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I sommersi e i salvati

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«intellettuale». In fondo, perché no? Avevo una laurea, certo, ma era stata una<br />

mia fortuna non meritata; la mia famiglia era stata ricca abbastanza da farmi<br />

studiare: molti miei coetanei avevano spalato terra fin dall’adolescenza. Non<br />

volevo l’uguaglianza? Ebbene, l’avevo avuta. Ho dovuto cambiare opinione<br />

pochi giorni dopo, quando le mani e i piedi mi si sono coperti di vesciche e di<br />

infezioni: no, neanche sterratori non ci si improvvisa. Ho dovuto imparare in<br />

fretta alcune cose fondamentali, che i meno fortunati (ma in Lager erano i più<br />

fortunati!) imparano fin da bambini: il modo giusto di impugnare gli attrezzi, i<br />

movimenti corretti delle braccia e del tronco, il controllo della fatica e la<br />

sopportazione del dolore, il sapersi fermare poco prima dell’esaurimento, a<br />

costo di prendere schiaffi e calci dai Kapòs, e talvolta anche dai tedeschi<br />

«civili» della IG Farbenindustrie. I colpi, l’ho detto altrove, general-mente non<br />

sono mortali, il collasso invece sì; un pugno dato a regola d’arte contiene in sé<br />

la sua stessa anestesia, sia corporea, sia spirituale.<br />

A parte il lavoro, anche la vita in baracca era più penosa per l’uomo colto. Era<br />

una vita hobbesiana, una guerra continua di tutti contro tutti (insisto: così ad<br />

Auschwitz, capitale concentrazionaria, nel 1944. Altrove, o in altri tempi, la<br />

situazione poteva essere migliore, o anche molto peggiore). Il pugno dato<br />

dall’Autorità poteva essere accettato, era, letteralmente, un caso di forza<br />

maggiore; erano inaccettabili invece, perché inaspettati e fuori regola, i colpi<br />

ricevuti dai compagni, a cui rara-mente l’uomo incivilito sapeva reagire. Inoltre,<br />

una dignità poteva essere trovata nel lavoro manuale, anche nel più faticoso, ed<br />

era possibile adattarvisi, magari ravvisandovi una rozza ascesi, o, a seconda dei<br />

temperamenti, un «misurarsi» conradiano, una ricognizione dei propri confini.<br />

Era molto più difficile accettare la routine della baracca: rifare il letto nel modo<br />

perfezionistico ed idiota che ho descritto fra le violenze inutili, lavare il<br />

pavimento di legno con luridi stracci bagnati, vestirsi e spogliarsi a comando,<br />

esibirsi nudi agli innumerevoli controlli dei pidocchi, della scabbia, della pulizia<br />

personale, far propria la parodia militaristica dell’«ordine chiuso», dell’«attenti a<br />

destr», del «giù il berretto» di scatto davanti al graduato SS dal ventre porcino.<br />

Questa si era sentita come una destituzione, una regressione esiziale verso uno<br />

stato d’infanzia desolato, privo di maestri e di amore.<br />

Anche Améry-Mayer afferma di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio<br />

a cui ho accennato nel quarto capitolo: eppure lui era di lingua tedesca. Ne ha<br />

sofferto in modo diverso da noi alloglotti ridotti alla condizione di sordomuti:<br />

in un modo, se mi è lecito, più spirituale che materiale. Ne ha sofferto perché era<br />

di lingua tedesca, perché era un filologo amante della sua lingua: come<br />

soffrirebbe uno scultore nel veder deturpare o amputare una sua statua. La<br />

sofferenza dell’intellettuale era dunque diversa, in questo caso, da quella dello<br />

straniero incolto: per questo, il tedesco del Lager era un linguaggio che lui non<br />

capiva, con rischio della sua vita; per quello, era un gergo barbarico, che lui<br />

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