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I sommersi e i salvati

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capiva, ma che gli scorticava la bocca se cercava di parlarlo. L’uno era un<br />

deportato, l’altro uno straniero in patria.<br />

A proposito dei colpi fra compagni: non senza divertimento e fierezza<br />

retrospettiva, Améry racconta in un altro suo saggio un episodio-chiave, da<br />

inserirsi nella sua nuova morale del Zurückschlagen, del «rendere il colpo». Un<br />

gigantesco criminale comune polacco, per un’inezia, gli dà un pugno sul viso;<br />

lui, non per reazione animalesca, ma per ragionata rivolta contro il mondo<br />

stravolto del Lager, rende il colpo meglio che può. «La mia dignità, - dice, -<br />

stava tutta in quel pugno diretto alla sua mascella; che poi in conclusione sia<br />

stato io, fisicamente molto più debole, a soccombere sotto un pestaggio<br />

spietato, non ebbe più alcuna importanza. Dolorante per le botte, ero<br />

soddisfatto di me stesso».<br />

Qui devo ammettere una mia assoluta inferiorità: non ho mai saputo «rendere<br />

il colpo», non per santità evangelica né per aristocrazia intellettualistica, ma per<br />

intrinseca incapacità. Forse per mancanza di una seria educazione politica:<br />

infatti, non esiste programma politico, anche il più moderato, anche il meno<br />

violento, che non ammetta una qualche forma di difesa attiva. Forse per mancanza<br />

di coraggio fisico: ne posseggo una certa misura davanti ai pericoli<br />

naturali ed alla malattia, ma ne sono sempre stato totalmente privo davanti<br />

all’essere umano che aggredisce. «Fare a pugni» è un’esperienza che mi manca,<br />

fin dall’età più remota a cui arrivi la mia memoria; né posso dire di<br />

rimpiangerla. Proprio per questo la mia carriera partigiana è stata così breve,<br />

dolorosa, stupida e tragica: recitavo la parte di un altro. Ammiro la resipiscenza<br />

di Améry, la sua scelta coraggiosa di uscire dalla torre d’avorio e di scendere in<br />

campo, ma essa era, e tuttora è, fuori dalla mia portata. La ammiro: ma devo<br />

constatare che questa scelta, protrattasi per tutto il suo dopo-Auschwitz, lo ha<br />

condotto su posizioni di una tale severità ed intransigenza da renderlo incapace<br />

di trovar gioia nella vita, anzi di vivere: chi « fa a pugni» col mondo intero<br />

ritrova la sua dignità ma la paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di<br />

venire sconfitto. Il suicidio di Améry, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come<br />

tutti i suicidi ammette una nebulosa di spiegazioni, ma, a posteriori, l’episodio<br />

della sfida contro il polacco ne offre un’interpretazione.<br />

Ho saputo qualche anno fa che, in una sua lettera alla comune amica Hety S. di<br />

cui parlerò in seguito, Améry mi ha definito «il perdonatore». Non la<br />

considero un’offesa né una lode, bensì un’imprecisione. Non ho tendenza a<br />

perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi<br />

sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica,<br />

in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud-Africa, perché non conosco atti<br />

umani che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma non sono capace,<br />

personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo.<br />

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