24.11.2012 Views

Io lo conoscevo bene... - Università Degli Studi Di Palermo

Io lo conoscevo bene... - Università Degli Studi Di Palermo

Io lo conoscevo bene... - Università Degli Studi Di Palermo

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

temi di Critica e Letteratura artistica<br />

TEMI DI CRITICA<br />

Università degli <strong>Studi</strong> <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong><br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

Roberta Cinà<br />

Giuseppe Cipolla<br />

Marta Nezzo<br />

prefazione di Simonetta La Barbera<br />

1<br />

a cura di Simonetta La Barbera


Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong><br />

Facoltà di Lettere e Fi<strong>lo</strong>sofia<br />

<strong>Di</strong>partimento di <strong>Studi</strong> storici e artistici<br />

Società Italiana di Storia della Critica d’Arte


Comitato Scientifico Claire Barbil<strong>lo</strong>n, Franco Bernabei, Claudia Cieri Via, Rosanna Cioffi, Maria Concetta <strong>Di</strong> Natale,<br />

AntonioGentile,SimonettaLaBarbera,DonataLevi,François-RenéMartin,EmilioJ.MoraisVallejo,MassimilianoRossi,<br />

Gianni Car<strong>lo</strong> Sciolla, Philippe Sénéchal.<br />

Coordinamento Scientifico Simonetta La Barbera<br />

temi di Critica e Letteratura artistica<br />

Progetto grafico, editing ed elaborazione delle immagini Nicoletta <strong>Di</strong> Bella<br />

Proprietà artistica e letteraria riservata all’Editore a norma del Legge 22 aprile 1941, n. 663.<br />

È vietata qualsiasi riproduzione totale o parziale anche a mezzo di fotoriproduzione, Legge 22 maggio 1993, n. 159.<br />

ISBN: 978-88-904738-2-1<br />

DOI: 10.4413/978-88-904738-2-1<br />

http://www.unipa.it/tecla<br />

2010 Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong>


INDICE<br />

Prefazione 7<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

Il <strong>Di</strong>segno del Doni e la teoria dell’arte nel Cinquecento 15<br />

Roberta Cinà<br />

La scultura nella letteratura artistica del Settecento 31<br />

Marta Nezzo<br />

Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914 -1920: una campionatura 87<br />

Giuseppe Cipolla<br />

«<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>…» Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia 109


PREFAZIONE<br />

SIMONETTA LA BARBERA<br />

Il primo numero miscellaneo della collana teCLa ospita quattro interessanti contributi le<br />

cui tematiche intersecano un arco di tempo che scorre dal Cinquecento al Novecento.<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione nel saggio Il <strong>Di</strong>segno del Doni e la teoria dell’arte del Cinquecento,<br />

compie una attenta analisi del breve trattato del<strong>lo</strong> scrittore fiorentino Anton Francesco Doni<br />

(Firenze, 1513 – Monselice, 1574), pubblicato a Venezia nel 1549, pochi anni dopo l’indizione<br />

della celebre Inchiesta di Benedetto Varchi e anteriormente alla pubblicazione della prima<br />

edizione delle Vite vasariane. Nell’operetta, il fiorentino trapiantato a Venezia, sotto forma<br />

dia<strong>lo</strong>gica affronta la questione del Paragone tra le arti, individuando proprio nell’arte plastica il<br />

corrispettivo immediato del disegno ed assegnando alla scultura il ruo<strong>lo</strong> di madre delle arti<br />

secondo un topos che ricorre continuamente nel suo pensiero.<br />

A dimostrazione del suo assunto Campione attinge ad alcuni significativi testi dell’ immensa<br />

produzione scrittoria di Doni che fu prolifico come pochi altri suoi contemporanei. La scrittura<br />

del fiorentino, osserva <strong>lo</strong> studioso, procede secondo canoni spesso debitori nei confronti di<br />

autori precedenti e contemporanei, ricorrendo alla riscrittura se non al plagio palese, con la<br />

ripetizione di formule e persino di intere pagine di opere già pubblicate, da lui stesso o da altri.<br />

Quali che siano la sua attitudine, il grado delle sue conoscenze, in tutti gli scritti di Doni l’arte è<br />

l’essenza concettuale che dà sostanza alle parole: non so<strong>lo</strong> perché – specie nelle opere maggiori<br />

– c’è un rapporto ta<strong>lo</strong>ra inscindibile tra immagine e testo – così avviene nei Mondi e nei Marmi,<br />

pubblicati poco a ridosso della metà del Cinquecento – ma, soprattutto, perché, come nota<br />

Campione, l’arte stessa è l’orizzonte a cui costantemente si richiama <strong>lo</strong> scrittore per esplicitare<br />

il suo discorso, per rendere la sua parola visibile.


8<br />

Simonetta La Barbera<br />

Ad avva<strong>lo</strong>rare questi interessanti spunti critici, <strong>lo</strong> studioso si sofferma su i Marmi (1553),<br />

opera nella quale, tra gli inter<strong>lo</strong>cutori dei dia<strong>lo</strong>ghi, compaiono più volte artisti, scultori in<br />

particolare, che rappresentano altrettanti portavoce del<strong>lo</strong> scrittore. In questa, che è forse la sua<br />

opera più riuscita, più d’una volta la methodus operativa della scultura, che è poi <strong>lo</strong> “scoprire”<br />

l’immagine entro la materia bruta, viene assunta a model<strong>lo</strong> per tutte le arti. Campione<br />

acutamente osserva che è proprio nella formulazione delle idee sull’arte che si individua il<br />

contributo più nuovo ed interessante del pensiero di Doni, come nei passi dell’opera in cui<br />

il fiorentino teorizza della “esperienza estetica” che prova <strong>lo</strong> spettatore al cospetto della scultura<br />

– in particolare, il riferimento è alle allegorie michelangiolesche nella Sagrestia di San Lorenzo –<br />

con accenti di singolare modernità che davvero sembrano precorrere molte delle nozioni<br />

sviluppatesi poi nel corso del Sette e dell’Ottocento, quale ad esempio quella di empatia.<br />

Lo studioso osserva ancora che nella scrittura doniana il rapporto fra testo e immagine è<br />

un nesso del tutto inscindibile, ed infatti, da abile tipografo, <strong>lo</strong> scrittore conosce perfettamente<br />

la presa emozionale che opera sul lettore l’inserzione di queste nel testo, e non di rado le immagini<br />

stesse – la più parte destinate originariamente ad altre opere, come avviene nei Mondi (1552) –<br />

sono il pretesto per <strong>lo</strong> sviluppo potenzialmente infinito della scrittura.<br />

Nella disamina del testo doniano, Campione osserva ancora che il nesso tra scrittura e suo<br />

corrispettivo iconico, seppure non concretizzato in immagini, trova l’esemplificazione più<br />

significativa in un’altra opera del fiorentino, le Pitture del 1564, testo che progettava sul model<strong>lo</strong><br />

delle Immagini di Fi<strong>lo</strong>strato, una serie di quadri simbolici che avrebbero dovuto ornare un palazzo<br />

dedicato a Petrarca ad Arquà.<br />

La scrittura di Doni rappresenta davvero una delle voci più significative della teoria dell’arte<br />

nell’Italia del tempo, anche perché in essa converge tutta l’esperienza dei “poligrafi” veneziani<br />

del Cinquecento, ed è utile ricordare che egli fu prima amico, poi acerrimo avversario di<br />

Pietro Aretino, di cui condivise molti dei giudizi sugli artisti contemporanei.<br />

Lo studioso acutamente osserva che altro tratto caratteristico della personalità di Doni si<br />

ritrova nell’interesse costante per i ‘gabinetti’ di anticaglie, per le raccolte di mirabilia che egli<br />

doveva spesso frequentare nelle visite ad amici e potenti: nell’accozzaglia folle di oggetti che<br />

spesso essi esibivano <strong>lo</strong> scrittore vedeva forse il corrispettivo iconico della sua scrittura.<br />

Ad avva<strong>lo</strong>rare quanto affermato Campione fa ancora riferimento ai Marmi, ad un passo che, da<br />

questo punto di vista, ascende davvero a paradigma immediato della sensibilità dell’autore del<br />

<strong>Di</strong>segno: il riferimento è alla parte finale della <strong>Di</strong>ceria dell’Inquieto, che peraltro rappresenta una<br />

delle ultime sezioni dell’opera e che <strong>lo</strong> studioso ci riporta nella sua interezza.<br />

Il <strong>Di</strong>segno del Doni, pubblicato probabilmente quasi in risposta all’operetta piniana, è dunque un<br />

testo che esibisce con evidenza le contraddizioni che caratterizzano l’intera produzione del<strong>lo</strong><br />

scrittore fiorentino. Da una parte, apparentemente, non aggiunge nulla di nuovo al dibattito<br />

critico contemporaneo, riprendendo numerosi topoi della tradizione, tritandoli anzi ulteriormente<br />

in un risultato quantomeno stanco; dall’altro però è capace di illuminare su quella crisi delle<br />

strutture di pensiero rinascimentali, già in atto da molto tempo, se la si legge, come suggerisce


Prefazione<br />

<strong>lo</strong> stesso autore, non come opera “assoluta”, bensì come fi<strong>lo</strong> conduttore principale di tutti gli<br />

altri suoi testi.<br />

Lo sperimentalismo linguistico, il rendere sulla carta l’idea di una materia viva e ancora in<br />

ebollizione è dunque, come suggerisce Campione, il tentativo di abolire i confini tra le arti; e,<br />

ancor di più, la tensione a dare l’idea di una “scrittura sinestetica”, nella quale il «cavo, il rilievo,<br />

o il basso» siano il correlativo del tortuoso scorrere della parola, o addirittura del suo implicitarsi<br />

in sensi del tutto sfuggenti. È sicuramente una metafora più o meno pregnante per cui <strong>lo</strong><br />

scrivere è operazione in tutto simile a quella del<strong>lo</strong> scolpire o del modellare.<br />

Si collega al contributo di Campione quel<strong>lo</strong> di Roberta Cinà, La scultura nella letteratura<br />

artistica del Settecento, nel quale è presa in esame, attraverso un puntuale excursus delle pagine della<br />

letteratura artistica europea, edita tra Settecento ed Ottocento, la nuova fortuna critica della scultura<br />

che, dopo essere stata pressoché appiattita sulla pittura nel XVII seco<strong>lo</strong> – in una sostanziale<br />

identificazione dei principi delle due arti basata sulla mimesis – era tornata alla ribalta nel seco<strong>lo</strong> XVIII.<br />

Ciò era avvenuto sia per il rinnovato interesse per le statue antiche, la cui grande ammirazione<br />

era anche legata al gusto neoclassico dominante, sia per gli studi sulle più esatte modalità di<br />

conoscenza ai quali studi anche l’estetica del periodo faceva riferimento e che, alla luce di nuove<br />

esperienze scientifiche, individuavano nelle potenzialità del tatto un canale preferenziale rispetto<br />

alla vista, fissando l’attenzione sulla tridimensionalità quale elemento peculiare delle opere scultoree.<br />

La studiosa analizza quindi i testi del XVIII seco<strong>lo</strong> che prendono in esame la scultura, nei<br />

quali è spesso possibile notare l’intersecarsi di questi elementi con altri relativi ad argomenti<br />

molto anteriori, quale il cinquecentesco Paragone delle arti. L’analisi dei manufatti dell’antichità,<br />

generalmente indicati per il <strong>lo</strong>ro va<strong>lo</strong>re esemplare, condusse infatti alla riflessione sulle sculture<br />

delle epoche successive, estendendo al campo delle arti figurative il tema della Querelle des Anciens<br />

et des Modernes, risalente al seco<strong>lo</strong> precedente ma, nel Settecento, ancora attuale in Francia.<br />

La scultura non fu dunque so<strong>lo</strong> argomento di opere di stampo prettamente neoclassico,<br />

come quelle di Winkelmann o di Cicognara, nelle quali si tende ad esaltare le statue classiche a<br />

discapito di quelle moderne. Accanto a queste “tradizionali” correnti di pensiero la Cinà, anche<br />

sulla base di suoi studi precedenti, ne analizza altre fondate su una valutazione più acutamente<br />

critica che considerano le sculture moderne, per alcuni aspetti, altrettanto valide rispetto a quelle<br />

antiche. Richardson, ad esempio, esprime apprezzamenti positivi sia nei confronti di opere<br />

antiche che moderne e autori come Falconet e Bardon ritengono, per certi versi, i moderni<br />

superiori agli antichi. Proprio Falconet presenta nei suoi scritti elementi che richiamano fortemente<br />

le modalità cinquecentesche del paragone tra pittura e scultura e, come lui, altri autori<br />

francesi, fra i quali <strong>Di</strong>derot e Caylus, contribuiscono alle discussioni sul<strong>lo</strong> statuto della scultura<br />

con apporti particolarmente rilevanti.<br />

I testi del<strong>lo</strong> scultore Falconet, del connaisseur Caylus e dell’encic<strong>lo</strong>pedista <strong>Di</strong>derot, sono<br />

tutti ricchi di elementi innovativi che saranno poi ripresi da Dandrè-Bardon e D’Argenville;<br />

mentre a <strong>Di</strong>derot e Condillac si devono le riflessioni sul senso del tatto, tema affrontato in<br />

relazione a quel<strong>lo</strong> della tridimensionalità della scultura, in ambito non francese anche da Herder<br />

9


10<br />

Simonetta La Barbera<br />

e da Hemsterhuis. L’esemplarità degli antichi, le modalità di fruizione dell’opera d’arte, le<br />

facoltà imitative della scultura sono tutti elementi presenti nelle trattazioni di questi autori,<br />

nonché in testi di poco anteriori, quali quelli elaborati in ambito inglese da Hogarth e Richardson.<br />

L’analisi della Cinà si spinge fino agli inizi dell’Ottocento quando risultano ormai risolti<br />

i dibattiti che coinvolgono la scultura sia nel suo rapporto con l’antico, sia nell’ormai secolare<br />

confronto con la pittura, ed infatti, ne Le arti figurative e la natura di Schelling appare ormai<br />

accettato il concetto di arte come prodotto del suo tempo, nonché il riconoscimento dell’autonomia<br />

di mezzi espressivi propri ad ogni forma artistica, argomento questo che era già stato oggetto<br />

del Laocoonte di Lessing.<br />

All’inizio dell’Ottocento, assimilati e rielaborati dunque gli argomenti che nel seco<strong>lo</strong> precedente<br />

erano stati dibattuti in ambito europeo, la monumentale opera di Cicognara affidava alla scultura,<br />

ormai pienamente rivalutata, il compito di rappresentare l’evoluzione storica dell’arte in Italia.<br />

Nel terzo contributo Accenni nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920.<br />

Una campionatura, Marta Nezzo, attenta studiosa dei molteplici e complessi aspetti della critica<br />

d’arte in Italia negli anni della Grande Guerra, indaga il riflesso delle spinte pratiche ed ideo<strong>lo</strong>giche<br />

innescate dal conflitto non so<strong>lo</strong> nella critica dell’arte contemporanea, ma soprattutto nella teoria,<br />

nella pratica e nella divulgazione della tutela, prendendo in esame tre periodici, diversi per<br />

natura e target, quali il “Bollettino d’arte” del Ministero della Pubblica istruzione, “L’Arte” di<br />

Adolfo Venturi e “Pagine d’arte”.<br />

La Nezzo analizza l’inevitabile ibridicità di questi diversi aspetti, nonché le pulsioni<br />

scioviniste che si sovrappongono e si confondono con questioni specificatamente identitarie.<br />

Nell’assimilazione culturale di un giovane Stato quale era l’Italia, gli spunti non potevano che<br />

essere eterogenei e non sempre limpidi, proprio perché il processo unitario si era compiuto “nel<br />

crogiuo<strong>lo</strong> europeo della guerra mondiale”. Le istanze cui dare voce erano diverse e di grande<br />

rilevanza: da un lato vi era la necessità di compattare un fronte d’adesione interno anche innescando<br />

contro il nemico forti sentimenti nazionalistici, dall’altro la necessità di accreditare presso gli<br />

alleati la politica anche culturale dell’Italia, come già fatto dai francesi, in particolare dopo il<br />

terribile bombardamento della cattedrale di Reims.<br />

La studiosa ha già in precedenza messo in relazione questo contesto con gli esiti della<br />

contemporanea critica d’arte partendo dalla considerazione che proprio nell’arco di tempo<br />

considerato, 1914-1920, l’influenza delle teorie purovisibiliste e della fi<strong>lo</strong>sofia crociana, aveva<br />

messo in crisi il model<strong>lo</strong> storiografico ancora corrente per le arti, di stampo positivista e<br />

venturiano. Ana<strong>lo</strong>gamente, nel campo della tutela si doveva far fronte alle istanze poste<br />

dalla revisione legislativa e dall’istituzione delle soprintendenze.<br />

Questi diversi elementi sono evidenziati nel saggio dalla Nezzo facendo riferimento<br />

alle scelte politiche e culturali effettuate nei tre periodici presi in considerazione, diversi per<br />

natura e target, focalizzando il trend critico di ciascuna testata e del relativo milieu.


Prefazione<br />

Il primo analizzato è il “Bollettino d’arte” del Ministero della Pubblica istruzione, che, col<br />

relativo “Supplemento” di “Cronaca delle belle arti”, dal 1907 segue puntualmente le attività<br />

delle Soprintendenze. I redattori si astengono dalla campagna interventista fino al 1917,<br />

dedicando alla guerra articoli estremamente brevi, nei quali ogni avvenimento è pretesto per<br />

richiamare la vigilanza dell’Amministrazione sui centri storici. Nelle pagine del periodico il<br />

fermento ideo<strong>lo</strong>gico interagisce con i preesistenti problemi di tutela dell’Italia, mantenendo alto<br />

<strong>lo</strong> stato d’allerta più su questo aspetto che su quel<strong>lo</strong> specifico del conflitto.<br />

È ancora molto interessante l’analisi con la quale la studiosa valuta il mutare dell’atteggiamento<br />

della <strong>Di</strong>rezione generale dell’Antichità e Belle Arti in relazione al ripetuto dilagare degli austriaci<br />

nel territorio italiano, la Strafexpedition del 1916 e Caporetto, l’anno seguente.<br />

Il 1917 l’Amministrazione esita La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra<br />

(1915-1917): I. Protezione dei monumenti, cui fa seguito, nel ’18, La protezione degli oggetti d’arte mobili.<br />

Nei testi pubblicati le ideo<strong>lo</strong>gie sottese si fanno più palesi, evidenziando la barbarie nemica<br />

cui si contrappone la lungimirante attività di tutela della civilissima Italia. La Nezzo<br />

sottolinea l’importanza della rilevante campagna fotografica, pubblicata nella rivista ministeriale<br />

con modi e ritmi visivi ispirati a quelli elaborati per la propaganda militare, al fine di documentare<br />

gli sforzi compiuti per preservare il patrimonio artistico con l’utilizzo di paramenti difensivi.<br />

<strong>Di</strong>versa la posizione della rivista “L’Arte” di Adolfo Venturi nella quale, per lungo tempo,<br />

la guerra con i suoi tragici risvolti anche sul patrimonio artistico rimane sotto silenzio. So<strong>lo</strong> nel ’19,<br />

in occasione della stipula dei trattati di pace, a firma di Eva Tea appaiono sulla rivista scritti dagli<br />

accesi toni nazionalistici, nei quali appare la richiesta di risarcimento sia per le spese di protezione<br />

affrontate sia per i danni inferti ai monumenti, mediante la resa di alcuni capolavori dell’arte<br />

italiana ing<strong>lo</strong>bati a vario tito<strong>lo</strong> in collezioni museali delle nazioni sconfitte.<br />

Molto interessanti altri temi evidenziati dalla Nezzo in relazione alla politica culturale intrapresa<br />

dalla rivista, sempre a firma di Tea, con riferimento, in particolare, alle recensioni di<br />

esposizioni dedicate, secondo le tendenze della critica coeva a periodi dell’arte, dal ‘700 in poi,<br />

anche al fine “di attivare il nesso tradizione-modernità per riscattare criticamente l’Ottocento italiano”<br />

rispetto alle esperienze straniere, in particolare francesi. Alla fine del conflitto alcuni confronti<br />

crono<strong>lo</strong>gici e formali, già discussi all’inizio del seco<strong>lo</strong>, si ideo<strong>lo</strong>gizzano con aspri confronti che<br />

si concretizzano in rapporti di forza essenzialmente politici.<br />

Ultimo dei periodici studiato dalla Nezzo è “Pagine d’arte”, rivista dal 1914 raccordata<br />

alla “Rassegna d’arte antica e moderna”, sulle cui pagine fu sorprendente il confronto con<br />

il fermento bellico sostenuto dai collaboratori, in particolare Ugo Ojetti e Raffael<strong>lo</strong> Gialli,<br />

con articoli dal nutrito corredo fotografico dedicati, in particolare, alla difesa dei monumenti.<br />

La guerra offrirà alla rivista un model<strong>lo</strong> di militanza e di interventismo culturale e sociale,<br />

ed infatti, nel biennio ’18 e ’19, gli articoli pubblicati si occuperanno non solamente degli inevitabili<br />

restauri del patrimonio artistico offeso dalla violenza bellica, ma anche, come osserva la Nezzo,<br />

delle «rinascenti polemiche d’architettura, delle mostre della para-avanguardia, del futuro<br />

in costruzione».<br />

11


12<br />

Simonetta La Barbera<br />

Quarto ed ultimo saggio “<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia di<br />

Giuseppe Cipolla. Con questa intensa frase, che diede il tito<strong>lo</strong> a un artico<strong>lo</strong> pubblicato su<br />

“L’Espresso” l’11 ottobre 1987, Leonardo Sciascia offre un ricordo di Renato Guttuso che non<br />

presenta le caratteristiche del necro<strong>lo</strong>gio tradizionale, ma quelle del ricordo di un amico del quale<br />

<strong>lo</strong> scrittore era riuscito a individuare la complessa personalità di uomo e di artista. L’autore del<br />

saggio, muovendo da queste considerazioni, indaga un particolare aspetto dell’universo sciasciano,<br />

quel<strong>lo</strong> dell’ininterrotto rapporto con le arti figurative, cogliendo in questa passione del<strong>lo</strong><br />

scrittore un indissolubile punto di contatto con la sua contemporanea produzione letteraria.<br />

Indubbiamente Sciascia, attento frequentatore di gallerie d’arte e di artisti quali Guttuso,<br />

Maccari, Greco, Caruso, Pirandel<strong>lo</strong>, introduceva nella scrittura dei suoi romanzi immagini riprese<br />

dalle emozioni in lui prodotte dall’arte figurativa.<br />

Giuseppe Cipolla ripercorre il rapporto di Sciascia con Guttuso ricordando che nel<br />

dibattito esp<strong>lo</strong>so alla fine del secondo conflitto mondiale tra realisti e astrattisti, nel quale la figura<br />

del pittore di Bagheria occupa un posto rilevante, Sciascia si schiera apertamente con i sostenitori<br />

del figurativismo, pur non nascondendo le sue riserve sulle posizioni estremiste di matrice<br />

marxista dell’amico pittore.<br />

Negli scritti dedicati all’artista Sciascia non è dunque mosso da un’urgenza descrittiva,<br />

bensì dal desiderio di evidenziare le più profonde radici culturali della poetica guttusiana.<br />

Altro aspetto interessante del contributo di Giuseppe Cipolla è quel<strong>lo</strong> di individuare nella pagina<br />

sciasciana due dei modelli della critica figurativa del Novecento: quella inerente il linguaggio che<br />

ha la sua matrice nella critica di matrice rondista e quella inerente ai contenuti e alle metodo<strong>lo</strong>gie<br />

di analisi dell’opera d’arte, di Ragghianti, ma anche di Brandi, Argan e Calvesi, questi ultimi tre<br />

attivi protagonisti della critica d’arte militante e in successione, a lungo presenti a <strong>Palermo</strong> quali<br />

titolari della cattedra di Storia dell’Arte presso la Facoltà di Lettere e con i quali Sciascia ebbe<br />

importanti frequentazioni.<br />

Per la consueta disponibilità mostrata nel corso della realizzazione di questo numero<br />

della collana teCLa, ringrazio la Dott. ssa Marina D’Amore <strong>Di</strong>rettore della Biblioteca Centrale<br />

della Facoltà di Lettere e Fi<strong>lo</strong>sofia dell’Università di <strong>Palermo</strong>, il Dott. Gaetano Gul<strong>lo</strong> <strong>Di</strong>rettore<br />

della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “A. Bombace”, la Dott.ssa Marilinda Moavero<br />

<strong>Di</strong>rigente responsabile dell’Unità operativa III della B.C.R.S., il Dott. Car<strong>lo</strong> Pastena Responsabile<br />

del Servizio per i Beni Bibliografici ed Archivistici della Soprintendenza Regionale<br />

BB.CC.AA. di <strong>Palermo</strong>, il Dott. Roberto Tononi responsabile del CED della B.C.R.S.<br />

Ringrazio altresì la Dott.ssa Dora Favatella Lo Cascio, <strong>Di</strong>rettore del Museo Guttuso di Bagheria,<br />

la Fondazione Sciascia e gli eredi di Leonardo Sciascia.<br />

Grazie, ancora una volta, ai colleghi del Comitato Scientifico per il <strong>lo</strong>ro apporto e per l'immutato<br />

sostegno a questa iniziativa.


Anton Francesco Doni incarna una delle personalità<br />

più curiose del Cinquecento, e non so<strong>lo</strong> italiano.<br />

Nella multiforme attività, che ne fece un autore prolifico<br />

come pochi altri del suo tempo, l’operazione scrittoria<br />

procede secondo canoni notevolmente debitori nei confronti<br />

di autori precedenti e contemporanei, ta<strong>lo</strong>ra poco<br />

curandosi degli scrupoli di fronte alla riscrittura se non al<br />

plagio palese. Nella sua immensa produzione, tuttavia,<br />

la teoria dell’arte occupa un ruo<strong>lo</strong> di primo piano ed emerge<br />

con caratteri di una certa originalità. È lecito anzi affermare<br />

che il contributo più nuovo del pensiero di Doni ascenda<br />

proprio alle sue idee sull’arte. Fiorentino, trapiantato a<br />

Venezia, <strong>lo</strong> scrittore – in una con il suo carattere bizzarro e<br />

non di rado provocatorio – esalta l’amico Tintoretto contro<br />

l’idolatria cui era oggetto Raffael<strong>lo</strong>, e assegna alla scultura il<br />

ruo<strong>lo</strong> di arte principe su tutte le altre. Nel 1549, pochi anni<br />

dopo l’indizione della celebre Inchiesta di Benedetto<br />

In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />

I N M A R G I N E A L D I S E G N O E A L L A T E O R I A D E L L’ARTE<br />

D I A N T O N F R A N C E S C O D O N I<br />

FRANCESCO PAOLO CAMPIONE<br />

Ritratto di Anton Francesco Doni.<br />

Derivante probabilmente da un prototipo<br />

di Enea Vico, fu inserito nelle prime edizioni<br />

de I Mondi (1552) e de I Marmi (1552-53).<br />

Varchi, e anteriormente alla pubblicazione della prima edizione delle Vite vasariane, Doni<br />

pubblica a Venezia il <strong>Di</strong>segno, un breve trattato che sotto forma dia<strong>lo</strong>gica affronta la questione<br />

del paragone tra le arti, individuando proprio nell’arte plastica il corrispettivo immediato del<br />

disegno. In realtà il paradigma della scultura come madre delle arti (non ultima anche della


16<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

scrittura) è un topos che ricorre continuamente nel pensiero doniano. Nei Marmi (1553), tra gli<br />

inter<strong>lo</strong>cutori dei dia<strong>lo</strong>ghi compaiono più volte artisti (e scultori in particolare), rappresentando<br />

altrettanti portavoce del<strong>lo</strong> scrittore. In questa, che è forse l’opera più riuscita del fiorentino, più<br />

d’una volta la methodus operativa della scultura (<strong>lo</strong> “scoprire” l’immagine entro la materia bruta)<br />

viene assunta a model<strong>lo</strong> per tutte le arti. Non meno significativi, i passi dell’opera in cui Doni<br />

teorizza della “esperienza estetica” che prova <strong>lo</strong> spettatore al cospetto della scultura (in particolare,<br />

delle allegorie michelangiolesche nella Sagrestia di San Lorenzo), con accenti di singolare<br />

modernità che davvero sembrano precorrere molte delle nozioni sviluppatesi poi nel corso del<br />

Sette e dell’Ottocento (ad esempio quella di empatia). Nella scrittura doniana il rapporto fra testo<br />

e immagine è un nesso del tutto inscindibile. Da abile tipografo, <strong>lo</strong> scrittore conosce<br />

perfettamente la presa emozionale che l’inserzione di queste nel testo opera sul lettore, e non<br />

di rado le immagini stesse – la più parte destinate originariamente ad altre opere, coma avviene<br />

nei Mondi (1552) – sono il pretesto per <strong>lo</strong> sviluppo potenzialmente infinito della scrittura.<br />

Il nesso tra scrittura e suo corrispettivo iconico, seppure non concretizzato in immagini, trova<br />

l’esemplificazione più significativa nelle Pitture (1564), un testo che – forse sulla suggestione<br />

dell’Idea del Teatro di Giulio Camil<strong>lo</strong> – progettava sul model<strong>lo</strong> delle Immagini di Fi<strong>lo</strong>strato, una serie<br />

di quadri simbolici che avrebbero dovuto ornare un palazzo dedicato a Petrarca ad Arquà.<br />

Nella scrittura di Doni, in definitiva, converge tutta l’esperienza dei “poligrafi” veneziani<br />

del Cinquecento (Doni fu prima amico, poi acerrimo avversario di Pietro Aretino, di cui<br />

condivise molte dei giudizi sugli artisti contemporanei) rappresentando davvero una delle voci<br />

più significative della teoria dell’arte nell’Italia del tempo.<br />

<strong>Di</strong> se stesso Doni amò tramandare un ritratto che esattamente riproduceva – con la vivezza<br />

del parlato popolaresco – la sua attitudine “capricciosa”:<br />

Ho gli occhi rossi come un prosciutto, il viso bigio come un rosignuo<strong>lo</strong>, dritta<br />

come un solco la persona e sofficiente grandezza di naso e d’orecchia. Una cosa mi guasta, che<br />

fece pianger la mia balia, che aveva paura ch’io non potessi pigliare il capezzo<strong>lo</strong>: e questa<br />

è ch’io sono abboccato grandissimamente 1 .<br />

Se la grandezza della bocca corrispondesse davvero a un’altrettale facondia, Doni fu<br />

al<strong>lo</strong>ra dotato dalla natura a parlare e scrivere a dismisura.<br />

In effetti <strong>lo</strong> scrittore fiorentino è uno di quegli autori la cui fortuna critica è stata<br />

un paradossale riflesso della bizzarria della sua opera. Largamente produttivo in vita,<br />

tanto che amava affermare che i suoi libri si leggevano prima ancora di essere pubblicati,<br />

1 A. F. DONI, Lettera a Francesca Baffo, pubbl. in ID., I Mondi e gli Inferni (Venezia 1552), ed. a cura di P. Pellizzari, Einaudi,<br />

Torino 1994, p. VII.


In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />

e di comporli direttamente in tipografia (tralasciando quella fase di revisione formale e tecnica<br />

che a tutti gli altri autori pareva indispensabile requisito), Doni cominciò a conoscere una fase<br />

discendente della sua carriera già verso la fine degli anni ’60 del Cinquecento 2 , quando ormai il<br />

suo stile e i temi della sua opera si mostravano inconciliabili con il clima di rigida ortodossia<br />

morale imposto dalla Controriforma. Così la ‘cometa’ dell’autore conobbe una lunga eclisse per<br />

riapparire so<strong>lo</strong> nell’Ottocento, più come curioso fenomeno di scrittura bislacca che come autore<br />

meritevole di studio. Le riedizioni dei Marmi curate da Fanfani nel 1863, con le notizie biografiche<br />

relative all’autore di Salvatore Bongi, e da Chiorboli nel 1928, sono in realtà più operazioni<br />

bibliofile che tentativi di riabilitare uno scrittore che – fino alla fine degli anni Venti del Novecento –<br />

figurava con alcune sue opere persino nell’Index Librorum Prohibitorum della Chiesa.<br />

Come ta<strong>lo</strong>ra accade, però, uno scrittore dimenticato diventa d’un tratto oggetto di una vera<br />

e propria moda, e così Doni (grosso modo a partire dal saggio bibliografico della Ricottini<br />

Marsili - Libelli del 1960) è divenuto uno degli autori più frequentati dalla critica moderna,<br />

cosicché ha cominciato a riguardar<strong>lo</strong> un gran numero di saggi e pubblicazioni (una «soma di<br />

libri» avrebbe forse detto <strong>lo</strong> stesso autore), che in parte si giustificano con la sua produzione<br />

vastissima e con la pluridisciplinarità dei suoi interessi. In realtà Doni non è uno scrittore per il<br />

quale si possano felicemente enucleare modelli tematici circoscrivibili in un fi<strong>lo</strong>ne omogeneo.<br />

Detto in altri termini – diversamente ad esempio da quanto accade al suo contemporaneo<br />

Aretino, certo letterariamente, ma anche culturalmente di gran lunga più attrezzato – il Doni<br />

scrittore di “cicalate”, oppure episto<strong>lo</strong>grafo, o ancora fi<strong>lo</strong><strong>lo</strong>go stravagante, numero<strong>lo</strong>go, fi<strong>lo</strong>sofo<br />

‘moralista’, utopista, scrittore di cose d’arte, musico<strong>lo</strong>go non è scomponibile in unità d’ambito<br />

a compartimenti stagni, che non tengano conto delle altre specializzazioni a cui attinse la<br />

sua sfrenata vena scrittoria. Per questo Doni non è scrittore “facile”. L’esibita sciatteria della<br />

2 Anton Francesco Doni nasce a Firenze nel 1513 da Bernardo di Antonio, che esercitava il mestiere di forbiciaio.<br />

In realtà <strong>lo</strong> scrittore si attribuì una prosapia aristocratica affermando di vantare tra i suoi avi due papi, un appartenente alla<br />

fazione ghibellina e parenti nobili sparsi tra Pistoia, l’Ungheria e Napoli. Momento fondamentale nella formazione di Doni è il<br />

soggiorno presso la casa di Baccio Bandinelli tra il 1529 e il ’30. Da questa esperienza <strong>lo</strong> scrittore derivò con ogni probabilità sin<br />

dalla giovane età quella passione per il disegno, le pietre preziose, le arti in generale che sarebbe stata la caratteristica più<br />

significativa della sua produzione letteraria. Non staremo qui a seguire il vorticoso peregrinare di Doni per varie città italiane, né<br />

le vicende editoriali della sua sconfinata produzione (per i quali conviene richiamarsi a C. RICOTTINI MARSILI-LIBELLI,<br />

Anton Francesco Doni scrittore e stampatore, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1960; e all’apparato biobibliografico contenuto in<br />

Opere di Folengo, Aretino e Doni, a cura di C. CORDIÈ, Ricciardi, Milano-Napoli 1976, vol. II, pp. 571-96; e l’ampia scheda<br />

sull’autore a cura di G. Masi, in “Cinquecento plurale” consultabile sul sito www.nuovorinascimento.org, continuamente<br />

aggiornata); piuttosto qui è il caso di rilevare come la quota più consistente della scrittura doniana si dati agli anni immediatamente<br />

prossimi alla metà del seco<strong>lo</strong>, con opere che ne fanno uno degli spiriti più eterodossi del suo tempo: tra esse il <strong>Di</strong>segno<br />

(Venezia 1549), La Libraria (Venezia 1550) e La Seconda Libraria (Venezia 1551), I Marmi (Venezia 1552-53), I Mondi (Venezia 1552),<br />

le Rime del Burchiel<strong>lo</strong> comentate dal Doni (Venezia 1553), e ancora molte altre in una produttività così ampia da avere ben pochi eguali<br />

nell’ambito della poligrafia del tempo. <strong>Di</strong> Doni si può affermare con sicurezza che, nella sua professione di giornalista ante<br />

litteram, fu uno degli autori più attenti al mercato editoriale della sua epoca: la professione di stampatore, che in verità perseguì<br />

con non molta fortuna nella seconda metà degli anni ’40 del seco<strong>lo</strong>, gli consentì però un notevole esercizio tecnico che poi avrebbe<br />

messo a frutto a Venezia nel suo sodalizio con i tipografi ed editori Francesco Marcolini e Gabriel Giolito de’ Ferrari, per i quali<br />

possiamo pensare rappresentasse non so<strong>lo</strong> uno degli autori di riferimento, ma anche una sorta di consulente “tecnico” e – oggi<br />

diremmo – di “marketing” editoriale. Ritiratosi in una sorta di esilio vo<strong>lo</strong>ntario a Monselice, presso Padova, Doni vi muore nel 1574.<br />

Per un ampio quadro biografico dell’autore, cfr. anche A. LONGO, ad vocem “Doni, A. F.”, in <strong>Di</strong>zionario Biografico degli Italiani,<br />

Istituto della Encic<strong>lo</strong>pedia Italiana, Roma 1992, vol. 41, pp. 158-67.<br />

17


18<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

sua scrittura, gli errori ostentati con disinvoltura, i plagi e le riscritture indissimulati i modi di dire<br />

contorti e comprensibili spesso so<strong>lo</strong> in un ristrettissimo territorio gergale, so<strong>lo</strong> apparentemente<br />

disegnano il ritratto di uno scrittore superficiale, che scriveva più per empire pagine su pagine<br />

che per veicolare messaggi di una qualche profondità.<br />

Una delle imprese più utilizzate da Doni,<br />

che un po’ ne sintetizza l’attitudine ad<br />

assumere continuamente una maschera.<br />

Nelle edizioni de I Mondi è accompagnata<br />

dal motto QUEL CHE PIÙ MI MOLESTA<br />

ASCONDO E TACCIO.<br />

In realtà l’attitudine “capricciosa” dell’autore a<br />

scrivere «per dar baia al mondo» 3 non è tanto la spia di un<br />

disimpegno morale, o della devoluzione al ‘caso’ o al ‘caos’<br />

(un gioco di parole che probabilmente sarebbe stato<br />

congeniale al<strong>lo</strong> stesso Doni) delle facoltà creative.<br />

È piuttosto il sintomo più evidente di una crisi delle<br />

strutture letterarie che – nell’ambito della poesia – trovava<br />

via di fuga ad esempio nel revival petrarchesco dei bembisti; e<br />

più in generale, la spia di una insofferenza alle regole<br />

canoniche che, con il declinare del Rinascimento nella sua<br />

fase ultima (la si chiami o meno Maniera), prendevano a<br />

stringere in misura sempre più asfissiante gli artisti, i quali<br />

tuttavia ta<strong>lo</strong>ra di buon grado vi si sottomettevano.<br />

Ha notato opportunamente Massimiliano Rossi 4 che<br />

«Doni va sempre considerato in toto». A differenza di<br />

Pietro Aretino che, come rilevavamo più sopra, presenta<br />

una propria specificità nell’ambito delle teorie artistiche<br />

del suo tempo, senza essere egli stesso un teorico, Doni<br />

‘non può’ essere considerato uno scrittore dei fenomeni<br />

artistici estrapolandone la numerose puntate nel campo<br />

della scrittura sull’arte senza un aggancio con il resto della<br />

sua produzione. Perché? Possiamo rispondere che nella<br />

strabocchevole produzione letteraria del<strong>lo</strong> scrittore fiorentino, che non di rado si avvale<br />

della ripetizione di formule e persino di intere pagine di opere già pubblicate (non importa se<br />

da lui stesso o da altri), il discorso sull’arte è la trave che regge l’impalcatura dell’intera sua opera.<br />

In tutti i suoi scritti, quali che siano la sua attitudine, il grado delle sue conoscenze, la “serietà”<br />

con la quale egli s’accosta alla pagina, l’arte è l’essenza concettuale che dà sostanza alle parole:<br />

non so<strong>lo</strong> perché – specie nelle opere maggiori – c’è un rapporto ta<strong>lo</strong>ra inscindibile tra immagine<br />

e testo (così avviene nei Mondi e nei Marmi, pubblicati poco a ridosso della metà del Cinquecento);<br />

ma soprattutto perché l’arte stessa è l’orizzonte a cui costantemente si richiama Doni per<br />

esplicitare il suo discorso, per rendere la sua parola visibile. L’aggancio all’arte è insomma<br />

3 A. F. DONI, I Marmi (Marcolini, Venezia 1553); ed. a cura di E. Chiorboli, Laterza, Roma-Bari 1928, vol. I, p. 131.<br />

4 M. ROSSI, Teoria sull’arte e artisti nei Marmi tra Firenze e Venezia, in «Mangiar libri e inghiottire scritture». I Marmi di Anton Francesco<br />

Doni: la storia, i generi e le arti, Atti delle Giornate di <strong>Studi</strong>o organizzate dalla Scuola Normale Superiore di Pisa, in c. di s.<br />

Ringrazio Massimiliano Rossi per avermi gentilmente concesso di visionare in anteprima il testo del suo intervento.


In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />

sempre presente negli scritti del fiorentino come se la sua methodus operandi ascendesse<br />

più all’ambito del figurativo che del testuale.<br />

In Doni non c’è una soluzione di continuità<br />

fra la scrittura di cose d’arte e – ad esempio<br />

– la prassi critica e esegetica che <strong>lo</strong> porta,<br />

nel 1553, a inerpicarsi per l’erta accidentata delle<br />

Rime del Burchiel<strong>lo</strong> 5 : nel dedicare (non a caso)<br />

all’amico Tintoretto il risultato del suo lavoro d’interpretazione,<br />

gli presenta la produzione in rima<br />

di Domenico di Giovanni come l’opera di un<br />

«poeta pittor di grottesche». Qui però non si<br />

tratta so<strong>lo</strong> di una ennesima variazione sul tema<br />

dell’ut pictura poësis, abbassato al livel<strong>lo</strong> del<br />

parlare popolaresco o persino sovvertito in<br />

una celebrazione della follia e del nonsense.<br />

Porre in paralle<strong>lo</strong> la poesia burchiellesca alle<br />

grottesche significa erodere con decisione il<br />

dogmatismo pedantesco che imperava al suo<br />

tempo, la pretesa che tutto potesse essere ridotto<br />

a spiegazione secondo <strong>lo</strong>gica. Nelle rime<br />

di Burchiel<strong>lo</strong>, così come nelle grottesche, la<br />

solidarietà tra significante e significato è venuta<br />

meno. Nelle grottesche il segno è so<strong>lo</strong> significante,<br />

Tintoretto, Ritratto di Anton Francesco Doni, Budapest,<br />

Museo di Belle Arti. Si tratta verosimilmente del<br />

«ritratto mirabile» che Doni, nella dedicatoria delle Rime<br />

del Burchiel<strong>lo</strong> comentate dal Doni (1553) afferma di avere<br />

avuto realizzato dall’amico pittore veneziano.<br />

poiché l’eterogeneità degli elementi che le compongono rendono impossibile qualunque<br />

ricomposizione di essi in un senso unitario. Paragonando a queste le rime del poeta quattrocentesco,<br />

Doni ha molto acutamente colto nel segno: di fatto il comento che egli appronta<br />

a corredo delle Rime non so<strong>lo</strong> non spiega nulla del <strong>lo</strong>ro senso (sempre che davvero, nelle<br />

intenzioni del poeta, esso fosse davvero sotteso alle parole), ma addirittura ne rende ancora più<br />

incomprensibile la lettura. Le poesie di Burchiel<strong>lo</strong>, anzi, divengono il pretesto per un pastiche che<br />

ricombina in un’opera totalmente nuova il model<strong>lo</strong> da interpretare, una specie di prosimetro che<br />

rifà – ovviamente in chiave degradata – la Vita Nova dantesca. E così la dedica a Tintoretto,<br />

«il più terribile cervel<strong>lo</strong> che abbia avuto mai la pittura» nella nota sentenza vasariana, più che<br />

la spia di un gusto personale per <strong>lo</strong> stile del pittore veneziano è probabilmente l’indizio<br />

5 [Burchiel<strong>lo</strong>], Rime del Burchiel<strong>lo</strong> comentate dal Doni, Marcolini, Venezia 1553. Per il commento doniano alle rime del poeta<br />

quattrocentesco, cfr. G. MASI, La Zuffa del Negligente. Il Commento doniano alle Rime del Burchiel<strong>lo</strong>, in M. Zaccarel<strong>lo</strong> (a cura di),<br />

La fantasia fuor de’ confini. Burchiel<strong>lo</strong> e dintorni a 550 anni dalla morte (1449-1999), Atti del Convegno (Firenze, 26 novembre<br />

1999), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, pp. 169-93; ID., Fi<strong>lo</strong><strong>lo</strong>gia ed erudizione nel Commento del Doni alle Rime del Burchiel<strong>lo</strong>,<br />

in A. Corsaro, P. Procaccioli [a cura di], Cum notibusse et comentaribusse. L’esegesi parodistica e giocosa del Cinquecento, Atti del<br />

Seminario di Letteratura italiana, Viterbo, 23-24 novembre 2001, Vecchiarelli, Manziana, 2002, pp. 147-72.<br />

19


20<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

di una condivisione d’interessi verso tutto ciò che si presentava sotto le spoglie del bizzarro<br />

e dell’abnorme. Forse uno dei tratti più caratteristici della personalità del fiorentino è<br />

proprio l’interesse costante verso i ‘gabinetti’ di anticaglie, per le raccoglie di mirabilia che egli<br />

doveva spesso frequentare nelle visite ad amici e potenti: nell’accozzaglia folle di oggetti che<br />

spesso essi esibivano <strong>lo</strong> scrittore vedeva forse il corrispettivo iconico della sua scrittura. C’è un<br />

passo dei Marmi che , da questo punto di vista, ascende davvero a paradigma immediato della<br />

sua sensibilità. È la parte finale della <strong>Di</strong>ceria dell’Inquieto, che peraltro rappresenta una delle ultime<br />

sezioni dell’opera. Forse conviene riportarla nella sua interezza perché – una volta di più – è una<br />

delle pagine più vive della sua opera:<br />

Pochi giorni fa io fui menato a vedere uno scrittoio d’anticaglie; e colui che mi vi menò,<br />

al mio parere, è più pazzo che non son io, se già io non sono come la maggior parte degli altri,<br />

che credano esser savi soli <strong>lo</strong>ro. Egli mi cominciò a mostrare una testa di marmo e a <strong>lo</strong>darmela<br />

(le son tutte albagie che si mettano in fantasia gli uomini) per la più stupenda cosa del mondo,<br />

poi certi busti, certi piedi, certe mani, certi pezzi, un sacco di medaglie, una cassetta di bizzarrie, un<br />

granchio di sasso, una chiocciola convertita in pietra, un legno mezzo legno e mezzo tufo<br />

sodissimo, certi vasi chiamati lacrimarii, dove gli antichi, piangendo i <strong>lo</strong>r morti, riponevano le<br />

<strong>lo</strong>r lagrime, certe lucerne di terra, vasi di ceneri, e altre mille novelle. Quando io fui stato<br />

a disagio quattr’ore e che io veddi che tanto tanto teneramente era inamorato di quelle sue pezze<br />

di sassi, con un sospiro io gli dissi: – Oh se voi fosti stato padrone di queste cose tutte quando<br />

l’erano intere, eh? – O <strong>Di</strong>o, che piacere avrei io avuto! – rispose egli. – Se poi voi le aveste vedute<br />

come ora? – Sarei morto – disse il galantuomo. – O che direste voi che se ne fará del gesso<br />

ancóra! perché fia manco fatica che di pezze le diventin gesso che non è stata di bellissime<br />

statue diventar pezzi brutti. – E mostratogli il sole, gli disse: – Fratel<strong>lo</strong>, quel<strong>lo</strong> è una bella anticaglia, e<br />

ce n’è per qualche anno, e non queste scaglie, boccali, lucerne e novelle, che si rompono e vanno<br />

in mal punto e in mal’ora: io vorrei avere in casa quel<strong>lo</strong>; e non l’avendo veduto mai più,<br />

mostrandote<strong>lo</strong>, ti farei stupire. Lascia andar coteste novelle, vattene a Roma, ché per un mese tu<br />

ti sazierai; e quando tornerai a casa e che tu rivegga queste tue cose, te ne riderai come fo io. Per<br />

me non trovo cosa che mi diletti più d’un giorno, io sono instabilissimo, inquieto e non cappio<br />

in me medesimo. – Guardate ora voi, Doni, se mi sapeste trovare qualche ricetta che mi<br />

stagnasse il sangue 6 .<br />

La descrizione è faceta, eppure estremamente precisa e profonda. La passione antiquaria<br />

è un po’ il rovescio della coazione alla scrittura. Comporre è davvero come collezionare pezzi<br />

antichi – ta<strong>lo</strong>ra bizzarrie sulle quali la natura si è esercitata – per dar luogo a un’opera<br />

nuova attraverso pezzi ‘vecchi’. Eppure qui l’autore non sfugge a quell’inflessibile naturalismo<br />

che ne caratterizza la scrittura. E così l’anticaglia più mirabile non è un fossile, una lucerna o il<br />

6 A. F. DONI, I Marmi, cit., vol. II, p. 211.


In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />

frammento corroso d’una statua: è proprio il sole, antico di millenni eppure sempre nuovo.<br />

E Doni riprenderà altrove il tema della collezione come occasione per esercitare la<br />

sua vena bizzarra. E ancora una volta Tintoretto è il destinatario di una interessante missiva.<br />

Già dieci anni prima della pubblicazione delle Rime del Burchiel<strong>lo</strong> Doni gli aveva indirizzato una<br />

lettera nella quale gli descriveva il Museo Gioviano di Como 7 , scritta in pendant con l’altra ad<br />

Agostino Landi datata qualche giorno avanti. Eb<strong>bene</strong>, la ratio (se di ‘ragione’ è lecito parlare a<br />

proposito di Doni) che muove la descrizione del Museo prodotta per il pittore è la medesima che<br />

anima il Comento alle Rime del Burchiel<strong>lo</strong>. Se la lettera al conte Landi è tutta intessuta nella<br />

misura dell’erudizione, quasi a riprodurre nell’esattezza pedantesca il tono di una lezione<br />

accademica, quella a Tintoretto è architettata come una esegesi burlesca nella quale il significato<br />

delle immagini e delle opere custodite nella raccolta – che pure dalla descrizione appare con una<br />

certa chiarezza – è volutamente sovvertito. Una statua, che evidentemente raffigurava Cibele,<br />

nella falsamente ingenua descrizione di Doni diviene una donna «c’haveva più poppe assai ch’una<br />

cagna, et in capo una paniera di frutte, come la venisse<br />

dal mercato» 8 . O ancora a proposito di una raffigurazione<br />

di Apol<strong>lo</strong> e Marsia: «Il primo mi pareva un San Bartho<strong>lo</strong>meo,<br />

ma non aveva la pelle sulla spalla: ch’uno huomo che<br />

portava la ribeca l’appiccava a un albero, et poi gli era<br />

legato come un San Bastiano. Che domine era egli?» 9 .<br />

Chiaramente, l’operazione esegetica di Doni è non<br />

tanto e non so<strong>lo</strong> una satira contro la saccenteria della<br />

cultura ufficiale, rigonfia di autocelebrazione<br />

nell’ostentazione del proprio sapere; quanto il tentativo di<br />

riformare il linguaggio della critica a partire dal naturalismo<br />

linguistico e dal rifiuto delle categorie preconcette degli<br />

intellettuali di corte. E dunque un’opera come il <strong>Di</strong>a<strong>lo</strong>go<br />

di Pittura di Pao<strong>lo</strong> Pino (Venezia 1548), che muoveva da<br />

un piatto conformismo e da un incondizionata partigianeria<br />

per la pittura, dovette – <strong>lo</strong> notò già Rodolfo Pallucchini 10<br />

Frontespizio del <strong>Di</strong>segno del Doni (Giolito,<br />

Venezia 1549).<br />

- dargli sui nervi.<br />

Il fatto è che Doni è uno scrittore che non può<br />

essere seguito in un percorso lineare, proprio perché tale dirittura non gli è mai stata congeniale.<br />

Capace di esaltare Tiziano come uno dei massimi artisti d’ogni tempo, gli sovrappone<br />

7 A. F. DONI, [Lettera] A M(esser) Jacopo Tintoretto Eccellente Pittore (Como, 23 luglio 1543), in Id. Tre Libri di Lettere del<br />

Doni, Marcolini, Venezia 1552, pp. 75-79. La lettera era già stata pubblicata nelle due edizioni delle Lettere del 1544 e del 1547,<br />

e – come vedremo – nell’appendice al <strong>Di</strong>segno del 1549.<br />

8 Ivi, p. 76.<br />

9 Ivi, p. 77.<br />

10 R. PALLUCCHINI, La critica d’arte a Venezia nel Cinquecento, “Quaderni del Rinascimento Veneto”, n° 1, Venezia<br />

1943, pp. 16-17.<br />

21


22<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

però Michelange<strong>lo</strong> e proprio là (a Venezia) dove<br />

l’inveterata disputa tra disegno e co<strong>lo</strong>rito aveva<br />

portato alla “centauresca” sintesi ideale elaborata<br />

dal<strong>lo</strong> stesso Pino di «un dio della pittura»<br />

che possedesse il disegno di Michelange<strong>lo</strong> e il co<strong>lo</strong>rito<br />

di Tiziano.<br />

Il <strong>Di</strong>segno del Doni, che il fiorentino pubblica<br />

nel 1549 11 quasi in risposta all’operetta piniana, è<br />

un testo che esibisce con evidenza le contraddizioni<br />

che caratterizzano l’intera sua produzione. Da una<br />

parte – apparentemente – non aggiunge nulla di<br />

nuovo al dibattito critico contemporaneo, riprendendo<br />

numerosi topoi della tradizione, anzi ulteriormente<br />

tritandoli in un risultato quantomeno stanco;<br />

dall’altro però è capace di illuminare su quella crisi<br />

Una delle imprese dell’Accademia Peregrina, rappresentante<br />

un pellegrino recante il falco e il bordone, oggetto quest’ultimo<br />

allusivo al pittore Paris Bordone che Doni indica come<br />

corifeo del sodalizio.<br />

delle strutture di pensiero rinascimentali, già in atto da molto tempo, se letta non come opera<br />

“assoluta”, bensì come fi<strong>lo</strong> conduttore principale di tutti gli altri suoi testi. E dunque, a<br />

presentare il suo trattato, è utile far parlare <strong>lo</strong> stesso autore attraverso la lettera Al Bordone,<br />

Guida dell’Academia de’ Pelegrini:<br />

Tutti questi libri [Doni aveva precedentemente enumerato le opere composte dai<br />

membri dell’Accademia Peregrina nel 1549] vi si mandano; rimandatemi per il medesimo<br />

apportatore IL DISEGNO mio, et date un’occhiata a questa scusa magra che io ho fatto a<br />

co<strong>lo</strong>ro che leggeranno l’opera. State sano.<br />

AI LETTORI.<br />

Egli è pur venuto un tempo che i paperi (come si suol dire) menano a ber l’oche, cioè che<br />

ne sa più un praticone senza cuiussi, che un dottore di poco giudicio con molte lettere; perché<br />

un mezz’huomo che habbia buon discorso, se non intende una cosa, con l’ingegno suo la<br />

va ricercando, et domandando a chi la sa, et cava dalla miniera di quel cervellaccio tutto il suo<br />

bisogno. Et anchora che ’l dotto di poco senno tenga le sue lettere in confessione, il<br />

galante intelletto fa come co<strong>lo</strong>ro che cavan l’oro, i quali entran per varie strade nella montagna,<br />

11 A. F. DONI, <strong>Di</strong>segno del Doni partito in più ragionamenti, Giolito, Venezia 1549. Ed. mod. <strong>Di</strong>segno. Fac simile della edizione del<br />

1549 con una appendice di altri scritti del Doni riguardanti le arti figurative, a cura di M. Pepe, Electa, Milano 1970, <strong>lo</strong>c. cit. a n. 33.<br />

Altra ed. parziale in P. Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1971, t. I, pp. 554-91.


In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />

et <strong>lo</strong> traggon con gran fatica tutto brutto, et sporco; ma con mirabil maestria <strong>lo</strong> vanno poi raffinando.<br />

Così credo che facessino i poeti per lettera antichi, che leggevano questo scartabel<strong>lo</strong>, et<br />

quell’altro scartafaccio, et di quegli ordivono la tela dell’opera <strong>lo</strong>ro. Pure gli è difficil cosa<br />

a metter mano negl’altrui scrigni. Che si dirà adunque havendo dato in publico quest’opera, che<br />

tratta della Scoltura et Pittura, che per mia fede non saprei fare un beveratoio da pulci con <strong>lo</strong><br />

scarpel<strong>lo</strong>, né col pennel<strong>lo</strong> una testa (presso che io no’l dissi) di gril<strong>lo</strong>? Et pure gratia Dei<br />

n’ho cicalato non so quante carte. Potrei esser calunniato che io l’havessi rubata. A questo<br />

risponderebbe Antonio Schizzatore così morto com’egli è: che non è cosa detta o scritta che<br />

non ne sappia ragionar quasi ogni persona come son’io, et havendo praticato l’Eccellenza mia<br />

(con sanità fia detto) con la maggior parte degl’huomini che sanno benissimo l’arte, non è gran<br />

fatto ch’io ne cicali; anchora i Savi che compongono de’ libri, rubono dagl’altri libri, o<br />

traggono per parlar più moderato, tutte le <strong>lo</strong>r compositioni. Così faremo un saldo, che io<br />

habbi imparato a bocca (come s’imparava la Cabalà) per pratica, et i dotti da’ libri per scienza.<br />

Molti i potranno riprendere ch’io ho detto che la scoltura è più nobile che la pittura: ogn’uno è<br />

ubligato a dire l’opinion sua, anchor Leon Battista Alberti essaltò la pittura, ma se per sorte non<br />

piace <strong>lo</strong>ro, piglino la penna cortesemente et rispondino tal che con più forte ragione mi<br />

strapazzino et vinchino il piato, perché tal cosa mi farà sommo piacere , et ne resterò<br />

<strong>lo</strong>ro obligato mill’anni. Se poi io saprò dire anchor io qualche cosa frapperò col tempo empiendo<br />

qualche foglio. Mi resta solamente per hora a dire nell’orecchio a chi dicesse che io non<br />

ho saputo quel che io mi dica per via di Phi<strong>lo</strong>sophie, di stile: bravo, di parole; a questo non farò<br />

manco servitiali, ch’io m’habbi fatto a gli altri, et son questi gl’argomenti sì fatti, che Aristotile<br />

in sesto De Anima, et in duodecimo Phisicorum, si conferma con Platone de Situ Orbis: che uno<br />

il qual biasima (che sia della lega dell’ignoranza come me) ne faccia prima altrettanto et<br />

poi cicali et frappi quanto e’ vuole, et qui do fine alle ciancie per questa volta12 .<br />

La citazione è un po’ lunga, ma è davvero illuminante riguardo alla concezione dell’arte<br />

di Doni, tanto che potrebbe essere assunta a manifesto poetico dell’intera sua produzione.<br />

Lo stile è quel<strong>lo</strong> del parlare popolaresco, diremmo quasi da osteria dopo una buona bevuta.<br />

Ogni artificio di affinamento esteriore è così bandito in nome di una vena spontanea, e in una<br />

con l’elaborazione formale è caduto il principio d’autorità su cui il sapere pedantesco appoggiava<br />

i pilastri della propria credibilità. Doni non so<strong>lo</strong> ammette di essere «un praticone senza cuiussi»<br />

(dove la voce latina storpiata riproduce beffardamente il linguaggio accademico, e indica<br />

il bagaglio culturale nutrito di frequentazioni libresche), ma afferma – a ulteriore aggravio della<br />

sua posizione – che non sarebbe capace nemmeno di cesellare un abbeveratoio da pulci<br />

12 A. F. DONI, [Lettera] Al Bordone, Guida dell’Academia de’ Pelegrini sempre osservandissimo, in ID., Tre Libri di Lettere,<br />

cit. pp. 148-52, <strong>lo</strong>c. cit. a pp. 151-52. Anche questa lettera era stata accolta nell’appendice al <strong>Di</strong>segno. Abbiamo leggermente<br />

modificato l’interpunzione del<strong>lo</strong> scritto e staccato l’intestazione per mostrare il suo statuto di progetto di prefazione,<br />

che nella redazione definitiva fu mutato relegando la lettera (forse considerata troppo faceta per il tono “serio” del testo) alla fine del<br />

trattato.<br />

23


24<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

L’impresa, accompagnata dal motto STULTITIA EST APUD<br />

DEUM SAPIENTIA HUIUS MUNDI, che apre una delle sezioni<br />

dei Mondi. Raffigura simbolicamente la «soma di libri»<br />

su cui opera <strong>lo</strong> scrittore, cavati dalla dura pietra.<br />

L’iscrizione nel cartiglio (EYKAMATOS, “laborioso”) è un<br />

ulteriore indizio della difficoltà dell’azione creativa<br />

secondo Doni.<br />

o di dipingere una testa di gril<strong>lo</strong>. Oggetti quasi<br />

da Wunderkammer, si direbbe, che nel <strong>lo</strong>ro<br />

microscopico respiro paiono non tanto<br />

concretare la propensione a discutere di<br />

quisquilie, e per di più in uno stile volutamente<br />

antiletterario; quanto piuttosto a parlarne<br />

secondo il dato dell’esperienza. Esercizio che<br />

Doni ostenta non nella pratica artistica<br />

(seb<strong>bene</strong> fosse disegnatore non disprezzabile),<br />

bensì nella frequentazione di pittori e scultori<br />

a Firenze e a Venezia (<strong>lo</strong> stesso corifeo<br />

dell’Accademia Peregrina a cui si rivolge<br />

l’autore – forse per ottenere una revisione del<br />

suo lavoro – è il pittore Paris Bordone, ed è<br />

certo significativo che a capo di una congrega<br />

letteraria fosse posto proprio un artista figurativo);<br />

ma che è anche e soprattutto il dominio di una<br />

tecnica compositiva che non retrocede di fonte<br />

al plagio, assumendo<strong>lo</strong> anzi a methodus (l’unica<br />

possibile) della scrittura. Nella selva di bizzarrie<br />

che Doni presenta, in questa lettera come nel<br />

resto delle sue opere, una metafora credo possa<br />

essere considerata quasi l’“impresa” della sua officina letteraria: quella della montagna da cui i<br />

cavatori d’oro traggono un materiale a prima vista deforme, ma che con tecnica sapiente<br />

riducono a oggetti mirabili. Altrove (ad esempio nei Marmi) questo monte è assimilato alla mente<br />

dell’artista 13 (il «cervellaccio», secondo uno dei lemmi più cari all’autore), da cui con fatica, quasi<br />

a spremere i sassi, egli trae l’umore della creazione.<br />

Nella finzione del <strong>Di</strong>segno il dia<strong>lo</strong>go corre tra le personificazioni della Natura e dell’Arte<br />

a partire da un ennesimo topos della tradizione, la disputa su quale delle due debba ricevere la<br />

palma della preminenza. Al di là tuttavia della debolezza di questo luogo comune, introdurre all’inizio<br />

del dia<strong>lo</strong>go questo contraddittorio serve immediatamente a rivelare quale sia<br />

la mossa teorica che sottostà all’opera: Doni, sin dal<strong>lo</strong> stile della sua scrittura (che curiosamente<br />

in quest’opera trova una pausa di misurato accademismo, quasi a giustificare il giudizio che di essa<br />

si sarebbe dato quale unica sua opera “seria”), rivela una propensione naturalistica che emerge<br />

non so<strong>lo</strong> nella bizzarria attorta delle sue <strong>lo</strong>cuzioni, nei wellerismi e nei modi di dire vivacemente<br />

popolareschi; ma soprattutto nella considerazione stessa della scultura quale arte la più “naturale” tra<br />

tutte. In un passo dei Marmi – declinando nella solita attitudine al paradosso il tema delle statue<br />

13 A. F. DONI, I Marmi (Marcolini, Venezia 1553); ed. a cura di E. Chiorboli, Laterza, Roma-Bari 1928, vol. I, p. 100.


In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />

‘imprigionate’ nella materia già prima che <strong>lo</strong> scultore vi metta mano, uno dei suoi strampalati<br />

inter<strong>lo</strong>cutori (il Porcellino) assegna all’artefice piuttosto il ruo<strong>lo</strong> di scopritore che di creatore 14 .<br />

Qui Doni rivela certamente la sua aderenza alla dottrina neoplatonica dell’Idea, che<br />

Michelange<strong>lo</strong> aveva espresso nel celebre sonetto Non ha l’ottimo artista alcun concetto, seb<strong>bene</strong> sia<br />

utile supporre che tale adesione sia più un omaggio al<br />

maestro fiorentino che sentita partecipazione a un<br />

model<strong>lo</strong> fi<strong>lo</strong>sofico che doveva conoscere in misura<br />

so<strong>lo</strong> larvale. In realtà, come ha notato Mario Pepe nella<br />

sua introduzione all’edizione del <strong>Di</strong>segno del 1970 15 ,<br />

Doni qui rielabora, fondendoli al dettato neoplatonico<br />

in una mescolanza non precisamente originale, elementi<br />

aristotelici che la cultura controriformista – alla quale<br />

l’autore dovette pur sempre partecipare – riteneva congeniali<br />

alla diffusione delle dottrine Tridentine. Così la<br />

teoria del disegno subisce una trasmutazione – diremmo –<br />

di comodo e fa sì che esso divenga «speculation divina<br />

che produce un’arte eccellentissima, talmente che tu<br />

non puoi operare cosa nessuna nella scoltura et nella<br />

pittura senza la guida di questa speculatione et disegno» 16 .<br />

Il carattere metafisico (e non meno convenzionale)<br />

assegnato al disegno, definito poco più oltre come<br />

«un’inventione di tutto l’universo, imaginato perfetta-<br />

mente nella mente della prima causa, inanzi che<br />

venisse all’atto del rilievo, et del co<strong>lo</strong>re» 17 , non deve<br />

far perdere di vista né il naturalismo dell’autore, per il<br />

quale sembra esistere ben poco al di là del dato<br />

Frontespizio della terza edizione dei Tre Libri di<br />

Lettere del Doni (Marcolini, Venezia 1552). Nella<br />

vignetta, l’immagine del Tempo che sottrae la Verità<br />

alla Menzogna.<br />

dell’esperienza sensibile; né il solito atteggiamento paradossale e contraddittorio, che in realtà nel<br />

<strong>Di</strong>segno è mascherato da un conformismo di maniera. Credo che a valutare con maggiore<br />

acribia il portato dell’operetta doniana (e qui l’edizione curata da Pepe è strutturalmente davvero<br />

esemplare) debbano soccorrere altre opere che danno contezza di alcune posizioni che – fatalmente –<br />

nel <strong>Di</strong>segno restano implicite: non so<strong>lo</strong> gli altri scritti specificamente dedicati alle arti figurative,<br />

ma anche altri in cui il discorso sull’arte non è esattamente in primo piano. Le Lettere in questa<br />

direzione rappresentano ancora una volta un apparato critico di sicura utilità, perché rivelano <strong>lo</strong><br />

scrittore da un punto di vista interno, dal quale il tono letterario e le remore stilistiche e<br />

dottrinali sembrano banditi. In una di queste, indirizzata a Francesco Coccio 18 , Doni (attribuendo<br />

14 Ibidem.<br />

15 M. PEPE, Introduzione a A. F. DONI, <strong>Di</strong>segno, cit. p. 20.<br />

16 Ivi, p. 7 verso.<br />

17 Ivi, p. 8.<br />

18A. F. DONI, [Lettera] Al Dotto et da <strong>bene</strong> Messer Francesco Coccio (Padova, 17 febbraio [1543], in ID., Tre Libri di Lettere, cit. pp. 205-09.<br />

25


26<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

in verità la trovata a uno «spirito letterato […] diventato pazzo») ipotizza il meccanismo secondo<br />

il quale gli artisti e i letterati più grandi attingono all’Idea. Non è umanamente possibile, afferma<br />

in sostanza Doni, che alcuni uomini insigni nelle arti e nelle lettere possano avere già in giovane<br />

età (ed ex nihi<strong>lo</strong>) raggiunto la perfezione senza aver maturato l’esperienza che, in tutti gli<br />

altri uomini, è il percorso necessario a raggiungere – se non altro – risultati di una certa validità.<br />

E qui l’alter ego dell’autore esibisce una sua personale interpretazione della dottrina platonica<br />

dell’anamnesi, mescolandola alla credenza orfica della metempsicosi:<br />

Michel Agno<strong>lo</strong> scultore et dipintore sopranaturale haveva quindici anni, che<br />

faceva sì <strong>bene</strong> come cinquanta: non era possibile far questo se non fosse stato<br />

un’altra volta al mondo, et scultore et pittore, et tante volte gli è tornato che s’è fatto<br />

perfetto. Così come gli huomini arrivano a quel segno, Domenedio gli tira a sé in<br />

Paradiso, et non gli lascia più tornare. […] La virtù, gentlhuomini miei, come è giunta<br />

al segno a quel termine che è stabilito da lui, non la va più su. Ma creato un’altra<br />

anima, et venuta in questo mondo, tanto ci torna che la si fa perfetta. Vedete<br />

l’Aretino: è arrivato al colmo di quel<strong>lo</strong> che può dire un huomo senza lettere come egli<br />

è, che ha saputo più che mille letterati. Titiano è al colmo. Voi direte d’un pazzo: come<br />

anderà ella? Alla pazzeresca, tornargli tante volte che diventi savio, o pazzo sine fine dicentes.<br />

Perché venuto a quella perfettion della pazzia, potrà comparire anch’egli in Paradiso<br />

per pazzo solenne. […] Voi mi moverete un dubbio: come è possibil che io mi<br />

ricordi, et così gli altri huomini, di quell’altra volta che io fui in questo mondo?<br />

Vi dirò. Prima n’è cagione questo corpo come ostacu<strong>lo</strong> dell’intelletto in guisa<br />

dell’occhio serrato, il qual sempre tu vedi, et t’imagini una figura, una casa, una città,<br />

una persona, un animale. Ma come tu l’apri tutti s’accordano all’esserne capace, et poi<br />

è ordinazione di Messer Domenedio così. Tal volta <strong>lo</strong> fa ben ricordare a qualcuno, che<br />

a quel Phi<strong>lo</strong>sopho che si diceva esser stato un caval<strong>lo</strong> a Troia. Et quell’altro un gal<strong>lo</strong>,<br />

come chimerizza Luciano 19 . Il Moro da Savignano gli è stato una volta sola per esser<br />

dipintor goffo. Cencio <strong>Di</strong>ni contadino da Santa Croce di Lucca gli è stato due volte<br />

o tre: la prima volta fu sguattero della corte, la seconda spazzava la casa, hora è sguattero,<br />

scrivano et poeta, [e] <strong>lo</strong> sguattero <strong>lo</strong> fa per eccellenza. Ecci poi di quegli, che sono stati<br />

ricchi ricchi, et sono hora poveri poveri, ma virtuosi. […] <strong>Io</strong> son povero et diserto<br />

furfantissimo in chermisi. Ma comincio a d’armi [sic] alle lettere della scrittura, forse<br />

che non ci tornerò venticinque volte, che anderò in Paradiso 19 .<br />

19 A. F. DONI, [Lettera] Al Dotto et da Bene Messer Francesco Coccio, in ID., Tre Libri di Lettere, cit., pp. 205-209.


In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />

La «maschera del Doni», usiamo l’ormai classica formula escogitata da Momigliano 20 , ha<br />

sempre impresso il ghigno eversore della beffa. Non importa all’autore se a citazioni reali<br />

s’accompagnino autorità fittizie, se il vero si mescoli all’invenzione o se il lettore si trovi irretito<br />

in una trappola dalla quale è difficile sfuggire: ciò che conta – una volta di più – è assestare un<br />

colpo al sapere vacuo dei pedanti. Abbassare il dettato fi<strong>lo</strong>sofico al piano della facezia significa<br />

perciò non so<strong>lo</strong> screditare la cultura ufficiale, ma di più rifondare il meccanismo della regola in<br />

una nuova operatività. Così nel <strong>Di</strong>segno, e in realtà in tutti i <strong>lo</strong>ci delle sue opere nelle quali <strong>lo</strong><br />

scrittore fa uso del paragone tra arti che s’avvalgono di ‘segni differenti’, l’ut pictura poësis è<br />

liquidato in favore di un altro model<strong>lo</strong> comparativo. Ancora nelle Lettere, un passo illumina sul<br />

rapporto che esiste tra scritto e immagine:<br />

Costoro che si presero la licenza di far comparazioni, hanno scritto che il<br />

Poeta è molto simile al Pittore, per tenere alquanto l’uno et l’altro di una certa libertà<br />

di fare a suo modo. Hora io vorrei essere di tanta auttorità che io facesse un<br />

altro paragone fra il mercatante di gioie, et il compositor di libri, perché tosto che<br />

uno gioiellieri navica per diverse parti del mondo, et gli viene alle mani qualche gioia<br />

rara, o altra cosa che vi si possa far sopra disegno, che sia utile per lui, egli è tosto risoluto<br />

che ’l compratore, che n’avrà desiderio, l’habbi a pagar <strong>bene</strong>, et oltre al<strong>lo</strong> sborsar<br />

de danari, tenga un grand’obligo alla diligenza che gl’ha usata nel ricercarla 21 .<br />

Qui il paralle<strong>lo</strong> dà conto non so<strong>lo</strong> dell’interesse che Doni stabilmente coltivò per le arti<br />

‘minori’, interesse che è peraltro testimoniato da diversi passi del <strong>Di</strong>segno in cui la personificazione<br />

della scultura e<strong>lo</strong>gia le opere di glittica, l’intaglio in avorio, gli esempi di oreficeria 22 , ma anche<br />

dell’ana<strong>lo</strong>go operare di scrittori e artigiani che l’autore pone alla base del suo metodo.<br />

La scrittura per Doni è – <strong>lo</strong> notavamo a proposito dell’ana<strong>lo</strong>ga sua concezione della scultura<br />

– una scoperta di «cose rare e mirabili» che l’autore, al pari di un gioielliere, ricerca per ogni dove<br />

e con grande dispendio («Oh, età traditora – lamenta egli nella medesima lettera – da che<br />

bisogna che chi compone si stili il cervel<strong>lo</strong> per comprarsi il pane»), che ta<strong>lo</strong>ra non gli è nemmeno<br />

riconosciuto.<br />

Viene così a cadere l’immagine di uno scrittore sciatto, poco curante del<strong>lo</strong> stile,<br />

finanche grossolano. In Doni <strong>lo</strong> sperimentalismo linguistico, il rendere sulla carta l’idea di una<br />

materia viva e ancora in ebollizione, è il tentativo di abolire i confini tra le arti; e, ancor di più,<br />

20 Doni qui allude all’operetta dia<strong>lo</strong>gica di Luciano intitolata Il sogno, ovvero il gal<strong>lo</strong>, in cui il protagonista Micil<strong>lo</strong> discute<br />

con Pitagora il quale, secondo quanto crede <strong>lo</strong> stesso Micil<strong>lo</strong>, si è reincarnato in un pol<strong>lo</strong>.<br />

21 A. MOMIGLIANO, La maschera del Doni, sul «Corriere della sera» del 3 settembre 1932 (poi in ID., <strong>Studi</strong> di poesia, Bari,<br />

Laterza, 1938 [1948 2 ], pp. 61-67). 21 A. F. DONI, Lettera Al molto honorato et nobile Messer Rocco Granza, et maggiore suo, et<br />

compare osservandissimo, in ID., Tre Libri di Lettere, cit., p. 195.<br />

22 Cfr. soprattutto ID., <strong>Di</strong>segno, cit. pp. 12v e ss., e p. 67 dell’ed. a cura di M. PEPE.<br />

27


28<br />

Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />

la tensione a dare l’idea di una scrittura sinestetica, nella quale il «cavo, il rilievo, o il basso» 23 siano<br />

il correlativo del tortuoso scorrere della parola, o addirittura del suo implicitarsi in sensi del tutto<br />

sfuggenti. È sicuramente una metafora più o meno pregnante immaginare <strong>lo</strong> scrivere come una<br />

operazione in tutto simile a quella del<strong>lo</strong> scolpire o del modellare. Tuttavia a Doni questa<br />

ana<strong>lo</strong>gia è utile proprio a indicare la difficoltà della creazione “originale”, in un momento in cui<br />

la poesia trovava già bell’e pronte le sue formule nel repertorio petrarchesco, la pittura e<br />

la scultura esautoravano la potente e tragica lezione michelangiolesca in un repertorio ormai<br />

stracco di musco<strong>lo</strong>sità e torsioni.<br />

Nel <strong>Di</strong>segno, come notavamo più sopra, l’attitudine di Doni a sperimentare una lingua<br />

nuova è momentaneamente sospesa. Lo scrittore fiorentino dovette certo assegnare notevole<br />

importanza a quest’operetta per accreditarsi autorevolmente nell’ambito delle teorie artistiche.<br />

Probabilmente per questo motivo che, per comporre quest’opera, abbandonò il suo stile<br />

espressionistico, pur non rinunciando a una certa propensione “teatrale” nella costruzione del<br />

contraddittorio tra le diverse componenti del concetto di disegno. In verità, il suo portato<br />

teorico – almeno immediatamente – non era destinato a incidere granché nell’ambito delle<br />

discussioni dottrinali sulla vicendevole superiorità di pittura o scultura. Eppure, se letto senza<br />

preconcetti, e soprattutto in concorso ad altre opere nelle quali l’autore utilizza il discorso<br />

sull’arte a supporto di una più generale teoria della composizione, il <strong>Di</strong>segno del Doni si mostra<br />

davvero come uno dei testi più rivelatori dell’intero Cinquecento.<br />

23 Ivi, p. 11v.


LA SCULTURA NELLA LETTERATURA ARTISTICA DEL SETTECENTO.<br />

DI ROBERTA CINÀ<br />

Dopo essere stata pressoché appiattita<br />

sulla pittura nel XVII seco<strong>lo</strong>, in una sostanziale<br />

identificazione che vedeva nei principi delle due<br />

arti esclusivamente la mimesis, la scultura tornò alla<br />

ribalta nella letteratura artistica del Settecento 1 .<br />

Le ragioni di questo rinnovato interesse possono<br />

ricondursi, fondamentalmente, a due importanti<br />

aspetti, quali il rinnovato interesse per le antichità 2 ,<br />

che si manifestò con una notevole ammirazione per le<br />

statue antiche, nonché gli studi sulle modalità della<br />

conoscenza riconducibili a questo fi<strong>lo</strong>ne interpretativo<br />

cui anche l’estetica del periodo faceva riferimento che,<br />

alla luce di nuove esperienze scientifiche, videro nel<br />

tatto un canale preferenziale rispetto alla vista e<br />

C. Perrault, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde les<br />

Arts et les Sciences, Paris 1688-1697, in http://books.google.it,<br />

2010-04-16.<br />

ritennero conseguentemente le opere scultoree meglio conoscibili rispetto a quelle pittoriche.<br />

Spesso questi elementi si intrecciano e, accanto ad essi, ne affiorano altri relativi ad argomenti molto<br />

anteriori, come la Querelle des Anciens et des Modernes o il cinquecentesco Paragone tra pittura e scultura 3 .<br />

1 Cfr. Letteratura artistica del Settecento. Anto<strong>lo</strong>gia di testi, a cura di G.C. Sciolla con la collaborazione di A. Griseri, T. Marghetich,<br />

Giappichelli, Torino 1984, pp. 61-96; P. D’ANGELO, Dal Settecento ad oggi, in Estetica della Scultura, a cura di L. Russo, Aesthetica, <strong>Palermo</strong><br />

2003, pp. 91-125; A. PINELLI, Il Neoclassicismo nell’arte del Settecento, Carocci, Roma 2005.<br />

2 Cfr. R. ASSUNTO, Antichità come futuro, Mursia, Milano 1973; F. ANTAL, Classicismo e romanticismo, Einaudi, Torino 1975;<br />

H. HONOUR, Neoclassicismo, Einaudi, Torino 1980; A. OTTANI CAVINA, Il Settecento e l’antico, in Storia dell’arte Italiana, vol.VI, parte II, Einaudi,<br />

Torino 1982, pp. 599-660; F. BERNABEI, La fortuna del Neoclassico, in “Neoclassico. Semestrale di arti e storia”, I, 1992, pp. 11-37.<br />

3 Cfr. S. LA BARBERA, Il Paragone delle Arti nella teoria artistica del Cinquecento, Cafaro Editore, <strong>Palermo</strong> 1997; P. BAROCCHI,<br />

Scritti d’arte del Cinquecento, Ricciardi, Milano - Napoli 1971, tomo I, pp. 524 e sgg.; B. VARCHI, V. BORGHINI, Pittura e scultura nel Cinquecento,<br />

a cura di p. Barocchi, Sillabe, Livorno 1998; F.P. CAMPIONE, In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni, infra.


32<br />

Roberta Cinà<br />

Erastataappuntol’ecodelParagoneainformare,<br />

nel Seicento, la scarsa fortuna della scultura, che,<br />

quando non equiparata alla pittura nel fine comune,<br />

l’imitazione della natura 4 , non fu comunque oggetto<br />

di trattazioni specifiche, salvo quella di Orfeo Boselli 5 ;<br />

va peraltro ricordato che il pittoricismo del<strong>lo</strong> stile<br />

barocco e la contemporanea poetica della meraviglia<br />

non potevano che trovare affinità con gli effetti<br />

illusivi creati dalla pittura 6 .<br />

Tale ruo<strong>lo</strong> subalterno della scultura fu<br />

sottolineato nel 1759 dal Conte di Caylus 7 , che<br />

addebitò il silenzio che aveva precedentemente<br />

circondato questa espressione artistica ad alcuni<br />

J.C. Bulengerus, De pictura, plastice, statuaria Libri duo,<br />

Lugduni 1627, in http://books.google.it, 2010-04-15.<br />

Boulanger definì la pittura e la plastica arti liberali.<br />

elementi particolari alla sua specificità e, nelle Réfléxions sur la sculpture 8 , non mancò di sottolineare<br />

quanto fosse più difficile giudicare un’opera scultorea piuttosto che un dipinto:<br />

Plusieurs Amateurs 9 des Arts m’ont paru surpris de ce qu’on n’a presque point écrit<br />

sur la Sculpture, tandis que le plus petit Poëte et le plus médiocre Auteur se croit en état de<br />

décider souverainement du mérite des Peintres, et de parler de toutes les parties de la Peinture:<br />

les raison d’un silence si profond, et d’un tel excès de réfléxions pretendues, se trouvent dans<br />

l’essence des deux Arts [...]. La Peinture frappe plus les sens, et le secours de la couleur lui donne<br />

le moyen d’être plus approchée de la Nature; non-seulement ses richesses et son éclat la répandent<br />

davantage dans le monde et la font accueillir, mais les moyens généraux de son exécution sont<br />

si familiers et si connus, que tous les hommes la regardent comme une propriété [...]. La Sculpture<br />

plus renfermée dans ses atteliers, moins en vuë, plus difficile à mouvoir, plus lente dans ses opérations,<br />

et moins étendue dans ses compositions, non seulement racourcit et resserre, mais obscurcit la<br />

4 Cfr. ad esempio J.C. BULENGERUS, De pictura, plastice, statuaria Libri duo, Lugduni 1627, che asseriva che, tra le arti liberali,<br />

«non ultimum <strong>lo</strong>cum Plastice, et Pictura obtinuit».<br />

5 O. BOSELLI, Osservazioni della scoltura antica (dai manoscritti Corsini e Doria) e altri scritti, a cura di P. Dent Weil, SPES, Firenze<br />

1978. Cfr. E. DI STEFANO, Orfeo Boselli e la “nobiltà”della scultura, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2002; EAD., Dal Medioevo al Seicento, in Estetica della Scultura…, pp.<br />

47-91.<br />

6 Significativa la presa di posizione di Roger De Piles, che consigliava ai pittori di guardarsi da un eccesso di imitazione persino della<br />

scultura antica, in quanto, ricorrendo al suo studio, avrebbe imitato un’arte diversa dalla sua. Cfr. S. LA BARBERA, Il Paragone..., p. 113.<br />

7Cfr. LeComtedeCaylus.LesArtsetlesLettres,ÉtudesréuniesetprésentéesparN.Cronk,K.Peeter,Rodopi,Amsterdam–NewYork2004.<br />

8A.C.P.deTubierscontediCAYLUS(daquestomomento:Caylus), Réfléxionssurlasculpture,in“MercuredeFrance”,aprile1759,pp.174-193.<br />

9ÈrilevabileunacertaasprezzadiCaylusneiconfrontidegliamatori.Questofuunargomentomoltosentitodadiversiautorideltempo, tracuiFalconete<strong>Di</strong>derot,icuirapporticonl’autoredel Recueil,comeènoto,nonfuronoidilliaci.Proprio<strong>Di</strong>derotdefinìCaylusunodeipiùcrudeli<br />

«amateurs». Cfr. D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>nde1765, in ID., Œuvrescomplètes, par J. Assézat, 20 voll., Garnier, Paris 1875-1877, vol. X, 1875, p. 237. L’amatore, pur<br />

senza averne spesso le competenze, era in grado di influenzare, col suo giudizio, il pubblico e quindi di determinare la fortuna o la disgrazia di un<br />

artista.Scriveva<strong>Di</strong>derot:«Ah![...]lamauditeracequecelledesamateurs![...]Cesontcesgens-làquidecidentàtortetàtraversdesrèputations,[...]<br />

qui s’interposent entre l’homme opulent et l’artiste indigent, qui font payer au talent la protections qu’ils lui accordent, qui lui ouvrent ou ferment<br />

lesportes;[...]quidècrientetminentlepeintreetlestatuaire[...]ceseulinconvénientsuffiraitpourhâterladécadencedel’art,surtout<strong>lo</strong>rsquel’on<br />

considèrequel’acharmentdecesamateurscontrelesgrandsartistesvaquelquefoisjusq’àprocurerauxartistesmédiocresleprofitetl’honneurdes<br />

ouvrages publics». ID., Sa<strong>lo</strong>n de 1767, ivi, vol. XI, pp. 7 e 8. Il rapporto tra amatori e potere ed il legame col fenomeno del collezionismo è ben<br />

rilevato da F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia del bel<strong>lo</strong>. Leopoldo Cicognara e il classicismo fra Settecento e Ottocento, Franco Angeli, Milano 1990, p. 58;<br />

cfr. inoltre, sul tema amateur/connaisseur,K.POMIAN, Collezionisti,amatoriecuriosi.Parigi–VeneziaXVI-XVIIIseco<strong>lo</strong>,IlSaggiatore,Milano1989,pp.<br />

174. e segg.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

carrière toujours ouverte, par rapport à la Peinture, aux esprits légers, aux petites tetes, enfin à<br />

nos Juges à la mode: La facilité de parler, et le silence sont donc dépendans de la nature de<br />

chaucun de ces Arts 10 .<br />

La pittura, dunque, risultava più facilmente apprezzabile<br />

anche grazie al co<strong>lo</strong>re: si trattava di un argomento che, sia nell’ambito<br />

del Paragone che in tutte le altre opere ad essa dedicate,<br />

l’aveva posta su un piano di preminenza. Nel caso di Caylus,<br />

però, tale prerogativa non veniva considerata un pregio ad essa<br />

peculiare e, conseguentemente, il fatto che la scultura non<br />

fosse caratterizzata dal co<strong>lo</strong>re era ritenuto, semplicemente,<br />

una sua caratteristica e non un difetto 11 .<br />

Cominciava a delinearsi il riconoscimento di un<br />

linguaggio espressivo proprio a ciascuna espressione artistica.<br />

Winckelmann, nel 1764, avrebbe affermato: «Il co<strong>lo</strong>re<br />

contribuisce alla bellezza ma non è la bellezza, bensì esso mette<br />

soprattutto in risalto questa e le sue forme. Ma poiché il co<strong>lo</strong>re<br />

bianco è quel<strong>lo</strong> che respinge la maggior parte dei raggi luminosi<br />

e che quindi si rende più percepibile, un bel corpo sarà al<strong>lo</strong>ra<br />

tanto più bel<strong>lo</strong> quanto più è bianco» 12 .<br />

Caylus non fu, quindi, l’unico a ritenere che la scultura<br />

non venisse penalizzata dalla mancanza del co<strong>lo</strong>re; Hemsterhuis,<br />

nella sua Lettera sulla scultura del 1769, definiva il co<strong>lo</strong>re una<br />

«qualità accessoria» 13 dei corpi. Ana<strong>lo</strong>ga la posizione di <strong>Di</strong>derot,<br />

peraltro un appassionato del co<strong>lo</strong>re 14 :<br />

Frans Hemsterhuis, in ŒuvresPhi<strong>lo</strong>sophiques<br />

deFrançoisHemsterhuis, Leuwarde 1846-1850,<br />

vol. III, 1850, in www.books.google.it,<br />

2010-04-16.<br />

10 CAYLUS, Réflexions..., pp. 174-175.<br />

11 Ricordo che Leonardo da Vinci, tra i più accaniti sostenitori del partito della pittura, pur di esaltare il co<strong>lo</strong>re e sminuire<br />

così la scultura, che ne era priva, aveva annoverato tra le arti luministiche le ceramiche invetriate dei Della Robbia.<br />

Cfr. LEONARDO DA VINCI, Il paragone delle arti, a cura di C. Scarpati, Vita e Pensiero, Milano 1993.<br />

12 J.J. WINCKELMANN, Storia dell’arte nell’antichità, (1764), Mondadori, Milano 1993, p. 117. Ancora prima di Winckelmann,<br />

Richardson aveva rimarcato la piacevolezza del co<strong>lo</strong>re bianco a proposito del Laocoonte: «Il est [...] fait d’un très-beau Marbre<br />

blanc, de sorte qu’il fait plaisir à voir». J. RICHARDSON, Description de <strong>Di</strong>vers fameux Tableaux, desseins, Statues, Bustes, Bas-reliefs et c. qui<br />

se trouvent en Italie, in ID., Traité de la Peinture et de la Sculpture par Mrs. Jonathan Richardson Père et Fils, Amsterdam 1728, tomo III, p. 509.<br />

Per l’opera di Richardson cfr. ID., An Essay on the Theory of Painting, London 1715; ID., An Essay on the Whole Art of Criticism as it Relates<br />

to Painting and an Argument in Behalf of the Science of the Connoisseur, London 1719; ID., An Account of Some of the Statues, Bas-reliefs, Drawnings and<br />

Pictures in Italy, London 1722. Cfr. C. GIBSON WOOD, Jonathan Richardson: art theorist of the English Enlightenment, London 2000;<br />

R. CINÀ, Presentazione, in J. Richardson, <strong>Di</strong>scorso sulla Scienza di un Conoscitore, traduzione e commento critico di R. Cinà, Università<br />

degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong>, <strong>Palermo</strong> 2003, pp. 5-35; EAD., Presentazione, in J. Richardson, Saggio sull’Arte della Critica in materia di Pittura,<br />

traduzione e commento critico a cura di R. Cinà, Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong>, <strong>Palermo</strong> 2004, pp. 7-44.<br />

13 F. HEMSTERHUIS, Lettera sulla scultura, a cura di E. Matassi, postfazione di M. Cometa, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1994, p. 30.<br />

14 D. DIDEROT, Saggi sulla pittura, (1765), ed. cons. a cura di M. Modica, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1991, p. 59: «È il disegno ciò<br />

che dà forma ai corpi; è il co<strong>lo</strong>re ciò che gli dà la vita – il soffio divino che li anima».<br />

33


34<br />

Roberta Cinà<br />

Il me semble [...] qu’il est plus difficile de bien juger de la sculpture que de la peinture<br />

[...]. Il n’y a presque qu’un homme de l’art qui puisse discerner, en sculpture, une très-belle chose<br />

d’une chose commune [...]. Une grande figure, seule et toute blanche; cela est si simple. Il y a là<br />

si peu de ces données qui pourraient faciliter la comparaison de l’ouvrage de l’art avec celui de<br />

la nature. La peinture me rappelle, par cent côtés, ce que je vois, ce que j’ai vu. Il n’en est pas ainsi<br />

de la sculpture. J’oserai acheter un tableau sur mon goût, sur mon jugement. S’il s’agit d’une<br />

statue, je prendrai l’avis de l’artiste 15 .<br />

Si riapriva, in qualche modo, il dibattito che nel Cinquecento aveva coinvolto artisti e letterati<br />

a proposito del paragone tra scultura e pittura. Le parole di <strong>Di</strong>derot ma anche le Réflexions di<br />

Caylus, la Lettera di Hemsterhuis non furono infatti un caso isolato; dopo essere stata così<br />

scarsamente trattata nel Seicento, la scultura venne decisamente rivalutata e fu argomento di<br />

numerose opere nel corso del XVIII seco<strong>lo</strong> ed oltre, seguendo <strong>lo</strong> svolgersi dei gusti e delle<br />

diverse correnti culturali 16 , fino ad essere pienamente equiparata alla pittura in dignità e<br />

autonomia di espressione.<br />

Lo si nota nel discorso preliminare di D’Alembert all’Encyc<strong>lo</strong>pédie: «Al sommo delle arti di<br />

imitazione vanno col<strong>lo</strong>cate la pittura e la scultura, ove l’imitazione è più aderente agli oggetti che<br />

rappresenta e parla più direttamente ai sensi» 17 . Sia Batteux che Lessing, implicitamente,<br />

dichiararono equivalenti le due arti: l’uno nell’accomunarle, tra «le belle arti per eccellenza»,<br />

a musica, poesia e danza 18 ; l’altro precisando: «con il termine pittura intendo le arti figurative in<br />

generale» 19 , e di fatto trattando, al fine di risolvere il tema dell’ut pictura poesis, di un gruppo<br />

scultoreo. Va d’altra parte ricordato che al Laocoonte aveva fatto riferimento già Bel<strong>lo</strong>ri per fare<br />

asserire ad Annibale Carracci: «Li poeti dipingono con le parole, li pittori parlano con l’opere» 20 ,<br />

esempio che Richardson avrebbe ripreso per dimostrare la maggiore efficacia rappresentativa<br />

delle arti figurative 21 rispetto a quelle “della parola”.<br />

15 ID., Sa<strong>lo</strong>n de 1765…, p. 418.<br />

16 <strong>Di</strong>venendo anche oggetto specifico di testi sul restauro o sulle tecniche artistiche, cfr. ad esempio Istruzione elementare<br />

per gli studiosi della scultura di Francesco Carradori, (1802), edizione critica a cura di G. C. Sciolla, Canova, Treviso 1979.<br />

17 D. DIDEROT, J. D’ALEMBERT, La fi<strong>lo</strong>sofia dell’Encyc<strong>lo</strong>pédie, a cura di P. Casini, Laterza, Bari 1966, p. 74. L’imitazione della<br />

natura operata dall’architettura risultava meno evidente, la poesia si rivolgeva più all’immaginazione che ai sensi, la musica ad<br />

un numero minore di immagini. La classificazione delle arti, dunque, avveniva secondo il grado di imitazione della natura e,<br />

soprattutto, secondo le modalità di fruizione, risultavando così privilegiate le forme artistiche di cui si poteva godere attraverso<br />

i sensi.<br />

18 Identificando nell’imitazione della natura il principio unificatore per le arti. C. BATTEUX, Le Belle Arti ricondotte ad unico<br />

principio, (1746), ed. cons. a cura di E. Migliorini, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1990, p. 36.<br />

19 Tentando di evidenziare linguaggi specifici e differenziati per ogni forma artistica. G.E. LESSING, Laocoonte, (1766),<br />

ed. cons. a cura di M. Cometa, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1990, p. 25. Cfr. inoltre S. SETTIS, Laocoonte. Fama e stile, Donzelli, Roma 2006.<br />

20 G.P. BELLORI, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, Roma 1672, p. 31.<br />

21 J. RICHARDSON, <strong>Di</strong>scorso sulla Scienza…, pp. 46 e segg.


Il rapporto con l’Antico.<br />

Come è noto, nella letteratura<br />

artistica del Settecento uno dei temi<br />

maggiormente presenti fu appunto<br />

quel<strong>lo</strong> del Laocoonte, le cui celeberrime<br />

definizioni winckelmanniane di «nobile<br />

semplicità» e «quieta grandiosità»<br />

avrebbero costituito una sorta di manifesto<br />

del Neoclassicismo. Il fervore antiquario,<br />

come sopra ricordato, fu uno<br />

degli elementi che contribuirono alla<br />

rivalutazione della scultura; del resto<br />

erano statue la maggior parte dei reperti<br />

dissotterrati e commercializzati, fenomeno<br />

questo che condusse tra l’altro<br />

a una strepitosa proliferazione di falsi,<br />

come ben descritto da Hogarth, che attribuì<br />

tale interesse, ta<strong>lo</strong>ra cieco, alla<br />

mancata comprensione dei motivi dell’eccellenza<br />

dei Greci, da lui individuata<br />

nell’uso sapiente della linea serpentinata:<br />

La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Laocoonte, Roma, Musei Vaticani, in http://josamotril.wordpress.com/<br />

2009/06/01/el-laocoonte/, 2010-04-20.<br />

…questa causa d’eleganza 22 non essendo stata dopo sufficientemente intesa, non è<br />

maraviglia che tali effetti dovessero comparir misteriosi, e che avessero tirato gli uomini in una<br />

specie di religiosa stima, ed anche fanatismo per l’opere degli antichi. Né son mancate persone<br />

artificiose che han fatto buon profitto di quelli, i quali un’illuminata ammirazione ha<br />

trasportati all’entusiasmo. Anzi ve ne sono cred’io alcuni che tutt’ora tirano innanzi un<br />

vantaggioso commercio di quelli originali, che sono stati tanto sfigurati e mutilati dal tempo, che<br />

sarebbe impossibile, senza un paio d’occhiali doppj da’ conoscitori di vedere se siano stati buoni,<br />

o cattivi: essi ancor trafficano con delle copie artifiziate in maniera da imitar l’antico che son<br />

capacissimi di far passare per originali. E chi ardisse di scoprire tali imposture, si troverebbe<br />

immediatamente tacciato, e fatto passare come uno di basse idee, ignorante del vero sublime,<br />

presuntuoso, invidioso 23 .<br />

22 Cioè la «perfetta cognizione che gli antichi dovevano avere dell’uso della precisa linea serpeggiante». W. HOGARTH,<br />

L’analisi della bellezza, (1753), a cura di C. M. Laudando, presentazione di L. <strong>Di</strong> Michele, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1999. Si veda anche<br />

l’edizione a cura di M.N. Varga, SE, Milano 1997. Cfr. inoltre F. MENNA, L’analisi della Bellezza di William Hogarth, in “Storia dell’arte”,<br />

5, 1970, pp. 66 e segg.<br />

23 Ibid.<br />

35


36<br />

Roberta Cinà<br />

Uno degli elementi che, oltre a favorire «il nuovo risorgimento delle arti», condussero al<br />

rinnovato entusiasmo per le antichità, sarebbe stato individuato da Cicognara nella scoperta di<br />

Ercolano, la quale<br />

portò un entusiasmo di felici innovazioni e curiosità, una brama d’imitazioni, uno<br />

studiare di moltissimi dotti, un proteggere e un animare di chiarissimi mecenati, che veramente<br />

parve svegliare il buon gusto sopito dell’arte a nuova esistenza. Erano in Roma, in Firenze, in<br />

Venezia, e in molti altri luoghi antichità preziosissime, ma non producevano più sensazione<br />

negli artisti, e solleticavano appena l’ambizione dei possessori, che già incominciava anche a<br />

languire. Le produzioni della nuova dissotterrata città misero una convulsione generale, e<br />

richiamarono a sentire il pregio delle altre opere di merito superiore che giacevan sepolte ne’<br />

musei, e delle quali tenevasi poco conto 24 .<br />

L’entusiastico interesse per le antichità comportò, in virtù del razionale metodo illuministico,<br />

la pubblicazione di numerose opere di documentazione sulle scoperte nuove nonché sui reperti<br />

antichi già noti che, poco considerati fino a quel momento, vennero improvvisamente rivalutati.<br />

Videro la luce anche altre opere, altrettanto numerose, costituite da raccolte di incisioni raffiguranti<br />

antichità di vario genere, non soltanto greche e romane, ma anche etrusche, egiziane e così via 25 .<br />

In realtà, non sempre era <strong>lo</strong> stile classico dei resti archeo<strong>lo</strong>gici ad affascinare il pubblico – tanto<br />

più che, spesso, le incisioni in questione riproducevano i pezzi in maniera assolutamente non<br />

fedele 26 – ma la <strong>lo</strong>ro stessa antichità, che rimandava ad una sorta di età dell’oro 27 . Le incisioni di<br />

pezzi antichi, pur non essendo scientificamente affidabili, svolsero comunque un ruo<strong>lo</strong><br />

importantissimo: «Sia che servissero ad illustrare volumi, sia che venissero vendute a parte,<br />

contribuirono grandemente alla celebrità di un ridotto numero di statue, ed a fissare una scala<br />

di va<strong>lo</strong>ri artistici» 28 , in base ai quali le sculture dell’antichità sarebbero state considerate modelli<br />

esteticamente indiscutibili, superiori a quelle prodotte in epoche più recenti e dunque, nell’ambito<br />

24 L. CICOGNARA, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al seco<strong>lo</strong> di Canova, (1813-1818), ed. cons. Giacchetti, Prato<br />

1824, vol. VII, p. 30. Si veda anche ID., Storia della scultura dal suo Risorgimento in Italia fino al seco<strong>lo</strong> di Canova per servire di continuazione<br />

alle opere di Winckelmann e di D’Agincourt del Conte Leopoldo Cicognara, [Prato, 1823-1824], ed. a cura di F. Leone, B. Steindl, G. Venturi,<br />

Istituto di Ricerca per gli <strong>Studi</strong> su Canova e il Neoclassicismo, Bassano del Grappa 2007.<br />

25 Si possono ricordare, a questo proposito, l’Antiquité expliquée et representée en figure (1719) di Bernard de Montfaucon<br />

e Recueil d’antiquiteés égypitiens, étrusques, romaines et gau<strong>lo</strong>ises (1752-1767) di Caylus, opere di rapidissima diffusione e di vasto successo.<br />

26 Proprio riguardo il Recueil del Caylus, Praz nota come determinati pezzi venissero stravolti nei disegni delle raccolte,<br />

spesso, peraltro, eseguiti a memoria. Cfr. M. PRAZ, Le antichità di Ercolano, in ID., Gusto neoclassico, Rizzoli, Milano 1990, p.76.<br />

27 <strong>Di</strong> cui, naturalmente, si sarebbe riconosciuta la definitiva scomparsa e l’impossibilità di un ritorno. Cfr. R. ASSUNTO,<br />

Antichità come futuro…. L’arte classica, per Winckelmann, rappresentò un ideale perduto, come si nota da alcuni suoi passi:<br />

«In questa storia dell’arte io sono già andato oltre i suoi limiti, e seb<strong>bene</strong> nell’osservare la sua decadenza abbia provato un<br />

sentimento simile a quel<strong>lo</strong> di chi, scrivendo la storia della sua patria è costretto a parlare anche della sua distruzione a cui egli<br />

stesso ha assistito, non ho potuto fare a meno di seguire la sorte delle opere d’arte sin quando mi è stato possibile. Come la donna<br />

amata che dalla riva del mare segue con gli occhi colmi di pianto l’amato che si al<strong>lo</strong>ntana, senza speranza di riveder<strong>lo</strong>, e crede di<br />

scorgere la sua immagine ancora sulla vela <strong>lo</strong>ntana, anche a me, come alla donna amata, resta so<strong>lo</strong> l’ombra dell’oggetto dei miei<br />

desideri; ma tanto più forte è la nostalgia che essa risveglia dell’oggetto perduto, per cui io osservo le copie degli originali con<br />

maggiore attenzione di quanto farei se fossi in pieno possesso di quelli». J.J. WINCKELMANN, Storia dell’arte nell’antichità, (1764),<br />

ed. cons. Mondadori, Milano 1993, p. 303.<br />

28 P. SÉNÉCHAL, Originale e copia. Lo studio comparato delle statue antiche nel pensiero degli antiquari fino al 1770, in<br />

Memoria dell’antico nell’arte italiana, vol. III, Dalla tradizione all’archeo<strong>lo</strong>gia, a cura di S. Settis, Einaudi, Torino 1986, pp. 151-180.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

della nascita delle prime grandi raccolte moderne, particolarmente ambite 29 .<br />

Notevole anche la valenza espositiva delle sculture, come emerge dalle parole dell’abate<br />

Barthélemy scritte al conte de Caylus, nel 1756:<br />

La prima volta che mi sono recato al Museo Capitolino ho avvertito un brivido<br />

elettrico. Non so come descrivervi l’impressione che ha fatto su di me tanta ricchezza raccolta<br />

insieme. Questa non è più una semplice collezione: è la dimora degli dèi di Roma antica; la<br />

scuola dei fi<strong>lo</strong>sofi; un senato composto dai re d’Oriente. Che cosa posso dirvi? Tutta una<br />

popolazione di statue abita il Campidoglio; è il libro mastro degli antiquari 30 .<br />

Erano stati naturalmente rinvenuti, pur se in quantità minore, anche dipinti antichi 31 ; essi<br />

però non incontrarono particolare favore da parte del pubblico 32 . Lo dimostra, tra l’altro, il fatto<br />

che alcuni autori del Settecento, pur scrivendo testi sulla pittura, a proposito del va<strong>lo</strong>re esemplare<br />

attribuito alle opere dell’antichità si riferirono comunque alle statue e non ai dipinti; è il caso di<br />

Mengs 33 , che citò soltanto opere pittoriche moderne; è, ancora, il caso di <strong>Di</strong>derot, la cui<br />

Nozze Aldobrandini, Roma, Musei Vaticani, in http://up<strong>lo</strong>ad.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/Aldobrandini_wedding.JPG,<br />

2010-04-08. Scrivono Haskell e Penny: «Fino ad al<strong>lo</strong>ra erano note pochissime pitture antiche (in quanto distinte<br />

dalla decorazione dipinta delle pareti), con la ragguardevole eccezione delle «Nozze Aldobrandini», scoperte nel 1606.<br />

Il dipinto aveva suscitato grande curiosità, ma l’ammirazione non era stata universale [...] e in realtà le pitture di<br />

Ercolano delusero numerosi conoscitori e provocarono da parte di altri [Mengs, Winckelmann, Richardson] elaborate<br />

difese. La scultura [...] venne ammirata in misura di gran lunga più fervida e più ampia».<br />

29 F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia del bel<strong>lo</strong>..., p. 59.<br />

30 In F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura classica 1500-1900, Einaudi, Torino 1984,<br />

p. 82. Cfr. inoltre Roma triumphans? L’attualità dell’antico nella Francia del Settecento, atti del convegno internazionale di studi (Roma<br />

9-11 marzo 2006), a cura di L. Norci Cagiano, “Quaderni di cultura francese”, 41, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007.<br />

31 Sui ritrovamenti di pitture e sculture antiche, <strong>Di</strong>derot notava: «...les Anciens nous ont laissé quelques belles statues,<br />

et [...] leurs tableaux ne nous sont connus que par les descriptions et le téimognage des litterateurs». D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765,<br />

in Oeuvres..., vol. X, p. 418. Alla migliore conoscenza delle sculture antiche rispetto alle pitture, <strong>Di</strong>derot attribuiva il fatto che gli<br />

scultori suoi contemporanei si attenessero all’antico più dei pittori. Cfr. inoltre C. GRELL, C. MICHEL, Erudits, hommes de lettres et artistes<br />

en France au XVIII e siècle face au découvertes d’Herculanum, in Ercolano 1738-1988: 250 anni di ricerca archeo<strong>lo</strong>gica, atti del convegno<br />

internazionale (Ravel<strong>lo</strong>-Ercolano-Napoli-Pompei, 30 ottobre-5 novembre 1988), a cura di L. Franchi Dell’Orto, L’Erma di<br />

Bretschneider, Roma 1993, pp. 133-144.<br />

32 Cfr. F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia..., p. 96.<br />

33 A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura, (1762), ed. cons. a cura di M. Cometa, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1996, p. 65.<br />

Cfr. R. CIOFFI MARTINELLI, La ragione dell’arte….<br />

37


38<br />

Roberta Cinà<br />

predilezione per la pittura è rilevabile da diverse<br />

opere, come i Saggi sulla pittura 34 , in cui tuttavia<br />

l’autore allude alle statue antiche, quali l’Antinoo<br />

e la Venere de’ Medici 35 . Sempre l’Antinoo<br />

mostrava, per Hogarth, «la somma bellezza della<br />

proporzione» 36 .<br />

Winckelmann, autore del manifesto del<br />

Neoclassicismo 37 , pur apprezzando entusiasticamente<br />

tutte le arti figurative della Grecia classica 38<br />

ebbe comunque una netta predilezione per la<br />

scultura. Esaltandone la componente tridimensionale,<br />

che la rendeva più immediatamente adatta alla<br />

fictio – tema che sarebbe stato presente anche<br />

in Luigi Lanzi –, contro la maggiore astrazione<br />

richiesta dal disegno, nelle prime pagine<br />

della sua Storia dell’arte dell’antichità notava:<br />

«L’arte cominciò con le forme più elementari<br />

e probabilmente con una specie di scultura:<br />

giacché anche un bambino è capace di conferire<br />

una certa forma ad una massa morbida, ma<br />

non è in grado di disegnare su una superficie;<br />

Antinoo, Roma, Musei Vaticani, foto Brogi, 1870 ca., in http://<br />

commons.wikimedia.org/wiki/File:Brogi,_Giacomo_%281822-<br />

1 8 8 1 % 2 9 _ - _ n . _ 4 0 6 8 _ - _ R o m a _ - _ V a t i c a n o _ -<br />

_Antinoo,_statua_in_marmo.jpg<br />

per la prima cosa, infatti, è sufficiente la semplice idea di un oggetto, mentre per disegnare è<br />

necessaria la conoscenza di molte altre cose» 39 . Ponendo la scultura in un ruo<strong>lo</strong> preminente<br />

rispetto alla pittura, Winckelmann ne riprendeva l’idea della maggiore antichità, argomento già<br />

addotto dai suoi sostenitori nell’ambito del Paragone cinquecentesco 40 e che sarebbe stato<br />

34 D. DIDEROT, Saggi sulla pittura, (1765), ed. cons. a cura di M. Modica, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1991.<br />

35 Cfr. Ibid., p. 54.<br />

36 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 85.<br />

37 J.J. WINCKELMANN, Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, (Dresda 1755), ed. cons. a cura di<br />

M. Cometa, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1992. Cfr. inoltre J.J. WINCKELMANN, Ville e Palazzi di Roma, 1756, a cura di J. Raspi Serra,<br />

“Quaderni di Eutopia”, 2, Edizioni Quasar, 2000; J. RASPI SERRA, Il primo incontro di Winckelmann con le collezioni romane. Ville e Palazzi<br />

di Roma, 1756, ivi, 6.1, 2002; ivi, 6.2, 2002; ivi, 6.3, 2004; ivi, 6.4, 2005.<br />

38 Winckelmann si interessò anche all’architettura; come nota Beschi «a seguito della sua visita pestana, nel 1758,<br />

elaborerà quelle Osservazioni sull’Architettura degli Antichi (1762) che sono la prima analisi, libera da schemi vitruviani, dell’architettura<br />

greca, vista come model<strong>lo</strong> assoluto di bellezza». L. BESCHI, La scoperta dell’arte greca, in Memoria dell’antico..., pp. 295-372: p. 351.<br />

39 J.J. WINCKELMANN, Storia dell’arte nell’antichità, (1764), Trento 1993, p. 23. Che la scultura, in quanto tridimensionale, fosse<br />

più adatta ad un’esatta imitazione della natura era stata opinione, nell’ambito del Paragone cinquecentesco, anche di Battista<br />

Tasso che proprio per questo motivo, tralasciando gli argomenti canonici a sostegno dell’una o dell’altra arte, asseriva che<br />

la scultura era più nobile rispetto alla pittura, in P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I. Sulle capacità imitative della scultura<br />

nel pensiero di Lanzi cfr. G.C. SCIOLLA, Lanzi: la scultura, <strong>lo</strong> stile e le «scuole» degli antichi, in L. LANZI, Notizie preliminari circa la scoltura<br />

degli antichi, e i varii suoi stili (1789), ed. a cura di G.C. Sciolla, T. Marghetich, Franco Angeli, Milano 1988.<br />

40 Cfr. S. LA BARBERA, Il Paragone delle Arti..., p. 115. Winckelmann proponeva il concetto in diversi passi dell’opera,<br />

cfr. J.J. WINCKELMANN, Storia dell’Arte..., p. 111: «La scultura e la pittura giunsero presso i Greci a una certa perfezione ancor<br />

prima dell’architettura. Questa infatti ha in sé più dell’ideale che non quelle, giacché non ha potuto essere la copia di qualcosa<br />

che esiste nella realtà ed è stata fondata, per necessità, su regole e leggi generali dei rapporti. Le prime due arti, essendo nate da<br />

una semplice imitazione, trovarono determinate nell’uomo tutte le regole necessarie, mentre l’architettura dovette scoprire<br />

le sue attraverso molte soluzioni e lasciare che il successo ottenuto le fissasse. La scultura, però, ha preceduto la pittura e come<br />

una sorella più matura ha guidato l’altra, che era più giovane».


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

a lungo presente, come prova il <strong>Di</strong>scours sur la Sculpture di D’Argenville 41 . Ana<strong>lo</strong>ghi concetti<br />

esponeva Hemsterhuis nella sua Lettera sulla scultura, opera che riproponeva la stessa concezione<br />

winckelmanniana di storia dell’arte:<br />

Mi pare che la nascita della scultura sia anteriore<br />

a quella della pittura, perché mi sembra più naturale<br />

che quando si è voluto imitare 42 si sia voluto imitare<br />

piuttosto in b<strong>lo</strong>cco, per così dire, che imitare un<br />

oggetto a tutto tondo su una superficie piana; cosa<br />

che richiede una capacità di astrazione ben più<br />

considerevole di quanto non si creda di primo acchito.<br />

D’altra parte è certo che l’idea astratta di contorno è<br />

stata assolutamente necessaria per far nascere il<br />

disegno e la pittura. Per acquisirla occorre una certa<br />

perfezione, un certo grado di esercizio dell’organo<br />

della vista. Ora, pare che il tatto sia stato perfezionato<br />

prima, e di conseguenza ci si è dovuti servire molto<br />

prima, per le imitazioni, delle idee che ci provengono<br />

dal tatto che di quelle che ci provengono dalla vista 43 .<br />

D. D’Argenville, Vies des fameux Sculpteurs depuis la<br />

Renaissance des Arts, Paris 1787, in http://books.google.it/books?id=Mdo5AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=inauthor:argenville&lr=&as_drrb_is=q&as_minm_is=0&as_miny_is=&as<br />

_maxm_is=0&as_maxy_is=&as_brr=3&cd=29#v=onepage&q&f=fals<br />

e, 2010-04-20.<br />

Winckelmann aveva attribuito la maggiore antichità della scultura anche al suo impiego per<br />

fini religiosi 44 e, dopo di lui, Cicognara avrebbe sottolineato il rapporto tra arte e<br />

culto nell’antichità, ritenendo che le arti, in quanto celebrative, fossero state incoraggiate dalla<br />

religione e dalla politica 45 . Questo motivo non fu l’unico che egli riprese dall’autore tedesco;<br />

anche se diverse volte, infatti, ne evidenziò alcuni errori soprattutto nell’individuazione delle<br />

epoche 46 , gli riconobbe comunque ampiamente il ruo<strong>lo</strong> fondamentale e pionieristico dell’esposizione<br />

crono<strong>lo</strong>gica della storia dell’arte e se ne dichiarò continuatore 47 .<br />

41 D. D’ARGENVILLE, <strong>Di</strong>scours sur la Sculpture, in ID., Vies des fameux Sculpteurs, depuis la Renaissance des Arts, avec la description de leurs<br />

ouvrages, Tomo II, Paris 1787, pp. I-XXXVI. Cfr. G.C. SCIOLLA, La scienza del conoscitore. Dezaillier d’Argenville e il disegno, in Memor fui dierum<br />

antiquorum. <strong>Studi</strong> in memoria di Luigi De Biasio, a cura di P.C. <strong>Io</strong>ly Zorattini e A.M. Caproni, Campanotto, Udine 1995, pp. 439-446.<br />

42 L’imitazione della natura, occorre ricordar<strong>lo</strong>, era ritenuta <strong>lo</strong> scopo principale dell’arte. La natura da imitare, però,<br />

come ricordava il Cicognara, era la natura bella, «nelle sue varietà felici». Cfr. L. CICOGNARA, Del bel<strong>lo</strong>. Ragionamenti di Leopoldo<br />

Cicognara, Molini e Landi, Firenze 1808, p. 8.<br />

43 F. HEMSTERHUIS, Lettera..., pag. 38.<br />

44 J. J. WINCKELMANN, Storia dell’arte..., p. 112: «la ragione del più tardo sviluppo della pittura è da individuarsi in<br />

parte nell’arte stessa, in parte nell’uso e nell’applicazione che ne furono fatte; la scultura, infatti, estendendo il culto degli dèi, si<br />

è a sua volta sviluppata grazie ad esso. La pittura, invece, non godette di un simile vantaggio [...] Le opere dei pittori non<br />

sembrano [...] essere state, presso i Greci, oggetto di una sacra, fiduciosa venerazione e adorazione». Inoltre, poiché la scultura<br />

nell’antica Grecia era ritenuta più sacra della pittura, «era utilizzata nelle cerimonie religiose e particolarmente premiata […],<br />

raggiunse più rapidamente la propria perfezione». Pur se mezzo seco<strong>lo</strong> più tardi, Cicognara - dichiarando, però, l’impossibilità<br />

di risalire alle origini della scultura - avrebbe scritto: «Alcun tra i segni che furono adoperati per affidare la conservazione<br />

e trasmettere alla posterità le cose memorabili furono le pietre nude di scultura, ma erette in nobili circostanze». L. CICOGNARA,<br />

Storia della scultura..., vol. I, p. 101.<br />

45 Cfr. Ibid., p. 145. Talmente stretto era secondo Cicognara il rapporto tra arte e culto, che la diminuzione del fervore religioso<br />

avrebbe ritardato, nella prima metà del Settecento, la rinascita delle arti.<br />

46 Cfr. Ibid., vol. III, p. 82. A questo proposito, anzi, Cicognara si rallegrò che Heyne avesse dimostrato gli errori commessi<br />

da Winckelmann nelle crono<strong>lo</strong>gie a causa dell’eccessiva fiducia in Plinio. Cfr. M. CRISTOFANI, Winckelmann, Heyne, Lanzi e l’arte<br />

etrusca, in “Prospettiva”, 4, gennaio 1976, pp. 16-21; S. FERRARI, Christian G. Heyne e la ricezione di Winckelmann nell’Italia del secondo Settecento,<br />

in “Neoclassico”, 19, 2001, pp. 75-101.<br />

47 Cfr. ibid., p. 21. D’altra parte, la lezione winckelmanniana avrebbe influito in maniera determinante sul pensiero<br />

estetico di Cicognara, soprattutto riguardo l’idea della superiorità dell’arte sulla natura. Cfr. F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia del bel<strong>lo</strong>..., p. 31.<br />

39


40<br />

Roberta Cinà<br />

La figura di Winckelmann, si sa, aveva<br />

del resto rivestito un’importanza fondamentale<br />

per la cultura della seconda metà del Settecento,<br />

largamente influenzata dalla celeberrima frase:<br />

«L’unica via per noi per divenire grandi, anzi, se<br />

possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi» 48 ,<br />

secondo la cui interpretazione gli artisti<br />

moderni avrebbero potuto trovare la vera<br />

bellezza nell’antichità; o meglio, studiando<br />

l’antico, sarebbero poi stati capaci di trovare il<br />

bel<strong>lo</strong> nella natura perché avrebbero saputo cosa<br />

cercarvi 49 .<br />

L’idea dell’eccellenza degli antichi fu anche<br />

di Mengs, la cui influenza – peraltro reciproca –<br />

su Winckelmann 50 è ben nota: nei suoi Pensieri<br />

sulla pittura del 1762, pur trattando, appunto, di<br />

precetti pittorici, menzionò spesso statue<br />

antiche come buoni modelli da seguire,<br />

indicando, tra le opere eccellenti, il Laocoonte e il<br />

Torso del Belvedere 51 .<br />

Caylus ribadì il concetto dell’esemplarità<br />

Torso del Belvedere, Roma, Musei Vaticani, in http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Torso_Belvedere_01.jpg,<br />

2010-04-20.<br />

degli antichi; nel sostenere che l’imitazione delle carni era l’oggetto della pittura e della scultura,<br />

indicava gli antichi Greci come esempi cui rifarsi per una resa ottimale:<br />

48 J.J. WINCKELMANN, Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, (1755), ed. cons. a cura di M. Cometa,<br />

Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1992, p. 32. Le note ragioni di tale perfezione, non verificatesi altrove, ne aveva a suo parere reso eccellente<br />

la costituzione fisica ed aveva educato l’occhio dei <strong>lo</strong>ro artisti alla bellezza. Argomenti simili aveva esposto Montesquieu nell’Esprit<br />

des <strong>lo</strong>is (1748), asserendo, tra le altre cose, l’importanza primaria del clima nella formazione di un popo<strong>lo</strong>. Anche Dandré-Bardon<br />

nel suo Essai sur la sculpture indicò tali motivi come cause dell’eccellenza dei Greci e come lui Mengs ed Hemsterhuis. Tale motivo<br />

fu ripreso da Cicognara e trasposto alla situazione in Italia: grazie al clima, egli riteneva gli italiani predisposti meglio di altri alla<br />

«greca eccellenza». Cfr. L. CICOGNARA, Prefazione della Storia della scultura... , p. 12.<br />

49 Lo studio delle statue antiche, ad esempio, secondo Hogarth avrebbe migliorato <strong>lo</strong> stile di Raffael<strong>lo</strong>: «Raffael<strong>lo</strong> da una<br />

maniera secca e chionza in un tratto cambiò il suo gusto [...] alla vista [...] dell’antiche statue». W. HOGARTH, L’analisi della bellezza...,<br />

p. 13. Anche secondo Mengs Raffael<strong>lo</strong> avrebbe migliorato il suo stile grazie al<strong>lo</strong> studio dell’antico: «Quando poi vide le opere degli<br />

antichi abbandonò affatto la scuola de’ suoi maestri, e si servì delle regole del bassorilievo per disporre i panneggiamenti<br />

naturali; e così acquistò il miglior gusto nelle pieghe». Cfr. A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 60.<br />

50 Va ricordata l’entusiastica opinione di Winckelmann a proposito del Parnaso, l’affresco che Mengs realizzò a<br />

Villa Albani e sulla quale Winckelmann sentenziò: «Un’opera più bella nell’era moderna in pittura non è ancora apparsa».<br />

Cfr. M. COMETA in A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 7. Nota Honour a proposito del Parnaso: «È facile capire perché colpisse<br />

co<strong>lo</strong>ro che ammiravano i marmi greco-romani esposti sotto di esso [...] il quadro non cerca che di ricreare un sogno di perfezione<br />

classica attraverso una sintesi di scultura antica e dipinti di Raffael<strong>lo</strong>». H. HONOUR, Neoclassicismo..., p. 19.<br />

51 Cfr. A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 65.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Le Sculpteur doit en chercher les exemples dans les plus beaux Ouvrages des Grecs, ils<br />

ont seuls donné le modèle des profondes connoissances et de l’exécution sublime du ciseau:<br />

ils mettoient toute leur confiance dans la justesse et dans la beauté de leur travail, et ne cherchoient<br />

point à surprendre l’admiration par un contraste dans les<br />

positions 52 ; la recherche de leur Art consistoit à le cacher<br />

profondèment. Il seroit à desirer que les Auteurs anciens<br />

eussent fait quelque mention de leur manière d’etudier, il<br />

est constant qu’elle doit avoir été différente de la<br />

nôtre, car les modernes, ceux mêmes qui ont le plus<br />

copié, et qui ont été le plus pénétrés d’admiration pour<br />

les Sculpteurs Grecs, n’ont jamais saisi ni leur style, ni<br />

leur faire. Nous voyons seulement par les récits de Pline,<br />

que <strong>lo</strong>in de négliger la théorie, ils réfléchissoient<br />

beaucoup sur leur Art. Le grand nombre d’artistes dont<br />

il parle comme ayant écrit profondément sur cette matière,<br />

ne permet pas de leur refuser ces connoissances 53 .<br />

In questi passi Caylus non mancava di evidenziare<br />

l’importanza della teoria e della riflessione nelle arti, motivo che<br />

aveva sviluppato in apertura delle Réflexions sur la sculpture 54 .<br />

Gli stessi temi erano presenti nelle Réflexions sur la<br />

Sculpture 55 diEtienneMauriceFalconet,unodeitestifondamentali<br />

per l’estetica della scultura nel Settecento – e che, pur con le<br />

dovute mediazioni, avrebbe influenzato la formazione di<br />

Canova 56 – in cui l’autore tentava di elevare la propria arte al<br />

rango della riflessione critica 57 e sosteneva la necessità<br />

del<strong>lo</strong> studio, sicuramente praticato dagli artisti della Grecia<br />

classica 58 . Egli indicava le opere dell’antichità come guida<br />

più sicura anche per la rappresentazione del nudo, che,<br />

E.M. Falconet, Réflexions sur la Sculpture, in<br />

Œuvres d’Étienne Falconet Statuaire..., Lausanne 1781,<br />

t. I, in http://books.google.it/books?id=jAUFAA-<br />

AAYAAJ&pg=PA14&dq=inauthor:falconet&lr=<br />

&as_drrb_is=q&as_minm_is=0&as_miny_is=&as_<br />

maxm_is=0&as_maxy_is=&as_brr=0&cd=4#v=on<br />

epage&q&f=false, 2010-04-20.<br />

52 Non manca una nota polemica nei confronti delle pose barocche.<br />

53<br />

CAYLUS, Réfléxions..., pp. 185, 186.<br />

54 Al paragrafo 175 delle Réflexions Caylus scriveva che la routine delle scuole abituava gli artisti alla pigrizia e soprattutto<br />

a disprezzare la teoria. Ciò, naturalmente, era ritenuto assolutamente fuorviante: «la plus légére Réflexions fait sentir que la<br />

théorie d’un Art sert toujours à la perfection de sa pratique, et les Artistes eux-mêmes prouvent tous les jours que ces parties sont<br />

inseparables: en effet ceux dont les talens sont supérieurs, ne jouiroient pas de la prééminence qu’on leur accorde, sans l’union<br />

des parties essentielles de la théorie, à la beauté du ciseau, à la perfection du trait, et à la grandeur des idées». CAYLUS, Réflexions..., p. 176.<br />

55 Poi confluite nella voce Sculpture dell’Encyc<strong>lo</strong>pédie di <strong>Di</strong>derot e D’Alembert (redatta però da Louis de Jaucourt).<br />

Cfr. M. COMETA, Postfazione, in F. HEMSTERHUIS, Lettera sulla scultura….<br />

56 Cfr. G. PAVANELLO, «Antonio Canovae Veneto...», in Antonio Canova, cata<strong>lo</strong>go della mostra (Venezia-Possagno 22 marzo-<br />

30 settembre 1992), Marsilio Editori, Venezia 1992, pp. 45-50.<br />

57 Cfr. G. MARAGLIANO, Presentazione, in J.G. HERDER, Plastica, (1778), ed. cons. a cura di G. Maragliano, Aesthetica,<br />

<strong>Palermo</strong> 1994, pp. 7-35.<br />

58 E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture (1761), ed. cons. in ID., Oeuvres complètes, Genève 1970, vol. III, p. 4: «Tout ce qui<br />

est pour le sculpteur un objet d’imitation, doit lui être un sujet continuel d’étude. Cette étude [...] produira des chef d’œuvres<br />

semblables à ces monuments précieux qui ont triomphé de la barbarie des siecles. Ainsi, les sculpteurs qui ne s’en tiendront pas<br />

à un tribut de <strong>lo</strong>uanges, d’ailleurs si légitimement dû à ces ouvrages sublimes, mais qui les étudieront profondément,<br />

qui les prendront pour regle de leurs productions, acquerront cette supériorité que nous admirons dans les statues grecques».<br />

41


42<br />

Roberta Cinà<br />

ana<strong>lo</strong>gamente a Caylus, riteneva il principale oggetto del<strong>lo</strong> studio del<strong>lo</strong> scultore:<br />

Le nud est le principal objet de l’étude du sculpteur. Les fondements de cette étude sont la connoissance<br />

des os, de l’anatomie extérieure, et l’imitation assidue de toutes les parties et de tous les mouvements du<br />

corps humain. L’école de Paris et celle de Rome exigent cet exercice, et facilitent aux éleves cette connoissance<br />

nécessaire. Mais comme le naturel peut avoir ses défauts; que le jeune èleve, à force de les voire et de les<br />

copier, doit naturellement les transmettre dans ses ouvrages, il lui faut un guide sûr pour lui faire<br />

connoître les justes proportions et les belles formes. Les statues grecques sont le guide le plus sûr, elles<br />

sont et seront toujours la regle de la précision de la grace et de la noblesse, comme étant la plus parfaite<br />

représentation du corps humain 59 .<br />

Falconet, quindi, riteneva l’imitazione della natura non<br />

fosse sufficiente, da sola, a guidare l’artista alla ricerca delle<br />

‘giuste proporzioni’ e delle ‘belle forme’ e che l’arte, quella<br />

dell’antichità in particolare, potesse fornire al<strong>lo</strong> scultore i canoni<br />

da seguire, purchè egli scegliesse con discernimento<br />

le opere da studiare 60 . Un’ammirazione indiscriminata<br />

per qualunque produzione dell’antichità, infatti, sarebbe<br />

stata rischiosa per l’artista, che avrebbe potuto fare propri<br />

anche i difetti di opere non meritevoli di essere imitate 61 ;<br />

Falconet elencava dunque le statue che, a suo parere,<br />

costituivano esempi sicuri: «le Gladiateur, l’Apol<strong>lo</strong>n, le Laocoon,<br />

l’Hercule Farnese, le Torse, l’Antinoüs, le grouppe de Castor et Pollux,<br />

l’Hermaphrodite, la Vénus de Médicis». Compariva, però, un<br />

elemento nuovo: accanto a questi topoi nel Neoclassicismo,<br />

egli citava alcuni autori moderni che a suo avviso avevano<br />

realizzato sculture altrettanto apprezzabili, tra cui Michelange<strong>lo</strong><br />

e Puget 62 . In ogni caso, Falconet sintetizzava le sue teorie nel<br />

connubio antico-natura: «c’est l’imitation des objets naturels,<br />

soumis aux principes des anciens, qui constitue les vraies<br />

beautés de la sculpture» 63 .<br />

Ercole Farnese, in Real Museo Borbonico,<br />

Napoli 1824-1830, vol. III, 1827, in<br />

http://books.google.it/books?id=8wQHAAAAQ<br />

AAJ&pg=PT107&dq=%22ercole+farnese%22&<br />

hl=it&ei=-sXOS __TFZP7_Aa4ns2vBw&sa=X&<br />

oi=book_result&ct=result&resnum=1&ved=0CA<br />

cQ6AEwAA#v=onepage&q=%22ercole%20farnese%22&f=false,<br />

2010-04-21.<br />

59 Ibid., p. 20.<br />

60 Ibid., p. 21: «Si l’on s’en tient à un examen superficiel, ces statues ne paroîtront pas extraordinaires, ni même difficiles<br />

à imiter; mais l’artiste intelligent et attentif découvrira dans quelques unes les plus profondes connoissances du dessein et toute<br />

l’énergie du naturel. Aussi les sculpteurs qui ont le plus étudié et avec choix les figures antiques, ont-ils été les plus distingués.<br />

Je dis avec choix, et je crois cette remarque fondée. Quelque belles que soient les statues antiques, elles sont des productions<br />

humaines, par conséquent susceptibles des foiblesses de l’humanité: il seroit donc dangereux pour l’artiste d’accorder indistinctement<br />

son admiration à tout ce qui s’appelle antiquitè».<br />

61 Ibid.: «Il faut qu’un discernement éclairé, judicieux et sans préjugés, lui fasse connoître les beautés et les défauts des<br />

anciens, et que, les ayant appréciès, il marche sur leurs traces avec d’autant plus de confiance, qu’a<strong>lo</strong>rs elles le conduiront toujours<br />

au grand [...]. Une connoissance médiocre de nos arts suffit pour voir que les artistes grecs avoient aussi leurs instants de<br />

sommeil et de froideur. Le même goût régnoit, mais le savoir n’étoit pas le même chez tous les artistes, l’éleve d’un sculpteur<br />

excellent pouvoit avoir la maniere de son maître sans en avoir la tête».<br />

62 Ibid., pp. 22 e 24.<br />

63 Ibid., p. 24.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Anche secondo Hogarth sarebbe stato possibile eccellere, per gli artisti, con l’imitare «con<br />

grand’esattezza le bellezze della natura, e con ricopiare spesso, e ritenere le forti idee delle<br />

graziose antiche statue» 64 . L’importanza del<strong>lo</strong> studio delle opere dell’antichità, nel Settecento, fu<br />

infatti riconosciuta pressoché universalmente; anche <strong>Di</strong>derot, che pure mostrava di non esserne<br />

abbagliato 65 , sintetizzava: «Celui qui dédaigne l’antique pour la nature, risque de n’être jamais<br />

que petit, faible et mesquin de dessin, de caractère de draperie et d’expression. Celui qui aura<br />

négligé la nature pour l’antique, risquera d’être froid, sans vie, sans aucune de ces vérités cachées et<br />

secrétes, qu’on n’aperçoit que dans la nature même [...]. Il me semble qu’il faudrait étudier l’antique<br />

pour apprendre à voir la nature» 66 . E, altrove: «Qu’apprendre de l’antique? A discerner la belle<br />

nature» 67 . Si tratta di una frase che comunque ben sintetizza anche il pensiero estetico di Winckelmann.<br />

Altro noto punto fondamentale del pensiero dell’archeo<strong>lo</strong>go-fi<strong>lo</strong>sofo era il risalto dato alla «pacata<br />

grandiosità» delle opere greche, che si ritrova anche in <strong>Di</strong>derot, Richardson, Hogarth 68 .<br />

Il nome di Winckelmann, però, è giustamente celebre anche per la Storia dell’arte dell’antichità,<br />

il primo tentativo di descrivere sistematicamente l’arte del passato prendendo come punti di<br />

riferimento gli stili e le opere, senza basarsi sulle vite degli artisti o sugli avvenimenti storici 69 .<br />

Non fu questa una trattazione storicamente e scientificamente esatta, né obiettiva; le preferenze<br />

dell’autore andavano infatti all’arte greca e quindi altre civiltà antiche vennero trascurate, e non<br />

perché mancassero conoscenze archeo<strong>lo</strong>giche in proposito. Decisamente tradizionale, sulla<br />

traccia del<strong>lo</strong> schema delle Vite del Vasari, fu la sua concezione della storia dell’arte di tipo<br />

evoluzionistico, in cui la classicità era stata il momento culminante della perfezione e, dopo di<br />

essa, aveva avuto luogo il decadimento delle arti 70 .<br />

64 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 10. Tra l’altro, anche se ad un altro proposito, Hogarth notò che già Du Fresnoy<br />

aveva citato l’Antinoo come esempio di grazia e buoni contorni. Ibid., p. 11.<br />

65 <strong>Di</strong>derot scrisse: «De soixante-mille statues antiques qui se trouvent à Rome et alentours, un centaine de belles, une<br />

vingtaine d’excuises». D. DIDEROT, Pensées Détachées sur la Peinture, la Sculpture, l’Architecture et la poesie, (1781), in ID., Oeuvres..., vol. XII,<br />

p. 116. Si tratta del<strong>lo</strong> stesso concetto che aveva esposto Hogarth: «s’accorda da’ più esperti nell’arti imitative, che quantunque<br />

vi sieno molti degli avanzi dell’antichità che hanno delle gran perfezioni, tuttavolta moderatamente parlando non ve ne sono più<br />

di venti che possan giustamente chiamarsi capi d’opera». W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 92.<br />

66 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765..., p. 418.<br />

67 ID., Pensées Détachées..., p. 115.<br />

68 J.J. WINCKELMANN, Pensieri sull’imitazione..., p. 43. La quiete pacata di cui parla l’autore si riferisce come è noto<br />

all’espressione di Laocoonte, che mantiene la sua dignità in mezzo ai tormenti. Scriveva, in proposito, <strong>Di</strong>derot: «Ce qui m’affecte,<br />

spécialement dans ce fameux groupe de Laocoon [...] c’est la dignité de l’homme, conservée au milieu de la profonde douleur.<br />

Moins l’homme qui souffre se plaint, plus il me touche». D. DIDEROT, Pensées Détachées..., p. 117. Hogarth definì il Laocoonte il «più<br />

bel gruppo di figure di scultura che fosse mai fatto, dagli antichi o da’ moderni», in W. HOGARTH, L’analisi..., p. 39.<br />

Ancora, a proposito del Laocoonte, va ricordato il parere dei Richardson secondo i quali la pacatezza dell’espressione di<br />

Laocoonte si addiceva maggiormente ad un’opera scultorea di quanto non avrebbe fatto l’ira descritta da Virgilio nel suo poema.<br />

Cfr. J. RICHARDSON, Description des <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 516.<br />

69 Cfr. H. BELTING, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, Einaudi, Torino 1990, p. 85; per la bibliografia relativa<br />

al rapporto Winckelmann-Vasari cfr. inoltre A. PINELLI, La bella Maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Einaudi, Torino 2003;<br />

M. ROSSI, Le fila del tempo. Il sistema storico di Luigi Lanzi, Olschki, Firenze 2006.<br />

70 La sua esposizione del<strong>lo</strong> sviluppo e decadenza dell’arte greca, secondo Belting, «prospetta una teoria del<strong>lo</strong> stile che risulta<br />

in effetti come una notevole rielaborazione di quanto Vasari, sulla scorta anche di fonti antiche, aveva tentato pur in un quadro più<br />

semplice». Belting precisa, naturalmente, di non voler ridurre l’opera di Winckelmann ai precedenti vasariani, ma nota che comunque<br />

«le norme della dottrina estetica di Vasari, anch’esse fondate su base antica, sono onnipresenti» e ritiene che il classicismo di Winckelmann<br />

sia dovuto ad una sorta di «crisi intervenuta nella letteratura storico-artistica postvasariana», per cui l’autore avrebbe provato disagio<br />

nonché disinteresse per trattare l’arte prodotta dal Vasari in poi. Cfr. H. BELTING, La fine della storia dell’arte..., pp. 86-87.<br />

43


44<br />

Roberta Cinà<br />

La concezione vasariana della decadenza dell’arte nel periodo dell’impero romano e della<br />

sua rinascita nel Cinquecento con artisti del calibro di Leonardo, Michelange<strong>lo</strong> e Raffael<strong>lo</strong> fu<br />

esposta fino al XVIII seco<strong>lo</strong> da Richardson:<br />

La pittura e la scultura, e le arti che hanno relazioni col disegno, sono state conosciute<br />

in Persia, in Egitto, molto tempo prima di giungere dai Greci, ma che questi le hanno portate ad<br />

un grado sorprendente di perfezione; che di là si sono espanse in Italia e nelle altre parti del<br />

mondo, attraverso diverse rivoluzioni, fino a che, essendo cadute con l’Impero Romano, sono<br />

andate perdute per diversi secoli; per cui non c’era un uomo sulla Terra che fosse capace di<br />

abbozzare, diversamente di quanto <strong>lo</strong> sarebbe oggi un bambino tra noi, la forma di una casa, di<br />

un albero, di un viso, di un corpo 71 .<br />

Negli scritti dei Richardson, per la prima volta,<br />

è anche presente la consapevolezza del significato delle<br />

sculture antiche che erano andate perdute 72 . Nella<br />

Description des <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux, Desseins, Statues,<br />

Bustes, Bas-reliefs et c. qui se trouvent en Italie infatti si<br />

legge: «Je sais, que l’opinion la plus commune est,<br />

que nous avons les meilleurs Statues des Anciens» 73 .<br />

Il riferimento è ad alcuni passi delle Réflexions critiques<br />

sur la Poësie et sur la Peinture di Du Bos 74 :<br />

...c’est aussi ce qu’un Auteur François de<br />

notre tems, homme très ingenieux, dit en termes<br />

exprès, dans un beau Chapitre, où il fait un détail<br />

de ce qui nous reste de la Peinture Antique: il<br />

dit fort judicieusement, que nous ne pouvons<br />

porter aucun jugement sur ce que les Anciens ont<br />

fait dans cet Art, si nous le comparons avec les<br />

Ouvrages des Modernes: ‘mais, ajoute-t-il, Nous<br />

pouvons bien comparer la Sculpture antique avec la<br />

Nôtre, parce que nous sommes certains d’avoir<br />

encore aujourd’hui les Chefs-d’œuvres de la Sculpture<br />

Grècque, c’est à dire, ce qui s’est fait de plus beau<br />

dans l’Antiquité’; et un peu plus bas; ‘mais ce qu’il<br />

avoit de plus précieux dans la Grèce avoit été aporté<br />

à Rome, et nous sommes certains d’avoir encore<br />

aujourd’hui les plus beaux Ouvrages, qui fussent<br />

dans cette capitale du Monde’ 75 .<br />

J. Richardson, DescriptiondediversfameuxTableaux,Desseins,Statues....,<br />

Amsterdam 1728, in http://books.google.it/books?id=78c-AAAAcAAJ&pg=PA198&dq=inauthor:jonathan+inauthor:richardson&lr=&as_drrb<br />

_is=q&as_minm_is=0&as_miny_is=&as_maxm_is=0&as_maxy_is=&as_brr=3<br />

&cd=5#v=onepage&q&f=false, 2010-04-21.<br />

71 J. RICHARDSON, <strong>Di</strong>scorso sulla Scienza..., p. 71. L’eccellenza che l’arte avrebbe raggiunto in Grecia sarebbe stato uno dei concetti<br />

esposti da Winckelmann nella sua Storia dell’arte nell’antichità ed anche Mengs avrebbe asserito: «I primi che hanno avuto un gusto<br />

grande, sono stati i Greci». A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 41.<br />

72 F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia..., p. 118.<br />

73 J. RICHARDSON, Description des <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 582.<br />

74 In particolare, i Richardson alludono alla sezione XXXVIII del tomo I. Cfr. J.B. DU BOS, Riflessioni critiche sulla poesia e<br />

sulla pittura, a cura di M. Mazzocut-Mis, P. Vincenzi, prefazione di E. Franzini, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2005; Jean-Baptiste Du Bos<br />

e l’estetica del<strong>lo</strong> spettatore, a cura di L. Russo, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2005.<br />

75 J. RICHARDSON, Description des <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 582.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Con una lunga digressione storica, i Richardson motivarono il <strong>lo</strong>ro parere contrario,<br />

asserendo che non era possibile avere la certezza di possedere gli originali delle statue antiche dal<br />

momento che molte di esse erano andate perdute o distrutte a causa di guerre e calamità; dunque,<br />

non era neanche possibile esprimere giudizi sul livel<strong>lo</strong> raggiunto dagli antichi nelle <strong>lo</strong>ro opere,<br />

pittoriche, scultoree o letterarie che fossero. Soprattutto, i Richardson dettero rilievo al fatto che<br />

quasi tutte le opere giunte sino ai <strong>lo</strong>ro tempi non erano altro che antiche copie:<br />

Il est assez vraisemblable, que la plupart des Statues Antiques que nous admirons avec<br />

raison aujourd’hui, ne sont qu’un petit reste de la grande quantité d’excellentes Copies faites par<br />

des Mains habiles, dont les Anciens Ecrivains mêmes font souvent mention, après des Originaux<br />

bien plus excellens: encore celles-ci ne sont elles pas d’après les Ouvrages les plus fameux, que<br />

les Anciens ont le plus vantés et dont il ne nous reste pas la moindre mémoire, si ce n’est dans<br />

leurs Ecrits: aussi n’en avons-nous que très-peu qu’on prétend atribuer aux Maîtres que les<br />

Anciens ont le plus estimés 76 .<br />

La conclusione cui essi giungevano era la stessa che, molto tempo dopo, avrebbe tratto<br />

Winckelmann e cioè la maggiore preziosità delle poche opere rimaste; affermavano infatti: «<strong>lo</strong>in<br />

que ce que je viens de dire sur ce sujet avilisse les morceaux admirables que nous avons le bonheur<br />

de posséder de l’Antiquité, il ne fait au-contraire que nous le rendre plus précieux et plus utiles» 77 .<br />

Come notano Haskell e Penny, tali conclusioni dei Richardson vennero seriamente prese<br />

in considerazione alla fine del Settecento, quando trovarono il sostegno dell’erudizione e i nuovi<br />

criteri per <strong>lo</strong> studio scientifico dell’antichità stabiliti principalmente da Winckelmann 78 . Il quale,<br />

però, avrebbe condannato come fretto<strong>lo</strong>sa ed incompleta l’opera dei Richardson pur riconoscendone<br />

alcuni meriti 79 .<br />

La concezione decisamente parziale che egli ebbe della storia dell’arte, che potrebbe<br />

intendersi come un suo limite, è comunque spiegabile con la fortissima attrazione che le sculture<br />

classiche esercitarono su di lui, ricordando, ancora una volta, che egli faceva nascere la storia<br />

dell’arte dalla scultura. La misura in cui subiva il fascino dei capolavori antichi è ben evidente nella<br />

descrizione di alcune famose statue, la cui lettura richiama peraltro fortemente i canoni estetici<br />

che Hogarth aveva esposto nella sua Analisi della bellezza del 1753. La corrispondenza appare<br />

lampante a proposito della linea serpeggiante, di <strong>lo</strong>mazziana memoria, e delle forme concave,e<br />

di come esse fossero presenti in un corpo bel<strong>lo</strong>.<br />

76 Ibid., p. 592.<br />

77 Ibid., p. 593.<br />

78 F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia…, p. 119.<br />

79 Cfr. ibid., p. 77.<br />

45


46<br />

Roberta Cinà<br />

Hogarth scriveva:<br />

Appena vi è in tutto il corpo un osso dritto. Quasi tutti non solamente si piegano in<br />

varie guise, ma hanno una specie d’avviticchiamento che in alcuni di essi è graziosissimo; e i<br />

muscoli che gli si accostano [...] generalmente han le <strong>lo</strong>ro fibre componenti che corrono nelle<br />

linee serpeggianti, circondando, e conformandosi alla varia forma dell’ossa a cui appartengono<br />

particolarmente nelle membra [...]. <strong>Di</strong> queste belle ondeggianti forme dunque è composto il<br />

corpo umano, e le quali per le varie situazioni l’una coll’altra divengono più intricatamente<br />

piacevoli, e formano un continuo ondeggiamento di forme che s’intrecciano l’una dentro l’altra 80 .<br />

Il ragionamento procedeva immaginando di avvolgere un sottile fi<strong>lo</strong> di ferro intorno ad un arto:<br />

la forma che esso avrebbe assunto sarebbe stata serpentinata. Fili di ferro di questa sorta, in qualunque<br />

numero, sarebbero stati idealmente «intrecciati in qualunque numero di direzioni sopra ogni parte di<br />

una donna ben fatta, uomo, o statua».<br />

E se il Lettore seguiterà nella sua immaginativa i<br />

più eccellenti garbi del<strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong> nelle mani di un maestro,<br />

quando dà gli ultimi tocchi ad una statua; capirà ben tosto<br />

cos’è quel che i buoni giudici aspettano dalle mani di un<br />

tal maestro, che gl’Italiani chiamano, il poco più, e che in<br />

realtà distingue le opere originali de’ maestri a Roma,<br />

anche dalle migliori copie di essi81 .<br />

Che Winckelmann abbia subito l’influenza di questi<br />

principi è evidente da alcuni passi sul bel<strong>lo</strong> nell’arte:<br />

Il bel<strong>lo</strong> è dato dalla varietà nella semplicità [...].<br />

La linea che descrive il bel<strong>lo</strong> è ellittica, e in essa è contenuta<br />

la semplicità assieme ad un continuo mutamento. La linea<br />

ellittica non può essere disegnata col compasso e cambia in<br />

ogni punto la sua direzione [...] gli antichi la conoscevano,<br />

e noi la troviamo nelle <strong>lo</strong>ro opere, dalla figura umana al<br />

vaso. Come non esiste nulla di circolare nell’uomo, così<br />

non si troverà nessun vaso antico che abbia un profi<strong>lo</strong> a<br />

sagoma semicircolare 82 .<br />

80 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., pp. 66 e 67.<br />

81 Ibid., p. 70.<br />

82 J.J. WINCKELMANN, Brevi studi sull’arte antica, (1756-1759), in ID., Il bel<strong>lo</strong>..., p. 59.<br />

W. Hogarth, The Analysis of Beauty, London 1753, in<br />

http://www.tristramshandyweb.it/sezioni/etext/hogarth/analysis_html/img/titlepage.gif,<br />

6-4-<br />

2010.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Hogarth si espresse anche sulla resa più o meno realistica dei dettagli della pelle, e anche<br />

in questo caso le affinità con i successivi scritti di Winckelmann risultano palesi:<br />

E se egli 83 seguita questa ricerca anatomica un poco più oltre, fino a formare una vera<br />

idea dell’elegante uso che si fa della pelle e del grasso sotto di essa, per nascondere all’occhio<br />

tutto quel ch’è duro e dispiacevole, e nel tempo istesso conservarle quel che è necessario nelle<br />

forme delle parti al di sotto per dar grazia e bellezza a tutto il membro, egli si troverà insensibilmente<br />

guidato ne’ principj di quella grazia e bellezza che si trova ne’ ben mossi membri di un bel<strong>lo</strong>, ben<br />

fatto, e sano corpo, o in quelli delle migliori antiche statue […]. Così in tutte le altre parti del<br />

corpo, come queste, dovunque pel necessario moto delle parti per la propria forza ed agilità,<br />

l’innesto de’ muscoli è troppo risentito e subitaneo, le <strong>lo</strong>ro gonfiezze troppo ardite, o i concavi<br />

fra di esse troppo profondi perché i <strong>lo</strong>ro contorni sien belli; la natura più giudiziosamente<br />

ammollisce queste durezze, e riempie questi vani con un proprio supplemento di grasso, e copre<br />

il tutto colla molle, arrendevole, elastica, e in una complession delicata, quasi trasparente pelle,<br />

che conformandosi alla figura esterna di tutte le sue parti al disotto, esprime all’occhio l’idea<br />

de’ suoi spazj colla somma delicatezza di bellezza, o di grazia. La pelle dunque così teneramente<br />

abbracciando, e gentilmente conformandosi alle varie forme di ognuno degli esterni muscoli del<br />

corpo ammollito al disotto dal grasso, dove, altrimenti, l’istesse linee taglienti, e l’istesse rifitte<br />

apparirebbero, che noi veggiamo venire sul viso per la vecchiezza, e pel travaglio sulle membra,<br />

è evidentemente una superficie [...] formata colla massima delicatezza, e perciò il soggetto più<br />

proprio del<strong>lo</strong> studio d’ognuno, che desideri d’imitar l’opere della natura, come dovrebbe fare un<br />

maestro, o per giudicare delle opere altrui, come dovrebbe un buono intendente84 .<br />

Che Winckelmann, riguardo la rappresentazione scultorea dei particolari anatomici 85 , fosse<br />

del medesimo avviso di Hogarth è riscontrabile da alcuni passi in cui descriveva alcune antiche<br />

statue, ad esempio l’Apol<strong>lo</strong> del Belvedere 86 : «là,[…] nulla vi è che sia mortale o schiavo dei<br />

bisogni umani. Non una vena, non un nervo turbano e agitano questo corpo, ma uno spirito<br />

celeste che vi si riversa come un fiume tranquil<strong>lo</strong> quasi ricolma tutta la superficie di questa figura» 87 .<br />

Evidentemente entusiasta della poca evidenza conferita a determinati dettagli naturalistici,<br />

egli scriveva:<br />

83 Hogarth si riferisce al lettore.<br />

84 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 68.<br />

85 L’importanza di una resa naturalistica della pelle era avvertita anche da Richardson, il quale riferiva che proprio tale<br />

dettaglio gli aveva fatto apprezzare la Venere de’ Medici, in cui precedentemente aveva riscontrato dei difetti nelle proporzioni:<br />

«La Tête est un peu trop petite, à proportion du Corps, et sur-tout des hanches et des Cuisses [...]. J’avoue, qu’avant que j’eusse<br />

vu cette Statue, j’en avois conçu une mauvaise opinion, sur les défauts que j’avais remarqués dans celles qu’on a jettées en moule.<br />

Il est vrai, qu’elle en a quelques-uns; mais elle a en même tems les chairs si molles, et si naturelles, qu’on diroit qu’elles doivent<br />

ceder au toucher». J. RICHARDSON, Description de <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 97.<br />

86 L’influenza estetica di Hogarth e della sua «linea della bellezza» è percepibile anche nelle descrizioni del Laocoonte e<br />

del Torso, nella Storia dell’arte dell’antichità.<br />

87 J.J. WINCKELMANN, Storia dell’arte..., p. 279.<br />

47


48<br />

Roberta Cinà<br />

Nella maggior parte delle figure degli artisti<br />

moderni si osservano, in quelle parti del corpo che<br />

sono compresse, piccole pieghe della pelle troppo<br />

marcate, mentre le stesse pieghe nelle parti compresse<br />

delle figure greche nascono da una lieve curva 88 come<br />

un’onda, di modo che esse sembrano formare un<br />

tutto ed insieme una sola nobile pressione. Questi<br />

capolavori ci mostrano una pelle non tesa ma<br />

lievemente distesa sopra una carne sana che la<br />

riempie senza turgidi rigonfiamenti, e in tutti i<br />

piegamenti delle parti carnose ne segue la direzione<br />

unitamente ad esse. La pelle non forma mai, come<br />

nei nostri corpi, delle piccole pieghe isolate distaccate<br />

dalla carne. Al<strong>lo</strong> stesso modo le opere moderne si<br />

distinguono da quelle greche per una quantità di<br />

piccoli incavi, e per fin troppe e troppo sensibili<br />

fossette che, quando si trovano nelle opere degli<br />

antichi, sono lievemente accennate con una saggia<br />

parsimonia, secondo la <strong>lo</strong>ro misura nella più perfetta<br />

e compiuta natura dei Greci, e spesso so<strong>lo</strong> una dotta<br />

sensibilità le nota 89 .<br />

<strong>Di</strong>ametralmente opposta l’opinione di alcuni<br />

importanti testi francesi, in particolare le Réflexions<br />

sur la sculpture di Falconet, che, nel campo della resa<br />

naturalistica delle carni, portava ad esempio Puget,<br />

scultore del Seicento:<br />

Apol<strong>lo</strong> del Belvedere, Roma, Musei Vaticani, in http://<br />

commons.wikimedia.org/wiki/File:Belvedere_Apol<strong>lo</strong>_<br />

Pio-Clementino_Inv1015.jpg, 2010-03-30.<br />

Ils [gli antichi] étoient si peu affectés des étails, que souvent ils négligeoient les plis et<br />

les mouvements de la peau dans les endroits où elle s’étend et se replie se<strong>lo</strong>n le mouvement des<br />

membres. Cette partie de la sculpture a peut-être été portée de nos jours à un plus haut degré<br />

de perfection. Un exemple décidera si cette observation est hasardée: il sera pris dans les<br />

ouvrages de Puget. Dans quelle sculpture grecque trouve-t-on le sentiment des plis de la peau,<br />

de la mollesse des chairs et de la fluidité du sang, aussi superieurement rendu que dans les<br />

productions de ce célebre moderne? Qui est-ce qui ne voit pas circuler le sang dans le veines du<br />

Mi<strong>lo</strong>n de Versailles? [...] Ce seroit donc une sorte d’ingratitude, si, reconnoissant à tant d’autres<br />

titres la sublimité des sculptures grecques, nous refusions nos hommages à un mérite qui se<br />

trouve constamment supérieur dans les ouvrages d’un artiste françois 90 .<br />

88 In passi come questo è ancora più facilmente rilevabile l’influenza hogarthiana.<br />

89 ID., Pensieri sull’imitazione..., p. 37.<br />

90 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 23. Il passo riportato venne attaccato da Mengs a proposito del Mi<strong>lo</strong>ne di Puget. In una<br />

lettera piuttosto polemica, fraintendendo le parole di Falconet, Mengs scrisse: «je pense que vous ne voudriez pas, monsieur,<br />

qu’on prît à la lettre, que vous voyez couler le sang dans les veines d’une statue de marbre de M. Puget». In E.M. FALCONET,<br />

Oeuvres..., vol. III, p. 196. Ancora a proposito del Mi<strong>lo</strong>ne di Puget va citato il parere negativo di Cicognara, il quale riteneva che il<br />

do<strong>lo</strong>re del soggetto fosse eccessivamente manifesto, contrariamente a come avrebbe dovuto e a come era, ad esempio, nel<br />

Laocoonte: model<strong>lo</strong> indiscusso, come si è già ricordato, della misura e della pacatezza con cui dovevano essere espresse anche le<br />

emozioni più forti. Cfr. L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. VI, p. 306.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Sia il Mi<strong>lo</strong>ne che, più in generale, le<br />

opere berniniane 91 sarebbero state oggetto, da<br />

parte della critica francese, di apprezzamenti<br />

anche negli anni successivi, proprio per la<br />

«souplesse», come avrebbe scritto Dezallier<br />

D’Argenville: «Quelle sculpture grecque égale<br />

le Mi<strong>lo</strong>n de Puget par les plis, les mouvemens<br />

de la peau, et la souplesse de la chair? Le sang<br />

paroît couler dans ses veines» 92 .<br />

Dandré-Bardon, che si espresse<br />

anch’egli favorevolmente a proposito del<br />

Mi<strong>lo</strong>ne di Puget 93 e che, come Falconet,<br />

affermò più volte la superiorità dei<br />

moderni in alcune parti della scultura,<br />

proprio relativamente alla resa delle carni<br />

ritenne che gli antichi avessero spesso<br />

trascurato quella naturalistica dei dettagli:<br />

«Les vérités accidentelles de la nature ont<br />

souvent été aussi négligées par les plus<br />

fameux Statuaires de l’Antiquité [...] on [...]<br />

cherche vainement cette sensibilité<br />

physique, cette flexibilité de chairs, ces<br />

gonflemens de muscles, occasionnés par la<br />

pression violente des membres» 94 .<br />

Si tratta di una concezione estetica praticamente opposta rispetto a quella di Winckelmann,<br />

Pierre Puget, Mi<strong>lo</strong>ne di Crotone, Parigi, Louvre, in<br />

http://www.wga.hu/html/p/puget/sculptur/1/09mi<strong>lo</strong>n.html,2010-03-30.<br />

ai cui occhi l’Apol<strong>lo</strong> del Belvedere incarnò l’ideale del bel<strong>lo</strong>: «Il vero sentimento del bel<strong>lo</strong> è simile ad<br />

un gesso fluido versato sopra la testa dell’Apol<strong>lo</strong>, che ne tocca e ne investe tutte le parti» 95 . Nei passi<br />

come quelli che descrivono le statue greche è evidente il suo punto di vista strettamente personale,<br />

soggettivo 96 ; le descrizioni sono pervase da una passione e un entusiasmo decisamente poco razionali,<br />

in virtù dei quali egli interpretava gli ideali classici e ne desiderava la rinascita in tempi moderni.<br />

91 D. D’ARGENVILLE, Vies des fameux Architectes depuis la Renaissance des Arts avec la description de leurs ouvrages, tomo I, Paris 1787,<br />

p. 230: «Personne ne tira parti du marbre comme lui, il savoit lui donner une souplesse surprenante».<br />

92 ID., Vies des fameux Sculpteurs..., p. X. Cfr. F. COUSINIÉ, De la morbidezza du Bernin au «sentiment de la chair» dans la sculpture<br />

française, in Le Bernin et l’Europe. Du Baroque triomphant à l’âge romantique, textes réunis par C. Grell, M. Stani , Presses de l’Université<br />

de Paris-Sorbonne, Paris 2002, pp. 283-302.<br />

93 Come Falconet, Dandré-Bardon apprezzava la resa naturalistica dei particolari: «Puget […] a si moëleusement exprimé<br />

la souplesse des muscles et de la peau». M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture…, p. 26.<br />

94 Ibid., p. 8.<br />

95 J.J. WINCKELMANN, <strong>Di</strong>ssertazione sulla capacità del sentimento del bel<strong>lo</strong>..., in ID., Il bel<strong>lo</strong>..., p. 88.<br />

96 A proposito dei passi di Winckelmann sull’Apol<strong>lo</strong> e, in generale, sulle sculture ellenistiche, Praz osserva che in quest’arte<br />

«Winckelmann trova [...] la conferma della sua fissazione dell’ermafrodito». Cfr. M. PRAZ, Winckelmann, in ID., Gusto neoclassico..., p. 61.<br />

49


50<br />

Roberta Cinà<br />

Se per lui l’antichità da far rivivere<br />

era quella della Grecia classica, per altri<br />

suoi contemporanei non necessariamente 97 .<br />

Piranesi, è ben noto, non fu abbagliato dall’arte<br />

greca in modo esclusivo ma, come già Caylus 98<br />

e Hogarth, seppe valutare con lucidità l’arte<br />

egizia, riconoscendone il giusto va<strong>lo</strong>re delle<br />

forme espressive e giudicando l’architettura<br />

dei Romani superiore a quella dei Greci,<br />

grazie al substrato etrusco 99 .<br />

Che i Romani avessero ereditato le<br />

<strong>lo</strong>ro conoscenze architettoniche dagli Etruschi<br />

anziché dai Greci è una tesi che è stata variamente<br />

discussa 100 e che testimonia del<br />

coesistere di una grande varietà degli stili del<br />

passato, aspetto questo che rese tanto eclettico<br />

il Neoclassicismo 101 . Lo stesso struggimento<br />

che Winckelmann provava al cospetto delle<br />

statue greche, resti di un’epoca più che<br />

tramontata e perciò maggiormente preziosi<br />

nel presente, era vissuto da Piranesi nei confronti<br />

delle rovine architettoniche romane, «testimonianze<br />

ancora vivide, ancora grandiose<br />

della g<strong>lo</strong>ria mundi dell’antica Roma, una<br />

fonte di viva ispirazione anziché di<br />

Francesco Piranesi, Ritratto di Giovan Battista Piranesi, in Le Antichità<br />

Romane opera del cavaliere Giambatista Piranesi architetto veneziano<br />

divisa in quattro tomi, Roma 1784, in http://it.wikisource.<br />

org/wiki/Le_antichit%C3%A0_Romane_%28Piranesi%29/1-0, 2010-04-22.<br />

97 Nell’ambito della polemica tra fi<strong>lo</strong>greci e fi<strong>lo</strong>romani, va ricordata la posizione moderata di Hogarth che, pur<br />

riconoscendo che i Romani non avevano ricercato il principio dell’Ana<strong>lo</strong>gia, tramite la cui padronanza i Greci sarebbero giunti alla<br />

perfezione, asseriva: «nulladimeno [...] si servivano <strong>bene</strong> delle proporzioni, che i Greci avean molto tempo innanzi ridotte a certe<br />

regole fisse secondo la <strong>lo</strong>ro antica Ana<strong>lo</strong>gia; ed i Romani poterono arrivare al felice uso delle proporzioni senza comprendere<br />

l’Ana<strong>lo</strong>gia istessa». W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 16.<br />

98 Piranesi citò infatti alcuni passi di Caylus per suffragare le sue tesi sull’origine etrusca della magnificenza dei<br />

monumenti romani. Cfr. G.B. PIRANESI, Della magnificenza ed architettura de’ Romani, Roma 1761, p. 2. Su queste problematiche cfr.<br />

S.F. MACLAREN, La magnificenza e il suo doppio. Il pensiero estetico di Giovanni Battista Piranesi, Mimesis, Milano 2005, pp. 31 e<br />

segg. Cfr. inoltre O. ROSSI PINELLI, Piranesi, suppl. di “Art e Dossier”, 189, Giunti, Firenze 2003; J. WILTON-ELY, Giovanni Battista<br />

Piranesi, 1720-1778, Electa, Milano 2008.<br />

99 G.B. PIRANESI, Lettera di giustificazione di Giovan Battista Piranesi, Roma 1765, pp. 2, 4: «l’Architettura Greca nulla conferì<br />

al vantaggio sì pubblico, che privato di Roma, cui da gran tempo aveva provveduto l’Etruria; e [...] la Greca era stata preferita a<br />

questa, non per merito, ma per capriccio [...] gli Etruschi pensaron da savj, poco adornando la <strong>lo</strong>ro architettura [...] i Greci [...]<br />

dividendone i membri con gl’intagli, hanno troppo atteso ad una vana leggiadria, e poco della gravità.[...] Vedendo i Romani gli<br />

edifizj rispettabili degli Etrusci, e venendo frequentemente a Roma quei che potevano ammaestrarli in quest’arte, non poterono<br />

fare a meno di dilettarsi di quel che avevano veduto, e di voler in Roma tal sorta di fabbriche, specialmente dopo di essersi<br />

ingranditi, ed avere acquistata maggiore riputazione di quella de’ <strong>lo</strong>ro vicini». Per la bibliografia relativa agli studi di etrusco<strong>lo</strong>gia<br />

cfr. M. ROSSI, Le fila del tempo. Il sistema storico di Luigi Lanzi, Olschki, Firenze 2006.<br />

100 D. IRWIN, Introduzione, in J.J. WINCKELMANN, Il bel<strong>lo</strong>..., p. XXXVII, la definisce un’assurdità archeo<strong>lo</strong>gica.<br />

101 Come sottolinea Irwin, «Poco dopo il 1800 ai motivi greci, romani, etruschi, egizi si aggiunsero quelli indiani e moreschi».<br />

D. IRWIN, Introduzione..., p. XLI.


malinconico rimpianto» 102 .<br />

La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Haskell e Penny notano che «la difesa dei romani da parte di Piranesi non avrebbe mai<br />

potuto farsi se egli si fosse concentrato sulla scultura anziché sull’architettura» 103 . Egli, in effetti,<br />

affrontò l’argomento della scultura romana – la sua trattazione, però, si limitava a considerare<br />

le statue come un elemento accessorio dell’architettura 104 – e anche in questo caso cercò di<br />

dimostrarne l’ascendenza etrusca, citando tra l’altro autori antichi, tra cui Vitruvio:<br />

Vitruvio [...] fa menzione degli ornamenti, che i Toscani solevano porre su i fastigj de’<br />

<strong>lo</strong>ro templi: dice, che anche i Romani appresero da <strong>lo</strong>ro un tal costume [...]. Eccone le parole: ‘[...]<br />

la plastica [...] fu esercitata in Italia, e massimamente in Toscana; e [...] da Tarquinio Prisco fu<br />

chiamato Turiano di Fregella, per dargli a fare l’immagine di Giove da dedicarsi in Campidoglio<br />

[...] questa era di terra cotta [...] sul fastigio di quel tempio v’erano le quadrighe della stessa terra<br />

[...] ciò si faceva perché le immagini degli dei così fatte, erano pregiatissime. Né noi ci arrossiremo,<br />

che si tenessero in pregio figure di tal materia, e che non s’impiegasse né argento, né oro per gli<br />

Dei. Tali simulacri durano in molti luoghi anche a’ dì nostri. Sono poi in Roma, e ne’ paesi<br />

circonvicini, molti frontispizj di templi, i quali sono veramente pregievoli per la maraviglia<br />

dell’intaglio, per l’arte, e molto più per la durata da sì gran tempo, e certamente più innocenti<br />

dell’oro’. Da quel che abbiamo riferito [...] delle statue, o quadrighe, con cui in Roma e in altri<br />

luoghi a lei soggetti si adornavano i fastigj de’ templi all’usanza toscana, come dice Vitruvio; si<br />

rende manifesto, che l’Architettura toscana non era altrimenti disadorna 105 .<br />

102 H. HONOUR, Neoclassicismo..., p. 34. La visione che Piranesi ebbe delle rovine non fu obiettiva; egli alterò persino le<br />

proporzioni delle architetture che raffigurava e ne modificò i punti di vista in chiave funzionale alla sua rappresentazione: «Tanta<br />

era la forza della sua immaginazione che costrinse i contemporanei e i posteri a guardare l’architettura romana coi suoi occhi»<br />

(ibid., p. 35). In una lettera inviata al Ministro Tanucci, è evidente la sua difesa delle rovine romane, messe in ombra da quelle<br />

greche. Il fatto che Roma avesse edificato opere di un certo va<strong>lo</strong>re artistico soltanto dopo aver conquistato la Grecia, aveva<br />

indotto molti studiosi a ritenere «che tutto <strong>lo</strong> studio e l’attenzione da’ monumenti di Roma e dell’Italia debba rivolgersi alle<br />

rovine di Grecia da chi desidera di essere perfetto nell’architettura in genere [...] servendomi perciò d’un numero ben grande di<br />

monumenti che si ritrovano in Roma, per l’Italia ed in Grecia, la maggior parte incogniti o trascurati [...] i Romani saranno<br />

sempre quelli che sono stati, felici conoscitori del buono, ammirabili nel discerner<strong>lo</strong> dal cattivo, e quei che meglio di ogni altra<br />

nazione hanno riuscito nell’architettura; ed avranno tutta la ragione di sperare, che la polvere delle rovine della Grecia, che si è<br />

cercato di spargere sui medesimi Loro monumenti, non sarà altro che polvere che a un tempo s’innalza e riposa». In R. PANE,<br />

Paestum nelle acqueforti di Piranesi, Edizioni di Comunità, Milano 1980, p. 131. Tra le opere che, pur se in rovina, provavano la<br />

magnificenza delle costruzioni romane Piranesi citava il tempio di Giove Capitolino, la c<strong>lo</strong>aca massima, gli acquedotti, il lastricato<br />

delle <strong>lo</strong>ro strade, le mura della città (G.B. Piranesi, Della magnificenza ed architettura..., p. 5-8): «queste cose [...] ci danno a<br />

divedere, che i Romani, senza l’ajuto de’ Greci, ebbero arte bastante per provvedere all’utilità, e al decoro pubblico [...] Che se<br />

qualcuno giudicherà, che le opere fatte dai Romani siano state cose da manuali e da muratori, mi ammetterà più di quel<strong>lo</strong>, che io<br />

non chiedeva; imperciocché in primo luogo sarà costretto a confessare, che quei manuali, e quei muratori furono intendentissimi<br />

d’architettura, avendo fatte tali opere con tanta maestria, come apparisce dalle vestigie, che ci rimangono» (Ibid., pp. 8-10).<br />

103 Cfr. F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia..., p. 125.<br />

104 Tale ottica, tra l’altro, consentiva a Piranesi di scagliarsi anche contro elementi architettonici greci quali le cariatidi,<br />

definite «finzioni che sono affatto aliene dalla verità. In fatti, chi mai potrebbe figurarsi, che donne tali, quali erano le Cariatidi,<br />

fossero capaci di sopportare un peso sì grande, e quel ch’è più, con una faccia così allegra, e con un portamento di vita così svelto,<br />

che di lì se le togliessero, si terrebbero per saltatrici?». G.B. PIRANESI, Della magnificenza ed architettura..., p. 20.<br />

105 Ibid., p. 6.<br />

51


52<br />

Roberta Cinà<br />

La scultura non ebbe quindi, nella trattazione di Piranesi, un ruo<strong>lo</strong> autonomo in quanto<br />

le statue erano considerate elementi decorativi 106 , inoltre egli prese in esame soprattutto il materiale<br />

che le costituiva e non il <strong>lo</strong>ro stile:<br />

Se poi questi ornamenti erano di terra cotta, o di bronzo, non però massiccio; ciò fu<br />

fatto di proposito, per non aggravare il fastigio, su cui si ponevano. Del resto, per quanto la creta<br />

sia vile in se stessa, non comprendo, come poi debbano sprezzarsi, o tenersi in poco conto anche<br />

le opere composte di tal materia, quando siano state fatte secondo le leggi dell’arte. Fu poi la<br />

plastica in uso frequentissimo presso i Toscani, ed i Romani, come si vede anche a’ dì nostri<br />

dalle urne, e dalle tegole, che ne rimangono; fra le quali se spesso si ritrovano de’ lavori un poco<br />

duri, ve se ne vedono anche di quelli, che meritano tutta la stima per la somma <strong>lo</strong>ro bellezza.<br />

Non cercherò qui, se i toscani abbiano inventata la plastica, o se l’abbiano ricevuta da’ paesi stranieri.<br />

<strong>Di</strong>cono alcuni, ch’ella sia stata invenzione de’ Greci. Ma che perciò? Forse non vengono in mente<br />

agli uomini tante cose, gli uni apprese dagli altri? 107 .<br />

Chiaramente, Piranesi non attribuiva particolare imporanza all’eventuale anteriorità della<br />

scultura greca rispetto a quella toscana e romana, in quanto il suo obiettivo era dimostrare<br />

l’indipendenza dei Romani dai Greci nel campo dell’architettura. Egli poneva però l’accento sui<br />

materiali costitutivi delle opere scultoree poiché, essendo le statue ‘greche’ spesso marmoree, egli<br />

aveva così modo di dichiarare che l’eccellenza di un’opera non era determinata dalla materia che<br />

la costituiva. Ancora una volta ricorreva ad una citazione di Caylus, che nell’Avvertimento al<br />

tomo II del Recueil scriveva: «Il lusso delle arti, nemico quasi sempre del gusto, abbaglia gli animi<br />

volgari, ma fa una mediocre impressione ne’ conoscitori [...] che in un’opera non si curano d’altro,<br />

che dell’opera» 108 . Piranesi, che distingueva il lusso dalla magnificenza 109 , sposava pienamente<br />

questa tesi «imperciocché l’arte è pregio dell’ingegno; e la materia della natura» 110 . Tali asserzioni<br />

gli davano modo di non riconoscere alcuna superiorità alle sculture greche:<br />

non si hanno a <strong>lo</strong>dare i Greci, perché avevano presso di <strong>lo</strong>ro il marmo Attico, il Pario, e<br />

d’altra sorte; ma perché seppero impiegar<strong>lo</strong> <strong>bene</strong>: né debbono altresì biasimarsi gl’Italiani, perché<br />

non avendo marmi da esercitarsi nelle arti, si servirono della creta, imperciocché, se con questa<br />

non potessero farsi delle opere bellissime, Plinio, a mio credere, non avrebbe detto, che gli<br />

106 È possibile osservare la stessa visione della scultura, come arte non autonoma rispetto all’architettura, in altri scritti<br />

di autori italiani successivi a Piranesi. Cicognara asseriva: «Si è osservato che gli antichi architetti nella epoca del risorgimento<br />

delle Arti in Italia univano alla facoltà di costruire gli edifizj anche quella di scolpire le figure ed i più ricchi ornamenti, dimodoché<br />

sembra inseparabile il parlare d’una soltanto di queste prerogative senza venire anche all’esame dell’altra». In L. CICOGNARA,<br />

Storia della scultura..., vol. II, p. 5. Selvatico riprese, nel 1847, questi concetti: «<strong>Io</strong> credo che nessuna delle arti primarie pertinenti al<br />

bel<strong>lo</strong> visibile, dovrebbesi dalla architettura separare, giacché è ufficio di queste arti, farsi a così dire la parola indicativa degli<br />

edifizii, affinché sieno più agevolmente intesi dal popo<strong>lo</strong>. La scultura in particolare, al<strong>lo</strong>rché divisa dalla fabbrica, simiglia un linguaggio<br />

morto, un frammento da cui è impossibile indovinare <strong>lo</strong> intero, una forma scompagnata dall’idea, quindi priva di significazione<br />

o di importanza». Selvatico attribuiva addirittura la decadenza della scultura in età barocca al fatto che esse si fosse<br />

estraniata dall’architettura. Cfr. P. SELVATICO, Sulla Architettura e sulla Scultura in Venezia, P. Ripamonti Carcano, Venezia 1847, pp. 1-2.<br />

107 G.B. PIRANESI, Della magnificenza ed architettura..., p. 6.<br />

108 Cfr. Ibid., p. 10.<br />

109 Cfr. S.F. MACLAREN, Lusso, spreco, magnificenza, in “Agalma. Rivista di studi culturali e di estetica”, n.s., 2, gennaio 2002,<br />

pp. 43-62.<br />

110 G.B. PIRANESI, Della magnificenza ed architettura..., p. 10.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

ornamenti de’ templi, i quali anticamente erano ne’ paesi circonvicini alla Città, fossero con<br />

intagli mirabili, essendo stati per la maggior parte di terra cotta, né a’ tempi nostri vedressimo<br />

ne’ Musei delle figurine, e dei bassirilievi di tal genere veramente bellissimi; i quali se sono stati<br />

fatti dagli artefici Romani, non potrà dirsi, che questi fossero ignoranti delle belle arti 111 .<br />

Il fatto che i Romani si fossero serviti della terracotta in mancanza di altri materiali fu<br />

evidenziato da Piranesi come un altro dei <strong>lo</strong>ro meriti: «Questa penuria di marmi [...] fu sopportata<br />

di buona voglia dagl’Italiani, e fu quella che diede fomento all’industria de’ Toscani, ed alla frugalità<br />

de’ Romani» 112 . Era, così, agevole criticare la preziosità eccessiva dei marmi greci, anche col sostegno<br />

dei classici 113 , e disapprovare la diffusione del lusso verificatasi a Roma dopo la sottomissione<br />

della Grecia e il gusto per le opere marmoree ad essa conseguente: «In quanto ai marmi sappiamo,<br />

che se ne invaghirono, e sappiamo altresì, che si accrebbe in <strong>lo</strong>ro la voglia di raccorre le statue<br />

da tutte le bande» 114 .<br />

Elemento ricorrente, in questo periodo di nuovo classicismo, era stata la critica costante<br />

del barocco e del rococò; Bernini in particolare fu additato come caposcuola di un movimento<br />

che portò alla corruzione dell’arte da quasi tutti i teorici neoclassici, che pure ne riconoscevano<br />

l’abilità e l’ingegnosità 115 . In particolare, all’artista veniva contestato di essersi al<strong>lo</strong>ntanato dal<strong>lo</strong><br />

studio delle opere dell’antichità e di aver guardato unicamente la natura, con tutto ciò che poteva<br />

esservi di imperfetto. Tale era stata l’opinione di Mengs, che paragonava l’artista ad un’ape che traeva<br />

il nettare in piccole dosi da tanti fiori diversi per poi produrre il miele 116 . Al<strong>lo</strong> stesso modo<br />

avrebbe pensato Falconet, che indicò l’arte greca come esempio del bel<strong>lo</strong> ideale, ottenuto tramite<br />

la combinazione di diverse parti, ognuna delle quali eccellente 117 ; Winckelmann sottolineò in<br />

termini ancora più incisivi il va<strong>lo</strong>re esemplare delle sculture antiche 118 .<br />

111 Ibid.<br />

112 Ibid.<br />

113 «Catone, parlando al popo<strong>lo</strong>, ebbe ragione di dolersi, che M. Marcel<strong>lo</strong>, avendo preso Siracusa, ne portasse via le<br />

statue Greche: e se ne dolse in tal modo, come se egli vedesse dentro di Roma le insegne de’ nemici: ‘Crediatemi, disse, che<br />

il trasporto fatto delle statue di Siracusa, è una disgrazia per questa Città’. <strong>Di</strong>poi, adirato contra co<strong>lo</strong>ro del popo<strong>lo</strong>, i quali<br />

sembravano essere allettati dalle opere dei greci, così segue a dire: ‘Quindi è avvenuto, che già se ne sentono pur troppi <strong>lo</strong>dare, e<br />

ammirare gli ornamenti di Corinto, e d’Atene, e ridersi degli antefissi di terra cotta de’ Dei de’ Romani’». Ibid.<br />

114 Ibid., p. 12. Maurizio Calvesi ha definto quel<strong>lo</strong> di Piranesi <strong>lo</strong> stile del ricorso storico, in opposizione al «neo-classicismo»<br />

winckelmanniano, «idea composita del bel<strong>lo</strong> ideale» e restaurazione del classico. M. Calvesi, Introduzione, in H. FOCILLON, Piranesi,<br />

a cura di M. Calvesi, A. Monferini, Alfa, Bo<strong>lo</strong>gna 1963, p. XXI.<br />

115 «Uomo di grande ingegno e spirito, che mai però conobbe la grazia, neppure in sogno»: è, questa, una delle tante definizioni<br />

con cui Winckelmann descrisse Bernini, nei suoi Brevi studi sull’arte antica..., p. 72.<br />

116 Cfr. A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 33.<br />

117 Cfr. E.M. FALCONET, Quelques idées sur le beau dans l’art, in ID., Oeuvres..., vol. II, p. 142. Questo concetto di bel<strong>lo</strong> è di chiaro<br />

stampo neoclassico; d’altra parte Falconet conosceva Plinio, del quale tradusse i libri della Naturalis Historia che riguardavano le<br />

arti figurative. Lo scultore, tra l’altro, dichiarò espressamente che si trattava di opinioni generate dalla lettura di Plinio.<br />

118 J.J. WINCKELMANN, Pensieri sull’imitazione..., p. 38: «È noto che il grande Bernini fu di quelli che contestarono sia la<br />

maggiore bellezza della natura dei Greci, sia la bellezza ideale delle <strong>lo</strong>ro figure. Fu anche dell’opinione che la natura sapesse dare<br />

ad ogni sua parte la bellezza che le conviene; l’arte consisterebbe nel saperla trovare. Egli si vantò d’essersi liberato da un<br />

pregiudizio a cui in principio, affascinato dalla grazia della Venere medicea, era stato soggetto, pregiudizio di cui però, dopo<br />

faticoso e replicato studio della natura, aveva potuto scoprire l’inconsistenza. La Venere, dunque, gli insegnò a trovare le bellezze<br />

nella natura, che prima egli credeva di trovare soltanto in lei e che senza di lei nella natura non avrebbe ricercate. Non segue da<br />

ciò che la bellezza delle statue greche può essere scoperta prima che la bellezza della natura, e che pertanto quella commuove<br />

maggiormente e non è dispersa come questa, ma più concentrata? Quindi, a chi vorrà raggiungere la conoscenza del bel<strong>lo</strong> perfetto,<br />

<strong>lo</strong> studio della natura sarà per <strong>lo</strong> meno più lungo e più faticoso che non <strong>lo</strong> sia quel<strong>lo</strong> dell’antico; e il Bernini non avrebbe insegnato<br />

la via più breve ai giovani artisti additando quale bel<strong>lo</strong> supremo il bel<strong>lo</strong> che si trova nella natura».<br />

53


54<br />

Roberta Cinà<br />

Le statue, in particolare, per essere belle<br />

dovevano essere semplici come quelle dell’antica<br />

Grecia, prive di eccessi di qualunque genere.<br />

È interessante la conclusione di un’epistola che<br />

l’abate Barthélemy scrisse nel 1756 da Roma al<br />

Conte di Caylus, in cui questi principi sono<br />

perfettamente sintetizzati:<br />

L’ame d’un ecrivain est comme une statue;<br />

Elle n’est belle que par la simplicité<br />

Les perles, les rubis que l’on lui substitue<br />

Sont un ornement emprunté<br />

Qui demasque la pauvreté<br />

De l’artiste qui s’evertue 119 .<br />

La semplicità, dunque, era segno di abilità<br />

da parte dell’artista, mentre al contrario l’eccesso<br />

di ornamenti e particolari erano da criticare e<br />

certamente non provavano il va<strong>lo</strong>re dell’autore.<br />

Il concetto, naturalmente, fu esposto anche da<br />

Winckelmann: «All’inutile farragine, in uno<br />

scritto, di citazioni prese da libri spesso mai letti,<br />

corrisponde, in un quadro, l’esecuzione di molti piccoli ed insignificanti particolari. Se consideri<br />

questo, non stupirai più delle foglie d’al<strong>lo</strong>ro della Dafne del Bernini» 120 .<br />

Ancora una volta, il più grande rappresentante della scultura italiana del Seicento veniva<br />

citato come esempio negativo ma, a proposito dell’Apol<strong>lo</strong> e Dafne, è interessante citare un passo<br />

di Richardson. L’autore, alquanto più equilibrato, che trattasse di opere antiche o moderne,<br />

giungeva a ritenere la Dafne bella quanto la Venere de’ Medici, cogliendo in modo folgorante il<br />

fascino della patina:<br />

Je ne doute pas, que la couleur de la Vénus dé Médicis n’atire la vue, plus qu’on ne se<br />

l’imagine; et il est sûr, que la Daphné de Bernin, dans la Ville Borghese, fraperoit encore plus<br />

qu’elle ne fait à present, si elle avoit reçu la même couleur, par la suite du tems; car il est certain,<br />

que, par raport au nombre et à la qualité de ses Beautés, elle ne cède en rien à aucune autre<br />

Statue d’Italie, tant Ancienne que moderne 121 .<br />

119 In R. ASSUNTO, Antichità... , p. 21.<br />

120 J.J. WINCKELMANN, Brevi studi..., p. 55.<br />

121 J. RICHARDSON, Description de <strong>Di</strong>vers fameux Tableaux..., p. 224.<br />

Gian Lorenzo Bernini, Apol<strong>lo</strong> e Dafne, Roma, Galleria<br />

Borghese, in http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini_Apol<strong>lo</strong>_Dafne.jpg,<br />

2010-04-22.


122 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 74.<br />

123 E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture..., p. 14.<br />

124 Ibid., pp. 5 e 6.<br />

La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Ancora in ambito inglese va ricordata la posizione,<br />

ugualmente equilibrata, di Hogarth:<br />

...noi abbiamo fino ad ora ricorso principalmente<br />

all’opere degli antichi, non perché i moderni non ne abbiano<br />

prodotte dell’egualmente eccellenti, ma perché quelle de’<br />

primi si conoscon generalmente più; né vorrei che si credesse,<br />

che alcuno di essi fossero ancora arrivati alla somma bellezza<br />

della natura. Chi, se non sia un bacchettone, anche dell’antiche,<br />

dirà di non aver veduto volti, e colli, mani, e braccia nelle<br />

donne viventi, di cui anche la Greca Venere non è che una<br />

cattiva copia? E qual ragione sufficiente può darsi perché non<br />

s’abbia a poter dir l’istesso del resto del corpo? 122 .<br />

A proposito della semplicità nelle forme, altri due<br />

artisti barocchi, Borromini e Meissonnier, furono invece<br />

chiamati in causa da Falconet come «des exemples dangereux,<br />

parce-que le meme esprit qui conduit l’architecte, conduit<br />

aussi le peintre et le sculpteur. L’artiste, dont les moyens sont<br />

simples, est à decouvert; il s’expose à etre jugé d’autant plus<br />

aisément, qu’il n’emp<strong>lo</strong>ie aucun vain prestige pour échapper à l’examen, et souvent masquer<br />

ainsi sa non valeur» 123 Venere de’ Medici, Firenze, Uffizi.<br />

.<br />

Falconet ribadiva questi concetti anche a proposito della scultura:<br />

La sculpture est sourtout ennemie de ces attitudes forcées, que la nature désavoue, et<br />

que quelques artistes ont emp<strong>lo</strong>yées sans nécessité, seulement pour montrer qu’ils savoient se<br />

jouer du dessein. Elle l’est également de ces draperies dont toute la richesse est dans les<br />

ornements superflus d’un bizarre arrangement de plis. Enfin, elle est ennemie des contrastes<br />

trop recherchés dans la composition, ainsi que dans la distribution affectée des ombres et des<br />

lumieres [...]. Plus les efforts que l’on fait pour nous émouvoir sont à découvert, moins nous<br />

sommes émus. D’ou il faut conclure que moins l’artiste emp<strong>lo</strong>ie de moyens à produire un effet,<br />

plus il a de mérite à le produire, et plus le spectateur se livre vo<strong>lo</strong>ntiers à l’impression qu’on a<br />

voulu faire sur lui. C’est par la simplicité de ces moyens que les chef-d’œuvres de la Grece ont<br />

été créés, comme pour servir éternellement de modeles aux artistes 124 .<br />

Tali principi, che così <strong>bene</strong> si adattavano ai canoni dell’arte neoclassica, non corrispondevano<br />

però ai parametri stilistici di Falconet scultore, la cui espressività risentiva ancora di forme<br />

55


56<br />

Roberta Cinà<br />

barocche. Non per nulla infatti Cicognara, esponente di un Neoclassicismo decisamente rigoroso,<br />

fu spesso piuttosto aspro nei confronti dell’artista francese e stigmatizzò la sua ampia produzione<br />

di scritti polemici in termini forse irriverenti: «se gli altri non parlarono molto di lui e delle sue<br />

opere, ne parlò tanto egli stesso con una continuazione di controversie, libelli, lettere, che<br />

attestano l’agitazione non interrotta del suo spirito» 125 .<br />

D’altra parte, Falconet era colpevole di ben altri torti agli occhi Cicognara; si era<br />

pronunciato infatti più volte a favore dei moderni artisti, sminuendo il va<strong>lo</strong>re degli antichi 126 .<br />

Al paragrafo Bas-relief, che faceva parte delle sue Réflexions sur la sculpture, egli aveva infatti<br />

mostrato di preferire i bassorilievi dei suoi contemporanei a quelli classici 127 :<br />

Nous qui vraisemblablement avons porté notre peinture audelà de celle des anciens<br />

pour l’intelligence du clairobscur, de la magie de la couleur, de la grande machine, et des refforts<br />

de la composition, n’oserions-nous prendre le meme effor dans la sculpture? Bernin, le Gros,<br />

Alegarde, Melchior Caffa, Ange<strong>lo</strong>-Rossi, nous ont montré qu’il appartient au génie d’étendre le<br />

cercle trop étroit que les anciens ont tracé dans leurs bas-reliefs. Ces grands artistes modernes<br />

se sont affranchis avec succès d’une autorité qui n’est recevable qu’autant qu’elle est raisonnable.<br />

Je n’introduis donc aucune nouveauté, puisque je m’appuie sur des exemples qui ont un succès<br />

décidé. Après tout, si mon opinion sur le bas-relief étoit une innovation; comme elle tendroit à<br />

une plus juste imitation des objets naturels, son utilité la rendroit nécessaire. Je ne veux laisser<br />

aucune équivoque sur le jugement que je porte des bas-reliefs antiques. J’y trouve, ainsi que dans<br />

les belles statues, la grande maniere dans chaque objet particulier, et la plus noble simplicité<br />

dans la composition. Mais quelque noble que soit cette composition, elle ne tend en aucune<br />

sorte à l’illusion d’un tableau; et le bas-relief y doit toujours prétendre, puisque cette illusion<br />

n’est autre chose que l’imitation des objets naturels 128 .<br />

Le regole di composizione dei bassorilievi, dunque, erano le stesse di quelle dei quadri 129 .<br />

Inoltre, il bassorilievo era ritenuto la parte della scultura che provava le sue ana<strong>lo</strong>gie con la<br />

pittura: «Enfin je le répete, cette partie de la sculpture est la preuve la moins équivoque de<br />

l’ana<strong>lo</strong>gie qui est entre elle et la peinture. Si l’on vou<strong>lo</strong>it rompre ce lien, ce seroit dégrader la<br />

sculpture, et la resteindre uniquement aux statues, tandis que la nature lui offre, comme à la<br />

peinture, des tableaux» 130 .<br />

Cicognara avrebbe trovato incomprensibile la critica mossa agli antichi, superati dai moderni<br />

anche nella pittura, oltre che nel bassorilievo 131 , e la contestò: «L’analisi e i confronti delle opere di<br />

125 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. VI, p. 320.<br />

126 Occorre, comunque, puntualizzare che Cicognara non riteneva che l’antico dovesse essere imitato pedissequamente<br />

anzi voleva sottolineare la sua capacità di scegliere criticamente i propri modelli, «senza idolatrare ogni sasso perché coperto<br />

dalla patina dell’antichità». Ibid., vol. III, p. 293.<br />

127 Cfr. E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture. Bas-relief....<br />

128 Ibid., p. 29.<br />

129 A questo proposito <strong>lo</strong> scultore citava l’«ordre» pubblicato da Anguier (M. Anguier, Conference manuscrite du 9 juillet 1673,<br />

sur l’ordre que le sculpteur doit tenir pour faire les basreliefs se<strong>lo</strong>n les antiques). Anguier fu citato da Dandré-Bardon, che nel Cata<strong>lo</strong>gue des Sculpteurs<br />

ne e<strong>lo</strong>giò alcuni bassorilievi. Cfr. M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 184.<br />

130 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 37.<br />

131 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. III, p. 488: «Intende egli di provare che si possa ottenere buon successo scostandosi<br />

arditamente da ciò che gli antichi hanno fatto, specialmente in basso rilievo, per ottenere un buon effetto pittoresco; ma<br />

per citare gli esempi di questo, che non può dirsi se non libertinaggio dell’arte, i suoi esempi sono Le Gros, Algardi, Bernini [...] i<br />

quali, a dire di quest’impetuoso scrittore, hanno dilatato la periferia troppo angusta che gli antichi avevano tracciata nei <strong>lo</strong>ro<br />

bassi rilievi, ed hanno scosso il giogo di un’autorità che non può rispettarsi se non quando è ragionevole».


questi artisti [tra cui Bernini e Algardi] ci farà<br />

vedere la fallacia di queste dottrine, e a suo luogo<br />

ci farà vedere per quali vie e per quali cause si sia<br />

deviato dai buoni principj, e le arti abbiano<br />

sofferto più da un tale prestigio d’innovazione e<br />

di moda, che da un’irruzione di barbari» 132 .<br />

Non che egli non riconoscesse delle doti a<br />

Falconet; riteneva, però, che avrebbe dovuto<br />

limitarsi a scrivere opere di stampo erudito e, a<br />

questo proposito, ne e<strong>lo</strong>giò la traduzione di<br />

Plinio. Giudicò invece discutibile la produzione<br />

scultorea dell’artista francese - «La bizzarria<br />

soleva accompagnare le sue produzioni, sulle<br />

quali non consultava che se medesimo» 133 - e ne<br />

criticò l’opera forse più famosa, la statua equestre<br />

di Pietro il Grande, ritenendo impossibile<br />

trovarvi bellezza, poiché l’autore aveva<br />

disdegnato l’antico 134 .<br />

Cicognara dep<strong>lo</strong>rò inoltre che egli<br />

avesse sminuito il caval<strong>lo</strong> del Marco Aurelio 135<br />

e le opere di altri artisti dell’antichità 136 .<br />

Tra l’altro, ciò che Falconet biasimava nell’antico<br />

era proprio quel<strong>lo</strong> che, come si è visto, i<br />

La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Étienne Maurice Falconet, Pietro il Grande, San Pietroburgo,<br />

in http://fr.wikipedia.org/wiki/Fichier:PierreLeGrandParFalconet.JPG,<br />

2010-04-22.<br />

grandi teorici del Neoclassicismo maggiormente apprezzavano, cioè l’apparente negligenza<br />

nella resa dei particolari naturalistici. Chiaramente, per quanto possa essere interessante porre<br />

a confronto alcuni brani di Falconet e Cicognara, non è possibile valutare i due autori<br />

secondo uno stesso criterio; tra essi intercorre infatti un divario che non è soltanto crono<strong>lo</strong>gico<br />

ma anche culturale. I <strong>lo</strong>ro scritti, inoltre, nacquero in contesti diversi e soprattutto per diversi fini.<br />

Se le Réflexions di Falconet erano frutto delle considerazioni di un addetto ai lavori che<br />

scriveva criticamente sulla propria arte, la Storia della scultura di Cicognara, alla cui stesura<br />

contribuì con apporti rilevanti Pietro Giordani 137 , univa alle istanze storico-artistiche una<br />

132 Ibid.<br />

133 Ibid., vol. VI, p. 320.<br />

134 Ibid., vol. VI, p. 422. L’opera era già stata criticata dal barone Bilistein (C.L.A. de Bilistein, Position de la statue de Pierre<br />

le Grand, 1761), cui Falconet rispose. Cfr. E.M. FALCONET, Projet d’une staute equestre, in Œuvres d’Étienne Falconet Statuaire,<br />

Société Tipographique, Lausanne 1781, vol. I, pp. 55-64.<br />

135 Cfr. ID., Observations sur la statue de Marc-Aurele, in ID., Oeuvres completes....A proposito del caval<strong>lo</strong> di Marco Aurelio anche<br />

Dandré-Bardon aveva espresso qualche riserva: «montons au Capitole, considérons-y avec Bernin le Cheval de Marc-Aurele! peutêtre<br />

serons-nous tentés de demander à ce Coursier s’il a oublié qu’il étoit en vie». M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 18.<br />

136 Cfr. L. CICOGNARA. Storia della scultura..., vol. VI, p. 322.<br />

137 Sui rapporti tra Cicognara e Giordani e la collaborazione di quest’ultimo alla Storia della scultura, cfr. F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia<br />

del bel<strong>lo</strong>..., cap. IV.<br />

57


58<br />

Roberta Cinà<br />

rivendicazione nazionalistica 138 . La scelta specifica di trattare della scultura era infatti motivata<br />

dal ruo<strong>lo</strong> trainante da essa rivestito nel processo di rinascita delle arti 139 , anche se Cicognara<br />

sottolineò di essere stato spinto da ulteriori considerazioni, innanzitutto giudicando la scultura,<br />

fra le arti, quella che aveva prodotto i monumenti più durevoli «sia delle virtù che delle debolezze<br />

degli uomini» 140 ; in secondo luogo per la migliore riproducibilità, e quindi fruibilità, dei manufatti<br />

scultorei, e infine per «l’italianità» 141 : «io mi propongo di esporre tutto ciò che risguarda il<br />

progresso dell’arte ove ha principalmente sfoggiato, e dove si osserva un corso di vicende non<br />

interrotto, [...] divagando ben poco da quanto si è operato in Italia per non al<strong>lo</strong>ntanarmi<br />

appunto dalla sorgente più pura onde trarre le cognizioni più esatte» 142 . Se la pittura del suo<br />

tempo avrebbe potuto trovare rappresentanti eccellenti anche fuori d’Italia, «la Scultura è<br />

singolarmente nostra. È nostra perché primi e soli la resuscitammo [...] e all’età nostra donarono<br />

i cieli un Canova» 143 , il quale avrebbe fatto rinascere l’arte dopo la corruzione dell’epoca barocca.<br />

Il fi<strong>lo</strong>ellenismo winckelmanniano dell’autore giustifica le critiche implacabili a Bernini e,<br />

come si è già visto, a Falconet, non so<strong>lo</strong> come scultore ma anche in quanto esponente di teorie<br />

estetiche in contrasto con le sue. Cicognara, peraltro, evitò di fare menzione degli eventuali punti<br />

di contatto con il pensiero del<strong>lo</strong> scultore francese, che in realtà non mancavano: basti pensare<br />

alla funzione esemplare che Falconet aveva attribuito agli antichi 144 .<br />

Ancora, il discernimento nella scelta delle opere antiche da imitare era ritenuto<br />

indispensabile da Falconet, ma anche Cicognara teneva ad evidenziare una certa criticità nel<br />

proprio rapporto con l’antico. Un’altra affinità con il pensiero di Falconet è riscontrabile a<br />

proposito del ruo<strong>lo</strong> storico ed educativo attribuito alla scultura, un motivo piuttosto diffuso e<br />

avvertito da diversi intellettuali 145 .<br />

Lo si riscontra, ad esempio, in <strong>Di</strong>derot: «Tout morceau de sculpture ou de peinture doit<br />

être l’expression d’une grande maxime, une leçon pour le spectateur; sans quoi il est muet» 146 .<br />

138 I precedenti testi che trattavano di opere prevalentemente italiane erano a firma di autori stranieri, secondo Giordani<br />

«con molta <strong>lo</strong>de <strong>lo</strong>ro, e non poco di nostra vergogna». In particolare, Winckelmann aveva trattato dell’antichità e D’Agincourt del<br />

medioevo; Giordani asseriva che «rimaneva l’estremo periodo, nel quale sì copiosa e sì bella è la materia; e la materia per la più<br />

parte, e la g<strong>lo</strong>ria in tutto è nostra: perciò degnamente venne in cuore ad un Italiano che non si dovesse abbandonare ad altri».<br />

In F. BOLOGNA, La coscienza storica dell’arte in Italia, Utet, Torino 1982, p. 168.<br />

139 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. I, p. 22: «Da essa...mossero le altre arti cui <strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong> segnò le prime orme che<br />

si erano quasi interamente perdute».<br />

140 Frase peraltro ricalcata esattamente dalle Refléxions di Falconet, cfr. infra.<br />

141 F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia del bel<strong>lo</strong>..., p. 147.<br />

142 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. I, pp. 15-17.<br />

143 Ibid., pp. 6, 7.<br />

144 Falconet, tra l’altro, suggeriva <strong>lo</strong> studio non soltanto delle opere d’arte dell’antichità, ma anche delle produzioni<br />

letterarie: «Non seulement les belles statues de l’antiquité seront notre aliment, mais encore toutes les productions du<br />

génie, quelles qu’elles soient. La lecture d’Homere, ce peintre sublime, élevera l’ame de l’artiste, lui imprimera si fortement<br />

l’image de la grandeur et de la majesté, que la plupart des objets qui l’environnent lui paroîtront considérablement diminués».<br />

E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 4.<br />

145 Pietro Giordani, ad esempio, avrebbe affermato che, nell’antica Grecia, gli uomini saggi mandavano i <strong>lo</strong>ro figli negli<br />

studi di pittori e scultori perché imparassero la virtù tramite la visione di esempi illustri, come i Tirannicidi. Le statue<br />

in particolare sopravvivevano alla rovina delle città ed erano quindi moniti più duraturi. Cfr. P. GIORDANI, Della più degna<br />

e durevole g<strong>lo</strong>ria della pittura e della scultura <strong>Di</strong>scorso all’Accademia di belle Arti in Bo<strong>lo</strong>gna 26 giugno 1806, in Orazioni <strong>Di</strong>scorsi e Scritti di<br />

Critica di Pietro Giordani, P.P., Napoli 1836, pp. 1-31.<br />

146 D. DIDEROT, Pensée Détachées..., p. 83.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

E ancora, a proposito dell’effetto inverso, diseducativo che la rappresentazione di un soggetto<br />

licenzioso avrebbe potuto esercitare: «Un tableau, une statue licencieuse est peut-être plus<br />

dangereuse qu’un mauvais livre; la première de ces imitations est plus voisine de la chose» 147 .<br />

Anche il conte di Caylus esprimeva concetti simili a proposito degli scopi morali delle arti<br />

e, dopo aver diffusamente esposto le ragioni per cui l’arte espleta la sua funzione educativa<br />

attraverso esempi moralmente eccelsi o biasimevoli, spiegò che tali esempi andavano cercati<br />

nell’antichità, che avrebbe conferito <strong>lo</strong>ro un’aura di maggiore autorevolezza 148 .<br />

Falconet, che non mancò di rilevare questi stessi motivi 149 , riprendendo un argomento<br />

già presente nell’ambito del Paragone cinquecentesco 150 , definiva la scultura «après l’histoire, [...]<br />

le dépôt le plus durable des vertus des hommes», frase questa poi riscritta puntualmente da<br />

Cicognara, che non riportò la sua fonte, probabilmente l’Encic<strong>lo</strong>pédie 151 .<br />

È d’altra parte possibile notare, in Falconet, una certa autonomia di giudizio, se non un<br />

dissenso vero e proprio, nei confronti delle opinioni di molti suoi contemporanei e tali divergenze<br />

riguardano la visione dell’antichità. Egli contestò non soltanto i pareri di eruditi suoi coevi ma<br />

anche quelli di personalità di spicco nei secoli precedenti. È il caso dell’entusiasmo di Pietro da<br />

Cortona per il caval<strong>lo</strong> del Marco Aurelio, entusiasmo che, si è già detto, Falconet non condivise:<br />

147 Ibid., p. 86.<br />

148 CAYLUS, Réflexions..., pp. 179 e 180 : «Un [...] objet plus digne de ces essences divines est celui de transmettre à la<br />

postérité les grands exemples de morale et d’héroisme. Les hommes veritablement sages et véritablement héros, n’ont peut-être<br />

pas besoin d’ être encouragés par les récompenses honorables que les Arts distribuent; mais ceux qui leur ont succédé ont été<br />

conduits et échauffés par ce pavement de leurs bonnes actions; ainsi l’on peut dire que les monuments de l’Antiquité ont étè<br />

souvent la fource des plus grandes vertus; car il est constant que les exemples vivans ou trop voisins ne font pas sur les hommes<br />

la même impression que les ouvrages de sculpture anciennement élevés à la vertu et à la g<strong>lo</strong>ire: ceux-ci ne présentent que l’exemple<br />

isolé et dégagé de tous les dèfauts qui pouvoient les obscourcir; les autres, c’est à dire, les modèles vivans ou trop voisins, perdent<br />

leur éclat, et leur valeur est diminuée par l’amour-propre des hommes, qui n’aiment point à être surpassés par leurs contemporains,<br />

et qui reçoivent les impressions personnelles, les idèes nationales, enfin tous les préjugés qui font naître des préventions dont<br />

l’esprit se garantit avec peine. Consequemment à ces idées, les Arts doivent puiser dans l’Antiquité les exemples nécessaires à la<br />

foiblesse humaine».<br />

149 E.M. FALCONET, Refléxions..., pp. 2 e 3 : «La sculpture, après l’histoire, est le dépôt le plus durable des vertus des hommes<br />

et de leurs foibelsses. Si nous avons dans la statue de Vénus l’objet d’un culte imbécille et dissolu, nous avons dans celle de Marc-<br />

Aurele un monument célebre des hommages rendus à un bienfaiteur de l’humanité. Cet art, en nous monstrant les vices déifiés,<br />

rend encore plus frappantes les horreurs que nous transmet l’histoire; tandis que d’un autre côté les traits prècieux qui nous restent<br />

de ces hommes rares, qui auroient dû vivre autant que leurs statues, raniment en nous ce sentiment d’une noble émulation qui<br />

porte l’ame aux vertus qui les ont préservés de l’oubli [...] le but le plus digne de la sculpture, en l’envisageant du côté moral, est<br />

donc de perpétuer la mémoire des hommes illustres, et de donner des modeles de vertus d’autant plus efficaces, que ceux<br />

qui les pratiquoient ne peuvent plus être les objets de l’envie. Nous avons le portrait de Socrate, et nous le vénérons. Qui sait<br />

si nous aurions le courage d’aimer Socrate vivant parmi nous?». A proposito della funzione educativa delle arti, Falconet<br />

proseguiva rimarcando che, anche nei casi in cui le opere di scultura avessero avuto una funzione semplicemente decorativa, con la<br />

<strong>lo</strong>ro bellezza avrebbero potuto condurre l’animo del<strong>lo</strong> spettatore al <strong>bene</strong> e quindi adempiere comunque ad una funzione nobile.<br />

150 Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 477. Secondo Falconet, inoltre, <strong>lo</strong> scultore era obbligato a produrre opere di<br />

qualità proprio a causa della perennità delle sculture, per cui i posteri avrebbero potuto avere di che <strong>lo</strong>dare o biasimare. Inoltre,<br />

dato il lungo tempo necessario per portare a termine l’opera, il risultato finale doveva essere più che valido, tanto più che il<br />

materiale impiegato per le sculture era di gran lunga più pregiato della tela del pittore. Cfr. E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 3.<br />

151 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. I, p. 22. Anche questo era per Cicognara motivo per trattare di scultura: pochi,<br />

infatti, ne avevano scritto e ciò avrebbe potuto comportare il rischio che se ne perdesse la storia. Quanto alla frase sopra<br />

riportata, la cui evidente corrispondenza alle parole di Falconet è troppo aderente per essere casuale, Cicognara non menziona<br />

l’eventuale citazione. Nella prefazione della sua opera, comunque, egli aveva premesso che avrebbe citato pensieri altrui spesso<br />

senza riportarne l’autore.<br />

59


60<br />

Roberta Cinà<br />

Qu’importe le petit mot de Pierre de Cortone, tant<br />

répété et jamais apprecié? Il dit un jour à ce cheval antique:<br />

Avant donc; ne sais-tu pas que tu es vivant? Pierre de<br />

Cortone a-t-il dit ce mot? Et quand il l’eût dit, un instant<br />

d’enthousiasme du plus habile homme que ce soit est-il une<br />

autorité suffisante pour nous fermer les yeux, sur-tout<br />

quand l’ouvrage existe, et qu’il contredit l’é<strong>lo</strong>ge? 152 .<br />

Passi come questo evidenziano, più che contestazione<br />

delle opinioni correnti, vo<strong>lo</strong>ntà di affermare e, quasi,<br />

rivendicare autonomia nei giudizi, perché questi potessero<br />

essere obiettivi e non condizionati dal preconcetto<br />

dell’indiscutibile superiorità degli antichi.<br />

Il dibattito avrebbe trovato in Francia un terreno<br />

particolarmente fertile, essendo ancora attuali, nella prima<br />

metà del Settecento, i temi relativi alla Querelle des Anciens<br />

et des Modernes 153 .<br />

Rivendicazione di autonomia da parte dei moderni.<br />

Marco Aurelio, Roma, Musei Capitolini, foto<br />

di Federico Giammusso in http://feblues.b<strong>lo</strong>gspot.com/2007/05/in-viaggio-per-litalia-romapart-2.html,<br />

2010-04-26.<br />

Una posizione ferma nel riconoscere il va<strong>lo</strong>re dei moderni, ma espressa in termini forse<br />

meno polemici rispetto a quelli di Falconet, sarebbe stata assunta dal pittore e accademico<br />

francese Dandrè-Bardon il quale, peraltro consapevole del fatto che la sua opinione non era<br />

generalmente condivisa 154 , affermava che gli antichi avevano portato la scultura al massimo livel<strong>lo</strong><br />

in alcuni settori, ma che in altri campi i moderni, grazie anche all’acquisizione di nuove cognizioni,<br />

erano stati superiori:<br />

Quand on recherche avec soin les différens progrès de la Sculpture dans les deux<br />

principales Epoques, dont l’une embrasse les Anciens depuis Alexandre le Grand jusqu’au Bas-<br />

Empire, et l’autre les Modernes qui l’ont rétablie vers la fin du XVI e siécle jusqu’à nos jours, on<br />

apperçoit sensiblement, que les premiers ont porté diverses parties de cet Art au plus haut degré<br />

d’excellence, quoiqu’ils en ayent négligé quelques autres, et que les seconds y ont ayouté<br />

plusieurs découvertes qui avoient, pour ainsi dire, été inconnues avant eux 155 .<br />

152 E.M. FALCONET, Observations sur la statue..., p. 54.<br />

153 C. PERRAULT, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde les Arts et les Sciences, Paris 1688-1697.<br />

154 M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 2: «Ces observations peuvent, à quelques égards, être utiles aux<br />

personnes qui n’ont pas assez de lumieres ni d’impartialité pour évaluer les beautés et la négligence qui se trouvent quelquefois<br />

en contraste dans les ouvrages des grands Maîtres».<br />

155 Ibid.


Altre pecche che Dandrè-Bardon riscontrava<br />

nelle opere antiche, oltre la già ricordata negligenza<br />

per i particolari anatomici, era l’uso a suo dire<br />

poco sapiente di luci e ombre nei gruppi scultorei,<br />

come ad esempio il Toro Farnese 156 . Circa la<br />

rappresentazione degli animali, si è già ricordato il<br />

suo scarso entusiasmo per il caval<strong>lo</strong> del Marco Aurelio.<br />

Egli riconosceva agli antichi il merito di essere<br />

stati insuperabili nell’imitazione della natura:<br />

«Osons le dire: ils ont retracé les figures humaines<br />

avec cette noblesse respectable que l’Homme reçut<br />

des mains du Createur» 157 . Riteneva, però, che i<br />

moderni avessero prodotto gruppi scultorei migliori<br />

e trovava qualcosa da eccepire persino sul Laocoonte;<br />

rispolverando l’ormai trito principio del decor, trovava<br />

infatti poco appropriato che un sacerdote fosse ritratto<br />

senza vestiti, ma trovava una spiegazione nella<br />

vo<strong>lo</strong>ntà degli artisti di ritrarre, più che il personaggio,<br />

la sofferenza dell’uomo 158 .<br />

Per Richardson, il fatto che Laocoonte fosse<br />

stato ritratto privo di abiti, pur essendo in certo<br />

qual modo in contraddizione rispetto al ruo<strong>lo</strong> sociale<br />

rivestito dal personaggio, era una licenza funzionale<br />

alla bellezza della statua, che altrimenti non sarebbe<br />

risultata un simile capolavoro:<br />

156 Ibid., p. 10.<br />

157 Ibid., p. 5.<br />

158 Cfr. ibid., p. 7.<br />

159 J. RICHARDSON, Description de <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 517.<br />

La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Toro Farnese, in Rimembranze storiche e artistiche della città di<br />

Napoli pubblicate per cura di Domenico Del Re, Napoli 1846,<br />

in http://books.google.it/books?id=EvwqAAAAYAAJ &pg=PA<br />

67&dq=%22toro+farnese%22&lr=&cd=4#v=onepage&q=%22t<br />

oro%20farnese%22&f=false, 2010-04-28.<br />

Je finirais mes Observations sur le Laocoon, par remarquer la nécessité qu’il y a<br />

quelquefois de hasarder des impropriétes visibles. Si le gens de ce tems-là avoient pensé comme<br />

ceux d’aujourd’hui, les mauvais Critiques n’auroient pas manqué de triomfer de ces Artistes,<br />

sur ce qu’ils ont representé un Prêtre tout nud, justement dans le tems qu’il va sacrifier.<br />

Cependant, il est facile de voir, que si l’on s’étoit arrêté à un inconvénient que l’on n’a pas<br />

manqué de prévoir, au-lieu de la Pièce la plus belle qu’il y ait Monde, en fait de Sculpture, nous<br />

n’en aurions en aucune 159 .<br />

61


62<br />

Roberta Cinà<br />

Lessing, che ana<strong>lo</strong>gamente a <strong>Di</strong>derot, e negli stessi anni 160 , giudicava la rappresentazione<br />

delle carni più bella di quella di qualunque tipo di stoffa, a tal proposito si espresse quasi<br />

polemicamente verso i critici d’arte:<br />

La scultura, essi dicono, non può imitare le stoffe; le grosse pieghe fanno un brutto<br />

effetto; dunque tra due mali si è scelto il minore, e si è preferito peccare contro la verità stessa,<br />

piuttosto che doversi esporre a critiche per le vesti. Se gli antichi artisti avrebbero riso<br />

dell’obiezione, non so neppure cosa avrebbero potuto dire della replica. Non si può avvilire l’arte<br />

più di così. Perché, ammesso che la scultura avesse potuto imitare le diverse stoffe altrettanto<br />

<strong>bene</strong> della pittura, il Laocoonte dovrebbe per questo essere necessariamente vestito? Con<br />

questo vestito non perderemmo nulla? Un drappo, opera di mani schiave, è altrettanto bel<strong>lo</strong> di<br />

un corpo organizzato, opera della Saggezza eterna? 161 .<br />

L’argomento del nudo nelle statue antiche e, più generalmente, in scultura, fu molto<br />

dibattuto e strettamente correlato a quel<strong>lo</strong> dei drappeggi. Si può dire che quel<strong>lo</strong> del panneggio<br />

fu un tema che, ripreso anche questo dal Paragone cinquecentesco, quasi nessun autore omise<br />

di trattare. Si è già detto della disapprovazione di Winckelmann nei confronti di Bernini, cui<br />

anche contestava di abbigliare i soggetti scolpiti con stoffe pesanti, che non lasciavano intravedere<br />

il corpo, e giudicava questa scelta motivata dall’imperizia del<strong>lo</strong> scultore, che non sarebbe stato<br />

capace di raffigurare un bel corpo 162 ; le opere antiche, invece, mostravano vesti che rispondevano<br />

ai canoni della grazia 163 :<br />

La grazia nell’accidentale delle figure antiche, nell’acconciamento cioè e nelle vesti, sta,<br />

come nella figura stessa, in ciò che più s’avvicina alla natura. Nelle opere più antiche l’andamento<br />

delle pieghe al di sotto della cintura è quasi perpendicolare, come esse cadono naturalmente in<br />

un tessuto leggerissimo. Col perfezionarsi dell’arte si cercò una maggiore varietà, ma le vesti<br />

riproducevano sempre tessuti leggeri, e le pieghe non erano accumulate o sparse qua e là, ma<br />

erano riunite in masse chiuse. Erano queste le due principali regole osservate dagli antichi [...]<br />

Le vesti delle Baccanti e di figure danzanti erano più disperse e più svolazzanti, anche quando<br />

si trattava di statue [...] ma il decoro era sempre mantenuto, e le possibilità della materia non<br />

furono mai esagerate 164 .<br />

160 D. DIDEROT, Saggi sulla pittura, (1765), ed. cons. a cura di M. Modica, <strong>Palermo</strong> 1991, p. 93: «Le figure nude non ci disturbano<br />

affatto, anche se appartengono a un seco<strong>lo</strong>, a un popo<strong>lo</strong> o a una scena in cui c’è l’uso di vestirsi. La carne è più bella della stoffa<br />

più bella. Il corpo dell’uomo, le braccia, le spalle, il suo petto sono più belli di tutte le stoffe che possano ricoprirli, così come <strong>lo</strong><br />

sono i piedi, le mani, il seno di una donna, e la <strong>lo</strong>ro esecuzione è cosa ancor più sapiente e difficile [...] ‘Graeca res est nihil velare’:<br />

questa era l’usanza dei greci, nostri maestri in tutte le belle arti».<br />

161 G.E. LESSING, Laocoonte..., p. 46.<br />

162 J.J. WINCKELMANN, Brevi studi sull’arte..., p. 71: «nelle opere d’arte moderne sembra che dopo i tempi di Raffael<strong>lo</strong> e dei<br />

suoi migliori discepoli non si sia pensato che la grazia possa estendersi anche alle vesti, perché invece delle leggere si sono scelte<br />

quelle pesanti che possono considerarsi un drappo che copra l’incapacità di fare il bel<strong>lo</strong>. Perché le pieghe pesanti dispensano l’artista<br />

dall’indicare le forme del corpo sotto le vesti, come cercavano di fare gli antichi, e spesso la figura sembrava fatta soltanto per reggere<br />

il drappo. Il Bernini e Pietro da Cortona sono stati d’esempio ai <strong>lo</strong>ro successori negli abbigliamenti ampi e pesanti.<br />

Noi ci vestiamo di stoffe leggere, ma le figure della nostra arte non godono del<strong>lo</strong> stesso vantaggio».<br />

163 Sulla grazia nell’abbigliamento, Winckelmann scriveva: «La grazia si estende all’abbigliamento, perché fin dall’origine<br />

essa e le sue sorelle erano vestite; e la grazia del vestirsi si forma quasi da sé nella nostra mente, quando c’immaginiamo come<br />

vorremmo che le Grazie andassero vestite. Non desidereremmo vederle in abiti di gala, ma come una donna bella da noi amata,<br />

in veste leggera, poco dopo alzatasi dal letto». Ibid., p. 71.<br />

164 Ibid., p. 70.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Anche Mengs asseriva che gli antichi avevano posto attenzione alla raffigurazione del<br />

corpo 165 e, a proposito della rappresentazione delle vesti, rimarcava come esse fossero volte a non<br />

nascondere il nudo: «gli antichi avevano riguardato i panneggiamenti non come una cosa principale,<br />

ma come accidentale [...] avevano rivestito, ma non nascosto il nudo delle figure» 166 .<br />

Che i panneggi lasciassero intravedere il corpo era, secondo Cicognara, l’obiettivo della<br />

scultura. Egli dedicava all’argomento il quinto capito<strong>lo</strong> del suo primo volume della Storia della scultura,<br />

intitolato «Oggetti rappresentati dal<strong>lo</strong> scultore. Umane forme ignude e forme vestite», e scriveva:<br />

In ogni tempo la scultura si è proposta per model<strong>lo</strong> o la natura nel<strong>lo</strong> stato della sua nuda<br />

semplicità, o la natura ornata da quegli accessorj caratteristici che esprimono le costumanze o<br />

i riti civili o religiosi [...] in una parola la natura vestita. Nel primo caso l’artista dovette<br />

consultare la più difficil parte, sublimare i suoi concetti fra le bellezze della natura sparse sui<br />

molteplici oggetti, e creare un nuovo bel<strong>lo</strong> scevro delle imperfezioni che nascono dalle cause<br />

seconde, detto Bel<strong>lo</strong> Ideale; e nell’altro esser dovette osservator diligente delle costumanze<br />

diverse per confermare l’applicazione di esse all’arte sua 167 .<br />

I Greci, insomma, avevano compreso che il nudo attraeva maggiormente l’occhio e, se non<br />

potevano fare a meno delle vesti, le disponevano in modo da fare intuire le forme del corpo 168 .<br />

Si è già visto che il nudo era ritenuto l’obiettivo principale del<strong>lo</strong> studio di uno scultore;<br />

Himmelmann evidenzia l’importanza centrale 169 che esso rivestì in alcune opere di Winckelmann,<br />

il quale avrebbe esercitato la sua influenza anche su Goethe, che in una lettera del 1787 scrisse:<br />

«Ed ora m’ha afferrato infine l’alfa e l’omega d’ogni cosa a noi conosciuta, la figura umana, ed<br />

io a lei dico: ‘Signore, io non ti lascio a meno che Tu non mi <strong>bene</strong>dica’» 170 . A proposito del nudo<br />

in scultura, Himmelmann riporta anche le significative parole di Canova a Napoleone, che aveva<br />

ritratto nudo: «Il linguaggio del<strong>lo</strong> scultore [...] deve essere il sublime e il nudo, e quella maniera<br />

di panneggiamento conveniente e propria a quest’arte» 171 .<br />

Il nudo, dunque, come linguaggio specifico della scultura; Richardson <strong>lo</strong> aveva asserito, per<br />

inciso, a proposito di un bassorilievo attribuito a Michelange<strong>lo</strong>: «Dans le bas-relief toutes les Figures<br />

sont nues, comme plus convenables à la Sculpture» 172 .<br />

165 A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 41: «Conoscevano essi che le arti sono fatte per gli uomini: che l’uomo niente ama<br />

quanto se stesso; e che perciò anche l’uomo deve essere il più degno oggetto dell’arte; onde impiegavano la più grande diligenza<br />

in questa parte della natura. Essendo l’uomo stesso più degno di quel che <strong>lo</strong> sono i suoi abiti, <strong>lo</strong> dipingevano e formavano per <strong>lo</strong><br />

più nudo, eccettuato soltanto il sesso femminile, non permettendo<strong>lo</strong> la decenza e la verecondia».<br />

166 Ibid., p. 60.<br />

167 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. I, p. 175.<br />

168 Ibid., p. 177.<br />

169 N. HIMMELMANN, Nudità ideale, in Memorie dell’Antico..., vol. II, p. 202. Sul nudo, Himmelmann prosegue citando altri passi<br />

di Goethe, che nella raffigurazione degli uomini nudi vede una purezza che li rende simili agli dei.<br />

170 Ibid., p. 203.<br />

171 Ibid., p. 205.<br />

172 J. RICHARDSON, <strong>Di</strong>scorso sulla Scienza..., p. 57.<br />

63


64<br />

Roberta Cinà<br />

Herder, poi, era convinto che una statua nuda non evocasse pensieri lussuriosi,<br />

contrariamente a quanto poteva accadere nel caso della raffigurazione di un nudo in pittura,<br />

ritenuto più conturbante poiché maggiormente evocativo anche grazie all’ausilio del co<strong>lo</strong>re 173 ;<br />

asseriva inoltre che la scultura avrebbe dovuto astenersi dal rappresentare le vesti, poiché<br />

riproduceva corpi solidi:<br />

Nella scultura i corpi non possono portare vestiti, poiché la veste nasconde, e ciò che<br />

essa copre non è più un corpo umano, ma un b<strong>lo</strong>cco in abito lungo. Una veste non è un solido,<br />

qualcosa di pieno, rotondo, che si può scolpire. L’abito e’ l’involucro del nostro corpo so<strong>lo</strong> per<br />

necessità, è quasi una nuvola che ci avvolge, un’ombra, un ve<strong>lo</strong>. […] Ora, nell’arte un abito di<br />

pietra, metal<strong>lo</strong>, legno è opprimente al massimo grado! Non è più ombra, ve<strong>lo</strong>, abito, è una<br />

roccia piena di rilievi e cavità, un ammasso penzolante. Chiudi gli occhi e tocca, sentirai la<br />

mostruosità […]. I greci […] si liberarono da guaine metalliche e mantelli di pietra, e scolpirono<br />

ciò che poteva esser<strong>lo</strong>, i bei corpi 174 .<br />

Gli antichi greci, continuava Herder, raffiguravano figure vestite soltanto nei casi in cui <strong>lo</strong><br />

imponevano motivi di decoro 175 , ma anche in quel caso trovavano la soluzione volta a soddisfare<br />

la particolare modalità di fruizione dell’opera scultorea ricorrendo all’espediente del panneggio<br />

bagnato:<br />

Possiamo in genere assumere a principio che dove l’artista greco tende alla configurazione<br />

e presentazione di un bel corpo, dove nulla di religioso o di caratteristico <strong>lo</strong> intralcia […],<br />

al<strong>lo</strong>ra egli non usava mai vestiti, ma piuttosto scopriva i corpi quanto poteva, a dispetto della<br />

consuetudine […]. Nulla può trasparire in un solido, nella scultura: essa agisce per la mano e<br />

non per gli occhi. E guarda, l’ingegno greco trovò una soluzione fatta proprio per la mano. Se il<br />

dito che tocca è ingannato, poiché tocca l’abito e il corpo al tempo stesso, il giudice estraneo,<br />

l’occhio, dovrà ubbidire. In breve, gli abiti delle sculture greche sono umidi […]. Vi era un so<strong>lo</strong><br />

modo per ingannare il dito che tocca, e l’occhio che ora tocca come un dito: dando al corpo una<br />

veste che è tale so<strong>lo</strong> per modo di dire, nuvola, ve<strong>lo</strong>, nebbia; ma no, neppure nuvola e nebbia,<br />

poiché qui non vi e’ nulla che l’occhio possa annebbiare, ma un abito umido, attraverso il quale<br />

il dito possa sentire il corpo! 176 .<br />

173 J.G. HERDER, Plastica…, p. 56:« Il nudo nelle due arti non ha nemmeno <strong>lo</strong> stesso potere di allettamento e seduzione. Una<br />

statua e’ tutta qui, sotto il cie<strong>lo</strong> libero, quasi in paradiso; riproduzione di una bella creatura di <strong>Di</strong>o, e attorno ad essa non vi e’ che<br />

innocenza. Winckelmann ha ragione […] le pure e belle forme di quest’arte possono certo suscitare amicizia, amore, linguaggio<br />

corrente, ma so<strong>lo</strong> in una bestia provocano lussuria. Non e’ cosi’ per l’incanto della pittura. Poiché essa non è rappresentazione<br />

corporea, ma so<strong>lo</strong> raffigurazione, fantasia, rappresentazione, essa apre alla fantasia un campo assai vasto, e l’attira nel suo<br />

co<strong>lo</strong>rito e profumato giardino di delizie». <strong>Di</strong>derot, al contrario di Herder, si pronunciò favorevolmente a proposito della<br />

rappresentazione del nudo in pittura: «Del resto, ‘maior e <strong>lo</strong>nginquo reverentia’: rappresentando il nudo, la scena diventa<br />

più remota e richiama alla mente un’età più semplice e innocente, usanze più selvagge, più adatte alle arti d’imitazione. Si è scontenti<br />

del tempo presente, e quel ritorno ai tempi antichi non ci dispiace [...]. In una composizione, le figure seminude sono come<br />

le foreste e le campagne messe intorno alle nostre case». D. DIDEROT, Saggi sulla pittura..., p. 93. Il passo latino citato dall’autore è<br />

di Tacito, Annales, I, 47.<br />

174 J.G. HERDER, Plastica…, pp. 51-52.<br />

175 L’autore cita l’esempio della Niobe, che l’artista ha rappresentato vestita perché voleva rappresentare il do<strong>lo</strong>re di una<br />

madre, non per fare mostra di un bel corpo. Ibid., p. 53. Come si è osservato, un concetto simile aveva esposto Dandré-Bardon a<br />

proposito del Laocoonte.<br />

176 Ibid., pp. 53-54.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Già Caylus, ritenendo appunto attraente il nudo in scultura, aveva scritto in proposito che<br />

gli antichi avevano adottato questo stratagemma per consentire la visione delle forme corporee<br />

anche in figure vestite:<br />

Les Anciens sont nos maîtres encore dans cette partie. Ce n’est point par ignorance, ni<br />

par paresse qu’ils ont fait choix de ce qu’on appelle improprement draperies mouillées, mais les<br />

habillemens qu’ils ont représentés étant composès de gazes, de toiles de coton, ou pour mieux<br />

dire, de mousselines, conservoient le nud, et faisoient sentir tous les mouvemens du corps d’une<br />

façon si agréable que l’œil en étoit toujours satisfait, et que la Nature y gagnoit à de certains<br />

égards du côté da la volupté177 .<br />

Egli era inoltre contrario alla rappresentazione di panneggi eccessivamente voluminosi,<br />

che riteneva un escamotage per gli scultori non sufficientemente abili nel realizzare un bel corpo<br />

nudo 178 ; come lui la pensava <strong>Di</strong>derot 179 .<br />

Circa quaranta anni prima, l’opinione di Richardson era stata che i panneggi ampi e con<br />

grandi e mosse pieghe fossero senz’altro adatti alle pitture, ma che in scultura fosse meglio<br />

attenersi a quel<strong>lo</strong> che avevano fatto gli antichi ; ammetteva però che spesso essi non venivano<br />

giudicati in modo del tutto imparziale 180 e concludeva:<br />

On doit observer cette regle générale, qu’il ne faut pas que le Nud se perde sous la<br />

Draperie, ni qu’il y soit trop marqué; comme cela se voit dans plusieurs Statues et Bas-reliefs Antiques;<br />

à quoi, pour le dire en passant, ces Maîtres étoient obligés, parce qu’une autre manière n’auroit<br />

pas fait un bon éfet sur la pierre. Le nud, dans une Figure vêtue, est comme l’Anatomie, dans une<br />

figure nue; il faut le faire voir, mais sans afectation 181 .<br />

177 CAYLUS, Réflexions..., pp. 188-189.<br />

178 Ibid., pp. 187-188 : «Les deux arts [pittura e scultura] doivent apporter une grande attention à la manière de traiter les<br />

draperies. On pourroit faire une <strong>lo</strong>ngue dissertation sur les abus de ce genre; mais la Sculpture exige à cet égard encore plus de<br />

soins que la Peinture. Le Bernin, dont les talens sont recommandables, leur a donné beaucoup d’ampleur et de mouvement: cette<br />

nouveauté a eu des suites très-dangereuses. Pour éviter les difficultés du nud, on s’est livré en abusant du Bernin, à l’excès des<br />

étoffes; on a oublié qu’elles doivent toujours rappeller l’idée et la forme des principales parties qu’elles recouvrent; on n’à plus pensé<br />

qu’à elles; on les a regardées comme l’objet principal: enfin d’abus en abus, on est parvenu en Italie comme en France à les traiter<br />

avec una multiplicité de gros plis et de mouvemens que la Nature n’à jamais montrés; aussi le plus souvent on les compose<br />

séparément avec curiosité, et souvent contre l’effet naturel du poids et du mouvement de la figure qu’elles habillent, ce qui n’est<br />

point étonnant, puisqu’on le pose sur le mannequin, et qu’on les ajuste à sa vo<strong>lo</strong>nté».<br />

179 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765..., in Id., Oeuvres..., vol. X, p. 421: «La principale difficulté de son imitation [<strong>Di</strong>derot allude alla<br />

scultura] consiste dans le secret d’amollir cette matière dure et froide, d’en faire de la chair douce et molle; d’exprimer<br />

les contours des membres du corps humain; de rendre chaudement et avec vérité ses veines, ses muscles, ses articulations, ses<br />

reliefs, ses méplats, ses inflexions, ses sinuosités, et qu’un bout de draperie lui épargne des mois entiers de travail et d’étude».<br />

180 J. RICHARDSON, Traité de la Peinture..., pp. 157-158: «Il semble, que les anciens Grecs et Romains aient eu en cela le meilleur<br />

goût; du moins sommes-nous si prévenus en faveur de ce qui nous vient de ces grands Hommes, par la haute idée que nous en<br />

avons, que tout nous en paroît accompagné de Noblesse et de Grace. Il faut donc, par raport à cette exellence, réelle ou<br />

imaginaire, que le Peintre choisisse cette façon de vêtir ses Figures, autant que son sujet le peut permettre. On peut enchérir<br />

là-dessus, et on doit même le faire, pourvu qu’on ne perde point de vue ce Goût d’Antique, et qu’on en conserve l’avantage de la<br />

prèvention».<br />

181 Ibid., pp. 157-158.<br />

65


66<br />

Roberta Cinà<br />

Un tentativo di imparzialità di giudizio si ha anche in Dandré-Bardon, il quale sostenne<br />

che, ai drappeggi scolpiti dagli antichi, poteva rimproverarsi soltanto la scarsa varietà 182 ; mostrò<br />

peraltro di apprezzare il panneggio bagnato, appunto perché consentiva di immaginare le forme<br />

del corpo:<br />

Envain seroit-on prévenu contre le goût de<br />

drapper des Anciens: malgré le reproche, [...] que<br />

le linge humide trop uniformément emp<strong>lo</strong>yé par-tout,<br />

pour marquer le nud avec sévérité, jette quelque maigreur<br />

dans cette partie de leur sculpture; on doit sentir combien<br />

leurs principes ètoient grands et bien raisonnés. [...] J’en<br />

appelle au vêtement de la F<strong>lo</strong>re Farnese, une des Statues<br />

que la sculpture ait plus parfaitement drappée et que<br />

l’Antique nous a transmise. [...] L’étoffe mouillée touche<br />

la chair dans les parties faillantes, elle s’en détache<br />

dans les tournans d’une maniere aisèe, pour donner du<br />

moëleux aux plis; on les voit badiner du sens des parties<br />

qu’ils environnent, les suivre, ou s’en écarter et les contraster<br />

à propos. Les masses plattes y sont en opposition avec<br />

celles qui sont riches en travaux; les parties nues avec<br />

celles qui sont habillées, et successivement celles qui sont<br />

drappées jouent avec celles qui ne le sont point. Des plis<br />

tirés du sein des masses indiquent le dénouement des<br />

parties essentielles, et par une élévation sçavamment<br />

affectée désignent les flexions des membres, leurs <strong>lo</strong>ngueurs<br />

et leurs attachemens principaux. Lorsque les<br />

Sculpteurs anciens ont donné du mouvement à une<br />

étoffe voltigeante, ils l’ont asservie à dessiner le nud 183 .<br />

F<strong>lo</strong>ra Farnese, in Real Museo Borbonico, Napoli 1824-<br />

1830, vol. II, 1825, in http://books.google.it/books?id=_fU-<br />

GAAAAQAAJ&pg=PA45&dq=f<strong>lo</strong>ra+ farnese+museo+borbo<br />

nico&cd=1#v=onepage&q&f=false<br />

Va rilevato che, secondo Dandré-Bardon, gli scultori moderni non avrebbero avuto minore<br />

merito, poiché la differente resa dei panneggi avrebbe apportato alla scultura ulteriori varianti;<br />

il fatto che non avessero riprodotto quel<strong>lo</strong> degli antichi sarebbe dipeso dai diversi gusti e non<br />

da imperizia tecnica 184 .<br />

182 M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., pp. 14-15: «Bïen de personnes prétendent que les Anciens n’ont point varié<br />

le caractere des étoffes, qu’ils ont ignoré l’art d’en ménager les oppositions et d’en rendre les divers tissus. Il est vrai que les mœurs<br />

du tems, les principes de l’Ecole semblent n’avoir rien suggeré à cet ègard aux plus habiles Sculpteurs. Mais ne connussions-nous<br />

que le Zenon du Capitole, dont le manteau largement ajustè, moëleux et à grands plis, constate le talent de cet Maîtres à drapper<br />

avec des étoffes de laine aussi-bien qu’avec des linges mouillés, ç’en est assez pour conclure qu’ils n’ont peut-être affectè de ne<br />

point emp<strong>lo</strong>yer le contraste du drap et des étoffes légeres, que parce qu’ils craignoient que l’effet qui en résulteroit, ne partageât<br />

l’admiration, se<strong>lo</strong>n eux uniquement bien accordée à la science du nud».<br />

183 Ibid.<br />

184 Ibid., p. 27 : «L’art des Drapperies n’est pas moins parfait chez eux. Le Moyse de Michel-Ange, l’Alexandre Sauli de<br />

Puget, le S. Dominique de le Gros, la Sainte Bibiane du Bernin, la Sainte Susanne du Flamand [...] dévoilent dans leurs ajustements<br />

cette marche, ce jeu, cet enchaînement de plis; ces contrastes qui paroissent plutôt l’ouvrage du hasard que l’effet d’un arrangement<br />

raisonné; cette tournure qui assortit l’étoffe au mouvement des parties du corps sans qu’elle y soit trop adhérente; cet agencement<br />

réfléchi, cette bisarrerie judicieuse qui détourne adroitement les travaux capables de contredire le nud, d’interrompre les masses<br />

et d’empêcher l’œil de parcourir tranquillement la chaîne des plis. A ces recherches les Sculpteurs des derniers siécles ont joint<br />

celles qui concernent le caractere des étoffes. Ils ont pris soin de rendre sous un ciseau varié la grossiereté ou la finesse du tissu,<br />

le matte, le lisse, ou le satiné qu’elles produisent, et de contraster à propos la laine, le lin, les brocards, le coton; les grands plis du<br />

drap, ses méplats unis et moëleux, avec les plis fins et les reluisantes cassures de la soye».


Più caustico D’Argenville: «Je demande s’il<br />

est naturel qu’un morceau d’étoffe qui doit pendre,<br />

reste collé contre un bras ou une jambe» 185 .<br />

La posizione di Falconet, anche in questo<br />

caso, era stata simile nei contenuti, ma espressa con<br />

toni forse più incisivi. In appendice alle sue Réflexions<br />

sur la sculpture egli scriveva il paragrafo Draperies, «partie<br />

aussi intéressante qu’elle est difficile», e, pur approvando<br />

l’operato degli antichi 186 , riteneva limitante per <strong>lo</strong><br />

scultore attenersi esclusivamente al <strong>lo</strong>ro modo di<br />

rappresentare i panneggi 187 , tenendo anche conto del<br />

fatto che essi avevano riprodotto, anche nelle<br />

pitture 188 , vesti consone alle <strong>lo</strong>ro usanze e al <strong>lo</strong>ro clima.<br />

Les sculpteurs grecs, affectés de la beauté du<br />

nud, drapoient avec des étoffes si fines, qu’elles<br />

paroissent mouillées, et quelquefois collées sur la peau.<br />

Leurs mœurs, leur climat, leur façon de vêtir, les étoffes<br />

dont ils s’habil<strong>lo</strong>ient, accoutumoient leurs yeux à ces<br />

objets, et formoient leur goût. [...] Mais comme la<br />

sculpture a toute la nature pour objet d’imitation, et<br />

que la nature a des beautés de plus d’une espece,<br />

pourquoi un sculpteur s’asserviroit-il à une seule<br />

maniere de draper, emp<strong>lo</strong>yée se<strong>lo</strong>n les temps, les<br />

climats et les circonstances? Les grands sculpteurs<br />

modernes, tels que [...] Puget [...] le Gros [...] et Bernin<br />

quelquefois, font voir quelles beautés les étoffes larges et<br />

jettéesdegrandemaniereproduisentdanslasculpture 189 .<br />

La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Niobe, Firenze, Uffizi, in http://www.<strong>lo</strong>mbardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-LOM70-0000067/,<br />

2010-4-28. Così Falconet sui panneggi: «dans les draperies<br />

de la famille de Niobé [...] les plis, sans intelligence<br />

dans la distribution, sans vérité dans l’exécution,<br />

sont assez semblables à des cordes, des copeaux, ou des<br />

écorces insipidement arrangées».<br />

Le esigenze degli scultori moderni erano, indubbiamente, altre: «Aucun sculpteur ne doit<br />

ignorer aujourd’hui que le ciseau reussit très bien dans la variété du travail que demandent les<br />

différents étoffes» 190 . Insomma Falconet, anche in questo campo, come già a proposito dei bassorilievi,<br />

185 D. D’ARGENVILLE, <strong>Di</strong>scours..., p. XXXI.<br />

186 E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture..., p. 40 : «Les draperies qu’on appelle mouillées sont d’un très bon usage dans<br />

la sculpture, ou étant emp<strong>lo</strong>yées sans affectation, sans maigreur, se<strong>lo</strong>n le sujet et l’à-propos, elles laissent voir les mouvements<br />

du nud, en rendent les formes plus sensibles, moins embarrassées, et consèquemment plus intéressantes». L’approvazione di<br />

Falconet non è incondizionata, giudica infatti monotone le pieghe degli abiti del gruppo di Niobe. Ibid., p. 42.<br />

187 Ibid., p. 39: «Je suppose qu’un statuaire épris de la simplicité des belles draperies antiques, et révolté contre quelques<br />

bizarrerie ingénieuses du Bernin, adopte uniquement le style des plis antiques, et qu’un autre statuaire voyant tous les genres dans<br />

la nature se croie permis, comme son imitateur, de les représenter tous. Il semble que ces deux systêmes, qui paroissent<br />

s’exclure, peuvent être également avantageux à la sculpture, et que ce seroit lui préjuducier si l’un préva<strong>lo</strong>it sur l’autre».<br />

188 Ibid., p. 44: «J’ai dit aussi que les mœurs, le climat, les vêtements des Grecs, étoient la cause de leur goût de draperies<br />

serrées: il ne faut donc pas s’étonner si les draperies larges n’auroient pas toujours réussi à leurs yeux. C’est par la même raison<br />

que on en voit peu dans leur peinture: la Noce Aldobrandine, peinture ancienne, est composée et drapée précisément comme les<br />

statues et les bas-reliefs du même temps».<br />

189 Ibid., pp. 41-42. Falconet proseguiva: «Les anciens sculpteurs le font voir aussi, mais rarement: en sorte pourtant qu’on<br />

pourroit faire la critique du goût exclusif des petites draperies antiques, par des draperies larges du même temps, comme celle du<br />

Zénon au Capitole, celle de la petite F<strong>lo</strong>re du même palais, dont les plis sont ordonnés avec la chaleur des plus brillantes étoffes».<br />

190 Ibid., p. 44.<br />

67


68<br />

Roberta Cinà<br />

non accettava l’idea della superiorità indiscussa<br />

degli antichi sui moderni e ribadiva la necessità<br />

che <strong>lo</strong> scultore fosse scevro da pregiudizi nel<br />

perseguire «la recherche du vrai», che «dans les<br />

arts ne connoît point d’autoritè particulière […].<br />

Qu’il ait le courage de travailler pour tous les<br />

tems et pour tous les pays» 191 . Gli esempi di<br />

opere moderne, come la Santa Teresa di Bernini,<br />

consentivano al<strong>lo</strong> scultore di affermare: «Si ces<br />

sculpteurs avoient servilement imité les anciens,<br />

et qu’ils n’eussent osé essayer quelque chose<br />

d’eux-mêmes, de combien de beautés ne serionsnous<br />

pas privés? ‘Ce qui est aujourd’hui fort<br />

ancien, fut autrefois nouveau’, pouvoient-ils dire<br />

avec Tacite, ‘et ce que nous faisons sena exemple,<br />

servira d’exemple’» 192 .<br />

Stessa frase 193 e stesso concetto in Dandré-Bardon<br />

194 , che tra l’altro, per evidenziare la<br />

pari abilità degli artisti moderni rispetto a<br />

quella degli antichi, portò come esempio la<br />

ricostruzione del braccio del Laocoonte 195 .<br />

Gian Lorenzo Bernini, Estasi di Santa Teresa, Roma, Santa<br />

Maria della Vittoria, in http://commons.wikimedia.org/wiki/<br />

File:Santa_teresa_di_bernini_03.JPG, 2010-04-27.<br />

Riconoscendo ai moderni altrettanti meriti che agli antichi, la polemica per stabilire<br />

l’eccellenza degli uni o degli altri era risolta. Risolutivi risultavano anche motivi come quelli esposti<br />

da Falconet, secondo i quali ogni artista avrebbe dovuto creare le proprie opere in base al suo<br />

tempo ed alle usanze del suo paese.<br />

191 Ibid.<br />

192 Ibid., p. 44. Il passo citato da Falconet è di Tacito, Annales, 1. II, c. 24.<br />

193 «Peut-être les Anciens ont eu de leur tems le sort des Modernes. Qui est-ce qui doute qu’à cet égard les Modernes ne<br />

deviennent Anciens à leur tour?». M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 59. Questa frase di Dandré-Bardon fu aspramente<br />

criticata da L. CICOGNARA, Storia della Scultura..., vol. III, p. 489.<br />

194 Come Falconet, egli riteneva che i moderni, pur avendo ereditato dagli antichi principi indubbiamente validi,<br />

avessero arricchito la scultura con nuove cognizioni: «Il est vrai que la plûpart des connoissances de la Sculpture, qui font tant<br />

d’honneur aux Artistes de nos jours, ne leur appartiennent que par droit d’hérédité. Mais on peut dire à la g<strong>lo</strong>ire de ces dignes<br />

Légataires, que <strong>lo</strong>in d’avoir appauvri la succession de leurs premiers Ancêtres, ils l’ont enrichie de plusieurs trésors». M. DANDRÉ-<br />

BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 33.<br />

195 «Les Sculpteurs qui se sont signalés depuis la renaissance des Arts n’ont pas borné leurs talens à imiter les séduisantes<br />

vérités de l’Antique. C’est l’Antique elle-même qui en rend téimognage. C’est le Laocoon, dont le bras droit fait par Baccio Bandinelli,<br />

répond si exactement à la perfection des autres parties de la figure, qu’on le conserve en cuite jusqu’à ce qu’on trouve le bras original».<br />

Ibid., p. 32. L’autore prosegue <strong>lo</strong>dando altri restauri moderni di opere antiche, come il Fauno Barberini le cui gambe furono rifatte<br />

dal Bernini e così via. Sulla metodo<strong>lo</strong>gia dei restauri nel Settecento cfr. O. ROSSI PINELLI, Chirurgia della memoria: scultura antica e<br />

restauri storici, in Memoria dell’Antico nell’arte italiana, a cura di S. Settis, Einaudi, Torino 1986, vol. III, pp. 183-250; P. PANZA, Antichità<br />

e restauro nell’Italia del Settecento. Dal ripristino alla conservazione delle opere d’arte, Presentazione di M. Dezzi Bardeschi, Franco Angeli,<br />

Milano 1990. Cfr. inoltre La collezione Boncompagni Ludovisi. Algardi, Bernini e la fortuna dell’antico, a cura di A. Giuliano, Marsilio,<br />

Venezia 1992.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Un ulteriore passo avrebbe compiuto Schelling, dichiarando che ogni arte: «dipende in<br />

gran parte dalla sensibilità del suo tempo [...]. A epoche diverse corrisponde un diverso<br />

entusiasmo [...]. È uno sforzo inutile, voler trarre qualche scintilla dalle ceneri di ciò che è sommerso,<br />

per tentare di accendere un fuoco universale [...] non ritornerà mai più un’arte che, sotto tutti gli<br />

aspetti, sia la stessa di quella dei secoli precedenti; giacché la natura non si ripete mai» 196 .<br />

Echi del Paragone cinquecentesco<br />

Le Réflexions sur la Sculpture di Falconet, come si è detto, rappresentano uno dei testi più<br />

significativi sull’estetica della scultura nel Settecento, nonchè un primo tentativo di riflessione<br />

critica su di essa. Va notato che furono redatte da uno degli scultori più affermati del tempo 197 ,<br />

nonché scrittore piuttosto prolifico 198 , il quale, pur sottolineando, quasi in una captatio <strong>bene</strong>volentiæ<br />

nei confronti dei suoi lettori, la propria condizione di scultore e non di letterato, rivendicò in più<br />

di un’occasione il diritto di un artista di potersi pronunciare in merito alla propria arte 199 .<br />

In quanto ‘specialista’ della sua materia, Falconet rappresentava dunque un candidato<br />

ideale per redigere la voce Sculpture dell’Encyc<strong>lo</strong>pédie 200 ; è noto, oltretutto, il suo rapporto con<br />

<strong>Di</strong>derot, spiritus rector dell’opera, per il quale l’esperienza del <strong>Di</strong>zionario Ragionato costituì un’importante<br />

occasione per venire a contatto con la teoria e la pratica artistica 201 .<br />

L’artico<strong>lo</strong> di Falconet, pur dando un certo rilievo agli aspetti etici della scultura e a temi<br />

in linea con la cultura del suo tempo (le già citate critiche al Barocco, l’esemplarità degli antichi,<br />

motivi peraltro posti in apertura all’artico<strong>lo</strong>), non ne trascurava il lato più tecnico che indagava<br />

le difficoltà materiali incontrate dagli scultori nel produrre le proprie opere e, soprattutto, tendeva<br />

a rimarcare la pari dignità tra l’arte scultorea e quella pittorica, riprendendo motivi ormai noti e<br />

di cui, sia pure in nuce, cominciavano ad esistere superamenti. Gli argomenti che riguardavano<br />

il lato tecnico erano in sostanza gli stessi addotti, nel Cinquecento, dai sostenitori della scultura<br />

nell’ambito del Paragone.<br />

Molti di questi motivi non si trovarono espressi soltanto nelle Réflexions di Falconet ma<br />

anche in quelle di Caylus, nonché in alcuni scritti di <strong>Di</strong>derot; già Winckelmann, dichiarando che<br />

la scultura era nata prima della pittura, aveva in sostanza ripreso un argomento che Borghini<br />

aveva portato avanti nella disputa cinquecentesca.<br />

196 F. SCHELLING, Le arti figurative e la natura..., p. 69.<br />

197 Ricordo che egli era tra gli artisti favoriti di Madame de Pompadour, che aveva ritratto e che gli aveva procurato<br />

la nomina a direttore della manifattura di Sèvres nel periodo compreso tra il 1757 ed il 1766.<br />

198 Tradusse, tra l’altro, alcuni libri della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio ed in particolare il XXXIV, il XXXV ed il<br />

XXXVI, quelli cioè che riguardano le arti figurative. Altri scritti erano spesso risposte polemiche dell’autore a diversi intellettuali,<br />

suoi inter<strong>lo</strong>cutori nell’ambito di vari dibattiti culturali del tempo; ne ricordo Mengs e Caylus, so<strong>lo</strong> per citarne alcuni dei più significativi.<br />

199 Cfr. E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture..., p. 1. In questo contesto l’autore sostiene di non avere alcuna pretesa<br />

stilistica: «Quant à la partie littéraire, le style d’un artiste n’étant d’aucun poids dans les lettres, mes fautes en ce genre ne seront<br />

point contagieuses». Cfr. inoltre ID., Observations sur la statue..., in cui prima della prefazione, l’autore riporta un passo di un’epistola<br />

di Plinio il Giovane: «ut enim de pictore, sculptore, fictore nisi artifex iudicare, ita nisi sapiens non potest perspicere sapientem»<br />

(Plin. Ep. 10. L. 1).<br />

200 Cfr. K.H. MANEGOLD, L’Encyc<strong>lo</strong>pédie di <strong>Di</strong>derot e d’Alembert, Legnano 1989, p. 256.<br />

201 Cfr. M. MODICA, Prefazione, in D. DIDEROT, Saggi sulla pittura..., p. 9; A.B. WEINSHENKER, Falconet: his writings and his friend<br />

<strong>Di</strong>derot, Genève 1966.<br />

69


70<br />

Roberta Cinà<br />

Ritornava, dunque, il confronto tra scultura e pittura. Falconet affrontava l’argomento<br />

relativo alle difficoltà particolari a ciascuna arte e alla minore varietà di soggetti che la scultura<br />

poteva rappresentare 202 : «La sculpture embrasse moins d’objets que la peinture: mais ceux qu’elle<br />

se propose, et qui sont communs aux deux arts, sont les plus difficiles à répresenter; savoir,<br />

l’expression, la science des contours, l’art difficile de draper et de distinguer les différents especes<br />

d’étoffes» 203 . Il fatto che la scultura potesse trattare una più limitata gamma di soggetti, rispetto<br />

alla pittura, fu rimarcato nel 1765 anche da <strong>Di</strong>derot, che non mancava di rilevare il carattere di<br />

maggiore solennità della ‘severa, grave e casta scultura’:<br />

On peint tout ce qu’on veut. La sévère, grave et chaste sculpture choisit [...]. Elle est sérieuse,<br />

même quand elle badine [...]. La sculpture ne souffre ni le bouffon, ni le burlesque, ni le plaisant,<br />

rarement même le comique. Le marbre ne rit pas [...]. Elle est voluptueuse, mais jamais ordurière.<br />

Elle garde encore dans la volupté je ne sais quoi de recherché, de rare, d’exquis, qui m’annonce<br />

que son travail est <strong>lo</strong>ng, pènible, difficile; et que, s’il est permis de prendre le pinceau pour<br />

attacher à la toile une idée frivole qu’on peut créer en un instant et effacer d’un souffle, il n’en<br />

est pas ainsi du ciseau, qui, déposant la pensèe de l’artiste sur une matiére dure, rebelle, et d’une<br />

éternelle durèe, doit avoir fait un choix réfléchi, original et peu commun. Le crayon est plus<br />

libertin que le pinceau, et le pinceau plus libertine que le ciseau [...]. C’est une muse violente,<br />

mais silencieuse et cachée 204 .<br />

Ancora dal cinquecentesco Paragone derivavano altri temi, come quel<strong>lo</strong> delle particolari<br />

difficoltà di esecuzione delle sculture. Falconet riprese, ad esempio, l’argomento degli infiniti<br />

punti di vista di una statua, problema riconosciuto, per la verità, da più voci, non necessariamente<br />

di parte; il pittore Dandrè-Bardon 205 , il conte di Caylus, sostennero infatti ana<strong>lo</strong>ghi principi.<br />

Caylus, in particolare, scrisse che <strong>lo</strong> scultore, oltre a dovere risolvere i problemi della staticità e<br />

dei sostegni da inserire nella sua opera, doveva far sì che l’equilibrio tanto cercato rispondesse<br />

ad esigenze non soltanto statiche ma anche estetiche. per giunta, da diversi punti di vista:<br />

«La Sculpture est obligée de trouver une position heureuse de tous les sens, et quiconque n’a pas<br />

réfléchi sur cette difficulté, ne conçoit pas la quantité de soins, et de recherches nécessaires pour<br />

trouver le balancement juste et agréable pour toutes les parties, pour tous les points de vuë.<br />

On ne doit point oublier que la Peinture ne travaille que pour un seul aspect» 206 .<br />

Falconet fu, come sempre, piuttosto incisivo: «La sculpture a des difficultés qui lui sont<br />

particulieres. 1°. Un sculpteur n’est dispensé d’aucune partie de son étude à la faveur des<br />

ombres, des fuyans, des tournants et des raccourcis. 2°. S’il a bien composé et bien rendu une<br />

202 Nel Cinquecento Leonardo aveva elencato come, soggetti che la scultura non poteva rappresentare, le nebbie, le<br />

piogge, la polvere. Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 484. Questo argomento era stato esposto anche da Vasari. Ibid., p. 496.<br />

203 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 6.<br />

204 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765, in Id., Oeuvres..., vol. X, p. 420.<br />

205 Dandré-Bardon raccomandava che <strong>lo</strong> scultore esaminasse attentamente l’opera, nel corso del suo farsi, da diversi<br />

punti di vista: «Il consultera son ouvrage, tantôt de profil, tantôt de trois quarts, tantôt de face, pour voir s’il produit de toutes<br />

les vues des effets conformes à ceux du Naturel». M. DANDRÈ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 80.<br />

206 CAYLUS, Réflexions..., p. 182.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

vue de son ouvrage, il n’a satisfait qu’à une partie de son opèration, puisque cet ouvrage a<br />

autant de points de vue qu’il y a de points dans l’espace qui l’environne» 207 .<br />

Gli infiniti punti di vista delle statue, dovuti alla <strong>lo</strong>ro tridimensionalità, condizionavano anche<br />

le luci e le ombre 208 che avrebbero influito sulla resa dell’opera e, dunque, costituivano un ulteriore<br />

motivo di accurata valutazione da parte del<strong>lo</strong> scultore, compito dal quale il pittore era dispensato.<br />

Riprendendo un tema già presente in Leonardo 209 , Falconet - d’accordo con Caylus, delle cui<br />

Réflexions riportava un brano - citò questo argomento tra le difficoltà particolari alla scultura 210 .<br />

Ancora come Leonardo, come è noto uno dei più accesi sostenitori della pittura ante<br />

Paragonem, Falconet sottolineò come al<strong>lo</strong> scultore fosse necessaria una notevole tenacia, poiché<br />

la fatica fisica del suo operare avrebbe potuto far<strong>lo</strong> disamorare della propria arte 211 :<br />

Un sculpteur doit avoir l’imagination aussi forte qu’un peintre, je ne dis pas aussi abondante.<br />

Il lui faut de plus une ténacité dans le génie, qui le mette au-dessus du dégoût que lui occasionne<br />

le méchanisme, la fatigue et la lenteur de ses opérations. Le génie ne s’acquiert point, il se<br />

déve<strong>lo</strong>ppe, s’étend et se fortifie par l’exercice. Un sculpteur exerce le sien moins souvent qu’un<br />

peintre: difficulté de plus, puisque dans un ouvrage de sculpture il doit y avoir du génie, comme<br />

dans un ouvrage de peinture 212 .<br />

Lo scultore, rispetto al pittore, era dunque svantaggiato a causa della difficoltà materiale<br />

del suo lavoro; gli occorreva maggiore tenacia e costanza per svolgere fino in fondo il suo compito<br />

e non perdere, negli anni, in semplicità e freschezza. <strong>Di</strong>derot, nel commento al Sa<strong>lo</strong>n del 1765,<br />

scrisse di un col<strong>lo</strong>quio tra lui e Falconet su questo argomento:<br />

207 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 6. Così, nell’ambito del Paragone cinquecentesco, era stato per Cellini, uno dei pochissimi<br />

difensori della scultura: «la scultura infra tutte l’arte che s’interviene disegno è maggiore sette volte, perché una statua<br />

di scultura de’ avere otto vedute, e conviene che le sieno tutte di egual bontà». In P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 519.<br />

208 Lo studio attento di luci ed ombre era raccomandato da M. DANDRÈ-BARDON, Essay sur la Sculpture…, p. 80.<br />

209 A proposito del ruo<strong>lo</strong> della luce in pittura ed in scultura, Leonardo evidenziava come un merito della pittura il<br />

fatto che essa portasse con sé luce ed ombra, mentre la scultura, svantaggiata, era condizionata dalla luce esterna ad essa.<br />

Cfr. LEONARDO DA VINCI, Il paragone delle arti... .<br />

210 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 19: «si le peintre a tracé des lignes justes, établi des ombres et des lumieres à propos, un<br />

aspect ou un jour différent ne lui ravira pas entièrement le fruit de son intelligence et de ses soins. Mais dans un ouvrage de sculpture,<br />

composé pour produire des lumieres et des ombres harmonieuses, faites venir de la droite le jour qui venait de la gauche, ou d’en<br />

bas celui qui venoit d’en haut; vous ne trouverez plus d’effets, ou il n’y en aura que de désagréables, si l’artiste n’à pas su en<br />

ménager pour les différents jours. Souvent aussi, en voulant accorder toutes les vues de son ouvrage, le sculpteur risque de vraies<br />

beautés pour ne trouver qu’un accord médiocre. Heureux si ses soins pénibles ne le refroidissent point, et ne l’empêchent pas de<br />

pervenir à la perfection dans cette partie! Pour donner plus de jour à cette réflexion, j’en rapporterai une de M. le comte de Caylus.<br />

[Il brano che segue è tratto da Caylus, Réflexions…, p. 184]. ‘La peinture, dit-il, choisit celui des trois jours qui peuvent éclairer une<br />

surface. La sculpture est à l’abri du choix, elle les a tous: et cette abondance n’est pour elle qu’une multiplicité d’études et d’embarras;<br />

car elle est obligée de condiderér et de penser toutes les parties de sa figure, et de les travailler en conséquence; c’est elle-même,<br />

en quelque façon, qui s’éclaire; c’est sa composition qui lui donne ses jours, et qui distribue ses lumieres. A cet égard, le<br />

sculpteur est plus créateur que le peintre; mais cette vanité n’est satisfaite qu’aux dépens de beaucoup de réflexions et de fatigues’».<br />

211 Leonardo, però, sosteneva che la pittura era soggetta ad una maggiore fatica mentale. A tal proposito Bronzino<br />

aggiungeva che, se la scultura era maggiormente faticosa, ciò era anzi un suo demerito. <strong>Di</strong> parere opposto Francesco Sangal<strong>lo</strong>, che<br />

riteneva la fatica motivo di nobiltà e a tal proposito citava alcuni versi di Dante. Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 509.<br />

212 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 8.<br />

71


72<br />

Roberta Cinà<br />

Un jour que Falconet me montrait les morceaux des jeunes élèves en sculpture...et qu’il<br />

me voyait étonné de la vigueur d’expression et de caractère, de la grandeur et de la noblesse de<br />

ces ouvrages sortis de dessous les mains d’enfants de dix-neuf à vingt ans: ‘Attendez-les dans dix<br />

ans d’ici, me dit-il, et je vous promets qu’ils ne sauront plus rien de cela’. C’est que les sculpteurs<br />

ont besoin plus <strong>lo</strong>ngtemps encore du modèle que les peintres; et que, soit paresse, soit avarice<br />

ou pauvreté, les uns et les autres ne l’appellent plus passé quarante-cinq ans. C’est que la sculpture<br />

exige une simplicité, une naïveté, une rusticité de verve, qu’on ne conserve guère au delà d’un certain<br />

âge: et voilà la raison pour laquelle les sculpteurs dégénèrent plus vite que les peintres, à moins<br />

que cette rusticité ne leur soit naturelle et de caractère. Pigalle est bourru; Falconet l’est encore<br />

davantage. Ils feront bien jusqu’à la fin de leur vie. Le Moyne est poli, doux, maniéré, honnête;<br />

il est et il restera médiocre 213 .<br />

Ancora in ambito francese fu presa in esame un’altra difficoltà peculiare all’arte scultorea,<br />

quale la composizione dei gruppi, di cui scrissero sia Caylus 214 che Falconet, entrambi rilevando<br />

come la pittura poteva affascinare <strong>lo</strong> spettatore con la composizione delle figure, la varietà dei<br />

co<strong>lo</strong>ri, i fondali, l’effetto generale. La scultura, al contrario, doveva essere maggiormente incisiva<br />

avendo - per utilizzare i termini di Falconet - una sola parola da dire:<br />

L’ouvrage du sculpteur n’étant le plus souvent composé que d’une seule figure, dans<br />

laquelle il ne lui est possible de réunir les différents causes qui produisent l’intérêt dans un<br />

tableau, on doit exiger de lui, non seulement l’intérêt qui résulte du tout ensemble, mais encore<br />

celui de chaucune des parties de cet ensemble. La peinture, indépendamment de la variété des<br />

couleurs, intéresse par les différents grouppes, les attributs, les ornements, les expressions de<br />

plusieurs personnages qui concourent au sujet; elle intéresse par les fonds, par le lieu de la scene,<br />

par l’effet général: en un mot, elle en impose par la totalitè. Mais le sculpteur n’a le plus souvent<br />

qu’un mot à dire; il faut que ce mot soit énergique 215 .<br />

Un altro topos della letteratura artistica cinquecentesca, quel<strong>lo</strong> dell’impossibilità del<br />

‘pentimento’ in scultura 216 , fu un motivo ricorrente nel XVIII seco<strong>lo</strong>; Dandré-Bardon trattò<br />

l’argomento nel suo Essai: «Les opérations du ciseau sont pour l’ordinaire dépendantes de mille<br />

points de justesse auxquels, quand on les a outre-passés, on ne sçauroit revenir sans des<br />

compensations embarrassantes et quelquefois impossibles» 217 .<br />

213 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765..., p. 423.<br />

214 CAYLUS, Réflexions..., pp. 180-181: «Elle [la scultura] ne peut exprimer que des figures tenant si bien à la terre, qu’elle<br />

est obligée de recourir presque toujours à des appuis capables de soutenir les jambes, et de les mettre en état de résister à la<br />

pesanteur du corps; ce que je dis à cette occasion ne regarde que les figures seules, et que la Sculpture traite le plus ordinairement.<br />

Il est vrai qu’elle présente aussi des groupes; mais en général le nombre des figures dont ils sont composés, est très-borné; car il<br />

est rare de trouver, comme Pline en décrit quelques-uns, plus étendus encore que celui de <strong>Di</strong>rcé, que nous appel<strong>lo</strong>ns le Taureau<br />

Farnèse, ou semblables aux bains d’Apol<strong>lo</strong>n que l’on voit à Versailles».<br />

215 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 9.<br />

216 Leonardo a tal proposito affermava che l’impossibilità di correggere i propri errori era un argomento che andava non<br />

a favore della scultura ma semmai contro l’imperizia dell’artefice. Bronzino, pur avendo preannunciato il proposito di<br />

mantenersi imparziale, asseriva che questa era una effettiva difficoltà per <strong>lo</strong> scultore so<strong>lo</strong> se questi non era sufficientemente valido.<br />

Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 499.<br />

217 M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 73.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Caylus non mancava di notare che questo aspetto costituiva un ulteriore vantaggio per il<br />

pittore, libero di riprendere e modificare la propria opera a suo piacimento. Scriveva infatti: «si<br />

le Peintre s’apperçoit de quelqu’erreur, ou de quelque degré de perfection qu’il peut ajouter, il<br />

est le maïtre d’effacer, de refaire, et de retoucher: le sculpteur au contraire est privé de cet avantage,<br />

il ne peut revenir sur lui-même, des l’instant que son marbre est degrossi» 218 . Sostanzialmente<br />

ana<strong>lo</strong>ga la posizione di D’Argenville 219 .<br />

Non poteva mancare la voce di Falconet 220 , che da addetto ai lavori aveva illustrato l’utilità<br />

di un model<strong>lo</strong> dell’opera da porsi sul sito in cui la scultura avrebbe dovuto essere col<strong>lo</strong>cata 221 , in<br />

modo che l’artista potesse rendersi conto degli effetti della luce e della resa finale della propria<br />

scultura. Ciò non sarebbe comunque stato sufficiente per evitare al<strong>lo</strong> scultore gli effetti irreversibili<br />

di alcuni momenti di deconcentrazione nel corso del proprio operare:<br />

Le modele bien arrêté, je suppose au sculpteur un instant d’assoupissement ou de délire.<br />

S’il travaille a<strong>lo</strong>rs, je lui vois estropier quelque partie importante de sa figure, en croyant suivre<br />

et même perfectionner son modele. Le lendemain, la tête en meilleur état, il reconnoît le désordre<br />

de la veille sans y pouvoir remédier. Heureux avantage de la peinture! Elle n’est point assujettie<br />

à cette <strong>lo</strong>i rigoreuse. Le peintre change, corrige, refait à son gré sur la toile; au pis aller, il<br />

la réimprime, ou il en prend une autre. Le sculpteur peut-il ainsi disposer du marbre? S’il fal<strong>lo</strong>it<br />

qu’il recommençât son ouvrage, la perte du temps, les fatigues et les dépenses pourroient-elles<br />

se comparer avec celles du peintre? 222 .<br />

Uno dei punti veramente nodali nell’ambito della letteratura artistica cinquecentesca era<br />

stato comunque il problema del co<strong>lo</strong>re: Leonardo, Borghini ed altri avevano asserito che la pittura<br />

era superiore alla scultura anche in base a questo elemento 223 , che fu indicato come una<br />

delle sue maggiori attrattive.<br />

Caylus, come si è già ricordato, individuava nell’assenza del co<strong>lo</strong>re una delle cause per le<br />

quali la scultura era più difficilmente apprezzabile rispetto alla pittura 224 e ne incolpava il pubblico,<br />

la cui ‘pigrizia’ era in certo qual modo assecondata dai numerosi mezzi con cui la pittura<br />

poteva facilmente allettar<strong>lo</strong>: «le Sculpteur ayant moins de secours, paroît avoir plus de mérite,<br />

218<br />

CAYLUS, Réflexions..., p. 183.<br />

219 D. D’ARGENVILLE, <strong>Di</strong>scours..., p. XXI: «La peinture [...] jouit de l’avantage d’effacer et de corriger ses défauts. Les fautes<br />

de sa rivale, au contraire, sont irrèparables».<br />

220 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 17 : «Parmi les difficultés de la sculpture, il en est une sort connue, et qui mérite les plus<br />

grandes attentions de l’artiste; c’est l’impossibilité de revenir sur lui-même <strong>lo</strong>rsque son marbre est dégrossi, et d’y faire quelque<br />

changement essentiel dans la composition ou dans quelqu’une de ses parties: raison bien forte pour l’obliger à réfoudre son modele,<br />

et à l’arrêter de maniere qu’il puisse conduire sûrement les opérations du marbre».<br />

221 L’importanza del model<strong>lo</strong> dell’opera e della sua col<strong>lo</strong>cazione sul sito definitivo fu rilevata anche da M. DANDRÉ-BAR-<br />

DON, Essai sur la sculpture..., p. 64.<br />

222 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 18.<br />

223 Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I.<br />

224 «La Peinture posséde de grands moyens pour se faire lire; le secours des deux perspectives, <strong>lo</strong>cale et aërienne, la multiplicité<br />

des plans, la convenance dans le site, la facilité des accessoires, l’instant de tous les mouvements, toutes les positions<br />

réelles et immaginaires; enfin la couleur des objets». CAYLUS, Réflexions..., p. 180.<br />

73


74<br />

Roberta Cinà<br />

quand il arrête et qu’il ètonne le spectateur, pour lui faire sentir toute la grandeur d’une action;<br />

mais aussi [...] le spectateur a besoin d’un plus grand nombre de lumières pour le juger, et que<br />

par conséquent la Peinture, plus à la portée de tous les hommes et flattant davantage leur paresse,<br />

doit avoir plus d’amis et plus de partisans» 225 .<br />

Falconet, rilevando anch’egli che la scultura era priva del<strong>lo</strong> «charme séduisant de la couleur» 226 ,<br />

avrebbe introdotto un argomento che mostrava i segni di un superamento dell’ottica, ormai<br />

secolare, del Paragone: si trattava dell’aiuto che la scultura avrebbe potuto trarre dall’eventuale<br />

impiego del co<strong>lo</strong>re.<br />

Richardson aveva scritto che in alcuni periodi dell’antichità era stato uso comune quel<strong>lo</strong><br />

di dorare le statue e a proposito della Venere de’ Medici osservava: «Ses cheveux sont devenus<br />

bruns, parce qu’ils ont été dorés autrefois, comme cela étoit sort commun chez les Anciens.<br />

Ils avoient même introduit la mode de dorer les plus belles Statues, par-tout; et cette mode a duré<br />

quelque tems» 227 .<br />

Contro le sculture policrome si levò, nel Settecento, un coro pressoché unanime. Dandré-Bardon,<br />

che nel suo Essai sur la sculpture intendeva fornire dei precetti agli scultori e sconsigliava la<br />

realizzazione di sculture co<strong>lo</strong>rate, definite una «bizarrerie monstrueuse», così scriveva: «A ne<br />

réfléchir que sur le physique et sur le pittoresque de la plûpart des associations de cette espéce,<br />

pratiquées par les Anciens dans leurs sculptures, on doit convenir qu’ils avoient perdu, dans ces<br />

tems, le stile simple, noble et majestueux qui caractérise leurs beaux ouvrages, pour se livrer à<br />

des détails et à des enrichissemens puériles et minucieux» 228 .<br />

Anche secondo Herder le statue non andavano dipinte, «Poiché il co<strong>lo</strong>re non è forma, e<br />

quindi non è riconoscibile ad occhi chiusi e al senso del tatto, o, se <strong>lo</strong> è, crea ostaco<strong>lo</strong> alla forma<br />

bella. Esso è granel<strong>lo</strong> di sabbia, vernice, ricrescita estranea che ci resiste e distrae dal puro<br />

sentire di ciò che la natura dovrebbe essere» 229 .<br />

Falconet aveva ritenuto le sculture co<strong>lo</strong>rate un ‘assemblaggio’ rovinoso, sia che si<br />

trattasse di statue dipinte, sia che esse fossero invece costituite da materiali policromi:<br />

Ce n’est pas que de très habiles sculpteurs n’aient emprunté le secours dont la peinture<br />

tire avantage par le co<strong>lo</strong>ris; Rome et Paris en fournissent des exemples. Sans doute que des<br />

matériaux de diverses couleurs, emp<strong>lo</strong>yés avec intelligence, produiroient quelques effets<br />

pittoresques: mais distribués sans harmonie, cet assemblage rend la sculpture désagrèable et<br />

même choquante. Le brillant de la dorature, le rencontre brusque des couleurs discordantes de<br />

différents marbres, éb<strong>lo</strong>uira l’œil d’une populace toujours subjugée par le clinquant, et l’homme<br />

de goût sera révolté. Le plus certain seroit de n’emp<strong>lo</strong>yer l’or, le bronze, et les différents marbres,<br />

qu’à titre de décoration, et de ne pas ôter à la sculpture proprement dite son vrai caractere, pour<br />

ne lui en donner qu’un faux, ou pour le moins toujours équivoque 230 .<br />

225 Ibid., p. 193.<br />

226 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 9.<br />

227 J. RICHARDSON, Description…, p. 97.<br />

228 M. DANDRÈ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 92.<br />

229 J.G. HERDER, Plastica..., p. 57.<br />

230 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 10.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Le statue dipinte o realizzate in diversi materiali policromi non sarebbero quindi risultate<br />

gradevoli ed il <strong>lo</strong>ro carattere vistoso sarebbe stato apprezzabile soltanto dalla plebaglia, ma<br />

l’uomo di gusto ne sarebbe stato disgustato. È interessante esaminare il prosieguo del discorso:<br />

Falconet infatti tratta dei limiti ai quali ogni forma artistica deve attenersi e specifica che ogni arte<br />

ha i propri mezzi per l’imitazione della natura: «Ainsi, en demeurant dans les bornes qui lui sont<br />

prescrites, la sculpture ne perdra aucun de ses avantages; ce qui lui arriveroit certainement, si elle<br />

vou<strong>lo</strong>it emp<strong>lo</strong>yer tous ceux de la peinture. Chaucun de ces arts a ses moyens d’imitation;<br />

la couleur n’en est point un pour la sculpture» 231 .<br />

Che il co<strong>lo</strong>re dovesse rimanere estraneo alle opere di scultura era anche opinione di Caylus:<br />

On croit assez généralement que les couleurs vrayes placées sur un ouvrage de sculpture<br />

doivent produire la plus parfaite imitation: cet usage pratiquè dans les tems barbares de l’Antiquité,<br />

s’est conservé dans toute l’Europe jusqu’au renouvellement des Arts; on voit même encore<br />

dans nos Villages plusieurs Statuës de SS. exactement barbouillées de differentes couleurs: les<br />

sens grossiers de nos Paysans sont frappés de cet alliage, et c’est le seul parti qu’on puisse<br />

en retirer, car je puis assurer que quand Apelles et Lysippe auroient réuni leurs talens sur la<br />

même Statuë, ils n’auroient rien produit d’agréable, ni de satisfaisant [...]. La couleur placée sur<br />

une Statuë ne produit, ni ne présente aucun passage: les détails de la figure deviennent fixes, et<br />

immobiles 232 .<br />

Sfavorevole alla fusione di tecniche appartenenti a forme artistiche differenti era anche<br />

<strong>Di</strong>derot, che nei Pensées Détachées sur la Peinture, la Sculpture et l’Architecture scrisse alcune brevi<br />

osservazioni a tal proposito: «Ces yeux d’émail 233 , ces cheveux dorés et tous ces riches ornements<br />

des statues anciennes me paraissent une invention de prêtres sans goût; invention qui est<br />

sortie des temples pour infecter la société» 234 , e, ancora: «Néron fit dorer et gâter la statue<br />

d’Alexandre. Cela ne me déplait pas; j’aime qu’un monstre soit sans goût. La richesse est<br />

231 Ibid.<br />

232 CAYLUS, Réflexions..., pp. 190-193, così proseguiva: «L’examen d’une draperie me servira de comparaison, et peut donner<br />

une idée de la maniere dont cette opération de la couleur détruit l’expression fine et délicate des passions. Je suppose cette<br />

draperie volante, le Peintre fera sentir dans son tableau, ou sa légereté, ou la force du vent, ou celle de l’action. La Draperie du même<br />

genre sera represéntée par la Sculpture beaucoup moins étenduë, mais il suffit qu’elle puisse paroïtre en l’air, dès l’instant qu’elle<br />

aura été couverte de couleur, elle deviendra <strong>lo</strong>urde, ses plis très-beaux pour la Sculpture deviendront chargés, le contour privé<br />

d’une opposition, telle que le Peintre la donne à son gré dans un tableau, deviendra de la plus grande pesanteur, ainsi que tous<br />

les details de sa masse; d’ailleurs la faillie des parties traitées en Sculpture, ne peut produire que des effets durs et cruds [...].<br />

Ainsi chaucun de ces Arts demeurant dans les bornes prescriptes par la Nature, doit s’attacher à ses avantages, et surmonter ses<br />

foiblesses par les secours quelles se prêtent l’une à l’autre. La Peinture malgré l’abondance, et la grandeur de ses moyens, cherche<br />

toujours à produire le relief, et par conséquent à imiter la Sculpture; celle-ci soumise à des matières solides, ne peut être susceptible<br />

d’accord et d’oppositions que par la variété du travail de son ciseau, et par le plus ou le moins de prononcé dans les ombres;<br />

elle ne peut tirer cet accord que d’elle-même, ou ce qui est absoulement semblable, que de la couleur unique de sa matière: pour<br />

plaire et se rendre recommandable, elle cherche la fonte et l’accord de la peinture; elles se prêtent donc mutuellement des secours,<br />

et en ce cas elles sont sœurs; mais differentes dans leurs moyens pour arriver au même but, elles ne peuvent se réunir».<br />

233 A proposito della rappresentazione degli occhi Herder sarebbe stato concorde: «Alcune statue hanno i bulbi oculari.<br />

Dove sono tollerabili, devono essere so<strong>lo</strong> accennati; buona parte di esse, e le migliori, non li hanno affatto. Essi erano un frutto<br />

del cattivo gusto degli ultimi secoli, quando la ricchezza era preferita alla bellezza e si impiegavano il vetro e l’argento [...] nelle<br />

epoche più belle i greci non usarono né abiti né co<strong>lo</strong>ri, né bulbi oculari né argento, l’arte si ergeva nuda come Venere e questo era<br />

il suo ornamento e la sua ricchezza». J.G. HERDER, Plastica..., p. 59.<br />

234 D. DIDEROT, Pensées Détachées..., p. 112.<br />

75


76<br />

Roberta Cinà<br />

toujours gothique» 235 . L’autore affrontava l’argomento in maniera più diffusa nel Sa<strong>lo</strong>n de 1765:<br />

Quel serait l’effet du co<strong>lo</strong>ris le plus beau et le plus vrai de la peinture sur une statue?<br />

Mauvais, je pense. 1° Il n’y aurait autour de la statue qu’un seul point où ce co<strong>lo</strong>ris serait vrai;<br />

2° il n’y a rien de si déplaisant que le contraste du vrai mis à côté du faux; et jamais la vérité de la<br />

couleur ne répondra à la verité de la chose. La chose, c’est la statue, seule, isolée, solide, prête à<br />

se mouvoir [...]. Creusez l’orbite des yeux à une statue, et remplissez-la d’un œil d’émail ou d’une<br />

pierre co<strong>lo</strong>rèe, et vous verrez si vous en supporterez l’effet. On voit même, par la plupart de leurs 236<br />

bustes, qu’ils ont mieux aimé laisser le g<strong>lo</strong>be de l’œil uni et solide que d’y tracer l’iris, et que d’y<br />

marquer la prunelle; laisser immaginer un aveugle, que de montrer un œil crevé: et, n’en déplaise<br />

à nos modernes, les Anciens me paraissent en ce point d’un goût plus sévère qu’ils ne l’ont 237 .<br />

È possibile notare dai brani sopra riportati un certa identità di vedute: le statue policrome,<br />

giustificate negli antichi come appartenenti al periodo della barbarie 238 , erano ritenute un<br />

assemblaggio sgradevole per l’uomo di gusto e che poteva abbagliare soltanto la plebaglia.<br />

‘<strong>Di</strong>morando’ nei propri limiti, la scultura non avrebbe perso alcuno dei suoi vantaggi, cosa che<br />

sarebbe certamente accaduta se avesse impiegato tutti quelli della pittura.<br />

La pittura, tra l’altro, pur avendo tanti mezzi in più rispetto alla scultura, non per questo<br />

era ritenuta facilitata; si riteneva infatti che anch’essa avesse delle difficoltà particolari, in base alle<br />

quali D’Argenville l’avrebbe ritenuta più impegnativa: «Le reffort de la Peinture est immense,<br />

puisqu’il embrasse tout ce qui est visible, et qu’au contraire celui de la Sculpture est borné» 239 .<br />

Lo stesso Falconet aveva asserito: «Autant d’objets que le peintre a de plus a représenter<br />

que le sculpteur, autant d’études particulieres» 240 .<br />

Significativa risulta la sua affermazione secondo la quale sarebbe stato un errore preferire<br />

una forma artistica all’altra a causa delle difficoltà particolari a ciascuna di esse; è importante la<br />

citazione dei versi di Ovidio in cui pittura e scultura vengono definite due sorelle, non uguali ma<br />

somiglianti tra <strong>lo</strong>ro: «Si ces arts ne son pas semblables en tout, il y a toujours la ressemblance de<br />

famille. ‘Facies non omnibus una, nec diversa tamen, qualem decet esse sororum’» 241 .<br />

235 Ibid., p. 113.<br />

236 <strong>Di</strong>derot allude alle opere degli antichi.<br />

237 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765…, p. 422.<br />

238 Non era ancora universalmente accettato, infatti, il fatto che i Greci dipingevano le <strong>lo</strong>ro statue. Assérat, curatore<br />

dell’edizione del 1876 delle opere complete di <strong>Di</strong>derot, inserì una nota a questo proposito e scrisse: «On sait aujourd’hui que les<br />

Anciens n’ont pas le moins du monde respecté ce principe, et qu’ils emp<strong>lo</strong>yaient la couleur, dans la décoration extérieure de leurs<br />

temples et dans leurs statues, avec aussi peu de scrupule que les sauvages de la Polynésie». In D. DIDEROT, Oeuvres..., vol. X, p. 423.<br />

239 D. D’ARGENVILLE, <strong>Di</strong>scours..., p. XXIII.<br />

240 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 10: «Mais si ce moyen, qui appartien proprement à la peinture, est pour elle un avantage,<br />

combien de difficultés n’a-t-elle pas qui sont entièrement étrangeres à la sculpture? Cette facilitè de produire l’illusion par<br />

le co<strong>lo</strong>ris est elle-même une très grande difficulté; la raretè de ce talent ne le prouve que trop. Autant d’objets que le peintre a de<br />

plus a représenter que le sculpteur, autant d’études particulieres. L’imitation vraie des ciels, des eaux, des paysages, des différents<br />

instants du jour, des efféts variés de la lumiere, et la <strong>lo</strong>i de n’éclairer un tableau que par un seul soleil, exigent des connoissances<br />

et des travaux nécessaires aux peintres, dont le sculpteur est entièrement dispensé. Quoiqu’il y ait des études et des travaux qui<br />

appartiennent exclusivement à chaucun des deux arts, ce seroit ne les pas connoître que de nier leurs rapports. Ce seroit un erreur<br />

si on donnoit quelque préférence à l’un aux dépens de l’autre, à cause de leurs difficultés particulieres».<br />

241 Ibid., vol. III, pag. 12. I versi citati sono di Ovidio, Metamorfosi, libro II.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Considerare pittura e scultura come sorelle non era una novità e del resto Caylus aveva già<br />

esposto questo concetto all’inizio del suo artico<strong>lo</strong>, indicando nel genio il <strong>lo</strong>ro padre comune e<br />

l’imitazione della natura come comune madre:<br />

Leur pere commune est le génie 242 , cette portion de la <strong>Di</strong>vinité impossibile à méconnoître,<br />

plus impossibile à definir, qui perce, qui produit, qui éclaire, qui crée, et ne peut être confondue<br />

avec aucune partie de l’esprit. Cet agent universel plane également sur le deux atteliers [...].<br />

L’imitation de la nature est constamment l’essence, la base, la propriété, enfin la mere commune<br />

de ces deux Arts; mais l’imitation seule ne produit que des glaces; elle n’est qu’une esclave si le<br />

génie cesse de l’accompagner [...]. La peinture et la sculpture ont un besoin égal de recevoir les<br />

secours d’un Pere et d’une Mere auxquels elles doivent l’existence 243 .<br />

Che pittura e scultura mirassero al<strong>lo</strong> stesso fine sarebbe stato enunciato anche da Dandrè-Bardon:<br />

«Ces deux Arts toujours Amis, quoique toujours Rivaux, tendant au même objet par des<br />

manœuvres différents, se tiennent par la main et se conduisent dans leur route à la lueur du<br />

même flambeau» 244 .<br />

Infine, Falconet si appellò a Vasari:<br />

j’ai vu que, sur le parallele des deux arts, mon opinion est entièrement la sienne: ‘Seb<strong>bene</strong><br />

per la diversità della essenza <strong>lo</strong>ro (della scultura e della pittura), hanno molte agevolezze; non<br />

sono elleno però né tanto, né di maniera, ch’elle non vengano giustamente contrapessate insieme:<br />

e non si conosca la passione, o la caparbietà, più tosto che il judicio, di chi vuole che l’una avanzi<br />

l’altra. La onde a ragione si può dire, che un’anima medesima regia due corpi: ed io per questo<br />

conchiudo, che male fanno co<strong>lo</strong>ro, che s’ingegnano di disunirle o di separarle l’una dall’altra’ 245 .<br />

Era così sintetizzata una sorta di conclusione del secolare dibattito; nel XVIII seco<strong>lo</strong> la<br />

scultura era ormai un’arte con una propria dignità ed il Paragone cinquecentesco, in quanto tale,<br />

aveva perso molto del suo significato, pur permanendo in esso la risposta a più moderne<br />

esigenze volte a «distinguere ed approfondire le proprietà tecniche delle arti figurative,<br />

favorendo la consapevolezza critica dei modi ed aspetti di un gusto pittorico diverso da un gusto<br />

scultoreo» 246 .<br />

242 L’importanza del genio nel farsi dell’opera d’arte fu rimarcata da <strong>Di</strong>derot, insieme a quella del sentimento.<br />

Cfr. D. DIDEROT, Saggi sulla pittura..., p. 58. L’importanza del genio nella scultura era rimarcata anche da Falconet, secondo il quale<br />

<strong>lo</strong> studio delle opere della natura da parte del<strong>lo</strong> scultore doveva essere appunto condotto da genio, gusto e ragione. Sul ruo<strong>lo</strong><br />

fondamentale del sentimento nell’opera scultorea in particolare, avrebbe poi insistito Falconet in conclusione alle Réflexions…,<br />

definendo<strong>lo</strong> il sublime della scultura. Cfr. E.M. Falconet, Réflexions..., pp. 4, 25.<br />

243<br />

CAYLUS, Réflexions..., pp. 177-178.<br />

244 M. DANDRÈ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 1.<br />

245 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 12.<br />

246 S. LA BARBERA, Il Paragone delle Arti..., p. 131.<br />

77


78<br />

Roberta Cinà<br />

La tridimensionalità alla luce delle nuove teorie sulla conoscenza<br />

Uno dei motivi ricorrenti negli scritti sulla scultura nel XVIII seco<strong>lo</strong> è quel<strong>lo</strong> della sua<br />

tridimensionalità, il fatto, cioè, che le statue possono essere toccate e, tramite il tatto, conosciute.<br />

Queste idee si legano certamente ad una serie di esperienze scientifiche che videro la luce<br />

appunto all’inizio del Settecento ma già all’interno del Paragone cinquecentesco, in nuce, erano<br />

presenti alcuni argomenti legati alla tridimensionalità della scultura.<br />

Nel XVIII seco<strong>lo</strong> l’acquisizione di nuove cognizioni mediche dette impulso ad un dibattito<br />

piuttosto vivo che riguardò le modalità della conoscenza, in soggetti ciechi, tramite il tatto. Il tatto,<br />

come senso legato alla tridimensionalità dei corpi, fu argomento di discussione e di riflessione<br />

anche per gli autori che trattarono di scultura.<br />

È noto che nel 1729 il chirurgo <strong>lo</strong>ndinese William Cheselden eseguì la prima asportazione<br />

della cataratta; l’uomo che aveva riacquistato, così, la vista, nel periodo immediatamente<br />

successivo all’intervento non riconobbe immediatamente i corpi che prima aveva conosciuto<br />

mediante il tatto. L’episodio, dal campo delle discussioni mediche, divenne argomento seriamente e<br />

variamentedibattutoancheperquelledicaratterepiùsquisitamente<br />

estetico. Herder, nel 1779, riferiva l’episodio 247 in questi<br />

termini: «Egli non vedeva <strong>lo</strong> spazio, non distingueva neanche<br />

gli oggetti più diversi l’uno dall’altro: davanti a lui si ergeva,<br />

o per meglio dire su di lui posava, una grande tavola pittorica.<br />

Gli venne insegnato a distinguere, a riconoscere visivamente<br />

ciò che conosceva dal tatto, a trasformare le figure in corpi,<br />

i corpi in figure; egli apprendeva e dimenticava» 248 .<br />

Ancora piùsignificativo èil passo sulle immaginipittoriche:<br />

Noi credevamo che egli capisse subito ciò che<br />

rappresentavano i quadri che gli mostravamo, ma trovammo<br />

che ci eravamo sbagliati, poiché due mesi dopo che gli era<br />

stata tolta la cataratta egli fece improvvisamente la scoperta<br />

che essi rappresentavano corpi, elevazioni e cavità 249 . Sino<br />

ad al<strong>lo</strong>ra non li aveva considerati altro che superfici chiazzate<br />

di co<strong>lo</strong>re, ma anche così non era poco sorpreso che i dipinti<br />

non si presentassero al tatto come apparivano, che le parti<br />

che per luce ed ombra apparivano scabre e accidentate<br />

fossero al tatto levigate come le altre. Egli si chiedeva quale<br />

dei due sensi inganna: la vista o il tatto? 250 .<br />

William Ridley, WilliamCheselden, da Jonathan Richardson,<br />

in “The European Magazine and London Review”,<br />

46, 1804, in http://books.google. it/books?id=I8cP<br />

AAAAQAAJ&pg=PA81&dq=european+magaz<br />

i n e + c h e s e l d e n + w i l l i a m & e i = z a 3 Z S -<br />

rjPIPclQTw1J2fCA&cd=3#v=onepage&q=europea<br />

n%20magazine%20cheselden%20william&f=fals<br />

e, 2010-29-04.<br />

247 Già nel 1749 <strong>Di</strong>derot ne aveva scritto nella Lettera sui ciechi: la psico<strong>lo</strong>gia dei soggetti non vedenti era un argomento di<br />

moda nell’ambito della disputa tra empirismo e razionalismo.<br />

248 J.G. HERDER, Plastica..., p. 40.<br />

249 Per di più, quando «il cieco di Cheselden» riconosceva le figure che si distaccavano dai quadri, istintivamente<br />

«protendeva la mano verso di esse, come se fossero un corpo». Ibid., p. 44.<br />

250 Ibid.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Herder tentò di rispondere ricorrendo all’esempio dell’asta che, immersa in acqua, appare<br />

spezzata; ad un esempio simile era ricorso Hogarth per affermare l’inattendibilità della vista:<br />

«in quanto alle distanze, una mosca dentro una palla di cristal<strong>lo</strong>, spesse volte la crediamo una<br />

cornacchia, o un uccel<strong>lo</strong> di gran lunga più grande, finché qualche circostanza non abbia messo<br />

in chiaro <strong>lo</strong> sbaglio, e convinto ci abbia della sua real mole, e luogo» 251 .<br />

Naturalmente, trasponendo la questione alle arti figurative, secondo quest’ottica la pittura<br />

era fruibile esclusivamente tramite la vista, mentre la scultura risultava in tal senso privilegiata,<br />

potendo essere guardata anche attraverso il tatto. Memorabile la frase di <strong>Di</strong>derot: «La sculpture<br />

est faite, et pour les aveugles, et pour ces qui voient. La peinture ne s’addresse qu’aux yeux» 252 .<br />

Tale principio trovava corrispondenza nelle parole di Herder: «alla vista sono proprie soltanto<br />

superfici, immagini, figure di un piano, mentre i corpi e le forme dei corpi dipendono dal tatto» 253 .<br />

Più tardi, Cicognara avrebbe asserito: «Nell’arte della scultura non vuolsi che realtà; e soltanto<br />

al pittore è concesso di fondare il suo artificio sull’illusione. La prima di queste arti presenta le<br />

opere sue in tal modo, che può giudicarne anche il senso del tatto» 254 .<br />

La discussione sulle modalità della conoscenza, che vide nel tatto un canale preferenziale<br />

rispetto alla vista, si pose all’interno di un più complesso dibattito fi<strong>lo</strong>sofico che esaminava<br />

l’importanza dei sensi e dell’esperienza in confronto a quella della razionalità.<br />

Una certa importanza rivestì, in<br />

quest’ambito, il Traité des sensations 255 di<br />

Condillac – che trovava un contraltare<br />

inglese nell’Automathes di Kirkby 256 – in<br />

cui si asseriva che le conoscenze<br />

umane provengono dalle sensazioni,<br />

attraverso il tramite dei sensi. Per<br />

dimostrare la sua teoria, l’autore<br />

immaginò una statua alla quale venivano<br />

via via inseriti tutti i sensi; essa veniva<br />

dunque animata partendo da quel<strong>lo</strong><br />

più elementare, l’odorato. Era, però, il<br />

tatto che avrebbe per così dire addestrato<br />

gli altri sensi, perché il so<strong>lo</strong> in grado di<br />

conoscere gli oggetti.<br />

E.B. de Condillac, Traité des Sensations, Paris 1754, in http://serendip.brynmawr.edu/Mind/Epistemo<strong>lo</strong>gyoM.html,<br />

2010-04-20.<br />

251 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 104.<br />

252 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765..., p. 420.<br />

253 J.G. HERDER, Plastica..., p. 44.<br />

254 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. VII, p. 120.<br />

255 E.B. DE CONDILLAC, Traité des sensations, Paris 1754.<br />

256 J. KIRKBY, The Capacity and Extent of the Human Understanding Exemplified in the Extraordinary Case of Automathes A Young<br />

Nobleman, Who Was Accidentally left in his Infancy, upon a Desolate Island, and Continued Nineteen Years in that Solitary State, separate from all<br />

Human Society. A Narrative Abounding with Many Surprizing Occurences both Useful and Entertaining to the Reader, London 1745.<br />

79


80<br />

Roberta Cinà<br />

Era tale l’importanza attribuita al tatto nei processi cognitivi, che Condillac giungeva ad<br />

affermare che gli animali non hanno le stesse facoltà dell’uomo perché in essi questo senso è<br />

meno perfetto 257 . Condizione imprescindibile perché il tatto potesse conoscere era comunque il<br />

movimento; ricordo che l’idea del movimento sarebbe stata momento fondamentale, per Herder 258 ,<br />

per la fruizione dell’opera d’arte scultorea 259 e ripreso<br />

anche nel seco<strong>lo</strong> successivo da Hildebrand 260 .<br />

D’altra parte, quel<strong>lo</strong> della statua senziente fu,<br />

nel Settecento, un argomento dibattuto a diversi<br />

livelli, con implicazioni e rimandi anche fi<strong>lo</strong>sofici,<br />

come nel caso del convitato di pietra nel celeberrimo<br />

Don Giovanni 261 , né va dimenticato che, proprio in<br />

quel periodo, come conseguenza del<strong>lo</strong> sviluppo<br />

dell’oro<strong>lo</strong>geria, furono inventati i primi automi di cui<br />

si hanno notizie certe e se ne diffuse a dismisura il<br />

mito anche in altri campi 262 .<br />

Tutto il XVIII seco<strong>lo</strong>, poi, fu percorso dal<br />

mito di Pigmalione, motivo che fu presente in vari<br />

racconti fi<strong>lo</strong>sofici ed in opere musicali, da Rameau<br />

(1748) a Rousseau (1762).<br />

Fu, inoltre, argomento trattato in scultura.<br />

Nel 1763 Falconet espose al Sa<strong>lo</strong>n un gruppo<br />

che raffigurava questo soggetto. Il successo riscosso<br />

fu notevole; <strong>Di</strong>derot si espresse in proposito con<br />

toni decisamente ammirati:<br />

Étienne Maurice Falconet, Pigmalione, San Pietroburgo,<br />

Ermitage, in http://www.wga.hu/htmlf /falconet/pygmalio.html,<br />

2010-03-30.<br />

O la chose précieuse que ce petit groupe de Falconet! [...] Non, ne c’est pas du marbre;<br />

appuyez-y votre doigt, et la matière qui a perdu sa dureté cédera à votre impression [...].<br />

O Falconet! Comment as-tu fait pour mettre dans un morceau de pierre blanche la surprise, la<br />

joie et l’amour fondus ensemble? Èmule des dieux, s’ils ont animé la statue, tu en as renouvé le<br />

miracle en animant le statuaire 263 .<br />

257 Cfr. E.B. DE CONDILLAC, Avvertenza importante al lettore, in Traité…. Anche Herder sosteneva <strong>lo</strong> stesso concetto sugli<br />

animali che non hanno, come l’uomo, la mano «che afferra e tocca». J.G. HERDER, Plastica…, p. 42.<br />

258 Cfr. ibid.<br />

259 A. VON HILDEBRAND, Il problema della forma, ed. a cura di S. Samek Ludovici, Tea, Milano 1996; si veda anche l’edizione<br />

a cura di A. Pinotti, F. Scrivano, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2001.<br />

260 Riconoscere la necessità del movimento testimonia l’importanza data alla prassi, l’agire.<br />

261 Cfr. L. BRAMANI, Mozart massone e rivoluzionario, Milano 2005, pp 137 e segg.<br />

262 Nell’Ottocento il tema dell’automa sarebbe stato rivestito da connotazioni più sinistre; si veda, ad esempio, L’uomo<br />

della sabbia (1815) di Hoffmann, da cui fu tratta la fortunata opera lirica di Offenbach, I racconti di Hoffmann, notissima per il<br />

personaggio dell’automa. Anche Heinrich von Kleist, in Caterina di Heilbronn (1810), raffigurava un automa, apparentemente una<br />

donna bellissima che poi si rivela un essere orrendo. Questo fi<strong>lo</strong>ne di opere, nel corso del seco<strong>lo</strong>, evidenziò gli aspetti della<br />

moderna tecno<strong>lo</strong>gia, vissuta in modo snaturalizzante, contrario all’entusiasmo che, nel seco<strong>lo</strong> precedente, aveva salutato ogni<br />

nuova scoperta scientifica e tecno<strong>lo</strong>gica.<br />

263 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1763, in Id., Oeuvres completes..., vol. X, p. 221.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Proprio a <strong>Di</strong>derot si deve un’opera ascrivibile all’insieme degli scritti sulle modalità della<br />

conoscenza in soggetti ciechi. In questo contesto, egli prese in esame il concetto di bel<strong>lo</strong> ed il<br />

modo in cui esso poteva essere fatto proprio da chi non poteva vedere 264 .<br />

La Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voyent 265<br />

di <strong>Di</strong>derot, prende spunto dalla conversazione tra un<br />

pastore e un cieco morente 266 per verificare la teoria<br />

sensistica che subordina le idee alle sensazioni.<br />

Come può, un cieco, giungere al concetto del bel<strong>lo</strong>?<br />

«A forza di studiare, col tatto, la coesione che<br />

esigiamo tra le parti di un tutto per definir<strong>lo</strong> ‘bel<strong>lo</strong>’,<br />

un cieco riesce ad applicare giustamente questo concetto.<br />

Ma quando dice: questo è bel<strong>lo</strong>, non giudica; riferisce<br />

soltanto il giudizio di chi vede: e cosa fanno d’altro i<br />

tre quarti delle persone che, ascoltata una commedia<br />

o letto un libro, ne danno giudizi? Per un cieco, la<br />

bellezza, separata dall’utilità è soltanto una parola e,<br />

con un organo in meno, quante cose la cui utilità gli<br />

sfugge!» 267 .<br />

D. <strong>Di</strong>derot, Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient,<br />

Londra 1749, in http://books.google.it/books?id=W3oHA-<br />

AAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=intitle:aveugles+inau<br />

thor:diderot&lr=&as_drrb_is=q&as_minm_is=0&as_miny_i<br />

s=&as_maxm_is=0&as_maxy_is=&as_brr=0&cd=4#v=onepage&q&f=false,<br />

2010-04-20.<br />

Lungo l’opera di <strong>Di</strong>derot si snodava una sorta di teoria della conoscenza attraverso il<br />

tatto, che veniva riconosciuto un senso autonomo 268 . Suo intento era dimostrare che i sensi<br />

potevano, talvolta, permettere la conoscenza anche senza essere messi in relazione tra <strong>lo</strong>ro 269 .<br />

Lo stesso concetto era esposto da Herder, che sosteneva che la conoscenza è generata dal<br />

tatto 270 : «La vista è sogno, il tatto verità» 271 .<br />

264 Hogarth, più tardi, si sarebbe espresso in merito alla questione in questi termini: «forse un cieco nato col suo tatto<br />

miglior di quel<strong>lo</strong> che comunemente hanno gl’illuminati [...] può a forza di quel<strong>lo</strong> rilevare la natura delle forme in maniera da dare<br />

un giudizio mediocre di quel ch’è bel<strong>lo</strong> alla vista». W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 94.<br />

265 D. DIDEROT, Lettera sui ciechi per l’uso di co<strong>lo</strong>ro che vedono, (1749), in Id., Opere fi<strong>lo</strong>sofiche, a cura di P. Rossi, Milano 1967.<br />

266 Ibid., p. 89. Il cieco in questione era Nicolas Saunderson, un professore di matematica cieco dall’età di un anno.<br />

Il dia<strong>lo</strong>go col confessore è immaginario: fu la causa del<strong>lo</strong> scanda<strong>lo</strong> suscitato dall’opera, in quanto Saunderson, morente, diceva al<br />

religioso che cercava di convertir<strong>lo</strong> che avrebbe creduto nell’esistenza di <strong>Di</strong>o so<strong>lo</strong> se avesse potuto toccar<strong>lo</strong>.<br />

267 Ibid., p. 64.<br />

268 Ibid., p. 67 : «Qualcuno di noi pensò di chiedere al nostro cieco se sarebbe stato contento di avere gli occhi. ‘Se non fosse<br />

per la curiosità’, rispose, ‘mi piacerebbe altrettanto avere lunghe braccia: penso che, per sapere ciò che accade sulla luna, le mani<br />

mi sarebbero più utili dei vostri occhi o dei vostri telescopi; e inoltre è più facile che gli occhi cessino di vedere che le mani di<br />

toccare. Quindi, il perfezionamento dell’organo che ho varrebbe quanto il dono di quel<strong>lo</strong> che mi manca’».<br />

269 «Noi ci serviamo grandemente della cooperazione tra organi e sensi. Ma sarebbe tutt’altra cosa ancora esercitarli<br />

separatamente, e non impiegarne mai due nei casi in cui ci basterebbe l’aiuto di uno so<strong>lo</strong>». Ibid., p. 69.<br />

270 Herder sosteneva che la conoscenza, nei bambini, è originata dal tatto: «Si vada nella stanza dei giochi del bambino,<br />

e si guardi come [...] prende, coglie, afferra, pesa, palpa, misura con mani e piedi, per procurarsi così in modo certo e sicuro i primi<br />

difficili e necessari concetti di corpi, figure, grandezza, spazio, distanza, etc. Parole e dottrina non potrebbero darglieli; soltanto<br />

l’esperienza, il tentativo, la prova». J.G. HERDER, Plastica…, p. 42.<br />

271 Ibid., p. 43.<br />

81


82<br />

Roberta Cinà<br />

Lo stesso concetto era stato espresso dieci anni prima da Frans Hemsterhuis, che aveva<br />

riflettuto sulle possibilità conoscitive tramite l’esperienza tattile 272 , ma già prima Hogarth aveva<br />

scritto: «l’occhio generalmente dà il suo assenso a quel tale spazio e distanze che sono state prima<br />

misurate dal tatto, o altrimenti calcolate nella mente; le quali misure e calcoli egualmente sono,<br />

se non più, in poter di un cieco, come <strong>lo</strong> provò ampiamente quell’incomparabile Matematico, e<br />

maraviglia del suo seco<strong>lo</strong>, l’ultimo professore Sanderson» 273 .<br />

Per Hemsterhuis il tatto, come senso attraverso cui si può fruire dell’opera scultorea, risultava<br />

superiore alla vista e fonte di più certa conoscenza 274 . Si è già ricordato come, a suo avviso,<br />

la scultura era l’espressione artistica che, proprio in virtù della tridimensionalità, meglio di<br />

ogni altra riusciva ad imitare la natura 275 . Infatti, «per l’imitazione perfetta [...] occorre l’imitazione<br />

di tutti i contorni: ciò non è di pertinenza che della scultura» 276 . La scultura a tutto tondo<br />

«rappresenta perfettamente ciò che vuole rappresentare, rappresentando l’intero contorno e tutta<br />

la solidità del soggetto. Soddisfa contemporaneamente due sensi: il tatto e la vista» 277 .<br />

Il tatto e la vista, dunque, erano chiamati in causa con pari importanza nel momento della<br />

fruizione dell’opera scultorea ma già Dandré-Bardon aveva evidenziato il va<strong>lo</strong>re dell’esperienza<br />

tattile per la scultura addirittura nel suo farsi: «Cent fois la main, réunissant la double sensation<br />

de la vüe et du tact, juge si les épaisseur de terre qu’elle place sur le modéle répondent aux<br />

formes et aux souplesses que présente la Nature» 278 .<br />

Sarebbe stato Herder, però, ad attribuire al tatto una funzione preminente nell’ambito<br />

della fruizione della scultura. Egli circoscrisse rigorosamente il campo della sua indagine «a due<br />

sensi soltanto, e all’unico concetto della medesima bellezza. […] La bellezza prende il suo nome<br />

da guardare 279 , da parvenza, ed essa viene riconosciuta ed apprezzata nel modo più facile per<br />

mezzo del<strong>lo</strong> sguardo, della bella parvenza» 280 . Il senso della vista era definito quel<strong>lo</strong> più artificiale<br />

e fi<strong>lo</strong>sofico ma, proseguiva Herder, «esso non ci darebbe tutto, e meno di ogni altra cosa ciò che<br />

è più elementare, semplice, primo [...] agisce in modo piatto [...] gioca e scivola sulla superficie<br />

con immagine e co<strong>lo</strong>re [...] prende a prestito e costruisce a partire dagli altri sensi; i <strong>lo</strong>ro concetti<br />

ausiliari saranno per lui fondamenti, che non fa altro che avvolgere di luce» 281 .<br />

272 F. Hemsterhuis, Lettera sulla scultura..., p. 29: «grazie all’uso prolungato e all’aiuto contemporaneo di tutti i nostri sensi<br />

siamo arrivati, in qualche maniera, utilizzando uno so<strong>lo</strong> dei nostri sensi, a distinguere essenzialmente gli oggetti gli uni dagli<br />

altri».<br />

273 W. Hogarth, L’analisi della bellezza..., p. 105.<br />

274 F. Hemsterhuis, Lettera sulla scultura..., p. 38: «Ora, pare che il tatto sia stato perfezionato prima, e di conseguenza ci si<br />

è dovuti servire molto prima, per le imitazioni, delle idee che ci provengono dal tatto che di quelle che ci provengono dalla vista».<br />

275 Hemsterhuis attribuiva alla tridimensionalità della rappresentazione scultorea l’anteriorità della nascita della<br />

scultura rispetto a quella della pittura.<br />

276 Cfr. F. Hemsterhuis, Lettera..., p. 31.<br />

277 F. Hemsterhuis, Lettera..., p. 44.<br />

278 Dandrè-Bardon, Essai sur la sculpture..., p. 78.<br />

279 Tale asserzione era dovuta al fatto che l’autore sovrainterpretava l’etimo<strong>lo</strong>gia tedesca. Cfr. la nota di G. Maragliano<br />

in Ibid., p.110.<br />

280 Ibid., p. 45.<br />

281 Ibid.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Quest’insieme di considerazioni portava Herder alla conclusione che la vista non fosse il<br />

senso al quale affidare la fruizione delle opere scultoree:<br />

Nessuno ha mai messo in dubbio che le statue siano visibili; ma è possibile determinare<br />

in modo originario a partire dalla vista cos’è la forma bella? […] <strong>Io</strong> non posso apprendere <strong>lo</strong> spazio,<br />

l’ango<strong>lo</strong>, la forma, la rotondità come tali nella <strong>lo</strong>ro verità corporea per mezzo della vista; per non<br />

parlare dell’essenza di quest’arte, la bella forma, bella configurazione, che non è co<strong>lo</strong>re, gioco di<br />

proporzioni, di simmetria, della luce e dell’ombra, bensì verità tangibile, resa presente. La bella<br />

linea 282 che qui muta incessantemente il suo corso, non è mai interrotta con violenza, mai contorta,<br />

essa si avvolge con fasto e bellezza attorno al corpo, e mai posando, sempre librandosi forma il<br />

getto, la pienezza, la delicatamente sfumata, incantevole corporeità, che non sa nulla di superficie,<br />

di angoli e di spigoli; tale linea non può diventare superficie visiva, tavola e incisione, anzi lì essa<br />

trova la sua fine. La vista distrugge la statua bella piuttosto che crearla, la trasforma in angoli e<br />

superfici [...] è impossibile quindi che essa sia madre della nostra arte 283 .<br />

La scultura, al<strong>lo</strong>ra, avrebbe dovuto necessariamente essere fruita attraverso un altro senso,<br />

il tatto, o meglio essere guardata attraverso esso. A questo punto Herder è fortemente evocativo:<br />

Guardate quell’amatore che sprofondato in sé cammina vacillando attorno ad una statua.<br />

Cosa non fa per rendere la sua vista come il tatto, per guardare come se andasse a tentoni nel<br />

buio? Egli scivola da un luogo all’altro, cerca quiete e non la trova, non ha alcun punto di vista,<br />

come per un quadro, poiché mille non gli bastano, poiché appena vi è punto di vista radicato il<br />

vivente diviene tavola, e la bella rotonda figura viene smembrata in misero poligono. Per questo<br />

egli scivola da un luogo all’altro, il suo occhio diviene mano, il raggio di luce dito, o piuttosto è<br />

la sua anima ad avere un dito molto più efficace della mano e del raggio di luce per comprendere<br />

in sé la forma che proviene dal braccio e dall’anima dell’artefice. La possiede! L’illusione è riuscita,<br />

vive, e l’anima sente che vive; ed ora parla, ma non come se vedesse, come se toccasse, sentisse284 .<br />

L’esperienza tattile quindi portava ad una particolare modalità di conoscenza dell’opera<br />

scultorea: ciò non avveniva, naturalmente, per la pittura. Poiché si trattava di due tipi di imitazione<br />

estremamente diversi, Herder riteneva che anche gli oggetti rappresentati non dovessero<br />

essere gli stessi e soprattutto che la scultura dovesse astenersi dalla raffigurazione del brutto285 :<br />

282 In questo passo è riscontrabile l’eco del pensiero hogarthiano.<br />

283 Ibid., p. 46.<br />

284 Ibid. Si è già notato che erano stati accennati nel Cinquecento alcuni motivi sulla scultura come arte fruibile nella sua<br />

tridimensionalità e Bronzino appunto, riportando i pareri dei sostenitori di questa arte, scriveva: «dicono che molto è più bel<strong>lo</strong><br />

e dilettevole trovare in una sola figura tutte le parti che sono in uno uomo o donna o altro animale, come il viso, il petto e l’altre<br />

parte dinanzi, e volgendosi trovare il fianco e le braccia e quel<strong>lo</strong> che l’accompagna, e così di dietro le schiene, e vedere corrispondere<br />

le parti dinansi a quelle dallato e di dietro, e vedere come i muscoli cominciano e come finiscano, e godersi molte belle concordanzie,<br />

et insomma girandosi intorno ad una figura avere intero contento di vederla per tutto; e per questo essere di più diletto che la pittura».<br />

In P. Barocchi, Scritti d’arte..., tomo I, p. 501. Cfr. E. AGAZZI, Il corpo conteso. Rito e gestualità nella Germania del Settecento, Jaca Book, Milano 1999.<br />

285 Anche Cicognara, in seguito, avrebbe esposto questo concetto; a proposito di un bassorilievo del Sansovino scrisse<br />

infatti: «Rappresenta esso la giovinetta affogata in una fossa paludosa del contado di Padova, e dal Santo ritornata in vita [...]. Egli<br />

è vero che nell’imitazione di simili oggetti l’artista presenta un quadro tolto alla natura, e che s’incontrano in questa tutte le<br />

forme, le età, le brutture, ma è altresì indubitato e riconosciuto che tocca all’artista il far tali scelte nell’imitazione che per queste si<br />

elimini dal soggetto ogni sconcia o disgradevole rappresentanza, temperandola, ove richieggasi, con tutti quei sussidj che il bel<strong>lo</strong><br />

ideale può suggerir senza tradir la natura. In questo soggetto [...] campeggia nel mezzo una vecchia rugosa e servilmente imitata<br />

da una mal scelta natura [...] cose tutte che portano nelle opere di scultura un manierato, un caricato che non riscontrasi in quelle<br />

degli antichi [...] e da cui, se non rifugge talvolta il pennel<strong>lo</strong>, si ricusano però sempre i marmi destinati a più nobili rappresentazioni,<br />

e a portare più durevolmente alla posterità la storia degli avvenimenti disgiunta da tutto ciò che, non servendo a renderne<br />

più chiara l’intelligenza, potesse essere in qualche modo spiacevole o ingrato». L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol.. V, p. 272.<br />

83


84<br />

Roberta Cinà<br />

«Sino a che punto la scultura può dar forma a ciò che è brutto e la pittura raffigurar<strong>lo</strong>?<br />

Risposta. Sin dove i sensi <strong>lo</strong> permettono, la vista per la pittura e il tatto per la scultura.<br />

Le due arti tuttavia non riposano sul medesimo fondamento» 286 .<br />

L’autore citava l’esempio della raffigurazione di un cadavere:<br />

Quel pittore che dipinse un cadavere in decomposizione da costringere <strong>lo</strong> spettatore<br />

a turarsi il naso [...] è certo un artista disgustoso. Ma <strong>lo</strong> scultore che offrì al nostro sentimento<br />

del tatto il ripugnante cibo per vermi di un cadavere, in modo da far<strong>lo</strong> penetrare in noi e<br />

dilaniarci, ungendoci di pus e di ribrezzo, non ho nome per questo carnefice del nostro piacere.<br />

Là posso volgere <strong>lo</strong> sguardo altrove e ricrearmi in altri oggetti, qui devo farmi strada con la<br />

lentezza di un cieco, così che tutta la mia carne e le mie ossa ne son rose, e la morte passa con<br />

un brivido nei miei nervi! [...]Gli antichi evitavano il brutto lì dove <strong>lo</strong> si deve evitare, nei corpi<br />

degli uomini e degli dei. Lessing e Winckelmann hanno dato sufficienti prove di come gli<br />

antichi evitassero per quanto possibile la deformità anche negli affetti, nella sofferenza, nelle<br />

dissonanze 287 .<br />

Gli autori citati da Herder avevano effettivamente dichiarato che le arti figurative<br />

dovevano astenersi dal raffigurare oggetti raccapriccianti. Oltre al già ricordato passo di<br />

Winckelmann, va ricordato un brano di Lessing: «si immagini di spalancare al Laocoonte la<br />

bocca, e si giudichi. Lo si faccia gridare, e si osservi. Era una figura che suscitava compassione,<br />

perché esprimeva insieme bellezza e do<strong>lo</strong>re; adesso è divenuta so<strong>lo</strong> una brutta, ripugnante<br />

figura dalla quale volentieri si volge <strong>lo</strong> sguardo, perché la vista del do<strong>lo</strong>re suscita dispiacere senza<br />

che nel contempo la bellezza dell’oggetto sofferente riesca a tramutare questo dispiacere nel<br />

dolce sentimento della compassione. La sola ampia apertura della bocca [...] nella pittura è una<br />

macchia e nella scultura un incavo che fa l’effetto più sgradevole del mondo» 288 .<br />

Schelling attribuiva alla «naturale diversità delle due forme d’arte figurativa» 289 il fatto che<br />

la scultura dovesse astenersi dal rappresentare la sofferenza. La rappresentazione scultorea della<br />

sofferenza e del brutto andava insomma evitata; Herder ribadiva il concetto anche alla luce<br />

dell’eternità della scultura, che avrebbe tramandato ai posteri «la bruttezza delle forme […]<br />

recando danno alle generazioni future» 290 .<br />

Dall’idea della perennità delle statue derivava anche il concetto che esse non dovessero<br />

rappresentare gli abiti di tempi e paesi diversi, il che era invece concesso alla pittura. Herder<br />

scriveva:<br />

286 J.G. HERDER, Plastica..., p. 60.<br />

287 Ibid., p. 62.<br />

288 G.E. LESSING, Laocoonte..., p. 30.<br />

289 F. SCHELLING, Le arti figurative..., p. 64. Così l’autore proseguiva spiegando i motivi delle differenze tra le due forme artistiche:<br />

«Infatti per la plastica, che rappresenta le sue idee per mezzo di oggetti materiali, il fine supremo sembra dover consistere<br />

proprio nel perfetto equilibrio tra anima e materia; se si dà una certa prevalenza a quest’ultima, essa scende al di sotto<br />

dell’idea che le è propria; ma sembra del tutto impossibile che essa innalzi l’anima a detrimento della materia, poiché per far ciò<br />

dovrebbe superare se stessa».<br />

290 J. G. HERDER, Plastica..., p. 62.


La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />

Le forme della scultura sono tanto costanti ed eterne quanto <strong>lo</strong> è la semplice pura<br />

natura dell’uomo, le figure della pittura, che sono una tavola del tempo, si succedono seguendo<br />

la storia, la specie umana e l’epoca. Se un intero paese trova belli i corsetti affusolati e i piedini<br />

cinesi […], mettete pure i piedi sul piedistal<strong>lo</strong> come una statua, e, se volete, le scarpe strette con<br />

i tacchi a trampoliere, ed ogni commento sarà superfluo. Lo stesso vale per il corsetto affusolato<br />

e i seni premuti verso l’alto e l’acconciatura a torre e la gonna ampia come una tenda. Nella vita<br />

comune simili artifici possono contribuire a migliorare l’aspetto in qualcosa [...] Un viso<br />

picco<strong>lo</strong> può diventare piacevole sotto l’alta acconciatura a torre, e <strong>lo</strong> stesso vale per il seno al di<br />

sopra di un torso a imbuto, o per il piede picco<strong>lo</strong> sotto l’ampia gonna a campana; tali cose [...]<br />

possono risvegliare l’immaginazione in modo da farla guizzare verso l’alto o verso il basso, ed è<br />

questo spesso l’unico fine ed intenzione del tutto. Osservate adesso la figura intera come fosse<br />

una statua, con la sua torre, tenda e cono rovesciato, e ora certo l’immaginazione non scivola più.<br />

È una cosa brutta, contro natura, fatta di lascivia e gotica costrizione, che sfigura il corpo<br />

e annienta qualsiasi buona forma291 .<br />

Che la scultura non dovesse riprodurre abiti moderni fu enunciato anche da Cicognara,<br />

che criticò la raffigurazione delle vesti nelle sculture moderne, individuando questa pratica come<br />

una della cause della decadenza barocca292 . Egli infatti asseriva che tutte le arti imitative<br />

hanno pur sempre i <strong>lo</strong>ro canoni separati e le <strong>lo</strong>ro forme convenienti, per quanto il fondo<br />

primitivo possa esser <strong>lo</strong> stesso. Nell’opposto difetto al contrario cadrebbe l’arte della pittura<br />

ove si prefiggesse i modi della statuaria. Ma peggiore fu l’effetto che doveva produrre per questa<br />

violazion di confine l’arte del<strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong>, poiché più reale e sensibile diviene quel difetto che si<br />

vede e si tocca per ogni parte, che l’altro il quale presentasi dal lato meno sfavorevole su d’una<br />

superficie soltanto; cosicché gli svolazzi dei capelli e dei panni, e le smorfie affettate d’una statua<br />

la fanno parere non so<strong>lo</strong> cattiva dal lato migliore, ma la rendono insopportabile dagli altri lati<br />

ne’ quali <strong>lo</strong> spettator la riguarda, assomigliando a una pesante scogliera tutto ciò che s’intende<br />

dover graziosamente e leggiermente vestirla 293 .<br />

Fu, insomma, la tridimensionalità della scultura a differenziarla significativamente dalla pittura 294 ,<br />

portando a una piena rivalutazione della statua, alla quale veniva infine riconosciuta «la<br />

possibilità di creare con la sua presenza materica, la sua luce, il suo spazio» 295 .<br />

291 Ibid., p. 63.<br />

292 Egli addebitò la decadenza della scultura nel periodo barocco all’aver raffigurato abiti ed acconciature di pessimo<br />

gusto: «<strong>Di</strong>vennero quindi le forme de’ vestimenti ancora più disgraziate, e infelici quei monumenti che ne conservarono in rilievo<br />

le miserabili caricature incompatibili coll’arte del<strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong> [...] nulla ridusse a peggior condizione l’arte della scultura, quanto<br />

il voler trattare nei marmi i soggetti convenienti al pennel<strong>lo</strong>, e comporre, e panneggiare le figure nel<strong>lo</strong> stesso modo che appartiene<br />

di far<strong>lo</strong> al pittore; la qual cosa alterò tutti i principi dell’arte del<strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong>. S’abbandonò l’imitazion del<strong>lo</strong> antico, non si osservò<br />

più la natura, e si composero i modelli affettati e panneggiati grottescamente nella stessa forma tanto per i pittori che per gli<br />

scultori. Nessuno più riconobbe la circoscrizione delle proprie discipline». L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. VI, pp. 30-33.<br />

Concetti come questo sarebbero stati presenti fino al 1847 in P. SELVATICO, Sulla Architettura e sulla Scultura..., p. 438: «Lo scalpel<strong>lo</strong>,<br />

divenuto imitatore della pittura barocca, ebbe per conseguenza di quella soltanto i difetti, senza nessuno dei pregi; e le statue<br />

disposte, come diceasi al<strong>lo</strong>ra, alla pittoresca, se guardate da un punto pareano ancora sopportabili, viste da un altro opposto<br />

somigliavano a scogli od a bernoccoli informi per quei tanti <strong>lo</strong>ro svolazzi, e quelle pieghe strampalatissime».<br />

293 L. CICOGNARA, Storia della scultura...cit., vol. VI, cap. I, pag. 33.<br />

294 Ben <strong>lo</strong> si evince dalle parole di Herder: «La statua non è esposta alla luce, ma crea la sua luce; non è nel<strong>lo</strong> spazio, ma<br />

crea il proprio spazio. <strong>Di</strong> conseguenza non la si dovrebbe nemmeno paragonare alla pittura, che dipinge sulla superficie, su di una<br />

tavola luminosa data, che l’occhio abbraccia per intero, e a partire da un so<strong>lo</strong> punto di vista». J.G. HERDER, Plastica..., p. 96.<br />

Ana<strong>lo</strong>ghi concetti avrebbe esposto Schelling: «l’arte plastica, nel senso più preciso del termine, si rifiuta di dare al proprio oggetto<br />

<strong>lo</strong> spazio dell’esterno: esso <strong>lo</strong> porta in sé. Ma proprio questo le impedisce una maggiore estensione [...] Al contrario, la pittura può<br />

misurarsi col mondo in dimensione più ampia». F. SCHELLING, Le arti figurative..., p. 57.<br />

295 S. LA BARBERA, Il Paragone delle Arti..., p. 130.<br />

85


ACCENTI NAZIONALISTICI NEGLI SCRITTI D’ARTE SU PERIODICO: 1914-1920.<br />

UNA CAMPIONATURA *<br />

MARTA NEZZO<br />

So<strong>lo</strong> di recente, da noi, gli studi vengono accentrando l’attenzione sull’intimo nesso che<br />

talune attitudini nazionalistiche della critica d’arte, evidenti fra 1920 e 1945, hanno con le spinte<br />

politiche fornite dalla prima guerra mondiale. Le indicazioni della storiografia hanno semmai<br />

riconnesso spunti e intenti al più vago sentire patriottico d’impostazione ottocentesca. Vuoi perché,<br />

relativamente ai primi anni Venti, accenti identitari di natura più benigna sono ad alcuni parsi<br />

prevalenti, vuoi perché, guardando agli sviluppi nei Trenta, le implicazioni fasciste e naziste<br />

hanno imposto più gravi considerazioni.<br />

Tuttavia, di fatto, l’imprinting ideo<strong>lo</strong>gico della Grande Guerra ha avuto, nell’Italia del Ventennio,<br />

un riflesso di lunga durata che individuerei nella critica dell’arte contemporanea e poi nella<br />

teoria, pratica e divulgazione della tutela. Si tratta però di esiti di natura mistilinea, ove le pulsioni<br />

scioviniste si presentano sovrapposte e ta<strong>lo</strong>ra confuse a questioni pianamente identitarie,<br />

tradendo appena la propria origine traumatica.<br />

Fra gli esempi del caso potremmo citare il sorvegliato ita<strong>lo</strong>centrismo di alcune riviste, peraltro<br />

aperte a contributi internazionali, come “Deda<strong>lo</strong>” o “L’Esame” (nate rispettivamente nel 1920<br />

e nel 1922); più aderente a un sobrio senso di patria parrebbe, al primo sguardo, l’evoluzione<br />

costante delle politiche di tutela, nondimeno sfociate nelle imprese legislative fasciste e<br />

fortemente nazionaliste di Giuseppe Bottai 1 .<br />

* Il testo che qui presento in versione annotata, è stato esposto oralmente alla Journée d’études La Nation. Enjeu de l’histoire de l’art<br />

en Europe 1900-1950, Paris, Institut National d’Histoire de l’art, 18 novembre 2008.<br />

1 La legge 1039/1 giugno 1939, elaborata a partire dal 1937 e giustamente celebre, procederà in paralle<strong>lo</strong> con le trattative<br />

internazionali, avviate dall’Office International des Musées (della SDN), per ottenere una convenzione di protezione del patrimonio<br />

storico-artistico in caso di guerra. Esaminando i pronunciamenti di Bottai in merito, le pesanti ipoteche ideo<strong>lo</strong>giche su natura,<br />

significato e prassi della tutela nostrana, si fanno evidenti. Rinvio in merito a G. BOTTAI, La Protection des chefs-d’oeuvre de l’esprit, “Nouvelles<br />

Littéraires”, 12 febbraio 1938, p. 8 e La Tutela delle opere d’arte in tempo di guerra, “Bollettino d’arte”, XXXI, s. III, X, aprile 1938, pp. 429-430,<br />

ora in G. BOTTAI, La politica delle arti. Scritti 1918-1943, a c. di A. MASI, Editalia, Roma 1992, pp. 141-143. Per approfondire le questioni<br />

legislative resta fondamentale V. CAZZATO (a c. di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Istituto poligrafico e<br />

Zecca del<strong>lo</strong> Stato, Roma 2001, 2 voll. Per qualche cenno sulla posizione dell’Italia rispetto alla politica preventiva dell’OIM,<br />

potrà essere utile M. NEZZO, “Praeterea Archiva, Bibliothecae, Musea, Pinacothecae ac praestantissima cuiusvis Artis opera in Domo nostra<br />

asylum ac tutamen habuerunt” (2008), in L’Abbazia di Santa Maria di Praglia, Abbazia di Praglia, in corso di pubblicazione.


88<br />

Marta Nezzo<br />

E del resto è ovvio che, nella codificazione e assimilazione culturale di una giovane<br />

Unità, la nostra, gli spunti siano stati eterogenei e non sempre positivi, tanto più se<br />

consideriamo che il processo unitario medesimo si è compiuto, in Italia, non con una<br />

rivoluzione sociale o un’ultima sollevazione contro il servaggio, ma nel crogiuo<strong>lo</strong><br />

europeo della guerra. Un’occasione sproporzionata, dove il nazionalismo attivato<br />

contro il nemico non poté prescindere dal nazionalismo necessario ad accreditarsi<br />

presso gli alleati e da quel<strong>lo</strong> per animare e compattare il fronte interno. Il che avvenne in<br />

un momento assai complesso: da un lato, per la storiografia di settore, il cui model<strong>lo</strong><br />

corrente, positivista e venturiano, s’affacciava alla crisi metodo<strong>lo</strong>gica indotta dalle teorie formaliste e<br />

dalla fi<strong>lo</strong>sofia crociana; dall’altro, per il sistema stesso delle arti e in particolare per la recente<br />

revisione legislativa dei meccanismi di tutela, con l’istituzione delle soprintendenze, l’avvio della<br />

cata<strong>lo</strong>gazione, il freno alle esportazioni.<br />

È dunque alla ricerca di spunti ibridi, colti al <strong>lo</strong>ro primo germogliare, che mi<br />

muoverò qui, attraverso una modesta ma significativa campionatura di riviste, limitata<br />

al tempo di guerra. Gli estremi crono<strong>lo</strong>gici fissati sono infatti il 1914 – per l’Italia<br />

coincidente con la campagna interventista – e quel 1920 che vede il ripristino della<br />

normalità, fra ritorno delle opere ricoverate fuori sede e nuovi input alla stampa<br />

specializzata. La mia scelta, decisamente ristretta, cade su tre periodici, eterogenei<br />

per natura e target, da cui ho selezionato gli articoli palesemente compromessi, nel<br />

tema o nel metodo, con i riflessi ideo<strong>lo</strong>gici del conflitto.<br />

Per primo viene l’organo a stampa del Ministero della Pubblica Istruzione, il<br />

“Bollettino d’arte”, che, col relativo “Supplemento” di “Cronaca delle belle arti”,<br />

segue dal 1907 le attività delle Soprintendenze e pubblica le novità più interessanti 2 ;<br />

ho poi vagliato “L’Arte”, di Adolfo Venturi, dal 1898 erede del nobile “Archivio<br />

storico dell’arte”, dedicata agli studi dal Medioevo al Settecento (con estreme propaggini<br />

ottocentiste) e di prestigio scientifico massimo 3 ; infine presento un affondo su<br />

“Pagine d’arte”, fervido foglio di attenzione all’attualità 4 e, dal 1914, supplemento<br />

informativo alla “Rassegna d’arte Antica e moderna” di Guido Cagnola e Francesco<br />

Malaguzzi Valeri 5 .<br />

2 Per una ricognizione generale sul periodico rinvio a R. IMPERA, Il “Bollettino d’arte”, 1907-1919, in Riviste d’arte fra Ottocento ed età<br />

contemporanea. Forme, modelli, funzioni, Atti del convegno, Torino 3-5 ottobre 2002, a cura di G.C. Sciolla, Skira, Milano 2003, pp. 123-138.<br />

3 La bibliografia su Venturi e le sue riviste è cospicua. Mi limito a indicare un punto di riferimento recente in G. C.<br />

SCIOLLA, Il ruo<strong>lo</strong> delle riviste di Adolfo Venturi, in Adolfo Venturi e la Storia dell’arte oggi, Atti del convegno, Roma 25-28 ottobre 2006, a<br />

cura di M. D’Onofrio, Panini, Modena 2008, pp. 2008, pp. 231-236.<br />

4 In merito si veda M. NEZZO, “Pagine d’arte”, 1913-1919, in Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea ..., 2003, pp. 139-163.<br />

5 Sulle precedenti stagioni di “Rassegna d’arte”, segna<strong>lo</strong> A. ROVETTA, Gli esordi della “Rassegna d’arte”, Milano 1901-1907,<br />

in Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea ..., 2003, pp. 101-122; ID., La “Rassegna d’arte” di Guido Cagnola e Francesco<br />

Malaguzzi Valeri (1908-1914), in Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, Atti del Convegno,<br />

Milano 30 novembre-1 dicembre 2006, a cura di R. Cioffi e A. Rovetta, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 281-316.


Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

Segna<strong>lo</strong> sin d’ora che la mia lettura si muove sul registro corale. Cioè, pur profittando di singole<br />

voci, mira a focalizzare il trend critico di ciascuno dei periodici selezionati e del relativo milieu, così<br />

da rendere non una visione individua ma una temperatura ambientale. Inoltre largo spazio lascerò<br />

all’argomento e silentio, nel costante sforzo di sottolineare l’importanza di talune e<strong>lo</strong>quenti<br />

astensioni argomentative.<br />

Ad esempio, per quanto riguarda il 1914 e la campagna interventista, il “Bollettino d’arte” e<br />

il suo supplemento non ne recano traccia. È invece interessante notare che, ancor prima che le<br />

ostilità accendano l’Europa, esso percorre i temi dell’Italia co<strong>lo</strong>niale, ovviamente sub specie<br />

archeo<strong>lo</strong>gica. La rivista infatti, cui il profi<strong>lo</strong> istituzionale impone precisi doveri informativi,<br />

descrive gli scavi effettuati nella recentemente acquisita Tripolitania 6 , facendo particolare attenzione<br />

a relegare in cronaca il delicato passaggio fra l’attività di ricerca degli italiani ospiti e quella degli<br />

italiani occupanti 7 . Nel dichiarare che “era primo compito della nazione erede di Roma rimettere<br />

in stato decoroso l’arco di Marco Aurelio, e raccogliere le varie antichità che, pur fra la noncuranza<br />

turca, erano disperse per Tripoli e nei dintorni” 8 , attiva blandamente il vecchio codice<br />

nazional-patriottico focalizzato sul mito dell’Urbe (nostra unica vera ipostatizzazione<br />

ideo<strong>lo</strong>gico-identitaria da Piranesi in qua), contaminando<strong>lo</strong> però con un più attuale ed entrante<br />

concetto: la conservazione. Il fatto che la rivendicata romanità si inveri nella tutela rinvia alla<br />

recente approvazione della legge Rosadi per le Antichità e Belle Arti, datata 1909 e prova<br />

manifesta di avanzamento civile dell’Italia. Ed è questo speciale progresso che il supplemento del<br />

“Bollettino” sembra voler ribadire, tornando con ritmo cadenzato, nei mesi seguenti, sui Servizi<br />

archeo<strong>lo</strong>gici in Libia 9 .<br />

In questo precedente potremmo ravvisare emblematicamente il bilanciamento del rapporto<br />

autocoscienza-nazionalismo a monte della guerra: da un lato la recente creazione delle<br />

Soprintendenze, il tentativo di vietare le esportazioni suggellano il va<strong>lo</strong>re identitario del<br />

patrimonio e delle pratiche espletate per conservar<strong>lo</strong>; dall’altro l’abbinamento di tali conquiste<br />

al mito della romanità (dominatrice e civilizzatrice insieme) dichiara l’ampia propensione dei<br />

va<strong>lo</strong>ri identitari a lasciarsi strumentalizzare dalle più diverse necessità ideo<strong>lo</strong>giche. E viceversa.<br />

Ma torniamo al conflitto europeo: nemmeno l’intervento scalfisce, nell’immediato,<br />

l’equilibrio della rivista e del suo satellite, la cui attenzione, nella primavera del 1915, è tutta<br />

a documentare i danni e le perdite per il terremoto nella regione marsicana.<br />

E in effetti sino al 1917 gli articoli di argomento bellico saranno limitati alle pagine del<br />

“Supplemento” e connotati da un carattere informativo, poco incline alla deriva nazionalista.<br />

Scorriamoli brevemente.<br />

Nell’agosto 1915, due pezzi si riferiscono al<strong>lo</strong> stato di guerra: primo, significativamente,<br />

giunge il necro<strong>lo</strong>gio di uno dei molti funzionari delle Belle Arti morti in battaglia; seconda<br />

arriva la pubblicazione dei Provvedimenti del Comando Supremo per la tutela delle opere d’arte nei territori occupati 10 .<br />

6 G. NAVE, Frammenti indigeni d’arte cristiana a Tarhuna ed Henscir Uhéda Tripolitania, “Bollettino d’arte”, VIII, III, 1914, pp. 96-104<br />

7 Missione Archeo<strong>lo</strong>gica Italiana in Cirenaica e in Tripolitania, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, I, 3, marzo 1914,<br />

pp. 17-19 8 Ivi, p. 19.<br />

9 I servizi archeo<strong>lo</strong>gici in Libia (I), “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, I, 4, aprile 1914, pp. 26-28.<br />

10 Gian Giacomo Porro (Ispettore presso il Museo di antichità di Cagliari) e Provvedimenti del Comando Supremo per la tutela delle<br />

opere d’arte nei territori occupati, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, II, 10, ottobre 1915, pp. 70-72 e pp. 72-73.<br />

89


90<br />

Marta Nezzo<br />

Si tratta della cosiddetta ordinanza Cadorna, del 31 agosto 1915, che estende ai territori riconquistati,<br />

sintetizzata in cinque articoli, la sostanza del model<strong>lo</strong> conservativo nostrano, fissato dalla citata<br />

legge Rosadi. Il documento, prodotto dall’Ufficio Affari civili del Comando supremo, mira a<br />

congelare la situazione esistente, vietando gli scavi, le vendite, le asportazioni, le manomissioni<br />

e, in definitiva, qualsiasi tipo di intervento su oggetti, di proprietà pubblica o privata, che<br />

“abbiano interesse artistico, storico, archeo<strong>lo</strong>gico o paletno<strong>lo</strong>gico”; per i ritrovamenti fortuiti<br />

impone la segnalazione immediata.<br />

Appena promulgato, il testo viene utilizzato come riprova della preminenza morale della civiltà<br />

italiana da quotidiani come il “Corriere della Sera” 11 ; e il fatto che, in questa sede ministeriale, al<br />

contrario, esca in maniera asettica, indica appunto una certa refrattarietà del “Bollettino”<br />

all’inquinamento ideo<strong>lo</strong>gico.<br />

Egualmente, quando, nel novembre 1915, leggiamo l’annuncio della Rovina del Soffitto agli<br />

Scalzi 12 , per le bombe austriache cadute su Venezia, spazi e ritmi sono addirittura brachi<strong>lo</strong>gici.<br />

E persino quando, nel settembre-ottobre 1916, il solito “Supplemento” annuncia la requisizione<br />

all’Austria di palazzo Venezia in Roma («a tito<strong>lo</strong> di rivendicazione italiana e [...] giusta rappresaglia» per<br />

i danni inflitti ai monumenti veneziani dalle incursioni aeree nell’estate 1916) 13 , le parole sono misurate.<br />

Ma è la stessa veste cronachistica – vien fatto di pensare – a mantenere i toni bassi, poiché<br />

le concentrazioni informative, in sé prive di connotazione critica, risultano facilmente resistenti<br />

alla strumentalizzazione.<br />

A breve termine semmai, il risultato è un singolare effetto specchio, in cui il fermento ideo<strong>lo</strong>gico<br />

interagisce con i preesistenti problemi di tutela dell’Italia, mantenendo alto – su quelli e non<br />

sulla guerra – <strong>lo</strong> stato d’allerta. Così, in “Cronaca”, nel novembre-dicembre 1916, Corrado Ricci<br />

(direttore generale delle Belle Arti) firma l’artico<strong>lo</strong> programmatico Perché l’arte onori gli eroi degnamente,<br />

ove se da un lato auspica che i nuovi martiri vengano celebrati «oltre che negli scritti, anche nel<br />

marmo e nel bronzo», dall’altro chiede che i nuovi monumenti non vengano a deturpare l’aspetto<br />

di edifici e piazze. «Siano essi, per noi, e pei posteri, cagione a un tempo d’orgoglio patriottico<br />

e di felicità estetica, e non di turbamento e d’onta per l’arte nostra» 14 . Sull’argomento Ricci<br />

tornerà ancora, facendo pubblicare opportune circolari: «Occorre che l’entusiasmo patriottico<br />

non trascuri ogni considerazione di natura artistica, sino al punto di menomare la bellezza d’antiche<br />

opere d’arte con l’applicar <strong>lo</strong>ro le odierne, così spesso in aperto dissidio per costumi, per<br />

esecuzione, per sentimento. È perciò necessario che le Soprintendenze vigilino per evitare<br />

pericoli del genere, intervenendo presso gli speciali comitati e le amministrazioni comunali,<br />

e segnalando, dove occorra, i singoli casi al ministero» 15 .<br />

11 [U. OJETTI], La tutela dei monumenti nelle terre conquistate. Il museo e gli scavi di Aquileia, “Corriere della Sera”, 19 settembre 1915,<br />

p. 3. In merito rinvio a M. NEZZO, Critica d’arte in guerra. Ojetti 1914-1920, Terra Ferma, Vicenza 2003.<br />

12 Vale a dire della Traslazione della Santa Casa di Loreto di Giovan Battista Tiepo<strong>lo</strong>. Cfr. Rovina del Soffitto degli Scalzi,<br />

“Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, II, 11, novembre 1915, p. 81.<br />

13 Il Palazzo di Venezia e Danni prodotti ai monumenti di Venezia dalle incursioni aeree dal giugno al settembre 1916, “Cronaca delle<br />

belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, III, 9-10, settembre-ottobre 1916, risp. p. 65 e pp. 65-66.<br />

14 C. RICCI, Perché l’arte onori gli eroi degnamente, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, III, 10-11, novembredicembre<br />

1916, pp. 81-82: 82.<br />

15 C. RICCI, Circolare. Statue e lapidi commemorative, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, IV, 1-2, gennaiofebbraio<br />

1917, pp. 14-15. Si veda ancora Monumenti commemorativi in zona di guerra. Circolare n. 56, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al<br />

Bollettino d’arte”, VII, 9-12. sett. dic. 1920, p. 72.


Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

Ancora nella medesima direzione vanno i suoi interventi contro l’infestante/degradante<br />

presenza di manifesti di propaganda (come quelli sul prestito nazionale) in contesti urbani di<br />

grande va<strong>lo</strong>re artistico 16 . Tutte ammonizioni che non esaltano la guerra e l’uso nazionalista del<br />

patrimonio, ma attraverso quel<strong>lo</strong> tematizzano l’annoso problema della gestione dei centri storici<br />

italiani, tormentati in tempo di pace da continui rimaneggiamenti, in particolare a livel<strong>lo</strong> urbanistico.<br />

Una piaga cui so<strong>lo</strong> parzialmente han posto argine le teorie di Charles Buls sull’Estetica della città<br />

(1905) e quelle di Gustavo Giovannoni su Vecchie città ed edilizia nuova, pubblicate nel 1913 17 .<br />

Nell’Italia post-unitaria, funestata da sventramenti e<br />

inventramenti, spesso vittima del suo stesso bisogno di<br />

riqualificarsi visivamente per la nuova era, le parole di<br />

Ricci sono un segnale forte in direzione della conservazione 18<br />

e la guerra stessa, le marcature nazionaliste sembrano una<br />

mera occasione scatenante.<br />

Certo, se 1915, 1916 e parte del ’17 trascorrono, nella<br />

storia della rivista, entro il chiuso recinto della cronaca,<br />

fra note telegrafiche e circolari 19 , le ragioni sono anche<br />

altre: la censura e, probabilmente, il metodo stesso di<br />

lavoro e documentazione tipico del “Bollettino”, aduso a<br />

binare i saggi di studio, di altra levatura concettuale, a un<br />

apparato iconografico, sia pur misurato. Infine la convinzione,<br />

generalizzata fino alla primavera 1916, che la guerra sarà<br />

breve. Un sentire che, dopo la Strafexpedition austriaca del<br />

giugno di quell’anno (spinta ben dentro i nostri confini<br />

storici), è inficiato dai fatti.<br />

Pagina introduttiva al primo numero monografico<br />

dedicato alla protezione dei monumenti<br />

durante la Grande Guerra, “Bollettino d’Arte”,<br />

XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 173.<br />

E infatti, con il numero multip<strong>lo</strong> dell’agosto-dicembre<br />

1917, la <strong>Di</strong>rezione generale dell’Antichità e Belle Arti<br />

licenzia il suo primo grande pronunciamento in materia<br />

di emergenza bellica.<br />

16 C. RICCI, Circolare 11 aprile 1915, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, IV, 5-7, maggio-giugno-luglio 1917, p. 42.<br />

17 Già L’esthétique des villes, pubblicato nel 1893 da Charles Buls, a Bruxelles, aveva richiamato il va<strong>lo</strong>re dei quartieri antichi,<br />

la necessità di rispettarli ed accordare ad essi i nuovi edifici. L’opera, resa nota a Roma dalla Società Amatori e Cultori di<br />

Architettura sin dal 1899, venne tradotta in italiano nel 1903, a cura di Maria Pasolini, e accompagnata dal testo di una conferenza<br />

su L’esthétique de Rome, tenuta dal<strong>lo</strong> stesso Buls nella capitale il 14 gennaio 1902 (C. BULS, L’estetica della città, Associazione Artistica<br />

fra i Cultori di Architettura, Roma 1903). Sull’argomento hanno scritto M. LUPANO, Marcel<strong>lo</strong> Piacentini, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 7-11<br />

e G. ZUCCONI, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1855-1942), Jaca Book, Milano 1999 2 , part. pp. 90; 109-11.<br />

In tempi più vicini ai nostri interessi, Gustavo Giovannoni pubblica in merito Vecchie città ed edilizia nuova,“Nuova Anto<strong>lo</strong>gia”,<br />

XLVIII, 995, 1 giugno 1913, pp. 449-472 e Il “diradamento” edilizio dei vecchi centri, Ivi, XLVIII, 997, 1 luglio 1913, pp. 53-76, riuniti<br />

molti anni più tardi nel volume Vecchie città ed edilizia nuova, UTET, Torino 1931.<br />

18 Si vedano anche le conquiste propriamente conservative: F. ROCCHI, Ricerche sperimentali per la conservazione e la difesa dei<br />

bronzi artistici dai bombardamenti, “Cronaca delle Belle Arti. Supplemento al Bollettino d’Arte”, V, 5-8, maggio-agosto, 1918, pp. 35-36.<br />

19 Segna<strong>lo</strong> ancora la Circolare del Ministro Giardino sull’Occupazione di edifici monumentali per ragioni militari. Circolare 28 agosto 1917<br />

del Ministero della guerra [...], “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, IV, 8-12, agosto-dicembre 1917, p. 64. Quanto ai<br />

danni da bombardamento, verranno segnalati puntualmente sino al termine del conflitto.<br />

91


92<br />

Marta Nezzo<br />

Esce così La difesa del patrimonio artistico italiano contro<br />

i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione dei monumenti,<br />

introdotto da Ricci 20 . Il testo fa parte di una suite: il<br />

programma prevede infatti che escano altri tre volumi di<br />

relazioni sul lavoro svolto dalle Soprintendenze durante le<br />

ostilità, dedicati rispettivamente ai lavori di Protezione degli<br />

oggetti d’arte mobili, all’elenco dei Danni e a quel<strong>lo</strong> dei Rifugi.<br />

Soltanto i primi vedranno la luce: nel ’17, appunto, quel<strong>lo</strong><br />

dedicato alle Protezioni dei monumenti e nel ’18 quel<strong>lo</strong> sulla<br />

Protezione degli oggetti d’arte 21 . A questi già corposi consuntivi<br />

ne verrà aggiunto, nel 1920, ancora un altro, di Ettore<br />

Modigliani, relativo alle attività della soprintendenza <strong>lo</strong>mbarda 22 .<br />

In questa sequenza le venature ideo<strong>lo</strong>giche si fanno<br />

finalmente percepibili. Si addita la barbarie nemica con<br />

l’esplicita intenzione di contrapporle la lungimirante attività<br />

di tutela della colta Italia. E con ciò – è importante<br />

sottolinear<strong>lo</strong> – l’argomento nazionalista, il mito ipostatizzato,<br />

non è più quel<strong>lo</strong> della romanità e della rivisitazione<br />

archeo<strong>lo</strong>gica, ma esclusivamente quel<strong>lo</strong> della conservazione,<br />

con un significativo sbilanciamento referenziale dal passato<br />

remoto alla militanza nel presente. Dal punto di vista<br />

argomentativo, l’ipoteca propagandistica è tutta concentrata<br />

nell’Introduzione di Ricci ai saggi dei soprintendenti:<br />

Pagina introduttiva al saggio di CORRADO<br />

RICCI, L’Arte e la guerra, in La difesa del patrimonio<br />

artistico italiano contro i pericoli della guerra<br />

(1915-1917). I. Protezione dei monumenti,<br />

“Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII,<br />

agosto-dicembre 1917, pp. 175-178: 175.<br />

Confesso che, prima che il presente cataclisma si rovesciasse sul mondo, vivevo<br />

adagiato nella persuasione che, grazie all’attività e al<strong>lo</strong> sviluppo dei sentimenti estetici ed<br />

umanitari onde vantasi la società nel tempo nostro, certe rovine e certi massacri, <strong>lo</strong>ntani ormai<br />

nella storia, non si sarebbero più rinnovati. E confesso pure che una ragione per <strong>bene</strong> sperare<br />

mi veniva dall’aver più volte considerato come alcune virtù umane, che dapprima si manifestano<br />

in casi per così dire sporadici, divengono poi, col tempo e per fortuna, patrimonio comune. [...]<br />

Purtroppo la guerra attuale ci ha gettati nella più do<strong>lo</strong>rosa delusione: ché se anche dal nostro lato<br />

tale rispetto ha preoccupato la mente di chi ha il comando della guerra, esso è ben mancato<br />

ai grandi stati nemici che, prima, nei facili tempi di pace, ostentavano ammirazione e riverenza<br />

20 C. RICCI, L’Arte e la guerra, in La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione dei<br />

monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, pp. 175-178.<br />

21 “Bollettino d’arte”, XII, fasc. IX-XII, settembre-dicembre 1918, contiene le relazioni particolari dei soprintendenti:<br />

G. FOGOLARI, Relazione sull’opera della Sovrintendenza alle gallerie e agli oggetti d’arte del Veneto per difendere gli oggetti d’arte dai pericoli della<br />

guerra, con allegato Elenco di opere d’Arte del Veneto sottratte ai pericoli di guerra; G. PELLEGRINI, Provvedimenti presi a tutela degli oggetti di<br />

antichità e d’arte sottoposti alla giurisdizione della Sovraintendenza per i Musei e gli scavi di antichità del Veneto, contro i pericoli di guerra;<br />

E. MODIGLIANI, Relazione del R. Sovraintendente alle Gallerie della Lombardia su operazioni di sgombero degli oggetti d’arte compiute nelle provincie<br />

di Vicenza e di Verona; A. COLASANTI, Provvedimenti presi a tutela degli oggetti d’antichità e d’arte esposti ai pericoli della guerra; M. ONGARO,<br />

Provvedimenti presi a tutela di oggetti d’arte sottoposti alla giurisdizione della Sovrintendenza dei Monumenti di Venezia; G. GEROLA, Relazione del<br />

R. Sovraintendente dei Monumenti della Romagna, incaricato delle operazioni di sgombero di oggetti d’arte compiute nella provincia di Mantova.<br />

22 Provvedimenti di tutela contro i pericoli della guerra attuati a cura della R. Sovraintendenza alla Gallerie e alle Raccolte d’arte delle<br />

provincie <strong>lo</strong>mbarde, “Bollettino d’arte”, XIV, fasc. IX-XII, settembre-dicembre 1920. Più tardi e in altra sede editoriale verranno<br />

affiancati, a questo notevolissimo lavoro, i cinque fascicoli di A. MOSCHETTI, I danni ai monumenti e alle opere d’arte delle Venezie nella<br />

guerra mondiale MCMXV- MCMXVIII, Istituto federale di Credito per il risorgimento delle Venezie, Quaderni LXIII-LXVIII, 1928-1931,<br />

a <strong>lo</strong>ro volta raccolti in volume unico, dotato di indice analitico, nel 1932 (Deposito esclusivo presso le librerie Sormani, Venezia) .


Fotografia dei sostegni in muratura alle arcate a pianterreno<br />

di Palazzo Ducale in Venezia, con speciale protezione<br />

dell’ango<strong>lo</strong>, in La difesa del patrimonio artistico italiano<br />

contro i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione dei<br />

monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII,<br />

agosto-dicembre 1917, p. 199.<br />

Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

Fotografia delle protezioni interne alla Cappella degli<br />

Scrovegni (Padova), in La difesa del patrimonio artistico<br />

italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione<br />

dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII,<br />

agosto-dicembre 1917, p. 228 . I paglietti d’alga, indipendenti,<br />

sono spessi 15 centimetri e sospesi a correnti lignei,<br />

sorretti da montanti in ferro. La distanza fra materassi ed<br />

affreschi è di 1 metro e 70 centimetri. Si noti <strong>lo</strong> strato di<br />

sabbia, di 60 centimetri, che copre il pavimento.<br />

Fotografie delle difese parziali (in paglietti d’alga) alla pala d’altare<br />

di Cima, in S. Giovanni in Bragora e al monumento Tron ai Frari, in<br />

Venezia, in La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della<br />

guerra (1915-1917). I. Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI,<br />

fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 218.<br />

93


94<br />

Marta Nezzo<br />

per l’arte nostra e se ne atteggiavano a protettori, pronti alla critica tostoché qualche lavoro<br />

paresse non soddisfare, non dico alla <strong>lo</strong>ro scienza, ma al <strong>lo</strong>ro gusto [...]. Fatto sta che, nella guerra<br />

attuale, i nostri avversari non hanno voluto risparmiare i monumenti, perché (a parte quanto<br />

hanno compiuto d’abominevole contro superbi palazzi e magnifiche chiese del Belgio e della<br />

Francia), una volta ch’essi mandavano, a più riprese, velivoli, a gettar bombe su Venezia e su<br />

Ravenna, l’offesa a edifici mirabili diveniva inevitabile per Venezia, probabilissima per Ravenna,<br />

essendo la prima tutto un seminato prodigioso di monumenti, essendone oltremodo ricca la<br />

seconda, città per giunta, innocua, non d’altro oramai popolata che di ospedali! D’altra parte è<br />

da osservare che se i primi bombardamenti di Venezia parvero tendere a scopi militari, i<br />

susseguenti, come notò <strong>bene</strong> Gino Fogolari, «rivelarono l’infernale progetto, freddamente<br />

studiato ed attuato, di distruggere quel che la città, sacra all’amore del mondo, vanta di più<br />

bel<strong>lo</strong>... Chi segue sulla pianta di Venezia i segni posti a ricordo delle bombe, cadute con visibili<br />

effetti o inesp<strong>lo</strong>se o sommerse, ha la coscienza di poter affermare che i maggiori monumenti furono<br />

fatti con premeditazione iniquo bersaglio» 23 .<br />

Oggi sappiamo (dalle relazioni militari) che così non fu e dunque la natura proditoria del<br />

discorso ci è chiara, così come il va<strong>lo</strong>re coesivo ch’esso assume nel più generalizzato appel<strong>lo</strong><br />

all’unità nazionale, particolarmente do<strong>lo</strong>roso e cogente dopo l’ottobre 1917, cioè dopo Caporetto.<br />

Ma è soprattutto sull’impostazione generale di questi particolarissimi numeri del “Bollettino”, che<br />

i fermenti ideo<strong>lo</strong>gici del momento agiscono con evidenza; segnatamente producendo una<br />

rilevante evoluzione sulla gestione dell’apparato iconografico. Inediti, infatti, non sono soltanto<br />

parole e concetti – i richiami alla distruzione di Reims e alla barbarie nemica; a mutare è piuttosto<br />

la costruzione del rapporto testo-immagini. Rispetto al precedente costume della rivista, le<br />

fotografie aumentano in maniera esponenziale, sul model<strong>lo</strong> delle pubblicazioni di propaganda.<br />

Mi riferisco a opere come gli album Treves dedicati alle operazioni militari, condotti sui motivi<br />

della <strong>lo</strong>gistica e della vita di campo, ma anche sulle desiderabili prospettive urbane delle terre<br />

irredente; o a un libro come i Monumenti italiani e la guerra, sponsorizzato nel ’17 dal Ministero della<br />

Marina, e costruito da Ugo Ojetti sulla collazione fotografica di opere nude e «vestite da difesa»,<br />

di monumenti integri e bombardati 24 .<br />

Certo, il “Bollettino” mantiene pur sempre un profi<strong>lo</strong> sobrio: non si abbandona a tal genere<br />

di spettacolari giustapposizioni, anzi, l’intento di documentare i lavori resta prevalente.<br />

Edifici, sculture e quadri protetti, sono esibiti, per <strong>lo</strong> più, a prescindere dal <strong>lo</strong>ro aspetto originario<br />

va<strong>lo</strong>rizzando piuttosto i paramenti di difesa; si declina la progressione dei lavori in un crescendo<br />

che, reiterato nell’arco di circa centocinquanta immagini, destituisce le opere d’arte della <strong>lo</strong>ro<br />

identità e del <strong>lo</strong>ro ruo<strong>lo</strong> simbolico individuale. Per questa via l’empaquetage del patrimonio, assume,<br />

in sé, un fascino esteticamente straniante, non meramente artistico, quanto piuttosto operativo,<br />

riconducendo ossessivamente il lettore al va<strong>lo</strong>re assoluto della tutela, nuovo motivo identitario,<br />

temporaneamente assunto come mito nazionalista. Il quale ultimo, di qui in avanti, verrà richiamato<br />

di continuo, anche in contesti molto meno raffinati: quando, sul finire del 1918, a guerra ormai<br />

vinta, Antonio Muñoz celebrerà sul supplemento di “Cronaca” la visibile italianità artistica delle<br />

terre redente, non potrà trascurare la nostra futura opera di salvataggio e conservazione 25 .<br />

23 C. RICCI, L’Arte e la guerra..., 1917.<br />

24 Cfr. M. NEZZO, Critica d’arte in guerra..., 2003.<br />

25 A. MUÑOZ, I monumenti delle Terre redente, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’Arte”, V, 9-12, settembredicembre<br />

1918, pp. 41-42.


Fotografie del ‘lievo’ dei cavalli marciani, in La difesa del<br />

patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-<br />

1917). I. Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI,<br />

fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 182.<br />

Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

Fotografia della protezione (con saccate) degli amboni<br />

della navata destra, in San Marco a Venezia, in La difesa<br />

del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra<br />

(1915-1917). I. Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”,<br />

XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 188 .<br />

Si noti la foderatura delle co<strong>lo</strong>nne con paglietti d’alga.<br />

Fotografia delle protezioni al fianco sud di San Marco a Venezia, in<br />

La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-<br />

1917). I. Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII,<br />

agosto-dicembre 1917, p. 185.<br />

95


96<br />

Marta Nezzo<br />

Fotografia della protezione (con saccate) dell’altare di<br />

San Pao<strong>lo</strong>, in San Marco a Venezia, in La difesa del patrimonio<br />

artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917). I.<br />

Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-<br />

XII, agosto-dicembre 1917, p. 189.<br />

Fotografia della protezione (con saccate) del ciborio<br />

dell’altar maggiore, in San Marco a Venezia, in<br />

La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli<br />

della guerra (1915-1917). I. Protezione dei monumenti,<br />

“Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre<br />

1917, p. 197.<br />

Fotografia della protezione (con paglietti d’alghe) del septo dei Dalle<br />

Masegne, in San Marco a Venezia, in La difesa del patrimonio artistico<br />

italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione dei monumenti,<br />

“Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 193.


Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

Tuttavia la questione non è meramente formale e propagandistica: come ho avuto modo di<br />

scrivere anche di recente 26 , le riforme Rava-Ricci-Rosadi 27 – fra istituzione delle soprintendenze<br />

e avvio della cata<strong>lo</strong>gazione – realmente ricevono, dall’esperienza frontale della distruzione,<br />

sollecitazioni straordinarie: la conservazione – prassi e sostanza significante – ne esce pregna di<br />

nuove potenzialità, anche comunicative, che diverranno esplicite nel tempo lungo del vissuto<br />

nazionale. Il che, se vogliamo, segna definitivamente il passaggio da una visione intuitivamente<br />

amministrativa del patrimonio, a una visione politicamente complicata, destinata a costituirsi<br />

come parte non irrilevante del nostro sistema delle arti.<br />

Ne sopravviverà, a ostilità chiuse, un nuovo modo, più densamente visivo, di fare cronaca e<br />

critica d’arte e, insieme, una più consapevole sensibilità alla tutela, avviando il processo<br />

che condurrà alle riforme di Bottai, preparate sin dal 1937 e solidificate in legge nel 1939 28 .<br />

Riforme che, <strong>lo</strong> ripeto, vanno crono<strong>lo</strong>gicamente sovrascritte alla complessiva involuzione<br />

autarchica e rigidamente sciovinista del sistema delle arti italiano; coincidono, per intenderci,<br />

con l’uscita dalla Società delle Nazioni, con i concorsi di pittura a tema ideo<strong>lo</strong>gico, con le<br />

decorazioni muraliste più o meno fascistizzate. Si costituiscono, insomma, come un profitto<br />

identitario inscritto nell’iniquo bacino del nazionalismo totalitario.<br />

E veniamo al caso de “L’Arte”, di venturiana fattura, tesa fra medioevo ed età moderna, in<br />

aporetica sosta sulla soglia del contemporaneo. Premetto che, per quanto mi consta, nel periodo<br />

prebellico, il periodico non mostra particolari sintomi d’infiltrazione nazionalista, né nella critica,<br />

né nella storiografia d’argomento anteriore all’800. E la ragione è quasi intuitiva: la forte<br />

connotazione ita<strong>lo</strong>centrica degli studi e l’ansia d’aggiornamento metodo<strong>lo</strong>gico, fra purovisibilismo<br />

europeo e crocianesimo nostrano, sono prevalenti 29 .<br />

Non stupisce dunque che, durante l’intero conflitto, in modo pressoché assoluto, “L’Arte”<br />

mantenga il rigore così a lungo coltivato, astenendosi recisamente da toni o accenti di<br />

tipo ideo<strong>lo</strong>gico-propagandistico.<br />

Se il mondo ministeriale si lascia sbilanciare a fatica, quel<strong>lo</strong> scientifico (tradizionalmente<br />

legato all’area tedesca da profonda stima professionale), di fronte al nemico tace ostinatamente<br />

e mirabilmente. Qualche voce, fuori coro, si limita a denunciarne la barbarie in modo formulare<br />

e posticcio 30 , inadatto a indurre contaminazione col fare critico reale.<br />

26 M. NEZZO, “È <strong>lo</strong>gico pretendere che nella linea del fuoco l’esercito distolga pur un uomo o una trave o un sacco di terra per riparare dai<br />

proiettili dei nemici un altare, un portale, una lapide? Pure anche questo il nostro esercito ha fatto”, in A. M. SPIAZZI, C. ROGONI, M. PREGNOLATO<br />

(a cura di), La memoria della prima guerra mondiale: il patrimonio storico-artistico tra tutela e va<strong>lo</strong>rizzazione, Terra Ferma, Vicenza 2008, pp. 113-141.<br />

27 Sul progresso normativo e giuridico della tutela in Italia, nel primo Novecento, si vedano M. BENCIVENNI, R. DALLA NEGRA,<br />

P. GRIFONI, Monumenti e istituzioni. II. Il decol<strong>lo</strong> e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915, Soprintendenza per i Beni<br />

Ambientali e Architettonici per le Province di Firenze e Pistoia, Firenze 1992. Sulla elaborazione della Legge Rosadi si veda<br />

R. BALZANI, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, Il Mulino, Bo<strong>lo</strong>gna 2003.<br />

28 Cfr. nota 1.<br />

29 Semmai il germe politico s’insinua nella preparazione di talune mostre a tema, come quella fiorentina sul Ritratto del<br />

1911; o, ancora e con promiscuità davvero sospetta, nel dibattito sulla ricerca di uno stile nazionale per l’architettura, ma non in<br />

una rivista specializzata del<strong>lo</strong> spessore de “L’Arte”.<br />

30 Alberto Serafini ad esempio, che, a proposito del Trittico intagliato conservato a S. Pietro in Zuglio, scrive: «quest’opera<br />

doveva essere, secondo L. Venturi, il solito punto di partenza per una eventuale ricostruzione dell’attività di Domenico da<br />

Tolmezzo intagliatore. Ma ora non sappiamo, purtroppo, se i novelli barbari abbiano asportato dal Friuli nostro – come altre cose –<br />

anche questa. Niuna maraviglia!» (A. SERAFINI, Intorno a un trittico sconosciuto di Domenico da Tolmezzo, “L’Arte”, XXI, 1919, pp. 53-56: 53).<br />

L’obiettivo del discorso, con ogni evidenza, non è l’accusa al nemico, bensì la configurazione di una personalità artistica.<br />

97


98<br />

Marta Nezzo<br />

Tuttavia è pur vero che, nel periodo considerato, la rivista ospita di rado firme straniere, né<br />

dedica alcun artico<strong>lo</strong> ad artisti non italiani, germanofoni o altro; semmai qualche tito<strong>lo</strong> va al<br />

collezionismo inglese e alla critica ottocentesca francese (Fromentin, Baudelaire).<br />

L’ambiente più colto, quel<strong>lo</strong> degli studi insomma, puntella un assetto identitario stabile e<br />

centripeto, ma di sciovinismo critico non v’è traccia.<br />

Stante tale atteggiamento, perdurante dal 1914 al 1918, con sorpresa rileviamo che, ferocemente,<br />

all’indomani della vittoria, “L’Arte” presenta un nucleo compatto di articoli aperti al viraggio nazionalista.<br />

È Eva Tea ad assumersene l’onere, nei confini di<br />

una tri<strong>lo</strong>gia conchiusa, che occupa spazi nel so<strong>lo</strong><br />

1919. I temi scelti sono strettamente connessi alla<br />

conclusione delle ostilità, alle trattative di pace, alla<br />

relativa <strong>bene</strong>ficenza: Tea recensisce infatti l’esposizione<br />

internazionale d’arte organizzata a Parigi per gli<br />

orfani di guerra e poi la mostra veneziana delle opere<br />

rientrate da Vienna; ma soprattutto interviene su<br />

Le rivendicazioni d’arte italiana 31 , cioè sulla richiesta<br />

nostra di avere risarcita parte del danno bellico con<br />

dipinti di proprietà degli annientati Imperi centrali.<br />

Qui le ansie di gestione e tutela dell’esistente, già<br />

individuate nel “Bollettino” ministeriale, si complicano<br />

con una vo<strong>lo</strong>ntà di rapina dopo Napoleone obliata;<br />

la marcatura ideo<strong>lo</strong>gica dell’artico<strong>lo</strong> è assai forte.<br />

A giustificarne formalmente la presenza, nella nobile<br />

sede della rivista venturiana, è la circostanziata<br />

requisitoria storica ordita dall’autrice, che elenca le<br />

appropriazioni, più o meno indebite, condotte nei<br />

Copertina de “L’Arte”, XXII, I-II, 31 gennaio-30 aprile 1919,<br />

numero in cui compare l’artico<strong>lo</strong> di Eva Tea dedicato<br />

a L’Esposizione internazionale di Parigi.<br />

secoli sul nostro territorio, sia dalle case regnanti<br />

austriache che dai direttori dei musei prussiani.<br />

Ma ciò che colpisce è la profonda contaminazione<br />

cui il dettato critico è costretto: tutta la prima parte<br />

del testo, infatti, risolve e stempera la richiesta ignobile entro le coordinate di una ben condotta<br />

storia del collezionismo. A uno sguardo ravvicinato, però, l’alterazione ideo<strong>lo</strong>gica del model<strong>lo</strong><br />

di partenza si fa evidente: le tradizionali figure della collezione e del collezionista vengono<br />

compresse, offuscate; il fil-rouge del discorso non è offerto né da una individua raccolta, né dalle<br />

dinastie ‘predatrici’ (Lorena e Absburgo): trionfa invece una geografia tutta ‘italiana’ di patrimoni<br />

(gonzagheschi, estensi, medicei ecc.) estinti, dispersi, legalmente venduti o trafugati, ceduti per<br />

diritto matrimoniale o testamentario. Insomma Tea, per legittimare l’invocazione trista al<br />

risarcimento, proditoriamente costruisce l’immagine di una patria da sempre unita (nell’arte) e<br />

da sempre derubata, innescando l’equivalenza asportazione/svilimento identitario 32 .<br />

31 E. TEA, Le rivendicazioni d’arte italiana, “L’Arte”, XXII, 1919, pp. 72-76: 72.<br />

32 “Per noi italiani – scrive – l’arte è sensibile vinco<strong>lo</strong> di patria come la terra ed il mare, ché nessun altro popo<strong>lo</strong>, spenta<br />

la Grecia, l’ebbe più domestica e famigliare e legata col viver civile. Ed [essa] è insieme supremazia e ricchezza, poi che so<strong>lo</strong> nella<br />

qualità dei prodotti possiamo gareggiare industrialmente con le altre nazioni” (Ibid.).


E sottolinea:<br />

Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

La formula ‘l’arte si paghi con l’arte’ va sviluppata nelle sue conseguenze meno appariscenti.<br />

Insieme con la rovina dei freschi di Venezia, di Nervesa, di Romanziol, vera diminutio della<br />

nostra vita artistica, altre perdite si devono considerare, fra cui molte irreparabili: le spese per<br />

la protezione dei monumenti; il deperimento degli oggetti d’arte durante i salvataggi e i trasporti;<br />

l’energia dei competenti rivolta a proteggere il patrimonio nazionale, anziché a studiare e a<br />

produrre opere di bellezza; il rischio. [...] Sentire con esatta misura questi oltraggi ideali e chiederne<br />

virilmente giustizia non sarà piccola prova della nostra maturità spirituale. Nella scelta delle<br />

cose belle, nella lealtà del richiederle, nella tenacia per ottenerle, nella sapienza d’usarne per la<br />

rinascita, si vedrà se gli italiani hanno davvero senso e cuore d’artisti 33 .<br />

Un appel<strong>lo</strong> tanto più inquietante, poiché parte dall’ambiente scientifico a attribuzionista<br />

venturiano, che da simile arricchimento potrebbe avere vantaggi diretti, incrementando – con ulteriore<br />

comodità di frequentazione – quella sorta di privatizzazione studiosa dei patrimoni museali a<br />

lungo rimproverata agli storici: «Nei compensi – ribadisce Tea – la scelta si porterà liberamente<br />

sui capolavori più desiderabili; anzi, per i voti dei pubblici istituti e della stampa, essa va<br />

prendendo carattere di vero plebiscito nazionale» 34 .<br />

Del resto, anche la denuncia de «la rapina sistematica che il Bode e seguaci esercitarono<br />

lungamente indisturbati», ancora una volta maschera sotto il do<strong>lo</strong> nemico, il problema, tutto interno,<br />

del mercato antiquario sommerso e del ritardo post-unitario nel promulgare leggi contro l’esportazione.<br />

Nell’invocare la reintegrazione di serie smembrate, la pertinenza delle opere ai luoghi<br />

d’origine (eccetera), l’autrice strumentalizza quei principi della tutela teorizzati e promossi fra<br />

Sette e Ottocento (da Quatrémére de Quincy a Pio VII) e poi compromessi – per ragioni<br />

economiche – proprio dall’amministrazione sabauda. Con ciò nel ’19 le colpe del<strong>lo</strong> stato unitario<br />

trovano naturale e tuttavia inesatto sfogo sul nemico battuto:<br />

Perché non ci siamo risentiti prima? Il rimprovero è più <strong>lo</strong>gico che giusto. La debolezza<br />

politica ci teneva pusilli, e una lunga crisi di mediocrità spirituale ci faceva sentire men viva la<br />

privazione dei nostri beni più veri. [...] Non si tratta soltanto di arricchir Gallerie e Musei, ma<br />

di risollevare la vita artistica del paese 35 .<br />

Affermazione, quest’ultima, densa di implicazioni: si vuole rimpatriare l’arte nostra non<br />

soltanto per ‘avere’, ma per ‘rinascere’.<br />

Il che rilancia congiuntamente crisma identitario e nazionalismo sul tavo<strong>lo</strong> della modernità,<br />

produzione, gestione o critica delle arti che sia, sostanziandola dei va<strong>lo</strong>ri della tradizione.<br />

Scrive ancora Tea:<br />

Grazie all’antico genio italiano e alla recente vittoria noi avremo presto tante opere d’arte<br />

da ritrovarci imbarazzati a riporle; fieri di tanta dovizia non dimentichiamo ch’essa appartiene<br />

al popo<strong>lo</strong>. Nelle chiese, nelle scuole, nei pubblici ritrovi, dovunque si può compier l’inconscia<br />

33 Ivi, p. 75.<br />

34 Ibid.<br />

35 Ibid.<br />

99


100<br />

Marta Nezzo<br />

educazione dell’occhio e del gusto, si dedichi al popo<strong>lo</strong> il dono della vittoria: ve ne sia per ogni<br />

regione o città, in rapporto con la tradizione artistica secolare. A questo proposito s’affollano al<br />

pensiero molte questioni vitali: la preparazione del popo<strong>lo</strong> a custodire i suoi beni; l’insegnamento<br />

del disegno, questo secondo alfabeto [...]; l’educazione del gusto nei seminari, donde escono<br />

i custodi e i committenti dell’arte chiesastica; la funzione pedagogica dei Musei; le scuole e le<br />

botteghe d’arte; il dovere del<strong>lo</strong> Stato e i suoi limiti [...]. Benvenute siano intanto le opere dell’arte<br />

nostra, le donatrici di gioia, che stanno per varcare i termini raggiunti dalla nuova Italia.<br />

Come nell’antica Roma, offriremo le spoglie più belle al genio dei nostri morti 36 .<br />

E val la pena, a questo punto, ricordare che l’apertura di questo sequel nazionalista era andata<br />

alla recensione dell’Esposizione internazionale d’arte a Parigi e, in particolare, della sezione italiana,<br />

interamente giocata sull’arte veneziana fra Sette e Ottocento. Già lì, proponendo la priorità del<br />

rococò italiano su quel<strong>lo</strong> francese, Tea attivava il nesso tradizione-modernità 37 testé descritto, per<br />

affermare l’attualità della lezione veneta nella pittura nostra dell’Ottocento e oltre:<br />

Noi crediamo fermamente che in certa moderna pittura italiana, e specie nella veneta, sia<br />

un tesoro di virtù solide, modeste vere qualità di mestiere, che l’occhio distratto da mode<br />

eccessivamente spiritose non sa più <strong>bene</strong> discernere. Purtroppo, manca dei nostri moderni<br />

la conoscenza critica. Perché abbiamo preferito studiare i francesi, gli inglesi, gli svedesi prima<br />

di noi stessi; errore generoso che molte esposizioni come questa ci aiuteranno a riparare 38 .<br />

Al di là della sua stessa validità critica, la scelta di ricucire Sette, Otto e Novecento, di<br />

nobilitare il presente provincialismo agganciando<strong>lo</strong> a un nobile passato, si basa su un gioco di<br />

opposizione diretta con le altre culture figurative europee. Manovra identitaria e nazionalista<br />

insieme, peraltro non inedita, basti ricordare la polemica Soffici-Ojetti, sulla mostra degli<br />

Impressionisti organizzata nel ’10 al Lyceum di Firenze 39 .<br />

Ma dopo la guerra simili imprese hanno diverso sapore: le moltiplicate opportunità sul piano<br />

della partecipazione e del confronto culturale – le stesse che avevano permesso il martiro<strong>lo</strong>gio<br />

interalleato dei monumenti e che condurranno la Società delle Nazioni alla cooperazione<br />

intellettuale – impongono, per l’attualità, la va<strong>lo</strong>rizzazione critica di una riconoscibile opzione<br />

formale nostrana: una continuità antico-moderno che ci salvi dalla co<strong>lo</strong>nizzazione artistica e, in<br />

definitiva, anche storiografica.<br />

Soprattutto di fronte alle culture amiche. La posta in gioco è alta, tanto almeno da connotare<br />

in senso progressivamente politico, in questa e in altre sedi, la virulenta polemica metodo<strong>lo</strong>gica<br />

sulla revisione critica dell’Ottocento, alla lunga sfociata nelle opposte prospettive del Gusto dei Primitivi<br />

di Lionel<strong>lo</strong> Venturi e degli scritti di un Somarè o un Ojetti.<br />

36 Ivi, p. 76. La tesi è ripresa nel successivo artico<strong>lo</strong> su la Mostra delle opere d’arte tornate da Vienna (E. TEA, “L’Arte”, XXII, 1919,<br />

pp. 113-120), che – per inciso – sono opere restituite e non oggetti trafugati con la scusa del risarcimento: «Le fonti vitali d’Italia –<br />

scrive Tea – non sono quella d’Inghilterra, di Francia, d’America; l’unicità della nostra g<strong>lo</strong>ria artistica si crea un diritto unico; non<br />

sembri audace la tesi che gli operai della bellezza, arditamente poveri, ne siano anche, per quanto <strong>lo</strong>ro compete, i custodi» (Ivi, p. 120).<br />

37 Quanto al Settecento propone un paragone diacronico fra i Ricci, Piazzetta, Tiepo<strong>lo</strong> e i francesi Van Loo, Watteau,<br />

Boucher, per concluderne l’anticipo nostro sulla formulazione del rococò.<br />

38 E. TEA, Esposizione internazionale d’arte a Parigi, “L’Arte”, XXII, 1919, pp. 47-48: 48.<br />

39 Sulle vicende dell’esposizione si veda almeno F. Fergonzi , Firenze 1910 - Venezia 1920: Emilio Cecchi, i quadri francesi e<br />

le difficoltà dell'impressionismo, “Bollettino d'arte”,LXXVIII, s. VI, 79, maggio-giugno 1993, pp. 1-26 e J.F. Rodriguez, La réception<br />

de l’Impressionisme à F<strong>lo</strong>rence en 1910. Prezzolini et Soffici maîtres d’œuvre de la “Prima esposizione italiana dell’impressionismo francese e delle<br />

scolture di Medardo Rosso”, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1994.


Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

Insomma se il fermento nazionalista ha trovato un mito nobilitante nella conservazione, di<br />

fatto trova nell’esercizio sul contemporaneo un campo d’azione ideale, dove più duttile è la<br />

penetrazione nel fare critico.<br />

Perciò mi pare interessante concludere il nostro percorso guardando a “Pagine d’arte”, rivista<br />

fondata nel ’13 da Guido Marangoni, ma già nel ’14 raccordata alla “Rassegna d’arte antica e moderna”<br />

dell’editore Alfieri e Lacroix. Si tratta di un foglio informativo e militante, aperto all’antico e al<br />

moderno insieme, diretto a un pubblico colto ma non necessariamente specializzato. Esperimento<br />

per noi particolarmente utile, vuoi per l’illustre e variata agenda dei collaboratori – giornalisti,<br />

critici, artisti di punta nel panorama nazionale – vuoi per l’adesione intensa all’attualità, dunque,<br />

dati i tempi, alla quotidianità del conflitto. E infatti qui (diversamente da quanto accade nel<br />

“Bollettino” e ne “L’Arte”) sarebbe possibile una lettura evenemenziale di spunti e derive;<br />

arricchita dalla particolare inclinazione che il gruppo dirigente imprime al foglio: “Pagine d’arte”,<br />

infatti, costantemente riflette su natura e confini della propria militanza, sia critica che politica,<br />

in un’affabulazione scoperta.<br />

Il nazionalismo connesso al momento storico e spendibile nelle scritture d’arte, non è negato,<br />

ma tematizzato, acquisito e studiato come opzione intellettuale possibile. Dei numerosissimi<br />

esempi disponibili ho voluto isolarne almeno tre: le peculiarità del battage interventista; derive e<br />

approdi dell’uso ideo<strong>lo</strong>gico dell’illustrazione; la riflessione sul va<strong>lo</strong>re della critica negli assetti di crisi.<br />

E partiamo dalla promozione dell’intervento. Ugo Ojetti ne concerta qui la sua migliore, più<br />

flautata edizione 40 :<br />

Parlare d’arte nell’estate 1914 è difficile, perché è inutile, per molti ridico<strong>lo</strong>: nessuno ci<br />

ascolta. Da questo cataclisma, comunque finisca, non usciranno un’arte nuova e un nuovo stile<br />

[...]. Si può dire, senza cadere nel mistico, che l’arte annunci l’avvenire? Certo da questo<br />

sconvolgimento nuovi fatti e fattori morali sorgeranno. L’arte già li indicava? Il ritorno alla semplicità,<br />

alla sintesi, alla corposità (la parola è di jeri) dell’arte classica, tutti <strong>lo</strong> avevamo veduto iniziarsi<br />

da anni, trionfare sulle minuzie del realismo, sul<strong>lo</strong> sfarfalleggiare dell’impressionismo [...] par<br />

quasi che l’umanità, in quel che ha di più profondo e di più sensibile, cioè nell’arte, senta<br />

all’avvicinarsi della tempesta il bisogno di raccogliersi in poche linee, in volumi definiti e in<br />

simmetrie equilibrate, <strong>lo</strong>ntano dalla fantasia estravagante, dall’improvvisazione scapigliata, dal<br />

disordine voluttuoso 41 .<br />

E, certo, il giornalista non dimentica di soffiare sul fuoco dell’incendio di Reims,<br />

cannoneggiata dai tedeschi:<br />

Se un esercito nemico mai entrasse anche per poche miglia di qua dai nostri confini, se una<br />

squadra nemica osasse bombardare uno qualsiasi dei nostri porti aperti [...] le rovine di questi<br />

tesori del mondo custoditi da noi potrebbero in un sol giorno diventare tanto frequenti ed<br />

orrende che al confronto quelle del Belgio o della Sciampagna o della Piccardia sarebbero quasi<br />

dimenticate 42 .<br />

40 Si vedano U. OJETTI, Sosta, “Pagine d’arte”, II, 14, 30 agosto 1914, p. 193; ID., Reims e noi, ivi, II, 15, 30 settembre 1914, p.<br />

205; ID., Pittura di battaglie, ivi, II, 20, 15 dicembre 1914, p. 257.<br />

41 U. OJETTI, Sosta..., 1914.<br />

42 ID., Reims e noi..., 1914.<br />

101


102<br />

Marta Nezzo<br />

Sulla medesima linea editoriale, altri propagano l’eco delle devastazioni da Ypres, Arras,<br />

Lovanio, in un crescendo che culmina nell’appel<strong>lo</strong> contro I tedeschi e la distruzione dei monumenti<br />

d’arte, lanciato da Jacques Mesnil nel marzo 1915 43 .<br />

Ma, in redazione, c’è anche chi lavora di contrappunto.<br />

Il giovane Raffael<strong>lo</strong> Giolli, direttore in pectore del foglio, presenta infatti, nell’ottobre del ’14,<br />

un pezzo intitolato Le nostre esercitazioni barbariche 44 , ove <strong>lo</strong> sconcerto per i disastri prodotti<br />

dall’artiglieria su città e monumenti di Belgio e Francia, è proiettato sull’incuria italiana per il<br />

paesaggio, in tempo di pace:<br />

<strong>Di</strong>ciamo pure chiaro che noi non abbiamo nessun diritto di fremere per la distruzione<br />

d’una via caratteristica di Louvain, se la nostra sensibilità si fa meno squisita e tace e non si<br />

rinsalda in un ardore polemico quando la difesa è possibile, dinanzi alla persistente deformazione<br />

grottesca e villana del caratteristico aspetto del nostro bel paese 45 .<br />

Le difficoltà nostre a conservare collezioni, tessuti urbani o paesaggi – che abbiamo visto<br />

richiamate con discrezione da Corrado Ricci sul “Bollettino” del 1916 e 1917 e, nel ’19, risolte<br />

da Eva Tea in nazionalismo aggressivo – sono evocate qui con piana onestà intellettuale; di<br />

modo che su “Pagine d’Arte”, già nel ’14, il battage sciovinista di Ojetti dia<strong>lo</strong>ga e scopertamente<br />

si contrappone alla pulsione identitaria benigna di Giolli.<br />

Con identica movenza, gli articoli tangenti il conflitto si mescolano, un fascico<strong>lo</strong> dopo<br />

l’altro, alle tradizionali note d’arte antica e moderna, firmate da Mario Salmi, Guido Cagnola,<br />

Alfredo Vinardi, Giulio Ulisse Arata e dal<strong>lo</strong> stesso Giolli: certo il <strong>lo</strong>ro peso, nell’economia di ogni<br />

numero, si fa più evidente. L’intervento, con la presa di Aquileia 46 , permette di inaugurare la<br />

rubrica “Seguendo la guerra” e, presto, all’aggiornamento sulla devastazione del Belgio 47<br />

s’abbinerà quel<strong>lo</strong> sulle distruzioni in Italia: dalla rovina del Tiepo<strong>lo</strong> agli Scalzi, al bombardamento<br />

i S. Apollinare Nuovo a Ravenna 48 , all’oltraggio alla Basilica ed al Museo di Aquileja,<br />

dopo la Strafexpedition 49 .<br />

43 In “Pagine d’arte”, III, 5, 15 marzo 1915, pp. 41-44.<br />

44 “Pagine d’arte”, II, 16-17, 30 ottobre 1914, pp. 217-219. L’artico<strong>lo</strong> si appoggia a una lettera aperta al Ministro della<br />

Pubblica Istruzione, di ana<strong>lo</strong>go contenuto, stilata da Antonio Massara, direttore del Museo del Paesaggio di Pallanza, e pubblicata<br />

sul numero di settembre della rivista.<br />

45 Ivi, p. 217.<br />

46 L’unico testo fuor delle maglie della cronaca nel numero del 30 maggio 1915.<br />

47 Al citato J. MESNIL, I tedeschi e la distruzione ..., 1915; faranno seguito ID., I rapporti del professor Clemen e l’oggettività tedesca,<br />

Ivi, III, 15, 30 settembre 1915, pp. 121-123; ID., La morte di Ypres, Ivi, IV, 13, 30 luglio 1916, pp. 97-98.<br />

48 Bombe nemiche a Ravenna su S. Apollinare Nuovo, rubrica “Seguendo la guerra”, “Pagine d’arte”, IV, 4, 29 febbraio 1916, pp. 25-26.<br />

49 «Ora anch’essa è stata ferita come i nostri soldati, e ci pare più sacra di prima la bella, la santa Basilica, e sentiamo di<br />

amarla di più [...] L’attentato non è riuscito, ma il crimine, intenzionalmente, è stato consumato». E ancora: [...] «le autorità civili<br />

e militari si portarono sollecitamente sul sito, escogitando i provvedimenti d’urgenza per riparare i danni inferti alla Basilica, al<br />

Museo e alla chiesa di S. Antonio. Ugo Ojetti, che ha l’incarico della conservazione dei monumenti nella zona di guerra, venne ad<br />

Aquileja nel giorno stesso, quantunque fosse in linea e ben <strong>lo</strong>ntano da Aquileja; ci venne il comm. D’Adamo, segretario generale<br />

per gli Affari civili. E già si lavora alle riparazioni: una incancellabile macchia copre di vergogna l’esercito austriaco. E i suoi vilissimi<br />

attentati non servono ad altro che a far<strong>lo</strong> esecrare di più e a suscitare in noi nuove e più splendide energie e più fieri propositi di<br />

<strong>lo</strong>tta». C. COSTANTINI (Conservatore della Basilica), L’oltraggio austriaco alla Basilica ed al Museo di Aquileja, “Pagine d’arte”, V, 5,<br />

15 maggio 1917, pp. 103-104.


Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

Su questa via inevitabilmente la rivista apre un secondo bacino operativo, più disponibile al<br />

compromesso, forse anche perché gestito in proprio dall’editore. Vi si ospitano firme poco note,<br />

ameno dal punto di vista storico-artistico. Quella, ad esempio, di Tomaso Sillani, segretario generale<br />

dell’associazione Pro Dalmazia, che il 15 aprile 1915 apre la breve rubrica “L’Arte nelle<br />

terre irredente”, con Dalmazia bella 50 ; cui seguiranno Le gemme del mare 51 e Aquileja 52 : un viaggio<br />

virtuale fra ciò che abbiamo avuto e ciò che vorremmo riprenderci. In queste sedi, arricchendo<br />

l’apparato fotografico in misura estranea alle consuetudini del periodico, Alfieri e Lacroix ottiene<br />

il doppio effetto di pubblicizzare volumi di imminente pubblicazione – in questo caso Lembi di<br />

Patria – e di partecipare a un’effettiva sensibilizzazione nazionalista sul tema dell’irredentismo.<br />

Come si vede, ancora una volta, il segnale preciso della virata ideo<strong>lo</strong>gica sta nell’aumento delle<br />

illustrazioni, che si fa notevole a partire dal gennaio 1917 53 .<br />

A quest’ambito vanno ascritti anche<br />

interventi di maggior respiro saggistico: nel luglio<br />

’17, si anticipa, con ampio corredo iconografico,<br />

L’arte Dalmata e Giorgio da Sebenico, testo di Adolfo<br />

Venturi destinato al volume Dalmazia Monumentale<br />

(preparato assieme a Ettore Pais, Pompeo Molmenti<br />

e all’immancabile Tomaso Sillani).<br />

Infine compaiono, sulle copertine e all’interno<br />

della rivista, le fotografie del patrimonio «vestito<br />

da difesa», tratte dal già citato testo base per la<br />

strumentalizzazione bellica delle arti, l’ojettiano<br />

I Monumenti Italiani e la guerra.<br />

Da qui in avanti il periodico proporrà tutta una<br />

serie di articoli sulle operazioni di presidio ai<br />

nostri capolavori, soprattutto veneziani 54 ,<br />

allineandosi al circuito propagandistico ufficiale,<br />

che permette all’Italia di partecipare al compianto<br />

interalleato sui monumenti.<br />

Ma la spinta ad interagire visivamente con<br />

gli avvenimenti, presto deraglia verso altre<br />

sperimentazioni. Accade così che l’impegno<br />

ideo<strong>lo</strong>gico di “Pagine d’Arte” si esprima, fra<br />

Il ‘lievo’ dei cavalli marciani sulla copertina di<br />

“Pagine d’arte”, V, 8, 15 agosto 1917.<br />

1915 e 1916, nella promozione di alcuni<br />

concorsi per cartoline di guerra 55 .<br />

50 “Pagine d’arte”, III, 9, 15 aprile 1915, pp. 73-76.<br />

51 Nella rubrica “L’arte nelle terre irredente”, “Pagine d’arte”, III, 14, 30 agosto 1915, pp. 113-115.<br />

52 Nella rubrica “Seguendo la guerra”, “Pagine d’arte”, III, 11, 15 giugno 1915, pp. 89-91.<br />

53 A quest’altezza la rivista cambia pelle: sparisce il sottotito<strong>lo</strong> che la individuava come “Cronaca e notiziario della Rassegna<br />

d’Arte Antica e Moderna”; la periodicità cambia – da quindicinale a mensile – e compaiono le copertine illustrate, in cartoncino.<br />

54 Ricordo La difesa dei nostri monumenti, “Pagine d’arte”, V, 8, 15 agosto 1917; C. TRIDENTI, Condottieri in ritiro, Ivi, VI, 1,<br />

gennaio 1918, pp. 1-7; V; LA ROCCA, I cavalli di San Marco a Roma, Ivi, VI, 2, febbraio 1918, pp. 17-22<br />

55 “Pagine d’arte”, III, 16, 15 ottobre 1915, pp. 133-136; “Pagine d’arte”, III, 17, 30 ottobre 1915, p. 142<br />

103


104<br />

Marta Nezzo<br />

È il primo passo verso una progressiva apertura alla<br />

pubblicazione di opere contemporanee, di contenuto militare<br />

ma non soltanto: I Territoriali di Aquileia, I bersaglieri al<br />

ponte Sdraussina di Italico Brass, ma anche il Do<strong>lo</strong>re di<br />

Vincenzo De Stefani, Il combattimento di Neuwe Chapelle di<br />

Frank Brangwyn, Saldatura di bombe di Greppi, La fame di<br />

Aldo Carpi. Fra le numerosissime firme troviamo ancora<br />

Aristide Sartorio, Lino Selvatico, Hermann Paul, Alberto<br />

Salietti, Anselmo Bucci, Paul-Émile Colin e via così, finché<br />

la pace non stempererà la tensione nei nomi di Tito,<br />

De Nittis e persino Watteau.<br />

Il dato interessante e innovativo, però, è che questa<br />

direttrice di lavoro impone all’attenzione interna, con<br />

omonima rubrica, anche “I disegnatori di guerra”<br />

stranieri 56 : Hermann Paul, Muirhead Bone, Henry De Groux,<br />

Félicien Cacan, Jean-Louis Forain, Maurice Barraud,<br />

F. Maesler, Dunoyer De Segonzac, C. R. W. Nevinson,<br />

Paul-Émile Colin. Un gruppo decisamente composito,<br />

dove, a sorpresa, balugina l’avanguardia.<br />

Certo “Pagine d’arte” non si propone di valutarne le<br />

opere con estensione saggistica; la presenza di queste firme<br />

sorregge, semmai, una manovra di critica in atto, che<br />

vuol sollecitare anche in patria la produzione di soggetto<br />

bellico, accrescendo la schiera dei vari Pogliaghi, Carpi,<br />

Bucci e Brass.<br />

In tale senso anche <strong>lo</strong> Stato maggiore dell’esercito è<br />

chiamato al confronto. Scrive Giolli nel ’17:<br />

Ma guardate la Francia! Ha inteso subito che<br />

la guerra non è niente; è un fatto muto che diventa<br />

e<strong>lo</strong>quente so<strong>lo</strong> se la parola l’esprime: e non c’è parola<br />

più evidente e persuasiva e commovente dell’arte, la<br />

sola che duri nella g<strong>lo</strong>ria, nella storia. Governo, editori<br />

artisti, tutti mobilitati; così che oggi per la sua<br />

guerra s’è formata nel mondo una voce così forte e<br />

viva, e delle sua guerra s’è formata nel tempo un’immagine<br />

così ricca e profonda, che di tutta la guerra europea<br />

questa sola appare oggi, e sembrerà domani che sia<br />

esistita 57 .<br />

Italico Brass, I bersaglieri al ponte di<br />

Sdraussina, in copertina su “Pagine d’arte”,<br />

V, 3, 15 marzo 1917.<br />

Greppi, Saldatura di bombe, sulla copertina di<br />

“Pagine d’arte”, V, 9, 15 settembre 1917.<br />

56 La rubrica era stata progettata da Raffael<strong>lo</strong> Giolli per la “Rassegna d’Arte Antica e Moderna”. Si vedano le affermazioni<br />

del<strong>lo</strong> stesso Giolli in Esposizioni milanesi. L’arte degli alleati, “Pagine d’arte”, IV, 19-20, 15 dicembre 1916, pp. 145-146.<br />

57 Problemi di guerra, “Pagine d’arte”, V, 9, 15 settembre 1917, pp. 155-158.


Félicien Cacan, Avanti i seppellimenti sulla via di Sompuis,<br />

12 settembre 1914 (litografia), in apertura dell’artico<strong>lo</strong><br />

senza firma, I disegnatori di guerra: Félicien Cacan, in<br />

“Pagine d’arte”, V, 3, 15 marzo 1917, pp. 60-61: 60.<br />

Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

Félicien Cacan, L’ambulanza a Suippes, 14 settembre 1914 (litografia),<br />

in I disegnatori di guerra: Félicien Cacan, in “Pagine d’arte”, V, 3,<br />

15 marzo 1917, pp. 60-61: 61.<br />

L’ esempio straniero, costantemente<br />

invocato a conforto, innesca un moto interculturale<br />

che arriverà a lambire persino i problemi<br />

di ricostruzione del dopoguerra. E ciò perché,<br />

nell’intento di muovere nuove energie, la rivisita non giustappone Italia ed Europa<br />

nell’angusto spazio di coppie oppositive, ma apre il più possibile la visuale nostra agli<br />

stimoli esterni.<br />

L’adesione ai temi nazionalisti perde il suo potere di soffocamento: paradossalmente, il<br />

periodico che più e meglio avrebbe potuto rispondere alla ragione delle armi con<br />

un’adesione totale, con l’annullamento delle motivazioni metodo<strong>lo</strong>giche in favore di<br />

una dissipazione sciovinista della critica, offre risposte diversificate e complesse. Che<br />

potremmo riassumere nell’idea di una partecipazione schierata ma consapevole.<br />

Del resto da molto tempo, “Pagine d’arte” si pone il problema di definire un ruo<strong>lo</strong><br />

plausibile per gli artisti e per i critici in una società sollecitata in senso distruttivo.<br />

Giolli, nel febbraio 1915, dichiarava:<br />

Le torri d’avorio non resistono più, in questa guerra. Tutti abbiamo questa guerra<br />

aspra e tormentosa nel cuore. Tutti avremo il <strong>bene</strong>ficio di questa prova violenta, di<br />

questo martirio vo<strong>lo</strong>ntario e generoso, di questo ideale sacrificio.<br />

105


106<br />

Marta Nezzo<br />

E ancora:<br />

Che sia guerra che vinca o che non vinca. Ma, se vinca, ci darà anche un’arte che opererà<br />

con più larghezza e intensità, perché avrà fiducia nel trionfo; ci darà una critica che scriverà con<br />

fervore e con vigore perché saprà d’aver un’arte nazionale da difendere58 .<br />

Ben più che altrove, qui, l’osmosi fra crismi identitari e derive nazionaliste è intesa con chiara<br />

coscienza.<br />

Configurandosi, sin dal principio, come luogo di frizione fra problemi teorici e realtà pratica,<br />

fra cronaca e giudizio, la rivista matura come corpo consapevolmente ibrido. E avverte<br />

l’esigenza profonda di trarre, dal concentrarsi degli avvenimenti, <strong>lo</strong> spunto per una rifondazione<br />

vera e propria, intimamente identitaria, del sistema delle arti italiano. Vaglia i nuovi strumenti della<br />

propaganda, sonda le prospettive imposte dal nazionalismo. E infine sembra uscire dalla crisi<br />

europea animata da nuova lucidità, dal continuo slancio verso un model<strong>lo</strong> di militanza intriso di<br />

creatività, di interventismo culturale e sociale, di entusiasmo: fra ’18 e ’19 non si occuperà<br />

soltanto di restituzioni e risarcimenti, ma delle rinascenti polemiche d’architettura, delle mostre<br />

della para-avanguardia veronese 59 , del futuro.<br />

Anche Giolli, come Eva Tea, come molti altri, medita sul ruo<strong>lo</strong> della critica d’arte.<br />

Ma le impone il giogo di un’eticità profonda, capace di governare la riflessione per affrontare i<br />

drammi della storia.<br />

«Il va<strong>lo</strong>re delle idee è fattivo concreto tangibile», scrive su “Pagine d’Arte” nel febbraio 1917 60 ;<br />

e ancora, in marzo:<br />

come il pittore dal vero ha tratto mille osservazioni che incentra, rifonde, ricrea in una unità<br />

nuova, prima inesistente, nella sua visione lirica, così il critico trae dall’arte costruita, dalla vita<br />

formata, mille osservazioni, le incentra, le ricrea in una nuova unità: che è la sua coscienza della<br />

storia. Per modo di dire. Perché è da sé che la trae61 .<br />

E dopo Caporetto:<br />

C’è qualche cosa che continuerebbe a vivere tra le più dannate ipotesi di un domani<br />

catastrofico, – la nostra coscienza, il nostro pensiero. E continuare oggi a pensare, come prima<br />

si faceva, a scrivere, non è più quella cieca follia che sarebbe invece nel continuare ad agire.<br />

Perché appunto questo del pensare e del<strong>lo</strong> scrivere è uno dei modi di rientrar nella nostra anima,<br />

di capirci. Anche se si pensi so<strong>lo</strong>, ma che sia con serietà, e si scriva dell’arte62 .<br />

58 R. GIOLLI, L’arte di domani (Per credere alla guerra e alla storia), “Pagine d’arte”, III, 4, 28 febbraio 1915, pp. 34-35.<br />

59 L. FIUMI, Esposizione d’arte Moderna,“Pagine d’arte”, VI, 5, mag. 1918, pp. 60-62; La Cispadana di Verona, Ivi, VII, 9, set. 1919,<br />

pp. 79-81. Entrambi figurano nella rubrica “Esposizioni”.<br />

60 R. GIOLLI, Indicazioni, “Pagine d’arte”, V, 2, 28 febbraio 1917, p. 26.<br />

61 ID., Contenuti, “Pagine d’arte”, V, 3, 15 marzo 1917, p. 51.<br />

62 ID., Il so<strong>lo</strong> problema. Parentesi, “Pagine d’arte”, V, 11, 15 novembre 1917, pp. 179-180.


Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />

L’inarrestabile <strong>lo</strong>tta, fra i va<strong>lo</strong>ri identitari e la <strong>lo</strong>ro possibile degenerazione sciovinista, si<br />

scioglie nel<strong>lo</strong> specchio di una coscienza limpida. Opzione viva e perico<strong>lo</strong>sa dell’essere pensiero,<br />

come dimostrerà, molti anni dopo, proprio Raffael<strong>lo</strong> Giolli, assassinato a Mauthausen-Gusen nel 1945.<br />

VignettadiJean-LouisForain,inaperturadell’artico<strong>lo</strong>,<br />

senza firma, I disegnatori di guerra: Forain, in<br />

« Pagine d’arte », V, 4, 15 aprile 1917, pp. 80-81: 80.<br />

<strong>Di</strong>segno inedito di Jean-Louis Forain, in I disegnatori di guerra: Forain, in<br />

«Pagine d’arte», V, 4, 15 aprile 1917, pp. 80-81: 81.<br />

Albin Egger-Lienz, Finale. L’illustrazione chiude il trafiletto I disegnatori<br />

della guerra: Egger-Lienz, in “Pagine d’arte”, VII, 7, 15 luglio 1919, pp. 64-65: 65.<br />

107


“IO LO CONOSCEVO BENE...”<br />

RENATO GUTTUSO VISTO DA LEONARDO SCIASCIA<br />

GIUSEPPE CIPOLLA<br />

1 L. SCIASCIA, <strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>, “L’Espresso”, 11 ottobre, 1987, infra.<br />

2 G. JACKSON, Nel labirinto di Sciascia, Edizioni La Vita Felice, Milano 2004, p. 202.<br />

3 B. CARUSO, Le giornate romane di Leonardo Sciascia, La Vita Felice, Milano 1997, p. 63.<br />

A giustificazione del suo amore per l'arte,<br />

Leonardo ha scritto molto sugli artisti e di ogni<br />

artista ha saputo sempre cogliere un lato<br />

particolare e inedito.<br />

Bruno Caruso, Le giornate<br />

romane di Leonardo Sciascia,<br />

Edizioni La Vita Felice, Milano 1997<br />

«Ho conosciuto benissimo Renato Guttuso: e posso dir<strong>lo</strong> non so<strong>lo</strong> per i frequenti<br />

incontri, la lunga confidenza, la simpatia e l’affetto che avevo per lui, ma anche – e soprattutto<br />

– perché il nostro essere d’accordo nel giudicare persone, fatti e libri nella <strong>lo</strong>ro immediata verità,<br />

se appena tentavamo di risalire ai principi, diventava fondamentale e profonda discordia» 1 .<br />

Più che mai simili in moltissimi contenuti, come l’attaccamento alla <strong>lo</strong>ro terra, l’interesse per<br />

una giustizia sociale, il rinnovamento di istituzioni superate. Personalmente non potevano essere<br />

più diversi: Sciascia illuminista, costante seguace del fi<strong>lo</strong> della ragione, uomo riservato; Guttuso<br />

esuberante, di temperamento passionale a volte volubile, perennemente in crisi, in cerca di<br />

compagnia, amici, amiche, movimento.<br />

Sciascia non amava distaccarsi per periodi molto lunghi dalla Sicilia, mentre Guttuso<br />

trascorreva lunghi periodi <strong>lo</strong>ntano dalla sua terra, ma non se ne distaccava mai emotivamente:<br />

quasi tutta la sua pittura ritorna alle vedute marine, ai ritratti, alle nature morte che sono radicati<br />

in Sicilia. Non a caso amava ripetere «Anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia» 2 .<br />

I rapporti di intensa e comprovata amicizia tra Renato Guttuso e Leonardo Sciascia, come<br />

noto, furono segnati nel 1979, da una rottura prettamente di carattere politico – definita<br />

dal comune amico Bruno Caruso il «fattaccio» 3 –, che tuttavia portò a un distacco molto sofferto


110<br />

Giuseppe Cipolla<br />

tra i due 4 . Sciascia era stato consigliere comunale assieme a Guttuso a <strong>Palermo</strong>, eletto nel 1975<br />

nelle liste del Pci, carica da cui si dimise dopo circa un anno e mezzo, mentre dal 1979 al 1983,<br />

in un momento di disapprovazione con il compromesso storico del PCI, diventò deputato al Parlamento<br />

nelle file del Partito Radicale 5 . In seguito, fatto che poi determinò la fine della storica amicizia,<br />

fu il noto misunderstanding con Berlinguer e Guttuso sul caso Moro riguardo alla questione<br />

delle responsabilità dei servizi segreti dell’Est nel rapimento 6 .<br />

Un rapporto che fino a quella data era stato segnato, pur nelle divergenze di vedute, da<br />

profonda amicizia, come emerge, ad esempio, da un intervista al<strong>lo</strong> scrittore apparsa su “Critica<br />

Sociale” nel gennaio del 1978, dove, alla domanda sui legami personali e politici con Guttuso,<br />

Sciascia rispose: «Con Guttuso ho rapporti di profonda amicizia, mai incrinati dalla sua<br />

ortodossia e dal mio dissenso. In questo siamo entrambi molto siciliani» 7 . Appena un anno dopo<br />

<strong>lo</strong> scrittore verrà smentito proprio dall’“ortodossia politica” del grande pittore, che, nel maggio<br />

del 1979, in seguito alla candidatura di Sciascia nelle liste del Partito Radicale, scriverà:<br />

«Caro Leonardo, il senso di sgomento che ho provato nell’apprendere la notizia della tua<br />

candidatura nel PR mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia amicizia per te» 8 .<br />

Una frase perentoria, che dimostra quanto per il pittore le divergenze e la “contraddizione” nelle<br />

scelte politiche del<strong>lo</strong> scrittore rappresentassero un muro invalicabile anche per i rapporti personali.<br />

Ed è significativa, infatti, la risposta di Sciascia, che chiarisce la propria visione in merito:<br />

La tua preoccupazione e il tuo sgomento non vengono dal<strong>lo</strong> scoprirmi in contraddizione:<br />

sono un modo e del tuo modo di vivere il comunismo, e del tuo modo di intendere l’amicizia. Tu<br />

dici “La notizia della tua candidatura nel PR mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia<br />

amicizia per te”. Al contrario, il tuo essere comunista negli anni del realismo socialista, durante<br />

la polemica Vittorini-Togliatti, di fronte ai fatti d’Ungheria e di Cecos<strong>lo</strong>vacchia, in questi anni<br />

di compromesso storico, non mi hanno mai fatto riflettere sull’amicizia che sentivo per te anche<br />

prima di conoscerti e che poi ha trovato conferma nel conoscerti. [...] Un mio concittadino usava<br />

chiudere le discussioni con questa frase: “Siamo d’accordo, ma la pensiamo diversamente”. Anche<br />

noi, caro Renato, siamo d’accordo su tante cose: ma la pensiamo diversamente. Contentiamoci<br />

dell’essere d’accordo su qualche punto. E continuiamo, finché si può, a pensarla diversamente9 .<br />

Fin qui la storia nota delle <strong>lo</strong>ro divergenze politiche legate alla fase conclusiva dei<br />

<strong>lo</strong>ro rapporti: ma è, tuttavia, in campo figurativo e letterario che emergono svariati punti<br />

di condivisione, che vanno a comporre, nella <strong>lo</strong>ro varietà, il lungo sodalizio culturale intercorso<br />

fra i due prima del 1979.<br />

4 Su questo punto cfr. L. SCIASCIA, <strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong>..., 1987.<br />

5 A. MAORI, Leonardo Sciascia: e<strong>lo</strong>gio dell’eresia, Edizioni La Vita Felice, Milano 1995, pp. 22-24.<br />

6 Su questa vicenda cfr. L. SCIASCIA, A futura memoria: se la memoria ha un futuro, Bompiani, Milano 1989, pp. 102-105.<br />

7 L. SCIASCIA, Intervista su “Critica Sociale”, gennaio 1978, ripubblicata in L. SCIASCIA, La palma va a nord, a cura<br />

di V. Vecellio, Gammalibri, Milano 1982, p.17.<br />

8 Lettera di Renato Guttuso a Leonardo Sciascia, s.d., pubblicata su “La Repubblica”, maggio 1979.<br />

9 Lettera di Leonardo Sciascia a Renato Guttuso, s.d., pubblicata su “La Repubblica”, maggio 1979.


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

Prima di sondare nel<strong>lo</strong> specifico la rete di tali rapporti, però, sia consentita una breve<br />

e generale premessa relativa ai legami di Sciascia con le arti figurative.<br />

Un aspetto poco noto, infatti, dell’attività extra-letteraria di Leonardo Sciascia – ma che con<br />

la letteratura presenta frequenti e indissolubili punti di contatto – è la sua intensa passione per<br />

le arti figurative, condensata in una cospicua produzione di scritti d’arte 10 .<br />

Come per il cinema, si può distinguere uno Sciascia che scrive d’arte (presentazioni, elzeviri,<br />

saggi critici) da uno Sciascia appassionato d’arte (nella veste a lui non tanto congeniale di<br />

collezionista, e in quella, diversamente più autentica e spontanea, di frequentatore di atelier<br />

e gallerie d’arte) e, infine, da uno Sciascia che mutua nella sua scrittura narrativa immagini<br />

dall’arte figurativa 11 . Un interesse ampio<br />

quel<strong>lo</strong> del<strong>lo</strong> scrittore che si muove dalla<br />

passione per le stampe e la grafica in genere<br />

– come attesta la cospicua collezione che<br />

donò alla Fondazione Sciascia a Racalmuto,<br />

costituita da circa duecento disegni e<br />

incisioni con i ritratti degli scrittori da lui<br />

più amati dal Cinquecento al Novecento,<br />

raccolti nei numerosi viaggi e soggiorni a<br />

Parigi, Milano, Torino, Parma, Firenze e<br />

Roma – alla vasta produzione di scritti<br />

d’arte articolatasi attraverso la critica<br />

d’arte militante in presentazioni, cata<strong>lo</strong>ghi<br />

di mostre, nella stampa periodica e nelle<br />

riviste d’arte, e su argomenti quali scultura,<br />

Renato Guttuso, Autoritratto, 1936, olio su tela, cm 49 x 60,5, Galleria<br />

d'Arte Moderna, <strong>Palermo</strong>.<br />

pittura, disegno, incisione, architettura e fotografia 12 . Dall’interesse per l’arte moderna in<br />

Sicilia, come attesta la lettura socio<strong>lo</strong>gica sul Ritratto di Ignoto di Antonel<strong>lo</strong> da Messina del Museo<br />

Mandralisca di Cefalù 13 , o gli scritti dedicati a Francesco Laurana, Caravaggio 14 , Filippo Paladini 15<br />

e Pietro d’Asaro 16 ; o i rapporti con la cultura figurativa contemporanea, non soltanto siciliana.<br />

10 Una prima ricognizione bibliografica degli scritti di Sciascia sulle arti figurative è stata pubblicata da Francesco<br />

Izzo (cfr. F. IZZO, Come Chagall vorrei cogliere questa terra: L. Sciascia e l’arte. Bibliografia ragionata di una passione, in La memoria di<br />

carta, a cura di V. Fascia, con scritti di F. Izzo e A. Maori, Edizioni Otto/Novecento, Milano 1998, pp. 191-276), che ringrazio<br />

vivamente per avermi fornito preziosi suggerimenti. Recentemente è stata pubblicata una nuova ricognizione bibliografica,<br />

cfr. A. MOTTA, Bibliografia degli scritti di Leonardo Sciascia, Sellerio editore, <strong>Palermo</strong>2009.<br />

11 Su questo aspetto si veda l’informata biografia di G. TRAINA, Leonardo Sciascia, Mondadori, Milano 1999, pp. 48-50.<br />

12 Per un quadro generale sui rapporti tra Sciascia e le arti figurative cfr. La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative,<br />

cata<strong>lo</strong>go della mostra (Racalmuto 1999) a cura di P. Nifosì, Edizioni Salarchi Immagini, Comiso 1999; e<br />

G. CIPOLLA, L’universo sciasciano delle arti figurative, “El Aleph”, 11, Francotirature, Milano 2009, pp. 81-89.<br />

13 Cfr. G. MANDEL, L’opera completa di Antonel<strong>lo</strong> da Messina, con introduzione di L. Sciascia, Milano 1967.<br />

14 Cfr. CaravaggioinSicilia,ilsuotempo,ilsuoinflusso,cata<strong>lo</strong>godellamostra(Siracusa1984)acuradiF.Abbate,Sellerioeditore,<strong>Palermo</strong>1984.<br />

15 Cfr. Mostra di Filippo Paladini, cata<strong>lo</strong>go della mostra (<strong>Palermo</strong> 1967) a cura di M. G. Paolini e D. Bernini, saggio<br />

introduttivo di C. Brandi, <strong>Palermo</strong> 1967.<br />

1 6 Cfr. Pietro d’Asaro il «Monoco<strong>lo</strong> di Racalmuto», cata<strong>lo</strong>go della mostra (Racalmuto 1984-1985) a cura di<br />

M. P. Demma, prefazione di L. Sciascia, <strong>Palermo</strong> 1984.<br />

111


112<br />

Giuseppe Cipolla<br />

Renato Guttuso, Voltaire, 1972, disegno a china,<br />

355x255 mm, Fondazione Sciascia, Racalmuto.<br />

Per quanto riguarda i ritratti degli scrittori del<br />

passato da lui raccolti, e ora conservati alla Fondazione<br />

Sciascia a Racalmuto, si possono citare qui almeno le<br />

due chine di Guttuso donate al<strong>lo</strong> scrittore per la sua<br />

collezione: si tratta di due ritratti di Voltaire, scrittore<br />

amatissimo da Sciascia, di cui uno di profi<strong>lo</strong>, dove<br />

l’artista appose una significativa dedica: «A Leonardo, a<br />

Voltaire e alla Dea Ragione», a dimostrazione del<br />

sodalizio culturale tra i due; e l’altro che rappresenta<br />

una sorta di studio “divertito” del volto del<strong>lo</strong> scrittore<br />

francese visto nelle varie espressioni, anche qui con una<br />

scritta di Guttuso: «pour Voltaire» 17 .<br />

La familiarità di Sciascia con l’arte contemporanea è<br />

confermata, inoltre, dal frequentatissimo contatto con<br />

pittori come Guttuso, Mino Maccari, Lia Pasqualino Noto,<br />

Antonel<strong>lo</strong> e Francesco Trombadori, Tono Zancanaro,<br />

Cazzaniga, Fabrizio Clerici, Emilio Greco, Bruno Caruso<br />

e Fausto Pirandel<strong>lo</strong>, oltre alle sue relazioni, seb<strong>bene</strong> più<br />

distanti, con altri, tra cui spicca la figura di Giorgio De Chirico,<br />

che intervistò nel 1975 in occasione di una mostra del pittore a <strong>Palermo</strong>.<br />

Sciascia era molto conosciuto negli studi palermitani, romani, milanesi e parigini frequentati<br />

da scrittori e pittori, come amico e come collega. Inoltre è stato il tutore di numerosi giovani<br />

pittori, ai cui vernissages delle mostre a <strong>Palermo</strong>, Parma, Milano, Torino e altre città italiane non<br />

mancava mai.<br />

Quando si tratta, poi, di artisti particolarmente congeniali e siciliani, come Antonel<strong>lo</strong> da Messina,<br />

Emilio Greco, Renato Guttuso e Bruno Caruso, esulando da differenziazioni storiche, in questi<br />

casi <strong>lo</strong> scrittore trasforma la sua pagina critica quasi in una pagina narrativa, “raccontando” le<br />

ana<strong>lo</strong>gie esistenziali fra gli artisti e i luoghi della vita siciliana, quasi registrandone i tratti<br />

endemici del <strong>lo</strong>ro legame con la cultura isolana.<br />

Si ricordi, inoltre, l’attività, poco nota, di Sciascia, come fondatore e direttore della rivista<br />

“Galleria: rassegna bimestrale di cultura”, fondata nel 1949 assieme a Mario Petrucciani e<br />

Jole Tornelli ed edita da Salvatore Sciascia a Caltanissetta, che annoverava tra i suoi<br />

collaboratori Pier Pao<strong>lo</strong> Pasolini, Alberto Moravia, Mario Praz, Emilio Cecchi, Ferruccio<br />

Ulivi, Enrico Falqui; e storici e critici d’arte, tra cui Roberto Longhi, Car<strong>lo</strong><br />

Ludovico Ragghianti, Roberto Salvini, Cesare Brandi, Giulio Car<strong>lo</strong> Argan e Federico<br />

Zeri. Nomi che testimoniano la sensibilità del periodico per le arti visive, a dimostrazione dei<br />

17 Entrambi i disegni sono firmati e datati in basso a sinistra: il primo reca la firma e la data: «Guttuso / 1-1-1972»,<br />

e il secondo: «Guttuso / 1-1-1972».


Renato Guttuso, Pour Voltaire, 1973, disegno a china,<br />

700x550 mm, Fondazione Sciascia, Racalmuto.<br />

“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

legami esistenti nella seconda metà del Novecento<br />

tra critica letteraria e critica d’arte 18 . Sciascia coinvolgeva<br />

spesso i suoi amici pittori per illustrare il periodico<br />

nisseno, come nel caso del numero del 1955 dedicato<br />

a Nino Savarese, per il quale aveva chiesto a Guttuso<br />

e Maccari una serie di disegni con i ritratti del grande<br />

scrittore ennese 19 .<br />

Un discorso a sé è rappresentato poi dalla sua<br />

passione per l’incisione: Luigi Bartolini, Mario<br />

Calandri, Mino Maccari, Ernesto Treccani (che<br />

Sciascia conobbe tramite Guttuso), Leonardo<br />

Castellani, Flavio Costantini, Tono Zancanaro,<br />

sono i nomi degli incisori più vicini al goût esthétique<br />

del<strong>lo</strong> scrittore; un gusto che si muove tra recupero<br />

della tradizione naturalistica dell’arte moderna e<br />

linguaggi a volte di matrice neosimbolista o<br />

neoespressionista, ma sempre votati a intenti narrativi.<br />

Non è un caso che molti degli artisti prediletti da<br />

Sciascia, fossero anche scrittori, come nel caso di<br />

Savinio, Caruso, Antonel<strong>lo</strong> Trombadori e altri, personaggi che affascinavano Sciascia per il <strong>lo</strong>ro<br />

“dilettantismo” stendhaliano, per il <strong>lo</strong>ro “peregrinare nel mondo con spirito universalistico” 20 .<br />

Quasi come compensazione metafisica, inoltre, nei suoi romanzi, egli ha spesso incastonato nella<br />

narrazione improvvise apparizioni di immagini tratte dal patrimonio artistico mondiale:<br />

dal tableau vivant erotico composto dal protagonista <strong>Di</strong> Blasi e dalla sua amante<br />

nel Consiglio d’Egitto (1963), che rimanda alle scene galanti dei dipinti di Boucher;<br />

alla presenza della Tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti e della Zattera della Medusa di<br />

Géricault in Todo Modo (1974), dove il protagonista è un pittore anonimo di successo, che<br />

senza molte difficoltà potrebbe essere identificato proprio con Guttuso 21 ; alla nota incisione di<br />

Dürer ne’ Il cavaliere e la morte (1988); al quadro rubato, allusivo al furto della Natività di<br />

Caravaggio dell’Oratorio di San Lorenzo di <strong>Palermo</strong>, in Una storia semplice (1989) 22 .<br />

18 Sulla rivista “Galleria” cfr. G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti figurative attraverso la direzione di “Galleria. Rassegna<br />

bimestrale di cultura” (1949-1989), “Annali di Critica d’Arte”, in corso di stampa.<br />

19 Cfr. Nino Savarese, “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura”, VI, 5-6, 1955.<br />

20 Cfr. F. IZZO, Come Chagall..., 1998, p. 194.<br />

21 In Todo modo Sciascia, pur tacendo il nome del pittore-protagonista, fornisce un indizio sulla sua identità, quando<br />

al suo primo incontro con l’antagonista Don Gaetano, questi dice al pittore anonimo: «mi pare di riconoscerla... Aspetti, non mi dica<br />

il suo nome... In televisione, circa tre mesi fa: facevano vedere come nasce un quadro, un suo quadro... Francamente, poteva<br />

farsi vedere a dipingere un quadro più bel<strong>lo</strong>... Ma l’ha fatto apposta, immagino: come nasce un brutto quadro per un brutto mondo,<br />

un quadro senza intelligenza per quei milioni di esseri senza intelligenza che stanno davanti a un televisore» (cfr. L. SCIASCIA, Todo<br />

modo, in Opere 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1989, p. 110). E di fatti Guttuso, che è un caso emblematico di<br />

artista che accanto a grandi capolavori dovette realizzare anche molti dipinti “corrivi” per il mercato, nel noto programma<br />

televisivo aveva realizzato in diretta una Natura morta con peperoni.<br />

22 Sulle suggestioni figurative dei romanzi sciasciani cfr. G. JACKSON, Nel labirinto di Sciascia, pp. 183-207.<br />

113


114<br />

Giuseppe Cipolla<br />

Questa in sintesi la vasta rete in cui si viene a col<strong>lo</strong>care l’interesse di Sciascia per le arti visive,<br />

nella quale – come vedremo – la figura di Guttuso inevitabilmente occupa un posto significativo.<br />

Tra gli artisti siciliani del Novecento, infatti, la figura di Guttuso è stata forse quella che più<br />

ha suscitato l’interesse, accanto a quel<strong>lo</strong> della critica ufficiale, di letterati e poeti, in varia misura<br />

adusi alla critica d’arte. Come emerge dalla vasta bibliografia su Guttuso, numerosi risultano gli<br />

scritti di letterati – in genere presentazioni e testi introduttivi a cata<strong>lo</strong>ghi di mostre – quali<br />

Alberto Moravia, Elio Vittorini, Giuseppe Ungaretti, Alfonso Gatto, Pier Pao<strong>lo</strong> Pasolini,<br />

Fernandez, Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia.<br />

Dagli scritti di Elio Vittorini e Duilio Morosini nel cata<strong>lo</strong>go della mostra milanese del 1942 23 ,<br />

a quel<strong>lo</strong> di Pab<strong>lo</strong> Neruda del 1954 24 , alla celebre monografia di Vittorini del 1960 25 , per non<br />

tacere poi di quelli di Alberto Moravia 26 , Pier Pao<strong>lo</strong> Pasolini 27 , Giuseppe Ungaretti 28 ,<br />

Elsa Morante e di altri scrittori 29 . Inutile, forse, aggiungere qui quanto le ragioni di questa diffusa<br />

attenzione siano da ricondurre alle comuni radici culturali dell’antifascismo, sulle quali si fonda<br />

gran parte della cultura italiana del secondo Novecento, e a cui si deve, peraltro, quel clima culturale<br />

che vide un legame stringente e ideo<strong>lo</strong>gico tra arte e letteratura, del quale risulta emblematico il<br />

sodalizio tra Sciascia e Guttuso.<br />

Nell’acceso dibattito post-bellico tra realisti e astrattisti, dove la figura del pittore bagherese<br />

occupa un posto rilevante 30 , Sciascia si schiera apertamente con i sostenitori del figurativismo,<br />

mantenendo tuttavia alcune riserve sulle posizioni estremiste di matrice marxista dell’amico 31 .<br />

E difatti, tempo dopo, in un’intervista dove gli veniva chiesto se condivideva l’estetica del<br />

“realismo socialista” della pittura di Guttuso, <strong>lo</strong> scrittore fermamente rispondeva:<br />

No, e del resto, per un artista vero – qual è per esempio Guttuso – il “realismo socialista” non esiste.<br />

Guttuso è un grande pittore più quando fa “I tetti di Sicilia” che quando dipinge i “Funerali di<br />

Togliatti”. Le etichette esistono in senso deteriore, e per la parte deteriore32 .<br />

23 E. VITTORINI, D. MOROSINI, <strong>Di</strong>segni di Guttuso, Edizioni di Corrente, Milano 1942.<br />

24 P. NERUDA, A. TROMBADORI, Renato Guttuso, Vystavnì Sine Mànesa, Praga 1954.<br />

25 E. VITTORINI, Guttuso, Edizioni del Milione, Milano, 1960.<br />

26 A. MORAVIA, F. GRASSO, Renato Guttuso, Edizioni Il Punto, <strong>Palermo</strong> 1962.<br />

27 P. P. PASOLINI, Venti disegni di Renato Guttuso, Editori Riuniti, La Nuova Pesa, Roma 1962.<br />

28 G. UNGARETTI, Renato Guttuso, Zeichnungen 1930-1970, Propyläen Verlag, Berlino 1970.<br />

29 È noto quanto estesa e notevole fosse la rete di amicizie di Guttuso in campo artistico e letterario, ci si limita a<br />

ricordare tra questi Picasso, di cui Guttuso era ospite almeno due volte l’anno, Neruda che fu testimone alle sue nozze con Mimise,<br />

«la persona che più l’ha capito e che più l’ha amato» come scrisse Sciascia.<br />

30 Sul dibattito in ambito figurativo tra realismo e astrattismo nel secondo dopoguerra cfr. R. BOSSAGLIA, La ripresa del dopoguerra:<br />

le varie tendenze, in EAD., L’arte nella cultura italiana del Novecento. Con un dizionario minimo degli artisti e dei critici, Laterza, Milano 2000, pp. 37-41.<br />

31 La scelta di campo in favore del realismo, che fu naturalmente trasversale rispetto alla letteratura e alle arti visive, va intesa<br />

nel solco della cultura gramsciana che emergeva nella critica letteraria e figurativa dei primi anni Cinquanta attraverso riviste quali<br />

“Nuova Corrente”, “Nuovi Argomenti”, “ L’esperienza poetica”, “Galleria”, “Il Selvaggio”, dove scrivevano Pasolini, Romanò, Roversi,<br />

Maccari, Guttuso stesso e Sciascia. Su questo punto cfr. M. ONOFRI, Storia di Sciascia, Editori Laterza, Roma 2004, pp. 33-34.<br />

32 L. SCIASCIA, Intervista pubblicata su “Critica Sociale”, 1978, p. 17.


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

Non è un caso, forse, che Sciascia scelga proprio un dipinto come Paese del latifondo<br />

siciliano del 1956, come illustrazione della copertina di uno dei suoi romanzi più<br />

celebri, Il giorno della Civetta, pubblicato da Einaudi nel 1961 33 .<br />

Inoltre Sciascia, sin dai primi anni Cinquanta, dimostra il suo interesse per artisti dediti al realismo,<br />

anche di epoche precedenti, come attestano alcuni saggi e recensioni di questi anni: si ricordi,<br />

ad esempio, la recensione apparsa su “Galleria”, nel novembre del 1952, della monografia su<br />

Vincenzo Gemito di Fortunato Bel<strong>lo</strong>nzi e Renzo Frattaro<strong>lo</strong>, dove ritroviamo espressa meglio la<br />

sua visione del realismo nell’arte: «la verità si fa arte e diventa più vera della stessa verità da cui<br />

muove». O si consideri la sua recensione, anni dopo, alla mostra parigina di Courbet del 1977 al<br />

Grand Palais, dove, liberando l’artista dalla semplicistica etichetta di “realismo socialista” cui<br />

aveva contribuito un saggio di Louis Aragon, afferma: «i quadri dicono semplicemente la storia<br />

di un grande pittore, una storia ricca di contraddizioni, di ambiguità e di mistero quanto quella<br />

di ogni grande artista, in ogni tempo», per sgombrare poi il campo da ogni dubbio citando uno<br />

scritto del pittore del 1855, dove l’artista stesso affermava: «l’etichetta di realista mi è stata<br />

imposta così come agli uomini del 1830 è stata imposta quella di romantici (…) ho voluto<br />

semplicemente mettere nell’intera conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e<br />

indipendente della mia individualità» 34 . E qui si notano già le premesse di fondo della prospettiva sciasciana<br />

nei confronti del realismo, che sarà poi alla base della sua visione del realismo di Guttuso con il quale<br />

<strong>lo</strong> scrittore entrerà in contatto nel secondo dopoguerra negli ambienti romani del Caffè Greco.<br />

In quegli anni Guttuso era già per molti artisti un punto di riferimento nodale, e nel suo<br />

entourage romano gravitavano artisti che poi furono molto vicini a Sciascia. Si pensi al<strong>lo</strong> scultore<br />

messinese Augusto Perez, assistente nel 1936 di Emilio Greco all’Accademia di Belle Arti a<br />

Napoli; oppure ad Antonel<strong>lo</strong> Trombadori, che fu anche fine scrittore; e, infine, a Bruno Caruso,<br />

i cui rapporti con Sciascia furono altrettanto significativi e non so<strong>lo</strong> nel periodo romano.<br />

Lo studio di Guttuso di via Margutta a Roma, in quegli anni, era frequentato, inoltre, da artisti<br />

siciliani che ne sposarono idealità etiche e politiche, come Carla Accardi, Ugo Attardi, e gli artisti<br />

della Scuola Romana, sulla quale Sciascia scrisse un artico<strong>lo</strong> apparso nel 1983 sul “Corriere della Sera” 35 .<br />

Con l’inizio degli anni Sessanta si affievolisce in parte per Guttuso l’impegno politico a favore<br />

della riflessione, con un linguaggio alto, non più inquadrabile in categorie, che trova le proprie<br />

ragioni nel ricordo, testimoniato nel cic<strong>lo</strong> pittorico autobiografico.<br />

33 Cfr. Renato Guttuso, Paese del latifondo siciliano (1956). Illustrazione per la copertina dell’edizione originale di L. SCIASCIA,<br />

Il giorno della civetta, Einaudi, Torino 1961.<br />

34 Cfr. L. SCIASCIA, I misteri di Courbet, in Id., Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, pp. 202-208.<br />

35 Cfr. L. SCIASCIA, Scuola Romana: una mostra per risvegliare una città, “Corriere della Sera”, 5 maggio 1983. Sulle frequentazioni<br />

del<strong>lo</strong> studio romano di Guttuso negli anni del dopoguerra cfr. D. FAVATELLA LO CASCIO (a cura di), Storie di amici e di arte. Opere dal<br />

Museo Renato Guttuso, cata<strong>lo</strong>go della mostra (Bagheria-Vigevano 2004), Bagheria 2004, pp. 21-22.<br />

115


116<br />

Giuseppe Cipolla<br />

Sono gli anni che Crispolti definisce di “realismo esistenziale” 36 , al quale Sciascia guarda<br />

con maggiore simpatia, come dimostra la sua attenzione per i dipinti del cic<strong>lo</strong> autobiografico<br />

dedicati ai “mostri” di Villa Palagonia, sulla quale anni dopo <strong>lo</strong> scrittore scriverà una nota<br />

introduttiva di particolare spessore storiografico 37 .<br />

I rapporti tra i due si intensificano negli anni Sessanta, con frequenti incontri a Roma, nel<strong>lo</strong><br />

studio di Bruno Caruso, frequentato da numerosi artisti dell’entourage sciasciano: Fabrizio Clerici,<br />

Tono Zancanaro, Mino Maccari, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, Car<strong>lo</strong> Levi e altri. E proprio<br />

in uno di questi incontri nasce l’idea della pubblicazione della cartella Vietnam-Libertà, apparsa<br />

poi nel 1968, alla quale aderirono con le <strong>lo</strong>ro incisioni Attardi, Guttuso, Levi e Vespignani,<br />

introdotte dal testo di Sciascia 38 . Sempre negli stessi anni i due si ritrovano spesso nelle gallerie<br />

d’arte palermitane, prima fra tutte “Arte al Borgo” di Eustachio Catalano, e poi del figlio Maurilio 39 .<br />

Non va poi dimenticata la collaborazione di Sciascia al quotidiano “L’Ora” di Vittorio Nisticò, dove<br />

proprio in quegli anni <strong>lo</strong> scrittore andava pubblicando elzeviri, articoli su vari artisti, recensioni di mostre<br />

e altro, contribuendo al clima mitteleuropeo e aggiornato che anche il periodo proponeva 40 .<br />

E proprio da un artico<strong>lo</strong> del quotidiano “L’Ora” del 22-23 febbraio 1969, ad esempio, emerge<br />

la frequentazione assidua di Sciascia degli ambienti artistici palermitani, dove ritrovava tutti i<br />

suoi più cari amici, da Enzo ed Elvira Sellerio a Eustachio Catalano, a Ignazio Buttitta, a Natale<br />

Tedesco; e proprio in merito alla mostra di Lia Pasqualino Noto, il suo nome è tra gli ospiti<br />

illustri in casa della pittrice, dove si dava una cena in onore di Guttuso e della moglie Mimise.<br />

Evienefuori,cheinquell’occasioneGuttusodissediSciascia:«hainsegnatoanoisicilianiadamarelaSicilia» 41 .<br />

Nell’autunno del 1969 i due si trovano assieme a <strong>Palermo</strong> per curare la mostra di Gianbecchina alla galleria<br />

“La Robinia”, occasione che porterà Sciascia a scrivere una nota critica sul pittore di Sambuca di Sicilia 42 .<br />

Nel 1971, in concomitanza con la mostra anto<strong>lo</strong>gica di Guttuso realizzata dal Comune di<br />

<strong>Palermo</strong> al Palazzo dei Normanni – nel cui cata<strong>lo</strong>go figuravano scritti di Sciascia stesso, Franco<br />

Grasso e Franco Russoli – <strong>lo</strong> scrittore racalmutese decide di dedicare interamente al pittore un<br />

numero di “Galleria” 43 , affidandone la cura editoriale a Natale Tedesco.<br />

36 E. CRISPOLTI, Malinconie esistenziali di Guttuso, da Milano (1935), e suggerimenti parigini di Severini, da Roma (1937), ai Pasqualino,<br />

a <strong>Palermo</strong> (un frammento di storia dei “Quattro”), in Il presente si fa storia: scritti in onore di Luciano Caramel, a cura di C. De Carli,<br />

F. Tedeschi, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 313-330.<br />

37 F. SCIANNA, La villa dei mostri, introduzione di L. Sciascia, Einaudi, Torino 1977; <strong>lo</strong> stesso testo di Sciascia è ripubblicato in<br />

una versione più ampia in L. SCIASCIA, Cruciverba, Einaudi, Torino 1983, pp. 67-75.<br />

38 Cfr. Vietnam-Libertà, Istituto Litografico Internazionale, Milano 1968 [con 5 acqueforti originali di Bruno Caruso, Car<strong>lo</strong><br />

Levi, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, in 90 esemplari]. Sull’argomento si veda A. MOTTA, Bruno Caruso negli scritti di<br />

Leonardo Sciascia, in Storia di un’amicizia. Scritti di Leonardo Sciascia sull’opera di Bruno Caruso, Kalós, <strong>Palermo</strong> 2009, p. 124.<br />

39 Le informazioni sull’assidua frequentazione di Sciascia della Galleria “Arte al Borgo”, negli anni Sessanta e Settanta,<br />

si devono a una piacevole conversazione verbale con Maurilio Catalano, che ringrazio vivamente. Sulle mostre degli anni Sessanta<br />

e Settanta nella galleria palermitana cfr. E. DE CASTRO, “Arte al Borgo” 1963-1973: dieci anni di mostre a <strong>Palermo</strong>, “Retab<strong>lo</strong>”, I, 1999, 11, p. 7.<br />

40 Il noto periodico palermitano “L’Ora”, fondato dall’imprenditore siciliano Ignazio F<strong>lo</strong>rio, nel corso della metà del Novecento<br />

ebbe tra le più autorevoli firme, per quanto concerne la critica d’arte, oltre a Sciascia, anche <strong>lo</strong> stesso Guttuso, e inoltre<br />

Maria Accascina, Adolfo Venturi, Emilio Cecchi e altri. Per un inquadramento generale del periodico citato cfr. G. DE MARCO, “L’Ora”.<br />

La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano (1918-1930). Fonti del XX seco<strong>lo</strong>, Silvana Editoriale, Cinisel<strong>lo</strong> Balsamo, Milano 2007.<br />

41 Cfr. “L’Ora”, 22-23 febbraio 1969, p. 13.<br />

42 Cfr. R. GUTTUSO, L. SCIASCIA, Gianbecchina, cata<strong>lo</strong>go della mostra, galleria “La Robinia”, <strong>Palermo</strong> 1969.<br />

43 Il periodico, fondato da Sciascia nel 1949 a Caltanissetta, si affacciava nel clima culturale del dopoguerra inserendosi nel<br />

dibattito sul realismo con una posizione in parte critica nei confronti del neorealismo, specialmente quel<strong>lo</strong> più politicizzato,<br />

promuovendo invece una cultura libera da ogni paternalismo politico e improntata sull’autonomia della letteratura e delle arti, nel<br />

solco comunque della tradizione realistica, riconosciuta in scrittori come Alvaro, Bontempelli, Brancati, Jovine, Moravia,<br />

Savinio, Vittorini e Zavattini, rivendicando il va<strong>lo</strong>re espressivo del linguaggio letterario. In ambito figurativo, queste posizioni si<br />

rispecchiavano nell’adesione iniziale al realismo sociale di Renato Guttuso e Giuseppe Migneco del gruppo di “Corrente”, del quale<br />

però Sciascia non condivideva l’estremismo politico, e successivamente nell’interesse verso le esperienze più libere, orientate tra<br />

figurativismo simbolico ed espressionismo lirico, di Bruno Caruso, o verso il linguaggio visionario di ascendenza metafisica<br />

di Alberto Savinio e Fabrizio Clerici.


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

Il numero monografico, articolato in tre sezioni, comprendeva una prima parte dedicata<br />

all’anto<strong>lo</strong>gia della critica, con scritti di illustri letterati e critici, tra cui quelli di Roberto Longhi<br />

(Lettera per la mostra di Guttuso a New York), Giovanni Testori, Elio Vittorini (Storia di Renato Guttuso),<br />

Cesare Brandi (La mostra di Guttuso a Parma), Car<strong>lo</strong> Ludovico Ragghianti (Guttuso pittore e scultore)<br />

e Antonel<strong>lo</strong> Trombadori; una successiva sezione costituita dagli omaggi, scritti e poesie, di letterati<br />

italiani e stranieri, tra cui Pier Pao<strong>lo</strong> Pasolini, Mario Soldati, Leonardo Sciascia, Rafael Alberti,<br />

John Berger e Pab<strong>lo</strong> Neruda; e infine, chiudeva il numero una anto<strong>lo</strong>gia degli scritti di Guttuso<br />

sulle arti figurative 44 .<br />

Appare significativo che Sciascia decida di dedicare un intero numero di “Galleria” a Guttuso,<br />

a una data in cui già l’artista bagherese rappresentava uno dei più importanti autori della pittura<br />

del Novecento.<br />

Importanza che il periodico nisseno voleva consacrare attraverso le testimonianze sia dei<br />

letterati che dei critici, e infine con gli scritti di Guttuso stesso sulle arti, quasi considerare l’artista<br />

nella totalità del suo apporto alla cultura del tempo, a volerne quindi sottolineare la portata<br />

universale, attraverso però una rigorosa attenzione alla fortuna critica.<br />

È qui che compare il primo scritto di Sciascia sull’amico ritornato a <strong>Palermo</strong> per la grande<br />

mostra del Palazzo dei Normanni. Guttuso a <strong>Palermo</strong> è però una acuta nota biografica, nel senso<br />

più strettamente esistenziale, dove <strong>lo</strong> scrittore guarda all’uomo Guttuso, all’uomo di successo che<br />

suo malgrado si trova a <strong>lo</strong>ttare contro sé stesso, aspetto che porta Sciascia a una singolare<br />

rievocazione dei personaggi verghiani:<br />

Ci sono, sì, i suoi quadri: nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari,<br />

sotto gli occhi di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscoprirla; ma sono come le terre al<br />

sole di don Gesualdo. «Ma egli è siciliano», dice ancora Lawrence di Gesualdo, «e qui salta fuori<br />

la difficoltà». La difficoltà, per Guttuso, per noi, per ogni uomo che è nato in quest’isola, di<br />

vivere dopo aver fatto, dopo avere accumulato quadri o libri o denaro; la difficoltà a resistere, a<br />

non soccombere «sotto il gruzzo<strong>lo</strong>» della ricchezza o della g<strong>lo</strong>ria o soltanto e semplicemente<br />

delle cose fatte, delle cose in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione.<br />

Con questo accostamento, Sciascia non fa altro che inserire l’artista nel più ampio concetto<br />

di “sicilitudine”, neo<strong>lo</strong>gismo sciasciano per eccellenza che fa eco a un’altra concezione del<strong>lo</strong><br />

scrittore, quella della “Sicilia come metafora del mondo”, vere e proprie chiavi di lettura<br />

della storia culturale siciliana secondo cui «scrittori e artisti, poeti e pittori, attraverso la<br />

particolarità e le particolarità della Sicilia, hanno raggiunto l’universalità» 45 .<br />

Del resto i “travagli esistenziali” di Guttuso, in rapporto anche con la sua attività pittorica, che<br />

Sciascia conosceva <strong>bene</strong> visti i profondi legami di amicizia che li legò dagli anni Cinquanta in poi,<br />

44 Cfr. Renato Guttuso, a cura di N. Tedesco, “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura”, a. XXI, 1-5, gennaio-ottobre 1971.<br />

45 L. SCIASCIA, Come si può essere siciliani, in ID., Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, p. 20.<br />

117


118<br />

Giuseppe Cipolla<br />

emergono già a partire dalla fine degli anni Trenta, come attesta ad esempio il carteggio con un altro<br />

suo grande sodale, Cesare Brandi – che sarà poi anche amico di Sciascia nel periodo palermitano.<br />

Nel 1939, così infatti scrive Guttuso al critico senese riguardo al suo rapporto problematico con<br />

la pittura: «Non posso dirti come vada il lavoro, perché non ne so nulla, e poi ho avuto il mal di<br />

denti, e poi è un momento che di lavorare non ho voglia. La campagna mi ha eccitato qualche<br />

momento – così bella e così inaspettatamente ricca di co<strong>lo</strong>re... Ma certe volte io vedo, sento<br />

penso e non mi piace dipinger<strong>lo</strong>. Mi pare di guastarmi un piacere privato. Non so che<br />

deduzione trarre da siffatti sentimenti ma preferisco guardare persino senza pensare...» 46 .<br />

Il trovarsi “perennemente in crisi”, componente quasi sartriana della poetica guttusiana,<br />

tuttavia, viene vista anni dopo da Sciascia non tanto come una défaillance, quanto come il più<br />

autentico punto di forza del pittore: «nessuna crisi può segnare il punto del cedimento per un<br />

uomo, per un artista, il cui elemento di vita è appunto la crisi. Guttuso è sempre in crisi: sicché<br />

nessuna crisi può coglier<strong>lo</strong> con insidia o alla sprovvista. Il suo essere pittore è una passione, una<br />

febbre, cioè, propriamente, una crisi» 47 .<br />

Un aspetto nodale e comune a una parte della critica letteraria e artistica su Guttuso, e che in<br />

questi scritti emerge dichiaratamente, è, quindi, l’inscindibilità tra l’uomo Guttuso e la sua opera,<br />

e tra la sua opera e la Sicilia. Assunto questo, tanto apparentemente semplicistico quanto legato<br />

a una problematicità di carattere critico-letterario fortemente presente non so<strong>lo</strong> negli scritti di<br />

Sciascia.<br />

Quando Sciascia scrive di Guttuso avverte di trovarsi di fronte ad un grande artista,<br />

totalmente immerso nella vita, per il quale arte e vita coincidono a tal punto da non lasciare spazio<br />

all’ironia e al gusto, due strumenti che servono a prendere le distanze. La personalità di Guttuso<br />

<strong>lo</strong> porta ad una considerazione di carattere generale, in certo qual modo paradossale<br />

per <strong>lo</strong> scrittore, attratto dall’ironia: «A pensarci <strong>bene</strong>, sono poi questi strumenti (l’ironia e il<br />

gusto) che impediscono <strong>lo</strong> scatto verso la grandezza. Un grande artista, un grande scrittore, non<br />

ha ironia e non ha gusto; e così anche i grandi momenti della letteratura, dell’arte, sono<br />

quelli che mancano di gusto e non sono governati dall’ironia» 48 .<br />

La percezione del paesaggio siciliano negli anni ‘50 e ‘60 era stata condizionata molto dalla<br />

pittura di Guttuso, dai violenti contrasti cromatici, e Sciascia non ne è immune. Recensendo, nel<br />

1971, una mostra dell’amico <strong>lo</strong>mbardo Giancar<strong>lo</strong> Cazzaniga, avverte, però, che in Sicilia si può<br />

trovare anche un’altra luce, diversa da quella dipinta da Guttuso, un altro paesaggio in grigioargento-viola,<br />

una Sicilia dai toni spenti, come l’aveva vista Cazzaniga nei suoi paesaggi siciliani.<br />

Esigenza primaria di questi scritti di Sciascia su Guttuso è quella di porsi non già come testi<br />

46 Lettera di Renato Guttuso a Cesare Brandi, 25 luglio 1939, Archivi della Soprintendenza di Siena; pubblicata in Brandi<br />

Guttuso, storia di un’amicizia, a cura di F. Carapezza Guttuso, Electa, Milano 2006, p. 10.<br />

47 L. SCIASCIA, La semplificazione delle passioni, in Cata<strong>lo</strong>go della Mostra anto<strong>lo</strong>gica dell’opera di Renato Guttuso, <strong>Palermo</strong>, Palazzo<br />

dei Normanni, 1971, infra.<br />

48 P. NIFOSÌ, Leonardo Sciascia: la passione di un “incompetente”, in La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, cata<strong>lo</strong>go<br />

della mostra (Racalmuto 1999) a cura di P. Nifosi, Edizioni Salarchi Immagini, Comiso 1999, p. 19.


analitici sulle opere dell’artista, in<br />

chiave descrittiva o ekfrastica, quanto<br />

quella di illuminarne sinteticamente<br />

alcuni significativi aspetti della poetica,<br />

enucleandone le più profonde radici<br />

culturali.<br />

Tale operazione e i conseguenti<br />

giudizi critici, tuttavia, risultano mediati<br />

da profonde conoscenze della storiografia<br />

artistica, e in particolare di quella relativa<br />

alla fortuna critica dell’artista siciliano.<br />

Nella pagina sciasciana si possono<br />

individuare almeno due direttive relative<br />

ai modelli di critica figurativa del<br />

Novecento: la prima, per quanto<br />

riguarda il linguaggio, ha origine nella<br />

critica di matrice rondista, precipuamente<br />

in figure come Cecchi e Praz – per i<br />

quali <strong>lo</strong> scrittore manifestò sempre la<br />

“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

Renato Guttuso, La Vucciria, 1974, olio su tela, 300x300 cm, Palazzo<br />

Steri, <strong>Palermo</strong> (proprietà dell'Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong>,<br />

donazione dell'artista).<br />

sua predilezione 49 ; mentre la seconda, inerente ai contenuti e alle metodo<strong>lo</strong>gie di analisi<br />

dell’opera d’arte, può essere individuata nelle pur diverse influenze della critica dagli anni Sessanta<br />

agli anni Ottanta di Ragghianti, Brandi, Argan e Calvesi, questi ultimi tre, in successione, titolari<br />

della cattedra di Storia dell’Arte all’Università di <strong>Palermo</strong>, incidendo fortemente oltre che sulla scuola<br />

storico-artistica siciliana, anche sul panorama dell’arte contemporanea e della critica d’arte militante.<br />

L’inestricabile binomio Sicilia-Guttuso ritorna nelle parole di Sciascia più volte:<br />

«quando si parla di Renato Guttuso, della sua pittura, si parla di Bagheria. Il paesaggio, la<br />

gente. L’intraprendenza e l’acutezza dei bagheresi, i fasti e nefasti dell’amor proprio. La vampa<br />

dei co<strong>lo</strong>ri, la morte. Bagheria con le sue ville settecentesche, estremo delirio dell’anarchia baronale;<br />

coi suoi giardini di limoni, in cui delira l’anarchia mafiosa. I mostri di Palagonia. Il mare dell’Aspra» 50 .<br />

E sono richiami confermati anche dalla critica ufficiale. Basti leggere, ad exemplum,<br />

le mirabili pagine di Calvesi del 1985, quando osserva «la Sicilia, la terra per antonomasia della<br />

nascita e del lutto, dei sogni e delle visioni che continuamente la rievocano, la Sicilia<br />

chiama Guttuso, <strong>lo</strong> chiama con i suoi mostri impietriti in bizzarre contorsioni, sul muro di cinta<br />

di villa Palagonia [...]» 51 .<br />

49 Nel caso degli scritti su Guttuso, ad esempio, la prosa d’arte sciasciana, sull’onda dei ricordi della pagina cecchiana e<br />

in genere della critica di matrice rondista – come ha notato Onofri - «vorrebbe portarsi dietro l’infinito di una digressione, la<br />

quale, nel gioco di citazioni e ana<strong>lo</strong>gie, sveli una sua necessità», che nel caso del pittore bagherese è quella di esprimere i riflessi<br />

esistenziali, e non tanto quelli ideo<strong>lo</strong>gici, della sua pittura. Cfr. M. ONOFRI, Storia di Sciascia…, 2004, p. 53.<br />

50 L. SCIASCIA, Nota su Guttuso…, 1972, infra.<br />

51 M. CALVESI, Guttuso e la Sicilia, in Guttuso e la Sicilia. Opere dal 1970 ad oggi, cata<strong>lo</strong>go della mostra (<strong>Palermo</strong> 1985), <strong>Palermo</strong> 1985, p. 15.<br />

119


120<br />

Giuseppe Cipolla<br />

Gli scritti di Sciascia su Guttuso, sotto forma di pensieri, note, divagazioni, in tutto cinque,<br />

distribuiti nel corso degli anni Settanta, involgono la dimensione più autobiografica dell’opera<br />

del pittore e quella quindi maggiormente legata alla Sicilia, che si manifesta nel cic<strong>lo</strong><br />

autobiografico, e in dipinti quali La Vucciria, o i Vespri Siciliani.<br />

È soprattutto la componente narrativa della pittura di Guttuso, correlata all’universo<br />

storico-culturale siciliano, che affascina Sciascia, suscitandogli diverse suggestioni letterarie e<br />

culturali che vanno dal Maga<strong>lo</strong>tti a Verga a Brancati, a Fernandez, Unamuno ecc.<br />

Parlando di opere come La fuga dall’Etna (1938-1939), che <strong>lo</strong> scrittore considera tra le più<br />

significative degli esordi, ritorna inevitabilmente l’accostamento, in chiave narrativa e poetica, a Verga:<br />

La poetica è per entrambi quella di «semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende<br />

avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una fuga. La differenza non è trascurabile. Si potrebbe<br />

dire, con una battuta, che c’è di mezzo tutta la scala zoo<strong>lo</strong>gica: dall’ostrica all’uomo in rivolta.<br />

E tuttavia l’ostrica di Verga, l’uomo attaccato al<strong>lo</strong> scoglio della miseria e degli affetti, soffre<br />

come e quanto l’uomo in fuga, l’uomo in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza, il sistema<br />

della passione52 .<br />

Del resto, la forte componente geografica dell’opera di Guttuso e l’accostamento a Verga,<br />

sono due aspetti che riprenderà a pieno anche Calvesi nel saggio Guttuso e la Sicilia del 1985,<br />

dove, a proposito di questi due punti, afferma che «pochi artisti, come Guttuso, sono così<br />

profondamente segnati dalla <strong>lo</strong>ro origine, e non soltanto nella natura dei temi, ma nelle stesse<br />

scelte linguistiche», e più avanti, riferendosi alla “vocazione al racconto” del pittore, precisa come<br />

«il romanzo di Verga può essere il riferimento più spontaneo e diretto» 53 . Vocazione al racconto<br />

che Calvesi mette in relazione alla venatura popolare insita nella migliore tradizione realistica<br />

della pittura siciliana, a partire dal realismo di fondo di Antonel<strong>lo</strong>, e in particolare di quell’«aria<br />

di famiglia» di cui aveva parlato Sciascia a proposito delle ambientazioni delle Annunciazioni del<br />

pittore messinese. Si viene a delineare qui, come in altri frangenti, un proficuo scambio di idee,<br />

spesso bilaterale, tra <strong>lo</strong> scrittore e il critico, a dimostrazione di influenze reciproche 54 .<br />

Influenze che ritroviamo anche con Brandi, con il quale Sciascia concorda, ad esempio,<br />

nel ritenere la Fuga dall’Etna – sotto l’influenza velata di Picasso – il vero snodo della pittura<br />

guttusiana: «la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna durante un’eruzione<br />

che Natale Tedesco ha chiamato “la Guernica siciliana”, però siciliana è un po’ anche la<br />

Guernica di Picasso; e forse Picasso ha studiato <strong>lo</strong> schema compositivo del Trionfo della morte<br />

di <strong>Palermo</strong> più di quanto Guttuso abbia dipinto la Fuga sotto l’impressione della Guernica che<br />

Cesare Brandi gli aveva al<strong>lo</strong>ra mandato in cartolina»; e gli influssi di Picasso nella Fuga dall’Etna<br />

52 L. SCIASCIA, La semplificazione delle passioni; cfr. appendice, infra.<br />

53 M. CALVESI, Guttuso e la Sicilia..., 1985, p. 11.<br />

54 Ibid., p. 12.


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

Brandi li aveva individuati in un suo scritto apparso nel 1964, in occasione della presentazione<br />

della mostra di Palazzo della Pi<strong>lo</strong>tta a Parma – testo riproposto nel numero di “Galleria” dedicato<br />

al pittore –, dove <strong>lo</strong> storico sottolineava l’importanza cruciale del celebre dipinto, conservato alla<br />

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma: «è di lì che nasce Guttuso, o<br />

meglio è lì l’impennata per cui salì sulla cresta dell’onda ed è riuscito a non scendere» 55 .<br />

Nel 1972 esce a Napoli, per le Edizioni Scientifiche Italiane, una monografia dedicata ai disegni<br />

di Guttuso, dal periodo dei primi studi grafici della Crocifissione (1942) sino alle celebri serie del<br />

Gott mit uns (1944), delle illustrazioni della <strong>Di</strong>vina Commedia (1962), per finire con la Serie autobiografica (1966).<br />

Sono interessanti le considerazioni sul Guttuso disegnatore, per le quali <strong>lo</strong> scrittore parte da<br />

spunti teorici derivanti da <strong>Di</strong>derot, Baudelaire e Alain, che sono peraltro per Sciascia i punti di<br />

riferimento della sua visione in merito al<strong>lo</strong> statuto del disegno. A questa tradizione risale ad<br />

esempio la distinzione baudelairiana, che Sciascia sposa pienamente, tra “disegnatori puri”<br />

e “disegnatori co<strong>lo</strong>risti”, e <strong>lo</strong> scrittore col<strong>lo</strong>ca naturalmente Guttuso nella seconda categoria, affermando:<br />

E ne abbiamo esempio immediato in questi disegni di Guttuso, che sono appunto i disegni<br />

di un co<strong>lo</strong>rista: e tanto più li riconosciamo per tali nell’assenza del co<strong>lo</strong>re, nel bianco e nero. Una<br />

riconoscibilità che viene da quel<strong>lo</strong> che Baudelaire chiama «un metodo ana<strong>lo</strong>go alla natura» – ed<br />

è inutile dire che la natura non è naturalistica. E quale metodo è più ana<strong>lo</strong>go alla natura di quel<strong>lo</strong><br />

dell’azione che viene da dentro le cose, dal centro delle cose, dell’azione che è la cosa – nella<br />

«armoniosa <strong>lo</strong>tta delle masse», nell’aria, nella luce? 56<br />

Il 14 dicembre del 1974 una delle opere più importanti di quel periodo di Guttuso,<br />

la Vucciria, sarà esposta per la prima volta in una mostra a <strong>Palermo</strong> voluta da Sciascia alla<br />

galleria “La Tavo<strong>lo</strong>zza” di Doretta Laudino. Anche qui <strong>lo</strong> scrittore propone uno scritto che, per<br />

quanto breve, colpisce per le sinestetiche impressioni che il capolavoro guttusiano gli suggerisce.<br />

Lo si nota, ad esempio, quando con una sottile lettura icono<strong>lo</strong>gica che <strong>lo</strong> porta a citare persino<br />

le Lettere odorose (1693-1705) del bizzarro conte, scienziato e letterato Lorenzo Maga<strong>lo</strong>tti (Roma,<br />

1637 – Firenze, 1712), afferma:<br />

Ora il visualizzare un fatto visuale quale la Vucciria di <strong>Palermo</strong>, vale a dire un fatto di<br />

predisposta, funzionale e funzionante visualità – il visualizzar<strong>lo</strong> in una pittura, in un quadro,<br />

in un grande quadro – sarebbe una operazione piuttosto ovvia e banale, se non vi concorresse<br />

non so<strong>lo</strong> una celebrazione della visualità nel senso maga<strong>lo</strong>ttiano, ma anche la conoscenza<br />

e conscienza di un significato: di quel che una tale visualità – che sarebbe da dire propriamente<br />

e definitivamente teatralità – umanamente e storicamente significa57 .<br />

55 Il testo di Brandi è pubblicato più volte: cfr. C. BRANDI, Guttuso a Parma, “Il Punto”, Roma, 15 febbraio 1964;<br />

ID., La mostra di Guttuso a Parma, in “Galleria”, XXI, 1-5, gennaio-ottobre 1971, pp. 84-85; ID., Scritti sull’arte contemporanea, Einaudi,<br />

Torino 1976, pp. 401-404; e infine in Brandi e Guttuso: storia diun’amicizia, a cura di F. Carapezza Guttuso, Electa, Milano 2006, pp. 132-134.<br />

56 L. SCIASCIA, Nota su Guttuso, 1972; cfr. appendice infra.<br />

57 ID., La Vucciria di Guttuso; cfr. appendice infra.<br />

121


122<br />

Giuseppe Cipolla<br />

Nel dicembre del 1975 un’altra mostra, sempre alla galleria “La Tavo<strong>lo</strong>zza”, offre a Sciascia<br />

<strong>lo</strong> spunto per presentare una cartella di sei litografie di Guttuso, accompagnate dai relativi<br />

disegni preparatori, riguardanti il tema dei Vespri siciliani. Già anni prima <strong>lo</strong> scrittore aveva<br />

espresso un giudizio sulla poetica dei disegni riguardanti temi della storia siciliana, nel quale – citando<br />

uno scritto di Dominique Fernandez sull’artista – poneva l’accento sulla sostanziale differenza<br />

tra l’uomo politicizzato e l’artista:<br />

Se come marxista non ignora che il mondo non deve essere soltanto contemplato, ma<br />

mutato, la sua sicilianità di fondo <strong>lo</strong> condanna a sentire, da artista, so<strong>lo</strong> il lirico disordine degli<br />

oltraggi, da ciò, possiamo anticipare, il suo incontro col più lirico – anche nel senso del<br />

me<strong>lo</strong>dramma – degli oltraggi che siano stati consumati in Sicilia: quel<strong>lo</strong> che diede esca al Vespro.<br />

Ed è chiaro che Sciascia, tra i due, preferisca di gran lunga l’artista, la sua “prosa figurativa”<br />

capace di narrare in senso “lirico” i fatti drammatici della storia, aspetto che <strong>lo</strong> porta naturalmente<br />

ad affermare: «Il suo sentimento e giudizio del Vespro, in queste immagini, è quel<strong>lo</strong> stesso che<br />

trascorre nei versi di Dante, nella Storia di Amari, nell’opera di Verdi» 58 .<br />

In generale, questi scritti su Guttuso sono costruiti in modo impeccabile nel rapporto tra la<br />

“restituzione” della critica alla sua letterarietà e l’analisi formale, sottolineando al contempo la<br />

capacità di Guttuso nell’inventare col segno le cose, e interpretando la sua opera come fuga<br />

“dell’uomo in rivolta contro la miseria” 59 . Aspetto questo, che inevitabilmente va ad associarsi<br />

con un altra significativa connotazione critica che Sciascia individua nell’opera dell’artista<br />

bagherese, e cioè l’identificazione arte-vita, che in Guttuso più che in altri artisti a lui contemporanei<br />

non è mai fatto banale: “le opere d’arte di Guttuso – scrive infatti Sciascia – non somigliano alla<br />

vita, non sono come la vita: sono, su un piano che non è quel<strong>lo</strong> della vita, la vita” 60 .<br />

È evidente negli scritti di Sciascia l’intenzione critica di sondare in profondità l’essenza umana<br />

dell’artista, le profonde ragioni intrinseche del fatto creativo, però tutto questo in stretta relazione<br />

e misurata compenetrazione con i dati “esterni”, gli aspetti sociali, ideo<strong>lo</strong>gici, letterari e politici<br />

che informano interamente la produzione di Guttuso. Con sorpresa poi ci si accorge che questi<br />

scritti offrono improvvise aperture alla critica figurativa novecentesca, divagazioni colte,<br />

“cruciverba”, combinazioni critiche, spunti notevoli sul<strong>lo</strong> statuto della pittura o del disegno,<br />

che, come osservato da Natale Tedesco, “vengono fuori ad illuminarci sulla cultura, sulla sintassi<br />

intellettuale di Sciascia, piuttosto che per una precisa analisi dell’opera dell’artista in questione» 61.<br />

58 ID., Il Vespro Siciliano, presentazione della mostra di Guttuso, Galleria “La Tavo<strong>lo</strong>zza”, <strong>Palermo</strong> 1975-1976, infra.<br />

59 Cfr. P. NIFOSÌ, Leonardo Sciascia: la passione di un “incompetente”, in La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, cata<strong>lo</strong>go<br />

della mostra (Racalmuto, Fondazione Sciascia, 1999) a cura di P. Nifosì, Racalmuto 1999, p. 19.<br />

60 Cfr. L. SCIASCIA, Nota su Guttuso, in Guttuso. <strong>Di</strong>segni 1938-1972, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972; infra.<br />

61 Cfr. N. TEDESCO, Le genea<strong>lo</strong>gie artistiche di Leonardo Sciascia, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia, cata<strong>lo</strong>go della<br />

mostra (Racalmuto-<strong>Palermo</strong> 1992) a cura di M. Pecoraino, <strong>Palermo</strong> 1992, p. 28.


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

Alla luce però dei dovuti confronti con la coeva critica ufficiale, emerge come tali formule e<br />

costruzioni critiche adottate da Sciascia nella sua scrittura d’arte siano del tutto funzionali e<br />

pertinenti alla materia trattata.<br />

Anche se raramente queste pagine presentano letture formali dei dipinti presi in esame, né tanto<br />

meno tentativi di critica visuale, o di ekfrasis, è perché <strong>lo</strong> scrittore vede i caratteri testuali più<br />

nell’ottica di una funzionalità narrativa. Sciascia si occupa di Guttuso nella misura in cui l’opera,<br />

i dipinti, i disegni rievocano la Sicilia e l’immaginario letterario che ne consegue. In ultima<br />

analisi, è evidente quanto in queste pagine di Sciascia sull’amico pittore, così come altre sulle<br />

arti visive e su altri artisti siciliani, sia assente ogni intenzione di fare critica d’arte – tanto meno<br />

di matrice accademica – quanto piuttosto di continuare un romanzo, scrivendone una delle pagine<br />

più interessanti: il “romanzo della Sicilia del Novecento” dove Guttuso occupa – secondo <strong>lo</strong><br />

scrittore – un posto di primaria importanza.<br />

Appendice*<br />

La semplificazione delle passioni (1971)<br />

«Se io potessi scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere<br />

del pittore. Le condizioni oggi sono storicamente privilegiate, che si abbia la forza e la libertà interna<br />

necessaria in tempi così perico<strong>lo</strong>si». Così scriveva Guttuso nel novembre del 1939, in quel numero del Selvaggio<br />

che Mino Maccari gli dedicava come ad uno «fra i migliori disegnatori che le nuove generazioni artistiche<br />

ci promettano», ed anzi il migliore senz’altro, considerando che dei pittori che al<strong>lo</strong>ra si affacciavano alla<br />

notorietà so<strong>lo</strong> Guttuso ebbe tutto per sé un numero del Selvaggio. Dopo più di trent’anni, forse Guttuso non<br />

si sentirebbe di riaffermare che viviamo in condizioni storicamente privilegiate, ma senza esitazioni tornerebbe<br />

a dichiarare che, se gli si offrisse di scegliere un’epoca in cui vivere e un mestiere, sceglierebbe quest’epoca<br />

e il mestiere del pittore; e che se alle certezze di al<strong>lo</strong>ra sono subentrati i dubbi, se i tempi sono più di al<strong>lo</strong>ra<br />

perico<strong>lo</strong>si, la forza e la libertà interna non gli sono venute meno, e anzi al tramonto della certezza e dal<br />

rampollare del dubbio la sua forza viene a prova decisiva e la sua libertà interna si accresce. O forse non <strong>lo</strong><br />

dichiarerebbe per quel pudore che appunto s’appartiene alla forza, ma tutta la sua opera nell’arco di<br />

quarant’anni, e il lavoro di questi ultimi anni particolarmente, dispiegano questa dichiarazione: Guttuso<br />

tanto più è forte e libero quanto più le condizioni sono difficili, i tempi perico<strong>lo</strong>si – difficili e perico<strong>lo</strong>si sia<br />

per «i destini generali» sia per i destini dell’arte. E questa forza di Guttuso, questa libertà, la conoscono<br />

* Si ringrazia per il consenso accordato alla pubblicazione degli scritti di Leonardo Sciascia su Renato Guttuso la Fondazione<br />

“Leonardo Sciascia” di Racalmuto e gli Eredi. I testi sono stati trascritti riproducendo fedelmente i criteri di scrittura dell’Autore.<br />

123


124<br />

Giuseppe Cipolla<br />

<strong>bene</strong> co<strong>lo</strong>ro che da anni vanamente aspettano di coglier<strong>lo</strong> al passo climaterico, quando «todo mal afirmado<br />

pie es caìda, toda fàcil caìda es precipicio»; e intendiamo al passo climaterico dei rivolgimenti e delle mode,<br />

degli scatti avanguardistici, delle reazioni – che per un artista, oggi, viene molto prima di quanto non venga,<br />

quando viene, quel<strong>lo</strong> dell’età; e si ripete. Guttuso il piede in fal<strong>lo</strong> non <strong>lo</strong> mette: non so<strong>lo</strong> perché ha grande<br />

talento e inesauribile energia, ma soprattutto per questa semplice e profonda ragione: che nessuna crisi può<br />

segnare il punto del cedimento per un uomo, per un artista, il cui elemento di vita è appunto la crisi.<br />

Guttuso è sempre in crisi: sicché nessuna crisi può coglier<strong>lo</strong> con insidia o alla sprovvista. Il suo essere pittore<br />

è una passione, una febbre – cioè, propriamente, una crisi. Prima che nel tempo, nelle condizioni storiche,<br />

il suo privilegio è quel<strong>lo</strong> di essere un uomo che ama la vita con furore ed angoscia, che con furore ed angoscia<br />

vuol coglierne il flusso, capirla, esprimerla, rappresentarla. Appartiene a quella linea di scrittori, di artisti,<br />

cui manca l’ironia e il gusto: a tal punto immersi nella vita che non sanno che farsene di questi due strumenti<br />

di misurazione, e cioè di distacco. E, a pensarci <strong>bene</strong>, sono poi questi due strumenti che impediscono <strong>lo</strong><br />

scatto verso la grandezza. Un grande artista, un grande scrittore, non ha ironia e non ha gusto; e così anche<br />

i grandi momenti della letteratura, dell’arte, sono quelli che mancano di gusto e non sono governati dall’ironia.<br />

Già sul vecchio numero del Selvaggio, nella nota di presentazione presumibilmente scritta da Maccari,<br />

si diceva Guttuso «immune dalle eccessive pretese letterarie e dalle calligrafiche divagazioni che viziano<br />

gran parte del disegno moderno»; che «i segni morti, i segni equivoci non hanno posto nelle composizioni»<br />

sue; che «alle tentazioni di una arbitraria eleganza, che pure la sua abilità gli renderebbe facile, egli oppone<br />

una coscienza che <strong>lo</strong> sconsiglia dalle avventure non confacenti al suo carattere e al suo temperamento».<br />

E dopo aver detto che i suoi disegni possono anche essere aridi ma sono sempre onesti, l’autore della nota<br />

spiegava come tale qualifica di onestà fosse da intendere nel senso «d’un iniziale atteggiamento morale, a cui<br />

il pittore deve in gran parte la felicità dell’azione, la padronanza dell’avventura, il ritmo vibrato della scrittura».<br />

Dopo tanti anni, davanti alla lunga e fitta prospettiva dell’opera di Guttuso, queste parole assumono più<br />

vaste e suggestive risonanze. La felicità dell’azione, l’avventura – l’avventura di vivere nella pittura, di vivere<br />

la pittura come avventura: felicemente, e cioè con do<strong>lo</strong>re. L’iniziale atteggiamento morale da cui diramano<br />

la felicità dell’azione, l’avventura, il vibrato ritmo dei segni, dei co<strong>lo</strong>ri. E mai un segno morto, un segno equivoco.<br />

Magari l’errore: possibile, frequente anzi. Mai l’insignificante o l’ambiguo, nel disegno di Guttuso, nella pittura.<br />

Ma ci lascia, la nota del vecchio Selvaggio, una fondamentale questione da dipanare: l’atteggiamento morale<br />

(cioè «poetico») iniziale, primario. Qual è, da quali radici viene? Ecco un testo brevissimo ma essenziale:<br />

«Tutta la scienza nella vita sta nel semplificare le umane passioni». È di Giovanni Verga; e si trova in Eros,<br />

un romanzo in cui c’è poco di tale scienza. Ma aveva già scritto, Verga, la novella Nedda: «…la fiamma che<br />

scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere<br />

nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le<br />

venti o trenta donne che raccoglievano le ulive del podere facevano fumare le <strong>lo</strong>ro vesti bagnate dalla pioggia<br />

davanti al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano;


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

gli altri ciarlavano della raccolta delle ulive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della<br />

pioggia che rubava <strong>lo</strong>ro il pane di bocca; la vecchia castalda filava, tanto perché la lucerna appesa alla cappa<br />

del focolare non ardesse per nulla, il grosso cane co<strong>lo</strong>r di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco,<br />

rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato di vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio<br />

si mise a suonare certa arietta…». Ed è un caso: ma come la storia del Verga grande comincia da quella<br />

fattoria del Pino alle falde dell’Etna, la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna<br />

durante un’eruzione che Natale Tedesco ha chiamato «la Guernica siciliana» (però siciliana è un po’ anche<br />

la Guernica di Picasso; e forse Picasso ha studiato <strong>lo</strong> schema compositivo del Trionfo della morte di <strong>Palermo</strong><br />

più di quanto Guttuso abbia dipinto la Fuga sotto l’impressione della Guernica che Cesare Brandi gli aveva<br />

al<strong>lo</strong>ra mandato in cartolina). Un caso: ma Savinio ci ha appreso che bisogna far caso al caso nella vita di uno<br />

scrittore, di un artista – ché c’è del metodo nella follia del caso, come in quella d’Amleto. E un tale metodo<br />

ci porta alla fiamma – «troppo vicina forse» – da cui sorge, con la dolente figura di Nedda, la poetica di<br />

Giovanni Verga; alla fiamma da cui erompe, con la fuga di una popolazione – eterna e atroce fuga dalla<br />

natura, dalla storia, da se stessa – la poetica di Renato Guttuso. La poetica è per entrambi quella di<br />

«semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una<br />

fuga. La differenza non è trascurabile. Si potrebbe dire, con una battuta, che c’è di mezzo tutta la scala zoo<strong>lo</strong>gica:<br />

dall’ostrica all’uomo in rivolta. E tuttavia l’ostrica di Verga, l’uomo attaccato al<strong>lo</strong> scoglio della miseria e degli<br />

affetti, soffre come e quanto l’uomo in fuga, l’uomo in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza, il sistema<br />

della passione.<br />

Nelle pagine di Mère Méditerranée che Dominique Fernandez dedica a Guttuso (tre pagine: e restano, tra<br />

quelle che conosciamo, le migliori che siano state scritte su di lui) leggiamo: «L’influenza di Goya e di<br />

Géricault raggiunge in Guttuso l’atavismo siciliano più profondo. Il pittore di Bagheria, esaltato o detestato<br />

per il fatto che dipinge cantonieri, zolfatari e pescatori, è vittima – o autore? – di un equivoco. Come Vittorini,<br />

suo conterraneo, il Vittorini ferito di Conversazione in Sicilia, Guttuso raccoglie il lamento del mondo offeso<br />

ben più di quanto non esorti i proletari alla riscossa… Il vero, il migliore Guttuso è rimasto un autentico<br />

siciliano, cioè un poeta della rassegnazione e della morte, della sconfitta e del massacro, nonostante i<br />

principi rivoluzionari. Se come marxista non ignora che il mondo non deve essere soltanto contemplato,<br />

ma mutato, la sua sicilianità di fondo <strong>lo</strong> condanna a sentire, da artista, so<strong>lo</strong> il lirico disordine degli oltraggi»<br />

(da ciò, possiamo anticipare, il suo incontro col più lirico – anche nel senso del me<strong>lo</strong>dramma – degli oltraggi<br />

che siano stati consumati in Sicilia: quel<strong>lo</strong> che diede esca al Vespro). E prima aveva detto: «Fra due quadri<br />

di pescatori siciliani, la Pesca del pesce spada in cui si vedono gli uomini attaccati e serrati ai remi, e il<br />

Pescatore addormentato, forma abbattuta, spiaccicata sul fondo indaco, il secondo è di gran lunga superiore.<br />

Guttuso dipinge di preferenza le donne nell’atteggiamento del grido, della disperazione; e rovescia le teste<br />

all’indietro, come se un coltel<strong>lo</strong> stesse per affondare in quelle gole. Tutta la sua opera riflette <strong>lo</strong> spavento di<br />

un supplizio imminente… ma si esprime, mi pare, con maggiore vigore quando la minaccia del martirio non<br />

125


126<br />

Giuseppe Cipolla<br />

è esplicita e resta al<strong>lo</strong> stato di rosso, sanguinante fantasma».<br />

Nella sua Storia di Guttuso (1960), Elio Vittorini ha una intuizione che purtroppo lascia subito cadere.<br />

Ricordando il soggiorno di Guttuso a Milano, tra il ’33 e il ’36, ad un certo punto dice: «Era a Milano che<br />

apprendeva dell’avvento di Hitler in Germania, delle cannonate di Dollfuss contro le case operaie in<br />

Austria, del 6 febbraio di Parigi, della Guerra d’Abissinia e della “fondazione dell’impero”. Era a Milano che<br />

portava avanti la sua pittura su un piano in cui il carattere mostruoso di questi fatti politici aveva la stessa<br />

importanza ossessiva che i mostri barocchi delle ville borboniche avevano avuto nelle sue prime prove di<br />

Bagheria». Ci si può spingere più avanti: la pittura di Guttuso è tutta, mentre implica l’ideo<strong>lo</strong>gia e la storia,<br />

la speranza e l’amore, il tripudio dei sensi e la <strong>lo</strong>tta – è tutta nell’ossessiva premonizione o presenza dei<br />

mostri, nell’incombere del rosso e sanguinante fantasma di cui parla Fernandez. La follia, la morte. E l’uomo<br />

non può rispondere alla follia che impazzendo. Non può rispondere alla morte che morendo. «Nobili scienziati»,<br />

faceva dire Brancati all’uomo, in una delle sue ultime note di diario, «io non posso che morire». È la risposta<br />

di ogni siciliano alle cose (e anche a quella che Sartre chiama «la cosa»). E tuttavia le cose vivono e splendono<br />

(a parte «la cosa») perché non si può che impazzire, perché non si può che morire. E così vivono e splendono<br />

nella pittura di Renato Guttuso.<br />

dal cata<strong>lo</strong>go della Mostra anto<strong>lo</strong>gica dell’opera di Renato Guttuso,<br />

a cura di Leonardo Sciascia, Franco Russoli e Franco Grasso, <strong>Palermo</strong>, Palazzo dei Normanni, 1971<br />

Nota suGuttuso (1972)<br />

Tra i pensieri bizzarri sul disegno di <strong>Di</strong>derot, ce n’è uno su cui convergono e da cui si diramano gli<br />

altri: «Autre chose est une attitude, autre chose une action. Toute attitude est fausse et petite; toute action<br />

est belle et varie».<br />

La distinzione tra «posa» e «azione», tra la posa che immeschinisce e falsifica e l’azione che restituisce alla<br />

bellezza e alla verità, è chiara e persino ovvia: quando <strong>Di</strong>derot parla di posa si riferisce ai modelli dell’accademia,<br />

quando parla di azione si riferisce ai modelli che offre la vita e tout court alla vita. Ma poco più avanti la<br />

distinzione si attenua e c’è come uno spostamento dall’oggetto al soggetto, dal model<strong>lo</strong> all’artista. Si apre<br />

la possibilità che il primo termine si cali e realizzi nel secondo, o al contrario – e che insomma la posa può<br />

essere azione o l’azione arridere alla posa so<strong>lo</strong> che il disegnatore sappia e voglia, so<strong>lo</strong> che il suo punto di<br />

vista si muova da fuori e dentro, da una situazione eccentrica a una situazione centrica. «Non è già da troppo<br />

tempo che di un oggetto vedete soltanto la parte che copiate? Cercate, amici miei, di supporre l’intera figura<br />

trasparente e di situare il vostro occhio al centro di essa: da lì osserverete tutto il giuoco esteriore del


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

meccanismo; vedrete come certe parti si distendono mentre altre si accorciano; come queste cedono mentre<br />

quelle crescono; e continuamente interessati all’insieme e al tutto, riuscirete a mostrare, nella parte<br />

dell’oggetto che il vostro disegno presenta, la conveniente corrispondenza con quella che non si vede;<br />

e, non offrendone che una faccia, tuttavia costringerete la mia immaginazione a vedere la faccia opposta.<br />

E al<strong>lo</strong>ra potrò affermare che siete dei disegnatori sorprendenti».<br />

A un seco<strong>lo</strong> e mezzo da <strong>Di</strong>derot, Ortega y Gasset (Sobre el punto de vista en las artes, 1924) vedrà la storia<br />

dell’arte occidentale, da Giotto ai nostri giorni, in un gesto unico e semplice: <strong>lo</strong> spostamento, l’evoluzione<br />

e involuzione del punto di vista; il ritrarsi del punto di vista dall’oggetto al soggetto. Ma non vedrà questo<br />

stadio del punto di vista al centro dell’oggetto, o non ne terrà conto. Del resto, <strong>Di</strong>derot diceva del disegno.<br />

E Ortega parla della pittura. Sappiamo poi come ai saggisti spagnoli, da Unamuno a Ortega, da Menendez<br />

y Pidal a Castro, sia peculiare un processo di emarginazione di tutto quel<strong>lo</strong> che contraddice o ostacola le tesi<br />

alla cui dimostrazione vanno dritti come frecce al bersaglio; e <strong>lo</strong> stesso Ortega, appunto aprendo il saggio<br />

cui ci riferiamo, dice che «la storia, quando è davvero quel che deve essere, consiste in una elaborazione di<br />

films» – cioè in una scelta e montaggio di fatti cristallizzati, di immagini discontinue, di idee disperse che<br />

si ricostituiscono così in unità e movimento.<br />

Ma il punto di vista che <strong>Di</strong>derot inventa e Ortega scarta, si può considerare meramente ottico così come sembra<br />

<strong>Di</strong>derot voglia, senza equivoco, affermar<strong>lo</strong>? Soprattutto ottico, se si vuole: ma al tempo stesso, al di là<br />

dell’evento fisico, suggerisce una categoria, una definizione del disegno moderno nel suo divenire autonomo,<br />

nel suo svincolarsi dalla pittura e nel suo – qualche volta – vincolare la pittura. Un disegno che muove dal<br />

centro delle cose, e perciò, e perciò le rende all’azione. Un disegno di cui ci dà esempio, in queste tavole, Guttuso.<br />

Facciamo ancora un passo in avanti – per il disegno, per i disegni di Guttuso – con Baudelaire.<br />

Dalle sue considerazioni sul disegno, nel Sa<strong>lo</strong>n de 1846, caviamo una distinzione fondamentale: quella tra i<br />

disegnatori esclusivi o puri e i disegnatori co<strong>lo</strong>risti. La distinzione non consiste nel fatto che i disegnatori<br />

puri escludono il co<strong>lo</strong>re e i co<strong>lo</strong>risti <strong>lo</strong> impiegano ma, al contrario, nel diverso linguaggio o genere in cui si<br />

esprimono nell’assenza del co<strong>lo</strong>re. I disegnatori puri si preoccupano di seguire e sorprendere la linea nelle<br />

sue più segrete ondulazioni, e non hanno il tempo di vedere l’aria e la luce, e anzi si sforzano di non vederle<br />

per non venir meno al <strong>lo</strong>ro principio; il co<strong>lo</strong>rista che disegna, al contrario, non vede che l’aria e la luce, cioè<br />

i <strong>lo</strong>ro effetti. «I co<strong>lo</strong>risti disegnano come la natura; le <strong>lo</strong>ro figure sono naturalmente delimitate dalla <strong>lo</strong>tta<br />

armoniosa delle masse co<strong>lo</strong>rate» nel tempo stesso che ne fanno a meno. E insomma: «I puri disegnatori sono<br />

dei fi<strong>lo</strong>sofi e dei distillatori di quintessenze. I co<strong>lo</strong>risti sono dei poeti epici». Più avanti, dirà che soltanto i<br />

co<strong>lo</strong>risti hanno il privilegio del disegno di immaginazione o di creazione e che «i disegnatori puri sono dei<br />

naturalisti dotati di un senso eccellente, ma disegnano per ragionamento, mentre i co<strong>lo</strong>risti, i grandi<br />

co<strong>lo</strong>risti, disegnano per istinto, quasi a <strong>lo</strong>ro insaputa». Là dove, dunque, il co<strong>lo</strong>rista può passare alla<br />

«matita nera» senza pena e anzi con libertà, inventando, creando, il disegnatore puro, se si attenta a passare<br />

al co<strong>lo</strong>re, sempre mostrerà nelle sue cose un che «d’amer, de pènible et de contentieux».<br />

127


128<br />

Giuseppe Cipolla<br />

La distinzione è precisa, e oggi ci è consentito di verificarla forse meglio che al tempo in cui Baudelaire la<br />

faceva: poiché con più «inconcepibile slancio» i disegnatori puri si danno al co<strong>lo</strong>re, e con maggiore autonomia<br />

e libertà i co<strong>lo</strong>risti si danno al disegno. E ne abbiamo esempio immediato in questi disegni di Guttuso, che<br />

sono appunto i disegni di un co<strong>lo</strong>rista: e tanto più li riconosciamo per tali nell’assenza del co<strong>lo</strong>re, nel bianco<br />

e nero. Una riconoscibilità che viene da quel<strong>lo</strong> che Baudelaire chiama «un metodo ana<strong>lo</strong>go alla natura» – ed<br />

è inutile dire che la natura non è naturalistica. E quale metodo è più ana<strong>lo</strong>go alla natura di quel<strong>lo</strong> dell’azione<br />

che viene da dentro le cose, dal centro delle cose, dell’azione che è la cosa – nella «armoniosa <strong>lo</strong>tta delle<br />

masse», nell’aria, nella luce?<br />

Questi brevi testi – di <strong>Di</strong>derot, di Baudelaire – e altri cui ci avverrà di fare richiamo, sono delle approssimazioni,<br />

dei gradi di avvicinamento, a una proposizione che possiamo già nettamente dichiarare: le cose di Guttuso<br />

sono quanto di più vicino alla vista si possa dare nell’arte; e il disegno è il mezzo espressivo suo in cui <strong>lo</strong><br />

scarto tra l’arte e la vita si riduce al minimo.<br />

Non a caso questa proposizione espunge il «come» e la sua ombra: la vicinanza alla vita non è data dal fatto<br />

che sono come la vita, che somigliano alla vita, ma appunto dal contrario. Non somigliano alla vita, non sono<br />

come la vita: sono, su un piano che non è quel<strong>lo</strong> della vita, la vita.<br />

Qualcosa di simile è stato detto per Tolstoj – e benissimo da Lionel Trilling, nel saggio su Anna Karénina.<br />

E vale la pena riportarne il brano finale: «Parte dell’incanto del libro si deve al suo violare la nostra nozione<br />

del rapporto che dovrebbe esistere tra l’importanza di un evento e <strong>lo</strong> spazio ad esso dedicato. La scena di<br />

Vronskij che comprende all’improvviso di essere legato ad Anna non dall’amore ma dalla fine dell’amore,<br />

fatto che co<strong>lo</strong>ra (così nella traduzione, ma ci viene il dubbio non sia la parola esatta) tutto il nostro modo<br />

di intendere la relazione» dei due amanti, è trattata in poche linee; ma intere pagine sono dedicate alla scoperta<br />

di Levin che tutte le sue camicie sono state messe in valigia e non gli resta neppure una camicia da indossare<br />

al suo matrimonio. Fu proprio la somma di attenzione data alle camicie che fece esclamare a Matthew Arnold<br />

che questo libro non doveva essere considerato arte ma vita, e forse questa scena più di ogni altra suggerisce<br />

la vigorosa intelligenza animale che caratterizza Tolstoj come romanziere. Perché qui abbiamo infine la sua<br />

coscienza che <strong>lo</strong> spirito dell’uomo è sempre alle mercé di cose contingenti e banali, il suo senso appassionato<br />

che il contingente e il banale sono della più grande importanza... Comprendere <strong>lo</strong> spirito incondizionato non<br />

è così difficile, ma non v’è nulla di più raro che il comprendere <strong>lo</strong> spirito quale esiste nelle condizioni<br />

ineluttabili creategli dal contingente e dal banale».<br />

Si potrebbe riscrivere questo brano per Guttuso: con qualche modifica, ovviamente, con qualche ritocco.<br />

Anche Guttuso fa violenza alla nozione del rapporto tra gli eventi e <strong>lo</strong> spazio (e qui la parola spazio assume<br />

più forte va<strong>lo</strong>re), tra noi e le cose, delle cose tra <strong>lo</strong>ro. E se spesso tratta il grande evento in grande spazio<br />

(e da ciò certe sue dèfaillances di un’epica senza poesia), è nel<strong>lo</strong> spazio che prendono i piccoli eventi, le cose<br />

contingenti e banali, che riconosciamo la vita. Si potrebbe dire, con una battuta, che la sua grandezza è più<br />

nelle camicie che nelle bandiere. Le camicie di Levin e non quelle di Giuseppe Cesare Abba. Lo spirito (poi-


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

ché ci troviamo la parola tra le mani) ineluttabilmente condizionato dal contingente e dal banale – e che è<br />

poi la vita – gli dà vigore e acutezza più del<strong>lo</strong> spirito incondizionato – che è poi, per lui, la storia. E<br />

sempre si è tentati, di fronte alle sue rappresentazioni dei grandi eventi, al giuoco del sezionamento (a<br />

parte, si capisce, La fuga dall’Etna del 1938 e la Crocifissione del 1941: e anche se amiamo il primo più del secondo,<br />

l’importanza della Crocifissione è evidente, e non so<strong>lo</strong> nella storia di Guttuso) – qualcosa di diverso<br />

della usuale estrazione del particolare: e ne vien fuori che ogni parte è maggiore del tutto, cioè che ogni<br />

parte è vicina alla vita più di quanto <strong>lo</strong> sia la rappresentazione nel suo insieme. Chiamare «composizioni»<br />

i suoi grandi quadri sarebbe insomma esattissimo: per poi operarvi, idealmente, una «scomposizione» – cioè<br />

una deduzione, non una riduzione, del contingente dall’assoluto, del momento quotidiano dal momento<br />

storico, della vita che si fa dalla vita – storicamente, ideo<strong>lo</strong>gicamente – fatta (e questo discorso altri<br />

potrebbe forse far<strong>lo</strong> in ordine a va<strong>lo</strong>ri esclusivamente pittorici: di come nelle parti ci sia, paradossalmente,<br />

più pittura che nell’insieme).<br />

Le camicie di Levin sono importanti perché mancano. Pascal ha avuto un pensiero sul contingente e il<br />

banale che può arrivare ad ucciderci: per affermare che l’uomo è più nobile di tutto ciò che <strong>lo</strong> uccide.<br />

Non ha però tenuto conto del contingente e del banale che può condizionarci o ucciderci non per presenza<br />

e dinamica (la dinamica dell’incidente), ma per mancanza, per assenza. Del resto, non poteva o non gli<br />

importava. La situazione dell’uomo «nelle condizioni ineluttabili creategli dal contingente e dal banale» in<br />

assenza, comincia ad essere visibile dopo. Perché il condizionamento per assenza è di specie economica: ed<br />

è la povertà. Momentanea in Levin (ma a questo punto le camicie di Levin retrocedono a labile pretesto),<br />

inveterata e perenne nei Malavoglia. La vita dei pescatori di Acitrezza, quale Verga ce la rappresenta, altro<br />

non è, in effetti, che il continuo e tragico condizionamento – il tragico che non cresce e precipita ma<br />

continua – dell’uomo da parte delle cose che gli mancano.<br />

Ecco: la condizione da cui le cose (e parliamo propriamente di cose) di Guttuso esp<strong>lo</strong>dono sulla tela o sul<br />

foglio è appunto quella della povertà. E non diciamo la povertà bohémienne alla quale a volte, in esplicita<br />

autobiografia, si riferiscono – ma l’antica e immobile povertà del mondo verghiano che è stato, negli anni<br />

venti e trenta, anche il suo.<br />

Le cose sono fissate sulla tela o sul foglio da una divorante impazienza. Gli spaghetti, le uova al tegamino,<br />

la fetta d’anguria debbono essere, subito dopo, mangiati; il vino deve essere, subito dopo, bevuto. Si tratta<br />

di veri spaghetti, di vere uova, di vera anguria, di vero vino: anche se il segno non li riproduce ma li inventa.<br />

Si tratta insomma di vera fame: e si pensi a quel suo mangiatore di spaghetti del 1956. E comunque si tratta<br />

di un desiderio profondo e sofferto, rapidamente appagato e mai spento – e rapidamente appagato e mai<br />

spento (mai cioè «scorporato», distaccato, sublimato) anche nell’immediata duplicazione – con scarto<br />

minimo, come abbiamo detto – dalla vita all’arte. Una nota di Bergamin può forse esemplificare, semplificare,<br />

quel che intendiamo: «Avete sete e bere acqua è la perfezione della sensualità, raramente raggiunta. Alcune<br />

volte si beve acqua e altre si ha sete. (E altre volte ci si beve la propria sete, mi rispose Unamuno)». Guttuso<br />

129


130<br />

Giuseppe Cipolla<br />

raggiunge questa perfezione della sensualità, bevendo acqua quando ha sete; e va oltre nella perfezione<br />

bevendo, insieme all’acqua, la propria sete.<br />

Automaticamente ricordiamo: «Egli può rivedere tutto un Oriente nell’interno di un frutto nostrano come<br />

il cocomero». È Bruno Barilli che parla di Verdi. E ancora: «Chi è abituato per una certa dimestichezza a<br />

ficcare le mani fra gli ingranaggi dei componimenti musicali, le ritrae improvvisamente, fa un salto indietro<br />

e rimane trasecolato al prorompere della sua foga folgorante e irreparabile». Sembra cioè, la musica di Verdi,<br />

un meccanismo semplice e frusto come quel<strong>lo</strong>, se si alza il coperchio, delle viscere di un pianino: ma<br />

appunto i meccanismi semplici sprigionano, nell’arte, le scariche folgoranti e irreparabili. «Con immediatezza<br />

tutta meridionale», dirà infine, per noi, per questo nostro frammentario discorso su Guttuso, Barilli parlando di<br />

quel «culmine eccelso» che è per lui Il trovatore.<br />

E sembra parli di un Verdi, oltre che di sé sulla soglia della grandezza, Verga quando dice che «tutta la<br />

scienza nella vita sta nel semplificare le umane passioni». Lui, questo processo di semplificazione l’aveva<br />

appena cominciato: «...la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma<br />

gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Pioveva,<br />

e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le ulive del podere facevano fumare le<br />

<strong>lo</strong>ro vesti bagnate dalla pioggia davanti al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che<br />

erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni<br />

della parrocchia, o della pioggia che rubava <strong>lo</strong>ro il pane di bocca...». E così vien fuori Nedda la varannisa;<br />

e Verga passa dalla mediocrità al genio, come è stato detto. Ed è senz’altro casuale: ma come la storia del più<br />

grande Verga comincia da quella fattoria del Pino alle falde dell’Etna, la storia della pittura di Guttuso si può<br />

far cominciare dal quadro (e dal più <strong>lo</strong>ntano intenso disegno che <strong>lo</strong> precede) Fuga dall’Etna durante un’eruzione.<br />

Un caso: ma Savinio ci ha appreso che bisogna far caso al caso, alle corrispondenze e coincidenze le più<br />

vaghe e quasi impercettibili, nella storia di uno scrittore, di un artista – e che insomma c’è del metodo nella<br />

follia del caso. E cercando<strong>lo</strong> in questo, ecco che siamo alla fiamma da cui sorge, con la dolente figura di<br />

Nedda, la poetica di Giovanni Verga; e alla fiamma da cui erompe, con la fuga di una popolazione – eterna<br />

e atroce fuga dalla natura, dalla storia, da se stessa – la poetica di Renato Guttuso. La poetica è per entrambi<br />

quella di «semplificare le umane passioni»; il luogo ad essa connaturato, e che non può essere altro, la Sicilia.<br />

Ma la poetica di Verga, l’uomo attaccato al<strong>lo</strong> scoglio della miseria e degli affetti, soffre come e quanto l’uomo<br />

in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza (come dicessimo sistema nervoso) dell’uomo di Guttuso è<br />

uguale a quel<strong>lo</strong> dell’uomo di Verga: semplificato. Il sistema della sofferenza. Il sistema della passione.<br />

Tra Verdi e Verga, tra un Verdi vissuto e un Verga vaticinato, c’è Francesco De Sanctis.<br />

L’Italia di Guttuso è l’Italia di De Sanctis. (E anche la <strong>Di</strong>vina Commedia disegnata da Guttuso è quella letta da<br />

De Sanctis – e l’Inferno, oltre che luogo delle passioni umane semplificate, come inferno della nostra storia civile).<br />

Da queste tessere, da questo picco<strong>lo</strong> mosaico di tesi e di richiami, dovremmo a questo punto muovere un<br />

discorso meno aleatorio e sfuggente, più coerente, più sicuro, sull’arte di Guttuso. Ma abbiamo davanti


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

l’uomo, il conterraneo, l’amico – la sua irresistibile vitalità e simpatia, la sua parola, il suo gesto – il suo gesto<br />

che dalla vita sconfina nell’arte senza soluzione di continuità, senza sorpresa, senza che ce ne accorgiamo<br />

o che se ne accorga (mentre ce ne accorgiamo e se ne accorge). Qualcosa di simile a quel che Stendhal,<br />

secondo Gide, faceva con malizia: <strong>lo</strong> «scrivere di colpo» – in Guttuso il disegnare o dipingere di colpo – per<br />

cui alla sempre viva e commossa fantasia si mescola «un non so che di aggressivo e di impulsivo, di sconveniente,<br />

d’immediato e di nudo». Ecco: questa catena di aggettivi – aggressivo, impulsivo, sconveniente, immediato,<br />

nudo – può anche definire il mondo che Guttuso ci restituisce nei disegni, nelle pitture. Ma ora vogliamo<br />

al<strong>lo</strong>ntanare il mosaico, e anche quest’ultima tessere, come sfondo a un ritratto. «Incontriamo per la strada<br />

Guttuso. Cammina fra gli amici con il col<strong>lo</strong> sprofondato entro la giacca e la testa piegata a sinistra come tutti<br />

i passeggiatori siciliani che porgono una guancia al molle vento di scirocco; ogni tanto avvolge un braccio<br />

sulle spalle dell’amico che gli sta a destra o dell’amico che gli sta a sinistra...». A Roma, nel 1947, Brancati<br />

ferma nel suo diario questa immagine, questo «riconoscimento» <strong>lo</strong>ntano ma fraterno – quasi avesse riconosciuto<br />

prima il siciliano, e poi che quel siciliano era Guttuso. A <strong>Palermo</strong>, nel 1971, più da vicino...«Prima, quando<br />

venivo in Sicilia subito mi assaliva la smania di andarmene; ora mi viene la tentazione di restarci». Sempre<br />

la sigaretta tra le dita, una appresso all’altra consumate in poche boccate, nervosamente; sempre quell’onda<br />

di fumo davanti al volto, come negli autoritratti. Renato Guttuso, bagherese nato a <strong>Palermo</strong>: che il padre in<br />

quel momento ce l’aveva coi suoi concittadini, o soltanto con gli amministratori comunali, e volle che il<br />

figlio non nascesse a Bagheria ma nella città capitale, nella splendida e misera <strong>Palermo</strong> di quegli anni, di<br />

sempre. Ma la ripicca di Gioacchino Guttuso è rimasta un fatto puramente anagrafico: quando si parla di<br />

Renato Guttuso, della sua pittura, si parla di Bagheria. Il paesaggio, la gente. L’intraprendenza e l’acutezza<br />

dei bagheresi, i fasti e nefasti dell’amor proprio. La vampa dei co<strong>lo</strong>ri, la morte. Bagheria con le sue ville<br />

settecentesche, estremo delirio dell’anarchia baronale; coi suoi giardini di limoni, in cui delira l’anarchia<br />

mafiosa. I mostri di Palagonia. Il mare dell’Aspra.<br />

Il giorno di Natale, Guttuso è andato al cimitero di Bagheria. Ha camminato tra le tombe e ha parlato di<br />

comunismo col custode. Poi è tornato a <strong>Palermo</strong>, in albergo. «È sempre pieno d’angoscia», mi dice la persona<br />

che meglio <strong>lo</strong> conosce e l’ama. Lo guardo mentre ascolta le disperate canzoni di Rosa Balistreri. È come se<br />

fosse arrivato alle radici della sua angoscia, al nudo viluppo delle antiche paure, delle antiche sofferenze.<br />

Morsi cu morsi e cu m’amava persi, – comu fineru li jochi e li spassi! – La bedda libirtà comu la persi, –<br />

l’hannu ‘mputiri li canazzi corsi, – Chiancinu tutti, li liuna e l’ursi, – chianci me matri ca vivu mi persi, – Cu<br />

dumanna di mia, comu ‘un ci fussi, – scrivitimi a lu libru di li persi. Quando Guttuso è a <strong>Palermo</strong> sono<br />

frequenti le serate, in casa di amici, in cui Rosa Balistreri canta: con quella sua voce viscerale e straziata, piena<br />

d’amore e rancore. E tra tutti i canti, Guttuso sembra preferisca questo: un canto di carcerato misteriosamente<br />

dolente, che cela una identità, una storia.<br />

«È morta chi è morta e ho perso chi mi amava, i giuochi e gli spassi sono finiti»: e viene da tradurre «morta»<br />

invece che «morto» perché si ha il senso che l’uomo abbia ucciso colei che <strong>lo</strong> amava; e sta scoprendo ora di<br />

131


132<br />

Giuseppe Cipolla<br />

averla uccisa ingiustamente; e perciò il rimorso, e il vagheggiamento della <strong>lo</strong>ntana e perduta felicità.<br />

«Ho perso la bella libertà, sono ormai in potere degli sbirri, feroci come cani corsi; e perciò piangono tutti,<br />

anche i leoni e gli orsi; e piange mia madre, che vivo mi perse. A chi domanda di me, come non ci fossi:<br />

scrivetemi nel libro dei persi». Uccidiamo sempre le cose che amiamo, rimpiangiamo sempre i verdi<br />

paradisi dell’infanzia e dell’amore; il mondo è una prigione, i cani corsi ci azzannano. Ma piange la madre,<br />

la natura che è madre piange con lei: ed è soltanto il pianto del nostro esser vivi. Meglio dunque esser morti,<br />

calati nel libro dei persi.<br />

Guttuso accompagna il canto a mezza voce, <strong>lo</strong> alza e impenna nel gesto della mano, nell’agitata voluta di<br />

fumo che sale dalla sigaretta. La mano ricade sul libro dei persi, la mano che ha dipinto fiori e battaglie, nudi<br />

di donne, scene d’amore, atrocità storiche e malinconie esistenziali. La mano che ha dipinto altre mani.<br />

Ma la sua non mi fa pensare a quella di Lenin, che lui ha dipinto. Mi fa pensare, viva ma così abbandonata<br />

e stanca, a quella di don Gesualdo. «Guardate che mani», fa dire Verga di quelle di Gesualdo Motta: e basta<br />

per farcele vedere grandi e dure. Ma non è fisicamente che la mano di Guttuso mi ricorda quella di don Gesualdo.<br />

Fisicamente diverse, sono mani che hanno fatto, mani che hanno vinto e che pure posano come vinte.<br />

<strong>Di</strong>ce Lawrence di don Gesualdo: “Ma non altro ottiene dalla ricchezza che un grande tumore di sofferenza,<br />

un amaro tumore...” Dalla ricchezza, dal successo, dalla g<strong>lo</strong>ria, che altro resta a Renato Guttuso se non<br />

uguale tumore di sofferenza?<br />

Ci sono, si, i suoi quadri: nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari, sotto gli occhi<br />

di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscoprirla; ma sono come le terre al sole di don Gesualdo.<br />

«Ma egli è siciliano», dice ancora Lawrence di Gesualdo, «e qui salta fuori la difficoltà». La difficoltà, per<br />

Guttuso, per noi, per ogni uomo che è nato in quest’isola, di vivere dopo aver fatto, dopo avere accumulato<br />

quadri o libri o denaro; la difficoltà a resistere, a non soccombere «sotto il gruzzo<strong>lo</strong>» della ricchezza o della<br />

g<strong>lo</strong>ria o soltanto e semplicemente delle cose fatte, delle cose in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione.<br />

Questa è la <strong>lo</strong>tta di Guttuso, la sua angoscia. Non vuole soccombere sotto le cose che ha fatto, sotto le cose<br />

che fa. La <strong>lo</strong>tta contro il «gruzzo<strong>lo</strong>» nel tempo stesso che inevitabilmente, inarrestabilmente, ogni suo gesto<br />

<strong>lo</strong> fa crescere. La <strong>lo</strong>tta contro la «roba» – che sono i quadri, che è la fama, che può essere anche la ricchezza<br />

– mentre la «roba» dislaga a raggiungere il più <strong>lo</strong>ntano orizzonte. Il «disvivere» mentre tenacemente,<br />

testardamente, profondamente vive. E il suo tornare in Sicilia, il legame fisico che ora ristabilisce con la sua<br />

terra, ha questo senso: di porsi faccia a faccia con la verità, di godere (questo è il punto) il suo tumore di<br />

sofferenza. Gesualdo Motta no, non poteva: «visse ciecamente, sotto l’impeto del sangue e dei muscoli, con<br />

l’astuzia e la vo<strong>lo</strong>ntà, e mai ebbe coscienza di sé. Sarebbe stato migliore se l’avesse avuta? Nessuno può<br />

dir<strong>lo</strong>». Non possiamo dir<strong>lo</strong>. Nemmeno Guttuso può dire se la sua «coscienza di se» <strong>lo</strong> fa migliore di don<br />

Gesualdo che non <strong>lo</strong> sapeva: non può dir<strong>lo</strong> soggettivamente, come uomo che soffre, ma <strong>lo</strong> affermano i suoi<br />

quadri, la sua «coscienza di se» che si fa nostra: coscienza di come siamo, di come soffriamo, di come godiamo<br />

la nostra sofferenza.


“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

Vedendo<strong>lo</strong> in luce verghiana, come personaggio sconfitto nel momento stesso in cui vince, vincitore nel<br />

momento in cui è sconfitto, si capiscono tante cose di Guttuso, della sua pittura. Tutto quel<strong>lo</strong> che da lui vien<br />

fuori, nella vita come nell’arte, anche la sua innocenza, s’appartiene alla profonda coerenza di questa<br />

agonia da personaggio verghiano che Verga non riuscì a raggiungere (e avrebbe forse raggiunto se stesso).<br />

E non a caso mi viene il termine agonia: della vita che <strong>lo</strong>tta contro se stessa, e cioè contro la morte.<br />

O al contrario: della morte che <strong>lo</strong>tta contro se stessa, e cioè contro la vita.<br />

«Ogni mattina, quando mi faccio la barba, vedo affiorare nel<strong>lo</strong> specchio il volto di mio padre» – mi ha detto<br />

una volta Guttuso. Ho subito pensato a quell’altro siciliano, suo amico, che «da una ruota / imperfetta del<br />

mondo, / su una piena di muri serrati, / <strong>lo</strong>ntano dai gelsomini d’Arabia», volle parlare al padre: «per dirti /<br />

ciò che non potevo un tempo – difficile affinità / di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano so<strong>lo</strong> / cicale del<br />

biviere, agavi lentischi, / come il campiere dice al suo padrone: / ‘Baciamu li mani’. Questo, non altro. /<br />

Oscuramente forte è la vita».<br />

Gli antichi dicevano, in diritto, «paterna paternis», al figlio quel che è del padre. Scomparsa nel diritto,<br />

la formula è rinunciata anche nei pensieri, nei sentimenti. Se non da pochi: Quasimodo, Guttuso...<br />

E non si può essere, più di così, siciliani. Più di cosi, uomini.<br />

La Vucciria di Guttuso (1974)<br />

da Guttuso. <strong>Di</strong>segni 1938-1972, con una nota di Leonardo Sciascia,<br />

Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972<br />

Così come certe pietanze o dolci in cui c’è tutto (e a volte, persino, la pietanza sconfina nel dolce<br />

e il dolce nella pietanza), e sembrano realizzare il sogno di un affamato, i mercati più abbondanti e traboccanti,<br />

più ricchi, più festosi, più barocchi sono quelli dei paesi poveri, dei paesi in cui <strong>lo</strong> spettro della fame si è sempre<br />

aggirato come la Morte Rossa di Poe – ma a differenza di questa, mai riuscendo a varcare la soglia delle<br />

patrizie dimore. A Bagdad, a Valencia, a <strong>Palermo</strong> un mercato è qualcosa di più di un mercato – cioè di un<br />

luogo dove si vendono vivande o dove si va per comprarne. È una visione, un sogno, un miraggio.<br />

Un “mangiar visuale”: e con effetti di appagamento e delizia pari a quelli delle “bevute visuali” del Maga<strong>lo</strong>tti.<br />

E potremmo anche lasciar cadere la parola mangiare: ché dei cinque sensi, a ben considerare, il meno impegnato<br />

finisce con l’essere il gusto, subordinato agli altri quattro: i quali, dalla sua inattività resi più alerti e sottili,<br />

a compenso gli trasmettono quei segnali tra <strong>lo</strong>ro complementari e concomitanti che diventano “un misto di<br />

gola, di ristoro, di maraviglia, di dolcezza, di liquefazione”, come appunto nelle “bevute visuali” del Maga<strong>lo</strong>tti.<br />

Ora il visualizzare un fatto visuale quale la Vucciria di <strong>Palermo</strong>, vale a dire un fatto di predisposta, funzionale<br />

e funzionante visualità – il visualizzar<strong>lo</strong> in una pittura, in un quadro, in un grande quadro – sarebbe una<br />

operazione piuttosto ovvia e banale, se non vi concorresse non so<strong>lo</strong> una celebrazione della visualità nel<br />

senso maga<strong>lo</strong>ttiano, ma anche la conoscenza e conscienza di un significato: di quel che una tale visualità –<br />

che sarebbe da dire propriamente e definitivamente teatralità – umanamente e storicamente significa.<br />

E potremmo anche fare a meno di dire che non significa il consumo, ma la fame: poiché il quadro di Renato<br />

Guttuso impareggiabilmente <strong>lo</strong> dice.<br />

da “Sicilia”, luglio, n. 76, 1974<br />

133


134<br />

Giuseppe Cipolla<br />

Il vespro siciliano (1975)<br />

… Vi si aggiunge ora Renato Guttuso. Il suo sentimento e giudizio del Vespro, in queste immagini,<br />

è quel<strong>lo</strong> stesso che trascorre nei versi di Dante, nella Storia di Amari, nell’opera di Verdi. Certo, Guttuso sa <strong>bene</strong><br />

dell’altro e più esatto giudizio di Croce e degli storici moderni, di quella specie di invettiva lanciata contro la falsa<br />

rivoluzione del Vespro, per colpire la falsa rivoluzione che era il fascismo, da Elio Vittorini. Ma nel suo sentire<br />

popolare, nel suo aver radici nella vita e nel sentimento del popo<strong>lo</strong> (e la sua vitalità, la sua «energia», appunto<br />

consiste nel fatto che la sua cultura, anche nei più puntuali, avvertiti e risentiti aggiornamenti, è humus a<br />

quelle radici), egli torna al fatto in sé, al Vespro nel suo innescarsi e nel suo esp<strong>lo</strong>dere, reciso dagli avvenimenti<br />

di cui fu causa, dalle implicazioni e complicazioni che gli storici poi vi riconobbero e condannarono.<br />

Torna cioè al mito del Vespro come improvvisa e incontenibile rivolta di popo<strong>lo</strong>. Per la giustizia, per la<br />

dignità, per il buongoverno.<br />

E la bella Trinacria, che caliga<br />

tra Pachino e Pe<strong>lo</strong>ro, sopra ’l golfo<br />

che riceve da Euro maggior briga,<br />

non per Tifeo ma per nascente solfo,<br />

attesi avrebbe li suoi regi ancora,<br />

nati per me di Car<strong>lo</strong> e di Rodolfo,<br />

se mala segnoria, che sempre accora<br />

li popoli suggetti, non avesse<br />

mosso <strong>Palermo</strong> a gridar: «mora, mora!»<br />

E se mio frate questo antivedesse...<br />

Se l’antivedesse il tiranno, se l’antivedessero tutti co<strong>lo</strong>ro che operano contro la libertà, contro la giustizia,<br />

contro la dignità umana... E ancora una volta, rappresentando il Vespro, questo dicono, di questo ammoniscono,<br />

le intense e vivide immagini di Guttuso.<br />

da Guttuso, cata<strong>lo</strong>go della mostra, Galleria “La Tavo<strong>lo</strong>zza”, <strong>Palermo</strong> 1975-1976.


<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong> (1987)<br />

“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />

Ho conosciuto benissimo Renato Guttuso: e posso dir<strong>lo</strong> non so<strong>lo</strong> per i frequenti incontri, la lunga<br />

confidenza, la simpatia e l’affetto che avevo per lui, ma anche – e soprattutto – perché il nostro essere<br />

d’accordo nel giudicare persone, fatti e libri nella <strong>lo</strong>ro immediata verità, se appena tentavamo di risalire ai<br />

principi, diventava fondamentale e profonda discordia. Il che ci rendeva – penso reciprocamente – guardinghi.<br />

Tanto per fare un esempio: conosceva ed amava Voltaire, potevamo parlarne per delle ore con uguale entusiasmo;<br />

ma appena si affacciava la contrapposizione a Rousseau, ecco che – come nel gioco della torre buttava giù<br />

Voltaire e si teneva zelantemente a Rousseau. La sua obbedienza ai principi – o meglio: a un principio – era<br />

indefettibile. Tutt’altra era la sua vita, tutt’altri i suoi sentimenti e pensieri; e con pena portava la contraddizione<br />

del come viveva col come obbediva: ma non ammetteva ci si attentasse a discuterla, pretendeva anzi che<br />

fosse capita e magari e<strong>lo</strong>giata. Il che, ad un certo punto, ci ha portati ad una rottura di cui entrambi<br />

abbiamo sofferto. Ed io posso sinceramente confessare la mia sofferenza, la sua intravedendola nei biglietti<br />

che continuò a mandarmi e nei messaggi che comuni amici mi riferivano. Lo <strong>conoscevo</strong>, ripeto, benissimo:<br />

nelle sue debolezze, nei suoi mutevoli umori, nei suoi “enfantillages” – che eran tanti, a momenti patetici e<br />

addirittura commoventi. La sua frequentazione di persone che comunque rappresentassero il potere aveva<br />

un che di’infantile, senza ombra di utilitarismo. Un nostro amico cui, come a me, qualche volta accadeva di<br />

passare un pranzo o una cena in casa Guttuso, incontrandovi le più disparate persone del potere, soleva<br />

dire: «Quella non è una casa, è un aeroporto». Ma anche se la “casa-aeroporto” di Guttuso può essere assunta<br />

a campione socio<strong>lo</strong>gico e a spiegazione dei fasti e nefasti della politica italiana dell’ultimo quarto di seco<strong>lo</strong>,<br />

io so che quell’accozzare a mensa le persone più disparate veniva principalmente dal suo temperamento, dal<br />

suo voler essere amato da tutti – e dal suo essere irreparabilmente siciliano. Lui riusciva a parlare con tutti,<br />

ad affrescare tutti. C’era una sola cosa in lui di sgradevole: uomo generoso, <strong>lo</strong> era di più con co<strong>lo</strong>ro che un<br />

po’ disprezzava. Ne conseguiva che intrattenere con lui un rapporto non di soggezione – di vera, disinteressata<br />

e libera amicizia – era difficile, anche se in definitiva bel<strong>lo</strong>; ma intrattenerne uno interessato, era facile.<br />

Potrei scrivere lungamente su di lui, sul suo carattere e sui nostri rapporti (ma sui nostri rapporti, se lui ha<br />

conservato le mie lettere come io le sue, chi ne ha voglia potrà domani scriverne). <strong>Io</strong>, qui ed ora, voglio<br />

soltanto dire che gli ultimi suoi giorni di vita sono stati di tutta coerenza rispetto a come era sempre stato.<br />

E l’ho subito dichiarato: né le sue ultime vo<strong>lo</strong>ntà riguardo ai beni, né la sua conversione alla religione<br />

cattolica, mi hanno minimamente sorpreso. Mi ha sorpreso invece, e spiacevolmente, che intorno alla sua<br />

morte si muovesse un caso giudiziario. Ma, detto questo, mi sento in dovere – come cittadino – di esprimere<br />

solidarietà alle due signore che gratuitamente, nella sentenza di archiviazione del caso, sono state offese.<br />

da “L’Espresso”, 11 ottobre 1987<br />

135


Aprile 2010<br />

Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong><br />

http://www.unipa.it/tecla

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!