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ecco, dalle orecchie a sventola, buono solo a danneggiare gli altri. Tedesco<br />
non è, per assioma; anzi, basta la sua presenza a contaminare i bagni pubblici e<br />
perfino le panchine dei parchi.<br />
Da questa degradazione, Entwürdigung, è impossibile difendersi. Il mondo<br />
intero vi assiste impassibile; gli ebrei tedeschi stessi, quasi tutti, soggiacciono<br />
alla prepotenza dello Stato e si sentono obiettivamente degradati. Il solo modo<br />
per sottrarvisi è paradossale e contraddittorio: accettare il proprio destino, in<br />
questo caso l’ebraismo, ed in pari tempo ribellarsi contro la scelta imposta. Per<br />
il giovane Hans, ebreo di ritorno, essere ebreo è simultaneamente impossibile<br />
ed obbligatorio; la sua spaccatura, che lo seguirà fino alla morte e la<br />
provocherà, incomincia di qui. Nega di possedere coraggio fisico, ma non gli<br />
manca il coraggio morale: nel 1938 lascia la sua patria «annessa» ed emigra in<br />
Belgio. D’ora in avanti sarà Jean Améry, un quasi-anagramma del suo nome<br />
originario. Per dignità, non per altro, accetterà l’ebraismo, ma come ebreo<br />
«[andrà] per il mondo come un malato di uno di quei morbi che non<br />
provocano grandi sofferenze, ma hanno sicuramente esito letale». Lui, il dotto<br />
umanista e critico tedesco, si sforza di diventare uno scrittore francese (non ci<br />
riuscirà mai), ed aderisce in Belgio ad un movimento della Resistenza le cui<br />
effettive speranze politiche sono scarsissime; la sua morale, che pagherà<br />
caramente in termini materiali e spirituali, è ormai cambiata: almeno<br />
simbolicamente, consiste nel «rendere il colpo».<br />
Nel 1940 la marea hitleriana sommerge anche il Belgio, e Jean, che nonostante<br />
la sua scelta è rimasto un intellettuale solitario e introverso, nel 1943 cade nelle<br />
mani della Gestapo. Gli si chiede di rivelare i nomi dei suoi compagni e<br />
mandanti, altrimenti è la tortura. Lui non è un eroe; nelle sue pagine, ammette<br />
onestamente che se li avesse conosciuti avrebbe parlato, ma non li sa. Gli<br />
legano le mani congiunte dietro la schiena, e per i polsi lo sospendono a una<br />
carrucola. Dopo pochi secondi le braccia gli si slogano e rimangono rivolte<br />
all’in su, verticali dietro la schiena. Gli aguzzini insistono, infieriscono con le<br />
fruste sul corpo appeso ormai quasi incosciente, ma Jean non sa nulla, non può<br />
rifugiarsi neppure nel tradimento. Guarisce, ma è stato identificato come<br />
ebreo, e lo spediscono ad Auschwitz-Monowitz, lo stesso Lager in cui anch’io<br />
sarei stato rinchiuso qualche mese più tardi.<br />
Pur senza esserci mai riveduti, ci siamo scambiate alcune lettere dopo la<br />
liberazione, essendoci riconosciuti, o per meglio dire conosciuti, attraverso i<br />
rispettivi libri. I nostri ricordi di laggiù coincidono abbastanza bene sul piano<br />
dei dettagli materiali, ma divergono su un particolare curioso: io, che ho<br />
sempre sostenuto di conservare di Auschwitz una memoria completa e<br />
indelebile, ho dimenticato la sua figura; lui afferma di ricordarsi di me, anche se<br />
mi confondeva con Carlo Levi, a quel tempo già noto in Francia come<br />
fuoruscito e come pittore. Dice anzi che abbiamo soggiornato per qualche<br />
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