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I sommersi e i salvati

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Speciale addetto ai crematori: erano uomini disperati ed esasperati, ma ben<br />

nutriti, vestiti e calzati. La rivolta del ghetto di Varsavia fu un’impresa degna<br />

della più reverente ammirazione, fu la prima «resistenza» europea, e l’unica<br />

condotta senza la minima speranza di vittoria o di salute; ma fu opera di una<br />

élite politica che, giustamente, si era riserbata alcuni fondamentali privilegi, allo<br />

scopo di conservare la propria forza.<br />

Vengo alla terza variante della domanda: perché non siete scappati «prima»?<br />

Prima che le frontiere si chiudessero? Prima che la trappola scattasse? Anche<br />

qui devo ricordare che molte persone minacciate dal nazismo e dal fascismo se<br />

ne andarono «prima». Erano esuli propria-mente politici, od anche intellettuali<br />

mal visti dai due regimi: migliaia di nomi, molti oscuri, alcuni illustri, quali<br />

Togliatti, Nenni, Saragat, Salvemini, Fermi, Emilio Segré, la Meitner, Arnaldo<br />

Momigliano, Thomas e Heinrich Mann, Arnold e Stefan Zweig, Brecht, e tanti<br />

altri; non tutti ritornarono, e fu un’emorragia che dissanguò l’Europa, forse in<br />

modo irrimediabile. La loro emigrazione (in Inghilterra, Stati Uniti, Sud-<br />

America, Unione Sovietica; ma anche in Belgio, Olanda, Francia, dove la marea<br />

nazista li doveva raggiun-gere pochi anni dopo: erano, e siamo tutti, ciechi al<br />

futuro) non fu una fuga né una diserzione, bensì un naturale ricongiungersi<br />

con alleati potenziali o reali, in cittadelle da cui riprendere la loro lotta o la loro<br />

attività creativa.<br />

Tuttavia, è pur vero che in massima parte le famiglie minacciate (in primo<br />

luogo gli ebrei) restarono in Italia ed in Germania. Domandarsi e domandare il<br />

perché è ancora una volta il segno di una concezione stereotipa ed<br />

anacronistica della storia; più semplicemente, di una diffusa ignoranza e<br />

dimenticanza, che tende ad aumentare con l’allontanarsi dei fatti nel tempo.<br />

L’Europa del 1930-1940 non era l’Europa odierna. Emigrare è doloroso<br />

sempre; allora era anche più difficile e più costoso di quanto non sia oggi. Per<br />

farlo, occorreva non solo molto denaro, ma anche una « testa di ponte » nel<br />

paese di destinazione: parenti od amici disposti a dare garanzie o anche<br />

ospitalità. Molti italiani, soprattutto contadini, avevano emigrato nei decenni<br />

precedenti, ma erano stati spinti dalla miseria e dalla fame, ed una testa di<br />

ponte l’avevano, o credevano di averla; spesso erano stati invitati e bene<br />

accolti, perché localmente la mano d’opera scarseggiava; comunque, anche per<br />

loro e per le loro fa-miglie lasciare la patria era stata una decisione traumatica.<br />

«Patria»: non sarà inutile soffermarsi sul termine. Si colloca vistosamente fuori<br />

del linguaggio parlato: nessun italiano, se non per scherzo, dirà mai «prendo il<br />

treno e ritorno in patria». É di conio recente, e non ha senso univoco; non ha<br />

equivalenti esatti in lingue diverse dal-l’italiano, non compare, che io sappia, in<br />

nessuno dei nostri dialetti (e questo è un segno della sua origine dotta e della<br />

sua intrinseca astrattezza), né in Italia ha avuto sempre lo stesso significato.<br />

Infatti, a seconda delle epoche, ha indicato entità geografiche di estensione<br />

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