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I sommersi e i salvati

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ene o male il tedesco o il jiddisch. Gli altri, i francesi metropolitani. proletari<br />

o borghesi o intellettuali, avevano subìto uno o due anni prima una selezione<br />

analoga alla nostra: quelli che non capivano erano usciti di scena. I rimasti,<br />

quasi tutti «métèques», a suo tempo accolti in Francia piuttosto male, si erano<br />

presa una triste rivincita. Erano i nostri interpreti naturali: traducevano per noi<br />

i comandi e gli avvertimenti fondamentali della giornata, «alzarsi», «adunata»,<br />

«in fila per il pane», «chi ha le scarpe rotte?», «per tre», «per cinque», eccetera.<br />

Certo non bastava. Io supplicai uno di loro, un alsaziano, di tenermi un corso<br />

privato ed accelerato, distribuito in brevi lezioni somministrate sottovoce, fra il<br />

momento del coprifuoco e quello in cui cedevamo al sonno; lezioni da<br />

compensarsi con pane, altra moneta non c’era. Lui accettò, e credo che mai<br />

pane fu meglio speso. Mi spiegò che cosa significavano i ruggiti dei Kapòs e<br />

delle SS, i motti insulsi o ironici scritti in gotico sulle capriate della baracca, che<br />

cosa significavano i colori dei triangoli che portavamo al petto sopra il numero<br />

di matricola. Così mi accorsi che il tedesco del Lager, scheletrico, urlato,<br />

costellato di oscenità e di imprecazioni, aveva soltanto una vaga parentela col<br />

linguaggio preciso e austero dei miei testi di chimica, e col tedesco melodioso e<br />

raffinato delle poesie di Heine che mi recitava Clara, una mia compagna di<br />

studi.<br />

Non mi rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più tardi, che il tedesco<br />

del Lager era una lingua a sé stante: per dirla appunto in tedesco, era orts- und<br />

zeitgebunden, legata al luogo ed al tempo. Era una variante, particolarmente<br />

imbarbarita, di quella che un filologo ebreo tedesco, Klemperer, aveva<br />

battezzata Lingua Tertii Imperii, la lingua del Terzo Reich, proponendone anzi<br />

l’acrostico LTI in analogia ironica con i cento altri (NSDAP, SS, SA, SD, KZ,<br />

RKPA, WVHA, RSHA, BDM...) cari alla Germania di allora.<br />

Sulla LTI, e sul suo equivalente italiano, si è già scritto molto, anche da parte di<br />

linguisti. É ovvia l’osservazione che, là dove si fa violenza all’uomo, la si fa<br />

anche al linguaggio; ed in Italia non abbiamo dimenticato le sciocche<br />

campagne fasciste contro i dialetti, contro i «barbarismi», contro i toponimi<br />

valdostani, valsusini, altoatesini, contro il «lei, servile e straniero». In Germania<br />

le cose stavano altrimenti: già da secoli la lingua tedesca aveva mostrato una<br />

spontanea avversione per le parole di origine non-germanica, per cui gli<br />

scienziati tedeschi si erano affannati a ribattezzare la bronchite in «aria-tubiinfiammazione»,<br />

il duodeno in «dodici-dita-intestino» e l’acido piruvico in<br />

«brucia-uva-acido»; perciò, sotto questo aspetto, al nazismo che voleva<br />

purificare tutto restava ben poco da purificare. La LTI differiva dal tedesco di<br />

Goethe soprattutto per certi spostamenti semantici e per l’abuso di alcuni<br />

termini: ad esempio, gli aggettivi völkisch («nazionale, popolare»), che era<br />

diventato onnipresente e carico di albagia nazionalistica, e fanatisch, la cui<br />

connotazione da negativa si era fatta positiva. Ma nell’arcipelago dei Lager<br />

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