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I sommersi e i salvati

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una Europa che si pretende unita, e le considerazioni di Améry reggono bene<br />

anche se il concetto in discussione viene inteso nel suo senso più largo; né<br />

vorrei seguire le tracce di Améry, e modellare una definizione alternativa sulla<br />

mia condizione attuale («intellettuale» sarò forse oggi, anche se il vocabolo mi<br />

dà un vago disagio; certamente non lo ero allora, per immaturità morale,<br />

ignoranza ed estraniamento; se lo sono diventato poi, lo devo paradossalmente<br />

proprio all’esperienza del Lager). Proporrei di estendere il termine alla persona<br />

colta al di là del suo mestiere quotidiano; la cui cultura è viva, in quanto si<br />

sforza di rinnovarsi, accrescersi ed aggiornarsi; e che non prova indifferenza o<br />

fastidio davanti ad alcun ramo del sapere, anche se, evidentemente, non li può<br />

coltivare tutti.<br />

Comunque, e su qualunque definizione ci si soffermi, sulle conclusioni di<br />

Améry non si può che concordare. Sul lavoro, che era prevalentemente<br />

manuale, in generale l’uomo colto stava in Lager molto peggio dell’incolto. Gli<br />

mancava, oltre alla forza fisica, la famigliarità con gli attrezzi e l’allenamento,<br />

che spesso avevano invece i suoi colleghi operai o contadini; per contro, era<br />

tormentato da un acuto senso di umiliazione e destituzione. Di Entwürdigung,<br />

appunto: di dignità perduta. Ricordo con precisione il mio primo giorno di<br />

lavoro nel cantiere della Buna. Prima ancora di inserire il nostro trasporto di<br />

italiani (quasi tutti professionisti o commercianti) nell’anagrafe del campo, ci<br />

mandarono temporaneamente ad allargare una grossa trincea di terra argillosa.<br />

Mi misero in mano una pala, e fu subito un disastro: avrei dovuto impalare la<br />

terra smossa del fondo della trincea, ed alzarla al di sopra del bordo, che era<br />

ormai più alto di due metri. Sembra facile e non è: se non si lavora di slancio, e<br />

con lo slancio giusto, la terra non resta nella pala ma ricade, e spesso sulla testa<br />

dello sterratore inesperto.<br />

Anche il capomastro «civile» a cui fummo assegnati era provvisorio. Era un<br />

tedesco anziano, aveva l’aria di un brav’uomo, e si mostrò sinceramente<br />

scandalizzato dalla nostra goffaggine. Quando tentammo di spiegargli che<br />

quasi nessuno di noi aveva mai tenuto una pala in mano, alzò le spalle con<br />

impazienza: che diamine, eravamo prigionieri in panni zebra, per giunta ebrei.<br />

Tutti devono lavorare, perché «il lavoro rende liberi»: non stava scritto così<br />

sulla porta del Lager? Non era uno scherzo, era proprio così. Bene, se non<br />

sapevamo lavorare, avevamo solo da imparare; non eravamo forse dei<br />

capitalisti? ci stava bene: oggi a me, domani a te. Alcuni di noi sì ribellarono, e<br />

presero i primi colpi della loro carriera dai Kapòs che ispezionavano la zona;<br />

altri si abbatterono; altri ancora (io fra questi) intuirono confusamente che una<br />

via d’uscita non c’era, e che la soluzione migliore era quella di imparare a<br />

maneggiare la pala e il piccone.<br />

Tuttavia, a differenza di Améry e di altri, il mio senso di umiliazione per il<br />

lavoro manuale è stato moderato: evidentemente non ero ancora abbastanza<br />

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