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I sommersi e i salvati

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immediatamente alla liberazione, su un miserando scenario di moribondi, di<br />

morti, di vento infetto e di neve inquinata, i russi mi mandarono dal barbiere a<br />

farmi radere per la prima volta della mia nuova vita di uomo libero. Il barbiere<br />

era un ex politico, un operaio francese della «ceinture»; ci sentimmo subito<br />

fratelli, ed io feci qualche commento banale sulla nostra così improbabile<br />

salvazione: eravamo dei condannati a morte liberati sulla pedana della<br />

ghigliottina, vero? Lui mi guardò a bocca aperta, e poi esclamò scandalizzato:<br />

«... mais Joseph était là!» Joseph? Mi occorse qualche istante per capire che<br />

alludeva a Stalin. Lui no, non aveva mai disperato; Stalin era la sua fortezza, la<br />

Rocca che si canta nei Salmi. La demarcazione fra colti e incolti, beninteso,<br />

non coincideva affatto con quella fra credenti e non credenti: anzi, la tagliava<br />

ad angolo retto, a costituire quattro quadranti abbastanza ben definiti: i colti<br />

credenti, i colti laici, gli incolti credenti, gli incolti laici; quattro piccole isole<br />

frastagliate e colorate, che si stagliavano sul mare grigio, sterminato, dei<br />

semivivi che forse colti o credenti erano stati, ma che ormai non si ponevano<br />

più domande, ed a cui sarebbe stato inutile e crudele porre domande.<br />

L’intellettuale, nota Améry (ed io preciserei: l’intellettuale giovane, quali lui ed io<br />

eravamo al tempo della cattura e della prigionia), ha ricavato dalle sue letture<br />

un ‘immagine della morte inodora, adorna e letteraria. Traduco qui «in italiano»<br />

le sue osservazioni di filologo tedesco, tenuto a citare il «Più luce!» di Goethe,<br />

la Morte a Venezia e Tristano. Da noi, in Italia, la morte è il secondo termine del<br />

binomio «amore e morte»; è la gentile trasfigurazione di Laura, Ermengarda e<br />

Clorinda; è il sacrificio del soldato in battaglia («Chi per la patria muor, vissuto<br />

è assai»); è «Un bel morir tutta la vita onora».<br />

Questo sconfinato archivio di formule difensive ed apotropaiche, ad<br />

Auschwitz (o del resto, anche oggi in qualsiasi ospedale) aveva vita breve: la<br />

Morte ad Auschwitz era triviale, burocratica e quotidiana. Non veniva<br />

commentata, non era «confortata di pianto». Davanti alla morte, all’abitudine<br />

alla morte, il confine tra cultura ed incultura spariva. Améry afferma che non si<br />

pensava più al se morire, cosa scontata, ma piuttosto al come:<br />

Si discuteva sul tempo necessario perché il veleno delle camere a<br />

gas facesse il suo effetto. Si speculava sulla dolorosità della<br />

morte per iniezione di fenolo. C’era da augurarsi un colpo sul<br />

cranio oppure la morte per esaurimento nell’infermeria?<br />

Su questo punto la mia esperienza ed i miei ricordi si staccano da quelli di<br />

Améry. Forse perché più giovane, forse perché più ignorante di lui, o meno<br />

segnato, o meno cosciente, non ho quasi mai avuto tempo da dedicare alla<br />

morte; avevo ben altro a cui pensare, a trovare un po’ di pane, a scansare il<br />

lavoro massacrante, a rappezzarmi le scarpe, a rubare una scopa, a interpretare<br />

i segni e i visi intorno a me. Gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la<br />

morte: non solo in Lager.<br />

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