Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
slesiano, più tardi dall’ungherese. Dal frastuono di fondo dei miei primi giorni<br />
di prigionia emersero subito, con insistenza, quattro o cinque espressioni che<br />
tedesche non erano: dovevano indicare, pensai, qualche oggetto od azione<br />
basilare, come lavoro, acqua, pane. Mi si erano incise nella memoria, nel<br />
curioso modo meccanico che ho descritto prima. Solo molto più tardi un<br />
amico polacco mi ha spiegato, malvolentieri, che volevano dire semplicemente<br />
«colera», «sangue di cane», «tuono», «figlio di puttana» e «fottuto»; i tre primi in<br />
funzione di interiezione.<br />
Il jiddisch era di fatto la seconda lingua del campo (sostituita più tardi<br />
dall’ungherese). Non solo non la capivo, ma sapevo solo vagamente della sua<br />
esistenza, in base a qualche citazione o storiella sentita da mio padre che per<br />
qualche anno aveva lavorato in Ungheria. Gli ebrei polacchi, russi, ungheresi<br />
erano stupiti che noi italiani non lo parlassimo: eravamo degli ebrei sospetti, da<br />
non fidarsene; oltre ad essere, naturalmente, dei «badoghlio» per le SS e dei<br />
«mussolini» per i francesi, per i greci e per i prigionieri politici. Anche a<br />
prescindere dai problemi di comunicazione, non era comodo essere ebrei<br />
italiani. Come ormai è noto dopo il meritato successo dei libri dei fratelli Singer<br />
e di tanti altri, il jiddisch è sostanzialmente un antico dialetto tedesco, diverso<br />
dal tedesco moderno come lessico e come pronuncia. Mi dava più angoscia del<br />
polacco, che non capivo affatto, perché «avrei dovuto capirlo». Lo ascoltavo<br />
con attenzione tesa: spesso mi era difficile capire se una frase rivolta a me, o<br />
pronunciata vicino a me, era tedesca o jiddisch o ibrida: infatti, alcuni ebrei<br />
polacchi bene intenzionati si sforzavano di tedeschizzare il loro jiddisch più<br />
che potevano, affinché io li comprendessi.<br />
Del jiddisch respirato nell’aria, ho ritrovato una traccia singolare in Se questo è<br />
un uomo. Nel capitolo Kraus è riportato un dialogo: Gounan, ebreo francese di<br />
origine polacca, si rivolge all’ungherese Kraus con la frase «Langsam, du blöder<br />
Einer, langsam, verstanden?», che vale, tradotta parola per parola, «Piano, tu<br />
stupido uno, piano, capito?» Suonava un po’ strana, ma mi pareva proprio di<br />
averla sentita così (erano memorie recenti: scrivevo nel 1946), e l’ho trascritta<br />
tale e quale. Il traduttore tedesco non è rimasto convinto: dovevo aver sentito<br />
o ricordato male. Dopo una lunga discussione epistolare, mi ha proposto di<br />
ritoccare l’espressione, che a lui non sembrava accettabile. Infatti, nella<br />
traduzione poi pubblicata essa suona: «Langsam, du blöder Heini», dove Heini<br />
è il diminutivo di Heinrich, Enrico. Ma di recente, in un bel libro sulla storia e<br />
struttura del jiddisch (Mame Loshen, di J. Geipel, Journeyman, London 1982) ho<br />
trovato che è tipica di questa lingua la forma «Khamòyer du eyner!», «Asino tu<br />
uno!» La memoria meccanica aveva funzionato correttamente.<br />
Della comunicazione mancata o scarsa non soffrivano tutti in ugual misura. Il<br />
non soffrirne, l’accettare l’eclissi della parola, era un sintomo infausto:<br />
segnalava l’approssimarsi dell’indifferenza defini-tiva. Alcuni pochi, solitari per<br />
63