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I sommersi e i salvati

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patate nei dintorni delle cucine: poco più del niente, meglio del niente. Anche il<br />

cervello sottoalimentato soffre di una sua fame specifica. O forse, questa<br />

memoria inutile e paradossa aveva un altro significato e un altro scopo: era una<br />

inconsapevole preparazione per il «dopo», per una improbabile sopravvivenza,<br />

in cui ogni brandello di esperienza sarebbe diventato un tassello di un vasto<br />

mosaico.<br />

Ho raccontato nelle prime pagine di La tregua un caso estremo di<br />

comunicazione necessaria e mancata: quello del bambino Hurbinek, di tre anni,<br />

forse nato clandestinamente in Lager, a cui nessuno aveva insegnato a parlare,<br />

e che di parlare provava un bisogno intenso, espresso da tutto il suo povero<br />

corpo. Anche sotto questo aspetto, il Lager era un laboratorio crudele in cui<br />

era dato assistere a situazioni e comportamenti mai visti né prima, né dopo, né<br />

altrove.<br />

Avevo imparato qualche parola di tedesco pochi anni prima, quando ero<br />

ancora studente, al solo scopo di intendere i testi di chimica e di fisica: non<br />

certo per trasmettere attivamente il mio pensiero né per comprendere il<br />

linguaggio parlato. Erano gli anni delle leggi razziali fasciste, ed un mio<br />

incontro con un tedesco, o un viaggio in Germania, sembravano eventi ben<br />

poco probabili. Scaraventato ad Auschwitz, nonostante lo smarrimento iniziale<br />

(anzi forse proprio grazie a quello) ho capito abbastanza presto che il mio<br />

scarsissimo Wortschatz era diventato un fattore di sopravvivenza essenziale.<br />

Wortschatz significa «patrimonio lessicale», ma alla lettera «tesoro di parole»; mai<br />

termine è stato altrettanto appropriato. Sapere il tedesco era la vita: bastava che<br />

mi guardassi intorno. I compagni italiani che non lo capivano, cioè quasi tutti<br />

salvo qualche triestino, stavano annegando ad uno ad uno nel mare<br />

tempestoso del non-capire: non intendevano gli ordini, ricevevano schiaffi e<br />

calci senza comprenderne il perché. Nell’etica rudimentale del campo, era<br />

previsto che un colpo venisse in qualche modo giustificato, per facilitare lo<br />

stabilirsi dell’arco trasgressione-punizione-ravvedimento; quindi, spesso il<br />

Kapò o i suoi vice accompagnavano il pugno con un grugnito: «Sai perché?», a<br />

cui seguiva una sommaria «comunicazione di reato». Ma per i nuovi sordomuti<br />

questo cerimoniale era inutile. Si rifugiavano istintivamente negli angoli per<br />

avere le spalle coperte: l’aggressione poteva venire da tutte le direzioni. Si<br />

guardavano intorno con occhi smarriti, come animali presi in trappola, e tali in<br />

effetti erano diventati.<br />

Per molti italiani è stato vitale l’aiuto dei compagni francesi e spagnoli, le cui<br />

lingue erano meno «straniere» del tedesco. Ad Auschwitz non c’erano spagnoli,<br />

mentre i francesi (più precisamente: i deportati dalla Francia o dal Belgio)<br />

erano molti, nel 1944 forse il 10% del totale. Alcuni erano alsaziani, oppure<br />

erano ebrei tedeschi e po-lacchi che nel decennio precedente avevano cercato<br />

in Francia un rifugio che si era rivelato una trappola: tutti questi conoscevano<br />

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