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Ma è dubbio che questo tormento del corpo e dello spirito, mitico e dantesco,<br />
fosse stato escogitato per prevenire l’aggregarsi di nuclei di autodifesa o di<br />
resistenza attiva: le SS dei Lager erano piuttosto bruti ottusi che demoni sottili.<br />
Erano stati educati alla violenza: la vio-lenza correva nelle loro vene, era<br />
normale, ovvia. Trapelava dai loro visi, dai loro gesti, dal loro linguaggio.<br />
Umiliare, far soffrire il «nemico», era il loro ufficio di ogni giorno; non ci<br />
ragionavano sopra, non avevano secondi fini: il fine era quello. Non intendo<br />
dire che fossero fatti di una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i<br />
sadici, gli psicopatici c’erano anche fra loro, ma erano pochi): semplicemente,<br />
erano stati sottoposti per qualche anno ad una scuola in cui la morale corrente<br />
era stata capovolta. In un regime totalitario, l’educazione, la propaganda e<br />
l’informazione non incontrano ostacoli: hanno un potere illimitato, di cui chi è<br />
nato e vissuto in un regime pluralistico difficilmente può costruirsi un’idea.<br />
A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che ho appena<br />
descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una difesa. Lo era per i<br />
pochi che in Lager riuscivano ad essere inseriti nel loro proprio mestiere: sarti,<br />
ciabattini, falegnami, fabbri, muratori; questi, ritrovando la loro attività<br />
consueta, recuperavano in pari tempo, in certa misura, la loro dignità umana.<br />
Ma lo era anche per molti altri, come esercizio della mente, come evasione dal<br />
pensiero della morte, come modo di vivere alla giornata; del resto, è esperienza<br />
comune che le cure quotidiane, anche se penose o fastidiose, aiutano a<br />
distogliere la mente da minacce più gravi ma più lontane.<br />
Ho notato spesso su alcuni miei compagni (qualche volta anche su me stesso)<br />
un fenomeno curioso: l’ambizione del «lavoro ben fatto» è talmente radicata da<br />
spingere a «far bene» anche lavori nemici, nocivi ai tuoi e alla tua parte, tanto<br />
che occorre uno sforzo consapevole per farli invece «male». Il sabotaggio del<br />
lavoro nazista, oltre ad essere pericoloso, comportava anche il superamento di<br />
ataviche resistenze interne. Il muratore di Fossano che mi ha salvato la vita, e<br />
che ho descritto in Se questo è un uomo e in Lilìt, detestava la Germania, i tedeschi,<br />
il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero a tirare<br />
su muri di protezione contro le bombe, li faceva diritti, solidi, con mattoni<br />
bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequio agli<br />
ordini, ma per dignità professionale. In Una giornata di Ivan Denisovié (Einaudi,<br />
Torino 1963) Solženicyn descrive una situazione quasi identica: Ivan, il<br />
protagonista, condannato senza alcuna sua colpa a dieci anni di lavoro forzato,<br />
prova compiacimento nel tirar su un muro a regola d’arte, e nel constatare poi<br />
che è riuscito ben di-ritto: Ivan «... era fatto proprio in quel modo cretino, né<br />
gli otto anni passati nei campi di prigionia erano valsi a fargli perdere<br />
quell’abitudine: apprezzava ogni cosa ed ogni lavoro e non poteva permettere<br />
che si rovinassero inutilmente». Chi ha visto un celebre film, Il ponte sul fiume<br />
Kwai, ricorderà lo zelo assurdo con cui l’ufficiale inglese prigioniero dei<br />
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