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La parola e la cura

Il pregiudizio: l'evitabile e l'inevitabile delle convinzioni consapevoli Numero 1 Anno 2015 La Parola e la cura è una rivista rivolta a tutti i professionisti che utilizzano la parola nel loro lavoro, parla di counselling perché con questo termine indichiamo le comunicazioni professionali caratterizzate da una costante attenzione alla relazione con l'altro, alla qualità dello scambio comunicativo, all'efficacia dei messaggi.

Il pregiudizio: l'evitabile e l'inevitabile delle convinzioni consapevoli
Numero 1 Anno 2015

La Parola e la cura è una rivista rivolta a tutti i professionisti che utilizzano la parola nel loro lavoro, parla di counselling perché con questo termine indichiamo le comunicazioni professionali caratterizzate da una costante attenzione alla relazione con l'altro, alla qualità dello scambio comunicativo, all'efficacia dei messaggi.

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Primavera 2015 <br />

Comunicazione Counsel(l)ing Salute <br />

<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Stefano Beccastrini -­‐ Giorgio Bert -­‐ <strong>La</strong>ura Binello – Pao<strong>la</strong> <br />

Emilia Cicerone – C<strong>la</strong>udio Diaz -­‐ Mauro Doglio – Massimo <br />

Giuliani – Gabriel<strong>la</strong> Pacini – Barbara Poggio -­‐ Silvana Quadrino <br />

-­‐ Dagmar Rinnenburger – Marianel<strong>la</strong> Sc<strong>la</strong>vi – Sandro Spinsanti <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle <br />

convinzioni inconsapevoli <br />

Edizioni CHANGE <br />

www.counselling.it


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

SOMMARIO <br />

EDITORIALE: (G.B.) <br />

Pregiudizi sul pregiudizio -­‐ Mauro Doglio 4 <br />

Pregiudizio ed etica – Sandro Spinsanti <br />

Una timida difesa del pregiudizio <br />

– Giorgio Bert 10 <br />

Viaggio nel<strong>la</strong> Costel<strong>la</strong>zione Felix. (Dove <br />

intelligenza emotiva, sociale, sistemica, <br />

non sono cose “dell’altro mondo”) <br />

– Marianel<strong>la</strong> Sc<strong>la</strong>vi 15 <br />

SELBSTDENKEN Margarethe Von Trotta: <br />

Hannah Arendt – Stefano Beccastrini 17 <br />

David Copperfield in Valpadana <br />

– Massimo Giuliani 20 <br />

Quando il pregiudizio nasce <br />

dall’esperienza -­‐ Barbara Poggio 23 <br />

Pregiudizi sul<strong>la</strong> nascita – Gabriel<strong>la</strong> Pacini 26 <br />

Scatti dall' (e)margine – <strong>La</strong>ura Binello <br />

Giudizi e pregiudizi – Pao<strong>la</strong> Emilia <br />

Cicerone <br />

Vivere e <strong>la</strong>vorare sotto pregiudizio – <br />

Dagmar Rinnenburger <br />

Imparare a danzare – C<strong>la</strong>udio Diaz <br />

2 <br />

8 <br />

33 <br />

36 <br />

38 <br />

40 <br />

Stefano Beccastrini – Medico, studioso del<strong>la</strong> <br />

comunicazione e del cinema <br />

Giorgio Bert – Medico, cofondatore <br />

dell’Istituto CHANGE e di Slow Medicine, <br />

direttore di questa rivista <br />

<strong>La</strong>ura Binello – infermiera <br />

Pao<strong>la</strong> Emilia Cicerone – giornalista scientifica <br />

C<strong>la</strong>udio Diaz – blogger <br />

Mauro Doglio – Filosofo, supervisor <br />

counsellor, responsabile del corso triennale di <br />

counselling e presidente dell’Istituto CHANGE <br />

Massimo Giuliani – Psicologo psicoterapeuta, <br />

docente del Centro Mi<strong>la</strong>nese di Terapia del<strong>la</strong> <br />

Famiglia, direttore del<strong>la</strong> rivista Connessioni. <br />

Gabriel<strong>la</strong> Pacini – Ostetrica, counsellor <br />

Barbara Poggio – Assistente sociale <br />

Silvana Quadrino – Psicoterapeuta sistemica, <br />

pedagogista, supervisor counsellor, docente e <br />

cofondatrice Istituto CHANGE, cofondatrice <br />

Slow Medicine <br />

Dagmar Rinnenburger -­‐ pneumologa, <br />

allergologa, membro dell’Istituto Giano. <br />

Marianel<strong>la</strong> Sc<strong>la</strong>vi – Sociologa, esperta in Arte <br />

di ascoltare e Gestione creativa dei conflitti <br />

Sandro Spinsanti – Studioso di bioetica, <br />

direttore dell’istituto Janus per le medical <br />

Humanities <br />

Dove abita <strong>la</strong> violenza – Silvana <br />

Quadrino <br />

43 <br />

Fotografie di Giulio Ameglio <br />

2


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

EDITORIALE <br />

(G. B.) <br />

Le immagini mostrano <strong>la</strong> copertina di un settimanale tedesco e <strong>la</strong> prima pagina di un quotidiano <br />

italiano: autentico trionfo dello stereotipo, del pregiudizio… “Gli italiani sono mafiosi”… “I tedeschi <br />

sono nazisti”… <br />

A parte l’orrida indegna scelta di specu<strong>la</strong>re sui morti, di mafia o di campi si sterminio, resta il fatto <br />

che quando si parte da una arbitraria generalizzazione (“Le donne sono”…”I Rom sono”… “I <br />

musulmani sono”… “Tutti gli altri sono”…), ciò che segue è forzatamente frutto di pregiudizio. <br />

Nessun soggetto, individuale o collettivo “è” sempre, in ogni contesto, una volta per tutte: <strong>la</strong> <br />

so<strong>la</strong> caratteristica di affermazioni come “io sono”, “noi siamo” è <br />

l’impalpabile effimera inconsistenza. <br />

Generalizzare è certo un’operazione utile, purché ne sia sempre <br />

chiara <strong>la</strong> provvisorietà e l’incertezza… È lecito supporre che tutti i <br />

cigni siano bianchi, pur di ammettere che è possibile che esista in <br />

qualche luogo un cigno nero, che da solo basta a far crol<strong>la</strong>re quel<strong>la</strong> <br />

ipotesi. <br />

In realtà, il ricercatore, l’esploratore curioso va in cerca del cigno <br />

nero, di ciò che può smentire <strong>la</strong> sua ipotesi: è ben così che <br />

aumentano le conoscenze. Chi invece va in cerca solo di conferme <br />

al<strong>la</strong> propria ipotesi ne troverà senza dubbio quante ne vuole e si <br />

rinchiuderà gradualmente nel suo bozzolo di certezze. A quel punto <br />

inizierà a combattere chi propone altri e diversi percorsi: nascita del pregiudizio. <br />

C<strong>la</strong>ssificare, catalogare elementi è un modo di dare ordine a ciò che ordinato non è. Significa di <br />

fatto tracciare una mappa alquanto rozza del<strong>la</strong> realtà, che può servire ad esempio a distinguere tra <br />

un coccodrillo e un tronco sommerso: cosa senza dubbio utilissima in determinate occasioni. Si <br />

tratta tuttavia di una mappatura grezza, artificiale, limitativa: <strong>la</strong> realtà comprende molto altro <br />

oltre ai tronchi e ai coccodrilli, e nessuna mappa può essere tanto esaustiva da raffigurare <br />

l’intero territorio, a meno di non coincidere con <br />

esso, come nell’inutile cartografia di Borges: <br />

“In quell'Impero, l'arte del<strong>la</strong> cartografia giunse a <br />

una tal perfezione che <strong>la</strong> mappa di una so<strong>la</strong> <br />

provincia occupava tutta una città, e <strong>la</strong> mappa <br />

dell'impero tutta una provincia. Col tempo, queste <br />

mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei <br />

cartografi fecero una mappa dell'impero che aveva <br />

2


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

l'immensità dell’impero stesso e coincideva perfettamente con esso. Ma le generazioni seguenti, <br />

meno portate allo studio del<strong>la</strong> cartografia, pensarono che questa mappa enorme era inutile, e non <br />

senza empietà <strong>la</strong> abbandonarono alle inclemenze del sole e degli inverni.” <br />

Poiché il pregiudizio è comodo, pratico e spesso aiuta utilmente ad agire in automatico, senza <br />

pensare, esso finisce col diventare un atteggiamento mentale; si dimentica così che si tratta pur <br />

sempre di una struttura artificiale e provvisoria, basata appunto sul “non pensare”. Il non <br />

pensare è proprio degli schiavi. <br />

Due pi<strong>la</strong>stri del pensiero sistemico possono costituire una valida terapia contro pregiudizi e <br />

stereotipi: “il nome del<strong>la</strong> cosa non è <strong>la</strong> cosa”, e “<strong>la</strong> mappa non è il territorio”. <br />

Insomma, per tornare al<strong>la</strong> copertina, “i tedeschi”, “gli italiani” sono raggruppamenti di comodo, <br />

semplici parole che di per sé non sono informative né descrittive; attribuire ad essi delle specifiche <br />

caratteristiche generali (“nazisti”, “mafiosi”) è del tutto privo di significato: una <strong>paro<strong>la</strong></strong> ha senso <br />

solo all’interno di un contesto semantico condiviso, e nel caso in questione, il contesto è appunto <br />

il pregiudizio. <br />

Il pregiudizio ha il vantaggio di non richiedere dimostrazioni, di autoconfermarsi, di ignorare ciò <br />

che lo smentisce (il “cigno nero”) e anzi di farne invocare a gran voce l’eliminazione, anche fisica <br />

nel caso di esseri umani. <br />

Uno dei motivi per cui è necessario essere in ogni momento consapevoli dei propri pregiudizi è <br />

infatti <strong>la</strong> facilità con cui intorno ad essi si formano gruppi che li condividono, e tendono a <br />

diventare veri e propri branchi, <strong>la</strong> cui intensa aggressività anche nei confronti dei loro simili li <br />

rende più simili a branchi di ratti che di lupi. <br />

Cercare, valorizzare, difendere il cigno nero: è questo il percorso che ci piace. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Pregiudizi sul pregiudizio <br />

Mauro Doglio <br />

Anche l’illuminismo, infatti, ha un suo pregiudizio <br />

fondamentale e costitutivo: questo pregiudizio […] <br />

è il pregiudizio contro i pregiudizi. <br />

H.G. Gadamer Verità e metodo <br />

Pregiudizi sul pregiudizio <br />

Quando mi è stato chiesto di scrivere sul tema del pregiudizio mi sono reso conto che non ne <br />

avevo affatto voglia. Trovo il pregiudizio un tema davvero scontato e noioso. Cosa si può dire sul <br />

pregiudizio che non sia già stato detto, che non sia trito e ritrito? E mentre rimunginavo tra me e <br />

me questi pensieri, mi sono reso conto di avere un pregiudizio sul pregiudizio e mi sono detto <br />

che valeva quindi <strong>la</strong> pena di fare quello che bisognerebbe sempre fare quando ci rendiamo <br />

conto di avere un pregiudizio, e cioè esplorare di più. Così ho cominciato a riflettere sul tema, <br />

cercando di fare i conti con il pregiudizio e i miei pregiudizi su di lui. <br />

Cos’è un pregiudizio? <br />

Si considera pregiudizio un’opinione negativa o positiva su un tema, caratterizzata dal fatto di <br />

essere errata o imprecisa perché ottenuta senza una conoscenza diretta dei fatti o delle persone, <br />

ma per sentito dire, oppure perché prodotta da un giudizio affrettato o basato su informazioni <br />

insufficienti, come quando utilizziamo singole esperienze personali per generalizzare e dare <br />

valutazioni che riguardano un intero popolo. Un esempio del primo tipo è certamente <strong>la</strong> diceria <br />

che gli zingari rubano i bambini. Lo abbiamo sentito dire da quando siamo piccoli e nonostante le <br />

evidenze (non risulta che gli zingari portino via i bambini a nessuno, anzi, di solito li portano via a <br />

loro) molte persone ne sono fermamente convinte. Per quanto riguarda il secondo caso, possiamo <br />

immaginare qualcuno che abbia avuto una brutta esperienza con il livello di pulizia del<strong>la</strong> famiglia <br />

inglese che lo ha ospitato quando andò a seguire un corso di lingue a Londra e ne tragga <strong>la</strong> <br />

conclusione che tutti gli inglesi sono sporchi. Da questa prima analisi appare più chiaro anche quali <br />

possono essere le conseguenze nefaste di alcuni pregiudizi: mentre se abbiamo avuto una brutta <br />

esperienza con l’avocado, perché una volta siamo stati male dopo averlo mangiato e da allora <br />

diciamo in giro che non è un alimento digeribile, <strong>la</strong> cosa ha risvolti limitati; se diciamo invece che <br />

gli zingari rapiscono i bambini possiamo contribuire a scatenare un linciaggio. <br />

Ottimi pregiudizi <br />

Il pregiudizio però non ha sempre avuto il significato negativo che generalmente oggi gli <br />

attribuiamo, nel<strong>la</strong> tradizione giuridica per esempio pregiudizio è una decisione giudiziaria che <br />

precede il vero e proprio giudizio definitivo e, nel caso sia negativo, limita <strong>la</strong> probabilità di vincere. <br />

Da ciò deriva per esempio il significato del verbo pregiudicare in italiano, come si può vedere in <br />

frasi del tipo: “questo evento ha pregiudicato <strong>la</strong> riuscita dell’impresa”. Ma in questa accezione <br />

pregiudizio non significa affatto giudizio falso o infondato. <br />

Voltaire, nel Dizionario filosofico, ci offre altro materiale per riflettere sul pregiudizio affermando : <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

“Il pregiudizio è un’opinione <br />

non fondata su un giudizio, <br />

così, in tutto il mondo, si <br />

inculcano ai bambini tutte le <br />

opinioni che si vuole, prima <br />

che possano giudicare”. <br />

E aggiunge un’interessante <br />

riflessione sui pregiudizi non <br />

negativi, ovvero quelle <br />

opinioni che vengono <br />

inculcate da altri ma che non <br />

sono sbagliate, ma hanno anzi <br />

un importante valore sociale: <br />

“Ci sono pregiudizi universali, <br />

necessari, che sono <strong>la</strong> virtù <br />

stessa. In tutti i paesi si <br />

insegna ai bambini a a <br />

riconoscere un dio remuneratore e vendicatore, a rispettare e ad amare il padre e <strong>la</strong> madre; a <br />

considerare il furto come un delitto, <strong>la</strong> menzogna interessata come vizio, e ciò prima che possano <br />

intuire cos’è un vizio o una virtù. Ci sono dunque pregiudizi ottimi: quelli che il giudizio poi ratifica <br />

quando si ragiona.“ <br />

Non si nasce in uno spazio vuoto di cultura e di tradizioni, sembra dire Voltaire, e molto di quello <br />

che impariamo crescendo non lo impariamo per esperienza diretta ma perché qualcuno di cui ci <br />

fidiamo ce lo racconta. Insomma, buona parte del nostro sapere sembra fatto di pregiudizi. È <br />

nostro compito poi vagliare quello che ci è stato detto e mantenere di esso ciò che ci sembra <br />

valido. <br />

Pregiudizi pessimi <br />

<strong>La</strong> visione negativa del pregiudizio nasce con l’illuminismo e con l’idea cartesiana che l’unica <br />

conoscenza valida sia una conoscenza chiara e distinta, che non contenga nul<strong>la</strong> di cui si possa <br />

dubitare. <br />

L’importante principio che viene sancito da questa tesi è che <strong>la</strong> conoscenza deve prescindere dal <br />

ricorso all’autorità e deve invece basarsi sul<strong>la</strong> capacità di pensare con <strong>la</strong> propria testa. <strong>La</strong> frase del <br />

filosofo Immanuel Kant che ha fatto da epigrafe a tutto il periodo dei lumi è infatti : abbi il <br />

coraggio di servirti del tuo proprio intelletto. <br />

Il richiamo a servirsi del proprio intelletto era certo necessario a fronte di quanto accadeva per <br />

esempio nel campo del<strong>la</strong> scienza, dove resta memorabile il racconto che fa Galileo nel Dialogo dei <br />

massimi sistemi, narrando di una seduta di anatomia a cui partecipavano un medico e un filosofo <br />

aristotelico. Il medico, dopo aver sezionato un cadavere e aver mostrato chiaramente che i nervi <br />

partono dal cervello e si irradiano per <strong>la</strong> spina dorsale, chiese al filosofo se, grazie al<strong>la</strong> <br />

dimostrazione, si fosse convinto che i nervi partono, appunto, dal cervello e non dal cuore, come <br />

sosteneva invece Aristotele. A quel punto il filosofo disse che il medico gli aveva fatto vedere le <br />

cose in modo tanto convincente che, se il testo di Aristotele non avesse affermato chiaramente il <br />

contrario, e cioè che i nervi nascono dal cuore, avrebbe dovuto dargli ragione. Questo esempio ci <br />

permette di vedere un effetto straordinario dei pregiudizi: in determinate circostanze, se sono <br />

molto forti e radicati e basati su un’autorità indiscussa, essi hanno il potere di determinare <br />

addirittura quello che vediamo. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Pregiudizi e conoscenza <br />

Ma dove ci porta questa revisione dei pregiudizi? Al fatto che quando parliamo dei pregiudizi in <br />

realtà ci stiamo occupando del modo in cui conosciamo. E ci rendiamo conto che oscilliamo tra <br />

l’inevitabilità, e persino l’utilità dei pregiudizi, e l’effetto di chiusura e di limitazione che essi <br />

possono comportare. Non possiamo avere una visione chiara e distinta di ogni cosa, anzi, sono <br />

davvero molto poche le cose di cui possiamo avere almeno una ragionevole certezza, e proprio nei <br />

campi che più ci stanno a cuore, quelli delle re<strong>la</strong>zioni e delle scelte esistenziali. Quando avremo <br />

mai una conoscenza chiara e distinta, in modo da non poterne dubitare, del fatto che nostra figlia <br />

a quattordici anni è ancora troppo picco<strong>la</strong> per andare con le sua amiche da so<strong>la</strong> ad un concerto in <br />

un’altra città? Oppure che è opportuno iniziare una re<strong>la</strong>zione con una persona o decidere di <br />

<strong>la</strong>sciar<strong>la</strong>? In tutti questi casi ci basiamo su considerazioni parziali, sul parere dei nostri amici, degli <br />

oroscopi, oppure ancora degli “esperti” di educazione o di re<strong>la</strong>zioni sentimentali, che alle volte <br />

agiscono su di noi esattamente come gli scritti di Aristotele sul filosofo del dialogo galileiano. E <br />

forse dobbiamo accettare che i pregiudizi ci determinino più di quanto vorremmo, e fare i conti <br />

con i rischi che questa situazione comporta. <br />

Pregiudizi invisibili <br />

<strong>La</strong> portata dei pregiudizi va però forse al di là di quello che abbiamo visto finora. Ci sono pregiudizi <br />

che hanno <strong>la</strong> caratteristica di essere invisibili ad una intera cultura. Ossia opinioni di cui si è <br />

assolutamente certi, ma che in realtà sono il prodotto di uno sguardo limitato. Un esempio di <br />

questa situazione-­‐limite del pregiudizio appare a mio parere in un testo in cui Bateson riflette sulle <br />

ricerche antropologiche degli anni venti. Bateson, nel suo saggio Contatto tra culture e <br />

schismogenesi contenuto in Verso un’ecologia del<strong>la</strong> mente, critica l’idea che una cultura possa <br />

essere divisa in “istituzioni”, come veniva fatto da diverse scuole antropologiche che cercavano di <br />

individuare, per esempio, <strong>la</strong> sfera economica, quel<strong>la</strong> religiosa ecc. <br />

Ritengo che gli appartenenti al<strong>la</strong> London School […] seguano ancora una teoria secondo <strong>la</strong> quale <br />

tale divisione è in certa misura possibile. Può darsi che <strong>la</strong> confusione nasca dal fatto che certe <br />

popo<strong>la</strong>zioni indigene (forse tutte, ma si<strong>cura</strong>mente quelle dell’Europa occidentale) ritengono <strong>la</strong> loro <br />

cultura effettivamente suddivisa a quel modo. Anche svariati fenomeni culturali contribuiscono in <br />

certa misura a tale suddivisione: ad esempio[…] il rilievo dato presso certe culture alle suddivisioni <br />

di luogo e di tempo secondo cui è ordinato il comportamento. Questi fenomeni implicano, in <br />

siffatte culture, <strong>la</strong> possibilità di qualificare, per esempio, ogni comportamento che si tenga in <br />

chiesa tra le 11.30 e le 12.30 del<strong>la</strong> domenica come ‘religioso’. <br />

Siccome gli abitanti dell’Europa occidentale hanno costruito una cultura strutturata in un certo <br />

modo, non sono in grado di pensare che altre culture possano essere strutturate in modi diversi. <br />

Sono prigionieri di un pregiudizio talmente grande da diventare invisibile. E forse questo è il tipo <br />

di pregiudizio più pericoloso, perché è difficilissimo da vedere ma proprio per questo agisce con <strong>la</strong> <br />

forza di una certezza incontestabile, anzi, addirittura non può essere messo in discussione perché <br />

nessuno sa che esiste. Gli effetti di questo tipo di pensiero possono essere devastanti se applicati <br />

alle re<strong>la</strong>zioni tra culture diverse e non mi sento di escludere che una delle sue conseguenze possa <br />

essere l’idea, che pare appunto ovvia e chiara, al punto che anche sollevare il minimo dubbio su di <br />

essa sembra un atto insensato, che <strong>la</strong> democrazia come è stata sviluppata in occidente sia per <br />

forza <strong>la</strong> migliore forma di governo e che, in quanto tale, debba essere imposta a tutti. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

I pregiudizi del counsellor <br />

Facciamo ancora un passo e proviamo ad <br />

interrogarci su cosa possa servire questa <br />

riflessione sui pregiudizi ai counsellor. <strong>La</strong> <br />

riflessione sul pregiudizio, come abbiamo <br />

cercato di rendere visibile con questo <br />

articolo, costringe a farsi domande più <br />

complesse sul modo in cui conosciamo e <br />

sul modo in cui valutiamo le nostre <br />

conoscenze. Ci permette anche di vedere <br />

che, facendo un <strong>la</strong>voro in cui l’accoglienza <br />

è una delle componenti principali, <br />

dobbiamo stare in guardia nei confronti <br />

dei nostri pregiudizi: quel<strong>la</strong> signora <br />

benvestita che viene a raccontarci dei <br />

problemi che ha con sua figlia farebbe bene <br />

a dedicarle un po’ più di tempo invece di <br />

passare le giornate, come certamente fa, <br />

dall’estetista e dal<strong>la</strong> parrucchiera… quel <br />

signore che si <strong>la</strong>menta del<strong>la</strong> moglie ha un <br />

bel dire, lui fa carriera e lei se ne sta a casa <br />

ad occuparsi dei figli… <br />

Dobbiamo, per quanto possibile, <br />

conoscere i nostri pregiudizi e per <br />

conoscere loro dobbiamo conoscere meglio noi stessi, perché è (anche) di questi pregiudizi che <br />

siamo fatti. Ma una seria riflessione sui pregiudizi ci aiuta a vedere che possiamo essere incapaci <br />

di accogliere non solo le persone verso le quali abbiamo pregiudizi, ma anche quelle che hanno <br />

pregiudizi. Insomma, noi che non abbiamo (quasi) più pregiudizi perché abbiamo <strong>la</strong>vorato su noi <br />

stessi, potremmo rischiare di non riuscire ad ascoltare con <strong>la</strong> sufficiente apertura e attenzione <br />

qualcuno che, mentre ci racconta dei problemi che ha sul <strong>la</strong>voro, si <strong>la</strong>menta dei cinesi che gli fanno <br />

concorrenza. Come counsellor insomma dobbiamo fare attenzione a tenere a bada anche i nostri <br />

pregiudizi contro i pregiudizi. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Pregiudizio ed etica <br />

Sandro Spinsanti <br />

Si può vivere secondo due modalità fondamentali: slow e fast. <strong>La</strong> prima è nobile e prestigiosa: <br />

implica capire il mondo e riflettere prima di agire. <strong>La</strong> modalità fast ha invece il vantaggio del<strong>la</strong> <br />

praticità. E’ molto allettante, se cerchiamo soluzioni sbrigative, che ci vengano servite su un piatto, <br />

pronte all’uso. Qualora decidessimo di vivere fast, <strong>la</strong> nostra principale risorsa è il pregiudizio. <br />

Veniamo dispensati dal <strong>la</strong>borioso percorso che porta al<strong>la</strong> formu<strong>la</strong>zione di un giudizio. <br />

Dove attingere quell’impareggiabile “pre”, che ci semplifica <strong>la</strong> vita? Dal<strong>la</strong> società, anzitutto. Ed <br />

eccoci nel vasto campo degli stereotipi sociali. Secondo un efficace principio di economia, ci <br />

evitano di dover riflettere su ogni aspetto del<strong>la</strong> realtà. Ci hanno par<strong>la</strong>to del mondo, prima di <br />

farcelo vedere. Prima di sperimentare, <br />

immaginiamo; e quanto si trova già nel<strong>la</strong> <br />

nostra mente guida il processo del<strong>la</strong> <br />

percezione. In pratica, per lo più vediamo <br />

ciò che conosciamo. Gli stereotipi sociali <br />

hanno un carattere “pietrificato”, come <br />

suggerisce il nome stesso. Gli attributi con <br />

cui definiamo il Nero, o l’Ebreo, o <strong>la</strong> Donna <br />

– come tutte le opinioni o i giudizi che i <br />

gruppi sociali hanno gli uni sugli altri – <br />

sono fondamentalmente rassi<strong>cura</strong>nti. E le <br />

interazioni sociali servono a rafforzarli. <br />

Un secondo terreno fecondo per i “pre” è <br />

costituito dal<strong>la</strong> struttura psicologica <br />

personale. Da decenni <strong>la</strong> psicologia sociale <br />

<strong>la</strong> studia, a partire dal c<strong>la</strong>ssico <strong>La</strong> natura del pregiudizio di G. W. Allport, che risale al 1954. E’ stata <br />

così analizzata <strong>la</strong> “disposizione mentale” (in inglese attitude) che rende possibile organizzare le <br />

opinioni in funzione di certi bisogni del<strong>la</strong> personalità. Come <strong>la</strong> rego<strong>la</strong> del “minimo sforzo” nel<strong>la</strong> <br />

comprensione dei comportamenti altrui. Il pregiudizio semplifica, fornendo categorie definitive <br />

che permettono di c<strong>la</strong>ssificare le persone e di spiegare con semplicità i comportamenti (“Non <br />

stupisce che agisca così. Perché è … “. Segue pregiudizio). Inoltre il pregiudizio ha una funzione di <br />

integratore sociale: mi permette di sentirmi molto più vicino a certi gruppi e di rifiutarne altri. <br />

Un posto privilegiato per il “pre” è quello che lo colloca davanti al giudizio morale. Entriamo qui <br />

nel terreno dell’etica. Non scandalizziamoci: i giudizi morali che formuliamo sono per lo più dei <br />

pre-­‐giudizi. Il nostro narcisismo è già sufficientemente umiliato da quegli studi che si chiamano di <br />

filosofia morale sperimentale, che si propongono di ricostruire l’origine delle norme morali nelle <br />

società umane. Restiamo senza parole quando ci rendiamo conto che il buon profumo che esce da <br />

un forno ci dispone a far l’elemosina in modo più generoso che se stazionassimo di fronte a un <br />

gelido edificio (cfr. Ruwen Ogien: Del profumo dei croissants caldi e delle conseguenze sul<strong>la</strong> bontà <br />

umana, <strong>La</strong>terza 2012). Ma soprattutto, ricostruendo il percorso che hanno fatto i giudizi morali <br />

prima che li riconoscessimo come nostri e ci disponessimo a difenderli con le unghie e con i denti, <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

dobbiamo riconoscere le derivazioni e i prestiti. Dal<strong>la</strong> famiglia, dagli educatori, dalle <br />

aggregazioni umane nelle quali siamo stati socializzati. <br />

Le professioni sono una fucina molto efficiente di pre-­‐giudizi morali. Quelle prestigiose, come le <br />

professioni di <strong>cura</strong>, in partico<strong>la</strong>r modo. Insieme alle regole tecniche dell’arte sanitaria si <br />

assimi<strong>la</strong>no – per lo più in modo indiretto e inconsapevole – quelle norme comportamentali che <br />

guidano a un giudizio morale in modalità fast. Alcune regole si rafforzano inoltre in una <br />

deontologia professionale, che orienta verso giudizi immediati. Un esempio solo, tra i tanti. <br />

Prendiamo <strong>la</strong> delicata questione del<strong>la</strong> comunicazione del<strong>la</strong> diagnosi. Che cosa è giusto fare di <br />

fronte a un ma<strong>la</strong>to che non ha le stesse informazioni -­‐ catastrofiche, nei casi estremi – che ha il <br />

professionista? Generazioni di medici si sono sottratti al ginepraio di queste situazioni <br />

trasmettendo gli uni agli altri <strong>la</strong> certezza che il dovere morale del medico era di gestire le <br />

informazioni attenendosi a ciò che riteneva essere il bene del paziente. In base al<strong>la</strong> certezza che <br />

fosse meglio non conoscere ciò che incombeva, diagnosi reticenti e vere e proprie menzogne sono <br />

state somministrate con tranquil<strong>la</strong> coscienza. Infrangere quel pre-­‐giudizio, prodotto da un’etica <br />

paternalistica che si alimentava di certezze professionali, e promuovere un’informazione onesta e <br />

veritiera è stata un’impresa ardua del<strong>la</strong> bioetica. Ed è un compito tutt’altro che concluso. <br />

L’alternativa è forse quel<strong>la</strong> di affondare nelle sabbie mobili dei casi partico<strong>la</strong>ri, tanto unici che <br />

nessuno è simile a un altro? Non necessariamente. Ciò che precede il giudizio morale – il “pre”, <br />

appunto – è prezioso. Soprattutto se è condiviso in un ambito culturale e da un intero corpo <br />

professionale. Non ci possiamo permettere l’ingenuità di credere che il giudizio corretto sia <br />

quello che si sviluppa dopo che abbiamo eliminato il pregiudizio. L’ingenuo di Voltaire – l’Urone <br />

selvaggio che dal Nord America sbarca nel<strong>la</strong> Francia del Re Sole – fa rapidi progressi nel<strong>la</strong> propria <br />

educazione proprio perché non ha pregiudizi: “Siccome non aveva imparato nul<strong>la</strong> da bambino, non <br />

aveva nessun pregiudizio”; vedeva le cose come sono, “mentre le idee che ci sono state instil<strong>la</strong>te <br />

dall’infanzia ce le fanno vedere per tutta <strong>la</strong> vita come non sono”. Sappiamo quanto Voltaire sia <br />

maligno e insidioso: meglio diffidare dell’ingenuità da lui proposta… Atteniamoci a un giudizio che <br />

non è l’antitesi del pregiudizio. Lo ingloba, piuttosto; lo confronta, lo corregge, lo e<strong>la</strong>bora. <br />

L’importante è <strong>la</strong> consapevolezza del suo carattere pre-­‐liminare. E soprattutto essere disposti a <br />

rimetterlo in discussione. Il pericolo da evitare porta il nome di Procuste. Sì, quel simpaticone di <br />

cui ci hanno raccontato gli antichi: aveva un letto a misura unica; prendeva i malcapitati che <br />

incontrava per strada e ve li stendeva sopra. I più lunghi li segava, i più corti li stirava. I nostri pre-­giudizi<br />

teniamoceli cari. Ma senza farli diventare un letto di Procuste. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Una timida difesa del pregiudizio <br />

Giorgio Bert <br />

Sherlock Holmes e Gregory Bateson <br />

Uno dei principi fondamentali del celebre investigatore, padre di innumerevoli detective letterari, <br />

era quello di affrontare ogni indagine con <strong>la</strong> mente totalmente sgombra da preconcetti e <br />

pregiudizi. E in perfetta neutralità cognitiva, Holmes osservava, prendeva nota dei fatti, li <br />

connetteva in una prima molto provvisoria ipotesi, da cui nasceva l’attiva ricerca di altri fatti o <br />

indizi, atti a confermare oppure a falsificare quel<strong>la</strong> ipotesi per sostituir<strong>la</strong> con un’altra più completa. <br />

Se uno giunge sul campo con dei pregiudizi, ragionava Holmes, rischia – come invariabilmente <br />

facevano Watson o gli ispettori Gregson e Lestrade -­‐ di raccogliere più o meno inconsapevolmente <br />

solo gli indizi atti a confermare l’ipotesi già costruita sottovalutando o scartando gli altri. <br />

I “fatti” non par<strong>la</strong>no da soli: par<strong>la</strong>no con <strong>la</strong> voce di chi li seleziona e li connette. I “fatti” da soli <br />

forse neanche esistono, come suggerisce <strong>la</strong> stessa etimologia del termine: un “fatto” prevede in <br />

effetti qualcuno che lo abbia appunto fatto; in altri termini un fatto è sempre l’opera di qualcuno. <br />

<strong>La</strong> logica conseguenza, è che ogni fatto esiste solo in re<strong>la</strong>zione con altri fatti e con chi lo descrive. E <br />

qui arriviamo a Bateson, secondo cui l’oggetto come oggetto in sé e per sé, non esiste, ma esiste <br />

una re<strong>la</strong>zione continua e reciproca tra “soggetto” ed “oggetto”. <br />

Come per Sherlock Holmes, per Bateson non sono centrali gli oggetti ma le connessioni tra di <br />

essi. Siccome avviene che i fatti possano venire connessi in molteplici modi diversi che definiscono <br />

diverse strutture possibili, il procedimento mentale più corretto prevede <strong>la</strong> selezione, l’analisi e <br />

l’eventuale eliminazione di ognuna di queste strutture, a cominciare paradossalmente da quelle <br />

più probabili. Una volta scartate quelle che non reggono ad un esame privo di pregiudizi, ciò che <br />

resta, per improbabile che sia, deve essere <strong>la</strong> verità. Sherlock dixit. <br />

In modo analogo, <strong>la</strong> visione sistemica del<strong>la</strong> realtà propria di Bateson gli suggerisce che, se in una <br />

ipotesi per quanto ben fatta qualcosa non quadra, ciò che è davvero importante è appunto questo <br />

“qualcosa”. L’eccezione non conferma <strong>la</strong> rego<strong>la</strong>, come direbbero Watson o Lestrade, ma al <br />

contrario <strong>la</strong> mette in discussione, e obbliga a una nuova connessione dei fatti che includa <br />

l’eccezione. <br />

Ragionare come Holmes o Bateson è scomodo e faticoso. Ad esempio, se c’è stato un furto in un <br />

appartamento e nelle vicinanze c’è un campo Rom, i Watson e i Lestrade avranno poche esitazioni <br />

a costruire ipotesi destinate ad autoconferma; i Bateson e gli Holmes non daranno invece nul<strong>la</strong> per <br />

scontato e cercheranno prove e indizi che vadano contro quelle ipotesi con <strong>la</strong> mente sgombra da <br />

preconcetti, cosa che li porrà in conflitto con i Watson e i Lestrade, che sono molti molti di più… <br />

Difficile e scomodo, dicevo: un siffatto modo di procedere va contro <strong>la</strong> saggezza popo<strong>la</strong>re del tipo <br />

“dove c’è fumo c’è fuoco”… <br />

“Solo le persone superficiali non si fidano delle apparenze” diceva Oscar Wilde; e un detto molto <br />

noto tra gli scienziati recita “Se sentite rumore di zoccoli, non pensate alle zebre”, perché certo, <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

almeno dalle nostre parti, è più probabile che si tratti di cavalli, asini, muli… Forse nel<strong>la</strong> savana le <br />

cose saranno diverse. <br />

Per ragionare come Holmes e Bateson è necessario, secondo me, un pizzico di follia… Per Bateson <br />

nel<strong>la</strong> mano erano importanti, più che le dita, gli spazi (le re<strong>la</strong>zioni) tra le dita… Per Holmes era <br />

un indizio fondamentale il cane che “non” aveva abbaiato… Strani personaggi davvero, <strong>la</strong> cui <br />

mente seguiva percorsi singo<strong>la</strong>ri ed eccentrici, più creativi che poggiati su luoghi comuni e su dotte <br />

citazioni. Holmes asseriva che “non gli interessava acquisire quelle nozioni che non erano <br />

pertinenti al suo scopo”: amava <strong>la</strong> musica e <strong>la</strong> cocaina, sapeva tutto sulle ceneri dei vari tipi di <br />

tabacco ma, come annotava diligentemente Watson, “Conoscenza del<strong>la</strong> letteratura, zero; del<strong>la</strong> <br />

filosofia, zero; dell’astronomia, zero; del<strong>la</strong> politica, scarsa…” Anche Bateson, a dire del<strong>la</strong> figlia, era <br />

un uomo “di non vaste letture”… Come se né Sherlock né Gregory traessero convinzioni (e <br />

pregiudizi) dal mondo “lì fuori” o avessero comunque bisogno di “carburante” esterno: il loro <br />

motore era autoalimentato… <br />

Re<strong>la</strong>zioni e connessioni <br />

Può sembrare paradossale, ma pare che personaggi di questo genere, privi di pregiudizi e attenti <br />

alle re<strong>la</strong>zioni e alle connessioni, abbiano parecchie difficoltà a stabilire re<strong>la</strong>zioni buone abbastanza <br />

essi stessi. <br />

Nel caso di Sherlock, personaggio letterario, <strong>la</strong> cosa è esplicita: il suo distacco da ogni legame <br />

emotivo è ai limiti dello spettro autistico. Non gli <br />

si conoscono infatti re<strong>la</strong>zioni emotivamente <br />

intense, se si eccettua forse quel<strong>la</strong>, tutta <br />

intellettuale, con Irene Adler, da cui deriva uno <br />

dei suoi pochi pregiudizi (qualcuno ne ha anche <br />

lui…): “Non bisogna mai fidarsi completamente di <br />

una donna, nemmeno del<strong>la</strong> migliore.” <br />

Quanto a Bateson, pensate che sia facile stabilire <br />

una re<strong>la</strong>zione con una persona che va in primo <br />

luogo in cerca delle dissonanze rispetto alle <br />

aspettative? A leggere i ricordi del<strong>la</strong> figlia, il suo <br />

amore per Margaret Mead sembra essere stato <br />

quasi altrettanto intellettuale quanto quello di <br />

Sherlock per Irene Adler, figli a parte… E sempre <br />

che non prendiamo per buona l’ipotesi, affacciata <br />

da un “biografo”, che Nero Wolfe, altro celebre <br />

detective letterario, fosse in realtà figlio di <br />

Sherlock e di Irene… <br />

Viene lecito chiedersi a questo punto se <strong>la</strong> <br />

“mente sgombra” da preconcetti e pregiudizi sia <br />

una condizione vantaggiosa o non possa <br />

diventare piuttosto un ostacolo nel<strong>la</strong> vita reale. <br />

Idee ricevute e pregiudizi-­‐mito <br />

I pregiudizi sono prodotti storici. Nessuno di noi è in nessun momento indenne dal<strong>la</strong> storia e <br />

dal<strong>la</strong> cultura. Quello che definiamo orgogliosamente “io” è un patchwork provvisorio composto da <br />

elementi diversi: una struttura biologica che definiamo “organismo”, che come sappiamo si <br />

modifica col tempo e muore; una identità anagrafica; un’identità narrativa, fatta di ricordi (più o <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

meno veri), di convinzioni, di storie e di valori familiari che si trasmettono per generazioni; di <br />

esperienze vissute e narrate; di solide certezze ricevute e autoprodotte; di strutture culturali; di <br />

re<strong>la</strong>zioni e di contesti sociali e ambientali; di aspettative e proiezioni nel futuro; di emozioni… <br />

Tutti questi “pezzi” variano costantemente e costantemente interagiscono tra loro, facendo del<strong>la</strong> <br />

nostra identità una struttura non molto più solida di uno sciame di moscerini, seppur di più lunga <br />

durata: esclusa <strong>la</strong> struttura biologica infatti, ogni altro elemento del<strong>la</strong> nostra identità si prolunga <br />

nel passato e nel futuro. <br />

Ovvio che questa struttura complessa si tenga insieme con modalità varie e diverse: tra questi ci <br />

sono i pregiudizi. <br />

È praticamente impossibile affrontare “a mente sgombra” <strong>la</strong> complessità nostra e quel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> <br />

realtà in cui ci dobbiamo muovere perché è essa che dà senso al<strong>la</strong> nostra esistenza. <strong>La</strong> “mente <br />

sgombra” non esiste, è un’astrazione. Esistiamo sempre “in funzione di… In re<strong>la</strong>zione con…” <br />

Nell’affrontare un territorio, <strong>la</strong> vita, <strong>la</strong>rgamente ignoto è necessario tracciare una mappa, per <br />

quanto grezza e immaginaria, che ci permetta di muoverci una volta oltrepassata <strong>la</strong> ”linea <br />

d’ombra” dove si fermano le impronte di coloro che ci hanno preceduto. <br />

A queste “impronte” bene o male spesso ci riferiamo per costruire <strong>la</strong> nostra mappa: “se” fin qui si <br />

è proceduto, altri hanno proceduto in questo modo, “allora” proviamo a vedere se continua a <br />

funzionare anche nel<strong>la</strong> terra incognita. <br />

Davanti a questo confine, a questa soglia, sono possibili atteggiamenti diversi. <br />

Uno tra i più diffusi fa del “se”…”allora”… una legge immutabile, un principio, anzi <strong>la</strong> so<strong>la</strong> busso<strong>la</strong> <br />

possibile: se ha funzionato allora funzionerà… Il passato prefigura il futuro, il prima il dopo. <br />

Un esempio storico ben noto è <strong>la</strong> convinzione, durata quasi due millenni, che non vi fosse <br />

conoscenza scientifica possibile che non si basasse sul pensiero di Aristotele; per il resto bastava <strong>la</strong> <br />

Bibbia.<br />

Lo sforzo di far quadrare il pensiero scientifico con <strong>la</strong> filosofia aristotelica, un pregiudizio diventato <br />

legge e mito, è stato un serio ostacolo al progresso del<strong>la</strong> conoscenza; e tuttavia quando Galileo lo <br />

ha messo esplicitamente in dubbio ha avuto, come si sa, non poche grane. <br />

Ecco: un pregiudizio che diventa valore indiscusso e indiscutibile, un pregiudizio-­‐mito, costruisce <br />

un atteggiamento dogmatico comodo ma pericoloso. Comodo perché riduce <strong>la</strong> fatica di pensare <br />

in proprio; dannoso perché i dogmatici hanno <strong>la</strong> perniciosa abitudine di considerare eretici e <br />

nemici quelli che scelgono altre vie rispetto al<strong>la</strong> loro, e di combatterli anche, se possibile, fino allo <br />

sterminio. <br />

Questo tipo di pregiudizio coincide in genere con le cosiddette idee ricevute: quelle convinzioni <br />

banali, quei luoghi comuni che a forza di sentirli ripetere uno finisce col pensare che siano concetti <br />

veri o comunque “normali”. <br />

Col termine “luogo comune” si intendeva un tempo <strong>la</strong> piazza: uno spazio che tutti condividevano e <br />

dove si riversavano e si scambiavano idee e convinzioni che finivano per diventare patrimonio <br />

collettivo accettato da tutti. Ogni piazza si poneva in contrapposizione ad altre piazze simili situate <br />

altrove, dove si scambiavano altre e diverse idee e convinzioni; <strong>la</strong> piazza era quindi anche il luogo <br />

comune dove nascevano e si ampliavano emozioni aggressive quali xenofobia e razzismo. <br />

A questo tipo di pregiudizio, dogmatico e superstizioso, che vedeva ovunque nemici, eretici, <br />

infedeli, ha tentato di replicare l’Illuminismo, proponendo <strong>la</strong>icamente <strong>la</strong> ragione come unico <br />

strumento di conoscenza. <br />

Ma far coincidere i pregiudizi con il dogmatismo irrazionale è altrettanto comodo del <br />

dogmatismo stesso e inoltre presenta dei rischi, il principale dei quali è ovviamente <strong>la</strong> <br />

paradossale nascita di un dogmatismo antidogmatico. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Non basta <strong>la</strong> ragione a difenderci dai pregiudizi trasformati in valori immodificabili: occorre <br />

apprendere e praticare uno scetticismo aperto e curioso che consenta di sospendere il giudizio, <br />

incluso il pre-­‐giudizio. <br />

Pregiudizi come mappa <br />

Rifiutare i pregiudizi-­‐mito, immodificabili e indiscutibili, non significa non porre mai giudizi a <br />

priori: manovra che del resto sarebbe impossibile, non foss’altro perché spesso avviene in modo <br />

inconsapevole. <br />

Per fare un esempio, l’incontro con altre persone mette in moto una serie di valutazioni che <br />

riguardano aspetti diversi: il modo di vestirsi e di par<strong>la</strong>re, l’accento, il tono del<strong>la</strong> voce, l’aspetto <br />

fisico, <strong>la</strong> gestualità, il giornale che hanno in tasca, <strong>la</strong> professione che esercitano… Prima ancora che <br />

una vera e propria interazione abbia inizio è già in atto un processo comunicativo subdolo, che fa <br />

sì che anche il primo intervento sia già in qualche modo “viziato” da pre-­‐giudizi. <br />

È una cosa negativa? Io non credo. O per lo meno non lo è se evitiamo risposte spontanee <br />

automatiche. Sospendere il giudizio non significa eliminare il giudizio. Non si può negare che <br />

l’altro, o gli altri, o in generale il mondo esterno, quello che c’è “lì fuori” provochi in noi emozioni <br />

più o meno intense. È di fatto impossibile assumere <strong>la</strong> posizione di osservatore neutrale, anche <br />

perché un osservatore davvero neutrale, qualora esistesse, non potrebbe muovere un passo in <br />

quel territorio che è il mondo “lì fuori”. Se qualsiasi direzione equivale a qualsiasi altra direzione, <br />

non esiste nessuna direzione, non si va verso nessun luogo e si è condannati, come il proverbiale <br />

asino di Buridano, all’immobilità fatale… Fortunatamente, fuor di metafora restare immobili non si <br />

può: occorre sempre e comunque scegliere, decidere, scommettere. <br />

Se i pregiudizi non si possono eliminare, restano due cose possibili: una consiste nell’attaccarsi ai <br />

pregiudizi-­‐mito utilizzandoli come segnali per tracciare un percorso. Questa scelta funziona <br />

malissimo e dissemina più ostacoli di quanto non tracci sentieri. Come si è visto, anche ancorare <strong>la</strong> <br />

conoscenza al pensiero di un grandissimo filosofo come Aristotele ne ha rallentato, non facilitato il <br />

cammino. <br />

L’altra possibilità è <strong>la</strong> <br />

scommessa. Qui i pre-­‐giudizi <br />

(il trattino riporta al <br />

significato originale, non <br />

negativo, del termine) non li <br />

copiamo dai miti del <br />

passato ma ce li <br />

fabbrichiamo noi; e siccome <br />

di fatto, come si è visto, non <br />

possiamo non inventarceli, <br />

sia pure in modo <br />

<strong>la</strong>rgamente inconscio, il <br />

primo passo è quello di <br />

portarli in superficie, di <br />

conoscerli, di renderli <br />

consapevoli. <br />

A questo punto i pre-­‐giudizi <br />

funzionano come gli indizi <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

per Sherlock Holmes: come il grande investigatore proviamo a connetterli e a vedere che <br />

struttura, che ipotesi ne nasce. <br />

Sarà probabilmente una struttura sbilenca, che nel migliore dei casi ci consentirà di fare un primo <br />

timido mezzo passo nell’ignoto, di tracciare una prima crocetta nel<strong>la</strong> nostra mappa immaginaria. <br />

Insomma, non possiamo fare a meno dei pre-­‐giudizi se vogliamo scommettere sul percorso… Il <br />

rischio è ovviamente quello di innamorarci dei nostri stessi pre-­‐giudizi e di considerarli i soli segnali <br />

attendibili, trasformandoli così in pregiudizi (senza trattino) intesi in senso negativo. A questo <br />

punto troveremo o selezioneremo solo gli elementi che li confermano e <strong>la</strong> strada diventerà unica e <br />

obbligata. Una strada comoda e facile, che permetterà di guardare con ironia e disprezzo se non <br />

con decisa avversione tutti quelli che tentano strade diverse. <br />

Qui ci vengono in aiuto Sherlock e Gregory: il cane che non ha abbaiato, le re<strong>la</strong>zioni tra le dita e <br />

non le dita. <strong>La</strong> domanda dell’esploratore curioso non è “ cosa vedo?” ma “cosa è che non ho <br />

visto? C’è qualcosa che non quadra con <strong>la</strong> mia ipotesi?” <br />

Come nel caso del cane holmesiano, capita che sia proprio quello l’elemento importante che <br />

permette di vincere <strong>la</strong> sommessa. <br />

Dai pre-­‐giudizi insomma, visto che non possiamo eliminarli, possiamo imparare: se il pregiudizio ci <br />

insegna che i cani in presenza di estranei abbaiano, un cane che non abbaia può voler dire, come <br />

pensa Watson, che quel<strong>la</strong> notte non è successo nul<strong>la</strong> di partico<strong>la</strong>re; ma può significare anche che è <br />

successo qualcosa di nuovo, di inatteso, che dobbiamo scoprire. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Viaggio nel<strong>la</strong> Costel<strong>la</strong>zione Felix (Dove intelligenza emotiva, <br />

sociale, sistemica, non sono cose “dell’altro mondo”) <br />

Marianel<strong>la</strong> Sc<strong>la</strong>vi <br />

In occasione di un corso su vita quotidiana e creatività svolto un paio di anni fa al Museo <br />

Guggenheim, a Venezia, mi sono posta il problema di come rappresentare graficamente i principali <br />

concetti sui quali intendevo far riflettere i partecipanti, in modo da comunicare l’impatto di <br />

energia che nel loro insieme e con le loro dinamiche questi concetti immettono nelle vite <br />

individuali e sociali: un invito a compiere una specie di salto nell’iperspazio, in un’altra <br />

costel<strong>la</strong>zione. <br />

Avevo in mente due punti di partenza, da un <strong>la</strong>to i sei concetti che si erano venuti accumu<strong>la</strong>ndo <br />

negli anni e che sono (in ordine di apparizione): Metodologia Umoristica, Ascolto Attivo, <br />

Cambiamento 2 , Autoconsapevolezza Emozionale, Bisociazione (collegata ad Abduzione) e <br />

Forma Multistabile (collegata ad Analisi Variazionale) e dall’altro il famoso slogan di Kurt Lewin <br />

re<strong>la</strong>tivo ai cambiamenti di abitudini profondamente radicate “Sconge<strong>la</strong>re/cambiare/riconge<strong>la</strong>re.” <br />

Il corto circuito nasce dal<strong>la</strong> constatazione che ognuno di questi concetti è a modo suo “corposo” <br />

ovvero rimanda a dinamiche di conoscenza di noi stessi e del mondo che hanno al centro le <br />

danze dei corpi e il dialogo con le emozioni e che questa specifica corposità è descrivibile come il <br />

frutto di una serie di processi di sconge<strong>la</strong>mento di specifiche dicotomie sulle quali si imperniava <br />

<strong>la</strong> epistemologia di partenza. Quel<strong>la</strong> che ho chiamato “Costel<strong>la</strong>zione Felix” nasce dunque dal<strong>la</strong> <br />

parente<strong>la</strong> fra tutti questi concetti che incorporano il ricordo dei passaggi dai quali sono scaturiti. <br />

Nessuno dei sei “astri” che compongono <strong>la</strong> costel<strong>la</strong>zione (con <strong>la</strong> dicotomia che ognuno contiene in <br />

pancia) è comprensibile separatamente da tutti gli altri; non si riesce a praticare l’esperienza al<strong>la</strong> <br />

quale uno solo si riferisce, senza mettersi in sintonia con l’intera concertazione astrale. In un certo <br />

senso bisogna chiudersi una porta alle spalle ed entrare in un altro mondo e in un altro senso <br />

però, il mondo di prima non viene cancel<strong>la</strong>to. In un’unica rappresentazione si riesce a visualizzare <br />

un’epistemologia dei sistemi semplici e una dei sistemi complessi e come <strong>la</strong> seconda si sviluppa <br />

come una trasformata del<strong>la</strong> prima. Questo mi piace, mi pare utile e illuminante. <br />

Nel grafico che qui presento il concetto centrale, il sole attorno al quale ruotano gli altri astri, è <br />

quello di “figura multi/stabile”, che corrisponde al superamento del<strong>la</strong> dicotomia <br />

soggettivo/oggettivo e al principio che una descrizione adeguata di un fenomeno complesso <br />

richiede che esso venga visto come minimo da due punti di vista divergenti e possibilmente tutti i <br />

punti di vista in gioco. L’esercizio che <strong>la</strong> Costel<strong>la</strong>zione Felix invita a fare consiste nel descrivere dei <br />

casi concreti, possibilmente molto quotidiani a banali, da prendere come base per interrogarsi sui <br />

nessi che connettono fra loro i vari astri e in partico<strong>la</strong>re quello centrale con tutti gli altri. <br />

E’ – per esempio-­‐ abbastanza evidente che non è possibile praticare l’ascolto attivo se si rimane <br />

bloccati in un atteggiamento giudicante, focalizzato sul giusto/sbagliato, vero/falso, e che una <br />

epistemologia che ridefinisce <strong>la</strong> realtà in termini di figure multi-­‐stabili, è davvero utile per <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

accogliere posizioni divergenti come contributi al<strong>la</strong> esplorazione e moltiplicazione dei punti di <br />

vista. <br />

Se vai a vedere cosa contiene in pancia il termine Bisociazione, ti accorgi che nell’altro universo <br />

c’era il domino del<strong>la</strong> dicotomia “induttivo/deduttivo”; <strong>la</strong> quale è collegata al (anzi produttrice del) <br />

divieto del paradosso logico, il quale proprio grazie a quel divieto prende forma e acquista senso, <br />

rive<strong>la</strong>ndo <strong>la</strong> struttura dell’atto del<strong>la</strong> creazione (A Koestler) e dell’umorismo (G Bateson) . <br />

Se leggi in pancia ad Autoconsapevolezza Emozionale, vedi che essa è una trasformata di un <br />

mondo in cui ragione ed emozioni erano vissuti come po<strong>la</strong>ri e incompatibili, e così via. Il libro che <br />

ho ultimamente pubblicato con Gabriel<strong>la</strong> Giornelli <strong>La</strong> scuo<strong>la</strong> e l’arte di ascoltare. Gli ingredienti <br />

delle scuole felici (Feltrinelli 2014) prende il via dal<strong>la</strong> centralità del<strong>la</strong> auto-­‐consapevolezza <br />

emozionale nel<strong>la</strong> vita quotidiana a scuo<strong>la</strong> e porta una infinità di esempi re<strong>la</strong>tivi a quali sono i <br />

blocchi che ci inducono ad accontentarci di emozioni e spiegazioni “grezze”, “non è portato per <strong>la</strong> <br />

scuo<strong>la</strong>” “quel<strong>la</strong> insegnante è molto in gamba” e così via, e quali invece le dinamiche per <br />

apprendere dalle <br />

esperienze felici, quel <br />

chiedersi “cosa di <br />

diverso fare e come, <br />

concretamente” che <br />

corrisponde al<strong>la</strong> <br />

moltiplicazione delle <br />

opzioni e a sentirci <br />

parte di una intelligenza <br />

collettiva. <br />

<strong>La</strong> costel<strong>la</strong>zione Felix si <br />

erge sulle dicotomie <br />

e<strong>la</strong>borate dall’umanità <br />

nei secoli precedenti e <strong>la</strong> <br />

sua forma dinamica non <br />

è comprensibile senza i <br />

divieti che strutturano <br />

tali dicotomie e senza <br />

accogliere sia i meriti che i limiti di tali tabù. <br />

Questo è molto utile perché le categorie propulsive al viaggio nell’iperspazio non sono “sbagliate” <br />

o da buttare, anzi: senza di loro l’iperspazio non sarebbe neppure stato concepibile. Rispetto allo <br />

slogan Sconge<strong>la</strong>re/cambiare/riconge<strong>la</strong>re, <strong>la</strong> Costel<strong>la</strong>zione Felix vuol essere una mappa che <br />

evidenzia sia cosa si deve sconge<strong>la</strong>re, sia cosa cambiare, che il tipo di riconge<strong>la</strong>mento da attuare <br />

e preservare. Una palestra di allenamento da instal<strong>la</strong>re in luoghi protetti. Devo ammettere che <br />

<strong>la</strong> possibilità di <strong>la</strong>vorare in mezzo ai Picasso e Kandinskij mi ha aiutato parecchio. Fosse stato un <br />

corso per l’università, non so se avrei trovato il coraggio. E anche su questo, c’è da meditare. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

SELBSTDENKEN Margarethe Von Trotta: Hannah Arendt <br />

Stefano Beccastrini <br />

Umanità e lingua sono le versioni arendtiane dell’Essere (Julia Kristeva) <br />

Premessa <br />

Questo testo, par<strong>la</strong>ndo di storia e di cinema, non par<strong>la</strong> anche, in maniera esplicita e specifica, di <br />

medicina e di counselling. Par<strong>la</strong> tuttavia di ecologia dell’ascolto e del<strong>la</strong> questione del pregiudizio <br />

concepito come euristica ossia come scorciatoia mentale che ci permette di avanzare alcune prime <br />

ipotesi su una persona o una situazione, ma che diventa un meccanismo mentale negativo quando <br />

l’ipotesi cessa di essere tale per trasformarsi in giudizio definitivo non meno che sbrigativo, <br />

frettoloso, superficiale. L’ecologia dell’ascolto permette di diventare consapevoli dei nostri <br />

pregiudizi, di praticare <strong>la</strong> vera attenzione, di pensare con <strong>la</strong> propria testa alfine libera da <br />

stereotipi... Pensare con <strong>la</strong> propria testa (selbstdenen) significa frequentare continuamente il <br />

dubbio. In sostanza: <br />

a) ascoltare l’altro davvero ossia con reale ed aperta attenzione, superando man mano eventuali <br />

pregiudizi, ri-­‐pensando alle sue parole e ai suoi comportamenti in maniera autonoma e <br />

profonda; <br />

b) farsi consapevoli che spesso i nostri pregiudizi, anziché possedere valore euristico, sono <br />

soltanto il frutto parassitario di idee diffuse ma non verificate, stereotipi, esito del <br />

conformismo nei confronti del quale ciascuno è tentato di soggiacere; <br />

c) pensare finalmente con <strong>la</strong> propria mente; <br />

d) avere il coraggio di affrontare le conseguenze che ciò potrebbe implicare per noi (non essere <br />

conformisti, non seguire i pregiudizi e gli stereotipi, pensare con <strong>la</strong> propria testa è sempre <br />

gratificante ma non sempre frutta app<strong>la</strong>usi e consensi ). <br />

Come tutto ciò possa avvenire e quale percorso mentale e morale possa sostenerlo me l’ha <br />

recentemente mostrato un bel film – narrativamente robusto e orientato a far riflettere, appunto <br />

con <strong>la</strong> loro testa, gli spettatori -­‐ di Margarethe Von Trotta, una cineasta tedesca che è sempre <br />

stata disinteressata a praticare un cinema di alta spettaco<strong>la</strong>rità, preferendogli sempre un cinema <br />

sobrio, austero, capace di porre problemi etici e di suscitare inquiete riflessioni nel pubblico. Il <br />

film, del 2012, è Hannah Arendt e narra, con alcuni f<strong>la</strong>sh back che mostrano il passato (per <br />

esempio il periodo, per lei importantissimo, durante il quale fu allieva, e poi giovane amante, di <br />

Martin Heidegger), <strong>la</strong> vicenda del<strong>la</strong> nota filosofa del<strong>la</strong> politica, un’ebrea tedesca fattasi americana, <br />

che si recò a Gerusalemme per assistere al processo contro Adolf Eichmann. <br />

Il caso Eichmann e <strong>la</strong> “banalità del male” <br />

Nel<strong>la</strong> informatissima biografia di Hannah Arendt, scritta dal<strong>la</strong> sua allieva Elisabeh Young-­‐Bruehl <br />

(Hannah Arendt. Una biografia), all’inizio del capitolo 8 re<strong>la</strong>tivo all’anno 1960, si può leggere: “Il <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

24 maggio, in Argentina, agenti israeliani avevano sequestrato Adolf <br />

Eichmann; ne era seguita una vertenza diplomatica tra l’Argentina e <br />

Israele, per <strong>la</strong> sua estradizione; e alle Nazioni Unite si era avuto un <br />

dibattito circa le intenzioni israeliane di processare Eichmann a <br />

Gerusalemme. Ora si attendeva che il processo venisse annunciato e <strong>la</strong> <br />

Arendt ne discuteva le complesse questioni giuridiche nel<strong>la</strong> sua <br />

corrispondenza con Karl Jaspers. Non appena fu chiaro che Eichmann <br />

sarebbe stato processato in Israele, decise di offrirsi come inviata al <br />

processo, e scrisse a William Shawn, direttore del New Yorker”. Shawn <br />

accettò subito: che una pensatrice ormai celebre, e per di più di origini <br />

ebraiche, si offrisse di fare l’inviata del<strong>la</strong> rivista da lui diretta per assistere <br />

a, e poi raccontare, un evento di cui stava par<strong>la</strong>ndo tutto il mondo, gli parve un’occasione di <br />

successo presso il pubblico troppo ghiotta per rifiutar<strong>la</strong>. Ma perchè Hannah voleva assistere a <br />

quel processo, che le avrebbe necessariamente fatto rivivere, nel<strong>la</strong> memoria, momenti assai tristi <br />

del<strong>la</strong> sua vita: <strong>la</strong> fuga dal<strong>la</strong> Germania, nazista verso Parigi; <strong>la</strong> segregazione – durante il regime di <br />

Petain -­‐ nel campo d’intermanto di Gurs, <strong>la</strong> fuga e l’esilio americano accompagnata dal marito (il <br />

filosofo e poeta tedesco, a suo tempo fervente spartachista, Heintrich Blucher); <strong>la</strong> propria <br />

condizione di apolide, prima del faticoso, ma finalmente appagante, ottenimento del<strong>la</strong> <br />

cittadinanza statunitense? Nel<strong>la</strong> lettera che inviò al<strong>la</strong> Fondazione Rockefeller per farsi rinviare – <br />

appunto a causa del nuovo impegno -­‐ <strong>la</strong> scadenza di una borsa di studio, el<strong>la</strong> scrisse: “Io credo che <br />

capirete perché devo seguire questo processo: ho perduto i processi di Norimberga, non ho mai <br />

visto questa gente in carne ed ossa e questa probabilmente è <strong>la</strong> mia unica possibilità”. Questa <br />

gente erano i criminali nazisti, di cui el<strong>la</strong> pensava più o meno le stesse cose di due suoi carissimi <br />

amici, il filosofo Karl Jaspers, il quale considerava Eichmann un mostro brutale, e il dirigente <br />

sionista Kurt Blumenfeld, che lo definiva una belva selvaggia, un animale feroce. Fu certamente <br />

con questa immagine di Eichmann in mente – con questi pregiudizi, insomma -­‐ che <strong>la</strong> Arendt si <br />

sedette, il giorno d’inizio del processo, nell’au<strong>la</strong> ove poté vedere da vicino, così da poterlo <br />

osservare, ascoltare, studiare l’imputato Eichmann, chiuso in una specie di gabbia. <br />

Man mano che il processo andava avanti, maturò un giudizio assai diverso (che, peraltro, non scalfì <br />

<strong>la</strong> sua convinzione che Eichmann andasse condannato): l’uomo che aveva di fronte – e che si <br />

esprimeva, rispondendo alle domande dei giudici, in un tedesco grigio, composto di frasi fatte, <br />

incapace di esprimere <strong>la</strong> minima <br />

emozione -­‐ non era affatto una <br />

belva selvaggia, un mostro brutale, <br />

era semplicemente un burocrate. <br />

“Io dovevo attenermi agli ordini” <br />

continuava a ripetere e – <strong>la</strong> Arendt <br />

al<strong>la</strong> fine ne era convinta – così <br />

dicendo non cercava scuse od alibi <br />

bensì esprimeva il proprio sincero <br />

stupore per il fatto che i suoi giudici <br />

non capissero che aveva fatto <br />

semplicemente e con estrema <br />

diligenza, il proprio dovere di uomo <br />

d’ordine, rispettoso del<strong>la</strong> legge e <br />

del<strong>la</strong> gerarchia vigenti nel proprio <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Paese. Non è un personaggio terribile, cominciava a sostenere con i suoi esterefatti amici, Hannah <br />

Arendt: non è terribile, è semplicemente un nessuno. Si poteva credergli quando affermava di non <br />

aver mai odiato, personalmente, gli ebrei. “Non è un antisemita – el<strong>la</strong> diceva – ma un burocrate, <br />

un uomo incapace di pensare e dunque incapace di distinguere il bene dal male. Il che non ci deve <br />

impedire di giudicare le sue azioni <br />

e di considerarle un male, anzi: il <br />

peggior male al mondo è il male <br />

commesso da nessuno”. <strong>La</strong> <br />

questione importante diventa <br />

allora questa: “Cos’è che ha fatto <br />

sì che un uomo abbia smesso di <br />

pensare?”. I cinque articoli che <br />

Hannah pubblicò sul New Yorker <br />

scatenarono un putiferio ed esso si <br />

ingigantì, fino a diventare una <br />

sorta di scandalo internazionale, <br />

quando <strong>la</strong> Arendt ne trasse un <br />

libro, il celeberrimo <strong>La</strong> banalità del male. Fu accusata di essere un’ebrea che non amava il proprio <br />

popolo (d’altra parte, el<strong>la</strong> aveva sempre affermato, “Nel<strong>la</strong> mia vita non ho mai amato nessun <br />

popolo o collettività – né il popolo tedesco né quello americano né <strong>la</strong> c<strong>la</strong>sse operaia. Io amo i miei <br />

amici e <strong>la</strong> so<strong>la</strong> specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone”) un’antisemita, <br />

un’arrogante. Amici e colleghi a lei molto cari – per esempio, il filosofo Hans Jonas o lo studioso <br />

del<strong>la</strong> kabba<strong>la</strong> Gershom Sholem – smisero di rivolgerle <strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong>.. <br />

Per finire <br />

Ha scritto Hannah Arendt: “Ciò che comunemente chiamiamo persona, in quanto diverso da un <br />

semplice essere umano che può essere chiunque, è in realtà ciò che emerge da quel processo di <br />

radicamento che è il pensiero. Se qualcuno è un essere pensante, radicato nei propri pensieri e <br />

ricordi, ci saranno limiti a ciò che permetterà a se stesso di fare. E questi limiti non gli si <br />

imporranno dall’esterno ma saranno, per così dire, autoimposti. Questi limiti possono certo <br />

cambiare da persona a persona, da paese a paese, da secolo a secolo, ma il male estremo e senza <br />

limiti è possibile soltanto dove queste radici sono completamente assenti. Ed esse sono assenti <br />

ovunque gli uomini scivo<strong>la</strong>no sul<strong>la</strong> superficie degli eventi, dove consentono a loro stessi di volgere <br />

lo sguardo senza penetrare nel<strong>la</strong> profondità di cui potrebbero essere capaci… Credo che il male <br />

non sia mai radicale, ma che sia soltanto estremo e che non possieda né profondità né spessore <br />

demoniaco. Se il male agisce, agisce nel senso che sfida il pensiero. Perché il pensiero cerca di <br />

andare in profondità, di toccare le radici e, nel momento in cui si occupa del male, è frustrato <br />

perché non trova niente. E’ <strong>la</strong> sua banalità. Solo il bene ha profondità e può essere radicale”. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

David Copperfield in Valpadana <br />

Massimo Giuliani <br />

È l’ultima seduta del<strong>la</strong> giornata. Nino mi racconta che anni fa sul <strong>la</strong>voro conobbe una donna e <br />

prese a frequentar<strong>la</strong>. Mesi dopo <strong>la</strong> moglie Mara scoprì dei messaggi nel suo cellu<strong>la</strong>re e successe un <br />

disastro. <br />

È un uomo corpulento e malinconico dal passato molto triste: ha una mamma da sempre <br />

inspiegabilmente ostile, e troppo brevemente ha potuto godere dell’affetto del tenero papà, che <br />

morì in un incidente per un assurdo ritardo dei soccorsi. L’uomo con cui sua madre cominciò a <br />

convivere dopo una breve vedovanza fece sì che Nino fosse allontanato prima in un collegio e <br />

poi presso i nonni paterni, mentre il posto di suo fratello Sergio in casa non fu mai messo in <br />

discussione. <br />

Nino tornò a sedici anni, quando ebbe un <strong>la</strong>voro e <strong>la</strong> possibilità di passare con <strong>la</strong> madre meno <br />

tempo possibile. Dopo il militare conobbe Mara e decisero di sposarsi. All’annuncio in casa <strong>la</strong> <br />

madre rispose con asprezza: non l’aveva voluto con sé ma era come se non sopportasse che <br />

facesse un progetto di vita proprio. Durante il fidanzamento Nino continuò a versarle quasi tutto <br />

lo stipendio (da tempo Sergio teneva per sé quel che guadagnava). Fino all’ultimo, Nino e Mara <br />

non seppero se <strong>la</strong> donna avrebbe partecipato al<strong>la</strong> cerimonia. <br />

Dopo il matrimonio Nino cambiò <strong>la</strong>voro: viaggiare all’estero come tecnico per <strong>la</strong> sua ditta non si <br />

conciliava con <strong>la</strong> vita familiare. Rilevò l’attività del suocero che vendeva prodotti per <strong>la</strong> casa <br />

spostandosi con un furgone nei cortili e nelle piazze (in una di quelle mattine passate ad attendere <br />

le massaie del quartiere Nino conobbe <strong>la</strong> donna che avrebbe frequentato in segreto). <br />

Oggi è depresso e cupo, si sente scadente come padre e ancora peggio come marito. Le figlie sono <br />

molto preoccupate per lui, che con loro non ha mai fatto <strong>paro<strong>la</strong></strong> del proprio passato doloroso. <br />

Gli propongo di tornare da me con Mara. Nino accetta, ma mi chiede di ascoltare ancora per un <br />

po’ <strong>la</strong> sua storia triste. E così <strong>la</strong> volta dopo. Conosco Mara al<strong>la</strong> quarta seduta: è come me l’ero <br />

immaginata, una donna forte nel<strong>la</strong> quale facilmente trova appoggio un uomo che si sente un <br />

bambino rifiutato. <br />

Mi dice subito di essere molto irritata con Nino. Ha appena saputo che un piccolo debito <br />

contestatogli dall’ufficio delle imposte anni prima è diventato nel frattempo una grana di ben altre <br />

dimensioni. Si sarebbe potuto evitar<strong>la</strong> allora con una spesa irrisoria, ma Nino non lo fece: per di <br />

più ha nascosto <strong>la</strong> cosa a Mara fino ad oggi! Perché? Non sa spiegarlo. <br />

Come per gli sms proibiti, pare che Nino continui a combinare guai che prima o poi Mara <br />

scoprirà, per redarguirlo e poi riaccoglierlo come una mamma che non può voltare le spalle a un <br />

figlio fragile. Per di più Nino ha trovato il modo di affiliarsi al suocero, ereditandone il <strong>la</strong>voro e <br />

vivendo nel<strong>la</strong> riconoscenza verso di lui. <br />

Nel<strong>la</strong> seduta successiva mi raccontano che due sere prima Nino ha portato fuori il cane ed è <br />

sparito da casa per alcune ore. Le figlie l’hanno ritrovato dopo mezzanotte, e su una panchina lui <br />

ha rive<strong>la</strong>to loro in <strong>la</strong>crime <strong>la</strong> fonte di tutto il suo dolore: si sente una nullità perché per tutta <strong>la</strong> vita <br />

si è sentito respinto dal<strong>la</strong> madre. Le ragazze lo abbracciano, lo conso<strong>la</strong>no, <strong>la</strong> madre li raggiunge <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

poco dopo e con un sospiro di sollievo tutti tornano a casa. Per Nino <strong>la</strong> comprensione delle figlie è <br />

un grande conforto. Ma Mara è impensierita. E io con lei: Nino ha ricevuto dal<strong>la</strong> vita una dose di <br />

bastonate ben peggiore di quel<strong>la</strong> che sarebbe obbligatorio sopportare. Sento <strong>la</strong> terapia piuttosto <br />

inadeguata a risarcirlo di tutti i colpi subiti. <br />

Nel<strong>la</strong> seduta successiva Mara è fuori di sé. È saltato fuori un altro buco nei conti, e per di più Nino <br />

ha finto di avere un appuntamento col commercialista per risolverlo, mentre <strong>la</strong>sciava di nuovo che <br />

le cose andassero a rotoli. Ancora una volta si è comportato come un adolescente svagato, <br />

costringendo Mara a fargli da mamma. Forse Mara applica in questa re<strong>la</strong>zione qualche genere di <br />

talento nel<strong>la</strong> <strong>cura</strong> che ha coltivato nel<strong>la</strong> propria storia familiare? Approfondiamo anche <strong>la</strong> sua <br />

storia, nel<strong>la</strong> quale però non trovo appigli robusti all’ipotesi di un consenziente quid pro quo <br />

coniugale. <br />

Tanto per fare qualcosa, <br />

le faccio qualche <br />

domanda sul vecchio <br />

<strong>la</strong>voro del padre, che <br />

Nino fece suo dopo il <br />

matrimonio, nel quale — <br />

mi spiegano — dovettero <br />

investire tutto quello che <br />

avevano. “Come?”, dico, <br />

“avevo capito che era <br />

stata una buona <br />

opportunità! Come mai <br />

allora non cercò di <br />

conservare il suo posto, <br />

magari in un ruolo più <br />

sedentario?”. <br />

E qui viene fuori <strong>la</strong> storia <br />

che mai mi sarei <br />

aspettato di ascoltare. <br />

L’azienda meccanica in cui <strong>la</strong>vorava Nino costruiva impianti che servivano al<strong>la</strong> produzione di un <br />

componente che avrebbe contribuito a rivoluzionare il motore delle auto di grossa cilindrata. <br />

Dopo pochi mesi dal matrimonio fu chiamato al<strong>la</strong> fine del turno del venerdì dal fondatore <br />

dell’azienda in persona, che gli mise un assegno in bianco sul tavolo e gli disse: fammi sapere <br />

lunedì mattina che cifra vuoi che scriva. Andrai per tre anni in Australia a <strong>cura</strong>re il nuovo impianto <br />

di produzione dei nostri macchinari. <br />

Nino tornò a casa e disse a Mara: avremo tutti i soldi che vogliamo. Ma nel terribile fine settimana <br />

che seguì, Mara decise che non avrebbe potuto <strong>la</strong>sciare il suo paese e <strong>la</strong> famiglia d’origine. Così <br />

Nino tornò dal presidente e gli disse: non posso. Quello alzò <strong>la</strong> posta: gli garantì uno stipendio <br />

ulteriore dagli australiani, ma per quell’impresa voleva lui, e subito. Nino scosse il capo e se ne <br />

andò, chiudendo il rapporto con <strong>la</strong> fabbrica dove era cresciuto, dove si era specializzato e dove si <br />

era sentito valorizzato. <br />

Quando par<strong>la</strong> dei suoi viaggi gli bril<strong>la</strong>no gli occhi e si sente qualcuno. Racconta degli incontri che <br />

ha fatto nelle metropoli degli Stati Uniti e fra gli eredi delle culture arcaiche dell’Oceania. <br />

Ammette l’odio per il suo “<strong>la</strong>voro di merda” e <strong>la</strong> nostalgia per quegli anni, sebbene sia contento <br />

del suo matrimonio. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Io ascolto con gli occhi spa<strong>la</strong>ncati. Nino e Mara sono sorpresi del<strong>la</strong> mia sorpresa: “Non glielo <br />

avevamo raccontato?” <br />

E no, che non me lo avevano raccontato: io non glielo avevo chiesto! Io cercavo Dickens, e <br />

invece dovevo pensare più a Francis Ford Coppo<strong>la</strong>. <br />

Altro che mamme perfide, patrigni cattivi e attaccamenti insicuri. Quell’assegno in bianco aveva <br />

messo Nino e Mara, appena sposati, in un doppio legame crudele. Da quel<strong>la</strong> scelta uno dei due <br />

sarebbe uscito straziato (o Mara avrebbe rinunciato al<strong>la</strong> sua famiglia d’origine, o Nino al suo <br />

sogno) e l’altro ne avrebbe portato il peso per tutta <strong>la</strong> vita. <br />

Lo so cosa state pensando: due giovani sposi bastano a se stessi, tutto il resto viene dopo! E infatti <br />

Nino scelse convintamente: ma sapete anche voi che i sentimenti sono quasi sempre un po’ più <br />

complicati di così. <br />

Chiunque si fosse sacrificato, come avrebbe evitato di domandarsi ogni giorno se l’altro sarebbe <br />

stato capace di pagare altrettanto? E l’altro come avrebbe potuto non domandarsi, ad ogni cenno <br />

di fatica del sacrificato, se non fosse un muto messaggio di risentimento? Mara ammette di non <br />

essere mai riuscita a solidarizzare coi dolori del marito, e Nino di aver desiderato che andassero in <br />

malora i detersivi, il furgone e le massaie. Nell’anno in cui i guadagni cominciarono a scendere, <br />

tradì Mara e buttò via le lettere di quelli delle tasse. <br />

Non è più <strong>la</strong> storia di un marito inaffidabile che dipende dal<strong>la</strong> moglie: è <strong>la</strong> storia di una re<strong>la</strong>zione <br />

acerba che mai e poi mai avrebbe dovuto trovarsi a sopportare l’ingiustizia di quel dilemma. <br />

Non sarebbe andata diversamente — solo a parti rovesciate — se quel<strong>la</strong> volta avessero deciso di <br />

partire. <br />

Cos’è che ha pesato di più sul<strong>la</strong> vita di Nino e sul<strong>la</strong> sua visione di sé? Una madre conge<strong>la</strong>ta, forse <br />

anch’essa piegata da un lutto troppo precoce, o essersi trovato a vivere sempre fuori sincrono fra <br />

il tempo lento del<strong>la</strong> provincia profonda e quello rapido e cinico del business internazionale? <br />

Sono stato adescato dal<strong>la</strong> storia che dove c’è una mamma che fa piangere, dove c’è un’infanzia <br />

infelice, lì c’è il problema. Ma quel<strong>la</strong> storia continuava a girare su se stessa. Come mai ho trovato <br />

così seducente <strong>la</strong> versione <strong>la</strong>crimevole che Nino mi ha proposto con insistenza, tanto da <br />

contravvenire a quello che di solito mi sembra ovvio, cioè pensare in termini di storie anziché di <br />

personalità? E con quali conseguenze? <br />

L’antico condizionamento a pensare che le esperienze fatte da bambini sono quelle che <br />

veramente incidono (che un bambino rifiutato sarà per forza un adulto infelice) ha reso <strong>la</strong> mia <br />

mente più pigra e disponibile ad affidarsi ai pregiudizi più a portata di mano, e da farmi <br />

os<strong>cura</strong>re, nel<strong>la</strong> storia di Nino, un capitolo che lo vede competente e con voce in capitolo. Ho <br />

privilegiato una storia che non contiene nessun dubbio su chi sia colpevole e chi vittima, e in cui i <br />

sentimenti non sono così ambigui come nel<strong>la</strong> storia di una rinuncia necessaria fatta a malincuore. <br />

È probabile che il desiderio di conso<strong>la</strong>re sia sempre in agguato, e che al<strong>la</strong> fine di una giornata di <br />

sedute certi nemici incontrino meno resistenza. <br />

Stasera Nino e Mara si guardano con una curiosità differente. Vi saprò dire meglio dopo <strong>la</strong> <br />

prossima seduta, ma credo che oggi il problema non sia più che Mara deve tollerare un marito <br />

inetto, ma piuttosto che c’è da capire se si siano perdonati reciprocamente di non essere stati <br />

sul<strong>la</strong> stessa barca in un momento cruciale. O se possano farlo ora. <br />

E poi stavolta io mi sento meno oppresso all’idea di rivederli, e questo porterà certamente <br />

qualcosa di buono. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Quando il pregiudizio nasce dall’esperienza <br />

Barbara Poggio <br />

Dal 2010 svolgo <strong>la</strong> professione di Assistente Sociale in un territorio montano dove mi occupo di <br />

interventi di aiuto rivolti a famiglie, minori, disabili, anziani e adulti. <br />

Non giudicare è uno dei principi fondamentali del Codice Deontologico dell’Assistente Sociale, <br />

tuttavia il pregiudizio è “parte di ognuno di noi” ed è strettamente corre<strong>la</strong>to al<strong>la</strong> nostra <br />

personale esperienza professionale e di vita. <br />

Pensando al<strong>la</strong> mia esperienza professionale, a come nel tempo il modo di riflettere, analizzare e, <br />

conseguentemente, di approcciarsi all’altro è mutato, posso dire che più si acquisisce esperienza <br />

più è presente il rischio di allontanarsi da questo fondamentale principio. <br />

Inserirsi all’interno di un’organizzazione porta il professionista ad adeguarsi alle tecniche di analisi <br />

e valutazioni sperimentate nel corso del tempo e derivanti dall’esperienza professionale e dal<strong>la</strong> <br />

storia del servizio. Queste sono inevitabilmente impregnate dai pregiudizi derivanti dall’esito dei <br />

percorsi di aiuto intrapresi in quanto essi fanno “parte delle nostre esperienze professionali”. <br />

Nel<strong>la</strong> pratica professionale ho sperimentato il pregiudizio nel<strong>la</strong> “non disponibilità al<strong>la</strong> <br />

col<strong>la</strong>borazione” da parte dei servizi specialistici quali Centro di Salute Mentale e/o Ser.T nelle <br />

prese in carico di famiglie multiproblematiche con minori. In tali situazioni -­‐ dove il Servizio Sociale <br />

ha in carico <strong>la</strong> famiglia e il minore e il CSM e/o Ser.T i <br />

genitori o il genitore -­‐ si rischia l’immobilismo proprio per <br />

il timore che il Servizio Specialistico non voglia attivare <strong>la</strong> <br />

presa in carico, qualora le situazioni siano ancora <br />

sconosciute, oppure non voglia dare avvio a degli <br />

interventi congiunti. <br />

Nel<strong>la</strong> mia esperienza professionale ho potuto notare <br />

come gli operatori del Servizio Sociale percepiscano <br />

quotidianamente un atteggiamento di “scarico delle <br />

situazioni” da parte di un Servizio nei confronti dell’altro. <br />

Questi timori legati al pregiudizio nel<strong>la</strong> “non disponibilità <br />

al<strong>la</strong> col<strong>la</strong>borazione” crea delle difficoltà nello stabilire una <br />

re<strong>la</strong>zione utile e costruttiva sia con gli operatori, a diverso <br />

titolo coinvolti nelle situazioni, sia con le stesse persone <br />

destinatarie dell’intervento di aiuto. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Negli interventi di tute<strong>la</strong> dei minori e di sostegno al<strong>la</strong> genitorialità è necessario e<strong>la</strong>borare un <br />

progetto comune di intervento tra i servizi socio-­‐sanitari dove le diverse risorse e informazioni <br />

sono collegate e valorizzate: più le situazioni risultano complesse e delicate tanto più emerge <strong>la</strong> <br />

necessità di connettere in modo sinergico i vari livelli di intervento. <br />

In realtà l’auspicato coordinamento dei servizi coinvolti non si verifica in ogni circostanza: nel<strong>la</strong> <br />

presa in carico di famiglie multiproblematiche si assiste all’intervento di una molteplicità di <br />

agenzie territoriali, sco<strong>la</strong>stiche, educative, sociali e sanitarie che spesso affrontano il problema <br />

in modo parziale e non condiviso rischiando di avviare risposte contraddittorie. <br />

<strong>La</strong> non considerazione del rischio di avere pregiudizi sul<strong>la</strong> disponibilità al<strong>la</strong> col<strong>la</strong>borazione degli <br />

altri servizi a vario titolo coinvolti e del<strong>la</strong> complessità delle situazioni può comportare così un <br />

drammatico allontanamento da una necessaria unitarietà degli interventi e una infruttuosa <br />

segmentazione, che vede da un <strong>la</strong>to l’attivazione di interventi diversi e contrastanti e dall’altro <strong>la</strong> <br />

valutazione “esclusiva” del problema, per cui servizi e operatori concentrano l’intervento o solo <br />

sul genitore o solo sul minore. <br />

In tali situazioni i servizi operano senza nessuna comunicazione tra loro, spesso senza essere a <br />

conoscenza gli uni del <strong>la</strong>voro degli altri, producendo delle disfunzioni nello stesso intervento di <br />

aiuto e conducendo eccessive e interminabili analisi, incoerenze progettuali, messaggi <br />

contradditori e antieducativi. In questo modo l’intervento rischia di essere frantumato e diviso e <br />

possono innescarsi disfunzioni re<strong>la</strong>zionali che inevitabilmente si ripercuotono in modo negativo sia <br />

sul buon esito dell’intervento sia sul reale sostegno alle famiglie. <br />

I diversi servizi e operatori che prendono in carico <strong>la</strong> famiglia possono mettere in atto dinamiche <br />

re<strong>la</strong>zionali parallele a quelle delle famiglie per cui è stato attivato un intervento di aiuto. Le <br />

istituzioni nell’interazione con le famiglie rischiano di riprodurre meccanismi ugualmente <br />

patologici come scissione, difesa, negazione del<strong>la</strong> propria soggettività, incapacità di integrazione di <br />

ruoli, assenza di progettualità. <br />

Altro aspetto di partico<strong>la</strong>re importanza è <strong>la</strong> capacità dell’operatore di saper accogliere e gestire <br />

<strong>la</strong> propria soggettività che inevitabilmente emerge nel contatto con <strong>la</strong> famiglia e con altri servizi <br />

e operatori. <br />

“Incontrare le altre famiglie è quindi tutte le volte anche incontrare <strong>la</strong> propria, o meglio le proprie <br />

famiglie reali ed idealizzate, rivisitarle coi loro successi ed i fallimenti, con <strong>la</strong> nostra posizione al suo <br />

interno, di dipendenza, conflitto, guida”. 1 Nel<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione con l’utente, infatti, l’operatore può <br />

inconsapevolmente soddisfare il proprio bisogno narcisistico di essere buono e riparatore, <br />

ignorando gli interventi professionali di altri operatori che hanno in carico altri membri del gruppo <br />

familiare. <br />

1 Orsenigo A., Modelli di rapporto tra servizi e famiglie, in Politiche per le famiglie, Quaderni di animazione e<br />

formazione, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1995, pag. 82.<br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Nel<strong>la</strong> quotidianità del <strong>la</strong>voro sociale si <br />

incontrano famiglie e le esperienze <br />

familiari personali inevitabilmente <br />

influiscono sul modo di valutare i <br />

membri del nucleo familiare e il sistema <br />

famiglia nel suo complesso. <strong>La</strong> <br />

consapevolezza circa <strong>la</strong> presenza di un <br />

pregiudizio <strong>la</strong>tente derivante dal<strong>la</strong> <br />

propria storia di vita è fondamentale <br />

per non inficiare <strong>la</strong> valutazione e <br />

conseguentemente attivare degli <br />

interventi di aiuto non rispondenti alle <br />

reali esigenze delle persone. <br />

Ritengo che per realizzare interventi <br />

liberi dal pregiudizio, integrati, globali e <br />

basati sul<strong>la</strong> realizzazione di modalità <br />

col<strong>la</strong>borative comuni sia necessario che tutti i professionisti coinvolti attorno a una situazione di <br />

disagio acquisiscano <strong>la</strong> consapevolezza dei rischi sopra esposti per entrare in contatto con le <br />

proprie parti emotive e riflettere nei giusti tempi e nei giusti spazi. Bianca Barbero Avanzini <br />

afferma che “ogni operatore dovrebbe aver raggiunto dentro di sé una chiarezza tra le proprie <br />

istanze private, affettive, anche egoistiche o narcisistiche e le indicazioni di comportamento <br />

provenienti dall’istituzione pubblica a cui essi appartengono”. 2 Solo attraverso un percorso di <br />

riflessione sulle proprie modalità re<strong>la</strong>zionali il sistema degli operatori può differenziarsi dal<strong>la</strong> <br />

famiglia problematica e patologica e realmente aiutar<strong>la</strong>. <br />

2 Losana C., D’Errico A., <strong>La</strong> protezione del minore fra amministrazione e giurisdizione, cit., pag. 37.<br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Pregiudizi sul<strong>la</strong> nascita <br />

Gabriel<strong>la</strong> Pacini <br />

L'aumento del<strong>la</strong> spesa sanitaria a cui abbiamo assistito impotenti nelle ultime decadi sta portando <br />

il servizio sanitario pubblico sull'orlo del col<strong>la</strong>sso e, malgrado l'Italia sia un paese in cui sono <br />

presenti grandi risorse ed eccellenze sanitarie, sempre più spesso non siamo grado di offrire ai <br />

cittadini servizi e cure necessari. <br />

Carenze e difficoltà (grave mancanza di personale con blocco del turn-­‐over, mancanza di posti <br />

letto in ospedale, lunghe lista d'attesa per analisi strumentali, aumento del ticket sanitario, etc...) <br />

sono diventate talmente comuni da non fare neanche più notizia e hanno costretto molte persone <br />

a rivolgersi al percorso sanitario privato. Dunque è necessario e urgente un cambiamento nel<strong>la</strong> <br />

gestione che possa permettere un'efficace ottimizzazione delle risorse . <br />

Spending review, revisione del<strong>la</strong> spesa, è <strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> chiave attraverso <strong>la</strong> quale produrre questa <br />

trasformazione. Trasformazione che per essere sostenibile non deve tener conto solo del punto di <br />

vista economico ma del benessere e del<strong>la</strong> salute delle persone in generale e quindi comprendere <br />

anche una riflessione a livello sociale e umano. <br />

Già nel 1976 il filosofo Ivan Illich ci metteva in guarda dal rischio di una cattiva gestione delle <br />

risorse sanitarie, dall'eccesso del<strong>la</strong> medicalizzazione e del<strong>la</strong> tecnologia: <br />

“<strong>La</strong> salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera capacità personale di far fronte al<strong>la</strong> <br />

vita in modo autonomo e responsabile. Il livello del<strong>la</strong> salute non può che ca<strong>la</strong>re quando <strong>la</strong> <br />

sopravvivenza viene a dipendere, oltre una certa misura, dal<strong>la</strong> rego<strong>la</strong>zione eteronoma (cioè diretta <br />

dagli altri) dell'omeostasi dell'organismo. Oltre una certa intensità critica, <strong>la</strong> tute<strong>la</strong> istituzionale <br />

del<strong>la</strong> salute equivale a una negazione sistematica del<strong>la</strong> salute.” 1 <br />

Dunque non sono il progresso, <strong>la</strong> tecnologia, le nuove opportunità e vantaggi sanitari ad essere al <br />

centro del<strong>la</strong> critica di Illich ma <strong>la</strong> gestione e l'uso che ne facciamo. <br />

In quanto ostetrica impegnata in ospedale e nel territorio farò riferimento soprattutto a quegli <br />

aspetti che riguardano <strong>la</strong> salute del<strong>la</strong> donna in età riproduttiva. In partico<strong>la</strong>re <strong>la</strong> mia attenzione <br />

sarà rivolta al<strong>la</strong> gestione del<strong>la</strong> gravidanza e del parto all'interno del percorso ospedaliero e <br />

istituzionale. <br />

Nel<strong>la</strong> nostra società il parto è stato medicalizzato e sottomesso a una tecnologia, chirurgica e <br />

farmacologica, molto invasiva e con costi umani e sociali elevatissimi. Con il 38% di tagli cesarei <br />

l'Italia si colloca al 1° posto in Europa eal3° posto nel mondo (2) e nel<strong>la</strong> so<strong>la</strong> Campania il 60,2% <br />

delle nascite avviene per via chirurgica. <br />

Stiamo assistendo a un radicale cambiamento bio-­‐sociale riguardo al<strong>la</strong> modalità con <strong>la</strong> quale si <br />

partorisce e si viene al mondo e, malgrado i peggiori risultati in termini di salute per madre e <br />

neonato(3), <strong>la</strong> corsa al<strong>la</strong> medicalizzazione non sembra invertire <strong>la</strong> sua tendenza. Al contrario <br />

l’aumento dei tagli cesarei è stato del 350% negli ultimi 30 anni. <br />

Questo cambiamento non riguarda solo un momento determinato, circoscritto, nel<strong>la</strong> vita di alcune <br />

persone, ma “L'evento del<strong>la</strong> nascita, inteso nel<strong>la</strong> complessità culturale, sociale, politica ed <br />

26


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

economica, occupa una posizione centrale nel modo in cui una società concepisce e organizza se <br />

stessa” 4. <br />

Dunque, il tema del<strong>la</strong> nascita riguarda tutti noi. <br />

Ci riguarda una prima volta, perché tutti noi siamo nati e il modo in cui siamo venuti al mondo ha <br />

un’influenza sul<strong>la</strong> nostra salute fisica e sul nostro approccio al<strong>la</strong> vita: è stato un parto facile e <br />

stimo<strong>la</strong>nte o al contrario difficile, che ha messo a dura prova <strong>la</strong> nostra capacità di adattamento <br />

post-­‐natale? Siamo stati separati per giorni e giorni da nostra madre o abbiamo potuto <br />

sperimentare un contatto precoce con suo corpo? Dopo <strong>la</strong> nascita siamo stati in un ambiente che <br />

permetteva un efficace ri<strong>la</strong>scio di ossitocina e di endorfine o era al contrario ricco di <br />

cateco<strong>la</strong>mmine? Il nostro cervello è p<strong>la</strong>stico e molto adattabile ma l'ambiente ormonale in cui ci <br />

troviamo può privilegiare l'attivazione di alcune connessioni neuronali rispetto ad altre e, dunque, <br />

può incidere sul nostro carattere. In una <strong>paro<strong>la</strong></strong>: epigenetica. <br />

Ci riguarda una seconda volta, perché siamo tutti nati da una donna e il modo in cui el<strong>la</strong> ha <br />

partorito ha un’influenza sia su di lei come persona sia sul suo modo di essere madre, sulle <br />

proiezioni che avrà su di noi, sulle paure, sul<strong>la</strong> fiducia che ha e avrà nelle sue capacità. Si è <br />

sentita forte e competente nel momento del parto o, al contrario è stata disconfermata nelle sue <br />

capacità e si è sentita spaventata e fragile? Era preoccupata per <strong>la</strong> nostra salute e si sentiva <br />

insi<strong>cura</strong>? Oppure ha potuto prendersi subito <strong>cura</strong> di noi in un ambiente che l'ha sostenuta quando <br />

e se ne aveva bisogno? Con questo non si vuole affermare che il momento del<strong>la</strong> nascita determini <br />

un cambiamento definitivo e radicale nell'individuo ma si vuole riconoscerlo come momento che, <br />

insieme a tanti altri stimoli (biologici, sociali, culturali e ambientali) ha un’influenza e un <br />

importanza che troppo spesso è stata sottovalutata se non del tutto ignorata. <br />

Per questi e altri motivi <strong>la</strong> nascita e il parto sono eventi che coinvolgono sia i singoli individui che <br />

tutta <strong>la</strong> collettività ed è significativo che, eccetto rari casi, le riflessioni e le rivendicazioni <br />

provengano esclusivamente da <br />

donne. Ancora oggi, purtroppo, <br />

tendiamo a considerare <strong>la</strong> nascita e <br />

<strong>la</strong> maternità temi da e di donne. <br />

Si<strong>cura</strong>mente il cambiamento più <br />

evidente è rappresentato dal <br />

passaggio dal<strong>la</strong> nascita per via <br />

vaginale a quello per via chirurgica, <br />

cambiamento che riguarda quasi il <br />

40% del<strong>la</strong> popo<strong>la</strong>zione italiana. Quali <br />

possono essere le motivazioni che <br />

hanno portato a trasformare in poche <br />

decine di anni un processo che ci <br />

appartiene e ci caratterizza, in quanto <br />

mammiferi, da centinaia di migliaia di <br />

anni? <br />

Spesso si sente dire che sono le donne <br />

stesse che preferiscono <strong>la</strong> nascita <br />

chirurgica, socialmente percepita (a <br />

dispetto delle Evidence Based Medicine-­‐ EBM) come più si<strong>cura</strong> per <strong>la</strong> salute di mamma e bambino. <br />

27


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Altre considerazioni attribuiscono maggiori responsabilità al medico ginecologo, il quale, per <br />

motivi di lucro (in alcune realtà, per il taglio cesareo viene infatti riconosciuto un compenso <br />

economico maggiore) o di “profitto aziendale”, nonché disorganizzazione del proprio <strong>la</strong>voro, <br />

preferirebbe <strong>la</strong> via chirurgica. <br />

Da ultimo, in ordine ma non in importanza, secondo l'establishment medico, è l'atteggiamento <br />

difensivo del medico e, quindi, il timore di essere accusato di non aver "fatto abbastanza" per <br />

tute<strong>la</strong>re <strong>la</strong> salute del<strong>la</strong> madre e del bambino/a rappresentare <strong>la</strong> principale causa di ricorso al taglio <br />

cesareo. Nell'indagine condotta dal<strong>la</strong> SIGO (Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia), a <br />

esempio, le implicazioni medico-­‐legali rappresentano il primo motivo di ricorso al taglio cesareo <br />

per 9 medici su 10. <br />

Ma possiamo, in coscienza, sentirci di scoraggiare medici e donne dal<strong>la</strong> scelta del parto chirurgico <br />

e sostenere che sia veramente preferibile il parto vaginale, il cosiddetto parto naturale? Per <br />

rispondere a questa domanda dobbiamo chiederci qual è il percorso che, nel<strong>la</strong> grande <br />

maggioranza dei casi, le donne fanno nei nostri ospedali e centri nascita. <br />

In base ai risultati del Cedap (Certificato di assistenza al parto) e a quelli forniti da altre indagini, <br />

sappiamo che le donne sane, con una gravidanza normale, vengono routinariamente sottoposte a <br />

una lunga lista di pratiche, alcune perfino invasive e dannose, senza che vi sia nessuna evidenza <br />

scientifica a sostegno. <br />

Per aiutare il lettore non esperto in pratiche ostetriche ne elenchiamo alcune: clistere e <br />

depi<strong>la</strong>zione all'accettazione in reparto; ago cannu<strong>la</strong> dall'inizio del travaglio; monitoraggio <br />

cardiotocografico a permanenza (che obbliga <strong>la</strong> donna a rimanere sdraiata a letto o, al massimo, in <br />

piedi senza possibilità di camminare e muoversi per tutta <strong>la</strong> durata del travaglio); scol<strong>la</strong>mento <br />

delle membrane attraverso una visita vaginale dolorosa e spiacevole; impedimento al bere o al <br />

mangiare e consequenziale idratazione attraverso soluzione endovenosa; rottura artificiale delle <br />

membrane per accelerare il travaglio. Alle donne, inoltre, non viene permesso di scegliere <strong>la</strong> <br />

posizione del parto, così come raccomandato dall'OMS e dal<strong>la</strong> Evidence Based Medicine ma, al <br />

contrario, viene imposta <strong>la</strong> posizione sdraiata sul lettino da parto, con il monitoraggio attaccato da <br />

una parte, <strong>la</strong> flebo dall'altra e un operatore corpulento che spinge sul<strong>la</strong> pancia (manovra di <br />

Kristeller) per velocizzare quel<strong>la</strong> che oramai è diventata a tutti gli effetti non un parto ma <br />

"estrazione del feto". Per finire, <strong>la</strong> pratica dell’episiotomia, un taglio chirurgico del<strong>la</strong> vagina di circa <br />

4 cm che, sebbene ritenuta utile solo in meno del 5%, viene effettuato nel 70% dei parti circa(5), <br />

senza nemmeno chiedere il consenso e informarne <strong>la</strong> donna. A questo punto al neonato, a <br />

prescindere dalle condizioni di salute, viene immediatamente reciso il cordone ombelicale e <br />

portato al pediatra per <strong>la</strong> visita di routine e dunque separato del<strong>la</strong> madre contrariamente a quanto <br />

l'OMS raccomanda ormai da più di 30 anni (6). <br />

Questi sono gli interventi, praticati spesso senza indicazione medica, a cui rischia di essere <br />

sottoposta <strong>la</strong> donna sana, con gravidanza normale, senza che venga informata e senza che le <br />

venga chiesto il consenso e dunque negandole di fatto una scelta. Pratiche invasive, dolorose e <br />

alcune anche dannose. Unico conforto, quando c'è, l'epidurale. Non c'è da stupirsi se molte donne <br />

e molti medici, di fronte a questa via crucis, considerino il taglio cesareo un'ottima ed efficace <br />

alternativa al parto. <br />

Il taglio cesareo rappresenta dunque il risultato finale di una serie di eventi, di una <br />

ipermedicalizzazione, di una patologizzazione del<strong>la</strong> gravidanza, sul<strong>la</strong> cui origine è importante <br />

indagare. <br />

28


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Ma perché <strong>la</strong> maggior parte delle donne accetta, supinamente, questa manipo<strong>la</strong>zione e oltraggio <br />

al proprio corpo? <br />

A mio parere, il bisogno di sicurezza del<strong>la</strong> donna per <strong>la</strong> sua salute e per quel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> persona che <br />

nasce e <strong>la</strong> sua paura nel confrontarsi con un evento sì naturale ma al tempo stesso nuovo e <br />

sconosciuto, sono state <strong>la</strong> leva sul<strong>la</strong> quale fare pressione. <br />

Noi operatori sanitari, dal canto nostro, non siamo più in grado di riconoscere competenze che da <br />

sempre sono proprie delle donne: un sapere del corpo che permetteva loro di avere fiducia e di <br />

poter attingere al<strong>la</strong> propria capacità, a delle risorse interne, che le consentivano di <strong>la</strong>sciarsi andare <br />

e partorire. <br />

Al contrario, troppo spesso trattiamo le donne come (s)oggetti passivi incapaci di comprendere <strong>la</strong> <br />

complessità dell’evento parto. Questo atteggiamento di sfiducia è stato inconsapevolmente <br />

introiettato dalle donne portandole a delegare ad altri, percepiti come più competenti, quanto più <br />

possibile. <br />

Non a caso in molti incontri di accompagnamento al<strong>la</strong> nascita viene insegnato come spingere <br />

durante <strong>la</strong> fase espulsiva e perfino come respirare nelle diverse fasi del travaglio. <br />

E' stato messo in atto un processo di dis-­‐empowerment, le donne sono state delegittimate delle <br />

loro competenze nell'evento. Adesso il protagonista del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> parto moderna è il medico: <br />

l’operatore sanitario che sa e salva. <br />

Nasce all'interno di questo processo di delegittimazione una nuova narrazione del<strong>la</strong> gravidanza <br />

e del parto che, ri-­‐definendoli, non permette più di viverli al di fuori del contesto medico e <br />

ospedaliero. <br />

Questo è forse il punto centrale del<strong>la</strong> questione perché il modo in cui definiamo <strong>la</strong> realtà <strong>la</strong> <br />

determina: è <strong>la</strong> definizione che crea <strong>la</strong> realtà (7) e <strong>la</strong> definizione non può che avvenire a opera <br />

del gruppo maggioritario, dominante, a discapito del gruppo minoritario, dominato, in questo <br />

caso rispettivamente medici (storicamente e tradizionalmente uomini) e donne. <br />

<strong>La</strong> c<strong>la</strong>sse medica, definendo <strong>la</strong> gravidanza a basso o ad alto rischio, ma comunque un processo <br />

imprevedibile che presenta sempre un margine di rischio non bene quantificabile ha, di fatto, <br />

imposto il controllo sul<strong>la</strong> nascita e sul corpo del<strong>la</strong> donna. <br />

Anche l'affermazione, ripetuta negli ultimi 40 anni come un mantra ai convegni e al<strong>la</strong> formazione <br />

universitaria di medici e ostetriche, che il parto sia fisiologico solo a posteriori, cioè definibile come <br />

parto normale solo dopo che sia avvenuta <strong>la</strong> nascita del bambino, ha il potere di trasformare tutti i <br />

travagli, fisiologici o patologici che siano, in una procedura medica, interferendo così con <strong>la</strong> libera <br />

scelta del<strong>la</strong> donna di come e dove viver<strong>la</strong>. <br />

Questa definizione ha importanti conseguenze anche sugli operatori sanitari, i quali, percependo il <br />

parto come un processo potenzialmente rischioso, sempre soggetto a imprevisti cui solo un <br />

ambiente medico altamente specializzato può far fronte, vivono in uno stato di ansia e allerta <br />

che non permette nessun riconoscimento del<strong>la</strong> soggettività del<strong>la</strong> persona e si traduce spesso in <br />

interventi non appropriati. <br />

L'appello al rispetto del<strong>la</strong> fisiologia, del<strong>la</strong> libera scelta del<strong>la</strong> donna, del<strong>la</strong> depatologicizzazione, <br />

viene percepito come poco scientifico, una sorta di ingenua umanizzazione di un percorso che in <br />

realtà è pieno di pericoli e sfugge al<strong>la</strong> capacità di valutazione delle donne. <br />

In questa cornice concettuale, fare più controlli, esami, ecografie, non ha un significato medico di <br />

prevenzione del<strong>la</strong> salute ma, piuttosto e soprattutto, quello di p<strong>la</strong>care l'ansia, diventando quasi un <br />

29


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

rito che assolve al<strong>la</strong> funzione di esorcizzare <br />

<strong>la</strong> paura, paura comune alle donne e ai <br />

medici al tempo stesso: se <strong>la</strong> gravidanza è <br />

comunque sempre a rischio (alto o basso) <br />

voglio che venga fatto tutto il possibile, in <br />

una spirale senza fine. <br />

Riguardo a questo aspetto trovo quanto <br />

mai calzante l'affermazione del<strong>la</strong> storica <br />

Barbara Duden “<strong>La</strong> nostra società è <strong>la</strong> <br />

prima che, possedendo delle tecniche, ne <br />

è al tempo stesso posseduta”(8). <br />

Con questa affermazione non si vuole <br />

sostenere che ciò che è naturale sia buono <br />

a discapito del<strong>la</strong> nuove possibilità offerte <br />

dalle tecnologia, a cominciare <br />

dall'epidurale per finire, perché no, al <br />

taglio cesareo su richiesta. Ma si vuole <br />

mettere in discussione il pregiudizio che <br />

le migliori condizioni per <strong>la</strong> salute di mamma e bambino debbano necessariamente esserci nel<strong>la</strong> <br />

sa<strong>la</strong> parto più attrezzata e moderna, con un maggior numero di strumenti a disposizione. Gli <br />

studi(9) al contrario dimostrano che il parto è tanto più sicuro quanto più risponde ai bisogni del<strong>la</strong> <br />

donna: il luogo più sicuro per partorire è il luogo dove <strong>la</strong> donna si sente più si<strong>cura</strong>. Dunque il parto <br />

a casa, se è il luogo scelto dal<strong>la</strong> donna, è sicuro tanto quanto il parto in ospedale, come già <br />

ribadito più volte dall'Organizzazione Mondiale del<strong>la</strong> Sanità. Bisogna resistere al<strong>la</strong> grosso<strong>la</strong>na <br />

tentazione di confondere <strong>la</strong> scienza con <strong>la</strong> tecnologia, e dunque considerare come unico approccio <br />

veramente scientifico il luogo dove <strong>la</strong> tecnologia sia più presente ed efficace. <br />

Per tornare al discorso precedente <strong>la</strong> demedicalizzazione del<strong>la</strong> gravidanza e dunque del parto <br />

possono avvenire solo attraverso una re-­‐definizione istituzionale dell'evento, di tutto il processo <br />

riproduttivo (che inizia con <strong>la</strong> gravidanza e termina con il parto). <br />

Ma, par<strong>la</strong>ndo di spesa pubblica, in che modo <strong>la</strong> revisione del<strong>la</strong> spesa può venire in aiuto alle donne <br />

e ai neonati e migliorare <strong>la</strong> loro salute nel percorso nascita? In che modo il limite può <br />

rappresentare una risorsa? <br />

<strong>La</strong> medicalizzazione rappresenta anche uno spreco di risorse economiche che non ci possiamo più <br />

permettere e proprio perché parliamo di fisiologia e di persone sane, non ma<strong>la</strong>te, risulta molto <br />

indovinato lo slogan del movimento Slow Medicine "Less is More" (10), che si batte contro l'abuso <br />

del<strong>la</strong> tecnologia, a favore dell'appropriatezza delle pratiche sanitarie e per l'ottimizzazione delle <br />

risorse economiche in medicina. <br />

"Less"in questo contesto vuol dire promuovere <strong>la</strong> professione dell'ostetrica che in Europa <br />

rappresenta il riferimento per <strong>la</strong> donna dall'adolescenza al<strong>la</strong> menopausa, l'assistenza al<strong>la</strong> <br />

gravidanza e al parto, l'al<strong>la</strong>ttamento, le informazioni sul<strong>la</strong> contraccezione esull'aborto, <strong>la</strong> <br />

prevenzione delle MTS. L'ostetrica è "Less" rispetto al medico ginecologo perché è un operatore <br />

specializzato non nel<strong>la</strong> patologia ma solo nel<strong>la</strong> fisiologia e nel<strong>la</strong> prevenzione del<strong>la</strong> patologia. <br />

"More" sta per "più ostetriche", perché l'evidenza scientifica e gli studi OMS confermano che dove <br />

è maggiore <strong>la</strong> presenza delle ostetriche migliori sono i risultati in termini di salute per le donne e i <br />

bambini. Questo perché l'ostetrica è <strong>la</strong> figura sanitaria esperta del<strong>la</strong> fisiologia che promuove <strong>la</strong> <br />

capacità personale nel trovare soluzioni efficaci, aiuta <strong>la</strong> consapevolizzazione dei propri bisogni, <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

l'autodeterminazione, a stare in re<strong>la</strong>zione nel rispetto dell'autonomia del<strong>la</strong> persona e ne favorisce <br />

<strong>la</strong> fiducia nelle proprie competenze e capacità: in una <strong>paro<strong>la</strong></strong> favorisce l'empowerment . <br />

Dunque spendingreviewin ostetricia vuol dire ostetriche che promuovono <strong>la</strong> salute sessuale delle <br />

donne, in ospedale e sul territorio; applicazione del POMI (11); aumento del numero dei consultori <br />

e dei percorsi legati al<strong>la</strong> fisiologia nel percorso nascita e tanto altro ancora, ma sempre al<strong>la</strong> luce di <br />

un uso del<strong>la</strong> medicina rispettoso delle reali necessità del<strong>la</strong> persona e sopratutto promovendo una <br />

scelta attiva nel percorso sanitario e non delega e passivizzazione. Insomma non una rinuncia al <br />

progresso del<strong>la</strong> scienza e al<strong>la</strong> tecnologia ma al contrario un razionale e più efficace uso di queste, <br />

al<strong>la</strong> luce di quanto espresso da studi ed evidenze internazionali. <br />

<strong>La</strong> revisione delle spesa è l'occasione attraverso <strong>la</strong> quale possiamo contenere/limitare <br />

l'indiscriminato abuso del<strong>la</strong> tecnologia a vantaggio del<strong>la</strong> scienza, a vantaggio del<strong>la</strong> salute, a <br />

vantaggio dell'autonomia e libera scelta delle donne. Perché nel percorso nascita noi assistiamo <br />

non solo allo spreco delle risorse ma anche a un aumento del<strong>la</strong> mortalità e morbosità materna e <br />

neonatale e all'inaccettabile brutalizzazione di un evento che molte donne definiscono fondante. <br />

Le donne possono così liberarsi finalmente da quest'atteggiamento paranoico e terroristico che <strong>la</strong> <br />

mancanza di fiducia ha determinato: mancanza di fiducia delle donne verso se stesse e degli <br />

operatori verso il corpo delle donne; mancanza di fiducia di tutti noi nei riguardi di una <br />

competenza che è tutta femminile. <br />

Sempre secondo <strong>la</strong> Duden “soltanto fra le ostetriche ci sono ancora operatrici in grado di <br />

riconoscere il potere somatogeno, di trasformazione del corpo, insito nel<strong>la</strong> tecnologia” (12).I o mi <br />

auguro che non sia così ma che sia possibile un'efficace concertazione di tutta l'équipe coinvolta <br />

nel percorso nascita, per una migliore e più consapevole assistenza. <br />

Faccio dunque appello a medici, psicologi e ostetriche, ma anche a sociologi e filosofi, perché <br />

attraverso il contributo di tutti sia possibile restituire alle donne ciò che è stato loro tolto. <br />

Note <br />

(1) Ivan Illich,Nemesi Medica, Bruno Mondadori, Mi<strong>la</strong>no 2004, p. 13. <br />

(2) dati Istituto Superiore di Sanità 2011 www.epicentro.it <br />

(3) il tasso di mortalità e morbidità materna con taglio cesareo aumenta dalle4 alle 15 volte e i neonati hanno un <br />

peggiore adattamento al<strong>la</strong> vita extrauterina con più bassi indice di Apgar al<strong>la</strong> nascita. Organizzazione Mondiale del<strong>la</strong> <br />

Sanitàwww.saperidoc.it <br />

(4) Irene Maffi, Introduzione, in “Antropologia”, 12,2010, pp. 5-­‐17, in partico<strong>la</strong>re p. 5. <br />

(5) ElisViettone,Un taglio di troppo in sa<strong>la</strong> parto. Inchiesta di <strong>La</strong> Repubblica, <br />

2013(http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-­‐it/2013/05/06/news/mamme_in_italia_sa<strong>la</strong>_parto-­e58167160/?inchiesta=%2Fit%2Frepubblica%2Frep-­‐it%2F2013%2F05%2F06%2Fnews%2Fnon_un_paese_per_mamme-­‐<br />

58177460%2F). <br />

(6)15 Raccomandazioni dell'Organizzazione Mondiale del<strong>la</strong> Sanità 1985 <br />

“Le seguenti raccomandazioni si basano sul principio che ogni donna ha il diritto a ricevere un'assistenza prenatale <br />

appropriata e che <strong>la</strong> donna deve svolgere un ruolo centrale in tutti gli aspetti di questa assistenza, compresa <strong>la</strong> <br />

partecipazione nel pianificare, nel portare avanti e nel valutare l'assistenza stessa; e che i fattori sociali, emotivi e <br />

psicologici sono estremamente importanti per un'assistenza appropriata. <strong>La</strong> nascita è un processo naturale e normale. <br />

31


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

1. Per il benessere psicologico del<strong>la</strong> neo-­‐madre deve <br />

essere assi<strong>cura</strong>ta <strong>la</strong> presenza di una persona di sua <br />

scelta -­‐ famigliare o non -­‐ e poter ricevere visite nel <br />

periodo post-­‐natale. <br />

2. A tutte le donne che partoriscono in una struttura <br />

deve venir loro garantito il rispetto dei loro valori e <br />

del<strong>la</strong> loro cultura. <br />

3. L'induzione del travaglio deve essere riservata solo <br />

per specifiche indicazioni mediche ed in nessuna <br />

regione geografica si dovrebbe avere un tasso <br />

superiore al 10%. <br />

4. Non c'è nessuna giustificazione in nessuna regione <br />

geografica per avere più del 10% -­‐ 15% di cesarei. <br />

5. Non c'è nessuna prova che dopo un precedente <br />

cesareo sia richiesto un ulteriore cesareo per <strong>la</strong> <br />

gravidanza successiva. Parti vaginali, dopo cesareo, <br />

dovrebbero venir incoraggiati. <br />

6. Non c'è nessuna indicazione per <strong>la</strong> rasatura del pube e <br />

per il clistere prima del parto. <br />

7. <strong>La</strong> rottura artificiale delle membrane, fatta di routine; <br />

non ha nessuna giustificazione scientifica e se <br />

richiesto, si raccomanda solo in uno stadio avanzato <br />

del travaglio. <br />

8. Il monitoraggio elettronico fetale, fatto di routine, deve essere eseguito solo in situazioni mediche partico<strong>la</strong>rmente <br />

selezionate e nel travaglio indotto. <br />

9. Si raccomanda di non mettere <strong>la</strong> donna nel<strong>la</strong> posizione supina durante il travaglio e parto. Si deve incoraggiare <strong>la</strong> <br />

donna a camminare durante il travaglio e di scegliere liberamente <strong>la</strong> posizione per lei più adatta al parto. <br />

10. L'uso sistematico dell'episiotomia non è giustificato. <br />

11. Il neonato in salute deve restare con <strong>la</strong> madre ogni volta che le condizioni dei due lo permettano. Nessun processo <br />

di osservazione del<strong>la</strong> salute del neonato giustifica <strong>la</strong> separazione del<strong>la</strong> madre. <br />

12. Si deve promuovere immediatamente l'inizio dell'al<strong>la</strong>ttamento persino prima che sia <strong>la</strong>sciata <strong>la</strong> sa<strong>la</strong> parto. <br />

13. L'al<strong>la</strong>ttamento costituisce l'alimentazione normale e ideale del neonato e dà allo sviluppo del bambino basi <br />

biologiche ed effetti impareggiabili <br />

14. Durante il travaglio si dovrebbe evitare <strong>la</strong> somministrazione routinaria di farmaci se non per casi specifici. <br />

15. In gravidanza si raccomanda un'educazione sistematica sull'al<strong>la</strong>ttamento al seno, poiché attraverso un'educazione <br />

ed un sostegno adeguato tutte le donne sono in grado di al<strong>la</strong>ttare il proprio bambino al seno. Si deve incoraggiare <br />

le madri a tenere il bambino vicino a loro e di offrirgli il seno ogni volta che il bimbo richiede. Si raccomanda di <br />

prolungare il più possibile l'al<strong>la</strong>ttamento al seno e di evitare il complemento di aggiunte. Una madre in buona <br />

salute non ha bisogno di alcun complemento fino a 4 -­‐ 6 mesi di vita del bambino. <br />

(7) M. Vuille, Demedicalizzare <strong>la</strong> nascita? Considerazioni storicosociali su un'espressione polisemica, in “Antropologia”, <br />

12,2010, pp. 61-­‐82. <br />

“Il più grande potere di controllo sociale risiede nell'autorità di definire certi comportamenti, persone e cose (...) in tal <br />

modo il controllo sociale può essere considerato come il potere di ricorrere ad un insieme partico<strong>la</strong>re di definizione del <br />

mondo”. <br />

(8) B.Duden, Il gene in testa e il feto nel grembo,Bol<strong>la</strong>ti Berlinghieri, Torino 2006, p. 99. <br />

(9) A sostegno di questa tesi esistono numerosi studi scientifici, qui come riferimento mettiamo uno studio che <br />

riguarda <strong>la</strong> realtà italiana. http://www.epicentro.iss.it/regioni/trentino/pdf/Report_partoDomicilio_2000_05.pdf <br />

(10) G. Bert, A. Gardini, S. Quadrino, Slow Medicine, Spending &Kupfer, Segrate (Mi) 2013; www.slowmedicine.it <br />

(11) M. Grandolfo et al. (ISS), Progetto Obiettivo Materno Infantile.Piano Nazionale Sanitario del 1998-­‐2000. <br />

www.asp<strong>la</strong>zio.it <br />

(12) B.Duden,Il gene in testa e il feto nel grembo, cit.. <br />

32


<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Scatti dall'(e)margine <br />

<strong>La</strong>ura Binello <br />

<strong>La</strong> prestazione era una cosiddetta “prestazione aggiuntiva” e andava a fornire personale in un'area <br />

carente e a monetizzare in modo straordinario una prestazione infermieristica a gettone. Non ero <br />

mai entrata in un carcere di massima sicurezza, e non ci sarei mai entrata se non mi avessero fatto <br />

go<strong>la</strong> quei quattro soldi in più a fine mese. <br />

Entro. <br />

Entro e mi volto. Il grande cancello blindato si richiude al<strong>la</strong> mie spalle, con un rumore metallico, <br />

arrugginito, sinistro, e quel c<strong>la</strong>ck finale che emette quando arriva a fine corsa mi fa venire il primo <br />

brivido <br />

Sono dentro. Ce l'ho fatta. Sono dentro, da innocente, ma sono dentro anch'io adesso. <br />

Sono nel braccio 41bis, almeno così mi dicono, ma io vorrei essere ovunque tranne che lì. Un <br />

lungo corridoio con tante, troppe celle; un luogo che puzza di deso<strong>la</strong>zione e sofferenza. <br />

Non voglio registrare emozione alcuna, né sofferenza, né deso<strong>la</strong>zione, né abbandono. Voglio solo <br />

consegnare <strong>la</strong> terapia e andarmene. <br />

E prendere quei quattro sporchi soldi a fine mese in busta paga. <br />

Devo consegnare sacchettini di cellophane pieni di tante “caramelle” (compresse di terapia), senza <br />

neppure poter individuare visivamente colui a cui <strong>la</strong> sto consegnando; semplicemente devo <br />

pronunciare ad alta voce un numero e aspettare che una mano sbuchi da una fessura del blindo <br />

creata appositamente per le consegne di materiale vario. <br />

Io devo gridare 33 e una mano 33 esce dal<strong>la</strong> feritoia e afferra il sacchettino delle compresse. Poi <br />

grido 35 e aspetto che <strong>la</strong> mano 35 esca. <br />

In un immaginario selfie vedo un'infermiera che sta facendo esattamente quello che non vorrebbe <br />

mai fare e che mai ha fatto, anche in tempi passati dove negli ospedali le persone ricoverate <br />

spesso erano numeri o codici patologia… Qui sono ancora meno, sono cinque dita che svento<strong>la</strong>no <br />

da una fessura, dita senza un braccio, senza un volto, senza un movimento, senza una storia, senza <br />

un nome e una diagnosi. <br />

Il carcere è un luogo di sepolti vivi dentro una città murata. Enormi serbatoi, dove <strong>la</strong> società, senza <br />

eccessive remore, continua a rinchiudere una marea di tossicodipendenti, di extracomunitari, di <br />

disturbati mentali, quasi un tentativo per neutralizzarli e renderli così inoffensivi. <br />

Il carcere stesso è <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia, dove i detenuti sono dei residui di umanità che vivono al di fuori <br />

dei cicli del<strong>la</strong> natura. Il carcere li condiziona, li disumanizza, li modifica, i peggiora sia fisicamente <br />

che psicologicamente. In sostanza li amma<strong>la</strong>, li rende tutti pazienti da <strong>cura</strong>re… Tutti, nessuno <br />

escluso… 450 detenuti amma<strong>la</strong>ti, di depressione, di ma<strong>la</strong>ttie infettive, di psicosi gravi, di disturbi <br />

cognitivi, di ma<strong>la</strong>ttie comuni e strane, tutti con terapie da cavallo per sedare, addormentare, <br />

inibire qualsiasi cosa che assomigli ad una emozione. <br />

Al di là delle sbarre il detenuto non è più un uomo: è ormai un corpo invecchiato in fretta, un volto <br />

anonimo, uno sguardo spento, una mano aperta che aspetta forse un contatto umano, invece che <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

un sacchetto di pillole… Ma qui siamo nel 41bis, qui l'infermiera non deve fare psicologia ma <br />

terapia, chiaro <strong>La</strong>ura? <br />

Mi dicono che devo consegnare <strong>la</strong> terapia ad una persona piuttosto anziana in iso<strong>la</strong>mento. <br />

Quasi sono contenta, un anziano, il mio mondo. <br />

Mi dicono che è un bastardo di settant’anni che abusava del nipotino di otto. <br />

Devo somministrargli un farmaco in gocce, un potente sedativo e <strong>la</strong> guardia che mi accompagna <br />

mi dice che non posso entrare né lui estrarre il braccio dal<strong>la</strong> feritoia. <br />

Scatto un’altra fotografia immaginaria: vedo una lingua che esce da una fessura, solo una lingua, <br />

nemmeno <strong>la</strong> bocca; e vedo me che con una enorme siringa senza ago gli sparo in bocca il mix di <br />

psicofarmaci. <br />

Rabbrividisco. <br />

Penso che gli sparerei proprio in fronte, con <strong>la</strong> pisto<strong>la</strong> d'ordinanza del<strong>la</strong> guardia accanto a me. <br />

Rabbrividisco ancora, di me stessa. <br />

Mi avvicino al<strong>la</strong> cel<strong>la</strong> d'iso<strong>la</strong>mento e aspetto che mi si diano informazioni su come somministrare <br />

<strong>la</strong> terapia a questo vecchio porco. <br />

Ovvero a questo paziente, perché per me questo è, un paziente, deve esserlo, ora più che mai. <br />

Ora, so chi sono, so perché sono in quel posto e so esattamente quel che devo fare per mandato. <br />

Somministrare <strong>la</strong> terapia orale a un paziente. <br />

Percepisco con <strong>la</strong> so<strong>la</strong> immaginazione che dietro quel<strong>la</strong> feritoia c'è il mio paziente, <strong>la</strong> sua bocca in <br />

attesa. <br />

Prendo un bicchiere di p<strong>la</strong>stica monouso e inizio a dosare le gocce, che sono tante, tantissime, di <br />

tipo differente, una misce<strong>la</strong> che dovrei suddividere in tanti bicchieri monodose, ma mi hanno <br />

detto che devo metterle tutte insieme, <br />

che tanto è lo stesso. <br />

Sento il bisbiglio del<strong>la</strong> voce del mio <br />

paziente, del mio vecchio paziente e sento <br />

<strong>la</strong> fragorosa e grassa risata del<strong>la</strong> guardia <br />

che mi accompagna. <br />

Il bicchiere?!? <br />

<strong>La</strong> siringa, signora, <strong>la</strong> siringa… In bocca, <br />

sul<strong>la</strong> lingua, allungata fuori dal<strong>la</strong> feritoia. <br />

<strong>La</strong> lingua di un pedofilo. <br />

Glie<strong>la</strong> taglio. <br />

Non posso sparare cento gocce di <br />

qualsiasi cosa su una lingua, non posso, <br />

mio dio non posso. <br />

Posso tagliarglie<strong>la</strong> dunque? <br />

Non sono più io e lui non è più lui da <br />

tempo. <br />

Siamo entrambi diventati altro. <br />

Chiedo al<strong>la</strong> guardia di <strong>la</strong>sciarmi infi<strong>la</strong>re <br />

una mano per offrigli il bicchiere, non <br />

posso sparargli <strong>la</strong> terapia con una siringa <br />

nel<strong>la</strong> go<strong>la</strong>, non ce <strong>la</strong> faccio. <br />

Non ho paura, non ne ho più, neppure ho <br />

pietà, pena, non ho più nul<strong>la</strong> che mi salvi, <br />

solo <strong>la</strong> mia identità professionale. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

A mio rischio e pericolo. <br />

Esce <strong>la</strong> sua mano mentre <strong>la</strong> mia si avvicina al<strong>la</strong> sua. <br />

Gli porgo il bicchiere e nell'afferrarlo, per un attimo, <strong>la</strong> sua mano sfiora <strong>la</strong> mia. <br />

Una mano. <br />

Pezzi di vita, di storie, di dolore comunque. <br />

L'ultima immagine del<strong>la</strong> giornata è <strong>la</strong> mia faccia allo specchio, <strong>la</strong> sera, a casa mia, dopo una doccia <br />

bollente e tante <strong>la</strong>crime liberatorie. <br />

Mi guardo <strong>la</strong> faccia stanca e mi chiedo chi sono. <br />

Che infermiera sono. <br />

Non lo so, o forse sì. <br />

Oggi lo so. <br />

Mai più tornata in quel carcere, mai più ci tornerei. <br />

Mangio pane e cipolle piuttosto. <br />

Non so essere come dovrei. <br />

O dovrei diventare come vorrebbero altri. <br />

Ho detto no. <br />

Ho scelto di non essere qualcun altro ma di rimanere me stessa. <br />

Una donna come tante, una madre, una figlia, un'infermiera. <br />

Nessuno per giudicare. <br />

Qualcuno per un mestiere che amo e che posso esercitare solo secondo un modello di assoluto <br />

rispetto dell'altro, chiunque esso sia. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Giudizi e pregiudizi <br />

Pao<strong>la</strong> Emilia Cicerone <br />

E’ un tema non facile da affrontare, quello dei nostri pregiudizi. Partico<strong>la</strong>rmente per chi come <br />

me fa un mestiere che è anche un modo di vedere il mondo: dico spesso che non “faccio” <strong>la</strong> <br />

giornalista, “sono“ una giornalista. E diventa anche più difficile quando ci riguardano <br />

personalmente, e da vicino. <br />

<strong>La</strong> premessa è che io sono dotata di poca pazienza, molto “mi<strong>la</strong>nese” in questo, anche se sono in <br />

realtà toscana: cammino a passo svelto, mi sbrigo a timbrare il biglietto sul<strong>la</strong> metro o sul tram, <br />

conto in un <strong>la</strong>mpo le monete per pagare un acquisto. E ho poca, pochissima tolleranza nei <br />

confronti di chi si attarda, control<strong>la</strong> gli spiccioli due volte, si ferma in mezzo. Il risultato è che <br />

spesso mi innervosisco quando incontro persone anziane o in qualche modo in difficoltà: <strong>la</strong> <br />

sensazione, del tutto irrazionale, è che ostacolino gli altri deliberatamente, per dispetto o <br />

non<strong>cura</strong>nza. E’, o meglio era. <br />

Qualche anno fa ho affrontato un <br />

problema di salute che mi ha <br />

costretto a mettere in discussione <br />

il mio mito dell’efficienza. Per <br />

qualche mese ho sofferto di una <br />

distonia ocu<strong>la</strong>re, un <br />

blefarospasmo che mi ha reso <br />

quasi cieca (Non a caso il disturbo <br />

è anche definito “ cecità <br />

funzionale”). In pratica, per mesi <br />

ho combattuto con gli occhi che si <br />

chiudevano -­‐ e aprivano -­‐ quando <br />

pareva a loro, seguendo percorsi <br />

bizzarri e non control<strong>la</strong>bili. Mesi in <br />

cui ho cercato di continuare <strong>la</strong> mia <br />

vita di sempre, tra mille <br />

stratagemmi. Trovandomi, per <strong>la</strong> prima volta nel<strong>la</strong> vita, nei panni di quel<strong>la</strong> che si muove quasi a <br />

tentoni, che esita mille volte su ogni gesto e chiede aiuto per attraversare <strong>la</strong> strada. Mi sono <br />

trovata a girare in pieno inverno con gli occhiali da cieca -­‐ con le lenti scurissime e le stanghette <br />

<strong>la</strong>rghe per proteggere dal<strong>la</strong> luce -­‐ e a sperare entrando in un negozio, che le commesse posassero <br />

il resto nel<strong>la</strong> frazione di secondo in cui riuscivo ad aprire gli occhi. <br />

Così, inevitabilmente sono diventata io quel<strong>la</strong> lenta, quel<strong>la</strong> goffa, quel<strong>la</strong> che sbatte nelle <br />

persone. Ne sono scaturite interessanti osservazioni antropologiche: se urtati, i mi<strong>la</strong>nesi in genere <br />

rispondono bruscamente, gli stranieri tendono a scusarsi, anche se palesemente ero stata io a <br />

travolgerli. Per fortuna a piedi non ci si fa male, è solo il mio orgoglio a rimanere ferito, anche se a <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

volte ho mandato al diavolo qualche ignaro passante che non si era reso conto del<strong>la</strong> situazione. <br />

Non si dovrebbe essere gentili con i disabili? In fondo è questo che sono stata, almeno per un po’. <br />

Scoprendo di solidarizzare, grazie al mio passo incerto, con quanti protestano per le buche e <br />

chiedono marciapiedi sgombri e strade accessibili. Gli amici hanno imparato a ricordarsi di me, ad <br />

avvertirmi quando c’è di fronte un ostacolo prima che ci sbatta contro. Con grande buona volontà <br />

e mille trabocchetti: c’è uno scalino, ma devo salire o scendere? E chi si ricorda di segna<strong>la</strong>rmi <br />

anche gli ostacoli che mi sfuggono, come i ? Ma quanti ostacoli ci sono sulle nostre <br />

strade… <br />

Ovviamente il problema ha interferito anche col mio <br />

<strong>la</strong>voro. E non solo per le difficoltà ad affrontare una <br />

tastiera che pur conosco a memoria. Sono le <br />

interazioni con le persone che diventano difficili. Io <br />

sono abituata a essere “in controllo” chiedere aiuto e <br />

mostrarmi vulnerabile non fa parte del mio ruolo, ma <br />

il mio non è il genere di disturbo che si può <br />

nascondere. E paradossalmente accettare di farmi <br />

vedere in giro con gli occhialoni neri -­‐ quindi <br />

“strana”, “ vulnerabile”, tutte cose che odio -­‐ mi <br />

rega<strong>la</strong> una parvenza di normalità. Così, accolgo al <br />

volo le proposte di moderare un dibattito o una <br />

presentazione libraria. Mi metto in gioco, vorrei <br />

sentirmi in controllo ma ho bisogno degli altri: non ci <br />

sono abituata e non mi piace per niente. Decido di <br />

giocare a carte scoperte, rompo il ghiaccio spiegando <br />

al pubblico perché non toglierò gli occhiali neri. <br />

Avverto che se vogliono intervenire nel dibattito <br />

dovranno sbracciarsi perché li noti. E tutto fi<strong>la</strong> via <br />

tranquillo, un’altra incrinatura nel mio bisogno di perfezionismo. Anche più difficile è stato <br />

intervistare qualcuno: un giornalista dovrebbe tenere sempre gli occhi bene aperti -­‐ è un luogo <br />

comune -­‐ e non solo metaforicamente. Come accettare di essere io quel<strong>la</strong> che ha bisogno di aiuto? <br />

, suggerisce <strong>la</strong> psicologa con cui da anni <br />

condivido un percorso. Ed io, decisa a darle ascolto, ho dichiarato le mie difficoltà di fronte a un <br />

interlocutore autorevole. Risultato, come d’incanto l’atmosfera si è sge<strong>la</strong>ta, e ci siamo <strong>la</strong>nciate in <br />

una conversazione su arrossamenti e colliri sotto lo sguardo francamente perplesso di un <br />

inappuntabile addetto stampa. <br />

Non è stato sempre così facile, ma in linea di massima, è vero, le persone sono più comprensive <br />

di quanto credessi. Forse non le vedevo bene, senza occhiali neri? <br />

Quello però che porto ancora negli occhi e nel cuore è lo sguardo di Mario Me<strong>la</strong>zzini, ricercatore <br />

affetto da SLA. Che di fronte alle mie scuse per essermi presentata davanti a lui col volto coperto <br />

da un paio di occhiali scuri mi ha sorriso < va bene così, non si preoccupi>. <br />

Ormai il blefarospasmo è un ricordo lontano, i miei occhi adesso si comportano -­‐ quasi sempre-­‐ <br />

bene, e io ho ripreso a correre… <br />

Qualche volta però rallento... Non sono certo diventata paziente -­‐ sono sempre io -­‐ ma mi <br />

succede, vedendo qualcuno che esita o arranca, di fermarmi per cercare di capire, o di offrire il <br />

mio aiuto... <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Vivere e <strong>la</strong>vorare sotto pregiudizio <br />

Dagmar Rinnenburger <br />

Conosco il pregiudizio per esperienza diretta: nel<strong>la</strong> vita sociale e in quel<strong>la</strong> professionale. Sono <br />

tedesca, trasferita in Italia da quasi 25 anni; come medico <strong>la</strong>voro in un ospedale pubblico. Anche <br />

se parlo bene l’italiano, ho un po’ di accento; fisicamente risulto nordica al primo sguardo. Non <br />

posso impedire che qualcuno affermi: “Lei non è di lingua italiana: non avrà capito”. Oppure che al <br />

mercato venga interpel<strong>la</strong>ta in inglese. <br />

L’essere considerata tedesca emerge nelle forme imprevedibili del<strong>la</strong> vita quotidiana. In ospedale <br />

quando fa caldo e tutti sbuffano, se mi <strong>la</strong>mento io mi dicono: “Certo, tu non sei abituata”. Se <br />

invece come gli altri mi <strong>la</strong>gno del freddo, mi becco: “Ma come: tu dovresti essere abituata”. Per <br />

non par<strong>la</strong>re dei pregiudizi alimentari. Chi è invitato a mangiare a casa mia viene con sospetto: “Sai, <br />

tutte le vostra salse tedesche… Fanno male e voi le mettete dappertutto”. Gli ospiti si ri<strong>la</strong>ssano <br />

solo quando vedono che non si serve il cappuccino a cena, accanto al tubetto di senape e di <br />

ketchup. E non parliamo dell’aspetto delle donne nordiche, considerate genericamente sgraziate e <br />

malvestite (sul<strong>la</strong> falsariga del<strong>la</strong> cancelliera Merkel; “Donna tosta, però”, si aggiunge in genere con <br />

benevolenza). <br />

Ma è soprattutto nell’ambito professionale che sento più forte il peso dei pregiudizi culturali. <br />

L’ho percepito fin dall’inizio del mio trasferimento in Italia, in partico<strong>la</strong>re nel mio modo di <br />

rapportarmi con i pazienti. Una delle prime esperienze mi è rimasta impressa. Avevo iniziato a <br />

spiegare a una ma<strong>la</strong>ta di sclerosi <strong>la</strong>terale amiotrofica il decorso del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia; il mio intento era <br />

quello di illustrarle le alternative che le si aprivano davanti riguardo ai possibili trattamenti e <br />

sondare se voleva partecipare consapevolmente alle decisioni. Una collega mi ha confrontato <br />

duramente, accusandomi di essere crudele e insensibile. A causa del mio essere tedesca… <br />

L’atteggiamento più diffuso tra i colleghi era l’omissione di informazioni: i ma<strong>la</strong>ti di ma<strong>la</strong>ttie <br />

croniche e degenerative erano sistematicamente tenuti all’oscuro. Il più cinico degli atteggiamenti <br />

dei medici lo trovavo in oncologia: <strong>la</strong> flebo rossa del citostatico, i capelli caduti sul cuscino, mentre <br />

medici e infermieri par<strong>la</strong>vano di una brutta polmonite… Questo era ritenuto essere <br />

compassionevoli. Se proponevo l’informazione e il coinvolgimento del paziente nelle scelte, non <br />

si voleva vedere <strong>la</strong> questione etica sottostante, ma tutto veniva ricondotto a una diversa <br />

sensibilità culturale: quel<strong>la</strong> tedesca, appunto, in contrasto con quel<strong>la</strong> dolce e protettiva di stampo <br />

mediterraneo. Le cose nel frattempo sono cambiate anche in Italia, con <strong>la</strong> diffusione del consenso <br />

informato. Tuttavia ho sempre l’impressione che <strong>la</strong> comunicazione aperta mi venga addebitata <br />

come un tratto culturale, piuttosto che come un’esigenza del<strong>la</strong> buona medicina. <br />

Qualche volta il pregiudizio cade a mio favore. C’è chi mi confessa che mi sceglie per il mio nome <br />

tedesco: “Sa, dottoressa: voi <strong>la</strong>vorate meglio, siete più ordinati, più coscienziosi”. “Certo, siete <br />

anche molto severi”, concluse una volta un paziente dopo aver decantato le mie presunte qualità <br />

tedesche: io non avevo ancora aperto bocca. Il commento più stridente l’ho avuto da una paziente <br />

americana. Mi ha confessato che viene a farsi <strong>cura</strong>re da me perché evita i medici italiani: “Gli <br />

italiani sono Untermenschen (“sottouomini”: il termine con cui i nazisti designavano le razze <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

ritenute inferiori), caotici e corrotti”. In questa situazione mi si è posto un acuto problema <br />

deontologico: posso rifiutarmi di occuparmi del<strong>la</strong> salute di una persona che usa queste espressioni <br />

e tradisce di avere una mentalità che giudico spregevole? E se anche volessi mantenere una <br />

neutralità nei suoi confronti, sono si<strong>cura</strong> di conservarmi equanime come clinico, senza essere <br />

negativamente influenzata dal mio profondo rifiuto di questa persona razzista? <br />

Vivere e <strong>la</strong>vorare sotto pregiudizio è estremamente faticoso. E se questo succede a una tedesca in <br />

Europa, posso solo provare a immaginare di quanti pregiudizi sia investito un medico nero del <br />

Congo che <strong>la</strong>vori a Roma o a Berlino. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Imparare a danzare <br />

C<strong>la</strong>udio Diaz <br />

Giudizio e pregiudizio credo siano fondamentalmente atteggiamenti che nell’individuo fioriscano <br />

per due ragioni che possono essere separate, ma penso che invece fondamentalmente <br />

s’intersechino. <strong>La</strong> prima è culturale e <strong>la</strong> seconda esperienziale. Cresciamo in un mondo che ci <br />

insegna ad avere paura, a diffidare, a credere che l’altro, tendenzialmente, sia sempre proteso a <br />

giocare sporco per ottenere una qualche forma di beneficio per sé e questa è <strong>la</strong> parte culturale <br />

che non fa che alimentare quel<strong>la</strong> esperienziale; in quanto se cresco con questa convinzione <br />

leggerò quanto mi accade intorno non solo attraverso una saggia e<strong>la</strong>borazione delle esperienze <br />

che vivrò, ma anche interpretando quanto mi circonda sempre secondo una visione negativa e/o <br />

spaventata. <br />

In questo senso i bambini e le persone portatrici di varie forme di neurodiversità, lo spettro <br />

autistico per esempio, ma anche altre forme di disabilità neurologica possono insegnare molto. <br />

Essi hanno serie difficoltà, se non l’impossibilità, di comprendere <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>fede altrui, i sottesi, i non <br />

detti. Questa scarsa capacità di leggere lo sfumato, che pare essere un enorme difetto potrebbe <br />

invece stimo<strong>la</strong>re una profonda riflessione su come il modo di osservare il mondo e re<strong>la</strong>zionarci <br />

col prossimo dipenda fondamentalmente dal nostro modo di osservare. Il bambino è l’esempio <br />

più chiaro di questo concetto. Egli ancora non è contaminato né dal<strong>la</strong> cultura del suo Paese né <br />

dall’esperienza. Crescendo gli verranno insegnate tutta una serie di forme di pensiero a cui lui sarà <br />

tenuto ad allinearsi per il semplice fatto che intorno a sé tutti gli altri fanno lo stesso e quindi non <br />

potrà che indirettamente convincersi che quel<strong>la</strong> sia <strong>la</strong> Verità, quello il solo modo esistente di <br />

osservare il mondo, l’Altro e sé stesso. Dipenderà anche dal<strong>la</strong> famiglia in cui cresce, dal grado di <br />

cultura che questa famiglia sarà in grado di offrirgli, dall’insegnamento che a loro volta quindi i <br />

genitori avranno ricevuto. E questo <br />

insegnamento sull’osservazione del mondo e <br />

dell’altro inevitabilmente influenzerà il suo <br />

modo di re<strong>la</strong>zionarsi contaminando <strong>la</strong> <br />

percezione dell’esperienze che farà ed <br />

autoalimentando determinate convinzioni, <br />

per lo più false, o comunque provvisorie e <br />

re<strong>la</strong>tive. <br />

Noi cominciamo ad identificarci attraverso lo <br />

sguardo dell’Altro per poi misce<strong>la</strong>rlo al <br />

nostro e soppesando le diverse variabili <br />

formiamo l’immagine di noi stessi. Ma <br />

questo in persone che abbiano una disabilità, <br />

una diversa abilità neurologica, risulta <br />

estremamente complesso, col rischio di <br />

creare enormi scompensi in chi ne è <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

portatore. Ciò che può risultare normale per qualcuno può essere estremamente faticoso per un <br />

altro. <br />

Su tutto, ciò che maggiormente risulta nocivo e deleterio è <strong>la</strong> menzogna pur se protettiva in <br />

quanto renderà pressoché impossibili comprendere, per chi non ne abbia innata competenza, <br />

l’esperienza che nel corso del<strong>la</strong> vita andrà formandosi. Qui entra in gioco il pregiudizio <br />

esperienziale. Se io mi fido di tutti, se mi è omesso il comprendere che l’altro può non essere in <br />

buona fede, se non mi vengono insegnate le tecniche per osservare correttamente il mondo, il <br />

giorno che per una qualsiasi ragione comprenderò che mi si è mentito diventerà difficilissimo <br />

riuscire a fidarmi di altri e passerò così da una totale fiducia ad una totale sfiducia. Salto questo <br />

che può risultare devastante per <strong>la</strong> psiche e <strong>la</strong> qualità di vita di un individuo e che inquinerà <br />

pressoché ogni re<strong>la</strong>zione a venire, se non altro del dubbio, ma di quel dubbio negativo, che più che <br />

dubbio si potrebbe definire “paranoia”. <br />

35 anni fa mia madre, del<strong>la</strong> quale purtroppo non so nul<strong>la</strong> perché mi diede in adozione, mi mise al <br />

mondo, ma questo parto non risultò semplice, vi furono delle complicazioni che causarono una <br />

neurodiversità. Neurodiversità del<strong>la</strong> quale pur se intimamente consapevole ne ebbi conferma solo <br />

molti anni dopo. E ciò finì per influenzare in modo davvero preponderante l’intera visione delle <br />

re<strong>la</strong>zioni che fino a quel momento avevo avuto. Ma soprattutto creando una profonda diffidenza <br />

non solo verso le singole persone che potevo ritenere “colpevoli” di questa omissione, ma verso <br />

intere categorie che a mio avviso si erano rese “complici” di questa menzogna. <strong>La</strong> categoria <br />

verso <strong>la</strong> quale purtroppo tale diffidenza è risultata più difficilmente sanabile è quel<strong>la</strong> medica, che <br />

d’altronde era anche quel<strong>la</strong> in cui io avevo sempre riposto maggior fiducia e stima. <br />

D’un tratto così, oltre a rendermi conto di una <br />

verità che prima risultava solo <strong>la</strong>tente nel<strong>la</strong> mia <br />

coscienza, mi sono trovato a non capire più con <br />

chiarezza se il medico che avevo davanti fosse <br />

sincero con me o meno, se non dicesse o non <br />

capisse, se volesse tirarsi fuori da una situazione <br />

che risultava scomoda o semplicemente non <br />

avesse gli strumenti comunicativi adeguati per <br />

re<strong>la</strong>zionarsi con me. Tutto ciò è stato devastante <br />

ed ha gravemente incrinato <strong>la</strong> mia capacità di <br />

re<strong>la</strong>zione con queste persone. Ad aiutarmi c’è <br />

stata per fortuna l’oggettività di alcuni dati che <br />

quindi fungevano da busso<strong>la</strong>, ma senza dubbio <br />

rendersi conto che non si riesce a comprendere <br />

se <strong>la</strong> persona che si ha davanti ci capisca o meno <br />

e se noi capiamo o meno lei è qualcosa <br />

d’incredibilmente difficile da gestire. Da qui ne è <br />

scaturita una spirale di esami e di tentativi, che <br />

questa diffidenza ha reso costantemente vani, di <br />

re<strong>la</strong>zionarsi. Da un <strong>la</strong>to l’assenza di conclusioni <br />

strumentali univoche dall’altro le mie aspettative <br />

e probabilmente il mio modo di pormi rendevano <br />

ogni visita non una rapporto fiduciario tra medico <br />

e paziente ma una competizione. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

<strong>La</strong> cosa peggiore per me è stata che non intendevo fosse questa <strong>la</strong> direzione in cui andare, io <br />

desideravo proprio quel rapporto di fiducia che però il mio comportamento, <strong>la</strong> mia paura, <strong>la</strong> mia <br />

ansia non riuscivano a far nascere. E così più cercavo di ottenere e dare questa fiducia più <strong>la</strong> <br />

persona (medico) che avevo davanti si sentiva travolto da un’infinità d’informazioni ed emozioni <br />

difficilmente gestibili. Uscivo spesso da quegli ambu<strong>la</strong>tori con rabbia, con ipotesi difficilmente <br />

confermabili del perché quel medico si fosse comportato in un certo modo ed inevitabilmente ciò <br />

produceva giudizio che andava ad alimentare il pregiudizio sul<strong>la</strong> categoria, che andava a rafforzare <br />

il comportamento “errato” al<strong>la</strong> visita successiva. <br />

<strong>La</strong> re<strong>la</strong>zione non è mai semplice, necessita di strumenti basi<strong>la</strong>ri per essere interpretata, richiede <br />

che si conoscano regole, fondamentalmente innate, d’interpretazione di detti e non detti, di gesti <br />

e di sguardi. Per <strong>la</strong> maggioranza delle persone tutto ciò, appunto, è innato e quindi risulta <br />

semplice quasi banale anche solo il discuterne, ma per altri tutto ciò è complicatissimo e richiede <br />

un grande esercizio, una vera forma di riabilitazione, se così si può dire, di “connessioni” cerebrali. <br />

Ciò secondo me riporta l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali del<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione, non solo di <br />

quel<strong>la</strong> medico-­‐paziente. <br />

L’essere umano, neurotipico o neurodiverso che sia, comprende <strong>la</strong> realtà attraverso un continuo <br />

specchiarsi con ciò che lo circonda, ambiente e persone, singoli e gruppi, questo continuo ed in <br />

progress specchiarsi implica una danza senza fine che normalmente non risulta stancante ma che <br />

in altri casi può essere sfinente se non si riesce ad ottenere un incontro in cui l’individuo <br />

neurotipico sia in grado umanamente di sforzarsi di comprendere le difficoltà del neurodiverso, <br />

ma non attraverso il giudizio che finirebbe con porre <strong>la</strong> suddetta persona su un piano di <br />

superiorità ma con lo sforzo a comprendere che diverso non significa inferiore o sbagliato. <br />

Nel<strong>la</strong> mia esperienza ho dovuto far ricorso a un enorme sforzo, a un’auto-­‐riabilitazione di <br />

connessioni non funzionanti o diversamente funzionanti per avvicinarmi a chi queste connessioni <br />

le aveva attive, una fatica immane per imparare cosa significassero determinati gesti, purtroppo <br />

devo dire, una forma di normalizzazione per superare <strong>la</strong> percezione che lo sguardo dell’altro mi <br />

rimandava. Comprendevo d’altro canto più in un certo senso <strong>la</strong> difficoltà dell’altro a re<strong>la</strong>zionarsi <br />

con me che <strong>la</strong> mia a sforzarmi di capire gli altri. Ed è proprio in questa danza che si palesa <br />

chiarissima <strong>la</strong> comprensione che per quanto sia uno a condurre, e di certo non può essere il <br />

paziente, entrambi rimandano input ed output che devono essere accolti ed interpretati al fine <br />

che <strong>la</strong> danza risulti fluida e possa evolversi in sempre maggiori risultati. <br />

Fino a che non ho compreso questo nel rapporto fra me e i medici ha continuato a presentarsi <br />

inevitabilmente un susseguirsi di ostacoli che rendevano pressoché impossibile l’instaurarsi di una <br />

re<strong>la</strong>zione fiduciaria e danzante. <br />

Nel momento in cui ho invece capito che forse dovevo provare, sforzarmi, di modificare il mio <br />

approccio invece che attendere che si modificasse il loro, le cose “magicamente” son cambiate. Ho <br />

cominciato così a ricevere quello che tanto desideravo, ma che sembrava impossibile ottenere. <br />

Così, ecco che <strong>la</strong> chiave di tutto è risultata l’interrompere il meccanismo che ero abituato a seguire <br />

senza aspettarmi che fossero gli altri a modificare il loro. In qualche modo è necessario rompere <br />

gli equilibri fino a quel momento costruiti al fine di ottenere nuovi feedback. <br />

E’ stata molto dura, ma non posso di sicuro negare che questo dover imparare a danzare sia <br />

stata un’avventura affascinante ed estremamente formativa, ma soprattutto che sia stata <strong>la</strong> <br />

chiave per ritrovare <strong>la</strong> libertà! <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Dove abita <strong>la</strong> violenza <br />

Silvana Quadrino <br />

<strong>La</strong> paura è un rumore: le chiavi che girano nel<strong>la</strong> serratura, <strong>la</strong> porta che sbatte, <strong>la</strong> sua voce. Non <br />

grida. Sussurra parole. Domande. Ordini. E’ già paura. <br />

<strong>La</strong> paura ha un odore; l’odore del vino, pesante, l’odore di sigarette e di sudore sul<strong>la</strong> sua maglia. <br />

Sempre più vicino. <br />

<strong>La</strong> paura ha gli occhi di mamma, che guardano in basso per non incontrare gli occhi di lui, che <br />

sfiorano i bambini, che mandano un ordine muto, andate di là. <br />

Lucia non ci andava, di là. Spingeva i fratellini in camera e restava lì, nel corridoio, <strong>la</strong> porta <br />

semichiusa. Voleva sentire, e voleva non sentire. Voleva fare qualcosa, ma non lo ha fatto mai. <br />

<strong>La</strong> violenza ha suoni attutiti, mamma non gridava, non piangeva, i vicini non dovevano sapere, e <br />

c’erano i piccoli, di là. <br />

<strong>La</strong> violenza ha gli occhi di papà, guardano fisso e se diventano piccoli non sai se è tutto finito o se <br />

ricomincerà, ancora, e allora preferisci non guardarli e non sapere. <br />

Lucia sa dove abita <strong>la</strong> violenza, dove abita <strong>la</strong> paura: nelle case troppo grandi, troppo uguali, <br />

troppo brutte del quartiere dove è nata. <br />

Nelle scale dove chiunque piscia se ha da <br />

pisciare, dove le scritte sui muri coprono <br />

altre scritte e altre scritte sull’intonaco <br />

scrostato e mai ridipinto, dove l’ascensore <br />

non funziona da mesi. Abita negli altri <br />

alloggi uguali al suo, nello stesso silenzio, <strong>la</strong> <br />

vedi poi, negli occhi delle donne, sul viso dei <br />

bambini: <strong>la</strong> violenza <strong>la</strong>scia i suoi segni, e non <br />

sono solo i lividi. E’ quello sguardo. <br />

<strong>La</strong> paura è lo sguardo dei poveri. <br />

Lontano. Non ha pensato ad altro, da <br />

quando era picco<strong>la</strong>. Non qui. Non in queste <br />

case, non in questo quartiere; non con <br />

questi uomini. Non <strong>la</strong> voleva una vita con i <br />

suoni e gli odori del<strong>la</strong> violenza. <br />

Ha capito presto di poterce<strong>la</strong> fare: lo ha <br />

capito a scuo<strong>la</strong>, imparare era facile, i <br />

fratellini no, si incagliavano di fronte alle <br />

parole, ai numeri, finivano per scappare <br />

fuori, meglio il cortile, il pallone, e poi gli <br />

amici e i loro traffici sempre meno puliti. Gli <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

insegnanti par<strong>la</strong>vano con mamma, per fortuna avete Lucia, ma gli altri due… Ma a mamma non <br />

servivano quelle parole, non le serviva più nul<strong>la</strong> ormai, lui l’aveva spezzata, spinta in una <br />

indifferenza ma<strong>la</strong>ta che Lucia non sopportava più, non vedeva lei e non vedeva gli altri due, che <br />

sprofondavano nel<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> delinquenza truce e disperata degli scippi e dello spaccio. <br />

Lontano. Nei suoi sogni c’era un <strong>la</strong>voro, forse l’università. Non un uomo. Le altre ragazze si <br />

fidanzavano presto, e Lucia vedeva come in un film il loro futuro già scritto, con quei ragazzi, in <br />

quel quartiere, senza speranza, e <strong>la</strong> violenza già pronta per loro, come se facesse tutt’uno con <br />

quelle case, con quelle scale, con quegli alloggi troppo brutti e troppo uguali. <br />

Con Marco aveva diviso successi sco<strong>la</strong>stici e chiacchierate sulle panchine, sogni e progetti e <br />

qualche bacio. Lui al<strong>la</strong> violenza era sfuggito, sua madre non aveva marito, aveva lo sguardo dritto <br />

e fiero di chi ha sfidato <strong>la</strong> vita da so<strong>la</strong>; anche lo sguardo di Marco non aveva i segni del<strong>la</strong> violenza, <br />

a Lucia piaceva guardarlo negli occhi. Sapeva che lui pensava a lei; ma sapeva anche che lui dal <br />

quartiere non sarebbe riuscito a fuggire, <strong>la</strong> sua casa era lì, e c’era sua madre, e poi lui non aveva <br />

paura di restare. Quando lui le aveva portato un anello, un po’ per gioco un po’ per davvero, così <br />

per vedere cosa avrebbe detto lei, Lucia aveva detto no. Aveva 18 anni, e <strong>la</strong> prima occasione per <br />

andare lontano, uno stage nel famoso negozio di mobili svedesi, appena finito il liceo artistico, in <br />

un’altra città. Lontano. <br />

Le avevano offerto un <strong>la</strong>voro e uno stipendio misero, turni pesanti, capi irritabili e sempre <br />

scontenti, le domeniche quasi sempre lì nel centro commerciale, invaso dalle coppie, dalle famiglie <br />

che sciamavano da un piano all’altro, con le loro matitine di legno in mano, fra <strong>la</strong> falsa allegria dei <br />

mobili progettati per sembrare allegri. Forse venivano da quartieri simili a quello che aveva <br />

<strong>la</strong>sciato, con pa<strong>la</strong>zzi troppo grandi e troppo uguali, a comprare senza felicità mobili troppo allegri e <br />

troppo uguali; Lucia riconosceva i segni, i toni rabbiosi degli uomini, gli sguardi già vinti delle <br />

donne, dei bambini. Venivano dal<strong>la</strong> violenza. Non voleva diventare come loro. <br />

Andrea era entrato una domenica, <br />

presto, prima che arrivassero le famiglie <br />

dei giorni di festa. L’aveva requisita con <br />

l’aria di chi è abituato ad avere quello <br />

che vuole, aveva un alloggio intero da <br />

arredare “provvisoriamente” aveva <br />

detto, prima di trasferirsi nel<strong>la</strong> casa che <br />

gli stavano ristrutturando. “Lì metterò <br />

dei mobili veri – aveva detto <br />

guardandosi intorno – questa roba va <br />

bene giusto per questi pochi mesi”. <br />

L’aveva corteggiata con <strong>la</strong> stessa aria <br />

si<strong>cura</strong>, come se non mettesse neppure <br />

in conto che lei dicesse di no. Ma era <br />

gentile, sapeva par<strong>la</strong>re, niente di lui <br />

ricordava i luoghi dove abita <strong>la</strong> <br />

violenza. Faceva l’avvocato, si era <br />

separato da poco, niente figli. L’aveva <br />

portata fuori, con un’auto che aveva <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

profumi di cuoio e di colonia maschile. Le aveva fatto vedere <strong>la</strong> casa in ristrutturazione, una <br />

pa<strong>la</strong>zzina in un quartiere elegante a ridosso del<strong>la</strong> collina, le aveva par<strong>la</strong>to del <strong>la</strong>voro che lo <br />

impegnava così tanto, del matrimonio sbagliato, e di quanto lei era bel<strong>la</strong>, e dolce, e giovane. Di <br />

come sarebbe stato diverso vivere con lei, invece che con quel<strong>la</strong> stupida del<strong>la</strong> sua ex moglie, “una <br />

che non ha mai <strong>la</strong>vorato, che non ha mai fatto niente neanche in casa, una stupida oca fannullona <br />

”. <br />

Le aveva dato un anello, non sulle panchine dei giardinetti come Marco, ma nel ristorante <br />

importante dove lei era sempre un po’ a disagio, sotto lo sguardo complice e servile del <br />

sommellier che aveva versato nei bicchieri giusti lo champagne giusto scelto da lui. Aveva detto di <br />

sì, e aveva pensato, ma solo per un attimo, a Marco. <br />

Si erano sposati appena possibile, un’unica grande festa con gli amici e i parenti di lui per <br />

festeggiare il divorzio da “quell’oca di Adriana” e il matrimonio con <strong>la</strong> giovane, dolce Lucia. Come è <br />

dolce sembrava lo slogan coniato apposta per lei, il suo <strong>la</strong>sciapassare in quel mondo non suo. <br />

Certo, non è proprio…. Insomma non viene da… è un po’, come dire… ma è tanto dolce. Lucia. <br />

<strong>La</strong> casa era pronta, era bel<strong>la</strong>, era grande. Troppo grande per due. E Andrea voleva un figlio, il figlio <br />

che quell’oca di Adriana non aveva voluto, troppa fatica, figuriamoci, per una stupida, pigra, <br />

viziata, egoista come lei. <br />

Era nata Sonia; Lucia aveva vissuto come <br />

in un sogno i mesi dell’attesa, le attenzioni <br />

di Andrea, i regali, i giri di compere nei <br />

negozi eleganti per il corredino del<strong>la</strong> <br />

bimba, per <strong>la</strong> cameretta. Lui <strong>la</strong>vorava <br />

tanto, il poco tempo libero lo dedicava a <br />

lei. Lei restava a casa, occuparsi di quel<strong>la</strong> <br />

casa così bel<strong>la</strong> le piaceva, tanto che non si <br />

accorgeva del<strong>la</strong> fatica, neppure quando <strong>la</strong> <br />

pancia era diventata così pesante da <br />

costringer<strong>la</strong> a sdraiarsi sempre più spesso. <br />

Non si era accorta neppure dei momenti <br />

di nervosismo, brevi, di Andrea quando <br />

scopriva vetri non perfettamente puliti, o i <br />

segni di un bicchiere su un tavolo che non era stato lucidato come si deve. <br />

Sonia aveva tre mesi quando per <strong>la</strong> prima volta <strong>la</strong> voce di Andrea era cambiata, erano cambiati i <br />

suoi occhi. <strong>La</strong> bambina aveva pianto tutto il giorno, aveva <strong>la</strong> diarrea; sul pavimento del bagno era <br />

rimasto l’ultimo pannolino sporco, non aveva fatto in tempo a buttarlo. Andrea era entrato <br />

ur<strong>la</strong>ndo nel<strong>la</strong> cameretta dove Lucia stava tentando di fare addormentare <strong>la</strong> bimba, l’aveva <br />

trascinata in bagno, l’aveva fatta inginocchiare sul pavimento, cosa è questo schifo? Non l’aveva <br />

picchiata. Ma gli occhi, quelli Lucia li aveva riconosciuti. Aveva avuto paura. <br />

Non le aveva par<strong>la</strong>to per due giorni. Quando rientrava mangiava in fretta quello che lei aveva <br />

preparato, muto; a volte respingeva il piatto con rabbia e usciva. Quando aveva ripreso a par<strong>la</strong>rle, <br />

era per commentare con sarcasmo <strong>la</strong> sua cucina da ”mensa dei poveri”, <strong>la</strong> sua figura appesantita, i <br />

capelli tras<strong>cura</strong>ti. Non ti curi, non ti sai vestire, <strong>la</strong> casa fa schifo. Lei aveva risposto al<strong>la</strong> fine, ma lo <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

vedi, <strong>la</strong> casa è grande, <strong>la</strong> bambina si prende tutto il mio tempo, se avessi un aiuto in casa… Lo <br />

schiaffo era arrivato inaspettato, violento, cattivo; stupida oca; stupida oca fannullona. Ricordati <br />

da dove vieni, ringraziami, mi devi solo ringraziare, in ginocchio mi devi ringraziare. L’aveva <br />

trascinata sul pavimento, in ginocchio, mentre lei non riusciva neanche a piangere. <br />

<strong>La</strong> paura ha un suono: le chiavi che girano nel<strong>la</strong> serratura, i suoi passi, lenti: Lucia sa che sta <br />

esaminando il pavimento, le maniglie di ottone, le cornici dei quadri, e spera che non ci siano <br />

macchie, che non ci sia polvere. <br />

<strong>La</strong> paura ha un odore, <strong>la</strong> colonia di lusso che impregna le sue camicie, i suoi vestiti, <strong>la</strong> sua auto; il <br />

suo cuscino. Lucia non può sentire quel profumo senza che lo stomaco si contragga. Paura. <br />

<strong>La</strong> violenza arriva senza preavviso, lo sai, <strong>la</strong> aspetti ma non sai mai cosa <strong>la</strong> farà partire. Così Lucia <br />

fa come faceva sua madre, evita di guardarlo negli occhi per paura che uno sguardo risvegli <strong>la</strong> <br />

violenza, che c’è da guardare, non hai niente da fare? <br />

Lucia sa che anche gli altri sanno. Ha colto frasi, accenni, sguardi. Anche gli amici rive<strong>la</strong>no una <br />

sorta di paura, gli par<strong>la</strong>no con caute<strong>la</strong>, evitano certi argomenti. Lui in pubblico è pericolosamente <br />

gentile, ma <strong>la</strong> frase tagliente, lo sguardo cattivo scattano con <strong>la</strong> velocità di un colpo di frusta. <br />

Sempre più spesso, salutati gli ultimi amici, arriva lo schiaffo, il pugno cattivo che fa male, <strong>la</strong> <br />

stretta crudele alle braccia: ma cosa hai combinato? Ma cosa ti è saltato in mente di dire? Ma cosa <br />

hai cucinato? Stupida oca. <br />

Pensa sempre più spesso ad Adriana. <strong>La</strong> stupida oca numero 1. Lei se l’è cavata, lei è riuscita ad <br />

andarsene, come ha fatto? Ha provato <br />

a cercar<strong>la</strong>, senza convinzione. L’ha <br />

incontrata per caso. Quel<strong>la</strong> volta lo <br />

schiaffo aveva <strong>la</strong>sciato i segni, lui si era <br />

arrabbiato anche per quello, stava <br />

molto attento a evitarlo; ma lei si era <br />

voltata, e lo schiaffo l’aveva colpita <br />

all’attaccatura del naso; guarda cosa <br />

mi hai fatto fare, aveva gridato furioso <br />

mentre lei tamponava il sangue dal <br />

naso. <br />

E’ uscita con gli occhiali scuri anche se <br />

il tempo è grigio. Con Sonia nel <br />

passeggino, anche <strong>la</strong> bimba ha gli occhi <br />

tristi, che senta già anche lei <strong>la</strong> paura, <br />

così picco<strong>la</strong>? Una donna si è chinata sul <br />

passeggino, ha sorriso al<strong>la</strong> picco<strong>la</strong>. Tu <br />

sei Lucia, le ha detto, era <br />

un’affermazione, lei sapeva; e poi: Ha <br />

cominciato anche con te, e anche <br />

quel<strong>la</strong> non era una domanda. <br />

Lucia rivede lo sguardo di sua madre <br />

negli occhi di Adriana: lui l’ha spezzata, <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

le ha tolto per sempre <strong>la</strong> gioia. Adriana guarda Sonia nel<strong>la</strong> sua tutina rosa, dice “il mio era un <br />

maschio”, e adesso Lucia lo sa, non era lei che non voleva figli, è lui che le ha portato via un <br />

bambino non ancora nato, in una notte di violenza e di paura. Negli occhi di Adriana c’è anche <br />

quello. <br />

Voglio andare via. Lontano. Sono anni ormai che lo pensa, Sonia cresce, ha imparato anche lei a <br />

conoscere i rumori e gli odori del<strong>la</strong> paura e del<strong>la</strong> violenza. Ma andare lontano questa volta non si <br />

può, neanche per salvare sua figlia. Glie lo hanno fatto capire in tanti, a mezze frasi, a accenni <br />

ve<strong>la</strong>ti; anche Adriana. Non ti crederà nessuno. <strong>La</strong> violenza non abita nelle case borghesi, <strong>la</strong> <br />

violenza sta nelle periferie, nelle case dei poveri troppo brutte e troppo uguali, ha odore di vino e <br />

di sudore, non di Dior pour homme e di auto di lusso. Un avvocato di grido non picchia <strong>la</strong> moglie, <br />

forse qualche scatto di nervi, <strong>la</strong> stanchezza, lo stress, e poi certo che lei non è proprio… insomma, <br />

non viene da… è un po’, come dire… stupida, ecco. E sarebbe così facile per lui accennare con <br />

tristezza e rassegnazione che certo lei ultimamente è un po’ esaurita, ha uno sguardo strano, fa <br />

discorsi strani, dice di volersene andare… E se dovesse andare così, è chiaro che <strong>la</strong> bambina <br />

starebbe con il padre, nessun tribunale <strong>la</strong> <strong>la</strong>scerebbe a una madre così. Per il bene del<strong>la</strong> bambina. <br />

<strong>La</strong> violenza abita in una pa<strong>la</strong>zzina di lusso, in un quartiere elegante, ha l’odore di colonia costosa <br />

e dei sedili di cuoio di una Mercedes. Ha catturato una donna e sua figlia e le ha spezzate. Ma <br />

non lo saprà nessuno. <br />

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

LA PAROLA E LA CURA <br />

Comunicazione e counsel(l)ing in ambito sanitario <br />

Registrazione n. 5886 del 23/06/05 presso il Tribunale di Torino <br />

Primavera 2014 <br />

DIRETTORE RESPONSABILE <br />

Giorgio Bert <br />

REDAZIONE <br />

Massimo Giuliani Roberta Ravizza Milena Sorrenti <br />

PROGETTO GRAFICO <br />

Milena Sorrenti <br />

FOTOGRAFIE <br />

Giulio Ameglio <br />

DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE <br />

Istituto CHANGE <br />

Via Valperga Caluso, 32 – 10125 Torino <br />

Tel. 011 6680706 fax 011 8609278 <br />

Email: change@counselling.it <br />

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