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I sommersi e i salvati

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tedeschi si era delineato un linguaggio settoriale, un gergo, il «Lagerjargon»,<br />

suddiviso in sottogerghi specifici di ogni Lager, e strettamente imparentato con<br />

il vecchio tedesco delle caserme prussiane e con il nuovo tedesco delle SS. Non<br />

è strano che esso risulti parallelo al gergo dei campi di lavoro sovietici, vari<br />

termini del quale sono citati da Solženicyn: ognuno di questi trova il suo esatto<br />

riscontro nel Lagerjargon. La traduzione in tedesco dell’Arcipelago Gulag<br />

(Mondadori, Milano 1975) non deve aver presentato molte difficoltà: o se si,<br />

non terminologiche.<br />

Era comune a tutti i Lager il termine Muselmann, «mussulmano», attribuito al<br />

prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla morte. Se ne<br />

sono proposte due spiegazioni, entrambe poco convincenti: il fatalismo, e le<br />

fasciature alla testa che potevano simulare un turbante. Esso è rispecchiato<br />

esattamente, anche nella sua cinica ironia, dal termine russo dochodjaga,<br />

letteralmente «arrivato alla fine», «concluso». Nel Lager di Ravensbrück (l’unico<br />

esclusivamente femminile) lo stesso concetto veniva espresso, mi dice Lidia<br />

Rolfi, con i due sostantivi speculari Schmutzstück e Schmuckstück, rispettivamente<br />

«immondizia» e «gioiello», quasi omofoni, l’uno parodia dell’altro. Le italiane<br />

non ne capivano il senso raggelante, ed unificando i due termini<br />

pronunciavano «smistig». Anche Prominent è termine comune a tutti i<br />

sottogerghi. Dei «prominenti», i prigionieri che avevano fatto carriera, ho<br />

parlato diffusamente in Se questo è un uomo; essendo una componente<br />

indispensabile nella sociologia dei campi, esistevano anche in quelli sovietici,<br />

dove (l’ho ricordato nel terzo capitolo) erano detti pridurki.<br />

Ad Auschwitz «mangiare» si rendeva con fressen, verbo che in buon tedesco si<br />

applica soltanto agli animali. Per «vàttene» si usava l’espressione hau’ ab,<br />

imperativo del verbo abhauen; questo, in buona lingua, significa «tagliare,<br />

mozzare», ma nel gergo del Lager equivaleva a «andare all’inferno, levarsi di<br />

torno». Mi è accaduto una volta di usare in buona fede questa espressione (Jetzt<br />

hauen wir ab) poco dopo la fine della guerra, per prendere congedo da alcuni<br />

educati funzionari della Bayer dopo un colloquio d’affari. Era come se avessi<br />

detto «ora ci togliamo dai piedi». Mi guardarono stupiti: il termine apparteneva<br />

ad un registro linguistico diverso da quello in cui si era svolta la conversazione<br />

precedente, e non viene certo insegnato nei corsi scolastici di « lingua<br />

straniera». Spiegai loro che non avevo imparato il tedesco a scuola, bensì in un<br />

Lager di nome Auschwitz; ne nacque un certo imbarazzo, ma, essendo io in<br />

veste di compratore, continuarono a trattarmi con cortesia. Mi sono reso conto<br />

in seguito che anche la mia pronuncia è rozza, ma deliberatamente non ho<br />

cercato di ingentilirla; per lo stesso motivo non mi sono mai fatto asportare il<br />

tatuaggio dal braccio sinistro.<br />

Il Lagerjargon, come è naturale, era fortemente infIluenzato da altre lingue che<br />

venivano parlate nel Lager e nei dintorni: dal polacco, dal jiddisch, dal dialetto<br />

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