso ripetute,<br />
come «che ora è?», o «non posso camminare», o « lasciami in pace». Erano<br />
frammenti strappati all’indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed in-conscio di<br />
ritagliare un senso entro l’insensato. Erano anche l’equivalente mentale del<br />
nostro bisogno corporeo di nutrimento, che ci spingeva a cercare le bucce di<br />
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