Christian Elia - E - il mensile online
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<strong>Christian</strong> <strong>Elia</strong><br />
STORIE<br />
IN FUORIGIOCO<br />
non tutte le partite di calcio finiscono al 90°<br />
Prefazione di Gianni Mura<br />
BOOK<br />
di E-IL MENSILE
STORIE IN FUORIGIOCO<br />
non tutte le partite di calcio finiscono al 90°<br />
di Christan <strong>Elia</strong><br />
Pubblicazione di E-<strong>il</strong> mens<strong>il</strong>e on line (già PeaceReporter)<br />
Iscrizione n. 218 del 31.03.2003 - ultimo aggiornamento in data 9.12.2010<br />
Direttore responsab<strong>il</strong>e Maso Notarianni<br />
Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 M<strong>il</strong>ano<br />
Fotografie Getty Images<br />
Grafica e impaginazione Maddalena Masera<br />
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA<br />
Dieci Dicembre Scarl © 2012 M<strong>il</strong>ano<br />
Prima edizione digitale 2012<br />
www.e<strong>il</strong>mens<strong>il</strong>e.it<br />
ISBN 9788890698330<br />
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.<br />
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
<strong>Christian</strong> <strong>Elia</strong><br />
STORIE<br />
IN FUORIGIOCO<br />
non tutte le partite di calcio finiscono al 90°<br />
Prefazione di Gianni Mura<br />
BOOK<br />
di E-IL MENSILE
A Francesca,<br />
compagna di viaggio<br />
W<strong>il</strong>liam “B<strong>il</strong>l” Shankly, mitico manager del Liverpool dal 1959 al 1974, raccontava:<br />
«Una volta qualcuno mi disse che <strong>il</strong> calcio per me era una questione di vita o di morte.<br />
Io gli risposi: Senti, è ancora più importante».
Sommario<br />
Prefazione 4<br />
L’ultima finta di Eddie 7<br />
La partita della vita 10<br />
Il sogno interrotto 16<br />
La lunga partita per l’indipendenza 19<br />
La prima guerra del football 24<br />
Pallonate contro un muro 27<br />
Il derby che unisce 30<br />
La mano di Dio 36<br />
La bandiera strappata 39<br />
Il braccialetto verde 44<br />
La magia del calcio 47<br />
Insieme, per una volta 51<br />
La guerra non ucciderà mai <strong>il</strong> calcio 56<br />
Un calcio diplomatico 59<br />
Il futuro in palio 63<br />
Campioni del mondo di fantasia 68<br />
La metà di niente 70
Prefazione<br />
di Gianni Mura<br />
Calcio, mistero senza fine bello: così endecas<strong>il</strong>labava Gianni Brera<br />
parafrasando Guido Gozzano e sostituendo <strong>il</strong> bis<strong>il</strong>labo donna con <strong>il</strong><br />
bis<strong>il</strong>labo calcio. Si riferiva, penso, all’imprevedib<strong>il</strong>ità del gioco, al fatto<br />
che una squadra piccola come la Grecia o ripescata come la Danimarca<br />
potesse vincere <strong>il</strong> campionato europeo. Ho citato due fatti successivi<br />
alla morte di Brera, tra i precedenti potrei mettere un 4-0 dello<br />
Zambia all’Italia nel 1988 in Corea. Oggi <strong>il</strong> calcio è un po’ meno un<br />
mistero (non c’è niente da capire, chioserebbe <strong>il</strong> tifoso romanista De<br />
Gregori) e molto di più un casino.<br />
Nel termine sono contenuti, in ordine sparso: <strong>il</strong> tifo razzista, <strong>il</strong> calcio<br />
violento, <strong>il</strong> tifo normale, <strong>il</strong> calcio spettacolare, <strong>il</strong> <strong>il</strong> tifo violento, gli ingaggi<br />
dei calciatori oltre ogni umana facoltà di comprensione, <strong>il</strong> calcioscommesse,<br />
un numero non quantificab<strong>il</strong>e di malavitosi che partono<br />
da Singapore e arrivano in Italia e altrove via Balcani, la caccia all’arbitro,<br />
un progressivo passaggio del terzino o dell’attaccante dal ruolo di<br />
sportivo al ruolo di star. Con un neologismo: spordivo. E poi mettiamoci<br />
pure i politici che quando parlano di calcio straparlano, mettiamoci <strong>il</strong><br />
fairplay fin troppo sventolato e troppo poco applicato, sia in campo sia<br />
nei b<strong>il</strong>anci, la tessera del tifoso che è poi una schedatura e crea problemi<br />
più alle famiglie che ai violenti, mettiamoci sospetti di doping, ma<br />
tra tutte le cose che circolano ce n’è una che rappresenta una colossale<br />
bugia. Ed è la frase: la politica non deve entrare nel calcio.<br />
Non è vero, non è mai stato così, e <strong>il</strong> merito di <strong>Christian</strong> <strong>Elia</strong> è di<br />
avere raccontato le volte (non tutte, non basterebbe un libro di m<strong>il</strong>le<br />
4
5<br />
Prefazione<br />
pagine) che c’è entrata. Rievoca un Germania Ovest-Germania Est, o<br />
Ddr come si abbreviava allora, un Usa-Iran ai mondiali del ’98, la mano<br />
de Dios dell’argentino Maradona contro gli inglesi, la guerra, vera, che<br />
ritrovate in un libro di Kapuscinski, tra El Salvador e Honduras, l’anticipo<br />
della guerra nell’ex Jugoslavia con gli incidenti di Dinamo Zagabria-<br />
Stella Rossa Belgrado, l’Ungheria del ’56 e altre vicende. Potremmo<br />
aggiungere <strong>il</strong> saluto fascista della Nazionale campione del mondo nel<br />
’34 in Italia e nel ’38 in Francia, ma anche soffermarci sulle nostre rivalità<br />
interne. Parma e Reggio Em<strong>il</strong>ia, Trieste e Udine, Pisa e Livorno,<br />
Bergamo e Brescia, Pescara e Chieti, Lecce e Bari: è la politica del campan<strong>il</strong>e,<br />
risale ai Comuni, in uno sport globalizzato come <strong>il</strong> mondo non<br />
ha molto senso <strong>il</strong> campan<strong>il</strong>e, o forse è uno degli ultimi beni-rifugio a<br />
buon mercato. La politica entra nel calcio quando decide di priv<strong>il</strong>egiare<br />
lo sport di vertice e di tagliare risorse allo sport per tutti, dove<br />
non conta <strong>il</strong> risultato ma solo la pratica, intesa anche come recupero.<br />
La politica entra nel calcio perché è lo sport più popolare e offre una<br />
visib<strong>il</strong>ità enorme. Perché chi vince è un vincente. All’inizio della sua<br />
discesa in campo per sbertucciare <strong>il</strong> suo avversario Berlusconi disse<br />
gonfiando <strong>il</strong> petto e facendo la ruota: «Quante Coppe dei campioni ha<br />
vinto Spaventa?». Più sono di basso livello più i politici devono sentirsi<br />
popolari: <strong>il</strong> calcio fa veramente al caso loro. Alludo qui a frequentazioni<br />
assidue, presenze continue allo stadio nella tribuna cosiddetta<br />
d’onore, non alla simpatica e quasi goliardica (per un vecchio signore)<br />
irruzione di Pertini al Bernabeu, <strong>il</strong> giorno della finale con la Germania.<br />
Anche varare la Nazionale della Padania è politica. Anche alzare di<br />
molto <strong>il</strong> costo dei biglietti, come fece Margaret Thatcher, è politica (di<br />
dissuasione). Anche, in molte nostre città, le curve rosse che diventano<br />
nere sono politica. Anche la “democrazia corinthiana” imposta da<br />
Socrates è politica. Anche lo striscione “Sollier boia”, lungo 60 metri<br />
ed esposto all’Olimpico è politica. Anche dire “abbiamo vinto” quando<br />
la nostra squadra vince, e “hanno perso” quando perde è politica, certo<br />
non della migliore. Ma dov’è la migliore?
L’ultima finta di Eddie<br />
L’ala destra dell’Ajax, ucciso ad Aushwitz, simbolo del rapporto<br />
tra la squadra di Amsterdam e le sue radici ebraiche<br />
Tra i tavolini del Cafè Brandon di Amsterdam, fino a non troppo tempo<br />
fa, si poteva ancora incontrare qualche vecchietto che aveva visto<br />
giocare Eddie Hamel. Un’ala destra offensiva, di quelle che ti puntano<br />
palla al piede, come se la vita fosse una finta tra la geometria della<br />
linea laterale e l’anarchia dell’invenzione per forzare l’area di rigore.<br />
Hamel nasce a New York, ma segue i suoi genitori da bambino in<br />
Olanda. Cresce giocando tra i canali di Amsterdam e porta sulle spalle<br />
la maglia biancorossa dell’Ajax dal 1922 al 1930, giocando 125 partite<br />
e segnando poco, solo otto reti. Perché certe ali, sul fondo, alzano lo<br />
sguardo e cercano <strong>il</strong> compagno. Il gusto sta nel dimostrare, sempre, di<br />
trovare lo spazio anche quando non si vede. Hamel è ebreo. Lo è fino<br />
al suo ultimo giorno: <strong>il</strong> 30 apr<strong>il</strong>e 1943.<br />
E’ morto a 41 anni da compiere, ma del suo fisico da atleta – mantenuto<br />
in forma dopo aver appeso le scarpette al chiodo – non s’intuisce<br />
più molto. Hamel muore ad Auschwitz, nel campo di concentramento<br />
dove l’hanno deportato i tedeschi, che hanno occupato l’Olanda nel<br />
1940. Un destino crudele, per un campione che con tanti altri ha contribuito<br />
a creare <strong>il</strong> mito dell’Ajax Amsterdam, la squadra degli ebrei.<br />
Il club che porta <strong>il</strong> nome di Aiace, in realtà, non è molto più ebreo di<br />
altri, ma <strong>il</strong> rapporto tra l’ebraismo e <strong>il</strong> club più famoso d’Olanda non si<br />
è mai incrinato.<br />
L’Ajax è stato fondato, nel 1900, da un gruppo di studenti di Amsterdam.<br />
La squadra era nata e giocava nel vecchio ghetto ebraico della<br />
7
Storie in fuorigioco<br />
città olandese. La leggenda vuole, come vi ripeterebbe chiunque nel<br />
Cafè Brandon, vero tempio del tifo biancorosso, che i bottegai ebrei<br />
chiudessero solo se giocava l’Ajax e l’amministrazione cittadina fu costretta<br />
a deviare <strong>il</strong> percorso di un tram per appagare <strong>il</strong> numero crescente<br />
di tifosi che voleva vedere giocar la squadra. Secondo <strong>il</strong> giornalista<br />
Simon Kuper, però, si tratta in gran parte di un falso mito. Nel suo bel<br />
libro L’Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la Shoah, Kuper smentisce<br />
molti luoghi comuni. Il primo è quello dell’Olanda Paese civ<strong>il</strong>e e in prima<br />
f<strong>il</strong>a nella difesa degli ebrei dopo l’occupazione nazista. Il secondo<br />
è proprio quello dell’Ajax squadra ebrea per eccellenza. Al punto che,<br />
nel 1941, tutti i soci ebrei del club vengono espulsi, come raccontano<br />
i verbali rinvenuti dallo stesso Kuper. Allora perché la Stella di David<br />
campeggia nella curva F, quella del tifo rovente dell’Ajax? Perché <strong>il</strong> tatuaggio<br />
della stella a sei punte, magari con la F dentro, è un must per i<br />
tifosi biancorossi? La risposta più bella forse la dà <strong>il</strong> vecchio archivista<br />
del club, ottant’anni: «Agli ebrei piacevano le cose belle, per quello<br />
andavano a vedere l’Ajax».<br />
In realtà <strong>il</strong> mito del binomio ebraismo-Ajax nasce nell’immediato<br />
dopoguerra. Uno dei principali finanziatori del club è un certo Jaap Van<br />
Praag, negoziante di dischi ebreo. Durante l’occupazione nazista si nasconde<br />
nella soffitta di un altro bottegaio, dopo diventa <strong>il</strong> prestanome<br />
dei fratelli Freek e Win Der Mejden. Due imprenditori ed<strong>il</strong>i, divenuti<br />
ricchi durante la guerra. Come? Lavorando attivamente per l’occupante<br />
nazista, al punto da meritarsi <strong>il</strong> nomignolo di “fratelli Bunker”. I tifosi<br />
e i calciatori dell’Ajax, dopo <strong>il</strong> conflitto, solidali con le vittime ebree del<br />
Nazismo, presero l’abitudine di cucirsi addosso alle casacche e ai vestiti<br />
una stella gialla di stoffa. Non potevano accettare <strong>il</strong> denaro di due<br />
personaggi compromessi come i fratelli Der Mejden.<br />
Van Praag, irrazionale e pragmatico come solo un vero tifoso sa essere,<br />
non ci pensa su due volte e funge da intermediario per <strong>il</strong> denaro<br />
dei costruttori. Viene creata la miglior società d’Europa, che sforna talenti<br />
in serie dal settore giovan<strong>il</strong>e. Fino a creare la squadra dei sogni, a<br />
metà degli anni Settanta, capace di vincere tre Coppe dei Campioni di<br />
seguito. Lo stesso gruppo di giocatori che arrivò a giocare – e perdere<br />
– la finale della Coppa del Mondo nel 1974 e nel 1978.<br />
8
9<br />
L’ultima finta di Eddie<br />
Simbolo di quella squadra, fautrice del “calcio totale” predicato dal<br />
suo allenatore Rinus Michels, è Johan Cruyiff. Tutti lo credono ebreo,<br />
ma non lo è. Lo è invece Bennie Muller, gloria dell’Ajax anni Sessanta.<br />
«Tutti quei cori che inneggiano alle presunte radici ebree dell’Ajax, e <strong>il</strong><br />
controcanto antisemita, mi spezzano <strong>il</strong> cuore, non ce la faccio. Della<br />
mia famiglia materna, di undici figli, solo mia madre e due sorelle si<br />
sono salvate, ma perché erano sposate con un protestante», si sfogò<br />
Muller in un’intervista. Già, perché se i tifosi dell’Ajax ostentano fieri <strong>il</strong><br />
legame con l’ebraismo, gli avversari lo usano come una clava. Il peggio<br />
lo fanno i tifosi del Feyenoord, squadra di Rotterdam e rivale storica dei<br />
joden, gli ebrei, come vengono chiamate la tifoseria e la squadra dell’Ajax.<br />
All’ingresso in campo dell’Ajax, ogni volta che si gioca allo stadio<br />
De Kuip (tempio del Feyenoord), i tifosi locali come un sol uomo<br />
emettono un fischio acutissimo. L’idea geniale è quella di riprodurre<br />
<strong>il</strong> sib<strong>il</strong>o delle camere a gas. Questo e altri episodi di antisemitismo<br />
hanno spinto, nel 2005, la dirigenza dell’Ajax a prendere posizione<br />
con i loro supporter: basta simboli e riferimenti all’ebraismo. Molte<br />
polemiche, ma alla fine le bandiere con la Stella di David rimangono e<br />
tra i tavolini del Cafè Brandon, tra m<strong>il</strong>le cimeli, la foto di Eddie Hamel<br />
non la toccherà mai nessuno.
La partita della vita<br />
Storie di calcio al tempo della Seconda Guerra mondiale<br />
Kiev non è una delle città più belle del mondo, ma una visita la<br />
merita. Se capita, trovate <strong>il</strong> tempo di prendere la metro, linea verde,<br />
e scendete alla fermata Lukyanivs’ka. Appena fuori chiedete dello<br />
stadio Start, un vecchio impianto, ma che ha <strong>il</strong> suo posto (meritato)<br />
nella storia del calcio. Proprio qui, <strong>il</strong> 9 agosto 1942, si giocò la “partita<br />
della morte”.<br />
Sulla destra dell’ingresso principale c’è un monumento, ormai un<br />
po’ consunto. Rappresenta una squadra di calcio. Poco più in là, una<br />
targa. «A uno che se lo merita», c’è scritto, con tono informale, da<br />
bar dello Sport. E’ dedicato a Makar Goncharenko, che nella “partita<br />
della morte” segnò una doppietta. Due tiri al volo, si dice, per non<br />
dare scuse a un arbitro di parte. Per la cronaca la partita si giocava<br />
tra lo Start e <strong>il</strong> Flakelf, due nomi che oggi non dicono nulla, e termina<br />
con la vittoria dello Start per 4-2. Lo stadio, allora, si chiamava<br />
Zenit e <strong>il</strong> nome è stato cambiato nel 1981. Per ricordare un’impresa<br />
straordinaria. Kiev, dal 19 settembre 1941, è occupata dall’esercito<br />
nazista. Ciascuno tira a campare come può: <strong>il</strong> panettiere Josif Kordik,<br />
per esempio, aveva sfruttato le sue origini tedesche per non essere<br />
rinchiuso nei campi di prigionia e per continuare a lavorare. Vende <strong>il</strong><br />
pane proprio ai tedeschi che lo lasciano tranqu<strong>il</strong>lo. Kordik, nei tempi<br />
belli, prima della guerra, ha una fede incrollab<strong>il</strong>e: la Dynamo Kiev. Un<br />
giorno, narra la leggenda, tra gli straccioni che cercano di sopravvivere<br />
nella città occupata, incontra Nikolaj Trusevich, <strong>il</strong> portiere della<br />
sua squadra del cuore. Lo prende a lavorare con sé. Uno a uno, con<br />
10
11<br />
La partita della vita<br />
l’aiuto di Trusevich, riesce a rimettere insieme otto giocatori della<br />
Dynamo, garantendogli un lavoro, un pasto caldo e protezione. Ne<br />
salva anche tre della rivale Lokomotiv Kiev, perché un conto è <strong>il</strong> tifo<br />
e un altro la guerra.<br />
I nazisti, nel 1942, decidono di organizzare un campionato cittadino.<br />
Ci sono quattro squadre formate da m<strong>il</strong>itari nazisti con m<strong>il</strong>iziani<br />
rumeni o ungheresi loro alleati e una formazione di ucraini collaborazionisti.<br />
Kordik non ci pensa due volte e iscrive i suoi panettieri calciatori.<br />
Nome della squadra Start. Saranno loro a tenere alto <strong>il</strong> nome<br />
dell’Ucraina. La differenza tecnica è impressionante, nonostante<br />
i calciatori di Kordik non possano nutrirsi e allenarsi come i rivali.<br />
Li massacrano tutti e, piano piano, diventano gli idoli della gente di<br />
Kiev, che in loro vede l’ultimo baluardo di resistenza all’invasore. Resta<br />
da affrontare la squadra nazista più tosta, la Flakelf, amata dai<br />
generali tedeschi in quanto legata all’aviazione, la Luftwaffe. Si gioca<br />
<strong>il</strong> 6 agosto, trionfa la Start per 5-1. Sembrava finita, invece la mattina<br />
dopo la città è piena di locandine che annunciano una non prevista<br />
partita di ritorno, per <strong>il</strong> 9 agosto 1942. Il messaggio è chiaro: non ci<br />
stanno a perdere e faranno di tutto per battere la Start. La popolazione<br />
è con i panettieri e li sostiene in ogni modo. Allo stadio Zenit<br />
arbitra un ufficiale nazista, che minaccia i campioni prima, durante<br />
e dopo la partita. Loro non mollano, fin dall’inizio: contravvengono<br />
all’ordine di urlare «he<strong>il</strong> Hitler» e urlano «Viva lo sport!». E vincono.<br />
Questa storia ha ispirato tanti f<strong>il</strong>m, dei quali <strong>il</strong> più famoso è Fuga per<br />
la vittoria, di John Houston, nel quale recitarono anche tanti calciatori<br />
famosi. A Hollywood, si sa, non amano i finali tristi e le ricostruzioni<br />
storiche lasciano spesso a desiderare. Quindi la partita nella pellicola<br />
è ambientata in Francia e, soprattutto, finisce bene. Per i campioni della<br />
Start, purtroppo, non andò così. Una commissione d’inchiesta, molti<br />
anni dopo, ha stab<strong>il</strong>ito che non ci sia stato nessun legame tra la “partita<br />
della morte” e la sorte dei panettieri. Comunque sia, quella soddisfazione<br />
l’hanno pagata cara. Alcuni giorni dopo la Gestapo, polizia politica<br />
nazista, arresta otto degli undici giocatori. Quelli che non muoiono<br />
per le torture finiscono nel lager di Siretz. E’ là che muore <strong>il</strong> portierone
Storie in fuorigioco<br />
Trusevich. I loro corpi, dopo la fuc<strong>il</strong>azione, vengono gettati nella fossa<br />
comune di Babij Jar. I superstiti finiscono in un campo di lavoro a Kiev.<br />
Tra loro <strong>il</strong> bomber Goncharenko che, finita la guerra, racconta tutto. Regalando<br />
ai suoi compagni almeno la dignità della memoria.<br />
Anche se <strong>il</strong> ricordo non è condiviso. L’agenzia per <strong>il</strong> cinema ucraino,<br />
in vista degli Europei di calcio del 2012, che Kiev organizzerà con<br />
la Polonia, pensa di censurare l’arrivo nelle sale di un f<strong>il</strong>m chiamato<br />
Match, del regista russo Andrey Malyukov. Racconta ancora questa<br />
storia, ma <strong>il</strong> governo ucraino non vuole fomentare sentimenti anti<br />
tedeschi. Ma c’entra anche la storia, che questa benedetta partita<br />
evoca, tra propaganda sovietica e collaborazionismo ucraino. La<br />
pellicola, infatti, è accusata addirittura di propaganda f<strong>il</strong>orussa. Ma<br />
anche Tyler Gooden, statunitense, sta montando un cortometraggio<br />
animato (che dovrebbe divenire un lungometraggio) dal titolo<br />
Playing the game, che sottolinea la propaganda sovietica sull’evento<br />
dopo la guerra.<br />
Nello stesso periodo i nazisti occupano anche l’Italia. La passione<br />
del pallone, evidentemente, li segue ovunque. A Sarnano, un paesino<br />
nelle Marche, un sergente nazista appassionato di calcio scopre che<br />
in paese vive Mario Maurelli, arbitro noto anche in Germania. Bussa<br />
alla porta del malcapitato e lo “invita” a trovare undici ragazzi italiani<br />
per una sfida contro i nazisti. Con una garanzia: nella rappresentativa<br />
italica giocherà <strong>il</strong> fratello minore di Maurelli, che arbitrerà l’incontro.<br />
In modo che a nessuno venga in mente di fare <strong>il</strong> furbo. L’aria è tesa:<br />
undici giovani di Sarnano, nel 1944, significa undici partigiani. Maurelli<br />
non può sottrarsi, come racconta nel commovente documentario<br />
di Umberto Nigri La leggenda di Sarnano. Accanto a lui, nel video,<br />
Libero Lucarini. Lucarini era uno degli undici giocatori che, <strong>il</strong> primo<br />
apr<strong>il</strong>e 1944, sfidarono i tedeschi. Lucarini giocava terzino destro e,<br />
scivolando di proposito, fece pareggiare la Germania, dopo che <strong>il</strong><br />
centravanti partigiano Grattini - in modo improvvido - aveva portato<br />
in vantaggio la squadra più ricercata d’Italia. A differenza dell’eroismo<br />
dei campioni della Dynamo Kiev, i partigiani italiani preferirono<br />
un’onorevole pareggio che, alla fine, permise loro di scappare tutti in<br />
montagna e di soffocare – almeno per un po’ – la rabbia nazista.<br />
12
13<br />
La partita della vita<br />
D’altronde W<strong>il</strong>liam “B<strong>il</strong>l” Shankly, mitico manager del Liverpool dal<br />
1959 al 1974, raccontava: «Una volta qualcuno mi disse che <strong>il</strong> calcio<br />
per me era una questione di vita o di morte. Io gli risposi: Senti, è<br />
ancora più importante».
Il sogno interrotto<br />
La nazionale ungherese degli anni Cinquanta,<br />
molto più di una squadra di calcio
Il sogno interrotto<br />
La nazionale ungherese degli anni Cinquanta,<br />
molto più di una squadra di calcio<br />
Uno dei limiti del calcio contemporaneo è quello che le squadre mancano<br />
di un undici base. Le formazioni storiche le reciti tutte d’un fiato.<br />
Segnatevi questa: Grosics, Buzanszky, Lorant, Lantos, Bozsik, Zakarias,<br />
Budaj, Kocsis, Hidegkuti, Puskas, Czibor. Allenatore mister Sebes.<br />
La rappresentativa nazionale dell’Ungheria che dal 1949 al 1954 ‘’offriva<br />
as<strong>il</strong>o estetico ai cacciatori del bello’’, secondo la felice definizione<br />
del giornalista sportivo italiano Roberto Beccantini.<br />
Non a caso è passata alla storia come Aranycsapat, parola ungherese<br />
per “squadra d’oro”. Un po’ di numeri: tra <strong>il</strong> 1950 e <strong>il</strong> 1956 giocò 83<br />
gare perdendone solo una. La più importante, come vedremo dopo.<br />
Ma sempre una. Un mito, che <strong>il</strong> partito comunista al potere a Budapest<br />
non vuole farsi scappare. «La vittoria è necessaria al partito», si<br />
sentivano ripetere i giocatori dai dirigenti politici. La squadra non si fa<br />
pregare e regala vittorie e gioco spettacolare.<br />
«Chi sarebbe <strong>il</strong> loro capitano, <strong>il</strong> ciccione?», chiede un improvvido B<strong>il</strong>ly<br />
Wright, capitano della nazionale inglese, mentre la Aranycsapat fa <strong>il</strong> suo ingresso<br />
in campo nel 1953 a Wembley, <strong>il</strong> tempio degli inventori del calcio, a<br />
Londra. Il ciccione è Ferenc Puskas, <strong>il</strong> violino solista di un’orchestra perfetta.<br />
La “pantera nera” Grosics tra i pali, Hidegkuti centravanti arretrato e rampa<br />
di lancio per le velocissime ali Czibor e Budaj, <strong>il</strong> “ciccione” e <strong>il</strong> “cobra” Kocsis<br />
a finalizzare. Una sinfonia, che i tattici chiamano MM, dalle posizioni<br />
degli uomini in campo. Simbolo del gruppo le scarpette modificate, basse<br />
al tallone, per agevolare i colpi d’esterno. Un marchio di fabbrica.<br />
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17<br />
Il sogno interrotto<br />
Puskas fa due reti, finisce 6-3 per gli ungheresi. Per la prima volta<br />
l’Ingh<strong>il</strong>terra è violata in casa (la rivincita a Budapest fu anche peggio,<br />
con i britannici battuti 7-1). Mesi prima, alle Olimpiadi di Helsinki del<br />
1952, la Aranycsapat vince la medaglia d’oro, ma è la Coppa del Mondo<br />
del 1954, organizzata dalla Svizzera, <strong>il</strong> palcoscenico dove la squadra<br />
dei sogni dovrà consacrarsi nel mito.<br />
Un mito che, per motivi politici, negli anni della Guerra Fredda non<br />
inizia e non finisce in un terreno di gioco. La Aranycsapat non è solo<br />
<strong>il</strong> simbolo del regime ungherese, ma del comunismo intero. Un gioco<br />
collettivo, in grado di superare tutti i personalismi. Il socialismo che<br />
avanza, pronto a travolgere <strong>il</strong> capitalismo. Ci crede anche <strong>il</strong> giovane<br />
Gabor, protagonista del bel romanzo – saggio La squadra spezzata, <strong>il</strong><br />
libro che <strong>il</strong> giornalista Luigi Bolognini ha dedicato all’Aranycsapat. Un<br />
ragazzino come tanti, con <strong>il</strong> mito di Puskas, uomo da 84 reti in 85<br />
partite in nazionale. Modello sportivo, ideale di vittoria sociale, simbolo<br />
di una nuova epoca. In Svizzera tutto inizia per <strong>il</strong> meglio, l’Ungheria<br />
vola: 25 reti in quattro gare. Il finale sembra già scritto. A contendere<br />
<strong>il</strong> titolo nella finalissima di Berna, 4 luglio 1954, la Germania<br />
Ovest, um<strong>il</strong>iata dall’Ungheria 8-3 nella prima fase. Al 10° minuto del<br />
primo tempo tutto sembra finito: 2- 0 per l’Ungheria. La Germania,<br />
però, non ci sta e, in pochi minuti, si riporta sul 2-2. Sembra che gli<br />
ungheresi paghino un eccesso di spocchia, ma <strong>il</strong> risultato non pare in<br />
discussione. Invece, come una doccia fredda, a pochi minuti dal termine<br />
Helmut Rahn segna <strong>il</strong> 3-2. A Puskas viene anullato inspiegab<strong>il</strong>mente<br />
<strong>il</strong> 3-3. Arbitraggio f<strong>il</strong>o-occidentale? Doping dei tedeschi (sei<br />
su undici dei giocatori della formazione teutonica morirono prima<br />
dei 60 anni per patologie controverse)?<br />
Solo che l’Aranycsapat ha perso la partita più importante e nulla sarà<br />
mai più come prima. C’è chi collega alla sconfitta l’inizio del declino del<br />
regime ungherese e dei moti di piazza per una riforma democratica del<br />
Paese. Un malcontento strisciante che, nel 1956, scoppia nelle piazze<br />
con <strong>il</strong> leader Imre Nagy che annuncia un governo aperto non solo al<br />
partito comunista. Mosca reagisce inviando i carri armati. Nel sangue<br />
finiscono i sogni degli ungheresi, che per alcuni si mischiano alle lacrime<br />
di Puskas nel fango di Berna. Il giovane Gabor, nel romanzo di
Storie in fuorigioco<br />
Bolognini, corre in piazza con la maglia del “ciccione”, ma qualcosa si è<br />
rotto e la stessa mitica squadra si disperde. A qualcuno va bene, come<br />
Puskas appunto. Riesce a fuggire e a raggiungere Madrid, dove vincerà<br />
tre Coppe dei Campioni e sei campionati, diventando una leggenda<br />
del calcio. Altri, come Kocsis, restano segnati e <strong>il</strong> grande attaccante si<br />
suiciderà a Budapest nel 1979.<br />
I tedeschi ricordano i mondiali del 1954 come quelli del “miracolo di<br />
Berna”, mentre a Gabor e a tutti gli altri, in piazza, a Budapest, è rimasto<br />
<strong>il</strong> gusto amaro del sogno spezzato sul più bello.<br />
18
La lunga partita per l’indipendenza<br />
La squadra che girò <strong>il</strong> mondo per un’Algeria libera<br />
Sembra di vederli, stretti nelle giacche lise, immortalate da G<strong>il</strong>lo Pontecorvo<br />
nella Battaglia di Algeri. Mani che si stringono, mani che si torcono<br />
per <strong>il</strong> nervosismo, m<strong>il</strong>ioni di sigarette. Soummam è un posto piccolo,<br />
ma di quelli che sanno farsi eterni. Anno 1956, la situazione in Algeria<br />
è rovente non solo perché è agosto. Il colonialismo francese, come un<br />
animale ferito, sente la fine vicina e mostra <strong>il</strong> suo volto più duro.<br />
A Soummam, nella Cab<strong>il</strong>ia ribelle che la Francia non ha potuto piegare<br />
mai, si tiene <strong>il</strong> congresso del Fronte di Liberazione Nazionale<br />
(Fln). C’è da preparare uno Stato, prima che esista uno Stato. L’Algeria<br />
sarà indipendente, bisogna farsi trovare pronti all’appuntamento con<br />
la storia. La piattaforma di Soummam sarà la base su cui costruire<br />
le fondamenta dell’Algeria libera e indipendente. Si discute di tutto,<br />
dall’organizzazione del futuro alla pianificazione della propaganda per<br />
la causa indipendentista. Studenti e lavoratori si costituiscono in associazioni,<br />
<strong>il</strong> programma è denso. Tra tutti, due uomini, un po’ in disparte.<br />
Non sarà fac<strong>il</strong>e, tra tanti problemi, convincere i grandi capi della Resistenza<br />
che anche <strong>il</strong> calcio può fare la sua parte.<br />
Ne sono convinte due vecchie glorie del calcio algerino: Mohammed<br />
Boumezrag e Mokhtar Laaribi, quest’ultimo allenatore dell’Avignone,<br />
nel campionato di calcio francese. Devono convincere <strong>il</strong> Fln che anche<br />
una rappresentativa di calciatori può girare <strong>il</strong> mondo, perorando la causa<br />
dell’indipendenza algerina. Ci riescono. Anche perché i capi hanno<br />
avuto un assaggio della potenza del messaggio globale del pallone,<br />
che proprio in quegli anni diventava fenomeno di massa. A Berna, nel<br />
19
Storie in fuorigioco<br />
1954, durante i campionati di calcio, <strong>il</strong> Fln aveva annunciato l’insurrezione<br />
armata contro la Francia. Pochi mesi prima di Soummam, inoltre,<br />
nel maggio 1956, un cartellino rosso era diventato <strong>il</strong> detonatore della<br />
rabbia algerina.<br />
Finale della Coppa Nordafricana, torneo tra formazioni del Maghreb<br />
occupato dai francesi. In finale arrivano due formazioni della stessa<br />
città dell’Algeria: Sidi Bel Abbès. Sono lo Sporting, formazione dei pied<br />
noirs (i coloni francesi) e l’Union, formata da musulmani. Il capitano<br />
dello Sporting si vede annullare la squalifica prima del match decisivo,<br />
la rabbia degli algerini è enorme. Ennesimo sopruso, regole violate<br />
dall’occupante, boicottaggio delle squadre composte da tunisini, algerini<br />
e marocchini.<br />
Boumezrag e Laaribi sono determinati: creare una squadra che giri<br />
per <strong>il</strong> mondo portando all’attenzione di tutti le condizioni di vita degli<br />
algerini. Nessuno meglio dei campioni che giocano in Francia possono<br />
riuscirci, perché aderire a questo team significava perdere gli ingaggi<br />
che garantiva <strong>il</strong> campionato francese. Nessuna delle stelle algerine<br />
della Ligue 1, <strong>il</strong> camionato d’oltralpe, si tira indietro. Aderiscono al<br />
progetto <strong>il</strong> grande Mekloufi, del Saint-Etienne, Zitouni, del Monaco,<br />
Maouche, dello Stade-Reims e Ben Tifour del Monaco. Alcuni di loro<br />
erano nella lista del commissario tecnico francese per i prossimi mondiali<br />
in Svezia, previsti nel 1958, eppure non si erano tirati indietro.<br />
L’appuntamento per tutti è a Tunisi, dove <strong>il</strong> presidente Bourghiba, dopo<br />
aver portato all’indipendenza <strong>il</strong> suo Paese, nel marzo 1956 era diventato<br />
<strong>il</strong> protettore politico dei vertici del Fln. I giocatori e i tecnici si lanciano<br />
nell’impresa, in gran segreto, di raggiungere la Tunisia. Ci vogliono due<br />
anni, ma alla fine un gruppo passa <strong>il</strong> confine francese in macchina e,<br />
dall’Italia, si imbarca per <strong>il</strong> Nord Africa. Un altro gruppo, in treno, raggiunge<br />
la Svizzera e prende un volo per la Tunisia. Ce la fanno tutti, tranne<br />
<strong>il</strong> povero Maouche, che faceva <strong>il</strong> servizio m<strong>il</strong>itare. Lo arrestano e con<br />
l’accusa di diserzione sconta quattro anni di carcere.<br />
I giornali francesi, dopo che si diffonde la notizia dell’arrivo dei giocatori<br />
algerini a Tunisi, <strong>il</strong> 13 apr<strong>il</strong>e 1958, danno ampio risalto alla vicenda.<br />
Loro posano per una mitica foto, sulla pista dell’aeroporto della capitale<br />
tunisina, vestiti da impiegati ma sistemati tra in piedi e accosciati<br />
20
21<br />
La lunga partita per l’indipendenza<br />
come nelle foto prima dei match di calcio. E’ l’inizio della leggenda,<br />
quella del le onze dell’indépendance (l’undici dell’indipendenza), più<br />
noto del nome ufficiale di Equipe du Fln de football. Tra <strong>il</strong> 1958 e <strong>il</strong><br />
1962, quando l’Algeria ottenne l’indipendenza, giocarono più di ottanta<br />
partite. Vincendole quasi tutte. La prima <strong>il</strong> 3 maggio 1958, contro<br />
la Tunisia, per 5-1. Poi Pechino, Belgrado, Hanoi, Tripoli, Rabat, Praga,<br />
Damasco, Amman, Budapest, Sofia e Budapest. Tutti i Paesi che<br />
non avevano ceduto, anche per motivi politici, al ricatto della furibonda<br />
Francia che aveva obbligato la Fifa a sanzionare le federazioni che<br />
avessero giocato contro le onze dell’indépendance.<br />
Le cronache dell’epoca la ricordano come una squadra spettacolare<br />
e offensiva, ma non è questo quello che conta. Il messaggio politico<br />
era devastante per coloro che a Parigi non volevano mollare l’Algeria:<br />
ragazzi algerini, che avevano successo in Francia, avevano rinunciato<br />
a soldi e fama per inseguire un sogno di libertà. Lo capirono in molti,<br />
compresi i leader politici che vollero accoglierli e farsi fotografare con<br />
loro, dal comandante Giap a Ho Chi Minh, passando per Zhou Enlai.<br />
Dopo l’indipendenza molti di loro restarono a giocare nel campionato<br />
algerino, altri tornarono in Francia, giocarono ancora in Ligue 1. Liberi<br />
di sentirsi algerini.<br />
Sono passati tanti anni e l’Algeria è molto cambiata, passando per<br />
una drammatica guerra civ<strong>il</strong>e negli anni Novanta. L’attuale presidente,<br />
Abdelaziz Bouteflika, ragazzo all’epoca della lotta anti francese, ha imparato<br />
la lezione dell’onze dell’indépendance e del potere del calcio. In<br />
epoca di primavere arabe, meglio stare attenti. Ecco che <strong>il</strong> governo, in<br />
previsione delle elezioni amministrative del maggio 2012, ha deciso di<br />
fermare <strong>il</strong> campionato. Tra le tifoserie che Bouteflika teme quella della<br />
Jeunesse Sportive de Kabylie, <strong>il</strong> simbolo dei cab<strong>il</strong>i, che anche nell’Algeria<br />
indipendente continuano a lottare per la loro identità. Perché certe<br />
cose, come la Cab<strong>il</strong>ia e <strong>il</strong> pallone, non cambiano mai.
Pallonate contro un muro<br />
Il giorno che la Germania Est, fuori casa, ha battuto la Germania Ovest
La prima guerra del football<br />
Lo spareggio mondiale tra Honduras ed El Salvador nel 1969 divenne<br />
<strong>il</strong> pretesto per un conflitto sanguinoso<br />
Il marketing è diventato sempre più importante. Si conquista spazi<br />
sempre più imponenti nelle nostre vite e, nostro malgrado, orienta tante<br />
scelte. Nel 1969, magari, non era così. Ma volete mettere l’appeal del<br />
nome “guerra del calcio”, rispetto a “guerra delle cento ore”? Con tutto<br />
<strong>il</strong> rispetto per le vittime, non c’è paragone.<br />
Ecco allora che <strong>il</strong> breve conflitto tra Honduras ed El Salvador del 1969<br />
che poteva finire nella soffitta della storia diventa un’icona. Molto più<br />
dei seim<strong>il</strong>a morti che si è lasciato dietro. Avete capito bene, seim<strong>il</strong>a.<br />
Dal 14 al 20 luglio 1969. Un massacro orrib<strong>il</strong>e, che finirebbe dimenticato<br />
fra tanti, troppi altri eccidi stupidi come tutte le guerre. Invece<br />
quello che accadde in quella estate centroamericana è stato immortalato<br />
per sempre dal grande reporter polacco Ryszard Kapuscinski e<br />
dal suo libro La prima guerra del football e altre guerre di poveri. Il vecchio<br />
detto che se un albero cade in una foresta deserta non fa rumore vale<br />
anche per le vite degli innocenti. Tutto era iniziato con la deportazione<br />
di trecentom<strong>il</strong>a salvadoregni da parte del governo dell’Honduras. La<br />
lotta per <strong>il</strong> mercato delle banane, con le multinazionali Usa nel ruolo<br />
del burattinaio, aveva generato un boom economico honduregno per<br />
<strong>il</strong> quale si erano rese necessarie le braccia dei disperati campesinos<br />
del Salvador. Queste persone avevano investito tutto nei loro appezzamenti<br />
di terra, ma una legge del governo dell’Honduras li espropriava<br />
di tutto. Le relazioni tra i due Paesi, mai eccellenti, precipitarono. In<br />
quegli stessi giorni, come se c’entrasse qualcosa, le nazionali di calcio<br />
24
25<br />
La prima guerra del football<br />
di Honduras ed El Salvador si giocavano la qualificazione alla Coppa<br />
del Mondo in Messico del 1970. Il calcio, però, è un grande megafono<br />
popolare e <strong>il</strong> pallone venne strumentalizzato politicamente.<br />
L’8 giugno 1969 era in programma, a Tegucigalpa, capitale honduregna,<br />
la partita di andata tra le due compagini. La squadra di casa vinse<br />
1-0, contro una formazione dell’El Salvador intimorita dalla rabbia dei<br />
tifosi dell’Honduras che ne avevano assediato l’albergo tutta notte e<br />
assalito <strong>il</strong> pullman che portava allo stadio i giocatori salvadoregni.<br />
La partita di ritorno, a San Salvador, si giocò una settimana dopo. Questa<br />
volta s’impose, per 3-0, la squadra dell’El Salvador. La vittoria venne<br />
presentata come la vendetta di un popolo intero. Durante <strong>il</strong> primo match,<br />
infatti, la diciottenne Amelia Bolanos, nella sua casa di San Salvador, si era<br />
tolta la vita con un colpo di pistola per la sconfitta dei suoi beniamini. Lo<br />
stato salvadoregno e i media ne fecero un simbolo, elevandola a martire<br />
della barbarie honduregna e tributandole funerali di Stato.<br />
«Giunse un momento in cui davvero tememmo per la nostra vita.<br />
Una scheggia di petardo ruppe <strong>il</strong> vetro di una finestra della stanza in<br />
cui dormivo con altri tre compagni. Cadde anche una bottiglia incendiaria<br />
che fortunatamente non scoppiò», raccontò Tonín Mendoza, <strong>il</strong><br />
capitano honduregno.<br />
I gocatori dell’Honduras, assediati in hotel, decisero di rifugiarsi nella<br />
soffitta fino all’alba mentre la banda di tifosi seminava l’interno dell’edificio<br />
di uova marce, topi morti e stracci puzzolenti. Nelle prime ore<br />
del giorno della partita i giocatori si divisero in due gruppi e, dopo aver<br />
seminato gli inseguitori, si nascosero in casa di alcuni honduregni. «A<br />
me toccò una casa dove viveva uno che aveva una moglie salvadoregna<br />
come pure i figli. Notavamo nei suoi occhi, come posso spiegare,<br />
una strana avversione», aggiunge Mendoza. «Fuggivamo come ladri.<br />
Non ci rendevamo conto che la storia era più grande di noi». In campo<br />
l’inno dell’Honduras venne sommerso di fischi e le bandiere del Paese<br />
“‘nemico” stracciate. Il drappello di tifosi honduregni al seguito venne<br />
aggredito e due di loro restarono uccisi. Diventava necessario uno<br />
spareggio in campo neutro.<br />
La partita decisiva venne fissata per <strong>il</strong> 26 giugno 1969 allo stadio<br />
Azteca di Città del Messico. Il governo messicano inviò cinquem<strong>il</strong>a
Storie in fuorigioco<br />
poliziotti per tentare di tenere sotto controllo la situazione, ma ci furono<br />
scontri tra le due tifoserie per ore. I tempi regolamentari terminarono<br />
sul 2-2. Ai tempi supplementari, la rete del salvadoregno Mauricio<br />
“Pipo” Rodríguez regalò al suo Paese <strong>il</strong> sogno mondiale. Ma <strong>il</strong> calcio<br />
pareva essere diventata l’ultima cosa. Pochi giorni dopo le relazioni<br />
diplomatiche tra Tegucigalpa e San Salvador vennero interrotte e gli<br />
eserciti scesero in campo. Il 18 luglio, dopo cento ore di inut<strong>il</strong>e carneficina,<br />
l’Organizzazione degli Stati Americani impose <strong>il</strong> “cessate <strong>il</strong><br />
fuoco”. «Mai avrei potuto immaginare che un mio gol potesse avere<br />
una ripercussione tale, visto quello che poi è successo», ha raccontato<br />
anni dopo, in un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais, Pipo Rodriguez.<br />
«Solo dopo ho capito che non c’entravamo nulla, che quella<br />
partita venne solo ut<strong>il</strong>izzata per fare quello che avevano già deciso di<br />
fare». Il governo di El Salvador, grato ai suoi giocatori per quella vittoria<br />
simbolica, dopo aver scaldato gli animi dell’opinione pubblica, si<br />
dimenticò di loro. «Lavorammo sei mesi gratis per poi sapere dalla<br />
Federazione che non c’erano soldi in cassa e, nonostante sia andato<br />
ai Mondiali, non mi diedero nemmeno una caramella», ricorda Pipo.<br />
«L’Honduras non ebbe più alcuna relazione con El Salvador per dieci<br />
anni. Per riprenderle fu organizzata una partita di calcio. Alla fine, era<br />
proprio nostra la colpa?».<br />
26
Pallonate contro un muro<br />
Il giorno che la Germania Est, fuori casa,<br />
ha battuto la Germania Ovest<br />
Qualcuno sperava, dalla parte orientale del Muro di Berlino, che l’estate<br />
1974 non finisse mai.<br />
Già la primavera si era annunciata con colori br<strong>il</strong>lanti, come quelli<br />
che avevano dipinto <strong>il</strong> bianco e nero delle televisioni chiudendo per<br />
sempre un’epoca. Il Magdeburgo, che adesso galleggia in 4 a Divisione<br />
in Germania, aveva sconfitto l’8 maggio – a Rotterdam – <strong>il</strong> grande M<strong>il</strong>an<br />
di Gianni Rivera.<br />
Due a zero secco, Coppa delle Coppe in bacheca. Il primo, e unico,<br />
trofeo continentale vinto da una squadra della Germania Est. Ma <strong>il</strong><br />
sogno era all’inizio, la primavera annunciava l’estate. Anche nel 1974.<br />
Nella formazione del Magdeburgo giocava Jürgen Sparwasser, una<br />
punta crudele. Di quelle che in area non lasciano scampo, se la palla<br />
è buona. La parte occidentale della Germania non si curò del trofeo<br />
vinto oltre cortina, con quella supponenza che poteva regalare la vittoria<br />
netta del Bayern Monaco in Coppa dei Campioni. Un 4-0 secco<br />
all’Atletico Madrid. I fratellastri dell’Est si godessero pure la loro coppa<br />
minore, c’era un mondiale da ospitare. I campionati del mondo del<br />
1974, infatti, li organizzava proprio la Germania Ovest. I sorteggi del<br />
girone, come se si fossero tenuti nel castello dei destini incrociati,<br />
mettono di fronte nello stesso girone (numero 1) della prima fase le<br />
due Germanie. Appuntamento fissato per <strong>il</strong> 22 giugno, Volksparkstadion<br />
di Amburgo. Primo e unico derby tedesco della storia, a livello di<br />
rappresentative nazionali.<br />
27
Storie in fuorigioco<br />
Nessuno, all’ovest, si rovina <strong>il</strong> sonno per Sparwasser. Si guarda già<br />
oltre, agli avversari di sempre: Bras<strong>il</strong>e, Italia, Argentina. La Germania<br />
Ovest assalta <strong>il</strong> girone come una divisione di panzer: C<strong>il</strong>e e Australia<br />
sono spazzate via. La Germania dell’Est, invece, si fa imporre <strong>il</strong> pari dai<br />
c<strong>il</strong>eni. Passano le prime due e, visti i risultati, le due Germanie nello<br />
scontro diretto si contendono non solo <strong>il</strong> primo posto. La Germania<br />
Est ha tre punti e <strong>il</strong> C<strong>il</strong>e uno. Se i sudamericani battono l’Australia e i<br />
tedeschi orientali perdono con quelli occidentali c’è <strong>il</strong> rischio di tornare<br />
a Berlino Est. In palio, però, non c’è solo quello. C’è aria di lezione di<br />
vita, esibizione di muscoli, superiorità da ostentare.<br />
Forse <strong>il</strong> destino era scritto nel nome di quello stadio, Parco del Popolo,<br />
che avrà strizzato un occhio ai cugini dell’Est. Forse in quel 1974<br />
doveva andare così. Resta <strong>il</strong> fatto che tutto avvenne in un attimo. Jürgen<br />
Sparwasser s’inf<strong>il</strong>ò tra <strong>il</strong> grande portiere Sepp Maier e <strong>il</strong> terzino<br />
d’acciaio Berti Vogts, lasciandoli per terra come salami, inf<strong>il</strong>zando <strong>il</strong><br />
capitalismo con un destro in diagonale.<br />
Viene immortalato nell’Olimpo del calcio, per sempre, con le braccia<br />
levate al cielo, come gli 8.500 tifosi venuti quella notte ad Amburgo<br />
dall’Est, con un visto che durava poco più di novanta minuti.<br />
Un po’ incredulo, ma felice. Alle sue spalle <strong>il</strong> kaiser Beckenbauer, offeso<br />
come Golia di fronte al più piccolo dei Davide.<br />
Finì 1-0 per la Germania Est, in casa dei fratellastri occidentali. Un<br />
trionfo che la politica a Berlino Est non avrebbe mai sognato, tanto che<br />
per anni aveva deciso di investire (con mezzi leciti e meno leciti) in<br />
altre discipline sportive. Nel calcio, a livello di immagine, la Germania<br />
Ovest era troppo forte e <strong>il</strong> pallone nella Germania orientale diventava<br />
<strong>il</strong> rifugio degli scarti degli altri sport. Quella calda sera di giugno, del<br />
1974, non andò così. Fu vana gloria, perché quel campionato del mondo<br />
lo ha vinto la Germania Ovest. Vincendo quella partita, Sparwasser<br />
e compagni finirono primi nel girone e, al secondo turno, beccarono<br />
Bras<strong>il</strong>e, Argentina e Olanda.<br />
Un massacro. La Germania Ovest, invece, andò fino in fondo e alzò<br />
la coppa al cielo. Avesse pareggiato, magari, la Germania Est poteva<br />
essere al posto dei colleghi occidentali <strong>il</strong> giorno della finale. Nessuno<br />
può dirlo, ma <strong>il</strong> 77° minuto di quella partita di Amburgo, di quel 1974,<br />
28
29<br />
Pallonate contro un muro<br />
non se lo dimenticherà nessuno lo stesso. Un s<strong>il</strong>enzio come quello dei<br />
58m<strong>il</strong>a spettatori della Germania Ovest, almeno per Sparwasser, vale<br />
una coppa del Mondo. Nel 1988, come tanti altri, Sparwasser saltò <strong>il</strong><br />
muro e passò dall’altra parte. Si dice che alla Stasi, i servizi segreti della<br />
Germania Est, <strong>il</strong> funzionario di turno avvisato del fatto abbia detto:<br />
«No, proprio Sparwasser no...». Due anni dopo, in Italia, la Germania<br />
vince la Coppa del mondo, ma questa volta con una sola squadra.
Il derby che unisce<br />
L’identità basca si nutre di simboli: la partita tra Athletic B<strong>il</strong>bao<br />
e Real Sociedad è uno di questi<br />
Il 12 dicembre 1976, su San Sebastian, splendeva un sole incerto. Come<br />
se volesse rivelarsi fino in fondo, ma soffrisse di un’improvvisa timidezza.<br />
Non bisognava, in nessun modo, far ombra all’unico astro a cui <strong>il</strong> destino<br />
aveva riservato la ribalta quel giorno: la ikurrina, la bandiera basca.<br />
Dalle segrete dello stadio Atotxa spuntano le due formazioni, disposte<br />
in linee parallelle. I colori di sempre: bianco blu per <strong>il</strong> Real, bianco<br />
rosso per l’Athletic. In testa alle due colonne i capitani: Ignacio Kortabarrìa,<br />
per la Sociedad e Josè Angel Iribar per <strong>il</strong> B<strong>il</strong>bao. Tesa, come una<br />
vela al vento, tra le loro mani la ikurrina. E’ la prima volta nella storia<br />
contemporanea della Spagna che può accadere, senza che nessuno<br />
ci rimetta <strong>il</strong> collo. Il regime fascista del generale Francisco Franco, che<br />
rovesciò <strong>il</strong> governo repubblicano durante la Guerra Civ<strong>il</strong>e spagnola,<br />
era ormai solo un incubo. Non abbastanza lontano. Solo nel 1977 <strong>il</strong><br />
governo di Madrid legalizzò la bandiera basca, ma quel 12 dicembre<br />
1976 i capitani delle due squadre simbolo delle sette province basche,<br />
a cavallo tra Francia e Spagna, poterono osare tanto. Nel 1977, dopo la<br />
“liberalizzazione”, la bandiera basca fa bella mostra di sé dappertutto,<br />
nei Paesi Baschi. Anche durante gli anni della dittatura, in realtà, la<br />
comunità si stringeva forte attorno alla sua bandiera e alla sua lingua,<br />
ma doveva farlo con attenzione. Quel giorno no, ma proprio per questo<br />
aveva un sapore particolare. Per la cronaca la partita finì 5-0 per la<br />
Real Sociedad, ma <strong>il</strong> sole incerto di quel pomeriggio a San Sebastian,<br />
potete scommetterci, <strong>il</strong>luminava solo volti sorridenti.<br />
30
31<br />
Il derby che unisce<br />
Nel mondo del calcio si è abituati a pensare ai derby come le sintesi<br />
della rivalità sportiva. In alcuni casi, in giro per <strong>il</strong> mondo, sono veri e<br />
propri simboli di odio e rancore. Nei Paesi Baschi è differente: tanti<br />
anni di repressione da parte del governo spagnolo hanno saldato <strong>il</strong> legame<br />
tra due tifoserie che sono separate nel gioco del calcio, ma che<br />
si ritrovano nei propri simboli. Al punto che, per anni, i donostiarri (cugini)<br />
prima di ogni derby organizzavano cortei congiunti per le strade<br />
della città che ospitava <strong>il</strong> match di turno. Perché qui, nei Paesi Baschi,<br />
anche <strong>il</strong> calcio è un elemento di identità. Per anni i due club più rappresentativi<br />
hanno avuto solo giocatori baschi. Oppure, tutt’al più, ragazzi<br />
cresciuti comunque nelle giovan<strong>il</strong>i delle squadre della regione. E’ <strong>il</strong><br />
caso del portiere Biurrun, bras<strong>il</strong>iano, ma trasferitosi da bambino con i<br />
genitori a B<strong>il</strong>bao. E’ stato <strong>il</strong> primo giocatore straniero a vestire la maglia<br />
dell’Athletic. La Real Sociedad, invece, a un certo punto ha deciso di<br />
venir meno alla tradizione, ingaggiando giocatori stranieri. Anche per<br />
la rivalità con <strong>il</strong> B<strong>il</strong>bao. Infatti nei Paesi Baschi è destino che <strong>il</strong> derby sia<br />
originale: tanto i tifosi, per anni, sono stati legati dall’identità schiacciata<br />
dal pugno di ferro del governo centralista di Madrid, quanto le<br />
società non si possano soffrire. Il motivo? Danno la caccia, in una regione<br />
non immensa, agli stessi ragazzi. Il punto più basso dei rapporti<br />
è stato raggiunto nel 1996, quando l’Athletic ha soffiato <strong>il</strong> promettente<br />
ragazzino Joseba Exteberria alla cantera (<strong>il</strong> vivaio in Spagna) della Real<br />
Sociedad. E’ successo un disastro, con San Sebastian inferocita.<br />
Resta la storia e, in quello, l’Athletic ha tenuto di più a coltivare <strong>il</strong> suo<br />
mito. Fondato nel 1898, è uno dei club più antichi del mondo. Il tempio<br />
di questo culto pagano è lo stadio San Mames, detto la Catedral, dove<br />
non esiste squadra che non giochi intimidita dal tifo assordante dei<br />
quarantam<strong>il</strong>a tifosi. L’arco della struttura dell’architetto Manuel Maria<br />
Smith è uno dei simboli della città. Che non ha mai, a differenza di<br />
quelli della Real Sociedad, conosciuto l’onta della retrocessione. Anzi,<br />
<strong>il</strong> B<strong>il</strong>bao (come la squadra di San Sebastian del resto), prima degli investimenti<br />
m<strong>il</strong>iardari di Barcellona e Real Madrid, ha vinto otto titoli<br />
nazionali e 23 Coppe di Spagna. Fiero della sua storia ha dovuto, per<br />
volere del dittatore Franco, piegarsi a cambiare nome e, dal 1941 al<br />
1973, ha dovuto mutare <strong>il</strong> suo nome in Atletico de B<strong>il</strong>bao, in linea con
Storie in fuorigioco<br />
la radice “castigliana” che dovevano avere tutti i nomi. Ma la notte<br />
è passata e l’Athletic ha ripreso <strong>il</strong> vecchio nome, omaggio ai maestri<br />
inglesi che diffusero <strong>il</strong> gioco del football, sbarcando nei porti della Biscaglia.<br />
Se qualcuno si chiedesse, per caso, se i tifosi dell’Athletic B<strong>il</strong>bao<br />
non siano stanchi di accontentarsi solo di giocatori locali, basti un<br />
sondaggio del 2010: <strong>il</strong> 94 percento dei tifosi ha espressamente detto<br />
di volere che le cose non cambino. In attesa dell’infornata giusta di<br />
giovani, si godono i miti del passato. Come Rafael Moreno Arazandi,<br />
in arte Pichichi. Il sopranome gli venne dato per la sua statura minuta,<br />
appena 153 centimetri. A lui, però, l’altezza non ha impedito di segnare<br />
duecento reti in 170 partite. Una media insuperab<strong>il</strong>e, che ha portato la<br />
Federazione a dedicare al bomber basco (che segnò la prima rete della<br />
storia del San Mames, <strong>il</strong> giorno della sua inaugurazione dello stadio <strong>il</strong><br />
21 agosto 1913) <strong>il</strong> titolo di miglior cannoniere del campionato spagnolo.<br />
Il Pichichi morì a soli 28 anni, per <strong>il</strong> tifo contratto mangiando cozze<br />
andate a male. Ma <strong>il</strong> mito, a B<strong>il</strong>bao, non muore mai. Di lui restano un<br />
busto all’ingresso della Catedral, dove i capitani avversari depongono<br />
un mazzo di fiori, e un ritratto: Id<strong>il</strong>lio en los campos de sport, di Aurelio<br />
Arteta. Ritrae <strong>il</strong> bomber, con <strong>il</strong> suo inseparab<strong>il</strong>e copricapo bianco,<br />
mentre amoreggia con sua moglie, Avelina Rodriguez, conosciuta allo<br />
stadio nell’intervallo di una partita.<br />
Un altro mito è <strong>il</strong> bomber Zarra, nome d’arte del centravanti Telmo<br />
Zarraonaindia, l’uomo che con i suoi 251 goal in quindici anni è <strong>il</strong><br />
miglior marcatore di sempre per los leones, come vengono chiamati i<br />
giocatori dell’Athletic in onore di San Mames, dato in pasto ai leoni<br />
che si rifiutarono di mangiarlo. Ma la storia, da queste parti, è come<br />
un cerchio. E si chiude attorno alla figura di Josè Angel Iribar. Proprio<br />
lui, <strong>il</strong> portierone dei los rojiblancos (altro soprannome della squadra,<br />
per <strong>il</strong> colore delle maglie) che quel 12 dicembre 1976 portò la bandiera<br />
basca, deponendola al centro del campo, prima del derbi vasco, come<br />
tutti chiamano la sfida tra San Sebastian e B<strong>il</strong>bao. Iribar è <strong>il</strong> giocatore<br />
che ha giocato più partite nella storia del club, difendendone la porta<br />
per diciotto stagioni. Lo chiamavano el chopo, <strong>il</strong> pioppo, per <strong>il</strong> suo fisico<br />
lungo e affusolato. La fascia di capitano al braccio, una bandiera basca,<br />
la portano tutti i capitani della squadra da allora. Si ritirò <strong>il</strong> 31 maggio<br />
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33<br />
Il derby che unisce<br />
1980, organizzando una partita di beneficenza. L’incasso? Venne devoluto<br />
alla pubblicazione del primo dizionario sportivo in lingua basca.<br />
Dopo un’infelice parentesi politica, tra le f<strong>il</strong>a di Herri Batasuna, ritenuto<br />
dai sui detrattori <strong>il</strong> braccio politico dei m<strong>il</strong>iziani dell’Eta, è divenuto<br />
<strong>il</strong> presidente onorario del club. Anche dal suo voto è passata una<br />
decisione storica, nel 2009. Quella di sporcare le maglie del club, da<br />
sempre intonse, con uno sponsor. Nel dubbio hanno scelto la Petronar.<br />
Cos’è? La prima compagnia petrolifera basca, ovviamente.
La mano di Dio<br />
Quando Maradona, a modo suo, vendicò la sconfitta argentina<br />
contro l’Ingh<strong>il</strong>terra alle Falkland/Malvinas
La mano di Dio<br />
Quando Maradona, a modo suo, vendicò la sconfitta argentina contro<br />
l’Ingh<strong>il</strong>terra alle Falkland/Malvinas<br />
Di questi tempi la storia si fa memoria per immagini. I mondiali<br />
di calcio, per esempio, non si possono raccontare senza la “mano<br />
de dios”, la rete irregolare segnata da Diego Armando Maradona nei<br />
quarti di finale dell’edizione 1986, in Messico, contro l’Ingh<strong>il</strong>terra.<br />
Per un momento, però, si può allargare l’immagine a tutto quello che<br />
c’era attorno. L’attimo diventa leggenda, ma si nutre anche di frammenti,<br />
di attori non protagonisti.<br />
Quali sono le comparse di quel 22 giugno 1986, stadio Azteca di Città<br />
del Messico? Quali i co-protagonisti che hanno contribuito a creare<br />
un momento eterno? In primo luogo gli avversari: l’Ingh<strong>il</strong>terra.<br />
Il portiere, per esempio, Peter Sh<strong>il</strong>ton. Un gent<strong>il</strong>uomo dei campi di<br />
calcio, per 125 volte a difesa della porta inglese. Al 51° del primo tempo,<br />
come un lampo, resta accecato dall’inserimento centrale di quel<br />
folletto indemoniato, un casco di riccioli e <strong>il</strong> numero dieci sulle spalle.<br />
Il più grande, ma basso. Molto basso. La palla è alta e Sh<strong>il</strong>ton, forte<br />
dei suoi 185 centimetri, esce di pugno. Non sarà un problema con uno<br />
così. Invece la palla finisce in fondo al sacco. Sh<strong>il</strong>ton ammise di non<br />
aver visto subito <strong>il</strong> tocco di mano con cui Maradona segnò, perché<br />
di fronte al lampo, si chiudono gli occhi. Passato attraverso problemi<br />
finanziari dovuti al vizio del gioco e ad affari sbagliati, oggi Sh<strong>il</strong>ton<br />
si guadagna da vivere come conferenziere, dopo essere entrato nel<br />
guinness dei primati per aver giocato più di m<strong>il</strong>le partite. Accanto a lui<br />
merita un posto Steve Hodge.<br />
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37<br />
La mano di Dio<br />
Nell’azione della “mano de dios”, Hodge si trova a marcare <strong>il</strong> grande<br />
attaccante argentino Valdano. Non <strong>il</strong> massimo per un mediano. Maradona<br />
cerca <strong>il</strong> compagno, alzando la palla che s’impenna e arriva nella<br />
zona di Hodge. Una frazione di secondo per scrivere la storia. Basta un<br />
rinvio di quelli che chiamano alla “viva <strong>il</strong> parroco”, nel senso del gioco<br />
da oratorio, con la palla cacciata via a campan<strong>il</strong>e. Hodge, invece, non<br />
azzecca <strong>il</strong> rinvio. Allunga nella direzione sbagliata, verso Maradona.<br />
Quello ha i piedi d’oro, ma stavolta usa la mano. Il buon Steve poteva<br />
cambiare <strong>il</strong> destino. Nessuno lo ricorderebbe più, <strong>il</strong> 51° minuto di quella<br />
partita. Invece è diventato storia. Forse Hodge l’ha capito subito,<br />
tanto da chiedere a Maradona di scambiare la maglia con lui a fine<br />
partita. Quella maglia riposa adesso al Museo del Calcio della cittadina<br />
britannica di Preston. Tutto si può dire degli inglesi, tranne che<br />
non apprezzino la storia del calcio, anche quando gli è avversa. Della<br />
maglia di Hodge, invece, non si è saputo più nulla. Il vecchio mediano<br />
inglese, oggi, si diverte ad allenare i ragazzini, magari cominciando dai<br />
fondamentali. Il rinvio, per esempio.<br />
In questa storia ci sono altri attori non protagonisti. L’arbitro tunisino<br />
Ali Bin Nasser, che fu l’unico a non rendersi conto di quello che <strong>il</strong> mondo<br />
aveva visto in tempo reale. Assediato dai giocatori inglesi inferociti,<br />
indietreggiava insicuro, cercando con gli occhi un altro attore non protagonista<br />
di questa storia, <strong>il</strong> guardalinee bulgaro Bogdan Dotchev. Di<br />
Bin Nasser si sono perse le tracce, mentre <strong>il</strong> povero Bogdan, linciato da<br />
m<strong>il</strong>ioni di occhi in tutto <strong>il</strong> mondo, adesso si gode la pensione, dopo una<br />
seconda vita da ispettore in una compagnia di assicurazioni. Nel 2007,<br />
in un’intervista, ammise di aver visto che Maradona aveva segnato<br />
con la mano, ma di essere stato zittito dall’arbitro tunisino, a suo dire<br />
incapace di reggere la tensione di una partita così importante.<br />
L’ultimo attore, anzi attrice, non protagonista, è <strong>il</strong> più importante:<br />
la guerra delle Falkland/Malvinas, uno sparuto spruzzo di isole al largo<br />
delle coste argentine. Retaggio coloniale britannico, diventano <strong>il</strong><br />
simbolo del revanscismo della dittatura dei generali di Buenos Aires.<br />
Meglio parlare delle isole rubate dalla perfida Albione, che delle migliaia<br />
di inermi cittadini finiti desaparecidos nelle tenaglie dei torturatori<br />
di regime. Il generale Galdieri ordina, tra marzo e apr<strong>il</strong>e 1982,
Storie in fuorigioco<br />
l’invasione delle isole e impone la bandiera argentina. Sua Maestà<br />
britannica e la Lady di Ferro Thatcher mandano le navi da guerra e<br />
a metà giugno riconquistano le isole, perdendo più di 250 uomini<br />
e uccidendo quasi 650 argentini. Maradona, tra i suoi m<strong>il</strong>le talenti,<br />
aveva quello di sapere sempre cosa dire, anche quando la realtà non<br />
era una partita di calcio. Lo fece anche quella volta, prima caricando<br />
i compagni nello spogliatoio quel 22 giugno 1986, inneggiando<br />
alle Malvinas, come gli argentini chiamano l’arcipelago che per gli<br />
inglesi è quello delle Falkland. Poi, a fine partita, di fronte alle accuse<br />
di tutto <strong>il</strong> mondo, se la cava così: «Come ho segnato? Un po’ con la<br />
testa di Maradona e un po’ con la mano di Dio». A Londra e a Buenos<br />
Aires, evidentemente, non chiamano le cose allo stesso modo. Per<br />
gli inglesi è rimasta la “mano del Diavolo”. Diego cavalcò <strong>il</strong> sentimento<br />
nazionale argentino, riuscendo a strappare un sorriso anche<br />
a coloro che lo avevano condannato per la sua scarsa lealtà sportiva.<br />
Davide che sconfigge Golia, la “mano de dios” che colpisce l’arroganza<br />
britannica, anche se dall’altra parte c’era la follia della dittatura<br />
dei m<strong>il</strong>itari in Argentina. Quando <strong>il</strong> calcio diventa metalinguaggio.<br />
Maradona, si sa, dell’autolesionismo ha fatto una costante. Al punto<br />
che, senza volerlo, la rete di mano ha finito per far rifulgere meno <strong>il</strong><br />
secondo goal, che segnò al 55°, saltando come bir<strong>il</strong>li mezza squadra<br />
inglese. Lo hanno votato “<strong>il</strong> goal del secolo”, ma queste sono valutazioni<br />
che restano nelle mani di Dio. Quello del calcio, s’intende.<br />
38
La bandiera strappata<br />
Gli incidenti tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa<br />
Belgrado nel 1990 sono diventati <strong>il</strong> simbolo dell’imminente catastrofe<br />
in Jugoslavia<br />
Faceva un gran caldo a Zagabria quel 13 maggio 1990. Non per le<br />
condizioni climatiche, ma per la tensione elettrica che attraversava<br />
la città. Nel primo pomeriggio era in programma la “grande classica”<br />
del campionato jugoslavo: Dinamo Zagabria – Stella Rossa Belgrado.<br />
I tifosi si dirigono verso lo stadio, facce tese, tra uno spiegamento di<br />
poliziotti impressionante.<br />
Il 13 maggio 1990 è uno di quei giorni obliqui, dove i contorni si sfumano,<br />
e una partita di calcio smette di essere importante solo per la<br />
classifica. Il maresciallo Tito, che con le buone o con le cattive aveva<br />
costruito la Federazione jugoslava dopo la Seconda Guerra mondiale,<br />
era morto da dieci anni esatti. Le repubbliche federate erano scosse<br />
da fermenti nazionalisti e le squadre simbolo delle capitali di Croazia<br />
e Serbia, quel giorno, rappresentavano molto di più della rivalità<br />
calcistica per i tifosi sugli spalti dello stadio Maksimir. Certo tra i Bad<br />
Blue Boys (nome ispirato a un f<strong>il</strong>m del 1983 con Sean Penn), gli ultras<br />
della Dinamo, e i Delijie (eroi), quelli della Stella Rossa, non correva<br />
buon sangue. Solo che tutto, in quel periodo, prendeva un sapore differente,<br />
come aveva dimostrato la partita Partizan Belgrado – Dinamo<br />
Zagabria del 19 marzo 1989. La Dinamo vinse a Belgrado e, prima allo<br />
stadio, poi lungo le strade che riportavano i tifosi alla stazione, erano<br />
volate parole grosse. Parole intrise di odio e nazionalismo. In Croazia, <strong>il</strong><br />
7 maggio 1990, si erano tenute le prime elezioni libere del dopoguerra<br />
39
Storie in fuorigioco<br />
e la vittoria era andata ai nazionalisti guidati da Tudjman. Il calcio è<br />
uno specchio della società e la partita, pochi giorni dopo <strong>il</strong> voto, diventa<br />
un’occasione per i tifosi croati di dare sfogo alle loro ambizioni<br />
indipendentiste contro <strong>il</strong> simbolo calcistico di Belgrado: la Stella Rossa.<br />
Il capo degli ultras belgradesi è un certo Zeljko Raznatovic. Un poco di<br />
buono che alla testa dei suoi fedelissimi, che ama chiamare Tigri, parte<br />
alla volta di Zagabria. Solo dopo diventerà noto in tutto <strong>il</strong> mondo con <strong>il</strong><br />
suo nome di battaglia: <strong>il</strong> comandante Arkan.<br />
Arkan, finito assassinato a Belgrado nel 2000, in un’intervista r<strong>il</strong>asciata<br />
nel 1994 ricorda così quel giorno: «Avevo previsto la guerra<br />
proprio dopo quella partita a Zagabria». Forse perché era lui stesso<br />
parte del meccanismo micidiale, nutrito di falsi sentimenti patriottici<br />
e di interessi <strong>il</strong>legali, che si scatenò nella ex Jugoslavia all’inizio degli<br />
anni Novanta. Fatto sta che Arkan e i suoi prima devastarono <strong>il</strong> treno<br />
per Zagabria, poi fecero a pezzi tutto quello che trovarono sulla strada<br />
per lo stadio. Nell’impianto i tifosi della Dinamo li attendono con cori<br />
violenti e offese anti serbe.<br />
E’ incredib<strong>il</strong>e pensare che solo dieci anni prima, <strong>il</strong> 4 maggio 1980,<br />
le stesse due squadre, in lacrime, sospesero la partita alla notizia<br />
della morte del maresciallo Tito. Si piangeva sugli spalti e sul terreno<br />
di gioco, cantando Druze Tito mi ti se kumeno, promessa eterna di<br />
fratellanza e unità.<br />
Quel giorno, a Zagabria, però, i sentimenti in campo erano fac<strong>il</strong>i da<br />
strumentalizzare. Lo speaker non ha ancora finito di leggere le formazioni<br />
che i tifosi serbi, al comando del loro “eroe”, sfondano le recinzioni<br />
e si avventano su tutto quello che riescono a distruggere nello<br />
stadio. I Bad Boys non si fanno pregare e attaccano. La polizia non sa<br />
che pesci pigliare. Cominciano i corpo a corpo in mezzo al campo, tra<br />
i tifosi compaiono anche alcuni giocatori. Uno di loro è Zvonimir Boban.<br />
Anche se ha solo 21 anni è <strong>il</strong> capitano della Dinamo, la stella della<br />
squadra, che davanti a sé ha una br<strong>il</strong>lante carriera in Italia. Prima, però,<br />
si butta nella mischia. I tifosi della Dinamo sfondano le recinzioni e si<br />
lanciano verso la curva opposta, i poliziotti tentano di evitare un massacro<br />
manganellando tutto quello che passa loro davanti.<br />
Compreso Boban. «Non ci vidi più. Mi avventai su un poliziotto e gli<br />
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41<br />
La bandiera strappata<br />
gridai: ‘Vergognatevi. State massacrando i bambini.’ - raccontò <strong>il</strong> giocatore,<br />
chiamato Zorro dai suoi fans - Lui mi colpì due volte urlando:<br />
‘Brutto figlio di puttana. Sei come tutti gli altri!’ A quel punto ebbi una<br />
reazione d’istinto. Gli fratturai la mascella con una ginocchiata». Alla<br />
fine la calma tornò allo stadio, con un b<strong>il</strong>ancio di più di cento feriti. Che<br />
le cose fossero oblique, quel 13 maggio 1990, se ne resero conto tutti <strong>il</strong><br />
giorno dopo, leggendo la stampa croata e serba. Tutti i media parlarono<br />
solo di teppisti allo stadio, ma era evidente la strumentalizzazione<br />
che avveniva ormai in tutta la Jugoslavia da parte dei circoli nazionalisti.<br />
Non a caso all’inizio del campionato successivo, <strong>il</strong> 26 settembre<br />
1990, prima giornata dell’ultimo torneo della Jugoslavia unita, la partita<br />
Partizan Belgrado – Dinamo Zagabria degenerò. Il Partizan andò in<br />
vantaggio per due reti a zero, i tifosi della Dinamo irruppero in campo<br />
e inscenarono una manifestazione per chiedere la nascita della Federazione<br />
croata di calcio. Armati di spranghe, riuscirono ad ammainare<br />
la bandiera jugoslava allo stadio, sostituendola con quella croata. Il<br />
25 giugno 1991 Slovenia e Croazia dichiararono la loro indipendenza;<br />
seguì un conflitto sanguinoso che portò alla scomparsa della ex-Jugoslavia.<br />
Gli incidenti del 13 maggio 1990 divennero un simbolo, tanto<br />
che alcuni ritennero di buon gusto erigere un monumento di fronte<br />
allo stadio di Zagabria con una targa che recitava: «Ai sostenitori della<br />
squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia <strong>il</strong><br />
13 maggio 1990». Gli stessi che presero la foto di Boban che sfascia<br />
la mascella al poliziotto come <strong>il</strong> simbolo della rivolta croata. Nessuno<br />
di loro si è mai premurato di sapere chi fosse quel poliziotto. Avrebbe<br />
scoperto che era un ragazzo bosniaco e musulmano. Intervistato anni<br />
dopo, ha dichiarato di perdonare Boban per <strong>il</strong> suo gesto, perché quelli<br />
erano giorni dove le persone parevano cieche.
Il braccialetto verde<br />
Il calcio e l’Iran: dalla vittoria sugli Usa alla contestazione<br />
ad Ahmadinejad
Il braccialetto verde<br />
Il calcio e l’Iran: dalla vittoria sugli Usa alla contestazione<br />
ad Ahmadinejad<br />
I campionati mondiali di calcio del 1998 sono, per tanti amanti del<br />
pallone, legati per sempre all’immagine triste del bomber bras<strong>il</strong>iano<br />
Ronaldo che, sconfitto in finale dai francesi, scende le scalette dell’aereo<br />
che lo riportava in Bras<strong>il</strong>e tremante come un bimbo malato.<br />
Non sono in tanti, invece, a ricordare un’anonima partita del girone F<br />
di qualificazione. Si gioca a Lione, stadio Gerlan, davanti a soli 39m<strong>il</strong>a<br />
spettatori, che per un mondiale sono quasi niente. D’altronde <strong>il</strong> girone<br />
ha già emesso i suoi verdetti, qualificando al turno successivo (come<br />
da pronostico) Germania e Serbia-Montenegro. Quella, però, non era<br />
una partita come le altre.<br />
Per la prima volta nella fase finale di un mondiale di calcio si incontrano<br />
l’Iran e gli Stati Uniti. I due Paesi, dopo la rivoluzione guidata<br />
dall’ayatollah Khomeini nel 1979, non hanno rapporti diplomatici. Anche<br />
perché quell’anno alcuni m<strong>il</strong>iziani sciiti assaltarono l’ambasciata<br />
Usa a Teheran, sequestrando 52 persone per 444 giorni. I rapporti tra<br />
Iran e Usa non sono mai cambiati da allora, ma quel giorno tutti guardavano<br />
con <strong>il</strong> fiato sospeso alla partita e a quello che poteva accadere.<br />
Il clima che aleggiava sullo stadio Gerlan di Lione, in Francia, <strong>il</strong> 21<br />
giugno 1998, lo racconta Urs Maier. L’arbitro svizzero, dopo <strong>il</strong> ritiro,<br />
ricorda così in un’intervista quella partita: «E’ stato <strong>il</strong> momento più intenso<br />
della mia carriera. Prima del fischio d’avvio la tensione era insopportab<strong>il</strong>e.<br />
Come reagiranno le due squadre? Cosa accadrà allo stadio?<br />
Mi troverò nella condizione di sospendere <strong>il</strong> match?».<br />
44
45<br />
Il braccialetto verde<br />
Il povero Meier non sapeva cosa aspettarsi, magari avrà anche maledetto<br />
l’urna che gli ha affibbiato questa patata bollente che di calcistico<br />
aveva poco, ma di politico fin troppo. D’altronde <strong>il</strong> povero Meier<br />
è svizzero e a qualche dirigente della Fifa sarà sembrato l’uomo ideale.<br />
La serata aveva, in effetti, in serbo un colpo di scena per l’arbitro,<br />
per la Fifa, per i tifosi allo stadio e a casa. Le formazioni dell’Iran e degli<br />
Usa, dopo essere entrate in campo, contravvenendo al protocollo<br />
delle manifestazioni ufficiali, non si dividono per le foto di rito, ma si<br />
uniscono a centrocampo (tirando per la manica anche l’arbitro Meier)<br />
per una foto ricordo storica. Tutti assieme. «Di grandi emozioni ne ho<br />
vissute tante nei campi di tutto <strong>il</strong> mondo», spiegò Meier. «Quell’abbraccio<br />
spontaneo, però, me lo ricorderò per sempre». Le delegazioni<br />
ufficiali, infatti, non hanno mai commentato, confermando le indiscrezioni<br />
secondo cui <strong>il</strong> gesto fu improvvisato dai giocatori senza che nessuno<br />
ne fosse a conoscenza. Restava da giocare una partita e la vinse<br />
l’Iran. A livello tecnico non è che la contesa sia finita nei manuali del<br />
calcio, ma per l’Iran è stato un trionfo sportivo enorme. Battere gli Usa,<br />
abbraccio o no, era una gran bella soddisfazione, anche se nello sport<br />
meno popolare negli Stati Uniti. I marcatori di quel match, vinto 2-1,<br />
divennero eroi nazionali.<br />
Hamid Est<strong>il</strong>i e Mehdi Mahdavikia scolpirono <strong>il</strong> loro nome nell’albo<br />
d’oro della storia dello sport iraniano, mentre <strong>il</strong> povero McBride che<br />
accorciò le distanze alla fine non se lo ricorda nessuno.<br />
I simboli, però, a volte sfuggono di mano. Il giugno 2009 non è<br />
voluto essere da meno di quello del 1998 e la storia è tornata a divertirsi<br />
con <strong>il</strong> calcio per lasciare <strong>il</strong> segno nei cuori e negli occhi della<br />
gente. Il 25 giugno 2009 è in programma a Seul la partita Corea del<br />
Sud – Iran, valevole per le qualificazioni ai mondiali in Sudafrica del<br />
2010. Sono giorni di fuoco in Iran: all’inizio del mese si sono tenute<br />
le elezioni presidenziali e ha vinto <strong>il</strong> presidente in carica Mahmoud<br />
Ahmadinejad. Tanta gente, però, è convinta che le elezioni siano state<br />
oggetto di pesanti brogli. L’opposizione va in piazza, <strong>il</strong> regime usa <strong>il</strong><br />
pugno di ferro, macchiando di sangue le strade di Teheran. Il simbolo<br />
dei rivoltosi è <strong>il</strong> colore verde, indossato in qualsiasi modo. Mentre le<br />
formazioni di Iran e Corea del Sud si dispongono per la foto ufficiale,
Storie in fuorigioco<br />
alcuni fotografi notano e riprendono i giocatori che indossano una fascetta<br />
verde al polso. Non è un caso. In Iran accade un putiferio, con<br />
gli oppositori che salutano i calciatori come eroi e <strong>il</strong> governo che ne<br />
sospende quattro da tutte le manifestazioni sportive, intimando loro<br />
di non r<strong>il</strong>asciare dichiarazioni e di rimuovere la fascia nell’intervallo<br />
della partita. Sei su undici non si piegano. Quattro la pagheranno<br />
cara: Alì Karimi, Hosein Ka’abi e Vahid Hashemian. Ne manca uno,<br />
forse quello che più di tutti ha fatto irritare <strong>il</strong> governo di Teheran. E’<br />
proprio Mehdi Mahdavikia, autore dello storico gol contro gli Stati<br />
Uniti nel Mondiale del 1998. Alla fine è stato perdonato e oggi<br />
Mahdavikia, dopo anni in Germania, è tornato a vivere e giocare nel<br />
suo Paese. Il merito di quella rete agli Usa gli è valso un perdono del<br />
governo. D’altronde la leggenda narra che lo stesso Khomeini, preso<br />
<strong>il</strong> potere, avesse voluto bandire <strong>il</strong> gioco del calcio. La fatwa non venne<br />
mai applicata del tutto e lo stesso ayatollah, da ragazzo, pare fosse<br />
un ottimo terzino.<br />
46
La magia del calcio<br />
Nel 2002 l’ex portiere del Camerun N’Kono arrestato in campo<br />
per un rito pagano<br />
Chissà cosa sarà passato per la mente all’allenatore star, pagato<br />
come un attore di Hollywood, José Mourinho, quando ha fatto - a favore<br />
di telecamera - <strong>il</strong> gesto delle manette. Allusioni, ammiccamenti<br />
o qualsiasi altra cosa fosse, è diffic<strong>il</strong>e che a Mourinho sia venuto in<br />
mente Thomas N’Kono.<br />
Un’immagine a suo modo storica, quella di N’Kono trascinato fuori<br />
da un campo di gioco, circondato da poliziotti, mentre mostra le<br />
mani ammanettate (per davvero) al pubblico e alle televisioni. Correva<br />
l’anno 2002. Nello stadio di Bamako, capitale del Mali, sta per<br />
iniziare la semifinale della Coppa d’Africa. Si sfideranno i padroni di<br />
casa del Mali e <strong>il</strong> Camerun. N’Kono è <strong>il</strong> vice allenatore dei “leoni indomab<strong>il</strong>i”,<br />
come vengono chiamati i giocatori camerunensi. Nel suo<br />
Paese N’Kono è un’icona. Ha difeso per 112 volte la porta della nazionale,<br />
ha vinto due Coppe d’Africa, ha fatto bene nel campionato spagnolo,<br />
ha giocato tre mondiali, tra cui quello in Italia nel 1990. Un’epopea<br />
mitica per i “leoni indomab<strong>il</strong>i”, che arrivarono fino ai quarti<br />
di finale. Gigi Buffon, dai più ritenuto <strong>il</strong> miglior portiere del mondo,<br />
ha chiamato suo figlio Thomas, proprio in onore di N’Kono. L’Italia<br />
tutta, poi, lo ricorda bene. Ai mondiali del 1982, in Spagna, vinti dagli<br />
azzurri, N’Kono inchiodò l’Italia sull’1-1 nel girone eliminatorio. Fin<br />
qui la carriera da calciatore, finita dopo i mondiali del 1994 e un’esperienza<br />
nel campionato boliviano, A quel punto inizia la carriera di<br />
tecnico della nazionale, prima come allenatore dei portieri, poi come<br />
47
Storie in fuorigioco<br />
vice allenatore. E mago. Almeno questa è stata l’interpretazione della<br />
polizia maliana.<br />
Le squadre stanno per fare <strong>il</strong> loro ingresso sul terreno di gioco, migliaia<br />
di persone affollano da ore le tribune dello stadio di Bamako <strong>il</strong><br />
5 febbraio 2002. Il Mali, nei quarti di finale, ha eliminato a sorpresa<br />
<strong>il</strong> Sudafrica. I bafana bafana, come vengono soprannominati i nipotini<br />
di Mandela, denunciano di essere stati avvelenati prima della<br />
partita con <strong>il</strong> Mali. L’idea sarebbe quella che gli organizzatori del<br />
torneo, per darsi una spintarella verso <strong>il</strong> turno successivo, abbiano<br />
avvelenato <strong>il</strong> cibo degli avversari. Nessun riscontro, ma torna alla<br />
ribalta un vecchio giocatore del calcio africano: la magia. Il 2002,<br />
infatti, è la prima edizione nella quale vengono espressamente vietati<br />
(per direttiva della federazione calcio africana) tutti i riti e i<br />
sort<strong>il</strong>egi prima, durante e dopo le partite. Si, avete letto bene. Tutti<br />
sono in grado di fare gli <strong>il</strong>luministi, ma in Africa l’arrivo dell’Islam<br />
e del Cristianesimo ha incontrato <strong>il</strong> padrone di casa ancestrale, un<br />
culto animista che si è sincretizzato con le religioni del Libro. Ecco<br />
che accanto ai crocefissi e ai minareti spuntano zampe di gallina e<br />
altri oggetti simbolici.<br />
La storia del calcio africano è fatta di grandi giocatori, tecnici europei<br />
a volte impresentab<strong>il</strong>i e tanti riti magici. Per anni, accanto al preparatore<br />
atletico, era indispensab<strong>il</strong>e un buon stregone. Capace di aiutare la<br />
squadra, magari con qualche oggetto fortunato.<br />
Alcuni li chiamano gris-gris, amuleti contro <strong>il</strong> malocchio. Uno di<br />
questi è nella mano di N’Kono che, da buon ex portiere, prima della<br />
partita si aggira attorno ai legni che difenderà <strong>il</strong> suo erede pochi<br />
minuti dopo.<br />
La legge, però, è legge. Anche quando è dura. Almeno dieci poliziotti<br />
sono addosso al malcapitato N’Kono in pochi secondi. Il tecnico<br />
camerunense tenta di difendersi, viene strattonato senza premure<br />
e, alla fine, ammanettato e trascinato verso gli spogliatoi. Attraversando<br />
la pista d’atletica, N’Kono è furioso e passando sotto la tribuna<br />
stampa gremita di corrispondenti di tutto <strong>il</strong> mondo alza al cielo le sue<br />
mani, proprio quelle, simbolo di m<strong>il</strong>le battaglie. Chiuse nei ceppi. Il<br />
Camerun vince 3-0 e si aggiudica <strong>il</strong> diritto di giocare la finalissima.<br />
48
49<br />
La magia del calcio<br />
Alla fine i “leoni indomab<strong>il</strong>i” vinceranno <strong>il</strong> torneo. Il povero N’Kono,<br />
nonostante le scuse personali del presidente della Repubblica del<br />
Mali, si becca un anno di squalifica. L’Accusa? Rito magico vietato.<br />
Alla fine, però, <strong>il</strong> Camerun ha vinto. Il vecchio N’Kono, in qualche<br />
modo, si è reso ancora una volta decisivo per la sua nazionale.
La magia del calcio<br />
Nel 2002 l’ex portiere del Camerun N’Kono<br />
arrestato in campo per un rito pagano
Insieme, per una volta<br />
La storia del Bnei Sakhnin, squadra di calcio arabo-israeliana,<br />
che ha scritto una pagina di storia<br />
Ci sono luoghi dove ammalarsi di retorica è fac<strong>il</strong>e. La Terra Santa è<br />
uno di questi, da troppo tempo una terra stretta per arabi e israeliani.<br />
Storie di convivenza pacifica, di multiculturalismo, di rispetto dell’alterità<br />
diventano extraordinarie a causa di un conflitto che non conosce<br />
soste dal 1948. In alcuni casi, però, la convivenza di facciata si trasforma<br />
in un comune vissuto, con un sapore autentico.<br />
Questa è la storia di una piccola squadra di calcio, <strong>il</strong> Bnei Sakhnin. Un<br />
nome che agli appassionati non dice molto, visto anche l’anonimo settimo<br />
posto di questa stagione nel campionato Ligat ha’Al, la serie A in Israele.<br />
Nel 2004, però, <strong>il</strong> Bnei ha scritto una pagina storica per tutti gli arabi<br />
israeliani che vivono nel Paese, vincendo la Coppa di Stato. Sono coloro<br />
che dal 1948, anno della nascita dello Stato d’Israele e del primo conflitto<br />
arabo-israeliano, sono rimasti a vivere dove erano nati, al contrario di<br />
quasi ottocentom<strong>il</strong>a profughi (divenuti ormai m<strong>il</strong>ioni) che abbandonarono<br />
la Palestina, per scelta o perché scacciati. Una minoranza nello Stato<br />
ebraico, che spesso si sente discriminata. Il Bnei, per loro, è diventato un<br />
simbolo. Prima raggiungendo la massima divisione, poi vincendo la coppa<br />
e arrivando a giocare una coppa europea, nell’élite del calcio.<br />
A un passo dal sogno di vincere lo scudetto. Un sogno infranto dal<br />
dischetto. Ma questa è la fine di una storia che inizia nel 1992, quando<br />
bruciavano ancora i fuochi della Prima Intifada.<br />
La cittadina di Sakhnin, 23m<strong>il</strong>a abitanti in Cisgiordania, è zona occupata<br />
da Israele nel 1967. Chi è rimasto ha passaporto israeliano e<br />
51
Storie in fuorigioco<br />
molti sono venuti qui inseguendo la Gal<strong>il</strong>ea biblica. Tra loro c’è Mazen<br />
Ghanayem, giovane imprenditore ed<strong>il</strong>e con la passione del calcio.<br />
In città c’erano due squadre insignificanti, Mazen con i suoi soldi ha<br />
supportato la fusione, diventando <strong>il</strong> presidente del Ittihad Bnei Sakhnin,<br />
in arabo. Ihud Bnei Sakhnin, in ebraico. Ma è <strong>il</strong> significato quello<br />
che conta: Figli di Sakhnin Uniti. La squadra è un meltin pot: ebreo<br />
l’allenatore, arabo <strong>il</strong> presidente. In squadra giocatori di tutte le confessioni<br />
religiose, compresi i cristiani. In un decennio, dalla quarta serie,<br />
la squadra vola fino alle soglie della prima divisione, conquistata nel<br />
2002–2003, battendo l’Hapoel Jerusalem all’ultimo minuto dell’ultima<br />
giornata. Sugli spalti, come indemoniati, i tifosi arabi israeliani, che<br />
nella squadra cominciano a vedere un simbolo di emancipazione sociale.<br />
L’aspetto curioso, però, è che simbolo o non simbolo ci giocano<br />
pure gli ebrei, ed ecco allora sulle tribune bandiere con la Stella di David<br />
accanto a bandiere palestinesi. In una cittadina dove, <strong>il</strong> 30 marzo<br />
1976 (da allora ricordato come <strong>il</strong> Giorno della Terra), sei arabi israeliani<br />
vennero uccisi dall’esercito durante una manifestazione contro la confisca<br />
di alcune terre e, nel 2000, tredici persone vennero uccise per gli<br />
incidenti scoppiati con la Seconda Intifada.<br />
Tutto questo, però, allo stadio pare non entrare. La squadra vola e, nel<br />
2003-2004, si lancia in una cavalcata trionfale che (da neopromossa)<br />
la porta a vincere la Coppa di Stato. Finale, nel grande stadio nazionale<br />
di Ramat Gan, <strong>il</strong> 18 maggio 2004, contro l’Hapoel Haifa, dopo aver<br />
fatto fuori in semifinale la corazzata Maccabi Tel Aviv (18 scudetti in<br />
bacheca). I biancorossi di Sakhnin vincono 4-1. E’ la prima squadra<br />
arabo-israeliana a riuscirci. Le strade di Sakhnin si trasformano in Rio<br />
de Janeiro. La rosa della squadra è un caleidoscopio (la chiamano “arcobaleno”):<br />
sette ebrei, dodici arabi, quattro africani, un bras<strong>il</strong>iano e<br />
un ungherese. Il capitano è Abbas Sowan, <strong>il</strong> primo arabo israeliano a<br />
finire sulle pagine di Sport Illustrated, per <strong>il</strong> pareggio all’ultimo minuto<br />
segnato in nazionale contro l’Irlanda, che per un pelo non manda la<br />
squadra ai Mondiali del 2006. «Sono contento che a batterci sia stata<br />
una squadra araba», dichiara a fine partita l’allenatore degli sconfitti,<br />
Uri Hoenig. «Sono convinto che questa sconfitta possa contribuire a<br />
migliorare la società israeliana, rendendola più giusta nei confronti di<br />
52
53<br />
Insieme, per una volta<br />
tutti i suoi cittadini». L’anno dopo, la squadra gioca i preliminari per la<br />
Coppa Uefa. Elimina <strong>il</strong> Partizan Tirana e se la gioca con <strong>il</strong> Newcastle<br />
United. Perde ed esce, ma la soddisfazione di giocare nell’università<br />
del calcio resta per sempre.<br />
La squadra cresce in popolarità, anche fuori dai confini. L’emiro del<br />
Qatar regala un nuovo stadio, chiamato appunto Doha, e un m<strong>il</strong>iardario<br />
israeliano aiuta <strong>il</strong> presidente palestinese a rendere più forte la squadra,<br />
simbolo di convivenza. Il paradiso si sfiora nella stagione 2007-<br />
2008. Il Bnei Sakhnin vola: dall’inizio è un testa a testa con <strong>il</strong> Beitar<br />
Jerusalem. Mica una squadra come tutte le altre. E’ quella dell’ultradestra<br />
israeliana, i cui tifosi sono noti per le posizioni estremistiche<br />
e islamofobe. I capi ultras presentano la partita decisiva per <strong>il</strong> titolo<br />
come ‘’una lotta tra <strong>il</strong> nostro Dio e <strong>il</strong> loro’’ e ‘’una guerra santa contro<br />
i terroristi’’. Il lieto fine, si sa, non è di questo mondo. Il Bnei Sakhnin<br />
dà tutto e tiene <strong>il</strong> pareggio, pur contro una squadra che ha un budget<br />
enorme. I supplementari sono un supplizio, si va ai rigori. Finisce dal<br />
dischetto <strong>il</strong> sogno della cittadina di Sakhnin, battuta 3-1 dal Beitar. Ma<br />
in fondo è solo uno scudetto. Il Bnei Sakhnin ha fatto parlare in tutto <strong>il</strong><br />
mondo degli arabi israeliani, ha fatto esultare israeliani e arabi assieme,<br />
con gli stessi colori, non per un qualche progetto della comunità<br />
internazionale senz’anima. Erano proprio contenti di essere assieme.<br />
Tutto questo non verrà cancellato da un calcio di rigore, perché non è<br />
mica da questi particolari che si giudica un sogno.
La guerra non ucciderà mai <strong>il</strong> calcio<br />
La vittoria in Coppa d’Asia dell’Iraq nel 2007 è solo un episodio<br />
della lunga storia del pallone in Mesopotamia
La guerra non ucciderà mai <strong>il</strong> calcio<br />
La vittoria in Coppa d’Asia dell’Iraq nel 2007 è solo un episodio<br />
della lunga storia del pallone in Mesopotamia<br />
Il 14 maggio 2010 a Tal Afar, poco prima del confine con la Siria,<br />
si giocava una partita di calcio. Una grande passione, per gli iracheni<br />
come per tanti altri. Almeno duecento persone si accalcano all’ingresso<br />
del campetto alla periferia della cittadina a maggioranza sciita, un<br />
dettaglio che nell’Iraq della guerra infinita è diventato molto importante.<br />
Sembra proprio quest’ultimo, infatti, <strong>il</strong> movente del duplice attacco<br />
suicida che ha ucciso 25 persone.<br />
Prima un’auto carica di tritolo lanciata sulla folla, poi un uomo in<br />
coda come fosse uno spettatore ha azionato la cintura esplosiva che<br />
nascondeva sotto la tunica bianca. La rivendicazione di un gruppo<br />
sunnita delirava di ‘’punizione per gli infedeli’’, gli sciiti appunto. Una<br />
giornata di ordinario terrore, ma colpire <strong>il</strong> calcio, in Iraq, è simbolico. Il<br />
rapporto tra lo sport più amato del mondo e la storia del Paese è molto<br />
antico e profondo. Un legame che Baghdad Football Club, bel libro del<br />
giornalista inglese Simon Freeman, racconta molto bene. Dai tempi<br />
della colonizzazione inglese, fino all’invasione della coalizione internazionale<br />
nel 2003, passando per la follia di Uday, <strong>il</strong> figlio di Saddam<br />
Hussein, capo del Comitato olimpico iracheno. Storie, politica e guerre.<br />
Sempre con <strong>il</strong> pallone in mezzo ai piedi. Ma tutto, <strong>il</strong> prima e <strong>il</strong> dopo,<br />
ha <strong>il</strong> suo apice nella notte del 29 luglio 2007.<br />
A Giakarta, in Indonesia, si gioca la finale di Coppa d’Asia. Si sfidano<br />
l’Arabia Saudita e l’Iraq. I “leoni di Bab<strong>il</strong>onia”, come vengono chiamati<br />
i giocatori della nazionale irachena, partono nettamente sfavoriti.<br />
56
57<br />
La guerra non ucciderà mai <strong>il</strong> calcio<br />
Secondo gli osservatori hanno già compiuto un miracolo arrivando in<br />
finale, dopo la lotteria dei rigori contro la Corea del Sud. Noor Sidri, <strong>il</strong><br />
portiere iracheno, ne prende due e i suoi compagni non sbagliano mai.<br />
Si va in finale, ma i giocatori dell’Iraq, però, non sorridono mentre<br />
entrano in campo per giocarsi un trofeo mai vinto prima. Con <strong>il</strong> lutto<br />
al braccio. La notte della semifinale, <strong>il</strong> 25 luglio 2007, due auto bomba<br />
sono state fatte esplodere tra la gente che festeggiava per le strade<br />
di Baghdad. Il b<strong>il</strong>ancio è di cinquanta morti. Molte donne e bambini. I<br />
giocatori, in albergo, dopo la festa, guardano <strong>il</strong> servizio in televisione.<br />
«La molla decisiva ci è scattata dentro quando abbiamo guardato<br />
un servizio sulla madre di un bimbo di dodici anni. Era disperata: suo<br />
figlio è morto per festeggiare noi dopo la semifinale. Quella donna ci<br />
ha chiesto di vincere la coppa per suo figlio. Ci siamo guardati e sapevamo<br />
quello che dovevamo fare, per lei e per tutto l’Iraq», racconta <strong>il</strong><br />
capitano della squadra Younis Mahmoud. Il momento giusto è <strong>il</strong> 71°.<br />
Il mister bras<strong>il</strong>iano Jordan Viera è stato chiaro: sono più forti di noi,<br />
puntiamo sui calci piazzati. Un calcio d’angolo, dalla destra del portiere.<br />
Younis sembra avere le ali, salta più alto di tutti e la mette dentro.<br />
I “leoni” difendono l’1-0 fino alla fine. Vincono, dedicando <strong>il</strong> trofeo (<strong>il</strong><br />
primo nella storia dell’Iraq) al loro massaggiatore, padre di quattro figli,<br />
ucciso da una bomba a Baghdad <strong>il</strong> mese prima. La coppa, invece,<br />
Younis e compagni la portano alla madre del piccolo. Le promesse si<br />
mantengono.<br />
Prima di quella notte la Storia era stata vicina nel 2004, alle Olimpiadi<br />
di Atene. La rappresentativa irachena è riuscita ad arrivare alle<br />
semifinali, sconfitta ma con l’occasione di giocarsi la medaglia di bronzo<br />
con l’Italia.<br />
Sono gli azzurri a portare <strong>il</strong> lutto al braccio: poco prima, in Iraq, è<br />
stato assassinato <strong>il</strong> giornalista Enzo Baldoni. Segna <strong>il</strong> bomber G<strong>il</strong>ardino,<br />
gli occhi al cielo, per una dedica. Ancora l’Iraq, ancora la guerra,<br />
ancora la morte. Come nel 1986, quando la prima (e unica) storica<br />
qualificazione alla fase finale della Coppa del Mondo nella storia del<br />
Paese avviene proprio mentre l’Iraq è nel pieno di una guerra terrib<strong>il</strong>e<br />
con l’Iran che, in otto anni, ucciderà due m<strong>il</strong>ioni di persone. Sulla panchina<br />
irachena siede un mito: Emmanuel Baba Dowud, detto Amma
Storie in fuorigioco<br />
Baba, zio papà in arabo. Un campione, che ha imparato a giocare a<br />
calcio nella base m<strong>il</strong>itare inglese dov’è nato negli anni Trenta. Baba è <strong>il</strong><br />
simbolo dell’Iraq e del suo rapporto con <strong>il</strong> calcio. Uday Hussein, <strong>il</strong> figlio<br />
di Saddam, gestiva <strong>il</strong> pallone come la sua piccola bottega degli orrori. I<br />
giocatori che, a suo dire, non si facevano valere in nazionale venivano<br />
torturati: costretti a calciare sfere di cemento, frustati su mani e piedi<br />
con cavi elettrici, addirittura condannati a morte per un’autorete. Baba<br />
è sempre là. «Uday mi odiava, perché ero così popolare che potevo andare<br />
direttamente da Saddam». Per molti è un fiancheggiatore storico<br />
del regime, per altri è uno che ama <strong>il</strong> calcio, tanto che la leggenda narra<br />
che abbia impedito ai tank Usa di entrare nello stadio di Baghdad. E’<br />
morto nel 2009. Come <strong>il</strong> povero Heidar Kazem, che giocava nel Sinyer<br />
e ha segnato una rete alla squadra del Buhayrat, <strong>il</strong> 15 marzo. Un tifoso<br />
avversario gli ha sparato al cuore dalle tribune. Il calcio, in Iraq, è anche<br />
questo. La notte di Giakarta uno striscione campeggiava tra i tifosi<br />
iracheni: ‘’La guerra non ucciderà mai <strong>il</strong> calcio’’. Forse è vero, tanto che<br />
nonostante <strong>il</strong> coprifuoco indetto dal governo dopo la semifinale, <strong>il</strong> 29<br />
luglio 2007 tutto <strong>il</strong> Paese si è riversato in strada. Curdi, sunniti e sciiti.<br />
A Baghdad e altrove <strong>il</strong> calcio è stato spesso uno dei mezzi ut<strong>il</strong>izzati dal<br />
potere per far dimenticare ai popoli che esiste la guerra.<br />
Per tornare uniti in Iraq, però, da qualche parte bisogna pur cominciare.<br />
58
Un calcio diplomatico<br />
Le qualificazioni al mondiale 2010 hanno messo di fronte Armenia<br />
e Turchia. Dal pallone passa la distensione delle relazioni<br />
Il lungo cammino della Coppa del Mondo di calcio in Sudafrica del<br />
2010 inizia, come da regolamento, molto prima. Il 25 novembre 2007,<br />
per la precisione, giorno del sorteggio dei gironi di qualificazione alla<br />
fase finale. Il gran cerimoniere è sempre lui, <strong>il</strong> presidente della Fifa Joseph<br />
Blatter, <strong>il</strong> padrino del pallone.<br />
Da consumato attore gestisce la serata e la passerella di ex glorie<br />
del calcio, intervallate da qualche numero di intrattenimento, per<br />
sorteggiare i gironi che in tutto <strong>il</strong> mondo eleggeranno le regine che si<br />
sfideranno in Sudafrica nel 2010. All’improvviso, senza che nessuno<br />
battesse ciglio, <strong>il</strong> delegato della federazione turca e di quella armena<br />
hanno un sussulto. Turchia e Armenia sono state inserite nello stesso<br />
girone. Non così fac<strong>il</strong>e come a dirsi, visto che per qualcuno è solo un<br />
gioco. Da anni i due Paesi non hanno relazioni diplomatiche, le frontiere<br />
sono sig<strong>il</strong>late e roventi. La Turchia è stato uno dei primi stati, dopo la<br />
dissoluzione dell’impero sovietico, a riconoscere la neonata repubblica<br />
di Armenia, ma poi <strong>il</strong> grande freddo è sceso tra le rispettive diplomazie.<br />
Prima la guerra del Nagorno-Karabach, impervia regione dell’Azerbaigian<br />
sulla quale l’Armenia rivendicava la sovranità. Nel 1991, crollata<br />
l’Urss e nate le due repubbliche, scoppiò una conflitto che durò fino<br />
al maggio 1994. Oltre trentam<strong>il</strong>a persone persero la vita, circa un m<strong>il</strong>ione<br />
i profughi. Il cessate <strong>il</strong> fuoco pose fine alla fase acuta dei combattimenti,<br />
ma non portò a un accordo definitivo di pace. Il Nagorno-Karabakh<br />
è di fatto una repubblica indipendente, sostenuta m<strong>il</strong>itarmente<br />
59
Storie in fuorigioco<br />
dall’Armenia, ma <strong>il</strong> suo status non è riconosciuto dall’Azerbaigian e<br />
dalla comunità internazionale. Turchia compresa. Come se non bastasse,<br />
dal giorno della sua indipendenza, l’Armenia coltiva un sogno:<br />
<strong>il</strong> riconoscimento del genocidio patito dalla sua gente per mano dei<br />
m<strong>il</strong>itari turchi al crollo dell’Impero Ottomano, durante la Prima Guerra<br />
mondiale. Secondo fonti armene, dopo <strong>il</strong> collasso della Sublime Porta,<br />
i m<strong>il</strong>itari turchi che preparavano la Turchia del futuro uccisero almeno<br />
un m<strong>il</strong>ione e mezzo di armeni, ritenuti collaborazionisti del nemico ed<br />
elemento estraneo al Paese. Per i turchi, invece, ci furono delle violenze<br />
indubitab<strong>il</strong>i, ma non esisteva alcun disegno genocida e i numeri<br />
sono gonfiati ad arte dagli armeni.<br />
La Fifa, che tra sponsor e diritti televisivi ha ben altro a cui pensare,<br />
fissa gli incontri delle due nazionali: andata <strong>il</strong> 6 settembre 2008 a Erevan,<br />
in Armenia, ritorno <strong>il</strong> 14 ottobre 2009, a Bursa, in Turchia. Il destino,<br />
però, ama scrivere sceneggiature intrecciate e, manco a farlo apposta,<br />
proprio nell’anno che precede <strong>il</strong> primo incontro, molte cose importanti<br />
accadono ad Ankara. La Turchia, infatti, astro nascente dell’economia<br />
mondiale, vuole entrare nell’Unione europea. Gli stati Ue contrari sono<br />
tanti e accusano i turchi di violare i diritti umani dei curdi, di occupare<br />
m<strong>il</strong>itarmente la parte settentrionale di Cipro e di altre cose che la pongono<br />
lontano dagli standard europei. Uno di questi problemi sono i rapporti<br />
con l’Armenia. Il presidente armeno è Serzh Sargsyan, un politico<br />
scafato. E lungimirante, tanto da intuire che le urne della Fifa, forse, gli<br />
hanno offerto un assist goloso. Non se lo fa scappare: nel mese di agosto<br />
del 2008, pochi mesi prima della partita contro la Turchia, invita <strong>il</strong> suo<br />
omologo turco Abdullah Gul ad assistere al match accanto a lui, nella<br />
tribuna dello stadio di Erevan. Ora Gul può rifiutare, dandosi la zappa sui<br />
piedi, mentre la Turchia cerca di piacere a Bruxelles, o cogliere a sua volta<br />
l’occasione. Gul non si fa pregare e, nonostante <strong>il</strong> furore della destra<br />
turca e del governo azero, accetta l’invito di Sargsyan.<br />
Anche quest’ultimo aveva dato prova di coraggio, dando notizia<br />
della sua idea di invitare Gul a Erevan durante una visita ufficiale alla<br />
diaspora armena a Mosca. Tra m<strong>il</strong>le polemiche, i due leader paiono<br />
decisi. Al punto che, in gran segreto, pare che delegati dei due Paesi<br />
s’incontrino più di una volta a Berna per preparare la visita simbolica.<br />
60
61<br />
Un calcio diplomatico<br />
Il grande giorno arriva: lo stadio Hrazdan di Erevan è gremito in ogni<br />
ordine di posto. Fuori dallo stadio esercito e polizia sono ovunque. Gul,<br />
resistendo fino all’ultimo minuto a pressioni enormi in patria, ha confermato<br />
la sua presenza solo 48 ore prima del fischio d’inizio. Sugli spalti<br />
uno sparuto gruppo di tifosi turchi, tra i 62m<strong>il</strong>a sostenitori armeni,<br />
portano uno striscione: “E’ tempo per una fratellanza senza confini”. Si<br />
temevano disordini e contestazioni e invece f<strong>il</strong>a tutto liscio. Solo quando<br />
la banda attacca l’inno nazionale turco viene giù lo stadio dai fischi, ma<br />
si sono fischiati inni nazionali in giro per <strong>il</strong> mondo per molto meno.<br />
Gul arriva in tribuna e avanza verso Sargysian. Sorridono, si stringono<br />
la mano, si fanno fotografare assieme. Gul esulta due volte, per le<br />
reti di Tuncay e Senturk. Vince la Turchia 2-0, ma quello sembra solo<br />
un dettaglio.<br />
La partita di ritorno è fissata per <strong>il</strong> 14 ottobre 2009, in Turchia. Potrebbe<br />
essere un’occasione per festeggiare, invece che una per sperare,<br />
come era stata la partita d’andata. Rotto <strong>il</strong> ghiaccio, infatti, Turchia<br />
e Armenia vanno come treni e per <strong>il</strong> 10 ottobre 2009 è annunciata<br />
la presentazione di protocolli d’intesa – ufficiali – tra i due Paesi. Una<br />
specie di Road Map che garantirà, nel giro di un periodo più o meno<br />
lungo, la soluzione dei contenziosi tra Ankara ed Erevan. Il presidente<br />
Gul, sulla falsariga di quella che per tutti è ormai la “diplomazia del calcio”,<br />
invita <strong>il</strong> presidente Sargysian ad assistere alla partita in Turchia al<br />
suo fianco. Il presidente armeno, come aveva fato Gul all’andata, fino<br />
all’ultimo non dà certezze e vincola la sua presenza all’effettivo passo<br />
avanti delle diplomazie.<br />
Sembra una partita di calcio. Nessuno fa la prima mossa e, come<br />
direbbe un cronista d’antan, le squadre si studiano. Il 10 ottobre 2009,<br />
all’università di Zurigo, in Svizzera, è fissata la cerimonia della firma<br />
dei protocolli d’intesa. Usa e Svizzera mediano da mesi, ma le due delelgazioni<br />
tengono tutti con <strong>il</strong> fiato sul collo. A pochi minuti dall’orario<br />
fissato per la firma davanti ai cronisti, viene annunciato un ritardo per<br />
gli ultimi dettagli. Tempi supplementari. Finamente, dopo quattro ore<br />
di ritardo, viene firmato lo storico accordo sulla normalizzazione delle<br />
relazioni b<strong>il</strong>aterali tra Armenia e Turchia. Un elenco infinito di buone<br />
intenzioni e di tutto l’alfabeto del politichese, ma la firma c’è.
Storie in fuorigioco<br />
Sargysian si può recare a Bursa, seguito da trem<strong>il</strong>a connazionali. La<br />
Turchia, anche questa volta, vince 2-0. I marcatori sono Altintop e Cetin<br />
ai quali, in carriera, non capiterà più di giocare una partita “storica”<br />
davvero e non solo nella retorica del giornalismo sportivo. Dopo quasi<br />
due anni la situazione non è molto evoluta. La diplomazia internazionale<br />
è stata, come sempre, rapita da nuovi scenari e tra turchi e armeni<br />
quasi tutto è rimasto alla fase dei buoni propositi. La Turchia, per la<br />
cronaca, non si è qualificata alla fase finale del mondiale, nonostante i<br />
sei punti raccolti contro l’Armenia. Una vittoria di Pirro? Presto per dirlo,<br />
ma soprattutto non è che <strong>il</strong> pallone possa risolvere tutti i problemi<br />
del mondo.<br />
62
Il futuro in palio<br />
Nell’anniversario della guerra civ<strong>il</strong>e in Libano, maggioranza<br />
e opposizione si sfidano a calcio per dare un segnale di unità<br />
Nessuno mette in discussione le partite di beneficenza. Servono.<br />
Si raccolgono tanti soldi da ut<strong>il</strong>izzare, almeno si spera, per progetti di<br />
solidarietà. Il nob<strong>il</strong>e fine, a volte, rende meno imbarazzante la vista<br />
dell’attore bolso, del politico attempato, dell’ex calciatore impresentab<strong>il</strong>e<br />
e così via che scorrazzano per un campo di calcio in calzoncini e<br />
magliette che ne fasciano i corpi non proprio atletici.<br />
Il calcio, quindi, si fa sfruttare (nel senso buono del termine) per fini<br />
nob<strong>il</strong>i grazie al potere oggettivo di comunicazione immenso che possiede<br />
<strong>il</strong> “gioco più bello del mondo”.<br />
Il 13 apr<strong>il</strong>e 2010 è accaduto qualcosa del genere. Preceduti dal motto<br />
un po’ banale Kùlluna farìq wàhid (siamo tutti una sola squadra), a<br />
Beirut, stadio comunale, sono scesi in campo i politici libanesi. Maggioranza<br />
contro opposizione. Maglia rossa per i primi, capitanati dal<br />
premier Hariri, maglia bianca per i secondi, guidati dal parlamentare<br />
di Hezbollah, Ali Ammar. Il presidente della Repubblica, Michael Suleiman,<br />
e quello del Parlamento, Nabih Berri, si sono accomodati in<br />
tribuna a causa dell’età non più verde. Anche quelli che sono scesi in<br />
campo, in realtà, non hanno voluto esagerare e hanno preferito giocare<br />
solo per trenta minuti. Mancava <strong>il</strong> leader supremo di Hezbollah,<br />
Hassan Nasrallah, ma la seriosità connaturata all’aura teologica della<br />
quale è circondato sconsigliava apparizioni in tenuta da gioco. Oltre al<br />
fatto che rientra nella lista nera d’Israele e un “omicidio mirato” con un<br />
razzo israeliano che colpisce uno dei giocatori della Partita del Cuore<br />
63
Storie in fuorigioco<br />
– come l’hanno ribattezzata i media libanesi – non è <strong>il</strong> massimo del<br />
marketing politico. Per la cronaca la partita l’ha vinta la squadra della<br />
maggioranza, per 2-0, doppietta di Sami Gemayel, uomo di punta dei<br />
falangisti, formazione cristiano-maronita fondata dal nonno del bomber<br />
di giornata e responsab<strong>il</strong>e di svariati massacri durante la guerra<br />
civ<strong>il</strong>e in Libano.<br />
Il 13 apr<strong>il</strong>e è un giorno particolare per <strong>il</strong> Paese dei Cedri. Il 13 apr<strong>il</strong>e<br />
1975, infatti, viene comunemente fissato come l’inizio del conflitto<br />
interno che durò fino al 1990, causando la morte di duecentom<strong>il</strong>a<br />
persone. Quel giorno Pierre Gemayel, nonno di Sami, fu oggetto di un<br />
attentato da parte di m<strong>il</strong>iziani palestinesi e scatenò i suoi sgherri che<br />
massacrarono 27 civ<strong>il</strong>i palestinesi su un bus. Fu la scint<strong>il</strong>la che diede<br />
inizio l’inferno, culminato nell’invasione dell’esercito israeliano nel<br />
1982. La partita, quindi, è stato un bello spot per la pace, ma come<br />
di tutti gli spot bisogna diffidare della sua autenticità. Non a caso le<br />
tribune erano vuote. I libanesi hanno infatti potuto seguire la partita<br />
in televisione, ma non allo stadio, presidiato da centinaia di poliziotti<br />
e m<strong>il</strong>itari. Lo stesso accade per <strong>il</strong> campionato che si gioca a porte<br />
chiuse da anni per timore di scontri. Il calcio, in Libano, rispecchia una<br />
società multietnica che da troppo tempo, però, non riesce a conoscere<br />
la pace. Ogni squadra della capitale è <strong>il</strong> simbolo di una delle anime del<br />
Paese. L’al-Ansar, che detiene <strong>il</strong> record di scudetti, appartiene al clan<br />
della famiglia Hariri, punto di riferimento della comunità sunnita. La<br />
formazione al-Safa, invece, è la squadra più vicina alla comunità dei<br />
drusi guidata da Walid Jumblatt. La comunità cristiana è divisa in due<br />
pure nel mondo del pallone: <strong>il</strong> Sagesse è <strong>il</strong> team dei maroniti, <strong>il</strong> Racing<br />
quello degli ortodossi. Per finire gli sciiti, dove i seguaci di Hezbollah<br />
tengono per l’al-Ahed e gli altri per <strong>il</strong> Nejmeh.<br />
Lo stadio di Beirut è uno dei simboli del martirio vissuto da questa<br />
parte del Mediterraneo. Durante la guerra civ<strong>il</strong>e, nel 1983, venne totalmente<br />
distrutto dai bombardamenti. Ricostruito nel 2000, fu la sede<br />
della partita inaugurale dell’edizione di quell’anno della Coppa d’Asia.<br />
Sempre nel 2000, l’esercito israeliano si ritirava dalle zone occupate e,<br />
per davvero, un nuovo futuro pareva stagliarsi all’orizzonte per <strong>il</strong> Libano.<br />
Il 14 febbraio 2005, però, <strong>il</strong> padre dell’attuale premier, Rafiq Hariri,<br />
64
65<br />
Il futuro in palio<br />
imprenditore ed<strong>il</strong>e che aveva ricostruito gran parte della capitale (con<br />
una commistione pubblico-privato non sempre molto limpida) venne<br />
assassinato in un attentato. L’incubo della violenza tornò in Libano e,<br />
l’estate dopo, l’esercito israeliano attaccò di nuovo Beirut, con l’obiettivo<br />
di cancellare Hezbollah dalla faccia della terra, ma ottenendo solo<br />
di riportare indietro l’orologio del Libano agli anni bui della guerra civ<strong>il</strong>e.<br />
Adesso la situazione politica è molto fluida, tra divisioni interne e<br />
paura di un nuovo attacco israeliano, per non parlare della crisi siriana.<br />
Non basta certo una partita a cambiare le cose, ma per i libanesi davanti<br />
alla televisione sarà apparso rassicurante vedere i leader politici<br />
litigare solo per una rimessa laterale.
La metà di niente<br />
Celtic e Rangers, a Glasgow, potrebbero aver giocato l’ultimo derby
Campioni del mondo di fantasia<br />
Un’edizione originale della Coppa del Mondo di calcio<br />
si è giocata a Gaza<br />
Nel calcio, come nella vita, la fantasia fa la differenza. Gaza, per<br />
esempio. Non potete andare a vedere i mondiali di calcio? Allora i<br />
mondiali li potete immaginare. E giocare.<br />
Anno 2010: prima di celebrare le star della pedata in Sudafrica, viene<br />
eletta la prima squadra campione del mondo di calcio. La Francia, per<br />
la precisione, che ai rigori ha piegato la Giordania. I francesi, questa<br />
volta, dal dischetto non perdonano. Anche se non proprio tutti sono<br />
francesi. Ma che importa? L’idea è venuta a Patrick McGrann, statunitense,<br />
e ad Ashraf Mohammed Hamad, palestinese. Il primo era uno<br />
dei tanti cooperanti internazionali, arrivato qui per aiutare la popolazione<br />
locale. Lavorava per la Jumpstart International, costruiva scuole.<br />
Poi è arrivato Piombo Fuso, che si è rovesciato sulla vita dei palestinesi<br />
tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, portandosi via le vite di 1.400<br />
persone. Quando l’esercito israeliano si è ritirato restava un cumulo fumante<br />
di macerie e le scorie di armi non convenzionali. L’ong di Patrick<br />
è andata via, lui no.<br />
Ha fondato Kitegang, un’azienda no profit di giocattoli. Ashraf e Patrick<br />
insegnano all’Università di Scienze Applicate e hanno organizzato<br />
una partita, tra i palestinesi e gli stranieri che vivono nella Striscia.<br />
L’entusiasmo non manca, i soldi si. Ci pensano la Banca di Palestina,<br />
<strong>il</strong> programma Onu per lo sv<strong>il</strong>uppo (Undp), addirittura la Pepsi. Arrivano<br />
divise da gioco e tutto <strong>il</strong> necessario, si formano le squadre. Sedici<br />
formazioni si danno appuntamento in campo, mischiando quasi quat-<br />
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Campioni del mondo di fantasia<br />
trocento giocatori, tra ragazzi locali sorteggiati nelle varie nazionali e<br />
stranieri che difendono, a Gaza, i loro colori.<br />
Manca <strong>il</strong> trofeo, ma non è un problema. Un po’ di artigiani di Gaza<br />
si danno da fare e raccogliendo i pezzi di metallo del disastro lasciato<br />
dall’operazione Piombo Fuso ne hanno fatto una copia della più celebre<br />
Coppa del Mondo. A questo punto tutto è pronto, calcio d’inizio fissato<br />
per <strong>il</strong> 2 maggio 2010. Una festa enorme accoglie i partecipanti, al punto<br />
che la differenza con i giocatori diventa minima, come testimoniano le<br />
foto sul sito della manifestazione (gazaworldcup.org) e <strong>il</strong> gruppo di sostenitori<br />
su Facebook. Quelli che non possono entrare e quelli che non<br />
possono uscire si sfidano e si esprimono solidarietà allo stesso tempo.<br />
Come con una barriera da saltare con un tiro ad effetto, come un portiere<br />
da aggirare con un dribbling ubriacante, prima di fare goal.<br />
Una barriera sempre più soffocante, dopo che le elezioni del 2006<br />
(per molti osservatori internazionali le più trasparenti del Medio<br />
Oriente) le ha vinte Hamas. Il vincitore sbagliato, per Israele, per l’Ue<br />
e per gli Usa. L’isolamento diventa assedio nel 2007, quando la rottura<br />
nella Striscia di Gaza tra Hamas e Fatah, <strong>il</strong> vecchio partito di Arafat, diventa<br />
conflitto. L’assedio diventa inferno, quando a dicembre del 2008<br />
Israele scatena la sua macchina di morte sulla Striscia.<br />
Da quel giorno non entrano più molte cose, ma non è scappata per<br />
sempre la voglia di vivere della gente comune della Striscia. Magari, a<br />
volte, con un po’ di fantasia. Ecco che <strong>il</strong> torneo va avanti, fino alla finale,<br />
giocata <strong>il</strong> 15 maggio. Data simbolica, quella che i palestinesi chiamano<br />
Nakba, la catastrofe, riferita alla nascita dello Stato d’Israele.<br />
L’Italia? Eliminata in semifinale. Pazienza, anche se quando vince la<br />
Francia un po’ ti girano. Gli azzurri, però, hanno avuto <strong>il</strong> merito più<br />
grande. Eliminare la Palestina, 1-0 su rigore, al primo turno. Brutta cosa<br />
eliminare proprio i padroni di casa? No, una cosa bella. Perché per una<br />
volta, in un campo di calcio, la Palestina si è sentita libera di essere uno<br />
Stato come gli altri. Ha perso, certo, ma si è sentita viva e della vita fa<br />
parte anche la sconfitta. Il problema, con tutta la fantasia del mondo, è<br />
quando fanno di tutto per non permetterti di esistere.
La metà di niente<br />
Celtic e Rangers, a Glasgow, potrebbero aver giocato l’ultimo derby<br />
A Glasgow <strong>il</strong> 25 marzo 2012, per qualcuno, non doveva finire mai.<br />
Spingendo la notte un po’ più in là, quanto basta per non andare a letto<br />
mai. I tifosi dei Rangers Glasgow hanno aspettato la mattina del derby,<br />
come sempre, con quell’adrenalina che vivono da anni. Come i loro padri<br />
prima di loro, come i loro nonni, e così via fino al 28 maggio 1888,<br />
più di cento anni fa, quando si è giocato <strong>il</strong> primo Old Firm.<br />
Viene chiamato così <strong>il</strong> derby di Glasgow, dove nessuno si <strong>il</strong>lude che<br />
sia solo una partita di calcio. Rangers contro Celtic, protestanti contro<br />
cattolici. E’ così che viene raccontato ai bambini, da sempre. Noi e loro,<br />
senza mediazioni. Il 25 marzo, però, è una mattina strana, come tutte<br />
quelle che possono essere l’ultima. Questa volta non conta chi si aggiudicherà<br />
<strong>il</strong> campionato scozzese o la coppa nazionale, o anche solo<br />
la supremazia cittadina nei (pochissimi in verità) casi in cui in palio<br />
c’era solo quella. Il 25 marzo può essere l’ultima volta.<br />
La crisi globale che soffoca <strong>il</strong> mondo non risparmia nessuno, storia<br />
compresa. Anche quella del pallone, che per tanti è una storia minore.<br />
Non per i tifosi dei Rangers. L’Hmrc (la versione britannica del Fisco)<br />
non fa sconti a nessuno: entro <strong>il</strong> 31 marzo 2012 <strong>il</strong> club deve saldare i<br />
suoi debiti (più o meno cento m<strong>il</strong>ioni di euro) o ne verrà decretato <strong>il</strong><br />
fallimento. Senza nessuna pietà per 139 anni di storia e 115 trofei vinti,<br />
in patria e all’estero.<br />
La mattina del derby, questa volta, ha un sapore amaro. Non basta<br />
la paura di perdere, che ti accompagna sempre, ma anche quella di<br />
sparire. Così, come se questa storia non fosse mai esistita.<br />
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La metà di niente<br />
Appuntamento a Iborx Park, la casa dei Rangers. Nessuna voglia di<br />
scherzare, anche se i cugini del Celtic ci avranno ricamato su questa<br />
storia del fallimento. Chissà che cori beffardi e senza pietà. Ma a casa<br />
non si resta. La birra al solito pub, la strada verso Ibrox. La seconda casa.<br />
Giusto per rendere più amaro <strong>il</strong> boccone, <strong>il</strong> Celtic è lanciato verso<br />
<strong>il</strong> titolo. Quest’anno però, anche se fa male sempre, <strong>il</strong> destino può<br />
essere ancora più amaro. Resta da giocare una partita. I giocatori<br />
dei Rangers, quando indossano quella maglia, sanno di portare sulla<br />
pelle una lunga storia. Naismith e Witthaker, ad esempio, hanno<br />
proposto al club di tagliarsi lo stipendio del 75 per cento per salvarlo.<br />
McCulloch, <strong>il</strong> veterano del team con 110 presenze in campionato, si è<br />
detto pronto a giocare gratis, ma <strong>il</strong> destino sembra inesorab<strong>il</strong>e. Resta<br />
una partita da giocare.<br />
Se non avete mai visto uno stadio prodotto della cultura anglosassone<br />
non potete capire. L’assenza di pista atletica, la mentalità dei tifosi,<br />
ne fanno scenari unici. Il tuono che accoglie i giocatori dei Rangers è<br />
impressionante, pare che le gradinate di Ibrox avanzino verso <strong>il</strong> terreno<br />
di gioco per stringere i loro eroi in un abbraccio soffocante. «Può essere<br />
l’ultima ragazzi: vincete». Per 77 minuti la storia si ferma, come a rendere<br />
omaggio a un club che ha contribuito a scriverla: all’11’ Aluko, al 72’<br />
Little e al 77’ Wallace. A un quarto d’ora dalla fine della partita i Rangers<br />
sono avanti di tre reti. Non c’è fallimento che tenga, non c’è superiorità<br />
tecnica (di questa stagione) dei Celtic che può arginare un patto con <strong>il</strong><br />
diavolo: vincere l’ultimo Old Firm. I ragazzi di Ally McCoist, grande bomber<br />
del passato, 418 gare e 251 reti con i Blue, hanno dato tutto.<br />
I tifosi dei Celtic, che sono entrati allo stadio cantando «balleremo<br />
la conga/quando i Rangers moriranno», annich<strong>il</strong>iti. I Bhoys del Celtic<br />
si riprendono, gli altri ritornano normali. All’89’ Brown e al 90’ Rogne<br />
riaprono i giochi. I tifosi dei Rangers non credono ai loro occhi... può<br />
essere l’ultimo, non può finire male, non si può perdere anche l’ultima<br />
soddisfazione. Per fortuna l’arbitro fischia. I tifosi del Celtic dovranno<br />
aspettare per festeggiare <strong>il</strong> titolo. Quelli dei Rangers restano ai loro<br />
posti, con la squadra in lacrime al centro del campo. Piangono tutti.<br />
L’anno prossimo, con ogni probab<strong>il</strong>ità, si riparte dalla quarta serie. Il<br />
campionato scozzese di calcio senza i Rangers sembra un ossimoro.
Storie in fuorigioco<br />
E come un salvataggio sulla linea all’ultimo minuto, come una rete<br />
nel tempo di recupero, dagli Stati Uniti spunta B<strong>il</strong>l M<strong>il</strong>ler, m<strong>il</strong>iardario,<br />
come lo zio d’America dei racconti di un tempo o come <strong>il</strong> deus ex machina<br />
della tragedia greca. Presenta un’offerta di acquisto del club,<br />
i liquidatori si dicono soddisfatti. Ora tocca ai tecnici del Fisco, ma<br />
sembra fatta, nonostante un tira e molla con tifosi oltranzisti e pseudo<br />
acquirenti.<br />
Poteva essere l’ultimo, ma potrebbe tornare ancora, come da 140<br />
anni a questa parte. A qualcuno non sarebbe mancato: si calcola che<br />
nella settimana che precede l’Old Firm, a Glasgow, le violenze interconfessionali<br />
aumentino di nove volte. I cattolici, vicini ai correligionari<br />
di Belfast, contro i lealisti monarchici protestanti dei Rangers. Quando<br />
un giocatore è passato da una squadra all’altra ha rischiato la pelle per<br />
davvero. L’anno scorso Aaron McGregor, diciassettenne cattolico, è<br />
arrivato ai Rangers. Commenti minacciosi lo hanno accolto su un sito<br />
Internet “non ufficiale” dei Rangers, come per l’allenatore del Celtic,<br />
Ne<strong>il</strong> Lennon, protestante. Due uomini affronteranno un processo in<br />
Scozia, accusati di aver inviato presunti pacchi bomba a Lennon.<br />
Ce se sono m<strong>il</strong>le di storie così, da raccontarsi al pub. E in fondo, nonostante<br />
i cori e gli insulti, in qualche zona della città dove primeggiano<br />
i tifosi del Celtic, ce ne saranno stati alcuni che in s<strong>il</strong>enzio, non<br />
visti da nessuno, hanno brindato al salvataggio dei Rangers. Perché la<br />
storia di un derby si scrive in due e in fondo, molto in fondo, dell’Old<br />
Firm sarebbero stati orfani tutti.<br />
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L’autore<br />
CHRISTIAN ELIA<br />
Classe 1976, di Bari-Bari.<br />
Studi umanistici, sogni da pug<strong>il</strong>e e calciatore della Roma.<br />
Giornalista professionista dal 2005, per PeaceReporter prima e<br />
attualmente per E-<strong>il</strong> mens<strong>il</strong>e, ha raccontato e racconta <strong>il</strong> Medio e <strong>il</strong><br />
Vicino Oriente, <strong>il</strong> Nord Africa e i Balcani.<br />
Autore di reportage e di servizi radiofonici, pubblicati sulle principali<br />
testate italiane, del libro Oltre <strong>il</strong> muro, storie di comunità divise e del<br />
documentario The Empty House