Io lo conoscevo bene... - Università Degli Studi Di Palermo
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temi di Critica e Letteratura artistica<br />
TEMI DI CRITICA<br />
Università degli <strong>Studi</strong> <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong><br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
Roberta Cinà<br />
Giuseppe Cipolla<br />
Marta Nezzo<br />
prefazione di Simonetta La Barbera<br />
1<br />
a cura di Simonetta La Barbera
Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong><br />
Facoltà di Lettere e Fi<strong>lo</strong>sofia<br />
<strong>Di</strong>partimento di <strong>Studi</strong> storici e artistici<br />
Società Italiana di Storia della Critica d’Arte
Comitato Scientifico Claire Barbil<strong>lo</strong>n, Franco Bernabei, Claudia Cieri Via, Rosanna Cioffi, Maria Concetta <strong>Di</strong> Natale,<br />
AntonioGentile,SimonettaLaBarbera,DonataLevi,François-RenéMartin,EmilioJ.MoraisVallejo,MassimilianoRossi,<br />
Gianni Car<strong>lo</strong> Sciolla, Philippe Sénéchal.<br />
Coordinamento Scientifico Simonetta La Barbera<br />
temi di Critica e Letteratura artistica<br />
Progetto grafico, editing ed elaborazione delle immagini Nicoletta <strong>Di</strong> Bella<br />
Proprietà artistica e letteraria riservata all’Editore a norma del Legge 22 aprile 1941, n. 663.<br />
È vietata qualsiasi riproduzione totale o parziale anche a mezzo di fotoriproduzione, Legge 22 maggio 1993, n. 159.<br />
ISBN: 978-88-904738-2-1<br />
DOI: 10.4413/978-88-904738-2-1<br />
http://www.unipa.it/tecla<br />
2010 Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong>
INDICE<br />
Prefazione 7<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
Il <strong>Di</strong>segno del Doni e la teoria dell’arte nel Cinquecento 15<br />
Roberta Cinà<br />
La scultura nella letteratura artistica del Settecento 31<br />
Marta Nezzo<br />
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914 -1920: una campionatura 87<br />
Giuseppe Cipolla<br />
«<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>…» Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia 109
PREFAZIONE<br />
SIMONETTA LA BARBERA<br />
Il primo numero miscellaneo della collana teCLa ospita quattro interessanti contributi le<br />
cui tematiche intersecano un arco di tempo che scorre dal Cinquecento al Novecento.<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione nel saggio Il <strong>Di</strong>segno del Doni e la teoria dell’arte del Cinquecento,<br />
compie una attenta analisi del breve trattato del<strong>lo</strong> scrittore fiorentino Anton Francesco Doni<br />
(Firenze, 1513 – Monselice, 1574), pubblicato a Venezia nel 1549, pochi anni dopo l’indizione<br />
della celebre Inchiesta di Benedetto Varchi e anteriormente alla pubblicazione della prima<br />
edizione delle Vite vasariane. Nell’operetta, il fiorentino trapiantato a Venezia, sotto forma<br />
dia<strong>lo</strong>gica affronta la questione del Paragone tra le arti, individuando proprio nell’arte plastica il<br />
corrispettivo immediato del disegno ed assegnando alla scultura il ruo<strong>lo</strong> di madre delle arti<br />
secondo un topos che ricorre continuamente nel suo pensiero.<br />
A dimostrazione del suo assunto Campione attinge ad alcuni significativi testi dell’ immensa<br />
produzione scrittoria di Doni che fu prolifico come pochi altri suoi contemporanei. La scrittura<br />
del fiorentino, osserva <strong>lo</strong> studioso, procede secondo canoni spesso debitori nei confronti di<br />
autori precedenti e contemporanei, ricorrendo alla riscrittura se non al plagio palese, con la<br />
ripetizione di formule e persino di intere pagine di opere già pubblicate, da lui stesso o da altri.<br />
Quali che siano la sua attitudine, il grado delle sue conoscenze, in tutti gli scritti di Doni l’arte è<br />
l’essenza concettuale che dà sostanza alle parole: non so<strong>lo</strong> perché – specie nelle opere maggiori<br />
– c’è un rapporto ta<strong>lo</strong>ra inscindibile tra immagine e testo – così avviene nei Mondi e nei Marmi,<br />
pubblicati poco a ridosso della metà del Cinquecento – ma, soprattutto, perché, come nota<br />
Campione, l’arte stessa è l’orizzonte a cui costantemente si richiama <strong>lo</strong> scrittore per esplicitare<br />
il suo discorso, per rendere la sua parola visibile.
8<br />
Simonetta La Barbera<br />
Ad avva<strong>lo</strong>rare questi interessanti spunti critici, <strong>lo</strong> studioso si sofferma su i Marmi (1553),<br />
opera nella quale, tra gli inter<strong>lo</strong>cutori dei dia<strong>lo</strong>ghi, compaiono più volte artisti, scultori in<br />
particolare, che rappresentano altrettanti portavoce del<strong>lo</strong> scrittore. In questa, che è forse la sua<br />
opera più riuscita, più d’una volta la methodus operativa della scultura, che è poi <strong>lo</strong> “scoprire”<br />
l’immagine entro la materia bruta, viene assunta a model<strong>lo</strong> per tutte le arti. Campione<br />
acutamente osserva che è proprio nella formulazione delle idee sull’arte che si individua il<br />
contributo più nuovo ed interessante del pensiero di Doni, come nei passi dell’opera in cui<br />
il fiorentino teorizza della “esperienza estetica” che prova <strong>lo</strong> spettatore al cospetto della scultura<br />
– in particolare, il riferimento è alle allegorie michelangiolesche nella Sagrestia di San Lorenzo –<br />
con accenti di singolare modernità che davvero sembrano precorrere molte delle nozioni<br />
sviluppatesi poi nel corso del Sette e dell’Ottocento, quale ad esempio quella di empatia.<br />
Lo studioso osserva ancora che nella scrittura doniana il rapporto fra testo e immagine è<br />
un nesso del tutto inscindibile, ed infatti, da abile tipografo, <strong>lo</strong> scrittore conosce perfettamente<br />
la presa emozionale che opera sul lettore l’inserzione di queste nel testo, e non di rado le immagini<br />
stesse – la più parte destinate originariamente ad altre opere, come avviene nei Mondi (1552) –<br />
sono il pretesto per <strong>lo</strong> sviluppo potenzialmente infinito della scrittura.<br />
Nella disamina del testo doniano, Campione osserva ancora che il nesso tra scrittura e suo<br />
corrispettivo iconico, seppure non concretizzato in immagini, trova l’esemplificazione più<br />
significativa in un’altra opera del fiorentino, le Pitture del 1564, testo che progettava sul model<strong>lo</strong><br />
delle Immagini di Fi<strong>lo</strong>strato, una serie di quadri simbolici che avrebbero dovuto ornare un palazzo<br />
dedicato a Petrarca ad Arquà.<br />
La scrittura di Doni rappresenta davvero una delle voci più significative della teoria dell’arte<br />
nell’Italia del tempo, anche perché in essa converge tutta l’esperienza dei “poligrafi” veneziani<br />
del Cinquecento, ed è utile ricordare che egli fu prima amico, poi acerrimo avversario di<br />
Pietro Aretino, di cui condivise molti dei giudizi sugli artisti contemporanei.<br />
Lo studioso acutamente osserva che altro tratto caratteristico della personalità di Doni si<br />
ritrova nell’interesse costante per i ‘gabinetti’ di anticaglie, per le raccolte di mirabilia che egli<br />
doveva spesso frequentare nelle visite ad amici e potenti: nell’accozzaglia folle di oggetti che<br />
spesso essi esibivano <strong>lo</strong> scrittore vedeva forse il corrispettivo iconico della sua scrittura.<br />
Ad avva<strong>lo</strong>rare quanto affermato Campione fa ancora riferimento ai Marmi, ad un passo che, da<br />
questo punto di vista, ascende davvero a paradigma immediato della sensibilità dell’autore del<br />
<strong>Di</strong>segno: il riferimento è alla parte finale della <strong>Di</strong>ceria dell’Inquieto, che peraltro rappresenta una<br />
delle ultime sezioni dell’opera e che <strong>lo</strong> studioso ci riporta nella sua interezza.<br />
Il <strong>Di</strong>segno del Doni, pubblicato probabilmente quasi in risposta all’operetta piniana, è dunque un<br />
testo che esibisce con evidenza le contraddizioni che caratterizzano l’intera produzione del<strong>lo</strong><br />
scrittore fiorentino. Da una parte, apparentemente, non aggiunge nulla di nuovo al dibattito<br />
critico contemporaneo, riprendendo numerosi topoi della tradizione, tritandoli anzi ulteriormente<br />
in un risultato quantomeno stanco; dall’altro però è capace di illuminare su quella crisi delle<br />
strutture di pensiero rinascimentali, già in atto da molto tempo, se la si legge, come suggerisce
Prefazione<br />
<strong>lo</strong> stesso autore, non come opera “assoluta”, bensì come fi<strong>lo</strong> conduttore principale di tutti gli<br />
altri suoi testi.<br />
Lo sperimentalismo linguistico, il rendere sulla carta l’idea di una materia viva e ancora in<br />
ebollizione è dunque, come suggerisce Campione, il tentativo di abolire i confini tra le arti; e,<br />
ancor di più, la tensione a dare l’idea di una “scrittura sinestetica”, nella quale il «cavo, il rilievo,<br />
o il basso» siano il correlativo del tortuoso scorrere della parola, o addirittura del suo implicitarsi<br />
in sensi del tutto sfuggenti. È sicuramente una metafora più o meno pregnante per cui <strong>lo</strong><br />
scrivere è operazione in tutto simile a quella del<strong>lo</strong> scolpire o del modellare.<br />
Si collega al contributo di Campione quel<strong>lo</strong> di Roberta Cinà, La scultura nella letteratura<br />
artistica del Settecento, nel quale è presa in esame, attraverso un puntuale excursus delle pagine della<br />
letteratura artistica europea, edita tra Settecento ed Ottocento, la nuova fortuna critica della scultura<br />
che, dopo essere stata pressoché appiattita sulla pittura nel XVII seco<strong>lo</strong> – in una sostanziale<br />
identificazione dei principi delle due arti basata sulla mimesis – era tornata alla ribalta nel seco<strong>lo</strong> XVIII.<br />
Ciò era avvenuto sia per il rinnovato interesse per le statue antiche, la cui grande ammirazione<br />
era anche legata al gusto neoclassico dominante, sia per gli studi sulle più esatte modalità di<br />
conoscenza ai quali studi anche l’estetica del periodo faceva riferimento e che, alla luce di nuove<br />
esperienze scientifiche, individuavano nelle potenzialità del tatto un canale preferenziale rispetto<br />
alla vista, fissando l’attenzione sulla tridimensionalità quale elemento peculiare delle opere scultoree.<br />
La studiosa analizza quindi i testi del XVIII seco<strong>lo</strong> che prendono in esame la scultura, nei<br />
quali è spesso possibile notare l’intersecarsi di questi elementi con altri relativi ad argomenti<br />
molto anteriori, quale il cinquecentesco Paragone delle arti. L’analisi dei manufatti dell’antichità,<br />
generalmente indicati per il <strong>lo</strong>ro va<strong>lo</strong>re esemplare, condusse infatti alla riflessione sulle sculture<br />
delle epoche successive, estendendo al campo delle arti figurative il tema della Querelle des Anciens<br />
et des Modernes, risalente al seco<strong>lo</strong> precedente ma, nel Settecento, ancora attuale in Francia.<br />
La scultura non fu dunque so<strong>lo</strong> argomento di opere di stampo prettamente neoclassico,<br />
come quelle di Winkelmann o di Cicognara, nelle quali si tende ad esaltare le statue classiche a<br />
discapito di quelle moderne. Accanto a queste “tradizionali” correnti di pensiero la Cinà, anche<br />
sulla base di suoi studi precedenti, ne analizza altre fondate su una valutazione più acutamente<br />
critica che considerano le sculture moderne, per alcuni aspetti, altrettanto valide rispetto a quelle<br />
antiche. Richardson, ad esempio, esprime apprezzamenti positivi sia nei confronti di opere<br />
antiche che moderne e autori come Falconet e Bardon ritengono, per certi versi, i moderni<br />
superiori agli antichi. Proprio Falconet presenta nei suoi scritti elementi che richiamano fortemente<br />
le modalità cinquecentesche del paragone tra pittura e scultura e, come lui, altri autori<br />
francesi, fra i quali <strong>Di</strong>derot e Caylus, contribuiscono alle discussioni sul<strong>lo</strong> statuto della scultura<br />
con apporti particolarmente rilevanti.<br />
I testi del<strong>lo</strong> scultore Falconet, del connaisseur Caylus e dell’encic<strong>lo</strong>pedista <strong>Di</strong>derot, sono<br />
tutti ricchi di elementi innovativi che saranno poi ripresi da Dandrè-Bardon e D’Argenville;<br />
mentre a <strong>Di</strong>derot e Condillac si devono le riflessioni sul senso del tatto, tema affrontato in<br />
relazione a quel<strong>lo</strong> della tridimensionalità della scultura, in ambito non francese anche da Herder<br />
9
10<br />
Simonetta La Barbera<br />
e da Hemsterhuis. L’esemplarità degli antichi, le modalità di fruizione dell’opera d’arte, le<br />
facoltà imitative della scultura sono tutti elementi presenti nelle trattazioni di questi autori,<br />
nonché in testi di poco anteriori, quali quelli elaborati in ambito inglese da Hogarth e Richardson.<br />
L’analisi della Cinà si spinge fino agli inizi dell’Ottocento quando risultano ormai risolti<br />
i dibattiti che coinvolgono la scultura sia nel suo rapporto con l’antico, sia nell’ormai secolare<br />
confronto con la pittura, ed infatti, ne Le arti figurative e la natura di Schelling appare ormai<br />
accettato il concetto di arte come prodotto del suo tempo, nonché il riconoscimento dell’autonomia<br />
di mezzi espressivi propri ad ogni forma artistica, argomento questo che era già stato oggetto<br />
del Laocoonte di Lessing.<br />
All’inizio dell’Ottocento, assimilati e rielaborati dunque gli argomenti che nel seco<strong>lo</strong> precedente<br />
erano stati dibattuti in ambito europeo, la monumentale opera di Cicognara affidava alla scultura,<br />
ormai pienamente rivalutata, il compito di rappresentare l’evoluzione storica dell’arte in Italia.<br />
Nel terzo contributo Accenni nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920.<br />
Una campionatura, Marta Nezzo, attenta studiosa dei molteplici e complessi aspetti della critica<br />
d’arte in Italia negli anni della Grande Guerra, indaga il riflesso delle spinte pratiche ed ideo<strong>lo</strong>giche<br />
innescate dal conflitto non so<strong>lo</strong> nella critica dell’arte contemporanea, ma soprattutto nella teoria,<br />
nella pratica e nella divulgazione della tutela, prendendo in esame tre periodici, diversi per<br />
natura e target, quali il “Bollettino d’arte” del Ministero della Pubblica istruzione, “L’Arte” di<br />
Adolfo Venturi e “Pagine d’arte”.<br />
La Nezzo analizza l’inevitabile ibridicità di questi diversi aspetti, nonché le pulsioni<br />
scioviniste che si sovrappongono e si confondono con questioni specificatamente identitarie.<br />
Nell’assimilazione culturale di un giovane Stato quale era l’Italia, gli spunti non potevano che<br />
essere eterogenei e non sempre limpidi, proprio perché il processo unitario si era compiuto “nel<br />
crogiuo<strong>lo</strong> europeo della guerra mondiale”. Le istanze cui dare voce erano diverse e di grande<br />
rilevanza: da un lato vi era la necessità di compattare un fronte d’adesione interno anche innescando<br />
contro il nemico forti sentimenti nazionalistici, dall’altro la necessità di accreditare presso gli<br />
alleati la politica anche culturale dell’Italia, come già fatto dai francesi, in particolare dopo il<br />
terribile bombardamento della cattedrale di Reims.<br />
La studiosa ha già in precedenza messo in relazione questo contesto con gli esiti della<br />
contemporanea critica d’arte partendo dalla considerazione che proprio nell’arco di tempo<br />
considerato, 1914-1920, l’influenza delle teorie purovisibiliste e della fi<strong>lo</strong>sofia crociana, aveva<br />
messo in crisi il model<strong>lo</strong> storiografico ancora corrente per le arti, di stampo positivista e<br />
venturiano. Ana<strong>lo</strong>gamente, nel campo della tutela si doveva far fronte alle istanze poste<br />
dalla revisione legislativa e dall’istituzione delle soprintendenze.<br />
Questi diversi elementi sono evidenziati nel saggio dalla Nezzo facendo riferimento<br />
alle scelte politiche e culturali effettuate nei tre periodici presi in considerazione, diversi per<br />
natura e target, focalizzando il trend critico di ciascuna testata e del relativo milieu.
Prefazione<br />
Il primo analizzato è il “Bollettino d’arte” del Ministero della Pubblica istruzione, che, col<br />
relativo “Supplemento” di “Cronaca delle belle arti”, dal 1907 segue puntualmente le attività<br />
delle Soprintendenze. I redattori si astengono dalla campagna interventista fino al 1917,<br />
dedicando alla guerra articoli estremamente brevi, nei quali ogni avvenimento è pretesto per<br />
richiamare la vigilanza dell’Amministrazione sui centri storici. Nelle pagine del periodico il<br />
fermento ideo<strong>lo</strong>gico interagisce con i preesistenti problemi di tutela dell’Italia, mantenendo alto<br />
<strong>lo</strong> stato d’allerta più su questo aspetto che su quel<strong>lo</strong> specifico del conflitto.<br />
È ancora molto interessante l’analisi con la quale la studiosa valuta il mutare dell’atteggiamento<br />
della <strong>Di</strong>rezione generale dell’Antichità e Belle Arti in relazione al ripetuto dilagare degli austriaci<br />
nel territorio italiano, la Strafexpedition del 1916 e Caporetto, l’anno seguente.<br />
Il 1917 l’Amministrazione esita La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra<br />
(1915-1917): I. Protezione dei monumenti, cui fa seguito, nel ’18, La protezione degli oggetti d’arte mobili.<br />
Nei testi pubblicati le ideo<strong>lo</strong>gie sottese si fanno più palesi, evidenziando la barbarie nemica<br />
cui si contrappone la lungimirante attività di tutela della civilissima Italia. La Nezzo<br />
sottolinea l’importanza della rilevante campagna fotografica, pubblicata nella rivista ministeriale<br />
con modi e ritmi visivi ispirati a quelli elaborati per la propaganda militare, al fine di documentare<br />
gli sforzi compiuti per preservare il patrimonio artistico con l’utilizzo di paramenti difensivi.<br />
<strong>Di</strong>versa la posizione della rivista “L’Arte” di Adolfo Venturi nella quale, per lungo tempo,<br />
la guerra con i suoi tragici risvolti anche sul patrimonio artistico rimane sotto silenzio. So<strong>lo</strong> nel ’19,<br />
in occasione della stipula dei trattati di pace, a firma di Eva Tea appaiono sulla rivista scritti dagli<br />
accesi toni nazionalistici, nei quali appare la richiesta di risarcimento sia per le spese di protezione<br />
affrontate sia per i danni inferti ai monumenti, mediante la resa di alcuni capolavori dell’arte<br />
italiana ing<strong>lo</strong>bati a vario tito<strong>lo</strong> in collezioni museali delle nazioni sconfitte.<br />
Molto interessanti altri temi evidenziati dalla Nezzo in relazione alla politica culturale intrapresa<br />
dalla rivista, sempre a firma di Tea, con riferimento, in particolare, alle recensioni di<br />
esposizioni dedicate, secondo le tendenze della critica coeva a periodi dell’arte, dal ‘700 in poi,<br />
anche al fine “di attivare il nesso tradizione-modernità per riscattare criticamente l’Ottocento italiano”<br />
rispetto alle esperienze straniere, in particolare francesi. Alla fine del conflitto alcuni confronti<br />
crono<strong>lo</strong>gici e formali, già discussi all’inizio del seco<strong>lo</strong>, si ideo<strong>lo</strong>gizzano con aspri confronti che<br />
si concretizzano in rapporti di forza essenzialmente politici.<br />
Ultimo dei periodici studiato dalla Nezzo è “Pagine d’arte”, rivista dal 1914 raccordata<br />
alla “Rassegna d’arte antica e moderna”, sulle cui pagine fu sorprendente il confronto con<br />
il fermento bellico sostenuto dai collaboratori, in particolare Ugo Ojetti e Raffael<strong>lo</strong> Gialli,<br />
con articoli dal nutrito corredo fotografico dedicati, in particolare, alla difesa dei monumenti.<br />
La guerra offrirà alla rivista un model<strong>lo</strong> di militanza e di interventismo culturale e sociale,<br />
ed infatti, nel biennio ’18 e ’19, gli articoli pubblicati si occuperanno non solamente degli inevitabili<br />
restauri del patrimonio artistico offeso dalla violenza bellica, ma anche, come osserva la Nezzo,<br />
delle «rinascenti polemiche d’architettura, delle mostre della para-avanguardia, del futuro<br />
in costruzione».<br />
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12<br />
Simonetta La Barbera<br />
Quarto ed ultimo saggio “<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia di<br />
Giuseppe Cipolla. Con questa intensa frase, che diede il tito<strong>lo</strong> a un artico<strong>lo</strong> pubblicato su<br />
“L’Espresso” l’11 ottobre 1987, Leonardo Sciascia offre un ricordo di Renato Guttuso che non<br />
presenta le caratteristiche del necro<strong>lo</strong>gio tradizionale, ma quelle del ricordo di un amico del quale<br />
<strong>lo</strong> scrittore era riuscito a individuare la complessa personalità di uomo e di artista. L’autore del<br />
saggio, muovendo da queste considerazioni, indaga un particolare aspetto dell’universo sciasciano,<br />
quel<strong>lo</strong> dell’ininterrotto rapporto con le arti figurative, cogliendo in questa passione del<strong>lo</strong><br />
scrittore un indissolubile punto di contatto con la sua contemporanea produzione letteraria.<br />
Indubbiamente Sciascia, attento frequentatore di gallerie d’arte e di artisti quali Guttuso,<br />
Maccari, Greco, Caruso, Pirandel<strong>lo</strong>, introduceva nella scrittura dei suoi romanzi immagini riprese<br />
dalle emozioni in lui prodotte dall’arte figurativa.<br />
Giuseppe Cipolla ripercorre il rapporto di Sciascia con Guttuso ricordando che nel<br />
dibattito esp<strong>lo</strong>so alla fine del secondo conflitto mondiale tra realisti e astrattisti, nel quale la figura<br />
del pittore di Bagheria occupa un posto rilevante, Sciascia si schiera apertamente con i sostenitori<br />
del figurativismo, pur non nascondendo le sue riserve sulle posizioni estremiste di matrice<br />
marxista dell’amico pittore.<br />
Negli scritti dedicati all’artista Sciascia non è dunque mosso da un’urgenza descrittiva,<br />
bensì dal desiderio di evidenziare le più profonde radici culturali della poetica guttusiana.<br />
Altro aspetto interessante del contributo di Giuseppe Cipolla è quel<strong>lo</strong> di individuare nella pagina<br />
sciasciana due dei modelli della critica figurativa del Novecento: quella inerente il linguaggio che<br />
ha la sua matrice nella critica di matrice rondista e quella inerente ai contenuti e alle metodo<strong>lo</strong>gie<br />
di analisi dell’opera d’arte, di Ragghianti, ma anche di Brandi, Argan e Calvesi, questi ultimi tre<br />
attivi protagonisti della critica d’arte militante e in successione, a lungo presenti a <strong>Palermo</strong> quali<br />
titolari della cattedra di Storia dell’Arte presso la Facoltà di Lettere e con i quali Sciascia ebbe<br />
importanti frequentazioni.<br />
Per la consueta disponibilità mostrata nel corso della realizzazione di questo numero<br />
della collana teCLa, ringrazio la Dott. ssa Marina D’Amore <strong>Di</strong>rettore della Biblioteca Centrale<br />
della Facoltà di Lettere e Fi<strong>lo</strong>sofia dell’Università di <strong>Palermo</strong>, il Dott. Gaetano Gul<strong>lo</strong> <strong>Di</strong>rettore<br />
della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “A. Bombace”, la Dott.ssa Marilinda Moavero<br />
<strong>Di</strong>rigente responsabile dell’Unità operativa III della B.C.R.S., il Dott. Car<strong>lo</strong> Pastena Responsabile<br />
del Servizio per i Beni Bibliografici ed Archivistici della Soprintendenza Regionale<br />
BB.CC.AA. di <strong>Palermo</strong>, il Dott. Roberto Tononi responsabile del CED della B.C.R.S.<br />
Ringrazio altresì la Dott.ssa Dora Favatella Lo Cascio, <strong>Di</strong>rettore del Museo Guttuso di Bagheria,<br />
la Fondazione Sciascia e gli eredi di Leonardo Sciascia.<br />
Grazie, ancora una volta, ai colleghi del Comitato Scientifico per il <strong>lo</strong>ro apporto e per l'immutato<br />
sostegno a questa iniziativa.
Anton Francesco Doni incarna una delle personalità<br />
più curiose del Cinquecento, e non so<strong>lo</strong> italiano.<br />
Nella multiforme attività, che ne fece un autore prolifico<br />
come pochi altri del suo tempo, l’operazione scrittoria<br />
procede secondo canoni notevolmente debitori nei confronti<br />
di autori precedenti e contemporanei, ta<strong>lo</strong>ra poco<br />
curandosi degli scrupoli di fronte alla riscrittura se non al<br />
plagio palese. Nella sua immensa produzione, tuttavia,<br />
la teoria dell’arte occupa un ruo<strong>lo</strong> di primo piano ed emerge<br />
con caratteri di una certa originalità. È lecito anzi affermare<br />
che il contributo più nuovo del pensiero di Doni ascenda<br />
proprio alle sue idee sull’arte. Fiorentino, trapiantato a<br />
Venezia, <strong>lo</strong> scrittore – in una con il suo carattere bizzarro e<br />
non di rado provocatorio – esalta l’amico Tintoretto contro<br />
l’idolatria cui era oggetto Raffael<strong>lo</strong>, e assegna alla scultura il<br />
ruo<strong>lo</strong> di arte principe su tutte le altre. Nel 1549, pochi anni<br />
dopo l’indizione della celebre Inchiesta di Benedetto<br />
In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />
I N M A R G I N E A L D I S E G N O E A L L A T E O R I A D E L L’ARTE<br />
D I A N T O N F R A N C E S C O D O N I<br />
FRANCESCO PAOLO CAMPIONE<br />
Ritratto di Anton Francesco Doni.<br />
Derivante probabilmente da un prototipo<br />
di Enea Vico, fu inserito nelle prime edizioni<br />
de I Mondi (1552) e de I Marmi (1552-53).<br />
Varchi, e anteriormente alla pubblicazione della prima edizione delle Vite vasariane, Doni<br />
pubblica a Venezia il <strong>Di</strong>segno, un breve trattato che sotto forma dia<strong>lo</strong>gica affronta la questione<br />
del paragone tra le arti, individuando proprio nell’arte plastica il corrispettivo immediato del<br />
disegno. In realtà il paradigma della scultura come madre delle arti (non ultima anche della
16<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
scrittura) è un topos che ricorre continuamente nel pensiero doniano. Nei Marmi (1553), tra gli<br />
inter<strong>lo</strong>cutori dei dia<strong>lo</strong>ghi compaiono più volte artisti (e scultori in particolare), rappresentando<br />
altrettanti portavoce del<strong>lo</strong> scrittore. In questa, che è forse l’opera più riuscita del fiorentino, più<br />
d’una volta la methodus operativa della scultura (<strong>lo</strong> “scoprire” l’immagine entro la materia bruta)<br />
viene assunta a model<strong>lo</strong> per tutte le arti. Non meno significativi, i passi dell’opera in cui Doni<br />
teorizza della “esperienza estetica” che prova <strong>lo</strong> spettatore al cospetto della scultura (in particolare,<br />
delle allegorie michelangiolesche nella Sagrestia di San Lorenzo), con accenti di singolare<br />
modernità che davvero sembrano precorrere molte delle nozioni sviluppatesi poi nel corso del<br />
Sette e dell’Ottocento (ad esempio quella di empatia). Nella scrittura doniana il rapporto fra testo<br />
e immagine è un nesso del tutto inscindibile. Da abile tipografo, <strong>lo</strong> scrittore conosce<br />
perfettamente la presa emozionale che l’inserzione di queste nel testo opera sul lettore, e non<br />
di rado le immagini stesse – la più parte destinate originariamente ad altre opere, coma avviene<br />
nei Mondi (1552) – sono il pretesto per <strong>lo</strong> sviluppo potenzialmente infinito della scrittura.<br />
Il nesso tra scrittura e suo corrispettivo iconico, seppure non concretizzato in immagini, trova<br />
l’esemplificazione più significativa nelle Pitture (1564), un testo che – forse sulla suggestione<br />
dell’Idea del Teatro di Giulio Camil<strong>lo</strong> – progettava sul model<strong>lo</strong> delle Immagini di Fi<strong>lo</strong>strato, una serie<br />
di quadri simbolici che avrebbero dovuto ornare un palazzo dedicato a Petrarca ad Arquà.<br />
Nella scrittura di Doni, in definitiva, converge tutta l’esperienza dei “poligrafi” veneziani<br />
del Cinquecento (Doni fu prima amico, poi acerrimo avversario di Pietro Aretino, di cui<br />
condivise molte dei giudizi sugli artisti contemporanei) rappresentando davvero una delle voci<br />
più significative della teoria dell’arte nell’Italia del tempo.<br />
<strong>Di</strong> se stesso Doni amò tramandare un ritratto che esattamente riproduceva – con la vivezza<br />
del parlato popolaresco – la sua attitudine “capricciosa”:<br />
Ho gli occhi rossi come un prosciutto, il viso bigio come un rosignuo<strong>lo</strong>, dritta<br />
come un solco la persona e sofficiente grandezza di naso e d’orecchia. Una cosa mi guasta, che<br />
fece pianger la mia balia, che aveva paura ch’io non potessi pigliare il capezzo<strong>lo</strong>: e questa<br />
è ch’io sono abboccato grandissimamente 1 .<br />
Se la grandezza della bocca corrispondesse davvero a un’altrettale facondia, Doni fu<br />
al<strong>lo</strong>ra dotato dalla natura a parlare e scrivere a dismisura.<br />
In effetti <strong>lo</strong> scrittore fiorentino è uno di quegli autori la cui fortuna critica è stata<br />
un paradossale riflesso della bizzarria della sua opera. Largamente produttivo in vita,<br />
tanto che amava affermare che i suoi libri si leggevano prima ancora di essere pubblicati,<br />
1 A. F. DONI, Lettera a Francesca Baffo, pubbl. in ID., I Mondi e gli Inferni (Venezia 1552), ed. a cura di P. Pellizzari, Einaudi,<br />
Torino 1994, p. VII.
In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />
e di comporli direttamente in tipografia (tralasciando quella fase di revisione formale e tecnica<br />
che a tutti gli altri autori pareva indispensabile requisito), Doni cominciò a conoscere una fase<br />
discendente della sua carriera già verso la fine degli anni ’60 del Cinquecento 2 , quando ormai il<br />
suo stile e i temi della sua opera si mostravano inconciliabili con il clima di rigida ortodossia<br />
morale imposto dalla Controriforma. Così la ‘cometa’ dell’autore conobbe una lunga eclisse per<br />
riapparire so<strong>lo</strong> nell’Ottocento, più come curioso fenomeno di scrittura bislacca che come autore<br />
meritevole di studio. Le riedizioni dei Marmi curate da Fanfani nel 1863, con le notizie biografiche<br />
relative all’autore di Salvatore Bongi, e da Chiorboli nel 1928, sono in realtà più operazioni<br />
bibliofile che tentativi di riabilitare uno scrittore che – fino alla fine degli anni Venti del Novecento –<br />
figurava con alcune sue opere persino nell’Index Librorum Prohibitorum della Chiesa.<br />
Come ta<strong>lo</strong>ra accade, però, uno scrittore dimenticato diventa d’un tratto oggetto di una vera<br />
e propria moda, e così Doni (grosso modo a partire dal saggio bibliografico della Ricottini<br />
Marsili - Libelli del 1960) è divenuto uno degli autori più frequentati dalla critica moderna,<br />
cosicché ha cominciato a riguardar<strong>lo</strong> un gran numero di saggi e pubblicazioni (una «soma di<br />
libri» avrebbe forse detto <strong>lo</strong> stesso autore), che in parte si giustificano con la sua produzione<br />
vastissima e con la pluridisciplinarità dei suoi interessi. In realtà Doni non è uno scrittore per il<br />
quale si possano felicemente enucleare modelli tematici circoscrivibili in un fi<strong>lo</strong>ne omogeneo.<br />
Detto in altri termini – diversamente ad esempio da quanto accade al suo contemporaneo<br />
Aretino, certo letterariamente, ma anche culturalmente di gran lunga più attrezzato – il Doni<br />
scrittore di “cicalate”, oppure episto<strong>lo</strong>grafo, o ancora fi<strong>lo</strong><strong>lo</strong>go stravagante, numero<strong>lo</strong>go, fi<strong>lo</strong>sofo<br />
‘moralista’, utopista, scrittore di cose d’arte, musico<strong>lo</strong>go non è scomponibile in unità d’ambito<br />
a compartimenti stagni, che non tengano conto delle altre specializzazioni a cui attinse la<br />
sua sfrenata vena scrittoria. Per questo Doni non è scrittore “facile”. L’esibita sciatteria della<br />
2 Anton Francesco Doni nasce a Firenze nel 1513 da Bernardo di Antonio, che esercitava il mestiere di forbiciaio.<br />
In realtà <strong>lo</strong> scrittore si attribuì una prosapia aristocratica affermando di vantare tra i suoi avi due papi, un appartenente alla<br />
fazione ghibellina e parenti nobili sparsi tra Pistoia, l’Ungheria e Napoli. Momento fondamentale nella formazione di Doni è il<br />
soggiorno presso la casa di Baccio Bandinelli tra il 1529 e il ’30. Da questa esperienza <strong>lo</strong> scrittore derivò con ogni probabilità sin<br />
dalla giovane età quella passione per il disegno, le pietre preziose, le arti in generale che sarebbe stata la caratteristica più<br />
significativa della sua produzione letteraria. Non staremo qui a seguire il vorticoso peregrinare di Doni per varie città italiane, né<br />
le vicende editoriali della sua sconfinata produzione (per i quali conviene richiamarsi a C. RICOTTINI MARSILI-LIBELLI,<br />
Anton Francesco Doni scrittore e stampatore, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1960; e all’apparato biobibliografico contenuto in<br />
Opere di Folengo, Aretino e Doni, a cura di C. CORDIÈ, Ricciardi, Milano-Napoli 1976, vol. II, pp. 571-96; e l’ampia scheda<br />
sull’autore a cura di G. Masi, in “Cinquecento plurale” consultabile sul sito www.nuovorinascimento.org, continuamente<br />
aggiornata); piuttosto qui è il caso di rilevare come la quota più consistente della scrittura doniana si dati agli anni immediatamente<br />
prossimi alla metà del seco<strong>lo</strong>, con opere che ne fanno uno degli spiriti più eterodossi del suo tempo: tra esse il <strong>Di</strong>segno<br />
(Venezia 1549), La Libraria (Venezia 1550) e La Seconda Libraria (Venezia 1551), I Marmi (Venezia 1552-53), I Mondi (Venezia 1552),<br />
le Rime del Burchiel<strong>lo</strong> comentate dal Doni (Venezia 1553), e ancora molte altre in una produttività così ampia da avere ben pochi eguali<br />
nell’ambito della poligrafia del tempo. <strong>Di</strong> Doni si può affermare con sicurezza che, nella sua professione di giornalista ante<br />
litteram, fu uno degli autori più attenti al mercato editoriale della sua epoca: la professione di stampatore, che in verità perseguì<br />
con non molta fortuna nella seconda metà degli anni ’40 del seco<strong>lo</strong>, gli consentì però un notevole esercizio tecnico che poi avrebbe<br />
messo a frutto a Venezia nel suo sodalizio con i tipografi ed editori Francesco Marcolini e Gabriel Giolito de’ Ferrari, per i quali<br />
possiamo pensare rappresentasse non so<strong>lo</strong> uno degli autori di riferimento, ma anche una sorta di consulente “tecnico” e – oggi<br />
diremmo – di “marketing” editoriale. Ritiratosi in una sorta di esilio vo<strong>lo</strong>ntario a Monselice, presso Padova, Doni vi muore nel 1574.<br />
Per un ampio quadro biografico dell’autore, cfr. anche A. LONGO, ad vocem “Doni, A. F.”, in <strong>Di</strong>zionario Biografico degli Italiani,<br />
Istituto della Encic<strong>lo</strong>pedia Italiana, Roma 1992, vol. 41, pp. 158-67.<br />
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18<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
sua scrittura, gli errori ostentati con disinvoltura, i plagi e le riscritture indissimulati i modi di dire<br />
contorti e comprensibili spesso so<strong>lo</strong> in un ristrettissimo territorio gergale, so<strong>lo</strong> apparentemente<br />
disegnano il ritratto di uno scrittore superficiale, che scriveva più per empire pagine su pagine<br />
che per veicolare messaggi di una qualche profondità.<br />
Una delle imprese più utilizzate da Doni,<br />
che un po’ ne sintetizza l’attitudine ad<br />
assumere continuamente una maschera.<br />
Nelle edizioni de I Mondi è accompagnata<br />
dal motto QUEL CHE PIÙ MI MOLESTA<br />
ASCONDO E TACCIO.<br />
In realtà l’attitudine “capricciosa” dell’autore a<br />
scrivere «per dar baia al mondo» 3 non è tanto la spia di un<br />
disimpegno morale, o della devoluzione al ‘caso’ o al ‘caos’<br />
(un gioco di parole che probabilmente sarebbe stato<br />
congeniale al<strong>lo</strong> stesso Doni) delle facoltà creative.<br />
È piuttosto il sintomo più evidente di una crisi delle<br />
strutture letterarie che – nell’ambito della poesia – trovava<br />
via di fuga ad esempio nel revival petrarchesco dei bembisti; e<br />
più in generale, la spia di una insofferenza alle regole<br />
canoniche che, con il declinare del Rinascimento nella sua<br />
fase ultima (la si chiami o meno Maniera), prendevano a<br />
stringere in misura sempre più asfissiante gli artisti, i quali<br />
tuttavia ta<strong>lo</strong>ra di buon grado vi si sottomettevano.<br />
Ha notato opportunamente Massimiliano Rossi 4 che<br />
«Doni va sempre considerato in toto». A differenza di<br />
Pietro Aretino che, come rilevavamo più sopra, presenta<br />
una propria specificità nell’ambito delle teorie artistiche<br />
del suo tempo, senza essere egli stesso un teorico, Doni<br />
‘non può’ essere considerato uno scrittore dei fenomeni<br />
artistici estrapolandone la numerose puntate nel campo<br />
della scrittura sull’arte senza un aggancio con il resto della<br />
sua produzione. Perché? Possiamo rispondere che nella<br />
strabocchevole produzione letteraria del<strong>lo</strong> scrittore fiorentino, che non di rado si avvale<br />
della ripetizione di formule e persino di intere pagine di opere già pubblicate (non importa se<br />
da lui stesso o da altri), il discorso sull’arte è la trave che regge l’impalcatura dell’intera sua opera.<br />
In tutti i suoi scritti, quali che siano la sua attitudine, il grado delle sue conoscenze, la “serietà”<br />
con la quale egli s’accosta alla pagina, l’arte è l’essenza concettuale che dà sostanza alle parole:<br />
non so<strong>lo</strong> perché – specie nelle opere maggiori – c’è un rapporto ta<strong>lo</strong>ra inscindibile tra immagine<br />
e testo (così avviene nei Mondi e nei Marmi, pubblicati poco a ridosso della metà del Cinquecento);<br />
ma soprattutto perché l’arte stessa è l’orizzonte a cui costantemente si richiama Doni per<br />
esplicitare il suo discorso, per rendere la sua parola visibile. L’aggancio all’arte è insomma<br />
3 A. F. DONI, I Marmi (Marcolini, Venezia 1553); ed. a cura di E. Chiorboli, Laterza, Roma-Bari 1928, vol. I, p. 131.<br />
4 M. ROSSI, Teoria sull’arte e artisti nei Marmi tra Firenze e Venezia, in «Mangiar libri e inghiottire scritture». I Marmi di Anton Francesco<br />
Doni: la storia, i generi e le arti, Atti delle Giornate di <strong>Studi</strong>o organizzate dalla Scuola Normale Superiore di Pisa, in c. di s.<br />
Ringrazio Massimiliano Rossi per avermi gentilmente concesso di visionare in anteprima il testo del suo intervento.
In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />
sempre presente negli scritti del fiorentino come se la sua methodus operandi ascendesse<br />
più all’ambito del figurativo che del testuale.<br />
In Doni non c’è una soluzione di continuità<br />
fra la scrittura di cose d’arte e – ad esempio<br />
– la prassi critica e esegetica che <strong>lo</strong> porta,<br />
nel 1553, a inerpicarsi per l’erta accidentata delle<br />
Rime del Burchiel<strong>lo</strong> 5 : nel dedicare (non a caso)<br />
all’amico Tintoretto il risultato del suo lavoro d’interpretazione,<br />
gli presenta la produzione in rima<br />
di Domenico di Giovanni come l’opera di un<br />
«poeta pittor di grottesche». Qui però non si<br />
tratta so<strong>lo</strong> di una ennesima variazione sul tema<br />
dell’ut pictura poësis, abbassato al livel<strong>lo</strong> del<br />
parlare popolaresco o persino sovvertito in<br />
una celebrazione della follia e del nonsense.<br />
Porre in paralle<strong>lo</strong> la poesia burchiellesca alle<br />
grottesche significa erodere con decisione il<br />
dogmatismo pedantesco che imperava al suo<br />
tempo, la pretesa che tutto potesse essere ridotto<br />
a spiegazione secondo <strong>lo</strong>gica. Nelle rime<br />
di Burchiel<strong>lo</strong>, così come nelle grottesche, la<br />
solidarietà tra significante e significato è venuta<br />
meno. Nelle grottesche il segno è so<strong>lo</strong> significante,<br />
Tintoretto, Ritratto di Anton Francesco Doni, Budapest,<br />
Museo di Belle Arti. Si tratta verosimilmente del<br />
«ritratto mirabile» che Doni, nella dedicatoria delle Rime<br />
del Burchiel<strong>lo</strong> comentate dal Doni (1553) afferma di avere<br />
avuto realizzato dall’amico pittore veneziano.<br />
poiché l’eterogeneità degli elementi che le compongono rendono impossibile qualunque<br />
ricomposizione di essi in un senso unitario. Paragonando a queste le rime del poeta quattrocentesco,<br />
Doni ha molto acutamente colto nel segno: di fatto il comento che egli appronta<br />
a corredo delle Rime non so<strong>lo</strong> non spiega nulla del <strong>lo</strong>ro senso (sempre che davvero, nelle<br />
intenzioni del poeta, esso fosse davvero sotteso alle parole), ma addirittura ne rende ancora più<br />
incomprensibile la lettura. Le poesie di Burchiel<strong>lo</strong>, anzi, divengono il pretesto per un pastiche che<br />
ricombina in un’opera totalmente nuova il model<strong>lo</strong> da interpretare, una specie di prosimetro che<br />
rifà – ovviamente in chiave degradata – la Vita Nova dantesca. E così la dedica a Tintoretto,<br />
«il più terribile cervel<strong>lo</strong> che abbia avuto mai la pittura» nella nota sentenza vasariana, più che<br />
la spia di un gusto personale per <strong>lo</strong> stile del pittore veneziano è probabilmente l’indizio<br />
5 [Burchiel<strong>lo</strong>], Rime del Burchiel<strong>lo</strong> comentate dal Doni, Marcolini, Venezia 1553. Per il commento doniano alle rime del poeta<br />
quattrocentesco, cfr. G. MASI, La Zuffa del Negligente. Il Commento doniano alle Rime del Burchiel<strong>lo</strong>, in M. Zaccarel<strong>lo</strong> (a cura di),<br />
La fantasia fuor de’ confini. Burchiel<strong>lo</strong> e dintorni a 550 anni dalla morte (1449-1999), Atti del Convegno (Firenze, 26 novembre<br />
1999), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, pp. 169-93; ID., Fi<strong>lo</strong><strong>lo</strong>gia ed erudizione nel Commento del Doni alle Rime del Burchiel<strong>lo</strong>,<br />
in A. Corsaro, P. Procaccioli [a cura di], Cum notibusse et comentaribusse. L’esegesi parodistica e giocosa del Cinquecento, Atti del<br />
Seminario di Letteratura italiana, Viterbo, 23-24 novembre 2001, Vecchiarelli, Manziana, 2002, pp. 147-72.<br />
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20<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
di una condivisione d’interessi verso tutto ciò che si presentava sotto le spoglie del bizzarro<br />
e dell’abnorme. Forse uno dei tratti più caratteristici della personalità del fiorentino è<br />
proprio l’interesse costante verso i ‘gabinetti’ di anticaglie, per le raccoglie di mirabilia che egli<br />
doveva spesso frequentare nelle visite ad amici e potenti: nell’accozzaglia folle di oggetti che<br />
spesso essi esibivano <strong>lo</strong> scrittore vedeva forse il corrispettivo iconico della sua scrittura. C’è un<br />
passo dei Marmi che , da questo punto di vista, ascende davvero a paradigma immediato della<br />
sua sensibilità. È la parte finale della <strong>Di</strong>ceria dell’Inquieto, che peraltro rappresenta una delle ultime<br />
sezioni dell’opera. Forse conviene riportarla nella sua interezza perché – una volta di più – è una<br />
delle pagine più vive della sua opera:<br />
Pochi giorni fa io fui menato a vedere uno scrittoio d’anticaglie; e colui che mi vi menò,<br />
al mio parere, è più pazzo che non son io, se già io non sono come la maggior parte degli altri,<br />
che credano esser savi soli <strong>lo</strong>ro. Egli mi cominciò a mostrare una testa di marmo e a <strong>lo</strong>darmela<br />
(le son tutte albagie che si mettano in fantasia gli uomini) per la più stupenda cosa del mondo,<br />
poi certi busti, certi piedi, certe mani, certi pezzi, un sacco di medaglie, una cassetta di bizzarrie, un<br />
granchio di sasso, una chiocciola convertita in pietra, un legno mezzo legno e mezzo tufo<br />
sodissimo, certi vasi chiamati lacrimarii, dove gli antichi, piangendo i <strong>lo</strong>r morti, riponevano le<br />
<strong>lo</strong>r lagrime, certe lucerne di terra, vasi di ceneri, e altre mille novelle. Quando io fui stato<br />
a disagio quattr’ore e che io veddi che tanto tanto teneramente era inamorato di quelle sue pezze<br />
di sassi, con un sospiro io gli dissi: – Oh se voi fosti stato padrone di queste cose tutte quando<br />
l’erano intere, eh? – O <strong>Di</strong>o, che piacere avrei io avuto! – rispose egli. – Se poi voi le aveste vedute<br />
come ora? – Sarei morto – disse il galantuomo. – O che direste voi che se ne fará del gesso<br />
ancóra! perché fia manco fatica che di pezze le diventin gesso che non è stata di bellissime<br />
statue diventar pezzi brutti. – E mostratogli il sole, gli disse: – Fratel<strong>lo</strong>, quel<strong>lo</strong> è una bella anticaglia, e<br />
ce n’è per qualche anno, e non queste scaglie, boccali, lucerne e novelle, che si rompono e vanno<br />
in mal punto e in mal’ora: io vorrei avere in casa quel<strong>lo</strong>; e non l’avendo veduto mai più,<br />
mostrandote<strong>lo</strong>, ti farei stupire. Lascia andar coteste novelle, vattene a Roma, ché per un mese tu<br />
ti sazierai; e quando tornerai a casa e che tu rivegga queste tue cose, te ne riderai come fo io. Per<br />
me non trovo cosa che mi diletti più d’un giorno, io sono instabilissimo, inquieto e non cappio<br />
in me medesimo. – Guardate ora voi, Doni, se mi sapeste trovare qualche ricetta che mi<br />
stagnasse il sangue 6 .<br />
La descrizione è faceta, eppure estremamente precisa e profonda. La passione antiquaria<br />
è un po’ il rovescio della coazione alla scrittura. Comporre è davvero come collezionare pezzi<br />
antichi – ta<strong>lo</strong>ra bizzarrie sulle quali la natura si è esercitata – per dar luogo a un’opera<br />
nuova attraverso pezzi ‘vecchi’. Eppure qui l’autore non sfugge a quell’inflessibile naturalismo<br />
che ne caratterizza la scrittura. E così l’anticaglia più mirabile non è un fossile, una lucerna o il<br />
6 A. F. DONI, I Marmi, cit., vol. II, p. 211.
In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />
frammento corroso d’una statua: è proprio il sole, antico di millenni eppure sempre nuovo.<br />
E Doni riprenderà altrove il tema della collezione come occasione per esercitare la<br />
sua vena bizzarra. E ancora una volta Tintoretto è il destinatario di una interessante missiva.<br />
Già dieci anni prima della pubblicazione delle Rime del Burchiel<strong>lo</strong> Doni gli aveva indirizzato una<br />
lettera nella quale gli descriveva il Museo Gioviano di Como 7 , scritta in pendant con l’altra ad<br />
Agostino Landi datata qualche giorno avanti. Eb<strong>bene</strong>, la ratio (se di ‘ragione’ è lecito parlare a<br />
proposito di Doni) che muove la descrizione del Museo prodotta per il pittore è la medesima che<br />
anima il Comento alle Rime del Burchiel<strong>lo</strong>. Se la lettera al conte Landi è tutta intessuta nella<br />
misura dell’erudizione, quasi a riprodurre nell’esattezza pedantesca il tono di una lezione<br />
accademica, quella a Tintoretto è architettata come una esegesi burlesca nella quale il significato<br />
delle immagini e delle opere custodite nella raccolta – che pure dalla descrizione appare con una<br />
certa chiarezza – è volutamente sovvertito. Una statua, che evidentemente raffigurava Cibele,<br />
nella falsamente ingenua descrizione di Doni diviene una donna «c’haveva più poppe assai ch’una<br />
cagna, et in capo una paniera di frutte, come la venisse<br />
dal mercato» 8 . O ancora a proposito di una raffigurazione<br />
di Apol<strong>lo</strong> e Marsia: «Il primo mi pareva un San Bartho<strong>lo</strong>meo,<br />
ma non aveva la pelle sulla spalla: ch’uno huomo che<br />
portava la ribeca l’appiccava a un albero, et poi gli era<br />
legato come un San Bastiano. Che domine era egli?» 9 .<br />
Chiaramente, l’operazione esegetica di Doni è non<br />
tanto e non so<strong>lo</strong> una satira contro la saccenteria della<br />
cultura ufficiale, rigonfia di autocelebrazione<br />
nell’ostentazione del proprio sapere; quanto il tentativo di<br />
riformare il linguaggio della critica a partire dal naturalismo<br />
linguistico e dal rifiuto delle categorie preconcette degli<br />
intellettuali di corte. E dunque un’opera come il <strong>Di</strong>a<strong>lo</strong>go<br />
di Pittura di Pao<strong>lo</strong> Pino (Venezia 1548), che muoveva da<br />
un piatto conformismo e da un incondizionata partigianeria<br />
per la pittura, dovette – <strong>lo</strong> notò già Rodolfo Pallucchini 10<br />
Frontespizio del <strong>Di</strong>segno del Doni (Giolito,<br />
Venezia 1549).<br />
- dargli sui nervi.<br />
Il fatto è che Doni è uno scrittore che non può<br />
essere seguito in un percorso lineare, proprio perché tale dirittura non gli è mai stata congeniale.<br />
Capace di esaltare Tiziano come uno dei massimi artisti d’ogni tempo, gli sovrappone<br />
7 A. F. DONI, [Lettera] A M(esser) Jacopo Tintoretto Eccellente Pittore (Como, 23 luglio 1543), in Id. Tre Libri di Lettere del<br />
Doni, Marcolini, Venezia 1552, pp. 75-79. La lettera era già stata pubblicata nelle due edizioni delle Lettere del 1544 e del 1547,<br />
e – come vedremo – nell’appendice al <strong>Di</strong>segno del 1549.<br />
8 Ivi, p. 76.<br />
9 Ivi, p. 77.<br />
10 R. PALLUCCHINI, La critica d’arte a Venezia nel Cinquecento, “Quaderni del Rinascimento Veneto”, n° 1, Venezia<br />
1943, pp. 16-17.<br />
21
22<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
però Michelange<strong>lo</strong> e proprio là (a Venezia) dove<br />
l’inveterata disputa tra disegno e co<strong>lo</strong>rito aveva<br />
portato alla “centauresca” sintesi ideale elaborata<br />
dal<strong>lo</strong> stesso Pino di «un dio della pittura»<br />
che possedesse il disegno di Michelange<strong>lo</strong> e il co<strong>lo</strong>rito<br />
di Tiziano.<br />
Il <strong>Di</strong>segno del Doni, che il fiorentino pubblica<br />
nel 1549 11 quasi in risposta all’operetta piniana, è<br />
un testo che esibisce con evidenza le contraddizioni<br />
che caratterizzano l’intera sua produzione. Da una<br />
parte – apparentemente – non aggiunge nulla di<br />
nuovo al dibattito critico contemporaneo, riprendendo<br />
numerosi topoi della tradizione, anzi ulteriormente<br />
tritandoli in un risultato quantomeno stanco;<br />
dall’altro però è capace di illuminare su quella crisi<br />
Una delle imprese dell’Accademia Peregrina, rappresentante<br />
un pellegrino recante il falco e il bordone, oggetto quest’ultimo<br />
allusivo al pittore Paris Bordone che Doni indica come<br />
corifeo del sodalizio.<br />
delle strutture di pensiero rinascimentali, già in atto da molto tempo, se letta non come opera<br />
“assoluta”, bensì come fi<strong>lo</strong> conduttore principale di tutti gli altri suoi testi. E dunque, a<br />
presentare il suo trattato, è utile far parlare <strong>lo</strong> stesso autore attraverso la lettera Al Bordone,<br />
Guida dell’Academia de’ Pelegrini:<br />
Tutti questi libri [Doni aveva precedentemente enumerato le opere composte dai<br />
membri dell’Accademia Peregrina nel 1549] vi si mandano; rimandatemi per il medesimo<br />
apportatore IL DISEGNO mio, et date un’occhiata a questa scusa magra che io ho fatto a<br />
co<strong>lo</strong>ro che leggeranno l’opera. State sano.<br />
AI LETTORI.<br />
Egli è pur venuto un tempo che i paperi (come si suol dire) menano a ber l’oche, cioè che<br />
ne sa più un praticone senza cuiussi, che un dottore di poco giudicio con molte lettere; perché<br />
un mezz’huomo che habbia buon discorso, se non intende una cosa, con l’ingegno suo la<br />
va ricercando, et domandando a chi la sa, et cava dalla miniera di quel cervellaccio tutto il suo<br />
bisogno. Et anchora che ’l dotto di poco senno tenga le sue lettere in confessione, il<br />
galante intelletto fa come co<strong>lo</strong>ro che cavan l’oro, i quali entran per varie strade nella montagna,<br />
11 A. F. DONI, <strong>Di</strong>segno del Doni partito in più ragionamenti, Giolito, Venezia 1549. Ed. mod. <strong>Di</strong>segno. Fac simile della edizione del<br />
1549 con una appendice di altri scritti del Doni riguardanti le arti figurative, a cura di M. Pepe, Electa, Milano 1970, <strong>lo</strong>c. cit. a n. 33.<br />
Altra ed. parziale in P. Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1971, t. I, pp. 554-91.
In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />
et <strong>lo</strong> traggon con gran fatica tutto brutto, et sporco; ma con mirabil maestria <strong>lo</strong> vanno poi raffinando.<br />
Così credo che facessino i poeti per lettera antichi, che leggevano questo scartabel<strong>lo</strong>, et<br />
quell’altro scartafaccio, et di quegli ordivono la tela dell’opera <strong>lo</strong>ro. Pure gli è difficil cosa<br />
a metter mano negl’altrui scrigni. Che si dirà adunque havendo dato in publico quest’opera, che<br />
tratta della Scoltura et Pittura, che per mia fede non saprei fare un beveratoio da pulci con <strong>lo</strong><br />
scarpel<strong>lo</strong>, né col pennel<strong>lo</strong> una testa (presso che io no’l dissi) di gril<strong>lo</strong>? Et pure gratia Dei<br />
n’ho cicalato non so quante carte. Potrei esser calunniato che io l’havessi rubata. A questo<br />
risponderebbe Antonio Schizzatore così morto com’egli è: che non è cosa detta o scritta che<br />
non ne sappia ragionar quasi ogni persona come son’io, et havendo praticato l’Eccellenza mia<br />
(con sanità fia detto) con la maggior parte degl’huomini che sanno benissimo l’arte, non è gran<br />
fatto ch’io ne cicali; anchora i Savi che compongono de’ libri, rubono dagl’altri libri, o<br />
traggono per parlar più moderato, tutte le <strong>lo</strong>r compositioni. Così faremo un saldo, che io<br />
habbi imparato a bocca (come s’imparava la Cabalà) per pratica, et i dotti da’ libri per scienza.<br />
Molti i potranno riprendere ch’io ho detto che la scoltura è più nobile che la pittura: ogn’uno è<br />
ubligato a dire l’opinion sua, anchor Leon Battista Alberti essaltò la pittura, ma se per sorte non<br />
piace <strong>lo</strong>ro, piglino la penna cortesemente et rispondino tal che con più forte ragione mi<br />
strapazzino et vinchino il piato, perché tal cosa mi farà sommo piacere , et ne resterò<br />
<strong>lo</strong>ro obligato mill’anni. Se poi io saprò dire anchor io qualche cosa frapperò col tempo empiendo<br />
qualche foglio. Mi resta solamente per hora a dire nell’orecchio a chi dicesse che io non<br />
ho saputo quel che io mi dica per via di Phi<strong>lo</strong>sophie, di stile: bravo, di parole; a questo non farò<br />
manco servitiali, ch’io m’habbi fatto a gli altri, et son questi gl’argomenti sì fatti, che Aristotile<br />
in sesto De Anima, et in duodecimo Phisicorum, si conferma con Platone de Situ Orbis: che uno<br />
il qual biasima (che sia della lega dell’ignoranza come me) ne faccia prima altrettanto et<br />
poi cicali et frappi quanto e’ vuole, et qui do fine alle ciancie per questa volta12 .<br />
La citazione è un po’ lunga, ma è davvero illuminante riguardo alla concezione dell’arte<br />
di Doni, tanto che potrebbe essere assunta a manifesto poetico dell’intera sua produzione.<br />
Lo stile è quel<strong>lo</strong> del parlare popolaresco, diremmo quasi da osteria dopo una buona bevuta.<br />
Ogni artificio di affinamento esteriore è così bandito in nome di una vena spontanea, e in una<br />
con l’elaborazione formale è caduto il principio d’autorità su cui il sapere pedantesco appoggiava<br />
i pilastri della propria credibilità. Doni non so<strong>lo</strong> ammette di essere «un praticone senza cuiussi»<br />
(dove la voce latina storpiata riproduce beffardamente il linguaggio accademico, e indica<br />
il bagaglio culturale nutrito di frequentazioni libresche), ma afferma – a ulteriore aggravio della<br />
sua posizione – che non sarebbe capace nemmeno di cesellare un abbeveratoio da pulci<br />
12 A. F. DONI, [Lettera] Al Bordone, Guida dell’Academia de’ Pelegrini sempre osservandissimo, in ID., Tre Libri di Lettere,<br />
cit. pp. 148-52, <strong>lo</strong>c. cit. a pp. 151-52. Anche questa lettera era stata accolta nell’appendice al <strong>Di</strong>segno. Abbiamo leggermente<br />
modificato l’interpunzione del<strong>lo</strong> scritto e staccato l’intestazione per mostrare il suo statuto di progetto di prefazione,<br />
che nella redazione definitiva fu mutato relegando la lettera (forse considerata troppo faceta per il tono “serio” del testo) alla fine del<br />
trattato.<br />
23
24<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
L’impresa, accompagnata dal motto STULTITIA EST APUD<br />
DEUM SAPIENTIA HUIUS MUNDI, che apre una delle sezioni<br />
dei Mondi. Raffigura simbolicamente la «soma di libri»<br />
su cui opera <strong>lo</strong> scrittore, cavati dalla dura pietra.<br />
L’iscrizione nel cartiglio (EYKAMATOS, “laborioso”) è un<br />
ulteriore indizio della difficoltà dell’azione creativa<br />
secondo Doni.<br />
o di dipingere una testa di gril<strong>lo</strong>. Oggetti quasi<br />
da Wunderkammer, si direbbe, che nel <strong>lo</strong>ro<br />
microscopico respiro paiono non tanto<br />
concretare la propensione a discutere di<br />
quisquilie, e per di più in uno stile volutamente<br />
antiletterario; quanto piuttosto a parlarne<br />
secondo il dato dell’esperienza. Esercizio che<br />
Doni ostenta non nella pratica artistica<br />
(seb<strong>bene</strong> fosse disegnatore non disprezzabile),<br />
bensì nella frequentazione di pittori e scultori<br />
a Firenze e a Venezia (<strong>lo</strong> stesso corifeo<br />
dell’Accademia Peregrina a cui si rivolge<br />
l’autore – forse per ottenere una revisione del<br />
suo lavoro – è il pittore Paris Bordone, ed è<br />
certo significativo che a capo di una congrega<br />
letteraria fosse posto proprio un artista figurativo);<br />
ma che è anche e soprattutto il dominio di una<br />
tecnica compositiva che non retrocede di fonte<br />
al plagio, assumendo<strong>lo</strong> anzi a methodus (l’unica<br />
possibile) della scrittura. Nella selva di bizzarrie<br />
che Doni presenta, in questa lettera come nel<br />
resto delle sue opere, una metafora credo possa<br />
essere considerata quasi l’“impresa” della sua officina letteraria: quella della montagna da cui i<br />
cavatori d’oro traggono un materiale a prima vista deforme, ma che con tecnica sapiente<br />
riducono a oggetti mirabili. Altrove (ad esempio nei Marmi) questo monte è assimilato alla mente<br />
dell’artista 13 (il «cervellaccio», secondo uno dei lemmi più cari all’autore), da cui con fatica, quasi<br />
a spremere i sassi, egli trae l’umore della creazione.<br />
Nella finzione del <strong>Di</strong>segno il dia<strong>lo</strong>go corre tra le personificazioni della Natura e dell’Arte<br />
a partire da un ennesimo topos della tradizione, la disputa su quale delle due debba ricevere la<br />
palma della preminenza. Al di là tuttavia della debolezza di questo luogo comune, introdurre all’inizio<br />
del dia<strong>lo</strong>go questo contraddittorio serve immediatamente a rivelare quale sia<br />
la mossa teorica che sottostà all’opera: Doni, sin dal<strong>lo</strong> stile della sua scrittura (che curiosamente<br />
in quest’opera trova una pausa di misurato accademismo, quasi a giustificare il giudizio che di essa<br />
si sarebbe dato quale unica sua opera “seria”), rivela una propensione naturalistica che emerge<br />
non so<strong>lo</strong> nella bizzarria attorta delle sue <strong>lo</strong>cuzioni, nei wellerismi e nei modi di dire vivacemente<br />
popolareschi; ma soprattutto nella considerazione stessa della scultura quale arte la più “naturale” tra<br />
tutte. In un passo dei Marmi – declinando nella solita attitudine al paradosso il tema delle statue<br />
13 A. F. DONI, I Marmi (Marcolini, Venezia 1553); ed. a cura di E. Chiorboli, Laterza, Roma-Bari 1928, vol. I, p. 100.
In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />
‘imprigionate’ nella materia già prima che <strong>lo</strong> scultore vi metta mano, uno dei suoi strampalati<br />
inter<strong>lo</strong>cutori (il Porcellino) assegna all’artefice piuttosto il ruo<strong>lo</strong> di scopritore che di creatore 14 .<br />
Qui Doni rivela certamente la sua aderenza alla dottrina neoplatonica dell’Idea, che<br />
Michelange<strong>lo</strong> aveva espresso nel celebre sonetto Non ha l’ottimo artista alcun concetto, seb<strong>bene</strong> sia<br />
utile supporre che tale adesione sia più un omaggio al<br />
maestro fiorentino che sentita partecipazione a un<br />
model<strong>lo</strong> fi<strong>lo</strong>sofico che doveva conoscere in misura<br />
so<strong>lo</strong> larvale. In realtà, come ha notato Mario Pepe nella<br />
sua introduzione all’edizione del <strong>Di</strong>segno del 1970 15 ,<br />
Doni qui rielabora, fondendoli al dettato neoplatonico<br />
in una mescolanza non precisamente originale, elementi<br />
aristotelici che la cultura controriformista – alla quale<br />
l’autore dovette pur sempre partecipare – riteneva congeniali<br />
alla diffusione delle dottrine Tridentine. Così la<br />
teoria del disegno subisce una trasmutazione – diremmo –<br />
di comodo e fa sì che esso divenga «speculation divina<br />
che produce un’arte eccellentissima, talmente che tu<br />
non puoi operare cosa nessuna nella scoltura et nella<br />
pittura senza la guida di questa speculatione et disegno» 16 .<br />
Il carattere metafisico (e non meno convenzionale)<br />
assegnato al disegno, definito poco più oltre come<br />
«un’inventione di tutto l’universo, imaginato perfetta-<br />
mente nella mente della prima causa, inanzi che<br />
venisse all’atto del rilievo, et del co<strong>lo</strong>re» 17 , non deve<br />
far perdere di vista né il naturalismo dell’autore, per il<br />
quale sembra esistere ben poco al di là del dato<br />
Frontespizio della terza edizione dei Tre Libri di<br />
Lettere del Doni (Marcolini, Venezia 1552). Nella<br />
vignetta, l’immagine del Tempo che sottrae la Verità<br />
alla Menzogna.<br />
dell’esperienza sensibile; né il solito atteggiamento paradossale e contraddittorio, che in realtà nel<br />
<strong>Di</strong>segno è mascherato da un conformismo di maniera. Credo che a valutare con maggiore<br />
acribia il portato dell’operetta doniana (e qui l’edizione curata da Pepe è strutturalmente davvero<br />
esemplare) debbano soccorrere altre opere che danno contezza di alcune posizioni che – fatalmente –<br />
nel <strong>Di</strong>segno restano implicite: non so<strong>lo</strong> gli altri scritti specificamente dedicati alle arti figurative,<br />
ma anche altri in cui il discorso sull’arte non è esattamente in primo piano. Le Lettere in questa<br />
direzione rappresentano ancora una volta un apparato critico di sicura utilità, perché rivelano <strong>lo</strong><br />
scrittore da un punto di vista interno, dal quale il tono letterario e le remore stilistiche e<br />
dottrinali sembrano banditi. In una di queste, indirizzata a Francesco Coccio 18 , Doni (attribuendo<br />
14 Ibidem.<br />
15 M. PEPE, Introduzione a A. F. DONI, <strong>Di</strong>segno, cit. p. 20.<br />
16 Ivi, p. 7 verso.<br />
17 Ivi, p. 8.<br />
18A. F. DONI, [Lettera] Al Dotto et da <strong>bene</strong> Messer Francesco Coccio (Padova, 17 febbraio [1543], in ID., Tre Libri di Lettere, cit. pp. 205-09.<br />
25
26<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
in verità la trovata a uno «spirito letterato […] diventato pazzo») ipotizza il meccanismo secondo<br />
il quale gli artisti e i letterati più grandi attingono all’Idea. Non è umanamente possibile, afferma<br />
in sostanza Doni, che alcuni uomini insigni nelle arti e nelle lettere possano avere già in giovane<br />
età (ed ex nihi<strong>lo</strong>) raggiunto la perfezione senza aver maturato l’esperienza che, in tutti gli<br />
altri uomini, è il percorso necessario a raggiungere – se non altro – risultati di una certa validità.<br />
E qui l’alter ego dell’autore esibisce una sua personale interpretazione della dottrina platonica<br />
dell’anamnesi, mescolandola alla credenza orfica della metempsicosi:<br />
Michel Agno<strong>lo</strong> scultore et dipintore sopranaturale haveva quindici anni, che<br />
faceva sì <strong>bene</strong> come cinquanta: non era possibile far questo se non fosse stato<br />
un’altra volta al mondo, et scultore et pittore, et tante volte gli è tornato che s’è fatto<br />
perfetto. Così come gli huomini arrivano a quel segno, Domenedio gli tira a sé in<br />
Paradiso, et non gli lascia più tornare. […] La virtù, gentlhuomini miei, come è giunta<br />
al segno a quel termine che è stabilito da lui, non la va più su. Ma creato un’altra<br />
anima, et venuta in questo mondo, tanto ci torna che la si fa perfetta. Vedete<br />
l’Aretino: è arrivato al colmo di quel<strong>lo</strong> che può dire un huomo senza lettere come egli<br />
è, che ha saputo più che mille letterati. Titiano è al colmo. Voi direte d’un pazzo: come<br />
anderà ella? Alla pazzeresca, tornargli tante volte che diventi savio, o pazzo sine fine dicentes.<br />
Perché venuto a quella perfettion della pazzia, potrà comparire anch’egli in Paradiso<br />
per pazzo solenne. […] Voi mi moverete un dubbio: come è possibil che io mi<br />
ricordi, et così gli altri huomini, di quell’altra volta che io fui in questo mondo?<br />
Vi dirò. Prima n’è cagione questo corpo come ostacu<strong>lo</strong> dell’intelletto in guisa<br />
dell’occhio serrato, il qual sempre tu vedi, et t’imagini una figura, una casa, una città,<br />
una persona, un animale. Ma come tu l’apri tutti s’accordano all’esserne capace, et poi<br />
è ordinazione di Messer Domenedio così. Tal volta <strong>lo</strong> fa ben ricordare a qualcuno, che<br />
a quel Phi<strong>lo</strong>sopho che si diceva esser stato un caval<strong>lo</strong> a Troia. Et quell’altro un gal<strong>lo</strong>,<br />
come chimerizza Luciano 19 . Il Moro da Savignano gli è stato una volta sola per esser<br />
dipintor goffo. Cencio <strong>Di</strong>ni contadino da Santa Croce di Lucca gli è stato due volte<br />
o tre: la prima volta fu sguattero della corte, la seconda spazzava la casa, hora è sguattero,<br />
scrivano et poeta, [e] <strong>lo</strong> sguattero <strong>lo</strong> fa per eccellenza. Ecci poi di quegli, che sono stati<br />
ricchi ricchi, et sono hora poveri poveri, ma virtuosi. […] <strong>Io</strong> son povero et diserto<br />
furfantissimo in chermisi. Ma comincio a d’armi [sic] alle lettere della scrittura, forse<br />
che non ci tornerò venticinque volte, che anderò in Paradiso 19 .<br />
19 A. F. DONI, [Lettera] Al Dotto et da Bene Messer Francesco Coccio, in ID., Tre Libri di Lettere, cit., pp. 205-209.
In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni<br />
La «maschera del Doni», usiamo l’ormai classica formula escogitata da Momigliano 20 , ha<br />
sempre impresso il ghigno eversore della beffa. Non importa all’autore se a citazioni reali<br />
s’accompagnino autorità fittizie, se il vero si mescoli all’invenzione o se il lettore si trovi irretito<br />
in una trappola dalla quale è difficile sfuggire: ciò che conta – una volta di più – è assestare un<br />
colpo al sapere vacuo dei pedanti. Abbassare il dettato fi<strong>lo</strong>sofico al piano della facezia significa<br />
perciò non so<strong>lo</strong> screditare la cultura ufficiale, ma di più rifondare il meccanismo della regola in<br />
una nuova operatività. Così nel <strong>Di</strong>segno, e in realtà in tutti i <strong>lo</strong>ci delle sue opere nelle quali <strong>lo</strong><br />
scrittore fa uso del paragone tra arti che s’avvalgono di ‘segni differenti’, l’ut pictura poësis è<br />
liquidato in favore di un altro model<strong>lo</strong> comparativo. Ancora nelle Lettere, un passo illumina sul<br />
rapporto che esiste tra scritto e immagine:<br />
Costoro che si presero la licenza di far comparazioni, hanno scritto che il<br />
Poeta è molto simile al Pittore, per tenere alquanto l’uno et l’altro di una certa libertà<br />
di fare a suo modo. Hora io vorrei essere di tanta auttorità che io facesse un<br />
altro paragone fra il mercatante di gioie, et il compositor di libri, perché tosto che<br />
uno gioiellieri navica per diverse parti del mondo, et gli viene alle mani qualche gioia<br />
rara, o altra cosa che vi si possa far sopra disegno, che sia utile per lui, egli è tosto risoluto<br />
che ’l compratore, che n’avrà desiderio, l’habbi a pagar <strong>bene</strong>, et oltre al<strong>lo</strong> sborsar<br />
de danari, tenga un grand’obligo alla diligenza che gl’ha usata nel ricercarla 21 .<br />
Qui il paralle<strong>lo</strong> dà conto non so<strong>lo</strong> dell’interesse che Doni stabilmente coltivò per le arti<br />
‘minori’, interesse che è peraltro testimoniato da diversi passi del <strong>Di</strong>segno in cui la personificazione<br />
della scultura e<strong>lo</strong>gia le opere di glittica, l’intaglio in avorio, gli esempi di oreficeria 22 , ma anche<br />
dell’ana<strong>lo</strong>go operare di scrittori e artigiani che l’autore pone alla base del suo metodo.<br />
La scrittura per Doni è – <strong>lo</strong> notavamo a proposito dell’ana<strong>lo</strong>ga sua concezione della scultura<br />
– una scoperta di «cose rare e mirabili» che l’autore, al pari di un gioielliere, ricerca per ogni dove<br />
e con grande dispendio («Oh, età traditora – lamenta egli nella medesima lettera – da che<br />
bisogna che chi compone si stili il cervel<strong>lo</strong> per comprarsi il pane»), che ta<strong>lo</strong>ra non gli è nemmeno<br />
riconosciuto.<br />
Viene così a cadere l’immagine di uno scrittore sciatto, poco curante del<strong>lo</strong> stile,<br />
finanche grossolano. In Doni <strong>lo</strong> sperimentalismo linguistico, il rendere sulla carta l’idea di una<br />
materia viva e ancora in ebollizione, è il tentativo di abolire i confini tra le arti; e, ancor di più,<br />
20 Doni qui allude all’operetta dia<strong>lo</strong>gica di Luciano intitolata Il sogno, ovvero il gal<strong>lo</strong>, in cui il protagonista Micil<strong>lo</strong> discute<br />
con Pitagora il quale, secondo quanto crede <strong>lo</strong> stesso Micil<strong>lo</strong>, si è reincarnato in un pol<strong>lo</strong>.<br />
21 A. MOMIGLIANO, La maschera del Doni, sul «Corriere della sera» del 3 settembre 1932 (poi in ID., <strong>Studi</strong> di poesia, Bari,<br />
Laterza, 1938 [1948 2 ], pp. 61-67). 21 A. F. DONI, Lettera Al molto honorato et nobile Messer Rocco Granza, et maggiore suo, et<br />
compare osservandissimo, in ID., Tre Libri di Lettere, cit., p. 195.<br />
22 Cfr. soprattutto ID., <strong>Di</strong>segno, cit. pp. 12v e ss., e p. 67 dell’ed. a cura di M. PEPE.<br />
27
28<br />
Francesco Pao<strong>lo</strong> Campione<br />
la tensione a dare l’idea di una scrittura sinestetica, nella quale il «cavo, il rilievo, o il basso» 23 siano<br />
il correlativo del tortuoso scorrere della parola, o addirittura del suo implicitarsi in sensi del tutto<br />
sfuggenti. È sicuramente una metafora più o meno pregnante immaginare <strong>lo</strong> scrivere come una<br />
operazione in tutto simile a quella del<strong>lo</strong> scolpire o del modellare. Tuttavia a Doni questa<br />
ana<strong>lo</strong>gia è utile proprio a indicare la difficoltà della creazione “originale”, in un momento in cui<br />
la poesia trovava già bell’e pronte le sue formule nel repertorio petrarchesco, la pittura e<br />
la scultura esautoravano la potente e tragica lezione michelangiolesca in un repertorio ormai<br />
stracco di musco<strong>lo</strong>sità e torsioni.<br />
Nel <strong>Di</strong>segno, come notavamo più sopra, l’attitudine di Doni a sperimentare una lingua<br />
nuova è momentaneamente sospesa. Lo scrittore fiorentino dovette certo assegnare notevole<br />
importanza a quest’operetta per accreditarsi autorevolmente nell’ambito delle teorie artistiche.<br />
Probabilmente per questo motivo che, per comporre quest’opera, abbandonò il suo stile<br />
espressionistico, pur non rinunciando a una certa propensione “teatrale” nella costruzione del<br />
contraddittorio tra le diverse componenti del concetto di disegno. In verità, il suo portato<br />
teorico – almeno immediatamente – non era destinato a incidere granché nell’ambito delle<br />
discussioni dottrinali sulla vicendevole superiorità di pittura o scultura. Eppure, se letto senza<br />
preconcetti, e soprattutto in concorso ad altre opere nelle quali l’autore utilizza il discorso<br />
sull’arte a supporto di una più generale teoria della composizione, il <strong>Di</strong>segno del Doni si mostra<br />
davvero come uno dei testi più rivelatori dell’intero Cinquecento.<br />
23 Ivi, p. 11v.
LA SCULTURA NELLA LETTERATURA ARTISTICA DEL SETTECENTO.<br />
DI ROBERTA CINÀ<br />
Dopo essere stata pressoché appiattita<br />
sulla pittura nel XVII seco<strong>lo</strong>, in una sostanziale<br />
identificazione che vedeva nei principi delle due<br />
arti esclusivamente la mimesis, la scultura tornò alla<br />
ribalta nella letteratura artistica del Settecento 1 .<br />
Le ragioni di questo rinnovato interesse possono<br />
ricondursi, fondamentalmente, a due importanti<br />
aspetti, quali il rinnovato interesse per le antichità 2 ,<br />
che si manifestò con una notevole ammirazione per le<br />
statue antiche, nonché gli studi sulle modalità della<br />
conoscenza riconducibili a questo fi<strong>lo</strong>ne interpretativo<br />
cui anche l’estetica del periodo faceva riferimento che,<br />
alla luce di nuove esperienze scientifiche, videro nel<br />
tatto un canale preferenziale rispetto alla vista e<br />
C. Perrault, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde les<br />
Arts et les Sciences, Paris 1688-1697, in http://books.google.it,<br />
2010-04-16.<br />
ritennero conseguentemente le opere scultoree meglio conoscibili rispetto a quelle pittoriche.<br />
Spesso questi elementi si intrecciano e, accanto ad essi, ne affiorano altri relativi ad argomenti molto<br />
anteriori, come la Querelle des Anciens et des Modernes o il cinquecentesco Paragone tra pittura e scultura 3 .<br />
1 Cfr. Letteratura artistica del Settecento. Anto<strong>lo</strong>gia di testi, a cura di G.C. Sciolla con la collaborazione di A. Griseri, T. Marghetich,<br />
Giappichelli, Torino 1984, pp. 61-96; P. D’ANGELO, Dal Settecento ad oggi, in Estetica della Scultura, a cura di L. Russo, Aesthetica, <strong>Palermo</strong><br />
2003, pp. 91-125; A. PINELLI, Il Neoclassicismo nell’arte del Settecento, Carocci, Roma 2005.<br />
2 Cfr. R. ASSUNTO, Antichità come futuro, Mursia, Milano 1973; F. ANTAL, Classicismo e romanticismo, Einaudi, Torino 1975;<br />
H. HONOUR, Neoclassicismo, Einaudi, Torino 1980; A. OTTANI CAVINA, Il Settecento e l’antico, in Storia dell’arte Italiana, vol.VI, parte II, Einaudi,<br />
Torino 1982, pp. 599-660; F. BERNABEI, La fortuna del Neoclassico, in “Neoclassico. Semestrale di arti e storia”, I, 1992, pp. 11-37.<br />
3 Cfr. S. LA BARBERA, Il Paragone delle Arti nella teoria artistica del Cinquecento, Cafaro Editore, <strong>Palermo</strong> 1997; P. BAROCCHI,<br />
Scritti d’arte del Cinquecento, Ricciardi, Milano - Napoli 1971, tomo I, pp. 524 e sgg.; B. VARCHI, V. BORGHINI, Pittura e scultura nel Cinquecento,<br />
a cura di p. Barocchi, Sillabe, Livorno 1998; F.P. CAMPIONE, In margine al <strong>Di</strong>segno e alla teoria dell’arte di Anton Francesco Doni, infra.
32<br />
Roberta Cinà<br />
Erastataappuntol’ecodelParagoneainformare,<br />
nel Seicento, la scarsa fortuna della scultura, che,<br />
quando non equiparata alla pittura nel fine comune,<br />
l’imitazione della natura 4 , non fu comunque oggetto<br />
di trattazioni specifiche, salvo quella di Orfeo Boselli 5 ;<br />
va peraltro ricordato che il pittoricismo del<strong>lo</strong> stile<br />
barocco e la contemporanea poetica della meraviglia<br />
non potevano che trovare affinità con gli effetti<br />
illusivi creati dalla pittura 6 .<br />
Tale ruo<strong>lo</strong> subalterno della scultura fu<br />
sottolineato nel 1759 dal Conte di Caylus 7 , che<br />
addebitò il silenzio che aveva precedentemente<br />
circondato questa espressione artistica ad alcuni<br />
J.C. Bulengerus, De pictura, plastice, statuaria Libri duo,<br />
Lugduni 1627, in http://books.google.it, 2010-04-15.<br />
Boulanger definì la pittura e la plastica arti liberali.<br />
elementi particolari alla sua specificità e, nelle Réfléxions sur la sculpture 8 , non mancò di sottolineare<br />
quanto fosse più difficile giudicare un’opera scultorea piuttosto che un dipinto:<br />
Plusieurs Amateurs 9 des Arts m’ont paru surpris de ce qu’on n’a presque point écrit<br />
sur la Sculpture, tandis que le plus petit Poëte et le plus médiocre Auteur se croit en état de<br />
décider souverainement du mérite des Peintres, et de parler de toutes les parties de la Peinture:<br />
les raison d’un silence si profond, et d’un tel excès de réfléxions pretendues, se trouvent dans<br />
l’essence des deux Arts [...]. La Peinture frappe plus les sens, et le secours de la couleur lui donne<br />
le moyen d’être plus approchée de la Nature; non-seulement ses richesses et son éclat la répandent<br />
davantage dans le monde et la font accueillir, mais les moyens généraux de son exécution sont<br />
si familiers et si connus, que tous les hommes la regardent comme une propriété [...]. La Sculpture<br />
plus renfermée dans ses atteliers, moins en vuë, plus difficile à mouvoir, plus lente dans ses opérations,<br />
et moins étendue dans ses compositions, non seulement racourcit et resserre, mais obscurcit la<br />
4 Cfr. ad esempio J.C. BULENGERUS, De pictura, plastice, statuaria Libri duo, Lugduni 1627, che asseriva che, tra le arti liberali,<br />
«non ultimum <strong>lo</strong>cum Plastice, et Pictura obtinuit».<br />
5 O. BOSELLI, Osservazioni della scoltura antica (dai manoscritti Corsini e Doria) e altri scritti, a cura di P. Dent Weil, SPES, Firenze<br />
1978. Cfr. E. DI STEFANO, Orfeo Boselli e la “nobiltà”della scultura, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2002; EAD., Dal Medioevo al Seicento, in Estetica della Scultura…, pp.<br />
47-91.<br />
6 Significativa la presa di posizione di Roger De Piles, che consigliava ai pittori di guardarsi da un eccesso di imitazione persino della<br />
scultura antica, in quanto, ricorrendo al suo studio, avrebbe imitato un’arte diversa dalla sua. Cfr. S. LA BARBERA, Il Paragone..., p. 113.<br />
7Cfr. LeComtedeCaylus.LesArtsetlesLettres,ÉtudesréuniesetprésentéesparN.Cronk,K.Peeter,Rodopi,Amsterdam–NewYork2004.<br />
8A.C.P.deTubierscontediCAYLUS(daquestomomento:Caylus), Réfléxionssurlasculpture,in“MercuredeFrance”,aprile1759,pp.174-193.<br />
9ÈrilevabileunacertaasprezzadiCaylusneiconfrontidegliamatori.Questofuunargomentomoltosentitodadiversiautorideltempo, tracuiFalconete<strong>Di</strong>derot,icuirapporticonl’autoredel Recueil,comeènoto,nonfuronoidilliaci.Proprio<strong>Di</strong>derotdefinìCaylusunodeipiùcrudeli<br />
«amateurs». Cfr. D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>nde1765, in ID., Œuvrescomplètes, par J. Assézat, 20 voll., Garnier, Paris 1875-1877, vol. X, 1875, p. 237. L’amatore, pur<br />
senza averne spesso le competenze, era in grado di influenzare, col suo giudizio, il pubblico e quindi di determinare la fortuna o la disgrazia di un<br />
artista.Scriveva<strong>Di</strong>derot:«Ah![...]lamauditeracequecelledesamateurs![...]Cesontcesgens-làquidecidentàtortetàtraversdesrèputations,[...]<br />
qui s’interposent entre l’homme opulent et l’artiste indigent, qui font payer au talent la protections qu’ils lui accordent, qui lui ouvrent ou ferment<br />
lesportes;[...]quidècrientetminentlepeintreetlestatuaire[...]ceseulinconvénientsuffiraitpourhâterladécadencedel’art,surtout<strong>lo</strong>rsquel’on<br />
considèrequel’acharmentdecesamateurscontrelesgrandsartistesvaquelquefoisjusq’àprocurerauxartistesmédiocresleprofitetl’honneurdes<br />
ouvrages publics». ID., Sa<strong>lo</strong>n de 1767, ivi, vol. XI, pp. 7 e 8. Il rapporto tra amatori e potere ed il legame col fenomeno del collezionismo è ben<br />
rilevato da F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia del bel<strong>lo</strong>. Leopoldo Cicognara e il classicismo fra Settecento e Ottocento, Franco Angeli, Milano 1990, p. 58;<br />
cfr. inoltre, sul tema amateur/connaisseur,K.POMIAN, Collezionisti,amatoriecuriosi.Parigi–VeneziaXVI-XVIIIseco<strong>lo</strong>,IlSaggiatore,Milano1989,pp.<br />
174. e segg.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
carrière toujours ouverte, par rapport à la Peinture, aux esprits légers, aux petites tetes, enfin à<br />
nos Juges à la mode: La facilité de parler, et le silence sont donc dépendans de la nature de<br />
chaucun de ces Arts 10 .<br />
La pittura, dunque, risultava più facilmente apprezzabile<br />
anche grazie al co<strong>lo</strong>re: si trattava di un argomento che, sia nell’ambito<br />
del Paragone che in tutte le altre opere ad essa dedicate,<br />
l’aveva posta su un piano di preminenza. Nel caso di Caylus,<br />
però, tale prerogativa non veniva considerata un pregio ad essa<br />
peculiare e, conseguentemente, il fatto che la scultura non<br />
fosse caratterizzata dal co<strong>lo</strong>re era ritenuto, semplicemente,<br />
una sua caratteristica e non un difetto 11 .<br />
Cominciava a delinearsi il riconoscimento di un<br />
linguaggio espressivo proprio a ciascuna espressione artistica.<br />
Winckelmann, nel 1764, avrebbe affermato: «Il co<strong>lo</strong>re<br />
contribuisce alla bellezza ma non è la bellezza, bensì esso mette<br />
soprattutto in risalto questa e le sue forme. Ma poiché il co<strong>lo</strong>re<br />
bianco è quel<strong>lo</strong> che respinge la maggior parte dei raggi luminosi<br />
e che quindi si rende più percepibile, un bel corpo sarà al<strong>lo</strong>ra<br />
tanto più bel<strong>lo</strong> quanto più è bianco» 12 .<br />
Caylus non fu, quindi, l’unico a ritenere che la scultura<br />
non venisse penalizzata dalla mancanza del co<strong>lo</strong>re; Hemsterhuis,<br />
nella sua Lettera sulla scultura del 1769, definiva il co<strong>lo</strong>re una<br />
«qualità accessoria» 13 dei corpi. Ana<strong>lo</strong>ga la posizione di <strong>Di</strong>derot,<br />
peraltro un appassionato del co<strong>lo</strong>re 14 :<br />
Frans Hemsterhuis, in ŒuvresPhi<strong>lo</strong>sophiques<br />
deFrançoisHemsterhuis, Leuwarde 1846-1850,<br />
vol. III, 1850, in www.books.google.it,<br />
2010-04-16.<br />
10 CAYLUS, Réflexions..., pp. 174-175.<br />
11 Ricordo che Leonardo da Vinci, tra i più accaniti sostenitori del partito della pittura, pur di esaltare il co<strong>lo</strong>re e sminuire<br />
così la scultura, che ne era priva, aveva annoverato tra le arti luministiche le ceramiche invetriate dei Della Robbia.<br />
Cfr. LEONARDO DA VINCI, Il paragone delle arti, a cura di C. Scarpati, Vita e Pensiero, Milano 1993.<br />
12 J.J. WINCKELMANN, Storia dell’arte nell’antichità, (1764), Mondadori, Milano 1993, p. 117. Ancora prima di Winckelmann,<br />
Richardson aveva rimarcato la piacevolezza del co<strong>lo</strong>re bianco a proposito del Laocoonte: «Il est [...] fait d’un très-beau Marbre<br />
blanc, de sorte qu’il fait plaisir à voir». J. RICHARDSON, Description de <strong>Di</strong>vers fameux Tableaux, desseins, Statues, Bustes, Bas-reliefs et c. qui<br />
se trouvent en Italie, in ID., Traité de la Peinture et de la Sculpture par Mrs. Jonathan Richardson Père et Fils, Amsterdam 1728, tomo III, p. 509.<br />
Per l’opera di Richardson cfr. ID., An Essay on the Theory of Painting, London 1715; ID., An Essay on the Whole Art of Criticism as it Relates<br />
to Painting and an Argument in Behalf of the Science of the Connoisseur, London 1719; ID., An Account of Some of the Statues, Bas-reliefs, Drawnings and<br />
Pictures in Italy, London 1722. Cfr. C. GIBSON WOOD, Jonathan Richardson: art theorist of the English Enlightenment, London 2000;<br />
R. CINÀ, Presentazione, in J. Richardson, <strong>Di</strong>scorso sulla Scienza di un Conoscitore, traduzione e commento critico di R. Cinà, Università<br />
degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong>, <strong>Palermo</strong> 2003, pp. 5-35; EAD., Presentazione, in J. Richardson, Saggio sull’Arte della Critica in materia di Pittura,<br />
traduzione e commento critico a cura di R. Cinà, Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong>, <strong>Palermo</strong> 2004, pp. 7-44.<br />
13 F. HEMSTERHUIS, Lettera sulla scultura, a cura di E. Matassi, postfazione di M. Cometa, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1994, p. 30.<br />
14 D. DIDEROT, Saggi sulla pittura, (1765), ed. cons. a cura di M. Modica, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1991, p. 59: «È il disegno ciò<br />
che dà forma ai corpi; è il co<strong>lo</strong>re ciò che gli dà la vita – il soffio divino che li anima».<br />
33
34<br />
Roberta Cinà<br />
Il me semble [...] qu’il est plus difficile de bien juger de la sculpture que de la peinture<br />
[...]. Il n’y a presque qu’un homme de l’art qui puisse discerner, en sculpture, une très-belle chose<br />
d’une chose commune [...]. Une grande figure, seule et toute blanche; cela est si simple. Il y a là<br />
si peu de ces données qui pourraient faciliter la comparaison de l’ouvrage de l’art avec celui de<br />
la nature. La peinture me rappelle, par cent côtés, ce que je vois, ce que j’ai vu. Il n’en est pas ainsi<br />
de la sculpture. J’oserai acheter un tableau sur mon goût, sur mon jugement. S’il s’agit d’une<br />
statue, je prendrai l’avis de l’artiste 15 .<br />
Si riapriva, in qualche modo, il dibattito che nel Cinquecento aveva coinvolto artisti e letterati<br />
a proposito del paragone tra scultura e pittura. Le parole di <strong>Di</strong>derot ma anche le Réflexions di<br />
Caylus, la Lettera di Hemsterhuis non furono infatti un caso isolato; dopo essere stata così<br />
scarsamente trattata nel Seicento, la scultura venne decisamente rivalutata e fu argomento di<br />
numerose opere nel corso del XVIII seco<strong>lo</strong> ed oltre, seguendo <strong>lo</strong> svolgersi dei gusti e delle<br />
diverse correnti culturali 16 , fino ad essere pienamente equiparata alla pittura in dignità e<br />
autonomia di espressione.<br />
Lo si nota nel discorso preliminare di D’Alembert all’Encyc<strong>lo</strong>pédie: «Al sommo delle arti di<br />
imitazione vanno col<strong>lo</strong>cate la pittura e la scultura, ove l’imitazione è più aderente agli oggetti che<br />
rappresenta e parla più direttamente ai sensi» 17 . Sia Batteux che Lessing, implicitamente,<br />
dichiararono equivalenti le due arti: l’uno nell’accomunarle, tra «le belle arti per eccellenza»,<br />
a musica, poesia e danza 18 ; l’altro precisando: «con il termine pittura intendo le arti figurative in<br />
generale» 19 , e di fatto trattando, al fine di risolvere il tema dell’ut pictura poesis, di un gruppo<br />
scultoreo. Va d’altra parte ricordato che al Laocoonte aveva fatto riferimento già Bel<strong>lo</strong>ri per fare<br />
asserire ad Annibale Carracci: «Li poeti dipingono con le parole, li pittori parlano con l’opere» 20 ,<br />
esempio che Richardson avrebbe ripreso per dimostrare la maggiore efficacia rappresentativa<br />
delle arti figurative 21 rispetto a quelle “della parola”.<br />
15 ID., Sa<strong>lo</strong>n de 1765…, p. 418.<br />
16 <strong>Di</strong>venendo anche oggetto specifico di testi sul restauro o sulle tecniche artistiche, cfr. ad esempio Istruzione elementare<br />
per gli studiosi della scultura di Francesco Carradori, (1802), edizione critica a cura di G. C. Sciolla, Canova, Treviso 1979.<br />
17 D. DIDEROT, J. D’ALEMBERT, La fi<strong>lo</strong>sofia dell’Encyc<strong>lo</strong>pédie, a cura di P. Casini, Laterza, Bari 1966, p. 74. L’imitazione della<br />
natura operata dall’architettura risultava meno evidente, la poesia si rivolgeva più all’immaginazione che ai sensi, la musica ad<br />
un numero minore di immagini. La classificazione delle arti, dunque, avveniva secondo il grado di imitazione della natura e,<br />
soprattutto, secondo le modalità di fruizione, risultavando così privilegiate le forme artistiche di cui si poteva godere attraverso<br />
i sensi.<br />
18 Identificando nell’imitazione della natura il principio unificatore per le arti. C. BATTEUX, Le Belle Arti ricondotte ad unico<br />
principio, (1746), ed. cons. a cura di E. Migliorini, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1990, p. 36.<br />
19 Tentando di evidenziare linguaggi specifici e differenziati per ogni forma artistica. G.E. LESSING, Laocoonte, (1766),<br />
ed. cons. a cura di M. Cometa, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1990, p. 25. Cfr. inoltre S. SETTIS, Laocoonte. Fama e stile, Donzelli, Roma 2006.<br />
20 G.P. BELLORI, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, Roma 1672, p. 31.<br />
21 J. RICHARDSON, <strong>Di</strong>scorso sulla Scienza…, pp. 46 e segg.
Il rapporto con l’Antico.<br />
Come è noto, nella letteratura<br />
artistica del Settecento uno dei temi<br />
maggiormente presenti fu appunto<br />
quel<strong>lo</strong> del Laocoonte, le cui celeberrime<br />
definizioni winckelmanniane di «nobile<br />
semplicità» e «quieta grandiosità»<br />
avrebbero costituito una sorta di manifesto<br />
del Neoclassicismo. Il fervore antiquario,<br />
come sopra ricordato, fu uno<br />
degli elementi che contribuirono alla<br />
rivalutazione della scultura; del resto<br />
erano statue la maggior parte dei reperti<br />
dissotterrati e commercializzati, fenomeno<br />
questo che condusse tra l’altro<br />
a una strepitosa proliferazione di falsi,<br />
come ben descritto da Hogarth, che attribuì<br />
tale interesse, ta<strong>lo</strong>ra cieco, alla<br />
mancata comprensione dei motivi dell’eccellenza<br />
dei Greci, da lui individuata<br />
nell’uso sapiente della linea serpentinata:<br />
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Laocoonte, Roma, Musei Vaticani, in http://josamotril.wordpress.com/<br />
2009/06/01/el-laocoonte/, 2010-04-20.<br />
…questa causa d’eleganza 22 non essendo stata dopo sufficientemente intesa, non è<br />
maraviglia che tali effetti dovessero comparir misteriosi, e che avessero tirato gli uomini in una<br />
specie di religiosa stima, ed anche fanatismo per l’opere degli antichi. Né son mancate persone<br />
artificiose che han fatto buon profitto di quelli, i quali un’illuminata ammirazione ha<br />
trasportati all’entusiasmo. Anzi ve ne sono cred’io alcuni che tutt’ora tirano innanzi un<br />
vantaggioso commercio di quelli originali, che sono stati tanto sfigurati e mutilati dal tempo, che<br />
sarebbe impossibile, senza un paio d’occhiali doppj da’ conoscitori di vedere se siano stati buoni,<br />
o cattivi: essi ancor trafficano con delle copie artifiziate in maniera da imitar l’antico che son<br />
capacissimi di far passare per originali. E chi ardisse di scoprire tali imposture, si troverebbe<br />
immediatamente tacciato, e fatto passare come uno di basse idee, ignorante del vero sublime,<br />
presuntuoso, invidioso 23 .<br />
22 Cioè la «perfetta cognizione che gli antichi dovevano avere dell’uso della precisa linea serpeggiante». W. HOGARTH,<br />
L’analisi della bellezza, (1753), a cura di C. M. Laudando, presentazione di L. <strong>Di</strong> Michele, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1999. Si veda anche<br />
l’edizione a cura di M.N. Varga, SE, Milano 1997. Cfr. inoltre F. MENNA, L’analisi della Bellezza di William Hogarth, in “Storia dell’arte”,<br />
5, 1970, pp. 66 e segg.<br />
23 Ibid.<br />
35
36<br />
Roberta Cinà<br />
Uno degli elementi che, oltre a favorire «il nuovo risorgimento delle arti», condussero al<br />
rinnovato entusiasmo per le antichità, sarebbe stato individuato da Cicognara nella scoperta di<br />
Ercolano, la quale<br />
portò un entusiasmo di felici innovazioni e curiosità, una brama d’imitazioni, uno<br />
studiare di moltissimi dotti, un proteggere e un animare di chiarissimi mecenati, che veramente<br />
parve svegliare il buon gusto sopito dell’arte a nuova esistenza. Erano in Roma, in Firenze, in<br />
Venezia, e in molti altri luoghi antichità preziosissime, ma non producevano più sensazione<br />
negli artisti, e solleticavano appena l’ambizione dei possessori, che già incominciava anche a<br />
languire. Le produzioni della nuova dissotterrata città misero una convulsione generale, e<br />
richiamarono a sentire il pregio delle altre opere di merito superiore che giacevan sepolte ne’<br />
musei, e delle quali tenevasi poco conto 24 .<br />
L’entusiastico interesse per le antichità comportò, in virtù del razionale metodo illuministico,<br />
la pubblicazione di numerose opere di documentazione sulle scoperte nuove nonché sui reperti<br />
antichi già noti che, poco considerati fino a quel momento, vennero improvvisamente rivalutati.<br />
Videro la luce anche altre opere, altrettanto numerose, costituite da raccolte di incisioni raffiguranti<br />
antichità di vario genere, non soltanto greche e romane, ma anche etrusche, egiziane e così via 25 .<br />
In realtà, non sempre era <strong>lo</strong> stile classico dei resti archeo<strong>lo</strong>gici ad affascinare il pubblico – tanto<br />
più che, spesso, le incisioni in questione riproducevano i pezzi in maniera assolutamente non<br />
fedele 26 – ma la <strong>lo</strong>ro stessa antichità, che rimandava ad una sorta di età dell’oro 27 . Le incisioni di<br />
pezzi antichi, pur non essendo scientificamente affidabili, svolsero comunque un ruo<strong>lo</strong><br />
importantissimo: «Sia che servissero ad illustrare volumi, sia che venissero vendute a parte,<br />
contribuirono grandemente alla celebrità di un ridotto numero di statue, ed a fissare una scala<br />
di va<strong>lo</strong>ri artistici» 28 , in base ai quali le sculture dell’antichità sarebbero state considerate modelli<br />
esteticamente indiscutibili, superiori a quelle prodotte in epoche più recenti e dunque, nell’ambito<br />
24 L. CICOGNARA, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al seco<strong>lo</strong> di Canova, (1813-1818), ed. cons. Giacchetti, Prato<br />
1824, vol. VII, p. 30. Si veda anche ID., Storia della scultura dal suo Risorgimento in Italia fino al seco<strong>lo</strong> di Canova per servire di continuazione<br />
alle opere di Winckelmann e di D’Agincourt del Conte Leopoldo Cicognara, [Prato, 1823-1824], ed. a cura di F. Leone, B. Steindl, G. Venturi,<br />
Istituto di Ricerca per gli <strong>Studi</strong> su Canova e il Neoclassicismo, Bassano del Grappa 2007.<br />
25 Si possono ricordare, a questo proposito, l’Antiquité expliquée et representée en figure (1719) di Bernard de Montfaucon<br />
e Recueil d’antiquiteés égypitiens, étrusques, romaines et gau<strong>lo</strong>ises (1752-1767) di Caylus, opere di rapidissima diffusione e di vasto successo.<br />
26 Proprio riguardo il Recueil del Caylus, Praz nota come determinati pezzi venissero stravolti nei disegni delle raccolte,<br />
spesso, peraltro, eseguiti a memoria. Cfr. M. PRAZ, Le antichità di Ercolano, in ID., Gusto neoclassico, Rizzoli, Milano 1990, p.76.<br />
27 <strong>Di</strong> cui, naturalmente, si sarebbe riconosciuta la definitiva scomparsa e l’impossibilità di un ritorno. Cfr. R. ASSUNTO,<br />
Antichità come futuro…. L’arte classica, per Winckelmann, rappresentò un ideale perduto, come si nota da alcuni suoi passi:<br />
«In questa storia dell’arte io sono già andato oltre i suoi limiti, e seb<strong>bene</strong> nell’osservare la sua decadenza abbia provato un<br />
sentimento simile a quel<strong>lo</strong> di chi, scrivendo la storia della sua patria è costretto a parlare anche della sua distruzione a cui egli<br />
stesso ha assistito, non ho potuto fare a meno di seguire la sorte delle opere d’arte sin quando mi è stato possibile. Come la donna<br />
amata che dalla riva del mare segue con gli occhi colmi di pianto l’amato che si al<strong>lo</strong>ntana, senza speranza di riveder<strong>lo</strong>, e crede di<br />
scorgere la sua immagine ancora sulla vela <strong>lo</strong>ntana, anche a me, come alla donna amata, resta so<strong>lo</strong> l’ombra dell’oggetto dei miei<br />
desideri; ma tanto più forte è la nostalgia che essa risveglia dell’oggetto perduto, per cui io osservo le copie degli originali con<br />
maggiore attenzione di quanto farei se fossi in pieno possesso di quelli». J.J. WINCKELMANN, Storia dell’arte nell’antichità, (1764),<br />
ed. cons. Mondadori, Milano 1993, p. 303.<br />
28 P. SÉNÉCHAL, Originale e copia. Lo studio comparato delle statue antiche nel pensiero degli antiquari fino al 1770, in<br />
Memoria dell’antico nell’arte italiana, vol. III, Dalla tradizione all’archeo<strong>lo</strong>gia, a cura di S. Settis, Einaudi, Torino 1986, pp. 151-180.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
della nascita delle prime grandi raccolte moderne, particolarmente ambite 29 .<br />
Notevole anche la valenza espositiva delle sculture, come emerge dalle parole dell’abate<br />
Barthélemy scritte al conte de Caylus, nel 1756:<br />
La prima volta che mi sono recato al Museo Capitolino ho avvertito un brivido<br />
elettrico. Non so come descrivervi l’impressione che ha fatto su di me tanta ricchezza raccolta<br />
insieme. Questa non è più una semplice collezione: è la dimora degli dèi di Roma antica; la<br />
scuola dei fi<strong>lo</strong>sofi; un senato composto dai re d’Oriente. Che cosa posso dirvi? Tutta una<br />
popolazione di statue abita il Campidoglio; è il libro mastro degli antiquari 30 .<br />
Erano stati naturalmente rinvenuti, pur se in quantità minore, anche dipinti antichi 31 ; essi<br />
però non incontrarono particolare favore da parte del pubblico 32 . Lo dimostra, tra l’altro, il fatto<br />
che alcuni autori del Settecento, pur scrivendo testi sulla pittura, a proposito del va<strong>lo</strong>re esemplare<br />
attribuito alle opere dell’antichità si riferirono comunque alle statue e non ai dipinti; è il caso di<br />
Mengs 33 , che citò soltanto opere pittoriche moderne; è, ancora, il caso di <strong>Di</strong>derot, la cui<br />
Nozze Aldobrandini, Roma, Musei Vaticani, in http://up<strong>lo</strong>ad.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/Aldobrandini_wedding.JPG,<br />
2010-04-08. Scrivono Haskell e Penny: «Fino ad al<strong>lo</strong>ra erano note pochissime pitture antiche (in quanto distinte<br />
dalla decorazione dipinta delle pareti), con la ragguardevole eccezione delle «Nozze Aldobrandini», scoperte nel 1606.<br />
Il dipinto aveva suscitato grande curiosità, ma l’ammirazione non era stata universale [...] e in realtà le pitture di<br />
Ercolano delusero numerosi conoscitori e provocarono da parte di altri [Mengs, Winckelmann, Richardson] elaborate<br />
difese. La scultura [...] venne ammirata in misura di gran lunga più fervida e più ampia».<br />
29 F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia del bel<strong>lo</strong>..., p. 59.<br />
30 In F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura classica 1500-1900, Einaudi, Torino 1984,<br />
p. 82. Cfr. inoltre Roma triumphans? L’attualità dell’antico nella Francia del Settecento, atti del convegno internazionale di studi (Roma<br />
9-11 marzo 2006), a cura di L. Norci Cagiano, “Quaderni di cultura francese”, 41, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007.<br />
31 Sui ritrovamenti di pitture e sculture antiche, <strong>Di</strong>derot notava: «...les Anciens nous ont laissé quelques belles statues,<br />
et [...] leurs tableaux ne nous sont connus que par les descriptions et le téimognage des litterateurs». D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765,<br />
in Oeuvres..., vol. X, p. 418. Alla migliore conoscenza delle sculture antiche rispetto alle pitture, <strong>Di</strong>derot attribuiva il fatto che gli<br />
scultori suoi contemporanei si attenessero all’antico più dei pittori. Cfr. inoltre C. GRELL, C. MICHEL, Erudits, hommes de lettres et artistes<br />
en France au XVIII e siècle face au découvertes d’Herculanum, in Ercolano 1738-1988: 250 anni di ricerca archeo<strong>lo</strong>gica, atti del convegno<br />
internazionale (Ravel<strong>lo</strong>-Ercolano-Napoli-Pompei, 30 ottobre-5 novembre 1988), a cura di L. Franchi Dell’Orto, L’Erma di<br />
Bretschneider, Roma 1993, pp. 133-144.<br />
32 Cfr. F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia..., p. 96.<br />
33 A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura, (1762), ed. cons. a cura di M. Cometa, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1996, p. 65.<br />
Cfr. R. CIOFFI MARTINELLI, La ragione dell’arte….<br />
37
38<br />
Roberta Cinà<br />
predilezione per la pittura è rilevabile da diverse<br />
opere, come i Saggi sulla pittura 34 , in cui tuttavia<br />
l’autore allude alle statue antiche, quali l’Antinoo<br />
e la Venere de’ Medici 35 . Sempre l’Antinoo<br />
mostrava, per Hogarth, «la somma bellezza della<br />
proporzione» 36 .<br />
Winckelmann, autore del manifesto del<br />
Neoclassicismo 37 , pur apprezzando entusiasticamente<br />
tutte le arti figurative della Grecia classica 38<br />
ebbe comunque una netta predilezione per la<br />
scultura. Esaltandone la componente tridimensionale,<br />
che la rendeva più immediatamente adatta alla<br />
fictio – tema che sarebbe stato presente anche<br />
in Luigi Lanzi –, contro la maggiore astrazione<br />
richiesta dal disegno, nelle prime pagine<br />
della sua Storia dell’arte dell’antichità notava:<br />
«L’arte cominciò con le forme più elementari<br />
e probabilmente con una specie di scultura:<br />
giacché anche un bambino è capace di conferire<br />
una certa forma ad una massa morbida, ma<br />
non è in grado di disegnare su una superficie;<br />
Antinoo, Roma, Musei Vaticani, foto Brogi, 1870 ca., in http://<br />
commons.wikimedia.org/wiki/File:Brogi,_Giacomo_%281822-<br />
1 8 8 1 % 2 9 _ - _ n . _ 4 0 6 8 _ - _ R o m a _ - _ V a t i c a n o _ -<br />
_Antinoo,_statua_in_marmo.jpg<br />
per la prima cosa, infatti, è sufficiente la semplice idea di un oggetto, mentre per disegnare è<br />
necessaria la conoscenza di molte altre cose» 39 . Ponendo la scultura in un ruo<strong>lo</strong> preminente<br />
rispetto alla pittura, Winckelmann ne riprendeva l’idea della maggiore antichità, argomento già<br />
addotto dai suoi sostenitori nell’ambito del Paragone cinquecentesco 40 e che sarebbe stato<br />
34 D. DIDEROT, Saggi sulla pittura, (1765), ed. cons. a cura di M. Modica, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1991.<br />
35 Cfr. Ibid., p. 54.<br />
36 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 85.<br />
37 J.J. WINCKELMANN, Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, (Dresda 1755), ed. cons. a cura di<br />
M. Cometa, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1992. Cfr. inoltre J.J. WINCKELMANN, Ville e Palazzi di Roma, 1756, a cura di J. Raspi Serra,<br />
“Quaderni di Eutopia”, 2, Edizioni Quasar, 2000; J. RASPI SERRA, Il primo incontro di Winckelmann con le collezioni romane. Ville e Palazzi<br />
di Roma, 1756, ivi, 6.1, 2002; ivi, 6.2, 2002; ivi, 6.3, 2004; ivi, 6.4, 2005.<br />
38 Winckelmann si interessò anche all’architettura; come nota Beschi «a seguito della sua visita pestana, nel 1758,<br />
elaborerà quelle Osservazioni sull’Architettura degli Antichi (1762) che sono la prima analisi, libera da schemi vitruviani, dell’architettura<br />
greca, vista come model<strong>lo</strong> assoluto di bellezza». L. BESCHI, La scoperta dell’arte greca, in Memoria dell’antico..., pp. 295-372: p. 351.<br />
39 J.J. WINCKELMANN, Storia dell’arte nell’antichità, (1764), Trento 1993, p. 23. Che la scultura, in quanto tridimensionale, fosse<br />
più adatta ad un’esatta imitazione della natura era stata opinione, nell’ambito del Paragone cinquecentesco, anche di Battista<br />
Tasso che proprio per questo motivo, tralasciando gli argomenti canonici a sostegno dell’una o dell’altra arte, asseriva che<br />
la scultura era più nobile rispetto alla pittura, in P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I. Sulle capacità imitative della scultura<br />
nel pensiero di Lanzi cfr. G.C. SCIOLLA, Lanzi: la scultura, <strong>lo</strong> stile e le «scuole» degli antichi, in L. LANZI, Notizie preliminari circa la scoltura<br />
degli antichi, e i varii suoi stili (1789), ed. a cura di G.C. Sciolla, T. Marghetich, Franco Angeli, Milano 1988.<br />
40 Cfr. S. LA BARBERA, Il Paragone delle Arti..., p. 115. Winckelmann proponeva il concetto in diversi passi dell’opera,<br />
cfr. J.J. WINCKELMANN, Storia dell’Arte..., p. 111: «La scultura e la pittura giunsero presso i Greci a una certa perfezione ancor<br />
prima dell’architettura. Questa infatti ha in sé più dell’ideale che non quelle, giacché non ha potuto essere la copia di qualcosa<br />
che esiste nella realtà ed è stata fondata, per necessità, su regole e leggi generali dei rapporti. Le prime due arti, essendo nate da<br />
una semplice imitazione, trovarono determinate nell’uomo tutte le regole necessarie, mentre l’architettura dovette scoprire<br />
le sue attraverso molte soluzioni e lasciare che il successo ottenuto le fissasse. La scultura, però, ha preceduto la pittura e come<br />
una sorella più matura ha guidato l’altra, che era più giovane».
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
a lungo presente, come prova il <strong>Di</strong>scours sur la Sculpture di D’Argenville 41 . Ana<strong>lo</strong>ghi concetti<br />
esponeva Hemsterhuis nella sua Lettera sulla scultura, opera che riproponeva la stessa concezione<br />
winckelmanniana di storia dell’arte:<br />
Mi pare che la nascita della scultura sia anteriore<br />
a quella della pittura, perché mi sembra più naturale<br />
che quando si è voluto imitare 42 si sia voluto imitare<br />
piuttosto in b<strong>lo</strong>cco, per così dire, che imitare un<br />
oggetto a tutto tondo su una superficie piana; cosa<br />
che richiede una capacità di astrazione ben più<br />
considerevole di quanto non si creda di primo acchito.<br />
D’altra parte è certo che l’idea astratta di contorno è<br />
stata assolutamente necessaria per far nascere il<br />
disegno e la pittura. Per acquisirla occorre una certa<br />
perfezione, un certo grado di esercizio dell’organo<br />
della vista. Ora, pare che il tatto sia stato perfezionato<br />
prima, e di conseguenza ci si è dovuti servire molto<br />
prima, per le imitazioni, delle idee che ci provengono<br />
dal tatto che di quelle che ci provengono dalla vista 43 .<br />
D. D’Argenville, Vies des fameux Sculpteurs depuis la<br />
Renaissance des Arts, Paris 1787, in http://books.google.it/books?id=Mdo5AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=inauthor:argenville&lr=&as_drrb_is=q&as_minm_is=0&as_miny_is=&as<br />
_maxm_is=0&as_maxy_is=&as_brr=3&cd=29#v=onepage&q&f=fals<br />
e, 2010-04-20.<br />
Winckelmann aveva attribuito la maggiore antichità della scultura anche al suo impiego per<br />
fini religiosi 44 e, dopo di lui, Cicognara avrebbe sottolineato il rapporto tra arte e<br />
culto nell’antichità, ritenendo che le arti, in quanto celebrative, fossero state incoraggiate dalla<br />
religione e dalla politica 45 . Questo motivo non fu l’unico che egli riprese dall’autore tedesco;<br />
anche se diverse volte, infatti, ne evidenziò alcuni errori soprattutto nell’individuazione delle<br />
epoche 46 , gli riconobbe comunque ampiamente il ruo<strong>lo</strong> fondamentale e pionieristico dell’esposizione<br />
crono<strong>lo</strong>gica della storia dell’arte e se ne dichiarò continuatore 47 .<br />
41 D. D’ARGENVILLE, <strong>Di</strong>scours sur la Sculpture, in ID., Vies des fameux Sculpteurs, depuis la Renaissance des Arts, avec la description de leurs<br />
ouvrages, Tomo II, Paris 1787, pp. I-XXXVI. Cfr. G.C. SCIOLLA, La scienza del conoscitore. Dezaillier d’Argenville e il disegno, in Memor fui dierum<br />
antiquorum. <strong>Studi</strong> in memoria di Luigi De Biasio, a cura di P.C. <strong>Io</strong>ly Zorattini e A.M. Caproni, Campanotto, Udine 1995, pp. 439-446.<br />
42 L’imitazione della natura, occorre ricordar<strong>lo</strong>, era ritenuta <strong>lo</strong> scopo principale dell’arte. La natura da imitare, però,<br />
come ricordava il Cicognara, era la natura bella, «nelle sue varietà felici». Cfr. L. CICOGNARA, Del bel<strong>lo</strong>. Ragionamenti di Leopoldo<br />
Cicognara, Molini e Landi, Firenze 1808, p. 8.<br />
43 F. HEMSTERHUIS, Lettera..., pag. 38.<br />
44 J. J. WINCKELMANN, Storia dell’arte..., p. 112: «la ragione del più tardo sviluppo della pittura è da individuarsi in<br />
parte nell’arte stessa, in parte nell’uso e nell’applicazione che ne furono fatte; la scultura, infatti, estendendo il culto degli dèi, si<br />
è a sua volta sviluppata grazie ad esso. La pittura, invece, non godette di un simile vantaggio [...] Le opere dei pittori non<br />
sembrano [...] essere state, presso i Greci, oggetto di una sacra, fiduciosa venerazione e adorazione». Inoltre, poiché la scultura<br />
nell’antica Grecia era ritenuta più sacra della pittura, «era utilizzata nelle cerimonie religiose e particolarmente premiata […],<br />
raggiunse più rapidamente la propria perfezione». Pur se mezzo seco<strong>lo</strong> più tardi, Cicognara - dichiarando, però, l’impossibilità<br />
di risalire alle origini della scultura - avrebbe scritto: «Alcun tra i segni che furono adoperati per affidare la conservazione<br />
e trasmettere alla posterità le cose memorabili furono le pietre nude di scultura, ma erette in nobili circostanze». L. CICOGNARA,<br />
Storia della scultura..., vol. I, p. 101.<br />
45 Cfr. Ibid., p. 145. Talmente stretto era secondo Cicognara il rapporto tra arte e culto, che la diminuzione del fervore religioso<br />
avrebbe ritardato, nella prima metà del Settecento, la rinascita delle arti.<br />
46 Cfr. Ibid., vol. III, p. 82. A questo proposito, anzi, Cicognara si rallegrò che Heyne avesse dimostrato gli errori commessi<br />
da Winckelmann nelle crono<strong>lo</strong>gie a causa dell’eccessiva fiducia in Plinio. Cfr. M. CRISTOFANI, Winckelmann, Heyne, Lanzi e l’arte<br />
etrusca, in “Prospettiva”, 4, gennaio 1976, pp. 16-21; S. FERRARI, Christian G. Heyne e la ricezione di Winckelmann nell’Italia del secondo Settecento,<br />
in “Neoclassico”, 19, 2001, pp. 75-101.<br />
47 Cfr. ibid., p. 21. D’altra parte, la lezione winckelmanniana avrebbe influito in maniera determinante sul pensiero<br />
estetico di Cicognara, soprattutto riguardo l’idea della superiorità dell’arte sulla natura. Cfr. F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia del bel<strong>lo</strong>..., p. 31.<br />
39
40<br />
Roberta Cinà<br />
La figura di Winckelmann, si sa, aveva<br />
del resto rivestito un’importanza fondamentale<br />
per la cultura della seconda metà del Settecento,<br />
largamente influenzata dalla celeberrima frase:<br />
«L’unica via per noi per divenire grandi, anzi, se<br />
possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi» 48 ,<br />
secondo la cui interpretazione gli artisti<br />
moderni avrebbero potuto trovare la vera<br />
bellezza nell’antichità; o meglio, studiando<br />
l’antico, sarebbero poi stati capaci di trovare il<br />
bel<strong>lo</strong> nella natura perché avrebbero saputo cosa<br />
cercarvi 49 .<br />
L’idea dell’eccellenza degli antichi fu anche<br />
di Mengs, la cui influenza – peraltro reciproca –<br />
su Winckelmann 50 è ben nota: nei suoi Pensieri<br />
sulla pittura del 1762, pur trattando, appunto, di<br />
precetti pittorici, menzionò spesso statue<br />
antiche come buoni modelli da seguire,<br />
indicando, tra le opere eccellenti, il Laocoonte e il<br />
Torso del Belvedere 51 .<br />
Caylus ribadì il concetto dell’esemplarità<br />
Torso del Belvedere, Roma, Musei Vaticani, in http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Torso_Belvedere_01.jpg,<br />
2010-04-20.<br />
degli antichi; nel sostenere che l’imitazione delle carni era l’oggetto della pittura e della scultura,<br />
indicava gli antichi Greci come esempi cui rifarsi per una resa ottimale:<br />
48 J.J. WINCKELMANN, Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, (1755), ed. cons. a cura di M. Cometa,<br />
Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 1992, p. 32. Le note ragioni di tale perfezione, non verificatesi altrove, ne aveva a suo parere reso eccellente<br />
la costituzione fisica ed aveva educato l’occhio dei <strong>lo</strong>ro artisti alla bellezza. Argomenti simili aveva esposto Montesquieu nell’Esprit<br />
des <strong>lo</strong>is (1748), asserendo, tra le altre cose, l’importanza primaria del clima nella formazione di un popo<strong>lo</strong>. Anche Dandré-Bardon<br />
nel suo Essai sur la sculpture indicò tali motivi come cause dell’eccellenza dei Greci e come lui Mengs ed Hemsterhuis. Tale motivo<br />
fu ripreso da Cicognara e trasposto alla situazione in Italia: grazie al clima, egli riteneva gli italiani predisposti meglio di altri alla<br />
«greca eccellenza». Cfr. L. CICOGNARA, Prefazione della Storia della scultura... , p. 12.<br />
49 Lo studio delle statue antiche, ad esempio, secondo Hogarth avrebbe migliorato <strong>lo</strong> stile di Raffael<strong>lo</strong>: «Raffael<strong>lo</strong> da una<br />
maniera secca e chionza in un tratto cambiò il suo gusto [...] alla vista [...] dell’antiche statue». W. HOGARTH, L’analisi della bellezza...,<br />
p. 13. Anche secondo Mengs Raffael<strong>lo</strong> avrebbe migliorato il suo stile grazie al<strong>lo</strong> studio dell’antico: «Quando poi vide le opere degli<br />
antichi abbandonò affatto la scuola de’ suoi maestri, e si servì delle regole del bassorilievo per disporre i panneggiamenti<br />
naturali; e così acquistò il miglior gusto nelle pieghe». Cfr. A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 60.<br />
50 Va ricordata l’entusiastica opinione di Winckelmann a proposito del Parnaso, l’affresco che Mengs realizzò a<br />
Villa Albani e sulla quale Winckelmann sentenziò: «Un’opera più bella nell’era moderna in pittura non è ancora apparsa».<br />
Cfr. M. COMETA in A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 7. Nota Honour a proposito del Parnaso: «È facile capire perché colpisse<br />
co<strong>lo</strong>ro che ammiravano i marmi greco-romani esposti sotto di esso [...] il quadro non cerca che di ricreare un sogno di perfezione<br />
classica attraverso una sintesi di scultura antica e dipinti di Raffael<strong>lo</strong>». H. HONOUR, Neoclassicismo..., p. 19.<br />
51 Cfr. A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 65.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Le Sculpteur doit en chercher les exemples dans les plus beaux Ouvrages des Grecs, ils<br />
ont seuls donné le modèle des profondes connoissances et de l’exécution sublime du ciseau:<br />
ils mettoient toute leur confiance dans la justesse et dans la beauté de leur travail, et ne cherchoient<br />
point à surprendre l’admiration par un contraste dans les<br />
positions 52 ; la recherche de leur Art consistoit à le cacher<br />
profondèment. Il seroit à desirer que les Auteurs anciens<br />
eussent fait quelque mention de leur manière d’etudier, il<br />
est constant qu’elle doit avoir été différente de la<br />
nôtre, car les modernes, ceux mêmes qui ont le plus<br />
copié, et qui ont été le plus pénétrés d’admiration pour<br />
les Sculpteurs Grecs, n’ont jamais saisi ni leur style, ni<br />
leur faire. Nous voyons seulement par les récits de Pline,<br />
que <strong>lo</strong>in de négliger la théorie, ils réfléchissoient<br />
beaucoup sur leur Art. Le grand nombre d’artistes dont<br />
il parle comme ayant écrit profondément sur cette matière,<br />
ne permet pas de leur refuser ces connoissances 53 .<br />
In questi passi Caylus non mancava di evidenziare<br />
l’importanza della teoria e della riflessione nelle arti, motivo che<br />
aveva sviluppato in apertura delle Réflexions sur la sculpture 54 .<br />
Gli stessi temi erano presenti nelle Réflexions sur la<br />
Sculpture 55 diEtienneMauriceFalconet,unodeitestifondamentali<br />
per l’estetica della scultura nel Settecento – e che, pur con le<br />
dovute mediazioni, avrebbe influenzato la formazione di<br />
Canova 56 – in cui l’autore tentava di elevare la propria arte al<br />
rango della riflessione critica 57 e sosteneva la necessità<br />
del<strong>lo</strong> studio, sicuramente praticato dagli artisti della Grecia<br />
classica 58 . Egli indicava le opere dell’antichità come guida<br />
più sicura anche per la rappresentazione del nudo, che,<br />
E.M. Falconet, Réflexions sur la Sculpture, in<br />
Œuvres d’Étienne Falconet Statuaire..., Lausanne 1781,<br />
t. I, in http://books.google.it/books?id=jAUFAA-<br />
AAYAAJ&pg=PA14&dq=inauthor:falconet&lr=<br />
&as_drrb_is=q&as_minm_is=0&as_miny_is=&as_<br />
maxm_is=0&as_maxy_is=&as_brr=0&cd=4#v=on<br />
epage&q&f=false, 2010-04-20.<br />
52 Non manca una nota polemica nei confronti delle pose barocche.<br />
53<br />
CAYLUS, Réfléxions..., pp. 185, 186.<br />
54 Al paragrafo 175 delle Réflexions Caylus scriveva che la routine delle scuole abituava gli artisti alla pigrizia e soprattutto<br />
a disprezzare la teoria. Ciò, naturalmente, era ritenuto assolutamente fuorviante: «la plus légére Réflexions fait sentir que la<br />
théorie d’un Art sert toujours à la perfection de sa pratique, et les Artistes eux-mêmes prouvent tous les jours que ces parties sont<br />
inseparables: en effet ceux dont les talens sont supérieurs, ne jouiroient pas de la prééminence qu’on leur accorde, sans l’union<br />
des parties essentielles de la théorie, à la beauté du ciseau, à la perfection du trait, et à la grandeur des idées». CAYLUS, Réflexions..., p. 176.<br />
55 Poi confluite nella voce Sculpture dell’Encyc<strong>lo</strong>pédie di <strong>Di</strong>derot e D’Alembert (redatta però da Louis de Jaucourt).<br />
Cfr. M. COMETA, Postfazione, in F. HEMSTERHUIS, Lettera sulla scultura….<br />
56 Cfr. G. PAVANELLO, «Antonio Canovae Veneto...», in Antonio Canova, cata<strong>lo</strong>go della mostra (Venezia-Possagno 22 marzo-<br />
30 settembre 1992), Marsilio Editori, Venezia 1992, pp. 45-50.<br />
57 Cfr. G. MARAGLIANO, Presentazione, in J.G. HERDER, Plastica, (1778), ed. cons. a cura di G. Maragliano, Aesthetica,<br />
<strong>Palermo</strong> 1994, pp. 7-35.<br />
58 E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture (1761), ed. cons. in ID., Oeuvres complètes, Genève 1970, vol. III, p. 4: «Tout ce qui<br />
est pour le sculpteur un objet d’imitation, doit lui être un sujet continuel d’étude. Cette étude [...] produira des chef d’œuvres<br />
semblables à ces monuments précieux qui ont triomphé de la barbarie des siecles. Ainsi, les sculpteurs qui ne s’en tiendront pas<br />
à un tribut de <strong>lo</strong>uanges, d’ailleurs si légitimement dû à ces ouvrages sublimes, mais qui les étudieront profondément,<br />
qui les prendront pour regle de leurs productions, acquerront cette supériorité que nous admirons dans les statues grecques».<br />
41
42<br />
Roberta Cinà<br />
ana<strong>lo</strong>gamente a Caylus, riteneva il principale oggetto del<strong>lo</strong> studio del<strong>lo</strong> scultore:<br />
Le nud est le principal objet de l’étude du sculpteur. Les fondements de cette étude sont la connoissance<br />
des os, de l’anatomie extérieure, et l’imitation assidue de toutes les parties et de tous les mouvements du<br />
corps humain. L’école de Paris et celle de Rome exigent cet exercice, et facilitent aux éleves cette connoissance<br />
nécessaire. Mais comme le naturel peut avoir ses défauts; que le jeune èleve, à force de les voire et de les<br />
copier, doit naturellement les transmettre dans ses ouvrages, il lui faut un guide sûr pour lui faire<br />
connoître les justes proportions et les belles formes. Les statues grecques sont le guide le plus sûr, elles<br />
sont et seront toujours la regle de la précision de la grace et de la noblesse, comme étant la plus parfaite<br />
représentation du corps humain 59 .<br />
Falconet, quindi, riteneva l’imitazione della natura non<br />
fosse sufficiente, da sola, a guidare l’artista alla ricerca delle<br />
‘giuste proporzioni’ e delle ‘belle forme’ e che l’arte, quella<br />
dell’antichità in particolare, potesse fornire al<strong>lo</strong> scultore i canoni<br />
da seguire, purchè egli scegliesse con discernimento<br />
le opere da studiare 60 . Un’ammirazione indiscriminata<br />
per qualunque produzione dell’antichità, infatti, sarebbe<br />
stata rischiosa per l’artista, che avrebbe potuto fare propri<br />
anche i difetti di opere non meritevoli di essere imitate 61 ;<br />
Falconet elencava dunque le statue che, a suo parere,<br />
costituivano esempi sicuri: «le Gladiateur, l’Apol<strong>lo</strong>n, le Laocoon,<br />
l’Hercule Farnese, le Torse, l’Antinoüs, le grouppe de Castor et Pollux,<br />
l’Hermaphrodite, la Vénus de Médicis». Compariva, però, un<br />
elemento nuovo: accanto a questi topoi nel Neoclassicismo,<br />
egli citava alcuni autori moderni che a suo avviso avevano<br />
realizzato sculture altrettanto apprezzabili, tra cui Michelange<strong>lo</strong><br />
e Puget 62 . In ogni caso, Falconet sintetizzava le sue teorie nel<br />
connubio antico-natura: «c’est l’imitation des objets naturels,<br />
soumis aux principes des anciens, qui constitue les vraies<br />
beautés de la sculpture» 63 .<br />
Ercole Farnese, in Real Museo Borbonico,<br />
Napoli 1824-1830, vol. III, 1827, in<br />
http://books.google.it/books?id=8wQHAAAAQ<br />
AAJ&pg=PT107&dq=%22ercole+farnese%22&<br />
hl=it&ei=-sXOS __TFZP7_Aa4ns2vBw&sa=X&<br />
oi=book_result&ct=result&resnum=1&ved=0CA<br />
cQ6AEwAA#v=onepage&q=%22ercole%20farnese%22&f=false,<br />
2010-04-21.<br />
59 Ibid., p. 20.<br />
60 Ibid., p. 21: «Si l’on s’en tient à un examen superficiel, ces statues ne paroîtront pas extraordinaires, ni même difficiles<br />
à imiter; mais l’artiste intelligent et attentif découvrira dans quelques unes les plus profondes connoissances du dessein et toute<br />
l’énergie du naturel. Aussi les sculpteurs qui ont le plus étudié et avec choix les figures antiques, ont-ils été les plus distingués.<br />
Je dis avec choix, et je crois cette remarque fondée. Quelque belles que soient les statues antiques, elles sont des productions<br />
humaines, par conséquent susceptibles des foiblesses de l’humanité: il seroit donc dangereux pour l’artiste d’accorder indistinctement<br />
son admiration à tout ce qui s’appelle antiquitè».<br />
61 Ibid.: «Il faut qu’un discernement éclairé, judicieux et sans préjugés, lui fasse connoître les beautés et les défauts des<br />
anciens, et que, les ayant appréciès, il marche sur leurs traces avec d’autant plus de confiance, qu’a<strong>lo</strong>rs elles le conduiront toujours<br />
au grand [...]. Une connoissance médiocre de nos arts suffit pour voir que les artistes grecs avoient aussi leurs instants de<br />
sommeil et de froideur. Le même goût régnoit, mais le savoir n’étoit pas le même chez tous les artistes, l’éleve d’un sculpteur<br />
excellent pouvoit avoir la maniere de son maître sans en avoir la tête».<br />
62 Ibid., pp. 22 e 24.<br />
63 Ibid., p. 24.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Anche secondo Hogarth sarebbe stato possibile eccellere, per gli artisti, con l’imitare «con<br />
grand’esattezza le bellezze della natura, e con ricopiare spesso, e ritenere le forti idee delle<br />
graziose antiche statue» 64 . L’importanza del<strong>lo</strong> studio delle opere dell’antichità, nel Settecento, fu<br />
infatti riconosciuta pressoché universalmente; anche <strong>Di</strong>derot, che pure mostrava di non esserne<br />
abbagliato 65 , sintetizzava: «Celui qui dédaigne l’antique pour la nature, risque de n’être jamais<br />
que petit, faible et mesquin de dessin, de caractère de draperie et d’expression. Celui qui aura<br />
négligé la nature pour l’antique, risquera d’être froid, sans vie, sans aucune de ces vérités cachées et<br />
secrétes, qu’on n’aperçoit que dans la nature même [...]. Il me semble qu’il faudrait étudier l’antique<br />
pour apprendre à voir la nature» 66 . E, altrove: «Qu’apprendre de l’antique? A discerner la belle<br />
nature» 67 . Si tratta di una frase che comunque ben sintetizza anche il pensiero estetico di Winckelmann.<br />
Altro noto punto fondamentale del pensiero dell’archeo<strong>lo</strong>go-fi<strong>lo</strong>sofo era il risalto dato alla «pacata<br />
grandiosità» delle opere greche, che si ritrova anche in <strong>Di</strong>derot, Richardson, Hogarth 68 .<br />
Il nome di Winckelmann, però, è giustamente celebre anche per la Storia dell’arte dell’antichità,<br />
il primo tentativo di descrivere sistematicamente l’arte del passato prendendo come punti di<br />
riferimento gli stili e le opere, senza basarsi sulle vite degli artisti o sugli avvenimenti storici 69 .<br />
Non fu questa una trattazione storicamente e scientificamente esatta, né obiettiva; le preferenze<br />
dell’autore andavano infatti all’arte greca e quindi altre civiltà antiche vennero trascurate, e non<br />
perché mancassero conoscenze archeo<strong>lo</strong>giche in proposito. Decisamente tradizionale, sulla<br />
traccia del<strong>lo</strong> schema delle Vite del Vasari, fu la sua concezione della storia dell’arte di tipo<br />
evoluzionistico, in cui la classicità era stata il momento culminante della perfezione e, dopo di<br />
essa, aveva avuto luogo il decadimento delle arti 70 .<br />
64 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 10. Tra l’altro, anche se ad un altro proposito, Hogarth notò che già Du Fresnoy<br />
aveva citato l’Antinoo come esempio di grazia e buoni contorni. Ibid., p. 11.<br />
65 <strong>Di</strong>derot scrisse: «De soixante-mille statues antiques qui se trouvent à Rome et alentours, un centaine de belles, une<br />
vingtaine d’excuises». D. DIDEROT, Pensées Détachées sur la Peinture, la Sculpture, l’Architecture et la poesie, (1781), in ID., Oeuvres..., vol. XII,<br />
p. 116. Si tratta del<strong>lo</strong> stesso concetto che aveva esposto Hogarth: «s’accorda da’ più esperti nell’arti imitative, che quantunque<br />
vi sieno molti degli avanzi dell’antichità che hanno delle gran perfezioni, tuttavolta moderatamente parlando non ve ne sono più<br />
di venti che possan giustamente chiamarsi capi d’opera». W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 92.<br />
66 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765..., p. 418.<br />
67 ID., Pensées Détachées..., p. 115.<br />
68 J.J. WINCKELMANN, Pensieri sull’imitazione..., p. 43. La quiete pacata di cui parla l’autore si riferisce come è noto<br />
all’espressione di Laocoonte, che mantiene la sua dignità in mezzo ai tormenti. Scriveva, in proposito, <strong>Di</strong>derot: «Ce qui m’affecte,<br />
spécialement dans ce fameux groupe de Laocoon [...] c’est la dignité de l’homme, conservée au milieu de la profonde douleur.<br />
Moins l’homme qui souffre se plaint, plus il me touche». D. DIDEROT, Pensées Détachées..., p. 117. Hogarth definì il Laocoonte il «più<br />
bel gruppo di figure di scultura che fosse mai fatto, dagli antichi o da’ moderni», in W. HOGARTH, L’analisi..., p. 39.<br />
Ancora, a proposito del Laocoonte, va ricordato il parere dei Richardson secondo i quali la pacatezza dell’espressione di<br />
Laocoonte si addiceva maggiormente ad un’opera scultorea di quanto non avrebbe fatto l’ira descritta da Virgilio nel suo poema.<br />
Cfr. J. RICHARDSON, Description des <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 516.<br />
69 Cfr. H. BELTING, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, Einaudi, Torino 1990, p. 85; per la bibliografia relativa<br />
al rapporto Winckelmann-Vasari cfr. inoltre A. PINELLI, La bella Maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Einaudi, Torino 2003;<br />
M. ROSSI, Le fila del tempo. Il sistema storico di Luigi Lanzi, Olschki, Firenze 2006.<br />
70 La sua esposizione del<strong>lo</strong> sviluppo e decadenza dell’arte greca, secondo Belting, «prospetta una teoria del<strong>lo</strong> stile che risulta<br />
in effetti come una notevole rielaborazione di quanto Vasari, sulla scorta anche di fonti antiche, aveva tentato pur in un quadro più<br />
semplice». Belting precisa, naturalmente, di non voler ridurre l’opera di Winckelmann ai precedenti vasariani, ma nota che comunque<br />
«le norme della dottrina estetica di Vasari, anch’esse fondate su base antica, sono onnipresenti» e ritiene che il classicismo di Winckelmann<br />
sia dovuto ad una sorta di «crisi intervenuta nella letteratura storico-artistica postvasariana», per cui l’autore avrebbe provato disagio<br />
nonché disinteresse per trattare l’arte prodotta dal Vasari in poi. Cfr. H. BELTING, La fine della storia dell’arte..., pp. 86-87.<br />
43
44<br />
Roberta Cinà<br />
La concezione vasariana della decadenza dell’arte nel periodo dell’impero romano e della<br />
sua rinascita nel Cinquecento con artisti del calibro di Leonardo, Michelange<strong>lo</strong> e Raffael<strong>lo</strong> fu<br />
esposta fino al XVIII seco<strong>lo</strong> da Richardson:<br />
La pittura e la scultura, e le arti che hanno relazioni col disegno, sono state conosciute<br />
in Persia, in Egitto, molto tempo prima di giungere dai Greci, ma che questi le hanno portate ad<br />
un grado sorprendente di perfezione; che di là si sono espanse in Italia e nelle altre parti del<br />
mondo, attraverso diverse rivoluzioni, fino a che, essendo cadute con l’Impero Romano, sono<br />
andate perdute per diversi secoli; per cui non c’era un uomo sulla Terra che fosse capace di<br />
abbozzare, diversamente di quanto <strong>lo</strong> sarebbe oggi un bambino tra noi, la forma di una casa, di<br />
un albero, di un viso, di un corpo 71 .<br />
Negli scritti dei Richardson, per la prima volta,<br />
è anche presente la consapevolezza del significato delle<br />
sculture antiche che erano andate perdute 72 . Nella<br />
Description des <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux, Desseins, Statues,<br />
Bustes, Bas-reliefs et c. qui se trouvent en Italie infatti si<br />
legge: «Je sais, que l’opinion la plus commune est,<br />
que nous avons les meilleurs Statues des Anciens» 73 .<br />
Il riferimento è ad alcuni passi delle Réflexions critiques<br />
sur la Poësie et sur la Peinture di Du Bos 74 :<br />
...c’est aussi ce qu’un Auteur François de<br />
notre tems, homme très ingenieux, dit en termes<br />
exprès, dans un beau Chapitre, où il fait un détail<br />
de ce qui nous reste de la Peinture Antique: il<br />
dit fort judicieusement, que nous ne pouvons<br />
porter aucun jugement sur ce que les Anciens ont<br />
fait dans cet Art, si nous le comparons avec les<br />
Ouvrages des Modernes: ‘mais, ajoute-t-il, Nous<br />
pouvons bien comparer la Sculpture antique avec la<br />
Nôtre, parce que nous sommes certains d’avoir<br />
encore aujourd’hui les Chefs-d’œuvres de la Sculpture<br />
Grècque, c’est à dire, ce qui s’est fait de plus beau<br />
dans l’Antiquité’; et un peu plus bas; ‘mais ce qu’il<br />
avoit de plus précieux dans la Grèce avoit été aporté<br />
à Rome, et nous sommes certains d’avoir encore<br />
aujourd’hui les plus beaux Ouvrages, qui fussent<br />
dans cette capitale du Monde’ 75 .<br />
J. Richardson, DescriptiondediversfameuxTableaux,Desseins,Statues....,<br />
Amsterdam 1728, in http://books.google.it/books?id=78c-AAAAcAAJ&pg=PA198&dq=inauthor:jonathan+inauthor:richardson&lr=&as_drrb<br />
_is=q&as_minm_is=0&as_miny_is=&as_maxm_is=0&as_maxy_is=&as_brr=3<br />
&cd=5#v=onepage&q&f=false, 2010-04-21.<br />
71 J. RICHARDSON, <strong>Di</strong>scorso sulla Scienza..., p. 71. L’eccellenza che l’arte avrebbe raggiunto in Grecia sarebbe stato uno dei concetti<br />
esposti da Winckelmann nella sua Storia dell’arte nell’antichità ed anche Mengs avrebbe asserito: «I primi che hanno avuto un gusto<br />
grande, sono stati i Greci». A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 41.<br />
72 F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia..., p. 118.<br />
73 J. RICHARDSON, Description des <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 582.<br />
74 In particolare, i Richardson alludono alla sezione XXXVIII del tomo I. Cfr. J.B. DU BOS, Riflessioni critiche sulla poesia e<br />
sulla pittura, a cura di M. Mazzocut-Mis, P. Vincenzi, prefazione di E. Franzini, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2005; Jean-Baptiste Du Bos<br />
e l’estetica del<strong>lo</strong> spettatore, a cura di L. Russo, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2005.<br />
75 J. RICHARDSON, Description des <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 582.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Con una lunga digressione storica, i Richardson motivarono il <strong>lo</strong>ro parere contrario,<br />
asserendo che non era possibile avere la certezza di possedere gli originali delle statue antiche dal<br />
momento che molte di esse erano andate perdute o distrutte a causa di guerre e calamità; dunque,<br />
non era neanche possibile esprimere giudizi sul livel<strong>lo</strong> raggiunto dagli antichi nelle <strong>lo</strong>ro opere,<br />
pittoriche, scultoree o letterarie che fossero. Soprattutto, i Richardson dettero rilievo al fatto che<br />
quasi tutte le opere giunte sino ai <strong>lo</strong>ro tempi non erano altro che antiche copie:<br />
Il est assez vraisemblable, que la plupart des Statues Antiques que nous admirons avec<br />
raison aujourd’hui, ne sont qu’un petit reste de la grande quantité d’excellentes Copies faites par<br />
des Mains habiles, dont les Anciens Ecrivains mêmes font souvent mention, après des Originaux<br />
bien plus excellens: encore celles-ci ne sont elles pas d’après les Ouvrages les plus fameux, que<br />
les Anciens ont le plus vantés et dont il ne nous reste pas la moindre mémoire, si ce n’est dans<br />
leurs Ecrits: aussi n’en avons-nous que très-peu qu’on prétend atribuer aux Maîtres que les<br />
Anciens ont le plus estimés 76 .<br />
La conclusione cui essi giungevano era la stessa che, molto tempo dopo, avrebbe tratto<br />
Winckelmann e cioè la maggiore preziosità delle poche opere rimaste; affermavano infatti: «<strong>lo</strong>in<br />
que ce que je viens de dire sur ce sujet avilisse les morceaux admirables que nous avons le bonheur<br />
de posséder de l’Antiquité, il ne fait au-contraire que nous le rendre plus précieux et plus utiles» 77 .<br />
Come notano Haskell e Penny, tali conclusioni dei Richardson vennero seriamente prese<br />
in considerazione alla fine del Settecento, quando trovarono il sostegno dell’erudizione e i nuovi<br />
criteri per <strong>lo</strong> studio scientifico dell’antichità stabiliti principalmente da Winckelmann 78 . Il quale,<br />
però, avrebbe condannato come fretto<strong>lo</strong>sa ed incompleta l’opera dei Richardson pur riconoscendone<br />
alcuni meriti 79 .<br />
La concezione decisamente parziale che egli ebbe della storia dell’arte, che potrebbe<br />
intendersi come un suo limite, è comunque spiegabile con la fortissima attrazione che le sculture<br />
classiche esercitarono su di lui, ricordando, ancora una volta, che egli faceva nascere la storia<br />
dell’arte dalla scultura. La misura in cui subiva il fascino dei capolavori antichi è ben evidente nella<br />
descrizione di alcune famose statue, la cui lettura richiama peraltro fortemente i canoni estetici<br />
che Hogarth aveva esposto nella sua Analisi della bellezza del 1753. La corrispondenza appare<br />
lampante a proposito della linea serpeggiante, di <strong>lo</strong>mazziana memoria, e delle forme concave,e<br />
di come esse fossero presenti in un corpo bel<strong>lo</strong>.<br />
76 Ibid., p. 592.<br />
77 Ibid., p. 593.<br />
78 F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia…, p. 119.<br />
79 Cfr. ibid., p. 77.<br />
45
46<br />
Roberta Cinà<br />
Hogarth scriveva:<br />
Appena vi è in tutto il corpo un osso dritto. Quasi tutti non solamente si piegano in<br />
varie guise, ma hanno una specie d’avviticchiamento che in alcuni di essi è graziosissimo; e i<br />
muscoli che gli si accostano [...] generalmente han le <strong>lo</strong>ro fibre componenti che corrono nelle<br />
linee serpeggianti, circondando, e conformandosi alla varia forma dell’ossa a cui appartengono<br />
particolarmente nelle membra [...]. <strong>Di</strong> queste belle ondeggianti forme dunque è composto il<br />
corpo umano, e le quali per le varie situazioni l’una coll’altra divengono più intricatamente<br />
piacevoli, e formano un continuo ondeggiamento di forme che s’intrecciano l’una dentro l’altra 80 .<br />
Il ragionamento procedeva immaginando di avvolgere un sottile fi<strong>lo</strong> di ferro intorno ad un arto:<br />
la forma che esso avrebbe assunto sarebbe stata serpentinata. Fili di ferro di questa sorta, in qualunque<br />
numero, sarebbero stati idealmente «intrecciati in qualunque numero di direzioni sopra ogni parte di<br />
una donna ben fatta, uomo, o statua».<br />
E se il Lettore seguiterà nella sua immaginativa i<br />
più eccellenti garbi del<strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong> nelle mani di un maestro,<br />
quando dà gli ultimi tocchi ad una statua; capirà ben tosto<br />
cos’è quel che i buoni giudici aspettano dalle mani di un<br />
tal maestro, che gl’Italiani chiamano, il poco più, e che in<br />
realtà distingue le opere originali de’ maestri a Roma,<br />
anche dalle migliori copie di essi81 .<br />
Che Winckelmann abbia subito l’influenza di questi<br />
principi è evidente da alcuni passi sul bel<strong>lo</strong> nell’arte:<br />
Il bel<strong>lo</strong> è dato dalla varietà nella semplicità [...].<br />
La linea che descrive il bel<strong>lo</strong> è ellittica, e in essa è contenuta<br />
la semplicità assieme ad un continuo mutamento. La linea<br />
ellittica non può essere disegnata col compasso e cambia in<br />
ogni punto la sua direzione [...] gli antichi la conoscevano,<br />
e noi la troviamo nelle <strong>lo</strong>ro opere, dalla figura umana al<br />
vaso. Come non esiste nulla di circolare nell’uomo, così<br />
non si troverà nessun vaso antico che abbia un profi<strong>lo</strong> a<br />
sagoma semicircolare 82 .<br />
80 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., pp. 66 e 67.<br />
81 Ibid., p. 70.<br />
82 J.J. WINCKELMANN, Brevi studi sull’arte antica, (1756-1759), in ID., Il bel<strong>lo</strong>..., p. 59.<br />
W. Hogarth, The Analysis of Beauty, London 1753, in<br />
http://www.tristramshandyweb.it/sezioni/etext/hogarth/analysis_html/img/titlepage.gif,<br />
6-4-<br />
2010.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Hogarth si espresse anche sulla resa più o meno realistica dei dettagli della pelle, e anche<br />
in questo caso le affinità con i successivi scritti di Winckelmann risultano palesi:<br />
E se egli 83 seguita questa ricerca anatomica un poco più oltre, fino a formare una vera<br />
idea dell’elegante uso che si fa della pelle e del grasso sotto di essa, per nascondere all’occhio<br />
tutto quel ch’è duro e dispiacevole, e nel tempo istesso conservarle quel che è necessario nelle<br />
forme delle parti al di sotto per dar grazia e bellezza a tutto il membro, egli si troverà insensibilmente<br />
guidato ne’ principj di quella grazia e bellezza che si trova ne’ ben mossi membri di un bel<strong>lo</strong>, ben<br />
fatto, e sano corpo, o in quelli delle migliori antiche statue […]. Così in tutte le altre parti del<br />
corpo, come queste, dovunque pel necessario moto delle parti per la propria forza ed agilità,<br />
l’innesto de’ muscoli è troppo risentito e subitaneo, le <strong>lo</strong>ro gonfiezze troppo ardite, o i concavi<br />
fra di esse troppo profondi perché i <strong>lo</strong>ro contorni sien belli; la natura più giudiziosamente<br />
ammollisce queste durezze, e riempie questi vani con un proprio supplemento di grasso, e copre<br />
il tutto colla molle, arrendevole, elastica, e in una complession delicata, quasi trasparente pelle,<br />
che conformandosi alla figura esterna di tutte le sue parti al disotto, esprime all’occhio l’idea<br />
de’ suoi spazj colla somma delicatezza di bellezza, o di grazia. La pelle dunque così teneramente<br />
abbracciando, e gentilmente conformandosi alle varie forme di ognuno degli esterni muscoli del<br />
corpo ammollito al disotto dal grasso, dove, altrimenti, l’istesse linee taglienti, e l’istesse rifitte<br />
apparirebbero, che noi veggiamo venire sul viso per la vecchiezza, e pel travaglio sulle membra,<br />
è evidentemente una superficie [...] formata colla massima delicatezza, e perciò il soggetto più<br />
proprio del<strong>lo</strong> studio d’ognuno, che desideri d’imitar l’opere della natura, come dovrebbe fare un<br />
maestro, o per giudicare delle opere altrui, come dovrebbe un buono intendente84 .<br />
Che Winckelmann, riguardo la rappresentazione scultorea dei particolari anatomici 85 , fosse<br />
del medesimo avviso di Hogarth è riscontrabile da alcuni passi in cui descriveva alcune antiche<br />
statue, ad esempio l’Apol<strong>lo</strong> del Belvedere 86 : «là,[…] nulla vi è che sia mortale o schiavo dei<br />
bisogni umani. Non una vena, non un nervo turbano e agitano questo corpo, ma uno spirito<br />
celeste che vi si riversa come un fiume tranquil<strong>lo</strong> quasi ricolma tutta la superficie di questa figura» 87 .<br />
Evidentemente entusiasta della poca evidenza conferita a determinati dettagli naturalistici,<br />
egli scriveva:<br />
83 Hogarth si riferisce al lettore.<br />
84 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 68.<br />
85 L’importanza di una resa naturalistica della pelle era avvertita anche da Richardson, il quale riferiva che proprio tale<br />
dettaglio gli aveva fatto apprezzare la Venere de’ Medici, in cui precedentemente aveva riscontrato dei difetti nelle proporzioni:<br />
«La Tête est un peu trop petite, à proportion du Corps, et sur-tout des hanches et des Cuisses [...]. J’avoue, qu’avant que j’eusse<br />
vu cette Statue, j’en avois conçu une mauvaise opinion, sur les défauts que j’avais remarqués dans celles qu’on a jettées en moule.<br />
Il est vrai, qu’elle en a quelques-uns; mais elle a en même tems les chairs si molles, et si naturelles, qu’on diroit qu’elles doivent<br />
ceder au toucher». J. RICHARDSON, Description de <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 97.<br />
86 L’influenza estetica di Hogarth e della sua «linea della bellezza» è percepibile anche nelle descrizioni del Laocoonte e<br />
del Torso, nella Storia dell’arte dell’antichità.<br />
87 J.J. WINCKELMANN, Storia dell’arte..., p. 279.<br />
47
48<br />
Roberta Cinà<br />
Nella maggior parte delle figure degli artisti<br />
moderni si osservano, in quelle parti del corpo che<br />
sono compresse, piccole pieghe della pelle troppo<br />
marcate, mentre le stesse pieghe nelle parti compresse<br />
delle figure greche nascono da una lieve curva 88 come<br />
un’onda, di modo che esse sembrano formare un<br />
tutto ed insieme una sola nobile pressione. Questi<br />
capolavori ci mostrano una pelle non tesa ma<br />
lievemente distesa sopra una carne sana che la<br />
riempie senza turgidi rigonfiamenti, e in tutti i<br />
piegamenti delle parti carnose ne segue la direzione<br />
unitamente ad esse. La pelle non forma mai, come<br />
nei nostri corpi, delle piccole pieghe isolate distaccate<br />
dalla carne. Al<strong>lo</strong> stesso modo le opere moderne si<br />
distinguono da quelle greche per una quantità di<br />
piccoli incavi, e per fin troppe e troppo sensibili<br />
fossette che, quando si trovano nelle opere degli<br />
antichi, sono lievemente accennate con una saggia<br />
parsimonia, secondo la <strong>lo</strong>ro misura nella più perfetta<br />
e compiuta natura dei Greci, e spesso so<strong>lo</strong> una dotta<br />
sensibilità le nota 89 .<br />
<strong>Di</strong>ametralmente opposta l’opinione di alcuni<br />
importanti testi francesi, in particolare le Réflexions<br />
sur la sculpture di Falconet, che, nel campo della resa<br />
naturalistica delle carni, portava ad esempio Puget,<br />
scultore del Seicento:<br />
Apol<strong>lo</strong> del Belvedere, Roma, Musei Vaticani, in http://<br />
commons.wikimedia.org/wiki/File:Belvedere_Apol<strong>lo</strong>_<br />
Pio-Clementino_Inv1015.jpg, 2010-03-30.<br />
Ils [gli antichi] étoient si peu affectés des étails, que souvent ils négligeoient les plis et<br />
les mouvements de la peau dans les endroits où elle s’étend et se replie se<strong>lo</strong>n le mouvement des<br />
membres. Cette partie de la sculpture a peut-être été portée de nos jours à un plus haut degré<br />
de perfection. Un exemple décidera si cette observation est hasardée: il sera pris dans les<br />
ouvrages de Puget. Dans quelle sculpture grecque trouve-t-on le sentiment des plis de la peau,<br />
de la mollesse des chairs et de la fluidité du sang, aussi superieurement rendu que dans les<br />
productions de ce célebre moderne? Qui est-ce qui ne voit pas circuler le sang dans le veines du<br />
Mi<strong>lo</strong>n de Versailles? [...] Ce seroit donc une sorte d’ingratitude, si, reconnoissant à tant d’autres<br />
titres la sublimité des sculptures grecques, nous refusions nos hommages à un mérite qui se<br />
trouve constamment supérieur dans les ouvrages d’un artiste françois 90 .<br />
88 In passi come questo è ancora più facilmente rilevabile l’influenza hogarthiana.<br />
89 ID., Pensieri sull’imitazione..., p. 37.<br />
90 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 23. Il passo riportato venne attaccato da Mengs a proposito del Mi<strong>lo</strong>ne di Puget. In una<br />
lettera piuttosto polemica, fraintendendo le parole di Falconet, Mengs scrisse: «je pense que vous ne voudriez pas, monsieur,<br />
qu’on prît à la lettre, que vous voyez couler le sang dans les veines d’une statue de marbre de M. Puget». In E.M. FALCONET,<br />
Oeuvres..., vol. III, p. 196. Ancora a proposito del Mi<strong>lo</strong>ne di Puget va citato il parere negativo di Cicognara, il quale riteneva che il<br />
do<strong>lo</strong>re del soggetto fosse eccessivamente manifesto, contrariamente a come avrebbe dovuto e a come era, ad esempio, nel<br />
Laocoonte: model<strong>lo</strong> indiscusso, come si è già ricordato, della misura e della pacatezza con cui dovevano essere espresse anche le<br />
emozioni più forti. Cfr. L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. VI, p. 306.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Sia il Mi<strong>lo</strong>ne che, più in generale, le<br />
opere berniniane 91 sarebbero state oggetto, da<br />
parte della critica francese, di apprezzamenti<br />
anche negli anni successivi, proprio per la<br />
«souplesse», come avrebbe scritto Dezallier<br />
D’Argenville: «Quelle sculpture grecque égale<br />
le Mi<strong>lo</strong>n de Puget par les plis, les mouvemens<br />
de la peau, et la souplesse de la chair? Le sang<br />
paroît couler dans ses veines» 92 .<br />
Dandré-Bardon, che si espresse<br />
anch’egli favorevolmente a proposito del<br />
Mi<strong>lo</strong>ne di Puget 93 e che, come Falconet,<br />
affermò più volte la superiorità dei<br />
moderni in alcune parti della scultura,<br />
proprio relativamente alla resa delle carni<br />
ritenne che gli antichi avessero spesso<br />
trascurato quella naturalistica dei dettagli:<br />
«Les vérités accidentelles de la nature ont<br />
souvent été aussi négligées par les plus<br />
fameux Statuaires de l’Antiquité [...] on [...]<br />
cherche vainement cette sensibilité<br />
physique, cette flexibilité de chairs, ces<br />
gonflemens de muscles, occasionnés par la<br />
pression violente des membres» 94 .<br />
Si tratta di una concezione estetica praticamente opposta rispetto a quella di Winckelmann,<br />
Pierre Puget, Mi<strong>lo</strong>ne di Crotone, Parigi, Louvre, in<br />
http://www.wga.hu/html/p/puget/sculptur/1/09mi<strong>lo</strong>n.html,2010-03-30.<br />
ai cui occhi l’Apol<strong>lo</strong> del Belvedere incarnò l’ideale del bel<strong>lo</strong>: «Il vero sentimento del bel<strong>lo</strong> è simile ad<br />
un gesso fluido versato sopra la testa dell’Apol<strong>lo</strong>, che ne tocca e ne investe tutte le parti» 95 . Nei passi<br />
come quelli che descrivono le statue greche è evidente il suo punto di vista strettamente personale,<br />
soggettivo 96 ; le descrizioni sono pervase da una passione e un entusiasmo decisamente poco razionali,<br />
in virtù dei quali egli interpretava gli ideali classici e ne desiderava la rinascita in tempi moderni.<br />
91 D. D’ARGENVILLE, Vies des fameux Architectes depuis la Renaissance des Arts avec la description de leurs ouvrages, tomo I, Paris 1787,<br />
p. 230: «Personne ne tira parti du marbre comme lui, il savoit lui donner une souplesse surprenante».<br />
92 ID., Vies des fameux Sculpteurs..., p. X. Cfr. F. COUSINIÉ, De la morbidezza du Bernin au «sentiment de la chair» dans la sculpture<br />
française, in Le Bernin et l’Europe. Du Baroque triomphant à l’âge romantique, textes réunis par C. Grell, M. Stani , Presses de l’Université<br />
de Paris-Sorbonne, Paris 2002, pp. 283-302.<br />
93 Come Falconet, Dandré-Bardon apprezzava la resa naturalistica dei particolari: «Puget […] a si moëleusement exprimé<br />
la souplesse des muscles et de la peau». M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture…, p. 26.<br />
94 Ibid., p. 8.<br />
95 J.J. WINCKELMANN, <strong>Di</strong>ssertazione sulla capacità del sentimento del bel<strong>lo</strong>..., in ID., Il bel<strong>lo</strong>..., p. 88.<br />
96 A proposito dei passi di Winckelmann sull’Apol<strong>lo</strong> e, in generale, sulle sculture ellenistiche, Praz osserva che in quest’arte<br />
«Winckelmann trova [...] la conferma della sua fissazione dell’ermafrodito». Cfr. M. PRAZ, Winckelmann, in ID., Gusto neoclassico..., p. 61.<br />
49
50<br />
Roberta Cinà<br />
Se per lui l’antichità da far rivivere<br />
era quella della Grecia classica, per altri<br />
suoi contemporanei non necessariamente 97 .<br />
Piranesi, è ben noto, non fu abbagliato dall’arte<br />
greca in modo esclusivo ma, come già Caylus 98<br />
e Hogarth, seppe valutare con lucidità l’arte<br />
egizia, riconoscendone il giusto va<strong>lo</strong>re delle<br />
forme espressive e giudicando l’architettura<br />
dei Romani superiore a quella dei Greci,<br />
grazie al substrato etrusco 99 .<br />
Che i Romani avessero ereditato le<br />
<strong>lo</strong>ro conoscenze architettoniche dagli Etruschi<br />
anziché dai Greci è una tesi che è stata variamente<br />
discussa 100 e che testimonia del<br />
coesistere di una grande varietà degli stili del<br />
passato, aspetto questo che rese tanto eclettico<br />
il Neoclassicismo 101 . Lo stesso struggimento<br />
che Winckelmann provava al cospetto delle<br />
statue greche, resti di un’epoca più che<br />
tramontata e perciò maggiormente preziosi<br />
nel presente, era vissuto da Piranesi nei confronti<br />
delle rovine architettoniche romane, «testimonianze<br />
ancora vivide, ancora grandiose<br />
della g<strong>lo</strong>ria mundi dell’antica Roma, una<br />
fonte di viva ispirazione anziché di<br />
Francesco Piranesi, Ritratto di Giovan Battista Piranesi, in Le Antichità<br />
Romane opera del cavaliere Giambatista Piranesi architetto veneziano<br />
divisa in quattro tomi, Roma 1784, in http://it.wikisource.<br />
org/wiki/Le_antichit%C3%A0_Romane_%28Piranesi%29/1-0, 2010-04-22.<br />
97 Nell’ambito della polemica tra fi<strong>lo</strong>greci e fi<strong>lo</strong>romani, va ricordata la posizione moderata di Hogarth che, pur<br />
riconoscendo che i Romani non avevano ricercato il principio dell’Ana<strong>lo</strong>gia, tramite la cui padronanza i Greci sarebbero giunti alla<br />
perfezione, asseriva: «nulladimeno [...] si servivano <strong>bene</strong> delle proporzioni, che i Greci avean molto tempo innanzi ridotte a certe<br />
regole fisse secondo la <strong>lo</strong>ro antica Ana<strong>lo</strong>gia; ed i Romani poterono arrivare al felice uso delle proporzioni senza comprendere<br />
l’Ana<strong>lo</strong>gia istessa». W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 16.<br />
98 Piranesi citò infatti alcuni passi di Caylus per suffragare le sue tesi sull’origine etrusca della magnificenza dei<br />
monumenti romani. Cfr. G.B. PIRANESI, Della magnificenza ed architettura de’ Romani, Roma 1761, p. 2. Su queste problematiche cfr.<br />
S.F. MACLAREN, La magnificenza e il suo doppio. Il pensiero estetico di Giovanni Battista Piranesi, Mimesis, Milano 2005, pp. 31 e<br />
segg. Cfr. inoltre O. ROSSI PINELLI, Piranesi, suppl. di “Art e Dossier”, 189, Giunti, Firenze 2003; J. WILTON-ELY, Giovanni Battista<br />
Piranesi, 1720-1778, Electa, Milano 2008.<br />
99 G.B. PIRANESI, Lettera di giustificazione di Giovan Battista Piranesi, Roma 1765, pp. 2, 4: «l’Architettura Greca nulla conferì<br />
al vantaggio sì pubblico, che privato di Roma, cui da gran tempo aveva provveduto l’Etruria; e [...] la Greca era stata preferita a<br />
questa, non per merito, ma per capriccio [...] gli Etruschi pensaron da savj, poco adornando la <strong>lo</strong>ro architettura [...] i Greci [...]<br />
dividendone i membri con gl’intagli, hanno troppo atteso ad una vana leggiadria, e poco della gravità.[...] Vedendo i Romani gli<br />
edifizj rispettabili degli Etrusci, e venendo frequentemente a Roma quei che potevano ammaestrarli in quest’arte, non poterono<br />
fare a meno di dilettarsi di quel che avevano veduto, e di voler in Roma tal sorta di fabbriche, specialmente dopo di essersi<br />
ingranditi, ed avere acquistata maggiore riputazione di quella de’ <strong>lo</strong>ro vicini». Per la bibliografia relativa agli studi di etrusco<strong>lo</strong>gia<br />
cfr. M. ROSSI, Le fila del tempo. Il sistema storico di Luigi Lanzi, Olschki, Firenze 2006.<br />
100 D. IRWIN, Introduzione, in J.J. WINCKELMANN, Il bel<strong>lo</strong>..., p. XXXVII, la definisce un’assurdità archeo<strong>lo</strong>gica.<br />
101 Come sottolinea Irwin, «Poco dopo il 1800 ai motivi greci, romani, etruschi, egizi si aggiunsero quelli indiani e moreschi».<br />
D. IRWIN, Introduzione..., p. XLI.
malinconico rimpianto» 102 .<br />
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Haskell e Penny notano che «la difesa dei romani da parte di Piranesi non avrebbe mai<br />
potuto farsi se egli si fosse concentrato sulla scultura anziché sull’architettura» 103 . Egli, in effetti,<br />
affrontò l’argomento della scultura romana – la sua trattazione, però, si limitava a considerare<br />
le statue come un elemento accessorio dell’architettura 104 – e anche in questo caso cercò di<br />
dimostrarne l’ascendenza etrusca, citando tra l’altro autori antichi, tra cui Vitruvio:<br />
Vitruvio [...] fa menzione degli ornamenti, che i Toscani solevano porre su i fastigj de’<br />
<strong>lo</strong>ro templi: dice, che anche i Romani appresero da <strong>lo</strong>ro un tal costume [...]. Eccone le parole: ‘[...]<br />
la plastica [...] fu esercitata in Italia, e massimamente in Toscana; e [...] da Tarquinio Prisco fu<br />
chiamato Turiano di Fregella, per dargli a fare l’immagine di Giove da dedicarsi in Campidoglio<br />
[...] questa era di terra cotta [...] sul fastigio di quel tempio v’erano le quadrighe della stessa terra<br />
[...] ciò si faceva perché le immagini degli dei così fatte, erano pregiatissime. Né noi ci arrossiremo,<br />
che si tenessero in pregio figure di tal materia, e che non s’impiegasse né argento, né oro per gli<br />
Dei. Tali simulacri durano in molti luoghi anche a’ dì nostri. Sono poi in Roma, e ne’ paesi<br />
circonvicini, molti frontispizj di templi, i quali sono veramente pregievoli per la maraviglia<br />
dell’intaglio, per l’arte, e molto più per la durata da sì gran tempo, e certamente più innocenti<br />
dell’oro’. Da quel che abbiamo riferito [...] delle statue, o quadrighe, con cui in Roma e in altri<br />
luoghi a lei soggetti si adornavano i fastigj de’ templi all’usanza toscana, come dice Vitruvio; si<br />
rende manifesto, che l’Architettura toscana non era altrimenti disadorna 105 .<br />
102 H. HONOUR, Neoclassicismo..., p. 34. La visione che Piranesi ebbe delle rovine non fu obiettiva; egli alterò persino le<br />
proporzioni delle architetture che raffigurava e ne modificò i punti di vista in chiave funzionale alla sua rappresentazione: «Tanta<br />
era la forza della sua immaginazione che costrinse i contemporanei e i posteri a guardare l’architettura romana coi suoi occhi»<br />
(ibid., p. 35). In una lettera inviata al Ministro Tanucci, è evidente la sua difesa delle rovine romane, messe in ombra da quelle<br />
greche. Il fatto che Roma avesse edificato opere di un certo va<strong>lo</strong>re artistico soltanto dopo aver conquistato la Grecia, aveva<br />
indotto molti studiosi a ritenere «che tutto <strong>lo</strong> studio e l’attenzione da’ monumenti di Roma e dell’Italia debba rivolgersi alle<br />
rovine di Grecia da chi desidera di essere perfetto nell’architettura in genere [...] servendomi perciò d’un numero ben grande di<br />
monumenti che si ritrovano in Roma, per l’Italia ed in Grecia, la maggior parte incogniti o trascurati [...] i Romani saranno<br />
sempre quelli che sono stati, felici conoscitori del buono, ammirabili nel discerner<strong>lo</strong> dal cattivo, e quei che meglio di ogni altra<br />
nazione hanno riuscito nell’architettura; ed avranno tutta la ragione di sperare, che la polvere delle rovine della Grecia, che si è<br />
cercato di spargere sui medesimi Loro monumenti, non sarà altro che polvere che a un tempo s’innalza e riposa». In R. PANE,<br />
Paestum nelle acqueforti di Piranesi, Edizioni di Comunità, Milano 1980, p. 131. Tra le opere che, pur se in rovina, provavano la<br />
magnificenza delle costruzioni romane Piranesi citava il tempio di Giove Capitolino, la c<strong>lo</strong>aca massima, gli acquedotti, il lastricato<br />
delle <strong>lo</strong>ro strade, le mura della città (G.B. Piranesi, Della magnificenza ed architettura..., p. 5-8): «queste cose [...] ci danno a<br />
divedere, che i Romani, senza l’ajuto de’ Greci, ebbero arte bastante per provvedere all’utilità, e al decoro pubblico [...] Che se<br />
qualcuno giudicherà, che le opere fatte dai Romani siano state cose da manuali e da muratori, mi ammetterà più di quel<strong>lo</strong>, che io<br />
non chiedeva; imperciocché in primo luogo sarà costretto a confessare, che quei manuali, e quei muratori furono intendentissimi<br />
d’architettura, avendo fatte tali opere con tanta maestria, come apparisce dalle vestigie, che ci rimangono» (Ibid., pp. 8-10).<br />
103 Cfr. F. HASKELL, N. PENNY, L’antico nella storia..., p. 125.<br />
104 Tale ottica, tra l’altro, consentiva a Piranesi di scagliarsi anche contro elementi architettonici greci quali le cariatidi,<br />
definite «finzioni che sono affatto aliene dalla verità. In fatti, chi mai potrebbe figurarsi, che donne tali, quali erano le Cariatidi,<br />
fossero capaci di sopportare un peso sì grande, e quel ch’è più, con una faccia così allegra, e con un portamento di vita così svelto,<br />
che di lì se le togliessero, si terrebbero per saltatrici?». G.B. PIRANESI, Della magnificenza ed architettura..., p. 20.<br />
105 Ibid., p. 6.<br />
51
52<br />
Roberta Cinà<br />
La scultura non ebbe quindi, nella trattazione di Piranesi, un ruo<strong>lo</strong> autonomo in quanto<br />
le statue erano considerate elementi decorativi 106 , inoltre egli prese in esame soprattutto il materiale<br />
che le costituiva e non il <strong>lo</strong>ro stile:<br />
Se poi questi ornamenti erano di terra cotta, o di bronzo, non però massiccio; ciò fu<br />
fatto di proposito, per non aggravare il fastigio, su cui si ponevano. Del resto, per quanto la creta<br />
sia vile in se stessa, non comprendo, come poi debbano sprezzarsi, o tenersi in poco conto anche<br />
le opere composte di tal materia, quando siano state fatte secondo le leggi dell’arte. Fu poi la<br />
plastica in uso frequentissimo presso i Toscani, ed i Romani, come si vede anche a’ dì nostri<br />
dalle urne, e dalle tegole, che ne rimangono; fra le quali se spesso si ritrovano de’ lavori un poco<br />
duri, ve se ne vedono anche di quelli, che meritano tutta la stima per la somma <strong>lo</strong>ro bellezza.<br />
Non cercherò qui, se i toscani abbiano inventata la plastica, o se l’abbiano ricevuta da’ paesi stranieri.<br />
<strong>Di</strong>cono alcuni, ch’ella sia stata invenzione de’ Greci. Ma che perciò? Forse non vengono in mente<br />
agli uomini tante cose, gli uni apprese dagli altri? 107 .<br />
Chiaramente, Piranesi non attribuiva particolare imporanza all’eventuale anteriorità della<br />
scultura greca rispetto a quella toscana e romana, in quanto il suo obiettivo era dimostrare<br />
l’indipendenza dei Romani dai Greci nel campo dell’architettura. Egli poneva però l’accento sui<br />
materiali costitutivi delle opere scultoree poiché, essendo le statue ‘greche’ spesso marmoree, egli<br />
aveva così modo di dichiarare che l’eccellenza di un’opera non era determinata dalla materia che<br />
la costituiva. Ancora una volta ricorreva ad una citazione di Caylus, che nell’Avvertimento al<br />
tomo II del Recueil scriveva: «Il lusso delle arti, nemico quasi sempre del gusto, abbaglia gli animi<br />
volgari, ma fa una mediocre impressione ne’ conoscitori [...] che in un’opera non si curano d’altro,<br />
che dell’opera» 108 . Piranesi, che distingueva il lusso dalla magnificenza 109 , sposava pienamente<br />
questa tesi «imperciocché l’arte è pregio dell’ingegno; e la materia della natura» 110 . Tali asserzioni<br />
gli davano modo di non riconoscere alcuna superiorità alle sculture greche:<br />
non si hanno a <strong>lo</strong>dare i Greci, perché avevano presso di <strong>lo</strong>ro il marmo Attico, il Pario, e<br />
d’altra sorte; ma perché seppero impiegar<strong>lo</strong> <strong>bene</strong>: né debbono altresì biasimarsi gl’Italiani, perché<br />
non avendo marmi da esercitarsi nelle arti, si servirono della creta, imperciocché, se con questa<br />
non potessero farsi delle opere bellissime, Plinio, a mio credere, non avrebbe detto, che gli<br />
106 È possibile osservare la stessa visione della scultura, come arte non autonoma rispetto all’architettura, in altri scritti<br />
di autori italiani successivi a Piranesi. Cicognara asseriva: «Si è osservato che gli antichi architetti nella epoca del risorgimento<br />
delle Arti in Italia univano alla facoltà di costruire gli edifizj anche quella di scolpire le figure ed i più ricchi ornamenti, dimodoché<br />
sembra inseparabile il parlare d’una soltanto di queste prerogative senza venire anche all’esame dell’altra». In L. CICOGNARA,<br />
Storia della scultura..., vol. II, p. 5. Selvatico riprese, nel 1847, questi concetti: «<strong>Io</strong> credo che nessuna delle arti primarie pertinenti al<br />
bel<strong>lo</strong> visibile, dovrebbesi dalla architettura separare, giacché è ufficio di queste arti, farsi a così dire la parola indicativa degli<br />
edifizii, affinché sieno più agevolmente intesi dal popo<strong>lo</strong>. La scultura in particolare, al<strong>lo</strong>rché divisa dalla fabbrica, simiglia un linguaggio<br />
morto, un frammento da cui è impossibile indovinare <strong>lo</strong> intero, una forma scompagnata dall’idea, quindi priva di significazione<br />
o di importanza». Selvatico attribuiva addirittura la decadenza della scultura in età barocca al fatto che esse si fosse<br />
estraniata dall’architettura. Cfr. P. SELVATICO, Sulla Architettura e sulla Scultura in Venezia, P. Ripamonti Carcano, Venezia 1847, pp. 1-2.<br />
107 G.B. PIRANESI, Della magnificenza ed architettura..., p. 6.<br />
108 Cfr. Ibid., p. 10.<br />
109 Cfr. S.F. MACLAREN, Lusso, spreco, magnificenza, in “Agalma. Rivista di studi culturali e di estetica”, n.s., 2, gennaio 2002,<br />
pp. 43-62.<br />
110 G.B. PIRANESI, Della magnificenza ed architettura..., p. 10.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
ornamenti de’ templi, i quali anticamente erano ne’ paesi circonvicini alla Città, fossero con<br />
intagli mirabili, essendo stati per la maggior parte di terra cotta, né a’ tempi nostri vedressimo<br />
ne’ Musei delle figurine, e dei bassirilievi di tal genere veramente bellissimi; i quali se sono stati<br />
fatti dagli artefici Romani, non potrà dirsi, che questi fossero ignoranti delle belle arti 111 .<br />
Il fatto che i Romani si fossero serviti della terracotta in mancanza di altri materiali fu<br />
evidenziato da Piranesi come un altro dei <strong>lo</strong>ro meriti: «Questa penuria di marmi [...] fu sopportata<br />
di buona voglia dagl’Italiani, e fu quella che diede fomento all’industria de’ Toscani, ed alla frugalità<br />
de’ Romani» 112 . Era, così, agevole criticare la preziosità eccessiva dei marmi greci, anche col sostegno<br />
dei classici 113 , e disapprovare la diffusione del lusso verificatasi a Roma dopo la sottomissione<br />
della Grecia e il gusto per le opere marmoree ad essa conseguente: «In quanto ai marmi sappiamo,<br />
che se ne invaghirono, e sappiamo altresì, che si accrebbe in <strong>lo</strong>ro la voglia di raccorre le statue<br />
da tutte le bande» 114 .<br />
Elemento ricorrente, in questo periodo di nuovo classicismo, era stata la critica costante<br />
del barocco e del rococò; Bernini in particolare fu additato come caposcuola di un movimento<br />
che portò alla corruzione dell’arte da quasi tutti i teorici neoclassici, che pure ne riconoscevano<br />
l’abilità e l’ingegnosità 115 . In particolare, all’artista veniva contestato di essersi al<strong>lo</strong>ntanato dal<strong>lo</strong><br />
studio delle opere dell’antichità e di aver guardato unicamente la natura, con tutto ciò che poteva<br />
esservi di imperfetto. Tale era stata l’opinione di Mengs, che paragonava l’artista ad un’ape che traeva<br />
il nettare in piccole dosi da tanti fiori diversi per poi produrre il miele 116 . Al<strong>lo</strong> stesso modo<br />
avrebbe pensato Falconet, che indicò l’arte greca come esempio del bel<strong>lo</strong> ideale, ottenuto tramite<br />
la combinazione di diverse parti, ognuna delle quali eccellente 117 ; Winckelmann sottolineò in<br />
termini ancora più incisivi il va<strong>lo</strong>re esemplare delle sculture antiche 118 .<br />
111 Ibid.<br />
112 Ibid.<br />
113 «Catone, parlando al popo<strong>lo</strong>, ebbe ragione di dolersi, che M. Marcel<strong>lo</strong>, avendo preso Siracusa, ne portasse via le<br />
statue Greche: e se ne dolse in tal modo, come se egli vedesse dentro di Roma le insegne de’ nemici: ‘Crediatemi, disse, che<br />
il trasporto fatto delle statue di Siracusa, è una disgrazia per questa Città’. <strong>Di</strong>poi, adirato contra co<strong>lo</strong>ro del popo<strong>lo</strong>, i quali<br />
sembravano essere allettati dalle opere dei greci, così segue a dire: ‘Quindi è avvenuto, che già se ne sentono pur troppi <strong>lo</strong>dare, e<br />
ammirare gli ornamenti di Corinto, e d’Atene, e ridersi degli antefissi di terra cotta de’ Dei de’ Romani’». Ibid.<br />
114 Ibid., p. 12. Maurizio Calvesi ha definto quel<strong>lo</strong> di Piranesi <strong>lo</strong> stile del ricorso storico, in opposizione al «neo-classicismo»<br />
winckelmanniano, «idea composita del bel<strong>lo</strong> ideale» e restaurazione del classico. M. Calvesi, Introduzione, in H. FOCILLON, Piranesi,<br />
a cura di M. Calvesi, A. Monferini, Alfa, Bo<strong>lo</strong>gna 1963, p. XXI.<br />
115 «Uomo di grande ingegno e spirito, che mai però conobbe la grazia, neppure in sogno»: è, questa, una delle tante definizioni<br />
con cui Winckelmann descrisse Bernini, nei suoi Brevi studi sull’arte antica..., p. 72.<br />
116 Cfr. A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 33.<br />
117 Cfr. E.M. FALCONET, Quelques idées sur le beau dans l’art, in ID., Oeuvres..., vol. II, p. 142. Questo concetto di bel<strong>lo</strong> è di chiaro<br />
stampo neoclassico; d’altra parte Falconet conosceva Plinio, del quale tradusse i libri della Naturalis Historia che riguardavano le<br />
arti figurative. Lo scultore, tra l’altro, dichiarò espressamente che si trattava di opinioni generate dalla lettura di Plinio.<br />
118 J.J. WINCKELMANN, Pensieri sull’imitazione..., p. 38: «È noto che il grande Bernini fu di quelli che contestarono sia la<br />
maggiore bellezza della natura dei Greci, sia la bellezza ideale delle <strong>lo</strong>ro figure. Fu anche dell’opinione che la natura sapesse dare<br />
ad ogni sua parte la bellezza che le conviene; l’arte consisterebbe nel saperla trovare. Egli si vantò d’essersi liberato da un<br />
pregiudizio a cui in principio, affascinato dalla grazia della Venere medicea, era stato soggetto, pregiudizio di cui però, dopo<br />
faticoso e replicato studio della natura, aveva potuto scoprire l’inconsistenza. La Venere, dunque, gli insegnò a trovare le bellezze<br />
nella natura, che prima egli credeva di trovare soltanto in lei e che senza di lei nella natura non avrebbe ricercate. Non segue da<br />
ciò che la bellezza delle statue greche può essere scoperta prima che la bellezza della natura, e che pertanto quella commuove<br />
maggiormente e non è dispersa come questa, ma più concentrata? Quindi, a chi vorrà raggiungere la conoscenza del bel<strong>lo</strong> perfetto,<br />
<strong>lo</strong> studio della natura sarà per <strong>lo</strong> meno più lungo e più faticoso che non <strong>lo</strong> sia quel<strong>lo</strong> dell’antico; e il Bernini non avrebbe insegnato<br />
la via più breve ai giovani artisti additando quale bel<strong>lo</strong> supremo il bel<strong>lo</strong> che si trova nella natura».<br />
53
54<br />
Roberta Cinà<br />
Le statue, in particolare, per essere belle<br />
dovevano essere semplici come quelle dell’antica<br />
Grecia, prive di eccessi di qualunque genere.<br />
È interessante la conclusione di un’epistola che<br />
l’abate Barthélemy scrisse nel 1756 da Roma al<br />
Conte di Caylus, in cui questi principi sono<br />
perfettamente sintetizzati:<br />
L’ame d’un ecrivain est comme une statue;<br />
Elle n’est belle que par la simplicité<br />
Les perles, les rubis que l’on lui substitue<br />
Sont un ornement emprunté<br />
Qui demasque la pauvreté<br />
De l’artiste qui s’evertue 119 .<br />
La semplicità, dunque, era segno di abilità<br />
da parte dell’artista, mentre al contrario l’eccesso<br />
di ornamenti e particolari erano da criticare e<br />
certamente non provavano il va<strong>lo</strong>re dell’autore.<br />
Il concetto, naturalmente, fu esposto anche da<br />
Winckelmann: «All’inutile farragine, in uno<br />
scritto, di citazioni prese da libri spesso mai letti,<br />
corrisponde, in un quadro, l’esecuzione di molti piccoli ed insignificanti particolari. Se consideri<br />
questo, non stupirai più delle foglie d’al<strong>lo</strong>ro della Dafne del Bernini» 120 .<br />
Ancora una volta, il più grande rappresentante della scultura italiana del Seicento veniva<br />
citato come esempio negativo ma, a proposito dell’Apol<strong>lo</strong> e Dafne, è interessante citare un passo<br />
di Richardson. L’autore, alquanto più equilibrato, che trattasse di opere antiche o moderne,<br />
giungeva a ritenere la Dafne bella quanto la Venere de’ Medici, cogliendo in modo folgorante il<br />
fascino della patina:<br />
Je ne doute pas, que la couleur de la Vénus dé Médicis n’atire la vue, plus qu’on ne se<br />
l’imagine; et il est sûr, que la Daphné de Bernin, dans la Ville Borghese, fraperoit encore plus<br />
qu’elle ne fait à present, si elle avoit reçu la même couleur, par la suite du tems; car il est certain,<br />
que, par raport au nombre et à la qualité de ses Beautés, elle ne cède en rien à aucune autre<br />
Statue d’Italie, tant Ancienne que moderne 121 .<br />
119 In R. ASSUNTO, Antichità... , p. 21.<br />
120 J.J. WINCKELMANN, Brevi studi..., p. 55.<br />
121 J. RICHARDSON, Description de <strong>Di</strong>vers fameux Tableaux..., p. 224.<br />
Gian Lorenzo Bernini, Apol<strong>lo</strong> e Dafne, Roma, Galleria<br />
Borghese, in http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini_Apol<strong>lo</strong>_Dafne.jpg,<br />
2010-04-22.
122 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 74.<br />
123 E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture..., p. 14.<br />
124 Ibid., pp. 5 e 6.<br />
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Ancora in ambito inglese va ricordata la posizione,<br />
ugualmente equilibrata, di Hogarth:<br />
...noi abbiamo fino ad ora ricorso principalmente<br />
all’opere degli antichi, non perché i moderni non ne abbiano<br />
prodotte dell’egualmente eccellenti, ma perché quelle de’<br />
primi si conoscon generalmente più; né vorrei che si credesse,<br />
che alcuno di essi fossero ancora arrivati alla somma bellezza<br />
della natura. Chi, se non sia un bacchettone, anche dell’antiche,<br />
dirà di non aver veduto volti, e colli, mani, e braccia nelle<br />
donne viventi, di cui anche la Greca Venere non è che una<br />
cattiva copia? E qual ragione sufficiente può darsi perché non<br />
s’abbia a poter dir l’istesso del resto del corpo? 122 .<br />
A proposito della semplicità nelle forme, altri due<br />
artisti barocchi, Borromini e Meissonnier, furono invece<br />
chiamati in causa da Falconet come «des exemples dangereux,<br />
parce-que le meme esprit qui conduit l’architecte, conduit<br />
aussi le peintre et le sculpteur. L’artiste, dont les moyens sont<br />
simples, est à decouvert; il s’expose à etre jugé d’autant plus<br />
aisément, qu’il n’emp<strong>lo</strong>ie aucun vain prestige pour échapper à l’examen, et souvent masquer<br />
ainsi sa non valeur» 123 Venere de’ Medici, Firenze, Uffizi.<br />
.<br />
Falconet ribadiva questi concetti anche a proposito della scultura:<br />
La sculpture est sourtout ennemie de ces attitudes forcées, que la nature désavoue, et<br />
que quelques artistes ont emp<strong>lo</strong>yées sans nécessité, seulement pour montrer qu’ils savoient se<br />
jouer du dessein. Elle l’est également de ces draperies dont toute la richesse est dans les<br />
ornements superflus d’un bizarre arrangement de plis. Enfin, elle est ennemie des contrastes<br />
trop recherchés dans la composition, ainsi que dans la distribution affectée des ombres et des<br />
lumieres [...]. Plus les efforts que l’on fait pour nous émouvoir sont à découvert, moins nous<br />
sommes émus. D’ou il faut conclure que moins l’artiste emp<strong>lo</strong>ie de moyens à produire un effet,<br />
plus il a de mérite à le produire, et plus le spectateur se livre vo<strong>lo</strong>ntiers à l’impression qu’on a<br />
voulu faire sur lui. C’est par la simplicité de ces moyens que les chef-d’œuvres de la Grece ont<br />
été créés, comme pour servir éternellement de modeles aux artistes 124 .<br />
Tali principi, che così <strong>bene</strong> si adattavano ai canoni dell’arte neoclassica, non corrispondevano<br />
però ai parametri stilistici di Falconet scultore, la cui espressività risentiva ancora di forme<br />
55
56<br />
Roberta Cinà<br />
barocche. Non per nulla infatti Cicognara, esponente di un Neoclassicismo decisamente rigoroso,<br />
fu spesso piuttosto aspro nei confronti dell’artista francese e stigmatizzò la sua ampia produzione<br />
di scritti polemici in termini forse irriverenti: «se gli altri non parlarono molto di lui e delle sue<br />
opere, ne parlò tanto egli stesso con una continuazione di controversie, libelli, lettere, che<br />
attestano l’agitazione non interrotta del suo spirito» 125 .<br />
D’altra parte, Falconet era colpevole di ben altri torti agli occhi Cicognara; si era<br />
pronunciato infatti più volte a favore dei moderni artisti, sminuendo il va<strong>lo</strong>re degli antichi 126 .<br />
Al paragrafo Bas-relief, che faceva parte delle sue Réflexions sur la sculpture, egli aveva infatti<br />
mostrato di preferire i bassorilievi dei suoi contemporanei a quelli classici 127 :<br />
Nous qui vraisemblablement avons porté notre peinture audelà de celle des anciens<br />
pour l’intelligence du clairobscur, de la magie de la couleur, de la grande machine, et des refforts<br />
de la composition, n’oserions-nous prendre le meme effor dans la sculpture? Bernin, le Gros,<br />
Alegarde, Melchior Caffa, Ange<strong>lo</strong>-Rossi, nous ont montré qu’il appartient au génie d’étendre le<br />
cercle trop étroit que les anciens ont tracé dans leurs bas-reliefs. Ces grands artistes modernes<br />
se sont affranchis avec succès d’une autorité qui n’est recevable qu’autant qu’elle est raisonnable.<br />
Je n’introduis donc aucune nouveauté, puisque je m’appuie sur des exemples qui ont un succès<br />
décidé. Après tout, si mon opinion sur le bas-relief étoit une innovation; comme elle tendroit à<br />
une plus juste imitation des objets naturels, son utilité la rendroit nécessaire. Je ne veux laisser<br />
aucune équivoque sur le jugement que je porte des bas-reliefs antiques. J’y trouve, ainsi que dans<br />
les belles statues, la grande maniere dans chaque objet particulier, et la plus noble simplicité<br />
dans la composition. Mais quelque noble que soit cette composition, elle ne tend en aucune<br />
sorte à l’illusion d’un tableau; et le bas-relief y doit toujours prétendre, puisque cette illusion<br />
n’est autre chose que l’imitation des objets naturels 128 .<br />
Le regole di composizione dei bassorilievi, dunque, erano le stesse di quelle dei quadri 129 .<br />
Inoltre, il bassorilievo era ritenuto la parte della scultura che provava le sue ana<strong>lo</strong>gie con la<br />
pittura: «Enfin je le répete, cette partie de la sculpture est la preuve la moins équivoque de<br />
l’ana<strong>lo</strong>gie qui est entre elle et la peinture. Si l’on vou<strong>lo</strong>it rompre ce lien, ce seroit dégrader la<br />
sculpture, et la resteindre uniquement aux statues, tandis que la nature lui offre, comme à la<br />
peinture, des tableaux» 130 .<br />
Cicognara avrebbe trovato incomprensibile la critica mossa agli antichi, superati dai moderni<br />
anche nella pittura, oltre che nel bassorilievo 131 , e la contestò: «L’analisi e i confronti delle opere di<br />
125 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. VI, p. 320.<br />
126 Occorre, comunque, puntualizzare che Cicognara non riteneva che l’antico dovesse essere imitato pedissequamente<br />
anzi voleva sottolineare la sua capacità di scegliere criticamente i propri modelli, «senza idolatrare ogni sasso perché coperto<br />
dalla patina dell’antichità». Ibid., vol. III, p. 293.<br />
127 Cfr. E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture. Bas-relief....<br />
128 Ibid., p. 29.<br />
129 A questo proposito <strong>lo</strong> scultore citava l’«ordre» pubblicato da Anguier (M. Anguier, Conference manuscrite du 9 juillet 1673,<br />
sur l’ordre que le sculpteur doit tenir pour faire les basreliefs se<strong>lo</strong>n les antiques). Anguier fu citato da Dandré-Bardon, che nel Cata<strong>lo</strong>gue des Sculpteurs<br />
ne e<strong>lo</strong>giò alcuni bassorilievi. Cfr. M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 184.<br />
130 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 37.<br />
131 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. III, p. 488: «Intende egli di provare che si possa ottenere buon successo scostandosi<br />
arditamente da ciò che gli antichi hanno fatto, specialmente in basso rilievo, per ottenere un buon effetto pittoresco; ma<br />
per citare gli esempi di questo, che non può dirsi se non libertinaggio dell’arte, i suoi esempi sono Le Gros, Algardi, Bernini [...] i<br />
quali, a dire di quest’impetuoso scrittore, hanno dilatato la periferia troppo angusta che gli antichi avevano tracciata nei <strong>lo</strong>ro<br />
bassi rilievi, ed hanno scosso il giogo di un’autorità che non può rispettarsi se non quando è ragionevole».
questi artisti [tra cui Bernini e Algardi] ci farà<br />
vedere la fallacia di queste dottrine, e a suo luogo<br />
ci farà vedere per quali vie e per quali cause si sia<br />
deviato dai buoni principj, e le arti abbiano<br />
sofferto più da un tale prestigio d’innovazione e<br />
di moda, che da un’irruzione di barbari» 132 .<br />
Non che egli non riconoscesse delle doti a<br />
Falconet; riteneva, però, che avrebbe dovuto<br />
limitarsi a scrivere opere di stampo erudito e, a<br />
questo proposito, ne e<strong>lo</strong>giò la traduzione di<br />
Plinio. Giudicò invece discutibile la produzione<br />
scultorea dell’artista francese - «La bizzarria<br />
soleva accompagnare le sue produzioni, sulle<br />
quali non consultava che se medesimo» 133 - e ne<br />
criticò l’opera forse più famosa, la statua equestre<br />
di Pietro il Grande, ritenendo impossibile<br />
trovarvi bellezza, poiché l’autore aveva<br />
disdegnato l’antico 134 .<br />
Cicognara dep<strong>lo</strong>rò inoltre che egli<br />
avesse sminuito il caval<strong>lo</strong> del Marco Aurelio 135<br />
e le opere di altri artisti dell’antichità 136 .<br />
Tra l’altro, ciò che Falconet biasimava nell’antico<br />
era proprio quel<strong>lo</strong> che, come si è visto, i<br />
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Étienne Maurice Falconet, Pietro il Grande, San Pietroburgo,<br />
in http://fr.wikipedia.org/wiki/Fichier:PierreLeGrandParFalconet.JPG,<br />
2010-04-22.<br />
grandi teorici del Neoclassicismo maggiormente apprezzavano, cioè l’apparente negligenza<br />
nella resa dei particolari naturalistici. Chiaramente, per quanto possa essere interessante porre<br />
a confronto alcuni brani di Falconet e Cicognara, non è possibile valutare i due autori<br />
secondo uno stesso criterio; tra essi intercorre infatti un divario che non è soltanto crono<strong>lo</strong>gico<br />
ma anche culturale. I <strong>lo</strong>ro scritti, inoltre, nacquero in contesti diversi e soprattutto per diversi fini.<br />
Se le Réflexions di Falconet erano frutto delle considerazioni di un addetto ai lavori che<br />
scriveva criticamente sulla propria arte, la Storia della scultura di Cicognara, alla cui stesura<br />
contribuì con apporti rilevanti Pietro Giordani 137 , univa alle istanze storico-artistiche una<br />
132 Ibid.<br />
133 Ibid., vol. VI, p. 320.<br />
134 Ibid., vol. VI, p. 422. L’opera era già stata criticata dal barone Bilistein (C.L.A. de Bilistein, Position de la statue de Pierre<br />
le Grand, 1761), cui Falconet rispose. Cfr. E.M. FALCONET, Projet d’une staute equestre, in Œuvres d’Étienne Falconet Statuaire,<br />
Société Tipographique, Lausanne 1781, vol. I, pp. 55-64.<br />
135 Cfr. ID., Observations sur la statue de Marc-Aurele, in ID., Oeuvres completes....A proposito del caval<strong>lo</strong> di Marco Aurelio anche<br />
Dandré-Bardon aveva espresso qualche riserva: «montons au Capitole, considérons-y avec Bernin le Cheval de Marc-Aurele! peutêtre<br />
serons-nous tentés de demander à ce Coursier s’il a oublié qu’il étoit en vie». M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 18.<br />
136 Cfr. L. CICOGNARA. Storia della scultura..., vol. VI, p. 322.<br />
137 Sui rapporti tra Cicognara e Giordani e la collaborazione di quest’ultimo alla Storia della scultura, cfr. F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia<br />
del bel<strong>lo</strong>..., cap. IV.<br />
57
58<br />
Roberta Cinà<br />
rivendicazione nazionalistica 138 . La scelta specifica di trattare della scultura era infatti motivata<br />
dal ruo<strong>lo</strong> trainante da essa rivestito nel processo di rinascita delle arti 139 , anche se Cicognara<br />
sottolineò di essere stato spinto da ulteriori considerazioni, innanzitutto giudicando la scultura,<br />
fra le arti, quella che aveva prodotto i monumenti più durevoli «sia delle virtù che delle debolezze<br />
degli uomini» 140 ; in secondo luogo per la migliore riproducibilità, e quindi fruibilità, dei manufatti<br />
scultorei, e infine per «l’italianità» 141 : «io mi propongo di esporre tutto ciò che risguarda il<br />
progresso dell’arte ove ha principalmente sfoggiato, e dove si osserva un corso di vicende non<br />
interrotto, [...] divagando ben poco da quanto si è operato in Italia per non al<strong>lo</strong>ntanarmi<br />
appunto dalla sorgente più pura onde trarre le cognizioni più esatte» 142 . Se la pittura del suo<br />
tempo avrebbe potuto trovare rappresentanti eccellenti anche fuori d’Italia, «la Scultura è<br />
singolarmente nostra. È nostra perché primi e soli la resuscitammo [...] e all’età nostra donarono<br />
i cieli un Canova» 143 , il quale avrebbe fatto rinascere l’arte dopo la corruzione dell’epoca barocca.<br />
Il fi<strong>lo</strong>ellenismo winckelmanniano dell’autore giustifica le critiche implacabili a Bernini e,<br />
come si è già visto, a Falconet, non so<strong>lo</strong> come scultore ma anche in quanto esponente di teorie<br />
estetiche in contrasto con le sue. Cicognara, peraltro, evitò di fare menzione degli eventuali punti<br />
di contatto con il pensiero del<strong>lo</strong> scultore francese, che in realtà non mancavano: basti pensare<br />
alla funzione esemplare che Falconet aveva attribuito agli antichi 144 .<br />
Ancora, il discernimento nella scelta delle opere antiche da imitare era ritenuto<br />
indispensabile da Falconet, ma anche Cicognara teneva ad evidenziare una certa criticità nel<br />
proprio rapporto con l’antico. Un’altra affinità con il pensiero di Falconet è riscontrabile a<br />
proposito del ruo<strong>lo</strong> storico ed educativo attribuito alla scultura, un motivo piuttosto diffuso e<br />
avvertito da diversi intellettuali 145 .<br />
Lo si riscontra, ad esempio, in <strong>Di</strong>derot: «Tout morceau de sculpture ou de peinture doit<br />
être l’expression d’une grande maxime, une leçon pour le spectateur; sans quoi il est muet» 146 .<br />
138 I precedenti testi che trattavano di opere prevalentemente italiane erano a firma di autori stranieri, secondo Giordani<br />
«con molta <strong>lo</strong>de <strong>lo</strong>ro, e non poco di nostra vergogna». In particolare, Winckelmann aveva trattato dell’antichità e D’Agincourt del<br />
medioevo; Giordani asseriva che «rimaneva l’estremo periodo, nel quale sì copiosa e sì bella è la materia; e la materia per la più<br />
parte, e la g<strong>lo</strong>ria in tutto è nostra: perciò degnamente venne in cuore ad un Italiano che non si dovesse abbandonare ad altri».<br />
In F. BOLOGNA, La coscienza storica dell’arte in Italia, Utet, Torino 1982, p. 168.<br />
139 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. I, p. 22: «Da essa...mossero le altre arti cui <strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong> segnò le prime orme che<br />
si erano quasi interamente perdute».<br />
140 Frase peraltro ricalcata esattamente dalle Refléxions di Falconet, cfr. infra.<br />
141 F. FEDI, L’ideo<strong>lo</strong>gia del bel<strong>lo</strong>..., p. 147.<br />
142 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. I, pp. 15-17.<br />
143 Ibid., pp. 6, 7.<br />
144 Falconet, tra l’altro, suggeriva <strong>lo</strong> studio non soltanto delle opere d’arte dell’antichità, ma anche delle produzioni<br />
letterarie: «Non seulement les belles statues de l’antiquité seront notre aliment, mais encore toutes les productions du<br />
génie, quelles qu’elles soient. La lecture d’Homere, ce peintre sublime, élevera l’ame de l’artiste, lui imprimera si fortement<br />
l’image de la grandeur et de la majesté, que la plupart des objets qui l’environnent lui paroîtront considérablement diminués».<br />
E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 4.<br />
145 Pietro Giordani, ad esempio, avrebbe affermato che, nell’antica Grecia, gli uomini saggi mandavano i <strong>lo</strong>ro figli negli<br />
studi di pittori e scultori perché imparassero la virtù tramite la visione di esempi illustri, come i Tirannicidi. Le statue<br />
in particolare sopravvivevano alla rovina delle città ed erano quindi moniti più duraturi. Cfr. P. GIORDANI, Della più degna<br />
e durevole g<strong>lo</strong>ria della pittura e della scultura <strong>Di</strong>scorso all’Accademia di belle Arti in Bo<strong>lo</strong>gna 26 giugno 1806, in Orazioni <strong>Di</strong>scorsi e Scritti di<br />
Critica di Pietro Giordani, P.P., Napoli 1836, pp. 1-31.<br />
146 D. DIDEROT, Pensée Détachées..., p. 83.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
E ancora, a proposito dell’effetto inverso, diseducativo che la rappresentazione di un soggetto<br />
licenzioso avrebbe potuto esercitare: «Un tableau, une statue licencieuse est peut-être plus<br />
dangereuse qu’un mauvais livre; la première de ces imitations est plus voisine de la chose» 147 .<br />
Anche il conte di Caylus esprimeva concetti simili a proposito degli scopi morali delle arti<br />
e, dopo aver diffusamente esposto le ragioni per cui l’arte espleta la sua funzione educativa<br />
attraverso esempi moralmente eccelsi o biasimevoli, spiegò che tali esempi andavano cercati<br />
nell’antichità, che avrebbe conferito <strong>lo</strong>ro un’aura di maggiore autorevolezza 148 .<br />
Falconet, che non mancò di rilevare questi stessi motivi 149 , riprendendo un argomento<br />
già presente nell’ambito del Paragone cinquecentesco 150 , definiva la scultura «après l’histoire, [...]<br />
le dépôt le plus durable des vertus des hommes», frase questa poi riscritta puntualmente da<br />
Cicognara, che non riportò la sua fonte, probabilmente l’Encic<strong>lo</strong>pédie 151 .<br />
È d’altra parte possibile notare, in Falconet, una certa autonomia di giudizio, se non un<br />
dissenso vero e proprio, nei confronti delle opinioni di molti suoi contemporanei e tali divergenze<br />
riguardano la visione dell’antichità. Egli contestò non soltanto i pareri di eruditi suoi coevi ma<br />
anche quelli di personalità di spicco nei secoli precedenti. È il caso dell’entusiasmo di Pietro da<br />
Cortona per il caval<strong>lo</strong> del Marco Aurelio, entusiasmo che, si è già detto, Falconet non condivise:<br />
147 Ibid., p. 86.<br />
148 CAYLUS, Réflexions..., pp. 179 e 180 : «Un [...] objet plus digne de ces essences divines est celui de transmettre à la<br />
postérité les grands exemples de morale et d’héroisme. Les hommes veritablement sages et véritablement héros, n’ont peut-être<br />
pas besoin d’ être encouragés par les récompenses honorables que les Arts distribuent; mais ceux qui leur ont succédé ont été<br />
conduits et échauffés par ce pavement de leurs bonnes actions; ainsi l’on peut dire que les monuments de l’Antiquité ont étè<br />
souvent la fource des plus grandes vertus; car il est constant que les exemples vivans ou trop voisins ne font pas sur les hommes<br />
la même impression que les ouvrages de sculpture anciennement élevés à la vertu et à la g<strong>lo</strong>ire: ceux-ci ne présentent que l’exemple<br />
isolé et dégagé de tous les dèfauts qui pouvoient les obscourcir; les autres, c’est à dire, les modèles vivans ou trop voisins, perdent<br />
leur éclat, et leur valeur est diminuée par l’amour-propre des hommes, qui n’aiment point à être surpassés par leurs contemporains,<br />
et qui reçoivent les impressions personnelles, les idèes nationales, enfin tous les préjugés qui font naître des préventions dont<br />
l’esprit se garantit avec peine. Consequemment à ces idées, les Arts doivent puiser dans l’Antiquité les exemples nécessaires à la<br />
foiblesse humaine».<br />
149 E.M. FALCONET, Refléxions..., pp. 2 e 3 : «La sculpture, après l’histoire, est le dépôt le plus durable des vertus des hommes<br />
et de leurs foibelsses. Si nous avons dans la statue de Vénus l’objet d’un culte imbécille et dissolu, nous avons dans celle de Marc-<br />
Aurele un monument célebre des hommages rendus à un bienfaiteur de l’humanité. Cet art, en nous monstrant les vices déifiés,<br />
rend encore plus frappantes les horreurs que nous transmet l’histoire; tandis que d’un autre côté les traits prècieux qui nous restent<br />
de ces hommes rares, qui auroient dû vivre autant que leurs statues, raniment en nous ce sentiment d’une noble émulation qui<br />
porte l’ame aux vertus qui les ont préservés de l’oubli [...] le but le plus digne de la sculpture, en l’envisageant du côté moral, est<br />
donc de perpétuer la mémoire des hommes illustres, et de donner des modeles de vertus d’autant plus efficaces, que ceux<br />
qui les pratiquoient ne peuvent plus être les objets de l’envie. Nous avons le portrait de Socrate, et nous le vénérons. Qui sait<br />
si nous aurions le courage d’aimer Socrate vivant parmi nous?». A proposito della funzione educativa delle arti, Falconet<br />
proseguiva rimarcando che, anche nei casi in cui le opere di scultura avessero avuto una funzione semplicemente decorativa, con la<br />
<strong>lo</strong>ro bellezza avrebbero potuto condurre l’animo del<strong>lo</strong> spettatore al <strong>bene</strong> e quindi adempiere comunque ad una funzione nobile.<br />
150 Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 477. Secondo Falconet, inoltre, <strong>lo</strong> scultore era obbligato a produrre opere di<br />
qualità proprio a causa della perennità delle sculture, per cui i posteri avrebbero potuto avere di che <strong>lo</strong>dare o biasimare. Inoltre,<br />
dato il lungo tempo necessario per portare a termine l’opera, il risultato finale doveva essere più che valido, tanto più che il<br />
materiale impiegato per le sculture era di gran lunga più pregiato della tela del pittore. Cfr. E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 3.<br />
151 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. I, p. 22. Anche questo era per Cicognara motivo per trattare di scultura: pochi,<br />
infatti, ne avevano scritto e ciò avrebbe potuto comportare il rischio che se ne perdesse la storia. Quanto alla frase sopra<br />
riportata, la cui evidente corrispondenza alle parole di Falconet è troppo aderente per essere casuale, Cicognara non menziona<br />
l’eventuale citazione. Nella prefazione della sua opera, comunque, egli aveva premesso che avrebbe citato pensieri altrui spesso<br />
senza riportarne l’autore.<br />
59
60<br />
Roberta Cinà<br />
Qu’importe le petit mot de Pierre de Cortone, tant<br />
répété et jamais apprecié? Il dit un jour à ce cheval antique:<br />
Avant donc; ne sais-tu pas que tu es vivant? Pierre de<br />
Cortone a-t-il dit ce mot? Et quand il l’eût dit, un instant<br />
d’enthousiasme du plus habile homme que ce soit est-il une<br />
autorité suffisante pour nous fermer les yeux, sur-tout<br />
quand l’ouvrage existe, et qu’il contredit l’é<strong>lo</strong>ge? 152 .<br />
Passi come questo evidenziano, più che contestazione<br />
delle opinioni correnti, vo<strong>lo</strong>ntà di affermare e, quasi,<br />
rivendicare autonomia nei giudizi, perché questi potessero<br />
essere obiettivi e non condizionati dal preconcetto<br />
dell’indiscutibile superiorità degli antichi.<br />
Il dibattito avrebbe trovato in Francia un terreno<br />
particolarmente fertile, essendo ancora attuali, nella prima<br />
metà del Settecento, i temi relativi alla Querelle des Anciens<br />
et des Modernes 153 .<br />
Rivendicazione di autonomia da parte dei moderni.<br />
Marco Aurelio, Roma, Musei Capitolini, foto<br />
di Federico Giammusso in http://feblues.b<strong>lo</strong>gspot.com/2007/05/in-viaggio-per-litalia-romapart-2.html,<br />
2010-04-26.<br />
Una posizione ferma nel riconoscere il va<strong>lo</strong>re dei moderni, ma espressa in termini forse<br />
meno polemici rispetto a quelli di Falconet, sarebbe stata assunta dal pittore e accademico<br />
francese Dandrè-Bardon il quale, peraltro consapevole del fatto che la sua opinione non era<br />
generalmente condivisa 154 , affermava che gli antichi avevano portato la scultura al massimo livel<strong>lo</strong><br />
in alcuni settori, ma che in altri campi i moderni, grazie anche all’acquisizione di nuove cognizioni,<br />
erano stati superiori:<br />
Quand on recherche avec soin les différens progrès de la Sculpture dans les deux<br />
principales Epoques, dont l’une embrasse les Anciens depuis Alexandre le Grand jusqu’au Bas-<br />
Empire, et l’autre les Modernes qui l’ont rétablie vers la fin du XVI e siécle jusqu’à nos jours, on<br />
apperçoit sensiblement, que les premiers ont porté diverses parties de cet Art au plus haut degré<br />
d’excellence, quoiqu’ils en ayent négligé quelques autres, et que les seconds y ont ayouté<br />
plusieurs découvertes qui avoient, pour ainsi dire, été inconnues avant eux 155 .<br />
152 E.M. FALCONET, Observations sur la statue..., p. 54.<br />
153 C. PERRAULT, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde les Arts et les Sciences, Paris 1688-1697.<br />
154 M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 2: «Ces observations peuvent, à quelques égards, être utiles aux<br />
personnes qui n’ont pas assez de lumieres ni d’impartialité pour évaluer les beautés et la négligence qui se trouvent quelquefois<br />
en contraste dans les ouvrages des grands Maîtres».<br />
155 Ibid.
Altre pecche che Dandrè-Bardon riscontrava<br />
nelle opere antiche, oltre la già ricordata negligenza<br />
per i particolari anatomici, era l’uso a suo dire<br />
poco sapiente di luci e ombre nei gruppi scultorei,<br />
come ad esempio il Toro Farnese 156 . Circa la<br />
rappresentazione degli animali, si è già ricordato il<br />
suo scarso entusiasmo per il caval<strong>lo</strong> del Marco Aurelio.<br />
Egli riconosceva agli antichi il merito di essere<br />
stati insuperabili nell’imitazione della natura:<br />
«Osons le dire: ils ont retracé les figures humaines<br />
avec cette noblesse respectable que l’Homme reçut<br />
des mains du Createur» 157 . Riteneva, però, che i<br />
moderni avessero prodotto gruppi scultorei migliori<br />
e trovava qualcosa da eccepire persino sul Laocoonte;<br />
rispolverando l’ormai trito principio del decor, trovava<br />
infatti poco appropriato che un sacerdote fosse ritratto<br />
senza vestiti, ma trovava una spiegazione nella<br />
vo<strong>lo</strong>ntà degli artisti di ritrarre, più che il personaggio,<br />
la sofferenza dell’uomo 158 .<br />
Per Richardson, il fatto che Laocoonte fosse<br />
stato ritratto privo di abiti, pur essendo in certo<br />
qual modo in contraddizione rispetto al ruo<strong>lo</strong> sociale<br />
rivestito dal personaggio, era una licenza funzionale<br />
alla bellezza della statua, che altrimenti non sarebbe<br />
risultata un simile capolavoro:<br />
156 Ibid., p. 10.<br />
157 Ibid., p. 5.<br />
158 Cfr. ibid., p. 7.<br />
159 J. RICHARDSON, Description de <strong>Di</strong>vers Fameux Tableaux..., p. 517.<br />
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Toro Farnese, in Rimembranze storiche e artistiche della città di<br />
Napoli pubblicate per cura di Domenico Del Re, Napoli 1846,<br />
in http://books.google.it/books?id=EvwqAAAAYAAJ &pg=PA<br />
67&dq=%22toro+farnese%22&lr=&cd=4#v=onepage&q=%22t<br />
oro%20farnese%22&f=false, 2010-04-28.<br />
Je finirais mes Observations sur le Laocoon, par remarquer la nécessité qu’il y a<br />
quelquefois de hasarder des impropriétes visibles. Si le gens de ce tems-là avoient pensé comme<br />
ceux d’aujourd’hui, les mauvais Critiques n’auroient pas manqué de triomfer de ces Artistes,<br />
sur ce qu’ils ont representé un Prêtre tout nud, justement dans le tems qu’il va sacrifier.<br />
Cependant, il est facile de voir, que si l’on s’étoit arrêté à un inconvénient que l’on n’a pas<br />
manqué de prévoir, au-lieu de la Pièce la plus belle qu’il y ait Monde, en fait de Sculpture, nous<br />
n’en aurions en aucune 159 .<br />
61
62<br />
Roberta Cinà<br />
Lessing, che ana<strong>lo</strong>gamente a <strong>Di</strong>derot, e negli stessi anni 160 , giudicava la rappresentazione<br />
delle carni più bella di quella di qualunque tipo di stoffa, a tal proposito si espresse quasi<br />
polemicamente verso i critici d’arte:<br />
La scultura, essi dicono, non può imitare le stoffe; le grosse pieghe fanno un brutto<br />
effetto; dunque tra due mali si è scelto il minore, e si è preferito peccare contro la verità stessa,<br />
piuttosto che doversi esporre a critiche per le vesti. Se gli antichi artisti avrebbero riso<br />
dell’obiezione, non so neppure cosa avrebbero potuto dire della replica. Non si può avvilire l’arte<br />
più di così. Perché, ammesso che la scultura avesse potuto imitare le diverse stoffe altrettanto<br />
<strong>bene</strong> della pittura, il Laocoonte dovrebbe per questo essere necessariamente vestito? Con<br />
questo vestito non perderemmo nulla? Un drappo, opera di mani schiave, è altrettanto bel<strong>lo</strong> di<br />
un corpo organizzato, opera della Saggezza eterna? 161 .<br />
L’argomento del nudo nelle statue antiche e, più generalmente, in scultura, fu molto<br />
dibattuto e strettamente correlato a quel<strong>lo</strong> dei drappeggi. Si può dire che quel<strong>lo</strong> del panneggio<br />
fu un tema che, ripreso anche questo dal Paragone cinquecentesco, quasi nessun autore omise<br />
di trattare. Si è già detto della disapprovazione di Winckelmann nei confronti di Bernini, cui<br />
anche contestava di abbigliare i soggetti scolpiti con stoffe pesanti, che non lasciavano intravedere<br />
il corpo, e giudicava questa scelta motivata dall’imperizia del<strong>lo</strong> scultore, che non sarebbe stato<br />
capace di raffigurare un bel corpo 162 ; le opere antiche, invece, mostravano vesti che rispondevano<br />
ai canoni della grazia 163 :<br />
La grazia nell’accidentale delle figure antiche, nell’acconciamento cioè e nelle vesti, sta,<br />
come nella figura stessa, in ciò che più s’avvicina alla natura. Nelle opere più antiche l’andamento<br />
delle pieghe al di sotto della cintura è quasi perpendicolare, come esse cadono naturalmente in<br />
un tessuto leggerissimo. Col perfezionarsi dell’arte si cercò una maggiore varietà, ma le vesti<br />
riproducevano sempre tessuti leggeri, e le pieghe non erano accumulate o sparse qua e là, ma<br />
erano riunite in masse chiuse. Erano queste le due principali regole osservate dagli antichi [...]<br />
Le vesti delle Baccanti e di figure danzanti erano più disperse e più svolazzanti, anche quando<br />
si trattava di statue [...] ma il decoro era sempre mantenuto, e le possibilità della materia non<br />
furono mai esagerate 164 .<br />
160 D. DIDEROT, Saggi sulla pittura, (1765), ed. cons. a cura di M. Modica, <strong>Palermo</strong> 1991, p. 93: «Le figure nude non ci disturbano<br />
affatto, anche se appartengono a un seco<strong>lo</strong>, a un popo<strong>lo</strong> o a una scena in cui c’è l’uso di vestirsi. La carne è più bella della stoffa<br />
più bella. Il corpo dell’uomo, le braccia, le spalle, il suo petto sono più belli di tutte le stoffe che possano ricoprirli, così come <strong>lo</strong><br />
sono i piedi, le mani, il seno di una donna, e la <strong>lo</strong>ro esecuzione è cosa ancor più sapiente e difficile [...] ‘Graeca res est nihil velare’:<br />
questa era l’usanza dei greci, nostri maestri in tutte le belle arti».<br />
161 G.E. LESSING, Laocoonte..., p. 46.<br />
162 J.J. WINCKELMANN, Brevi studi sull’arte..., p. 71: «nelle opere d’arte moderne sembra che dopo i tempi di Raffael<strong>lo</strong> e dei<br />
suoi migliori discepoli non si sia pensato che la grazia possa estendersi anche alle vesti, perché invece delle leggere si sono scelte<br />
quelle pesanti che possono considerarsi un drappo che copra l’incapacità di fare il bel<strong>lo</strong>. Perché le pieghe pesanti dispensano l’artista<br />
dall’indicare le forme del corpo sotto le vesti, come cercavano di fare gli antichi, e spesso la figura sembrava fatta soltanto per reggere<br />
il drappo. Il Bernini e Pietro da Cortona sono stati d’esempio ai <strong>lo</strong>ro successori negli abbigliamenti ampi e pesanti.<br />
Noi ci vestiamo di stoffe leggere, ma le figure della nostra arte non godono del<strong>lo</strong> stesso vantaggio».<br />
163 Sulla grazia nell’abbigliamento, Winckelmann scriveva: «La grazia si estende all’abbigliamento, perché fin dall’origine<br />
essa e le sue sorelle erano vestite; e la grazia del vestirsi si forma quasi da sé nella nostra mente, quando c’immaginiamo come<br />
vorremmo che le Grazie andassero vestite. Non desidereremmo vederle in abiti di gala, ma come una donna bella da noi amata,<br />
in veste leggera, poco dopo alzatasi dal letto». Ibid., p. 71.<br />
164 Ibid., p. 70.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Anche Mengs asseriva che gli antichi avevano posto attenzione alla raffigurazione del<br />
corpo 165 e, a proposito della rappresentazione delle vesti, rimarcava come esse fossero volte a non<br />
nascondere il nudo: «gli antichi avevano riguardato i panneggiamenti non come una cosa principale,<br />
ma come accidentale [...] avevano rivestito, ma non nascosto il nudo delle figure» 166 .<br />
Che i panneggi lasciassero intravedere il corpo era, secondo Cicognara, l’obiettivo della<br />
scultura. Egli dedicava all’argomento il quinto capito<strong>lo</strong> del suo primo volume della Storia della scultura,<br />
intitolato «Oggetti rappresentati dal<strong>lo</strong> scultore. Umane forme ignude e forme vestite», e scriveva:<br />
In ogni tempo la scultura si è proposta per model<strong>lo</strong> o la natura nel<strong>lo</strong> stato della sua nuda<br />
semplicità, o la natura ornata da quegli accessorj caratteristici che esprimono le costumanze o<br />
i riti civili o religiosi [...] in una parola la natura vestita. Nel primo caso l’artista dovette<br />
consultare la più difficil parte, sublimare i suoi concetti fra le bellezze della natura sparse sui<br />
molteplici oggetti, e creare un nuovo bel<strong>lo</strong> scevro delle imperfezioni che nascono dalle cause<br />
seconde, detto Bel<strong>lo</strong> Ideale; e nell’altro esser dovette osservator diligente delle costumanze<br />
diverse per confermare l’applicazione di esse all’arte sua 167 .<br />
I Greci, insomma, avevano compreso che il nudo attraeva maggiormente l’occhio e, se non<br />
potevano fare a meno delle vesti, le disponevano in modo da fare intuire le forme del corpo 168 .<br />
Si è già visto che il nudo era ritenuto l’obiettivo principale del<strong>lo</strong> studio di uno scultore;<br />
Himmelmann evidenzia l’importanza centrale 169 che esso rivestì in alcune opere di Winckelmann,<br />
il quale avrebbe esercitato la sua influenza anche su Goethe, che in una lettera del 1787 scrisse:<br />
«Ed ora m’ha afferrato infine l’alfa e l’omega d’ogni cosa a noi conosciuta, la figura umana, ed<br />
io a lei dico: ‘Signore, io non ti lascio a meno che Tu non mi <strong>bene</strong>dica’» 170 . A proposito del nudo<br />
in scultura, Himmelmann riporta anche le significative parole di Canova a Napoleone, che aveva<br />
ritratto nudo: «Il linguaggio del<strong>lo</strong> scultore [...] deve essere il sublime e il nudo, e quella maniera<br />
di panneggiamento conveniente e propria a quest’arte» 171 .<br />
Il nudo, dunque, come linguaggio specifico della scultura; Richardson <strong>lo</strong> aveva asserito, per<br />
inciso, a proposito di un bassorilievo attribuito a Michelange<strong>lo</strong>: «Dans le bas-relief toutes les Figures<br />
sont nues, comme plus convenables à la Sculpture» 172 .<br />
165 A.R. MENGS, Pensieri sulla pittura..., p. 41: «Conoscevano essi che le arti sono fatte per gli uomini: che l’uomo niente ama<br />
quanto se stesso; e che perciò anche l’uomo deve essere il più degno oggetto dell’arte; onde impiegavano la più grande diligenza<br />
in questa parte della natura. Essendo l’uomo stesso più degno di quel che <strong>lo</strong> sono i suoi abiti, <strong>lo</strong> dipingevano e formavano per <strong>lo</strong><br />
più nudo, eccettuato soltanto il sesso femminile, non permettendo<strong>lo</strong> la decenza e la verecondia».<br />
166 Ibid., p. 60.<br />
167 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. I, p. 175.<br />
168 Ibid., p. 177.<br />
169 N. HIMMELMANN, Nudità ideale, in Memorie dell’Antico..., vol. II, p. 202. Sul nudo, Himmelmann prosegue citando altri passi<br />
di Goethe, che nella raffigurazione degli uomini nudi vede una purezza che li rende simili agli dei.<br />
170 Ibid., p. 203.<br />
171 Ibid., p. 205.<br />
172 J. RICHARDSON, <strong>Di</strong>scorso sulla Scienza..., p. 57.<br />
63
64<br />
Roberta Cinà<br />
Herder, poi, era convinto che una statua nuda non evocasse pensieri lussuriosi,<br />
contrariamente a quanto poteva accadere nel caso della raffigurazione di un nudo in pittura,<br />
ritenuto più conturbante poiché maggiormente evocativo anche grazie all’ausilio del co<strong>lo</strong>re 173 ;<br />
asseriva inoltre che la scultura avrebbe dovuto astenersi dal rappresentare le vesti, poiché<br />
riproduceva corpi solidi:<br />
Nella scultura i corpi non possono portare vestiti, poiché la veste nasconde, e ciò che<br />
essa copre non è più un corpo umano, ma un b<strong>lo</strong>cco in abito lungo. Una veste non è un solido,<br />
qualcosa di pieno, rotondo, che si può scolpire. L’abito e’ l’involucro del nostro corpo so<strong>lo</strong> per<br />
necessità, è quasi una nuvola che ci avvolge, un’ombra, un ve<strong>lo</strong>. […] Ora, nell’arte un abito di<br />
pietra, metal<strong>lo</strong>, legno è opprimente al massimo grado! Non è più ombra, ve<strong>lo</strong>, abito, è una<br />
roccia piena di rilievi e cavità, un ammasso penzolante. Chiudi gli occhi e tocca, sentirai la<br />
mostruosità […]. I greci […] si liberarono da guaine metalliche e mantelli di pietra, e scolpirono<br />
ciò che poteva esser<strong>lo</strong>, i bei corpi 174 .<br />
Gli antichi greci, continuava Herder, raffiguravano figure vestite soltanto nei casi in cui <strong>lo</strong><br />
imponevano motivi di decoro 175 , ma anche in quel caso trovavano la soluzione volta a soddisfare<br />
la particolare modalità di fruizione dell’opera scultorea ricorrendo all’espediente del panneggio<br />
bagnato:<br />
Possiamo in genere assumere a principio che dove l’artista greco tende alla configurazione<br />
e presentazione di un bel corpo, dove nulla di religioso o di caratteristico <strong>lo</strong> intralcia […],<br />
al<strong>lo</strong>ra egli non usava mai vestiti, ma piuttosto scopriva i corpi quanto poteva, a dispetto della<br />
consuetudine […]. Nulla può trasparire in un solido, nella scultura: essa agisce per la mano e<br />
non per gli occhi. E guarda, l’ingegno greco trovò una soluzione fatta proprio per la mano. Se il<br />
dito che tocca è ingannato, poiché tocca l’abito e il corpo al tempo stesso, il giudice estraneo,<br />
l’occhio, dovrà ubbidire. In breve, gli abiti delle sculture greche sono umidi […]. Vi era un so<strong>lo</strong><br />
modo per ingannare il dito che tocca, e l’occhio che ora tocca come un dito: dando al corpo una<br />
veste che è tale so<strong>lo</strong> per modo di dire, nuvola, ve<strong>lo</strong>, nebbia; ma no, neppure nuvola e nebbia,<br />
poiché qui non vi e’ nulla che l’occhio possa annebbiare, ma un abito umido, attraverso il quale<br />
il dito possa sentire il corpo! 176 .<br />
173 J.G. HERDER, Plastica…, p. 56:« Il nudo nelle due arti non ha nemmeno <strong>lo</strong> stesso potere di allettamento e seduzione. Una<br />
statua e’ tutta qui, sotto il cie<strong>lo</strong> libero, quasi in paradiso; riproduzione di una bella creatura di <strong>Di</strong>o, e attorno ad essa non vi e’ che<br />
innocenza. Winckelmann ha ragione […] le pure e belle forme di quest’arte possono certo suscitare amicizia, amore, linguaggio<br />
corrente, ma so<strong>lo</strong> in una bestia provocano lussuria. Non e’ cosi’ per l’incanto della pittura. Poiché essa non è rappresentazione<br />
corporea, ma so<strong>lo</strong> raffigurazione, fantasia, rappresentazione, essa apre alla fantasia un campo assai vasto, e l’attira nel suo<br />
co<strong>lo</strong>rito e profumato giardino di delizie». <strong>Di</strong>derot, al contrario di Herder, si pronunciò favorevolmente a proposito della<br />
rappresentazione del nudo in pittura: «Del resto, ‘maior e <strong>lo</strong>nginquo reverentia’: rappresentando il nudo, la scena diventa<br />
più remota e richiama alla mente un’età più semplice e innocente, usanze più selvagge, più adatte alle arti d’imitazione. Si è scontenti<br />
del tempo presente, e quel ritorno ai tempi antichi non ci dispiace [...]. In una composizione, le figure seminude sono come<br />
le foreste e le campagne messe intorno alle nostre case». D. DIDEROT, Saggi sulla pittura..., p. 93. Il passo latino citato dall’autore è<br />
di Tacito, Annales, I, 47.<br />
174 J.G. HERDER, Plastica…, pp. 51-52.<br />
175 L’autore cita l’esempio della Niobe, che l’artista ha rappresentato vestita perché voleva rappresentare il do<strong>lo</strong>re di una<br />
madre, non per fare mostra di un bel corpo. Ibid., p. 53. Come si è osservato, un concetto simile aveva esposto Dandré-Bardon a<br />
proposito del Laocoonte.<br />
176 Ibid., pp. 53-54.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Già Caylus, ritenendo appunto attraente il nudo in scultura, aveva scritto in proposito che<br />
gli antichi avevano adottato questo stratagemma per consentire la visione delle forme corporee<br />
anche in figure vestite:<br />
Les Anciens sont nos maîtres encore dans cette partie. Ce n’est point par ignorance, ni<br />
par paresse qu’ils ont fait choix de ce qu’on appelle improprement draperies mouillées, mais les<br />
habillemens qu’ils ont représentés étant composès de gazes, de toiles de coton, ou pour mieux<br />
dire, de mousselines, conservoient le nud, et faisoient sentir tous les mouvemens du corps d’une<br />
façon si agréable que l’œil en étoit toujours satisfait, et que la Nature y gagnoit à de certains<br />
égards du côté da la volupté177 .<br />
Egli era inoltre contrario alla rappresentazione di panneggi eccessivamente voluminosi,<br />
che riteneva un escamotage per gli scultori non sufficientemente abili nel realizzare un bel corpo<br />
nudo 178 ; come lui la pensava <strong>Di</strong>derot 179 .<br />
Circa quaranta anni prima, l’opinione di Richardson era stata che i panneggi ampi e con<br />
grandi e mosse pieghe fossero senz’altro adatti alle pitture, ma che in scultura fosse meglio<br />
attenersi a quel<strong>lo</strong> che avevano fatto gli antichi ; ammetteva però che spesso essi non venivano<br />
giudicati in modo del tutto imparziale 180 e concludeva:<br />
On doit observer cette regle générale, qu’il ne faut pas que le Nud se perde sous la<br />
Draperie, ni qu’il y soit trop marqué; comme cela se voit dans plusieurs Statues et Bas-reliefs Antiques;<br />
à quoi, pour le dire en passant, ces Maîtres étoient obligés, parce qu’une autre manière n’auroit<br />
pas fait un bon éfet sur la pierre. Le nud, dans une Figure vêtue, est comme l’Anatomie, dans une<br />
figure nue; il faut le faire voir, mais sans afectation 181 .<br />
177 CAYLUS, Réflexions..., pp. 188-189.<br />
178 Ibid., pp. 187-188 : «Les deux arts [pittura e scultura] doivent apporter une grande attention à la manière de traiter les<br />
draperies. On pourroit faire une <strong>lo</strong>ngue dissertation sur les abus de ce genre; mais la Sculpture exige à cet égard encore plus de<br />
soins que la Peinture. Le Bernin, dont les talens sont recommandables, leur a donné beaucoup d’ampleur et de mouvement: cette<br />
nouveauté a eu des suites très-dangereuses. Pour éviter les difficultés du nud, on s’est livré en abusant du Bernin, à l’excès des<br />
étoffes; on a oublié qu’elles doivent toujours rappeller l’idée et la forme des principales parties qu’elles recouvrent; on n’à plus pensé<br />
qu’à elles; on les a regardées comme l’objet principal: enfin d’abus en abus, on est parvenu en Italie comme en France à les traiter<br />
avec una multiplicité de gros plis et de mouvemens que la Nature n’à jamais montrés; aussi le plus souvent on les compose<br />
séparément avec curiosité, et souvent contre l’effet naturel du poids et du mouvement de la figure qu’elles habillent, ce qui n’est<br />
point étonnant, puisqu’on le pose sur le mannequin, et qu’on les ajuste à sa vo<strong>lo</strong>nté».<br />
179 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765..., in Id., Oeuvres..., vol. X, p. 421: «La principale difficulté de son imitation [<strong>Di</strong>derot allude alla<br />
scultura] consiste dans le secret d’amollir cette matière dure et froide, d’en faire de la chair douce et molle; d’exprimer<br />
les contours des membres du corps humain; de rendre chaudement et avec vérité ses veines, ses muscles, ses articulations, ses<br />
reliefs, ses méplats, ses inflexions, ses sinuosités, et qu’un bout de draperie lui épargne des mois entiers de travail et d’étude».<br />
180 J. RICHARDSON, Traité de la Peinture..., pp. 157-158: «Il semble, que les anciens Grecs et Romains aient eu en cela le meilleur<br />
goût; du moins sommes-nous si prévenus en faveur de ce qui nous vient de ces grands Hommes, par la haute idée que nous en<br />
avons, que tout nous en paroît accompagné de Noblesse et de Grace. Il faut donc, par raport à cette exellence, réelle ou<br />
imaginaire, que le Peintre choisisse cette façon de vêtir ses Figures, autant que son sujet le peut permettre. On peut enchérir<br />
là-dessus, et on doit même le faire, pourvu qu’on ne perde point de vue ce Goût d’Antique, et qu’on en conserve l’avantage de la<br />
prèvention».<br />
181 Ibid., pp. 157-158.<br />
65
66<br />
Roberta Cinà<br />
Un tentativo di imparzialità di giudizio si ha anche in Dandré-Bardon, il quale sostenne<br />
che, ai drappeggi scolpiti dagli antichi, poteva rimproverarsi soltanto la scarsa varietà 182 ; mostrò<br />
peraltro di apprezzare il panneggio bagnato, appunto perché consentiva di immaginare le forme<br />
del corpo:<br />
Envain seroit-on prévenu contre le goût de<br />
drapper des Anciens: malgré le reproche, [...] que<br />
le linge humide trop uniformément emp<strong>lo</strong>yé par-tout,<br />
pour marquer le nud avec sévérité, jette quelque maigreur<br />
dans cette partie de leur sculpture; on doit sentir combien<br />
leurs principes ètoient grands et bien raisonnés. [...] J’en<br />
appelle au vêtement de la F<strong>lo</strong>re Farnese, une des Statues<br />
que la sculpture ait plus parfaitement drappée et que<br />
l’Antique nous a transmise. [...] L’étoffe mouillée touche<br />
la chair dans les parties faillantes, elle s’en détache<br />
dans les tournans d’une maniere aisèe, pour donner du<br />
moëleux aux plis; on les voit badiner du sens des parties<br />
qu’ils environnent, les suivre, ou s’en écarter et les contraster<br />
à propos. Les masses plattes y sont en opposition avec<br />
celles qui sont riches en travaux; les parties nues avec<br />
celles qui sont habillées, et successivement celles qui sont<br />
drappées jouent avec celles qui ne le sont point. Des plis<br />
tirés du sein des masses indiquent le dénouement des<br />
parties essentielles, et par une élévation sçavamment<br />
affectée désignent les flexions des membres, leurs <strong>lo</strong>ngueurs<br />
et leurs attachemens principaux. Lorsque les<br />
Sculpteurs anciens ont donné du mouvement à une<br />
étoffe voltigeante, ils l’ont asservie à dessiner le nud 183 .<br />
F<strong>lo</strong>ra Farnese, in Real Museo Borbonico, Napoli 1824-<br />
1830, vol. II, 1825, in http://books.google.it/books?id=_fU-<br />
GAAAAQAAJ&pg=PA45&dq=f<strong>lo</strong>ra+ farnese+museo+borbo<br />
nico&cd=1#v=onepage&q&f=false<br />
Va rilevato che, secondo Dandré-Bardon, gli scultori moderni non avrebbero avuto minore<br />
merito, poiché la differente resa dei panneggi avrebbe apportato alla scultura ulteriori varianti;<br />
il fatto che non avessero riprodotto quel<strong>lo</strong> degli antichi sarebbe dipeso dai diversi gusti e non<br />
da imperizia tecnica 184 .<br />
182 M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., pp. 14-15: «Bïen de personnes prétendent que les Anciens n’ont point varié<br />
le caractere des étoffes, qu’ils ont ignoré l’art d’en ménager les oppositions et d’en rendre les divers tissus. Il est vrai que les mœurs<br />
du tems, les principes de l’Ecole semblent n’avoir rien suggeré à cet ègard aux plus habiles Sculpteurs. Mais ne connussions-nous<br />
que le Zenon du Capitole, dont le manteau largement ajustè, moëleux et à grands plis, constate le talent de cet Maîtres à drapper<br />
avec des étoffes de laine aussi-bien qu’avec des linges mouillés, ç’en est assez pour conclure qu’ils n’ont peut-être affectè de ne<br />
point emp<strong>lo</strong>yer le contraste du drap et des étoffes légeres, que parce qu’ils craignoient que l’effet qui en résulteroit, ne partageât<br />
l’admiration, se<strong>lo</strong>n eux uniquement bien accordée à la science du nud».<br />
183 Ibid.<br />
184 Ibid., p. 27 : «L’art des Drapperies n’est pas moins parfait chez eux. Le Moyse de Michel-Ange, l’Alexandre Sauli de<br />
Puget, le S. Dominique de le Gros, la Sainte Bibiane du Bernin, la Sainte Susanne du Flamand [...] dévoilent dans leurs ajustements<br />
cette marche, ce jeu, cet enchaînement de plis; ces contrastes qui paroissent plutôt l’ouvrage du hasard que l’effet d’un arrangement<br />
raisonné; cette tournure qui assortit l’étoffe au mouvement des parties du corps sans qu’elle y soit trop adhérente; cet agencement<br />
réfléchi, cette bisarrerie judicieuse qui détourne adroitement les travaux capables de contredire le nud, d’interrompre les masses<br />
et d’empêcher l’œil de parcourir tranquillement la chaîne des plis. A ces recherches les Sculpteurs des derniers siécles ont joint<br />
celles qui concernent le caractere des étoffes. Ils ont pris soin de rendre sous un ciseau varié la grossiereté ou la finesse du tissu,<br />
le matte, le lisse, ou le satiné qu’elles produisent, et de contraster à propos la laine, le lin, les brocards, le coton; les grands plis du<br />
drap, ses méplats unis et moëleux, avec les plis fins et les reluisantes cassures de la soye».
Più caustico D’Argenville: «Je demande s’il<br />
est naturel qu’un morceau d’étoffe qui doit pendre,<br />
reste collé contre un bras ou une jambe» 185 .<br />
La posizione di Falconet, anche in questo<br />
caso, era stata simile nei contenuti, ma espressa con<br />
toni forse più incisivi. In appendice alle sue Réflexions<br />
sur la sculpture egli scriveva il paragrafo Draperies, «partie<br />
aussi intéressante qu’elle est difficile», e, pur approvando<br />
l’operato degli antichi 186 , riteneva limitante per <strong>lo</strong><br />
scultore attenersi esclusivamente al <strong>lo</strong>ro modo di<br />
rappresentare i panneggi 187 , tenendo anche conto del<br />
fatto che essi avevano riprodotto, anche nelle<br />
pitture 188 , vesti consone alle <strong>lo</strong>ro usanze e al <strong>lo</strong>ro clima.<br />
Les sculpteurs grecs, affectés de la beauté du<br />
nud, drapoient avec des étoffes si fines, qu’elles<br />
paroissent mouillées, et quelquefois collées sur la peau.<br />
Leurs mœurs, leur climat, leur façon de vêtir, les étoffes<br />
dont ils s’habil<strong>lo</strong>ient, accoutumoient leurs yeux à ces<br />
objets, et formoient leur goût. [...] Mais comme la<br />
sculpture a toute la nature pour objet d’imitation, et<br />
que la nature a des beautés de plus d’une espece,<br />
pourquoi un sculpteur s’asserviroit-il à une seule<br />
maniere de draper, emp<strong>lo</strong>yée se<strong>lo</strong>n les temps, les<br />
climats et les circonstances? Les grands sculpteurs<br />
modernes, tels que [...] Puget [...] le Gros [...] et Bernin<br />
quelquefois, font voir quelles beautés les étoffes larges et<br />
jettéesdegrandemaniereproduisentdanslasculpture 189 .<br />
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Niobe, Firenze, Uffizi, in http://www.<strong>lo</strong>mbardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-LOM70-0000067/,<br />
2010-4-28. Così Falconet sui panneggi: «dans les draperies<br />
de la famille de Niobé [...] les plis, sans intelligence<br />
dans la distribution, sans vérité dans l’exécution,<br />
sont assez semblables à des cordes, des copeaux, ou des<br />
écorces insipidement arrangées».<br />
Le esigenze degli scultori moderni erano, indubbiamente, altre: «Aucun sculpteur ne doit<br />
ignorer aujourd’hui que le ciseau reussit très bien dans la variété du travail que demandent les<br />
différents étoffes» 190 . Insomma Falconet, anche in questo campo, come già a proposito dei bassorilievi,<br />
185 D. D’ARGENVILLE, <strong>Di</strong>scours..., p. XXXI.<br />
186 E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture..., p. 40 : «Les draperies qu’on appelle mouillées sont d’un très bon usage dans<br />
la sculpture, ou étant emp<strong>lo</strong>yées sans affectation, sans maigreur, se<strong>lo</strong>n le sujet et l’à-propos, elles laissent voir les mouvements<br />
du nud, en rendent les formes plus sensibles, moins embarrassées, et consèquemment plus intéressantes». L’approvazione di<br />
Falconet non è incondizionata, giudica infatti monotone le pieghe degli abiti del gruppo di Niobe. Ibid., p. 42.<br />
187 Ibid., p. 39: «Je suppose qu’un statuaire épris de la simplicité des belles draperies antiques, et révolté contre quelques<br />
bizarrerie ingénieuses du Bernin, adopte uniquement le style des plis antiques, et qu’un autre statuaire voyant tous les genres dans<br />
la nature se croie permis, comme son imitateur, de les représenter tous. Il semble que ces deux systêmes, qui paroissent<br />
s’exclure, peuvent être également avantageux à la sculpture, et que ce seroit lui préjuducier si l’un préva<strong>lo</strong>it sur l’autre».<br />
188 Ibid., p. 44: «J’ai dit aussi que les mœurs, le climat, les vêtements des Grecs, étoient la cause de leur goût de draperies<br />
serrées: il ne faut donc pas s’étonner si les draperies larges n’auroient pas toujours réussi à leurs yeux. C’est par la même raison<br />
que on en voit peu dans leur peinture: la Noce Aldobrandine, peinture ancienne, est composée et drapée précisément comme les<br />
statues et les bas-reliefs du même temps».<br />
189 Ibid., pp. 41-42. Falconet proseguiva: «Les anciens sculpteurs le font voir aussi, mais rarement: en sorte pourtant qu’on<br />
pourroit faire la critique du goût exclusif des petites draperies antiques, par des draperies larges du même temps, comme celle du<br />
Zénon au Capitole, celle de la petite F<strong>lo</strong>re du même palais, dont les plis sont ordonnés avec la chaleur des plus brillantes étoffes».<br />
190 Ibid., p. 44.<br />
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68<br />
Roberta Cinà<br />
non accettava l’idea della superiorità indiscussa<br />
degli antichi sui moderni e ribadiva la necessità<br />
che <strong>lo</strong> scultore fosse scevro da pregiudizi nel<br />
perseguire «la recherche du vrai», che «dans les<br />
arts ne connoît point d’autoritè particulière […].<br />
Qu’il ait le courage de travailler pour tous les<br />
tems et pour tous les pays» 191 . Gli esempi di<br />
opere moderne, come la Santa Teresa di Bernini,<br />
consentivano al<strong>lo</strong> scultore di affermare: «Si ces<br />
sculpteurs avoient servilement imité les anciens,<br />
et qu’ils n’eussent osé essayer quelque chose<br />
d’eux-mêmes, de combien de beautés ne serionsnous<br />
pas privés? ‘Ce qui est aujourd’hui fort<br />
ancien, fut autrefois nouveau’, pouvoient-ils dire<br />
avec Tacite, ‘et ce que nous faisons sena exemple,<br />
servira d’exemple’» 192 .<br />
Stessa frase 193 e stesso concetto in Dandré-Bardon<br />
194 , che tra l’altro, per evidenziare la<br />
pari abilità degli artisti moderni rispetto a<br />
quella degli antichi, portò come esempio la<br />
ricostruzione del braccio del Laocoonte 195 .<br />
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di Santa Teresa, Roma, Santa<br />
Maria della Vittoria, in http://commons.wikimedia.org/wiki/<br />
File:Santa_teresa_di_bernini_03.JPG, 2010-04-27.<br />
Riconoscendo ai moderni altrettanti meriti che agli antichi, la polemica per stabilire<br />
l’eccellenza degli uni o degli altri era risolta. Risolutivi risultavano anche motivi come quelli esposti<br />
da Falconet, secondo i quali ogni artista avrebbe dovuto creare le proprie opere in base al suo<br />
tempo ed alle usanze del suo paese.<br />
191 Ibid.<br />
192 Ibid., p. 44. Il passo citato da Falconet è di Tacito, Annales, 1. II, c. 24.<br />
193 «Peut-être les Anciens ont eu de leur tems le sort des Modernes. Qui est-ce qui doute qu’à cet égard les Modernes ne<br />
deviennent Anciens à leur tour?». M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 59. Questa frase di Dandré-Bardon fu aspramente<br />
criticata da L. CICOGNARA, Storia della Scultura..., vol. III, p. 489.<br />
194 Come Falconet, egli riteneva che i moderni, pur avendo ereditato dagli antichi principi indubbiamente validi,<br />
avessero arricchito la scultura con nuove cognizioni: «Il est vrai que la plûpart des connoissances de la Sculpture, qui font tant<br />
d’honneur aux Artistes de nos jours, ne leur appartiennent que par droit d’hérédité. Mais on peut dire à la g<strong>lo</strong>ire de ces dignes<br />
Légataires, que <strong>lo</strong>in d’avoir appauvri la succession de leurs premiers Ancêtres, ils l’ont enrichie de plusieurs trésors». M. DANDRÉ-<br />
BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 33.<br />
195 «Les Sculpteurs qui se sont signalés depuis la renaissance des Arts n’ont pas borné leurs talens à imiter les séduisantes<br />
vérités de l’Antique. C’est l’Antique elle-même qui en rend téimognage. C’est le Laocoon, dont le bras droit fait par Baccio Bandinelli,<br />
répond si exactement à la perfection des autres parties de la figure, qu’on le conserve en cuite jusqu’à ce qu’on trouve le bras original».<br />
Ibid., p. 32. L’autore prosegue <strong>lo</strong>dando altri restauri moderni di opere antiche, come il Fauno Barberini le cui gambe furono rifatte<br />
dal Bernini e così via. Sulla metodo<strong>lo</strong>gia dei restauri nel Settecento cfr. O. ROSSI PINELLI, Chirurgia della memoria: scultura antica e<br />
restauri storici, in Memoria dell’Antico nell’arte italiana, a cura di S. Settis, Einaudi, Torino 1986, vol. III, pp. 183-250; P. PANZA, Antichità<br />
e restauro nell’Italia del Settecento. Dal ripristino alla conservazione delle opere d’arte, Presentazione di M. Dezzi Bardeschi, Franco Angeli,<br />
Milano 1990. Cfr. inoltre La collezione Boncompagni Ludovisi. Algardi, Bernini e la fortuna dell’antico, a cura di A. Giuliano, Marsilio,<br />
Venezia 1992.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Un ulteriore passo avrebbe compiuto Schelling, dichiarando che ogni arte: «dipende in<br />
gran parte dalla sensibilità del suo tempo [...]. A epoche diverse corrisponde un diverso<br />
entusiasmo [...]. È uno sforzo inutile, voler trarre qualche scintilla dalle ceneri di ciò che è sommerso,<br />
per tentare di accendere un fuoco universale [...] non ritornerà mai più un’arte che, sotto tutti gli<br />
aspetti, sia la stessa di quella dei secoli precedenti; giacché la natura non si ripete mai» 196 .<br />
Echi del Paragone cinquecentesco<br />
Le Réflexions sur la Sculpture di Falconet, come si è detto, rappresentano uno dei testi più<br />
significativi sull’estetica della scultura nel Settecento, nonchè un primo tentativo di riflessione<br />
critica su di essa. Va notato che furono redatte da uno degli scultori più affermati del tempo 197 ,<br />
nonché scrittore piuttosto prolifico 198 , il quale, pur sottolineando, quasi in una captatio <strong>bene</strong>volentiæ<br />
nei confronti dei suoi lettori, la propria condizione di scultore e non di letterato, rivendicò in più<br />
di un’occasione il diritto di un artista di potersi pronunciare in merito alla propria arte 199 .<br />
In quanto ‘specialista’ della sua materia, Falconet rappresentava dunque un candidato<br />
ideale per redigere la voce Sculpture dell’Encyc<strong>lo</strong>pédie 200 ; è noto, oltretutto, il suo rapporto con<br />
<strong>Di</strong>derot, spiritus rector dell’opera, per il quale l’esperienza del <strong>Di</strong>zionario Ragionato costituì un’importante<br />
occasione per venire a contatto con la teoria e la pratica artistica 201 .<br />
L’artico<strong>lo</strong> di Falconet, pur dando un certo rilievo agli aspetti etici della scultura e a temi<br />
in linea con la cultura del suo tempo (le già citate critiche al Barocco, l’esemplarità degli antichi,<br />
motivi peraltro posti in apertura all’artico<strong>lo</strong>), non ne trascurava il lato più tecnico che indagava<br />
le difficoltà materiali incontrate dagli scultori nel produrre le proprie opere e, soprattutto, tendeva<br />
a rimarcare la pari dignità tra l’arte scultorea e quella pittorica, riprendendo motivi ormai noti e<br />
di cui, sia pure in nuce, cominciavano ad esistere superamenti. Gli argomenti che riguardavano<br />
il lato tecnico erano in sostanza gli stessi addotti, nel Cinquecento, dai sostenitori della scultura<br />
nell’ambito del Paragone.<br />
Molti di questi motivi non si trovarono espressi soltanto nelle Réflexions di Falconet ma<br />
anche in quelle di Caylus, nonché in alcuni scritti di <strong>Di</strong>derot; già Winckelmann, dichiarando che<br />
la scultura era nata prima della pittura, aveva in sostanza ripreso un argomento che Borghini<br />
aveva portato avanti nella disputa cinquecentesca.<br />
196 F. SCHELLING, Le arti figurative e la natura..., p. 69.<br />
197 Ricordo che egli era tra gli artisti favoriti di Madame de Pompadour, che aveva ritratto e che gli aveva procurato<br />
la nomina a direttore della manifattura di Sèvres nel periodo compreso tra il 1757 ed il 1766.<br />
198 Tradusse, tra l’altro, alcuni libri della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio ed in particolare il XXXIV, il XXXV ed il<br />
XXXVI, quelli cioè che riguardano le arti figurative. Altri scritti erano spesso risposte polemiche dell’autore a diversi intellettuali,<br />
suoi inter<strong>lo</strong>cutori nell’ambito di vari dibattiti culturali del tempo; ne ricordo Mengs e Caylus, so<strong>lo</strong> per citarne alcuni dei più significativi.<br />
199 Cfr. E.M. FALCONET, Réflexions sur la sculpture..., p. 1. In questo contesto l’autore sostiene di non avere alcuna pretesa<br />
stilistica: «Quant à la partie littéraire, le style d’un artiste n’étant d’aucun poids dans les lettres, mes fautes en ce genre ne seront<br />
point contagieuses». Cfr. inoltre ID., Observations sur la statue..., in cui prima della prefazione, l’autore riporta un passo di un’epistola<br />
di Plinio il Giovane: «ut enim de pictore, sculptore, fictore nisi artifex iudicare, ita nisi sapiens non potest perspicere sapientem»<br />
(Plin. Ep. 10. L. 1).<br />
200 Cfr. K.H. MANEGOLD, L’Encyc<strong>lo</strong>pédie di <strong>Di</strong>derot e d’Alembert, Legnano 1989, p. 256.<br />
201 Cfr. M. MODICA, Prefazione, in D. DIDEROT, Saggi sulla pittura..., p. 9; A.B. WEINSHENKER, Falconet: his writings and his friend<br />
<strong>Di</strong>derot, Genève 1966.<br />
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Roberta Cinà<br />
Ritornava, dunque, il confronto tra scultura e pittura. Falconet affrontava l’argomento<br />
relativo alle difficoltà particolari a ciascuna arte e alla minore varietà di soggetti che la scultura<br />
poteva rappresentare 202 : «La sculpture embrasse moins d’objets que la peinture: mais ceux qu’elle<br />
se propose, et qui sont communs aux deux arts, sont les plus difficiles à répresenter; savoir,<br />
l’expression, la science des contours, l’art difficile de draper et de distinguer les différents especes<br />
d’étoffes» 203 . Il fatto che la scultura potesse trattare una più limitata gamma di soggetti, rispetto<br />
alla pittura, fu rimarcato nel 1765 anche da <strong>Di</strong>derot, che non mancava di rilevare il carattere di<br />
maggiore solennità della ‘severa, grave e casta scultura’:<br />
On peint tout ce qu’on veut. La sévère, grave et chaste sculpture choisit [...]. Elle est sérieuse,<br />
même quand elle badine [...]. La sculpture ne souffre ni le bouffon, ni le burlesque, ni le plaisant,<br />
rarement même le comique. Le marbre ne rit pas [...]. Elle est voluptueuse, mais jamais ordurière.<br />
Elle garde encore dans la volupté je ne sais quoi de recherché, de rare, d’exquis, qui m’annonce<br />
que son travail est <strong>lo</strong>ng, pènible, difficile; et que, s’il est permis de prendre le pinceau pour<br />
attacher à la toile une idée frivole qu’on peut créer en un instant et effacer d’un souffle, il n’en<br />
est pas ainsi du ciseau, qui, déposant la pensèe de l’artiste sur une matiére dure, rebelle, et d’une<br />
éternelle durèe, doit avoir fait un choix réfléchi, original et peu commun. Le crayon est plus<br />
libertin que le pinceau, et le pinceau plus libertine que le ciseau [...]. C’est une muse violente,<br />
mais silencieuse et cachée 204 .<br />
Ancora dal cinquecentesco Paragone derivavano altri temi, come quel<strong>lo</strong> delle particolari<br />
difficoltà di esecuzione delle sculture. Falconet riprese, ad esempio, l’argomento degli infiniti<br />
punti di vista di una statua, problema riconosciuto, per la verità, da più voci, non necessariamente<br />
di parte; il pittore Dandrè-Bardon 205 , il conte di Caylus, sostennero infatti ana<strong>lo</strong>ghi principi.<br />
Caylus, in particolare, scrisse che <strong>lo</strong> scultore, oltre a dovere risolvere i problemi della staticità e<br />
dei sostegni da inserire nella sua opera, doveva far sì che l’equilibrio tanto cercato rispondesse<br />
ad esigenze non soltanto statiche ma anche estetiche. per giunta, da diversi punti di vista:<br />
«La Sculpture est obligée de trouver une position heureuse de tous les sens, et quiconque n’a pas<br />
réfléchi sur cette difficulté, ne conçoit pas la quantité de soins, et de recherches nécessaires pour<br />
trouver le balancement juste et agréable pour toutes les parties, pour tous les points de vuë.<br />
On ne doit point oublier que la Peinture ne travaille que pour un seul aspect» 206 .<br />
Falconet fu, come sempre, piuttosto incisivo: «La sculpture a des difficultés qui lui sont<br />
particulieres. 1°. Un sculpteur n’est dispensé d’aucune partie de son étude à la faveur des<br />
ombres, des fuyans, des tournants et des raccourcis. 2°. S’il a bien composé et bien rendu une<br />
202 Nel Cinquecento Leonardo aveva elencato come, soggetti che la scultura non poteva rappresentare, le nebbie, le<br />
piogge, la polvere. Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 484. Questo argomento era stato esposto anche da Vasari. Ibid., p. 496.<br />
203 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 6.<br />
204 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765, in Id., Oeuvres..., vol. X, p. 420.<br />
205 Dandré-Bardon raccomandava che <strong>lo</strong> scultore esaminasse attentamente l’opera, nel corso del suo farsi, da diversi<br />
punti di vista: «Il consultera son ouvrage, tantôt de profil, tantôt de trois quarts, tantôt de face, pour voir s’il produit de toutes<br />
les vues des effets conformes à ceux du Naturel». M. DANDRÈ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 80.<br />
206 CAYLUS, Réflexions..., p. 182.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
vue de son ouvrage, il n’a satisfait qu’à une partie de son opèration, puisque cet ouvrage a<br />
autant de points de vue qu’il y a de points dans l’espace qui l’environne» 207 .<br />
Gli infiniti punti di vista delle statue, dovuti alla <strong>lo</strong>ro tridimensionalità, condizionavano anche<br />
le luci e le ombre 208 che avrebbero influito sulla resa dell’opera e, dunque, costituivano un ulteriore<br />
motivo di accurata valutazione da parte del<strong>lo</strong> scultore, compito dal quale il pittore era dispensato.<br />
Riprendendo un tema già presente in Leonardo 209 , Falconet - d’accordo con Caylus, delle cui<br />
Réflexions riportava un brano - citò questo argomento tra le difficoltà particolari alla scultura 210 .<br />
Ancora come Leonardo, come è noto uno dei più accesi sostenitori della pittura ante<br />
Paragonem, Falconet sottolineò come al<strong>lo</strong> scultore fosse necessaria una notevole tenacia, poiché<br />
la fatica fisica del suo operare avrebbe potuto far<strong>lo</strong> disamorare della propria arte 211 :<br />
Un sculpteur doit avoir l’imagination aussi forte qu’un peintre, je ne dis pas aussi abondante.<br />
Il lui faut de plus une ténacité dans le génie, qui le mette au-dessus du dégoût que lui occasionne<br />
le méchanisme, la fatigue et la lenteur de ses opérations. Le génie ne s’acquiert point, il se<br />
déve<strong>lo</strong>ppe, s’étend et se fortifie par l’exercice. Un sculpteur exerce le sien moins souvent qu’un<br />
peintre: difficulté de plus, puisque dans un ouvrage de sculpture il doit y avoir du génie, comme<br />
dans un ouvrage de peinture 212 .<br />
Lo scultore, rispetto al pittore, era dunque svantaggiato a causa della difficoltà materiale<br />
del suo lavoro; gli occorreva maggiore tenacia e costanza per svolgere fino in fondo il suo compito<br />
e non perdere, negli anni, in semplicità e freschezza. <strong>Di</strong>derot, nel commento al Sa<strong>lo</strong>n del 1765,<br />
scrisse di un col<strong>lo</strong>quio tra lui e Falconet su questo argomento:<br />
207 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 6. Così, nell’ambito del Paragone cinquecentesco, era stato per Cellini, uno dei pochissimi<br />
difensori della scultura: «la scultura infra tutte l’arte che s’interviene disegno è maggiore sette volte, perché una statua<br />
di scultura de’ avere otto vedute, e conviene che le sieno tutte di egual bontà». In P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 519.<br />
208 Lo studio attento di luci ed ombre era raccomandato da M. DANDRÈ-BARDON, Essay sur la Sculpture…, p. 80.<br />
209 A proposito del ruo<strong>lo</strong> della luce in pittura ed in scultura, Leonardo evidenziava come un merito della pittura il<br />
fatto che essa portasse con sé luce ed ombra, mentre la scultura, svantaggiata, era condizionata dalla luce esterna ad essa.<br />
Cfr. LEONARDO DA VINCI, Il paragone delle arti... .<br />
210 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 19: «si le peintre a tracé des lignes justes, établi des ombres et des lumieres à propos, un<br />
aspect ou un jour différent ne lui ravira pas entièrement le fruit de son intelligence et de ses soins. Mais dans un ouvrage de sculpture,<br />
composé pour produire des lumieres et des ombres harmonieuses, faites venir de la droite le jour qui venait de la gauche, ou d’en<br />
bas celui qui venoit d’en haut; vous ne trouverez plus d’effets, ou il n’y en aura que de désagréables, si l’artiste n’à pas su en<br />
ménager pour les différents jours. Souvent aussi, en voulant accorder toutes les vues de son ouvrage, le sculpteur risque de vraies<br />
beautés pour ne trouver qu’un accord médiocre. Heureux si ses soins pénibles ne le refroidissent point, et ne l’empêchent pas de<br />
pervenir à la perfection dans cette partie! Pour donner plus de jour à cette réflexion, j’en rapporterai une de M. le comte de Caylus.<br />
[Il brano che segue è tratto da Caylus, Réflexions…, p. 184]. ‘La peinture, dit-il, choisit celui des trois jours qui peuvent éclairer une<br />
surface. La sculpture est à l’abri du choix, elle les a tous: et cette abondance n’est pour elle qu’une multiplicité d’études et d’embarras;<br />
car elle est obligée de condiderér et de penser toutes les parties de sa figure, et de les travailler en conséquence; c’est elle-même,<br />
en quelque façon, qui s’éclaire; c’est sa composition qui lui donne ses jours, et qui distribue ses lumieres. A cet égard, le<br />
sculpteur est plus créateur que le peintre; mais cette vanité n’est satisfaite qu’aux dépens de beaucoup de réflexions et de fatigues’».<br />
211 Leonardo, però, sosteneva che la pittura era soggetta ad una maggiore fatica mentale. A tal proposito Bronzino<br />
aggiungeva che, se la scultura era maggiormente faticosa, ciò era anzi un suo demerito. <strong>Di</strong> parere opposto Francesco Sangal<strong>lo</strong>, che<br />
riteneva la fatica motivo di nobiltà e a tal proposito citava alcuni versi di Dante. Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 509.<br />
212 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 8.<br />
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Roberta Cinà<br />
Un jour que Falconet me montrait les morceaux des jeunes élèves en sculpture...et qu’il<br />
me voyait étonné de la vigueur d’expression et de caractère, de la grandeur et de la noblesse de<br />
ces ouvrages sortis de dessous les mains d’enfants de dix-neuf à vingt ans: ‘Attendez-les dans dix<br />
ans d’ici, me dit-il, et je vous promets qu’ils ne sauront plus rien de cela’. C’est que les sculpteurs<br />
ont besoin plus <strong>lo</strong>ngtemps encore du modèle que les peintres; et que, soit paresse, soit avarice<br />
ou pauvreté, les uns et les autres ne l’appellent plus passé quarante-cinq ans. C’est que la sculpture<br />
exige une simplicité, une naïveté, une rusticité de verve, qu’on ne conserve guère au delà d’un certain<br />
âge: et voilà la raison pour laquelle les sculpteurs dégénèrent plus vite que les peintres, à moins<br />
que cette rusticité ne leur soit naturelle et de caractère. Pigalle est bourru; Falconet l’est encore<br />
davantage. Ils feront bien jusqu’à la fin de leur vie. Le Moyne est poli, doux, maniéré, honnête;<br />
il est et il restera médiocre 213 .<br />
Ancora in ambito francese fu presa in esame un’altra difficoltà peculiare all’arte scultorea,<br />
quale la composizione dei gruppi, di cui scrissero sia Caylus 214 che Falconet, entrambi rilevando<br />
come la pittura poteva affascinare <strong>lo</strong> spettatore con la composizione delle figure, la varietà dei<br />
co<strong>lo</strong>ri, i fondali, l’effetto generale. La scultura, al contrario, doveva essere maggiormente incisiva<br />
avendo - per utilizzare i termini di Falconet - una sola parola da dire:<br />
L’ouvrage du sculpteur n’étant le plus souvent composé que d’une seule figure, dans<br />
laquelle il ne lui est possible de réunir les différents causes qui produisent l’intérêt dans un<br />
tableau, on doit exiger de lui, non seulement l’intérêt qui résulte du tout ensemble, mais encore<br />
celui de chaucune des parties de cet ensemble. La peinture, indépendamment de la variété des<br />
couleurs, intéresse par les différents grouppes, les attributs, les ornements, les expressions de<br />
plusieurs personnages qui concourent au sujet; elle intéresse par les fonds, par le lieu de la scene,<br />
par l’effet général: en un mot, elle en impose par la totalitè. Mais le sculpteur n’a le plus souvent<br />
qu’un mot à dire; il faut que ce mot soit énergique 215 .<br />
Un altro topos della letteratura artistica cinquecentesca, quel<strong>lo</strong> dell’impossibilità del<br />
‘pentimento’ in scultura 216 , fu un motivo ricorrente nel XVIII seco<strong>lo</strong>; Dandré-Bardon trattò<br />
l’argomento nel suo Essai: «Les opérations du ciseau sont pour l’ordinaire dépendantes de mille<br />
points de justesse auxquels, quand on les a outre-passés, on ne sçauroit revenir sans des<br />
compensations embarrassantes et quelquefois impossibles» 217 .<br />
213 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765..., p. 423.<br />
214 CAYLUS, Réflexions..., pp. 180-181: «Elle [la scultura] ne peut exprimer que des figures tenant si bien à la terre, qu’elle<br />
est obligée de recourir presque toujours à des appuis capables de soutenir les jambes, et de les mettre en état de résister à la<br />
pesanteur du corps; ce que je dis à cette occasion ne regarde que les figures seules, et que la Sculpture traite le plus ordinairement.<br />
Il est vrai qu’elle présente aussi des groupes; mais en général le nombre des figures dont ils sont composés, est très-borné; car il<br />
est rare de trouver, comme Pline en décrit quelques-uns, plus étendus encore que celui de <strong>Di</strong>rcé, que nous appel<strong>lo</strong>ns le Taureau<br />
Farnèse, ou semblables aux bains d’Apol<strong>lo</strong>n que l’on voit à Versailles».<br />
215 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 9.<br />
216 Leonardo a tal proposito affermava che l’impossibilità di correggere i propri errori era un argomento che andava non<br />
a favore della scultura ma semmai contro l’imperizia dell’artefice. Bronzino, pur avendo preannunciato il proposito di<br />
mantenersi imparziale, asseriva che questa era una effettiva difficoltà per <strong>lo</strong> scultore so<strong>lo</strong> se questi non era sufficientemente valido.<br />
Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I, p. 499.<br />
217 M. DANDRÉ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 73.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Caylus non mancava di notare che questo aspetto costituiva un ulteriore vantaggio per il<br />
pittore, libero di riprendere e modificare la propria opera a suo piacimento. Scriveva infatti: «si<br />
le Peintre s’apperçoit de quelqu’erreur, ou de quelque degré de perfection qu’il peut ajouter, il<br />
est le maïtre d’effacer, de refaire, et de retoucher: le sculpteur au contraire est privé de cet avantage,<br />
il ne peut revenir sur lui-même, des l’instant que son marbre est degrossi» 218 . Sostanzialmente<br />
ana<strong>lo</strong>ga la posizione di D’Argenville 219 .<br />
Non poteva mancare la voce di Falconet 220 , che da addetto ai lavori aveva illustrato l’utilità<br />
di un model<strong>lo</strong> dell’opera da porsi sul sito in cui la scultura avrebbe dovuto essere col<strong>lo</strong>cata 221 , in<br />
modo che l’artista potesse rendersi conto degli effetti della luce e della resa finale della propria<br />
scultura. Ciò non sarebbe comunque stato sufficiente per evitare al<strong>lo</strong> scultore gli effetti irreversibili<br />
di alcuni momenti di deconcentrazione nel corso del proprio operare:<br />
Le modele bien arrêté, je suppose au sculpteur un instant d’assoupissement ou de délire.<br />
S’il travaille a<strong>lo</strong>rs, je lui vois estropier quelque partie importante de sa figure, en croyant suivre<br />
et même perfectionner son modele. Le lendemain, la tête en meilleur état, il reconnoît le désordre<br />
de la veille sans y pouvoir remédier. Heureux avantage de la peinture! Elle n’est point assujettie<br />
à cette <strong>lo</strong>i rigoreuse. Le peintre change, corrige, refait à son gré sur la toile; au pis aller, il<br />
la réimprime, ou il en prend une autre. Le sculpteur peut-il ainsi disposer du marbre? S’il fal<strong>lo</strong>it<br />
qu’il recommençât son ouvrage, la perte du temps, les fatigues et les dépenses pourroient-elles<br />
se comparer avec celles du peintre? 222 .<br />
Uno dei punti veramente nodali nell’ambito della letteratura artistica cinquecentesca era<br />
stato comunque il problema del co<strong>lo</strong>re: Leonardo, Borghini ed altri avevano asserito che la pittura<br />
era superiore alla scultura anche in base a questo elemento 223 , che fu indicato come una<br />
delle sue maggiori attrattive.<br />
Caylus, come si è già ricordato, individuava nell’assenza del co<strong>lo</strong>re una delle cause per le<br />
quali la scultura era più difficilmente apprezzabile rispetto alla pittura 224 e ne incolpava il pubblico,<br />
la cui ‘pigrizia’ era in certo qual modo assecondata dai numerosi mezzi con cui la pittura<br />
poteva facilmente allettar<strong>lo</strong>: «le Sculpteur ayant moins de secours, paroît avoir plus de mérite,<br />
218<br />
CAYLUS, Réflexions..., p. 183.<br />
219 D. D’ARGENVILLE, <strong>Di</strong>scours..., p. XXI: «La peinture [...] jouit de l’avantage d’effacer et de corriger ses défauts. Les fautes<br />
de sa rivale, au contraire, sont irrèparables».<br />
220 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 17 : «Parmi les difficultés de la sculpture, il en est une sort connue, et qui mérite les plus<br />
grandes attentions de l’artiste; c’est l’impossibilité de revenir sur lui-même <strong>lo</strong>rsque son marbre est dégrossi, et d’y faire quelque<br />
changement essentiel dans la composition ou dans quelqu’une de ses parties: raison bien forte pour l’obliger à réfoudre son modele,<br />
et à l’arrêter de maniere qu’il puisse conduire sûrement les opérations du marbre».<br />
221 L’importanza del model<strong>lo</strong> dell’opera e della sua col<strong>lo</strong>cazione sul sito definitivo fu rilevata anche da M. DANDRÉ-BAR-<br />
DON, Essai sur la sculpture..., p. 64.<br />
222 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 18.<br />
223 Cfr. P. BAROCCHI, Scritti d’arte..., tomo I.<br />
224 «La Peinture posséde de grands moyens pour se faire lire; le secours des deux perspectives, <strong>lo</strong>cale et aërienne, la multiplicité<br />
des plans, la convenance dans le site, la facilité des accessoires, l’instant de tous les mouvements, toutes les positions<br />
réelles et immaginaires; enfin la couleur des objets». CAYLUS, Réflexions..., p. 180.<br />
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Roberta Cinà<br />
quand il arrête et qu’il ètonne le spectateur, pour lui faire sentir toute la grandeur d’une action;<br />
mais aussi [...] le spectateur a besoin d’un plus grand nombre de lumières pour le juger, et que<br />
par conséquent la Peinture, plus à la portée de tous les hommes et flattant davantage leur paresse,<br />
doit avoir plus d’amis et plus de partisans» 225 .<br />
Falconet, rilevando anch’egli che la scultura era priva del<strong>lo</strong> «charme séduisant de la couleur» 226 ,<br />
avrebbe introdotto un argomento che mostrava i segni di un superamento dell’ottica, ormai<br />
secolare, del Paragone: si trattava dell’aiuto che la scultura avrebbe potuto trarre dall’eventuale<br />
impiego del co<strong>lo</strong>re.<br />
Richardson aveva scritto che in alcuni periodi dell’antichità era stato uso comune quel<strong>lo</strong><br />
di dorare le statue e a proposito della Venere de’ Medici osservava: «Ses cheveux sont devenus<br />
bruns, parce qu’ils ont été dorés autrefois, comme cela étoit sort commun chez les Anciens.<br />
Ils avoient même introduit la mode de dorer les plus belles Statues, par-tout; et cette mode a duré<br />
quelque tems» 227 .<br />
Contro le sculture policrome si levò, nel Settecento, un coro pressoché unanime. Dandré-Bardon,<br />
che nel suo Essai sur la sculpture intendeva fornire dei precetti agli scultori e sconsigliava la<br />
realizzazione di sculture co<strong>lo</strong>rate, definite una «bizarrerie monstrueuse», così scriveva: «A ne<br />
réfléchir que sur le physique et sur le pittoresque de la plûpart des associations de cette espéce,<br />
pratiquées par les Anciens dans leurs sculptures, on doit convenir qu’ils avoient perdu, dans ces<br />
tems, le stile simple, noble et majestueux qui caractérise leurs beaux ouvrages, pour se livrer à<br />
des détails et à des enrichissemens puériles et minucieux» 228 .<br />
Anche secondo Herder le statue non andavano dipinte, «Poiché il co<strong>lo</strong>re non è forma, e<br />
quindi non è riconoscibile ad occhi chiusi e al senso del tatto, o, se <strong>lo</strong> è, crea ostaco<strong>lo</strong> alla forma<br />
bella. Esso è granel<strong>lo</strong> di sabbia, vernice, ricrescita estranea che ci resiste e distrae dal puro<br />
sentire di ciò che la natura dovrebbe essere» 229 .<br />
Falconet aveva ritenuto le sculture co<strong>lo</strong>rate un ‘assemblaggio’ rovinoso, sia che si<br />
trattasse di statue dipinte, sia che esse fossero invece costituite da materiali policromi:<br />
Ce n’est pas que de très habiles sculpteurs n’aient emprunté le secours dont la peinture<br />
tire avantage par le co<strong>lo</strong>ris; Rome et Paris en fournissent des exemples. Sans doute que des<br />
matériaux de diverses couleurs, emp<strong>lo</strong>yés avec intelligence, produiroient quelques effets<br />
pittoresques: mais distribués sans harmonie, cet assemblage rend la sculpture désagrèable et<br />
même choquante. Le brillant de la dorature, le rencontre brusque des couleurs discordantes de<br />
différents marbres, éb<strong>lo</strong>uira l’œil d’une populace toujours subjugée par le clinquant, et l’homme<br />
de goût sera révolté. Le plus certain seroit de n’emp<strong>lo</strong>yer l’or, le bronze, et les différents marbres,<br />
qu’à titre de décoration, et de ne pas ôter à la sculpture proprement dite son vrai caractere, pour<br />
ne lui en donner qu’un faux, ou pour le moins toujours équivoque 230 .<br />
225 Ibid., p. 193.<br />
226 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 9.<br />
227 J. RICHARDSON, Description…, p. 97.<br />
228 M. DANDRÈ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 92.<br />
229 J.G. HERDER, Plastica..., p. 57.<br />
230 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 10.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Le statue dipinte o realizzate in diversi materiali policromi non sarebbero quindi risultate<br />
gradevoli ed il <strong>lo</strong>ro carattere vistoso sarebbe stato apprezzabile soltanto dalla plebaglia, ma<br />
l’uomo di gusto ne sarebbe stato disgustato. È interessante esaminare il prosieguo del discorso:<br />
Falconet infatti tratta dei limiti ai quali ogni forma artistica deve attenersi e specifica che ogni arte<br />
ha i propri mezzi per l’imitazione della natura: «Ainsi, en demeurant dans les bornes qui lui sont<br />
prescrites, la sculpture ne perdra aucun de ses avantages; ce qui lui arriveroit certainement, si elle<br />
vou<strong>lo</strong>it emp<strong>lo</strong>yer tous ceux de la peinture. Chaucun de ces arts a ses moyens d’imitation;<br />
la couleur n’en est point un pour la sculpture» 231 .<br />
Che il co<strong>lo</strong>re dovesse rimanere estraneo alle opere di scultura era anche opinione di Caylus:<br />
On croit assez généralement que les couleurs vrayes placées sur un ouvrage de sculpture<br />
doivent produire la plus parfaite imitation: cet usage pratiquè dans les tems barbares de l’Antiquité,<br />
s’est conservé dans toute l’Europe jusqu’au renouvellement des Arts; on voit même encore<br />
dans nos Villages plusieurs Statuës de SS. exactement barbouillées de differentes couleurs: les<br />
sens grossiers de nos Paysans sont frappés de cet alliage, et c’est le seul parti qu’on puisse<br />
en retirer, car je puis assurer que quand Apelles et Lysippe auroient réuni leurs talens sur la<br />
même Statuë, ils n’auroient rien produit d’agréable, ni de satisfaisant [...]. La couleur placée sur<br />
une Statuë ne produit, ni ne présente aucun passage: les détails de la figure deviennent fixes, et<br />
immobiles 232 .<br />
Sfavorevole alla fusione di tecniche appartenenti a forme artistiche differenti era anche<br />
<strong>Di</strong>derot, che nei Pensées Détachées sur la Peinture, la Sculpture et l’Architecture scrisse alcune brevi<br />
osservazioni a tal proposito: «Ces yeux d’émail 233 , ces cheveux dorés et tous ces riches ornements<br />
des statues anciennes me paraissent une invention de prêtres sans goût; invention qui est<br />
sortie des temples pour infecter la société» 234 , e, ancora: «Néron fit dorer et gâter la statue<br />
d’Alexandre. Cela ne me déplait pas; j’aime qu’un monstre soit sans goût. La richesse est<br />
231 Ibid.<br />
232 CAYLUS, Réflexions..., pp. 190-193, così proseguiva: «L’examen d’une draperie me servira de comparaison, et peut donner<br />
une idée de la maniere dont cette opération de la couleur détruit l’expression fine et délicate des passions. Je suppose cette<br />
draperie volante, le Peintre fera sentir dans son tableau, ou sa légereté, ou la force du vent, ou celle de l’action. La Draperie du même<br />
genre sera represéntée par la Sculpture beaucoup moins étenduë, mais il suffit qu’elle puisse paroïtre en l’air, dès l’instant qu’elle<br />
aura été couverte de couleur, elle deviendra <strong>lo</strong>urde, ses plis très-beaux pour la Sculpture deviendront chargés, le contour privé<br />
d’une opposition, telle que le Peintre la donne à son gré dans un tableau, deviendra de la plus grande pesanteur, ainsi que tous<br />
les details de sa masse; d’ailleurs la faillie des parties traitées en Sculpture, ne peut produire que des effets durs et cruds [...].<br />
Ainsi chaucun de ces Arts demeurant dans les bornes prescriptes par la Nature, doit s’attacher à ses avantages, et surmonter ses<br />
foiblesses par les secours quelles se prêtent l’une à l’autre. La Peinture malgré l’abondance, et la grandeur de ses moyens, cherche<br />
toujours à produire le relief, et par conséquent à imiter la Sculpture; celle-ci soumise à des matières solides, ne peut être susceptible<br />
d’accord et d’oppositions que par la variété du travail de son ciseau, et par le plus ou le moins de prononcé dans les ombres;<br />
elle ne peut tirer cet accord que d’elle-même, ou ce qui est absoulement semblable, que de la couleur unique de sa matière: pour<br />
plaire et se rendre recommandable, elle cherche la fonte et l’accord de la peinture; elles se prêtent donc mutuellement des secours,<br />
et en ce cas elles sont sœurs; mais differentes dans leurs moyens pour arriver au même but, elles ne peuvent se réunir».<br />
233 A proposito della rappresentazione degli occhi Herder sarebbe stato concorde: «Alcune statue hanno i bulbi oculari.<br />
Dove sono tollerabili, devono essere so<strong>lo</strong> accennati; buona parte di esse, e le migliori, non li hanno affatto. Essi erano un frutto<br />
del cattivo gusto degli ultimi secoli, quando la ricchezza era preferita alla bellezza e si impiegavano il vetro e l’argento [...] nelle<br />
epoche più belle i greci non usarono né abiti né co<strong>lo</strong>ri, né bulbi oculari né argento, l’arte si ergeva nuda come Venere e questo era<br />
il suo ornamento e la sua ricchezza». J.G. HERDER, Plastica..., p. 59.<br />
234 D. DIDEROT, Pensées Détachées..., p. 112.<br />
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Roberta Cinà<br />
toujours gothique» 235 . L’autore affrontava l’argomento in maniera più diffusa nel Sa<strong>lo</strong>n de 1765:<br />
Quel serait l’effet du co<strong>lo</strong>ris le plus beau et le plus vrai de la peinture sur une statue?<br />
Mauvais, je pense. 1° Il n’y aurait autour de la statue qu’un seul point où ce co<strong>lo</strong>ris serait vrai;<br />
2° il n’y a rien de si déplaisant que le contraste du vrai mis à côté du faux; et jamais la vérité de la<br />
couleur ne répondra à la verité de la chose. La chose, c’est la statue, seule, isolée, solide, prête à<br />
se mouvoir [...]. Creusez l’orbite des yeux à une statue, et remplissez-la d’un œil d’émail ou d’une<br />
pierre co<strong>lo</strong>rèe, et vous verrez si vous en supporterez l’effet. On voit même, par la plupart de leurs 236<br />
bustes, qu’ils ont mieux aimé laisser le g<strong>lo</strong>be de l’œil uni et solide que d’y tracer l’iris, et que d’y<br />
marquer la prunelle; laisser immaginer un aveugle, que de montrer un œil crevé: et, n’en déplaise<br />
à nos modernes, les Anciens me paraissent en ce point d’un goût plus sévère qu’ils ne l’ont 237 .<br />
È possibile notare dai brani sopra riportati un certa identità di vedute: le statue policrome,<br />
giustificate negli antichi come appartenenti al periodo della barbarie 238 , erano ritenute un<br />
assemblaggio sgradevole per l’uomo di gusto e che poteva abbagliare soltanto la plebaglia.<br />
‘<strong>Di</strong>morando’ nei propri limiti, la scultura non avrebbe perso alcuno dei suoi vantaggi, cosa che<br />
sarebbe certamente accaduta se avesse impiegato tutti quelli della pittura.<br />
La pittura, tra l’altro, pur avendo tanti mezzi in più rispetto alla scultura, non per questo<br />
era ritenuta facilitata; si riteneva infatti che anch’essa avesse delle difficoltà particolari, in base alle<br />
quali D’Argenville l’avrebbe ritenuta più impegnativa: «Le reffort de la Peinture est immense,<br />
puisqu’il embrasse tout ce qui est visible, et qu’au contraire celui de la Sculpture est borné» 239 .<br />
Lo stesso Falconet aveva asserito: «Autant d’objets que le peintre a de plus a représenter<br />
que le sculpteur, autant d’études particulieres» 240 .<br />
Significativa risulta la sua affermazione secondo la quale sarebbe stato un errore preferire<br />
una forma artistica all’altra a causa delle difficoltà particolari a ciascuna di esse; è importante la<br />
citazione dei versi di Ovidio in cui pittura e scultura vengono definite due sorelle, non uguali ma<br />
somiglianti tra <strong>lo</strong>ro: «Si ces arts ne son pas semblables en tout, il y a toujours la ressemblance de<br />
famille. ‘Facies non omnibus una, nec diversa tamen, qualem decet esse sororum’» 241 .<br />
235 Ibid., p. 113.<br />
236 <strong>Di</strong>derot allude alle opere degli antichi.<br />
237 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765…, p. 422.<br />
238 Non era ancora universalmente accettato, infatti, il fatto che i Greci dipingevano le <strong>lo</strong>ro statue. Assérat, curatore<br />
dell’edizione del 1876 delle opere complete di <strong>Di</strong>derot, inserì una nota a questo proposito e scrisse: «On sait aujourd’hui que les<br />
Anciens n’ont pas le moins du monde respecté ce principe, et qu’ils emp<strong>lo</strong>yaient la couleur, dans la décoration extérieure de leurs<br />
temples et dans leurs statues, avec aussi peu de scrupule que les sauvages de la Polynésie». In D. DIDEROT, Oeuvres..., vol. X, p. 423.<br />
239 D. D’ARGENVILLE, <strong>Di</strong>scours..., p. XXIII.<br />
240 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 10: «Mais si ce moyen, qui appartien proprement à la peinture, est pour elle un avantage,<br />
combien de difficultés n’a-t-elle pas qui sont entièrement étrangeres à la sculpture? Cette facilitè de produire l’illusion par<br />
le co<strong>lo</strong>ris est elle-même une très grande difficulté; la raretè de ce talent ne le prouve que trop. Autant d’objets que le peintre a de<br />
plus a représenter que le sculpteur, autant d’études particulieres. L’imitation vraie des ciels, des eaux, des paysages, des différents<br />
instants du jour, des efféts variés de la lumiere, et la <strong>lo</strong>i de n’éclairer un tableau que par un seul soleil, exigent des connoissances<br />
et des travaux nécessaires aux peintres, dont le sculpteur est entièrement dispensé. Quoiqu’il y ait des études et des travaux qui<br />
appartiennent exclusivement à chaucun des deux arts, ce seroit ne les pas connoître que de nier leurs rapports. Ce seroit un erreur<br />
si on donnoit quelque préférence à l’un aux dépens de l’autre, à cause de leurs difficultés particulieres».<br />
241 Ibid., vol. III, pag. 12. I versi citati sono di Ovidio, Metamorfosi, libro II.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Considerare pittura e scultura come sorelle non era una novità e del resto Caylus aveva già<br />
esposto questo concetto all’inizio del suo artico<strong>lo</strong>, indicando nel genio il <strong>lo</strong>ro padre comune e<br />
l’imitazione della natura come comune madre:<br />
Leur pere commune est le génie 242 , cette portion de la <strong>Di</strong>vinité impossibile à méconnoître,<br />
plus impossibile à definir, qui perce, qui produit, qui éclaire, qui crée, et ne peut être confondue<br />
avec aucune partie de l’esprit. Cet agent universel plane également sur le deux atteliers [...].<br />
L’imitation de la nature est constamment l’essence, la base, la propriété, enfin la mere commune<br />
de ces deux Arts; mais l’imitation seule ne produit que des glaces; elle n’est qu’une esclave si le<br />
génie cesse de l’accompagner [...]. La peinture et la sculpture ont un besoin égal de recevoir les<br />
secours d’un Pere et d’une Mere auxquels elles doivent l’existence 243 .<br />
Che pittura e scultura mirassero al<strong>lo</strong> stesso fine sarebbe stato enunciato anche da Dandrè-Bardon:<br />
«Ces deux Arts toujours Amis, quoique toujours Rivaux, tendant au même objet par des<br />
manœuvres différents, se tiennent par la main et se conduisent dans leur route à la lueur du<br />
même flambeau» 244 .<br />
Infine, Falconet si appellò a Vasari:<br />
j’ai vu que, sur le parallele des deux arts, mon opinion est entièrement la sienne: ‘Seb<strong>bene</strong><br />
per la diversità della essenza <strong>lo</strong>ro (della scultura e della pittura), hanno molte agevolezze; non<br />
sono elleno però né tanto, né di maniera, ch’elle non vengano giustamente contrapessate insieme:<br />
e non si conosca la passione, o la caparbietà, più tosto che il judicio, di chi vuole che l’una avanzi<br />
l’altra. La onde a ragione si può dire, che un’anima medesima regia due corpi: ed io per questo<br />
conchiudo, che male fanno co<strong>lo</strong>ro, che s’ingegnano di disunirle o di separarle l’una dall’altra’ 245 .<br />
Era così sintetizzata una sorta di conclusione del secolare dibattito; nel XVIII seco<strong>lo</strong> la<br />
scultura era ormai un’arte con una propria dignità ed il Paragone cinquecentesco, in quanto tale,<br />
aveva perso molto del suo significato, pur permanendo in esso la risposta a più moderne<br />
esigenze volte a «distinguere ed approfondire le proprietà tecniche delle arti figurative,<br />
favorendo la consapevolezza critica dei modi ed aspetti di un gusto pittorico diverso da un gusto<br />
scultoreo» 246 .<br />
242 L’importanza del genio nel farsi dell’opera d’arte fu rimarcata da <strong>Di</strong>derot, insieme a quella del sentimento.<br />
Cfr. D. DIDEROT, Saggi sulla pittura..., p. 58. L’importanza del genio nella scultura era rimarcata anche da Falconet, secondo il quale<br />
<strong>lo</strong> studio delle opere della natura da parte del<strong>lo</strong> scultore doveva essere appunto condotto da genio, gusto e ragione. Sul ruo<strong>lo</strong><br />
fondamentale del sentimento nell’opera scultorea in particolare, avrebbe poi insistito Falconet in conclusione alle Réflexions…,<br />
definendo<strong>lo</strong> il sublime della scultura. Cfr. E.M. Falconet, Réflexions..., pp. 4, 25.<br />
243<br />
CAYLUS, Réflexions..., pp. 177-178.<br />
244 M. DANDRÈ-BARDON, Essai sur la sculpture..., p. 1.<br />
245 E.M. FALCONET, Réflexions..., p. 12.<br />
246 S. LA BARBERA, Il Paragone delle Arti..., p. 131.<br />
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La tridimensionalità alla luce delle nuove teorie sulla conoscenza<br />
Uno dei motivi ricorrenti negli scritti sulla scultura nel XVIII seco<strong>lo</strong> è quel<strong>lo</strong> della sua<br />
tridimensionalità, il fatto, cioè, che le statue possono essere toccate e, tramite il tatto, conosciute.<br />
Queste idee si legano certamente ad una serie di esperienze scientifiche che videro la luce<br />
appunto all’inizio del Settecento ma già all’interno del Paragone cinquecentesco, in nuce, erano<br />
presenti alcuni argomenti legati alla tridimensionalità della scultura.<br />
Nel XVIII seco<strong>lo</strong> l’acquisizione di nuove cognizioni mediche dette impulso ad un dibattito<br />
piuttosto vivo che riguardò le modalità della conoscenza, in soggetti ciechi, tramite il tatto. Il tatto,<br />
come senso legato alla tridimensionalità dei corpi, fu argomento di discussione e di riflessione<br />
anche per gli autori che trattarono di scultura.<br />
È noto che nel 1729 il chirurgo <strong>lo</strong>ndinese William Cheselden eseguì la prima asportazione<br />
della cataratta; l’uomo che aveva riacquistato, così, la vista, nel periodo immediatamente<br />
successivo all’intervento non riconobbe immediatamente i corpi che prima aveva conosciuto<br />
mediante il tatto. L’episodio, dal campo delle discussioni mediche, divenne argomento seriamente e<br />
variamentedibattutoancheperquelledicaratterepiùsquisitamente<br />
estetico. Herder, nel 1779, riferiva l’episodio 247 in questi<br />
termini: «Egli non vedeva <strong>lo</strong> spazio, non distingueva neanche<br />
gli oggetti più diversi l’uno dall’altro: davanti a lui si ergeva,<br />
o per meglio dire su di lui posava, una grande tavola pittorica.<br />
Gli venne insegnato a distinguere, a riconoscere visivamente<br />
ciò che conosceva dal tatto, a trasformare le figure in corpi,<br />
i corpi in figure; egli apprendeva e dimenticava» 248 .<br />
Ancora piùsignificativo èil passo sulle immaginipittoriche:<br />
Noi credevamo che egli capisse subito ciò che<br />
rappresentavano i quadri che gli mostravamo, ma trovammo<br />
che ci eravamo sbagliati, poiché due mesi dopo che gli era<br />
stata tolta la cataratta egli fece improvvisamente la scoperta<br />
che essi rappresentavano corpi, elevazioni e cavità 249 . Sino<br />
ad al<strong>lo</strong>ra non li aveva considerati altro che superfici chiazzate<br />
di co<strong>lo</strong>re, ma anche così non era poco sorpreso che i dipinti<br />
non si presentassero al tatto come apparivano, che le parti<br />
che per luce ed ombra apparivano scabre e accidentate<br />
fossero al tatto levigate come le altre. Egli si chiedeva quale<br />
dei due sensi inganna: la vista o il tatto? 250 .<br />
William Ridley, WilliamCheselden, da Jonathan Richardson,<br />
in “The European Magazine and London Review”,<br />
46, 1804, in http://books.google. it/books?id=I8cP<br />
AAAAQAAJ&pg=PA81&dq=european+magaz<br />
i n e + c h e s e l d e n + w i l l i a m & e i = z a 3 Z S -<br />
rjPIPclQTw1J2fCA&cd=3#v=onepage&q=europea<br />
n%20magazine%20cheselden%20william&f=fals<br />
e, 2010-29-04.<br />
247 Già nel 1749 <strong>Di</strong>derot ne aveva scritto nella Lettera sui ciechi: la psico<strong>lo</strong>gia dei soggetti non vedenti era un argomento di<br />
moda nell’ambito della disputa tra empirismo e razionalismo.<br />
248 J.G. HERDER, Plastica..., p. 40.<br />
249 Per di più, quando «il cieco di Cheselden» riconosceva le figure che si distaccavano dai quadri, istintivamente<br />
«protendeva la mano verso di esse, come se fossero un corpo». Ibid., p. 44.<br />
250 Ibid.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Herder tentò di rispondere ricorrendo all’esempio dell’asta che, immersa in acqua, appare<br />
spezzata; ad un esempio simile era ricorso Hogarth per affermare l’inattendibilità della vista:<br />
«in quanto alle distanze, una mosca dentro una palla di cristal<strong>lo</strong>, spesse volte la crediamo una<br />
cornacchia, o un uccel<strong>lo</strong> di gran lunga più grande, finché qualche circostanza non abbia messo<br />
in chiaro <strong>lo</strong> sbaglio, e convinto ci abbia della sua real mole, e luogo» 251 .<br />
Naturalmente, trasponendo la questione alle arti figurative, secondo quest’ottica la pittura<br />
era fruibile esclusivamente tramite la vista, mentre la scultura risultava in tal senso privilegiata,<br />
potendo essere guardata anche attraverso il tatto. Memorabile la frase di <strong>Di</strong>derot: «La sculpture<br />
est faite, et pour les aveugles, et pour ces qui voient. La peinture ne s’addresse qu’aux yeux» 252 .<br />
Tale principio trovava corrispondenza nelle parole di Herder: «alla vista sono proprie soltanto<br />
superfici, immagini, figure di un piano, mentre i corpi e le forme dei corpi dipendono dal tatto» 253 .<br />
Più tardi, Cicognara avrebbe asserito: «Nell’arte della scultura non vuolsi che realtà; e soltanto<br />
al pittore è concesso di fondare il suo artificio sull’illusione. La prima di queste arti presenta le<br />
opere sue in tal modo, che può giudicarne anche il senso del tatto» 254 .<br />
La discussione sulle modalità della conoscenza, che vide nel tatto un canale preferenziale<br />
rispetto alla vista, si pose all’interno di un più complesso dibattito fi<strong>lo</strong>sofico che esaminava<br />
l’importanza dei sensi e dell’esperienza in confronto a quella della razionalità.<br />
Una certa importanza rivestì, in<br />
quest’ambito, il Traité des sensations 255 di<br />
Condillac – che trovava un contraltare<br />
inglese nell’Automathes di Kirkby 256 – in<br />
cui si asseriva che le conoscenze<br />
umane provengono dalle sensazioni,<br />
attraverso il tramite dei sensi. Per<br />
dimostrare la sua teoria, l’autore<br />
immaginò una statua alla quale venivano<br />
via via inseriti tutti i sensi; essa veniva<br />
dunque animata partendo da quel<strong>lo</strong><br />
più elementare, l’odorato. Era, però, il<br />
tatto che avrebbe per così dire addestrato<br />
gli altri sensi, perché il so<strong>lo</strong> in grado di<br />
conoscere gli oggetti.<br />
E.B. de Condillac, Traité des Sensations, Paris 1754, in http://serendip.brynmawr.edu/Mind/Epistemo<strong>lo</strong>gyoM.html,<br />
2010-04-20.<br />
251 W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 104.<br />
252 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1765..., p. 420.<br />
253 J.G. HERDER, Plastica..., p. 44.<br />
254 L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. VII, p. 120.<br />
255 E.B. DE CONDILLAC, Traité des sensations, Paris 1754.<br />
256 J. KIRKBY, The Capacity and Extent of the Human Understanding Exemplified in the Extraordinary Case of Automathes A Young<br />
Nobleman, Who Was Accidentally left in his Infancy, upon a Desolate Island, and Continued Nineteen Years in that Solitary State, separate from all<br />
Human Society. A Narrative Abounding with Many Surprizing Occurences both Useful and Entertaining to the Reader, London 1745.<br />
79
80<br />
Roberta Cinà<br />
Era tale l’importanza attribuita al tatto nei processi cognitivi, che Condillac giungeva ad<br />
affermare che gli animali non hanno le stesse facoltà dell’uomo perché in essi questo senso è<br />
meno perfetto 257 . Condizione imprescindibile perché il tatto potesse conoscere era comunque il<br />
movimento; ricordo che l’idea del movimento sarebbe stata momento fondamentale, per Herder 258 ,<br />
per la fruizione dell’opera d’arte scultorea 259 e ripreso<br />
anche nel seco<strong>lo</strong> successivo da Hildebrand 260 .<br />
D’altra parte, quel<strong>lo</strong> della statua senziente fu,<br />
nel Settecento, un argomento dibattuto a diversi<br />
livelli, con implicazioni e rimandi anche fi<strong>lo</strong>sofici,<br />
come nel caso del convitato di pietra nel celeberrimo<br />
Don Giovanni 261 , né va dimenticato che, proprio in<br />
quel periodo, come conseguenza del<strong>lo</strong> sviluppo<br />
dell’oro<strong>lo</strong>geria, furono inventati i primi automi di cui<br />
si hanno notizie certe e se ne diffuse a dismisura il<br />
mito anche in altri campi 262 .<br />
Tutto il XVIII seco<strong>lo</strong>, poi, fu percorso dal<br />
mito di Pigmalione, motivo che fu presente in vari<br />
racconti fi<strong>lo</strong>sofici ed in opere musicali, da Rameau<br />
(1748) a Rousseau (1762).<br />
Fu, inoltre, argomento trattato in scultura.<br />
Nel 1763 Falconet espose al Sa<strong>lo</strong>n un gruppo<br />
che raffigurava questo soggetto. Il successo riscosso<br />
fu notevole; <strong>Di</strong>derot si espresse in proposito con<br />
toni decisamente ammirati:<br />
Étienne Maurice Falconet, Pigmalione, San Pietroburgo,<br />
Ermitage, in http://www.wga.hu/htmlf /falconet/pygmalio.html,<br />
2010-03-30.<br />
O la chose précieuse que ce petit groupe de Falconet! [...] Non, ne c’est pas du marbre;<br />
appuyez-y votre doigt, et la matière qui a perdu sa dureté cédera à votre impression [...].<br />
O Falconet! Comment as-tu fait pour mettre dans un morceau de pierre blanche la surprise, la<br />
joie et l’amour fondus ensemble? Èmule des dieux, s’ils ont animé la statue, tu en as renouvé le<br />
miracle en animant le statuaire 263 .<br />
257 Cfr. E.B. DE CONDILLAC, Avvertenza importante al lettore, in Traité…. Anche Herder sosteneva <strong>lo</strong> stesso concetto sugli<br />
animali che non hanno, come l’uomo, la mano «che afferra e tocca». J.G. HERDER, Plastica…, p. 42.<br />
258 Cfr. ibid.<br />
259 A. VON HILDEBRAND, Il problema della forma, ed. a cura di S. Samek Ludovici, Tea, Milano 1996; si veda anche l’edizione<br />
a cura di A. Pinotti, F. Scrivano, Aesthetica, <strong>Palermo</strong> 2001.<br />
260 Riconoscere la necessità del movimento testimonia l’importanza data alla prassi, l’agire.<br />
261 Cfr. L. BRAMANI, Mozart massone e rivoluzionario, Milano 2005, pp 137 e segg.<br />
262 Nell’Ottocento il tema dell’automa sarebbe stato rivestito da connotazioni più sinistre; si veda, ad esempio, L’uomo<br />
della sabbia (1815) di Hoffmann, da cui fu tratta la fortunata opera lirica di Offenbach, I racconti di Hoffmann, notissima per il<br />
personaggio dell’automa. Anche Heinrich von Kleist, in Caterina di Heilbronn (1810), raffigurava un automa, apparentemente una<br />
donna bellissima che poi si rivela un essere orrendo. Questo fi<strong>lo</strong>ne di opere, nel corso del seco<strong>lo</strong>, evidenziò gli aspetti della<br />
moderna tecno<strong>lo</strong>gia, vissuta in modo snaturalizzante, contrario all’entusiasmo che, nel seco<strong>lo</strong> precedente, aveva salutato ogni<br />
nuova scoperta scientifica e tecno<strong>lo</strong>gica.<br />
263 D. DIDEROT, Sa<strong>lo</strong>n de 1763, in Id., Oeuvres completes..., vol. X, p. 221.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Proprio a <strong>Di</strong>derot si deve un’opera ascrivibile all’insieme degli scritti sulle modalità della<br />
conoscenza in soggetti ciechi. In questo contesto, egli prese in esame il concetto di bel<strong>lo</strong> ed il<br />
modo in cui esso poteva essere fatto proprio da chi non poteva vedere 264 .<br />
La Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voyent 265<br />
di <strong>Di</strong>derot, prende spunto dalla conversazione tra un<br />
pastore e un cieco morente 266 per verificare la teoria<br />
sensistica che subordina le idee alle sensazioni.<br />
Come può, un cieco, giungere al concetto del bel<strong>lo</strong>?<br />
«A forza di studiare, col tatto, la coesione che<br />
esigiamo tra le parti di un tutto per definir<strong>lo</strong> ‘bel<strong>lo</strong>’,<br />
un cieco riesce ad applicare giustamente questo concetto.<br />
Ma quando dice: questo è bel<strong>lo</strong>, non giudica; riferisce<br />
soltanto il giudizio di chi vede: e cosa fanno d’altro i<br />
tre quarti delle persone che, ascoltata una commedia<br />
o letto un libro, ne danno giudizi? Per un cieco, la<br />
bellezza, separata dall’utilità è soltanto una parola e,<br />
con un organo in meno, quante cose la cui utilità gli<br />
sfugge!» 267 .<br />
D. <strong>Di</strong>derot, Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient,<br />
Londra 1749, in http://books.google.it/books?id=W3oHA-<br />
AAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=intitle:aveugles+inau<br />
thor:diderot&lr=&as_drrb_is=q&as_minm_is=0&as_miny_i<br />
s=&as_maxm_is=0&as_maxy_is=&as_brr=0&cd=4#v=onepage&q&f=false,<br />
2010-04-20.<br />
Lungo l’opera di <strong>Di</strong>derot si snodava una sorta di teoria della conoscenza attraverso il<br />
tatto, che veniva riconosciuto un senso autonomo 268 . Suo intento era dimostrare che i sensi<br />
potevano, talvolta, permettere la conoscenza anche senza essere messi in relazione tra <strong>lo</strong>ro 269 .<br />
Lo stesso concetto era esposto da Herder, che sosteneva che la conoscenza è generata dal<br />
tatto 270 : «La vista è sogno, il tatto verità» 271 .<br />
264 Hogarth, più tardi, si sarebbe espresso in merito alla questione in questi termini: «forse un cieco nato col suo tatto<br />
miglior di quel<strong>lo</strong> che comunemente hanno gl’illuminati [...] può a forza di quel<strong>lo</strong> rilevare la natura delle forme in maniera da dare<br />
un giudizio mediocre di quel ch’è bel<strong>lo</strong> alla vista». W. HOGARTH, L’analisi della bellezza..., p. 94.<br />
265 D. DIDEROT, Lettera sui ciechi per l’uso di co<strong>lo</strong>ro che vedono, (1749), in Id., Opere fi<strong>lo</strong>sofiche, a cura di P. Rossi, Milano 1967.<br />
266 Ibid., p. 89. Il cieco in questione era Nicolas Saunderson, un professore di matematica cieco dall’età di un anno.<br />
Il dia<strong>lo</strong>go col confessore è immaginario: fu la causa del<strong>lo</strong> scanda<strong>lo</strong> suscitato dall’opera, in quanto Saunderson, morente, diceva al<br />
religioso che cercava di convertir<strong>lo</strong> che avrebbe creduto nell’esistenza di <strong>Di</strong>o so<strong>lo</strong> se avesse potuto toccar<strong>lo</strong>.<br />
267 Ibid., p. 64.<br />
268 Ibid., p. 67 : «Qualcuno di noi pensò di chiedere al nostro cieco se sarebbe stato contento di avere gli occhi. ‘Se non fosse<br />
per la curiosità’, rispose, ‘mi piacerebbe altrettanto avere lunghe braccia: penso che, per sapere ciò che accade sulla luna, le mani<br />
mi sarebbero più utili dei vostri occhi o dei vostri telescopi; e inoltre è più facile che gli occhi cessino di vedere che le mani di<br />
toccare. Quindi, il perfezionamento dell’organo che ho varrebbe quanto il dono di quel<strong>lo</strong> che mi manca’».<br />
269 «Noi ci serviamo grandemente della cooperazione tra organi e sensi. Ma sarebbe tutt’altra cosa ancora esercitarli<br />
separatamente, e non impiegarne mai due nei casi in cui ci basterebbe l’aiuto di uno so<strong>lo</strong>». Ibid., p. 69.<br />
270 Herder sosteneva che la conoscenza, nei bambini, è originata dal tatto: «Si vada nella stanza dei giochi del bambino,<br />
e si guardi come [...] prende, coglie, afferra, pesa, palpa, misura con mani e piedi, per procurarsi così in modo certo e sicuro i primi<br />
difficili e necessari concetti di corpi, figure, grandezza, spazio, distanza, etc. Parole e dottrina non potrebbero darglieli; soltanto<br />
l’esperienza, il tentativo, la prova». J.G. HERDER, Plastica…, p. 42.<br />
271 Ibid., p. 43.<br />
81
82<br />
Roberta Cinà<br />
Lo stesso concetto era stato espresso dieci anni prima da Frans Hemsterhuis, che aveva<br />
riflettuto sulle possibilità conoscitive tramite l’esperienza tattile 272 , ma già prima Hogarth aveva<br />
scritto: «l’occhio generalmente dà il suo assenso a quel tale spazio e distanze che sono state prima<br />
misurate dal tatto, o altrimenti calcolate nella mente; le quali misure e calcoli egualmente sono,<br />
se non più, in poter di un cieco, come <strong>lo</strong> provò ampiamente quell’incomparabile Matematico, e<br />
maraviglia del suo seco<strong>lo</strong>, l’ultimo professore Sanderson» 273 .<br />
Per Hemsterhuis il tatto, come senso attraverso cui si può fruire dell’opera scultorea, risultava<br />
superiore alla vista e fonte di più certa conoscenza 274 . Si è già ricordato come, a suo avviso,<br />
la scultura era l’espressione artistica che, proprio in virtù della tridimensionalità, meglio di<br />
ogni altra riusciva ad imitare la natura 275 . Infatti, «per l’imitazione perfetta [...] occorre l’imitazione<br />
di tutti i contorni: ciò non è di pertinenza che della scultura» 276 . La scultura a tutto tondo<br />
«rappresenta perfettamente ciò che vuole rappresentare, rappresentando l’intero contorno e tutta<br />
la solidità del soggetto. Soddisfa contemporaneamente due sensi: il tatto e la vista» 277 .<br />
Il tatto e la vista, dunque, erano chiamati in causa con pari importanza nel momento della<br />
fruizione dell’opera scultorea ma già Dandré-Bardon aveva evidenziato il va<strong>lo</strong>re dell’esperienza<br />
tattile per la scultura addirittura nel suo farsi: «Cent fois la main, réunissant la double sensation<br />
de la vüe et du tact, juge si les épaisseur de terre qu’elle place sur le modéle répondent aux<br />
formes et aux souplesses que présente la Nature» 278 .<br />
Sarebbe stato Herder, però, ad attribuire al tatto una funzione preminente nell’ambito<br />
della fruizione della scultura. Egli circoscrisse rigorosamente il campo della sua indagine «a due<br />
sensi soltanto, e all’unico concetto della medesima bellezza. […] La bellezza prende il suo nome<br />
da guardare 279 , da parvenza, ed essa viene riconosciuta ed apprezzata nel modo più facile per<br />
mezzo del<strong>lo</strong> sguardo, della bella parvenza» 280 . Il senso della vista era definito quel<strong>lo</strong> più artificiale<br />
e fi<strong>lo</strong>sofico ma, proseguiva Herder, «esso non ci darebbe tutto, e meno di ogni altra cosa ciò che<br />
è più elementare, semplice, primo [...] agisce in modo piatto [...] gioca e scivola sulla superficie<br />
con immagine e co<strong>lo</strong>re [...] prende a prestito e costruisce a partire dagli altri sensi; i <strong>lo</strong>ro concetti<br />
ausiliari saranno per lui fondamenti, che non fa altro che avvolgere di luce» 281 .<br />
272 F. Hemsterhuis, Lettera sulla scultura..., p. 29: «grazie all’uso prolungato e all’aiuto contemporaneo di tutti i nostri sensi<br />
siamo arrivati, in qualche maniera, utilizzando uno so<strong>lo</strong> dei nostri sensi, a distinguere essenzialmente gli oggetti gli uni dagli<br />
altri».<br />
273 W. Hogarth, L’analisi della bellezza..., p. 105.<br />
274 F. Hemsterhuis, Lettera sulla scultura..., p. 38: «Ora, pare che il tatto sia stato perfezionato prima, e di conseguenza ci si<br />
è dovuti servire molto prima, per le imitazioni, delle idee che ci provengono dal tatto che di quelle che ci provengono dalla vista».<br />
275 Hemsterhuis attribuiva alla tridimensionalità della rappresentazione scultorea l’anteriorità della nascita della<br />
scultura rispetto a quella della pittura.<br />
276 Cfr. F. Hemsterhuis, Lettera..., p. 31.<br />
277 F. Hemsterhuis, Lettera..., p. 44.<br />
278 Dandrè-Bardon, Essai sur la sculpture..., p. 78.<br />
279 Tale asserzione era dovuta al fatto che l’autore sovrainterpretava l’etimo<strong>lo</strong>gia tedesca. Cfr. la nota di G. Maragliano<br />
in Ibid., p.110.<br />
280 Ibid., p. 45.<br />
281 Ibid.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Quest’insieme di considerazioni portava Herder alla conclusione che la vista non fosse il<br />
senso al quale affidare la fruizione delle opere scultoree:<br />
Nessuno ha mai messo in dubbio che le statue siano visibili; ma è possibile determinare<br />
in modo originario a partire dalla vista cos’è la forma bella? […] <strong>Io</strong> non posso apprendere <strong>lo</strong> spazio,<br />
l’ango<strong>lo</strong>, la forma, la rotondità come tali nella <strong>lo</strong>ro verità corporea per mezzo della vista; per non<br />
parlare dell’essenza di quest’arte, la bella forma, bella configurazione, che non è co<strong>lo</strong>re, gioco di<br />
proporzioni, di simmetria, della luce e dell’ombra, bensì verità tangibile, resa presente. La bella<br />
linea 282 che qui muta incessantemente il suo corso, non è mai interrotta con violenza, mai contorta,<br />
essa si avvolge con fasto e bellezza attorno al corpo, e mai posando, sempre librandosi forma il<br />
getto, la pienezza, la delicatamente sfumata, incantevole corporeità, che non sa nulla di superficie,<br />
di angoli e di spigoli; tale linea non può diventare superficie visiva, tavola e incisione, anzi lì essa<br />
trova la sua fine. La vista distrugge la statua bella piuttosto che crearla, la trasforma in angoli e<br />
superfici [...] è impossibile quindi che essa sia madre della nostra arte 283 .<br />
La scultura, al<strong>lo</strong>ra, avrebbe dovuto necessariamente essere fruita attraverso un altro senso,<br />
il tatto, o meglio essere guardata attraverso esso. A questo punto Herder è fortemente evocativo:<br />
Guardate quell’amatore che sprofondato in sé cammina vacillando attorno ad una statua.<br />
Cosa non fa per rendere la sua vista come il tatto, per guardare come se andasse a tentoni nel<br />
buio? Egli scivola da un luogo all’altro, cerca quiete e non la trova, non ha alcun punto di vista,<br />
come per un quadro, poiché mille non gli bastano, poiché appena vi è punto di vista radicato il<br />
vivente diviene tavola, e la bella rotonda figura viene smembrata in misero poligono. Per questo<br />
egli scivola da un luogo all’altro, il suo occhio diviene mano, il raggio di luce dito, o piuttosto è<br />
la sua anima ad avere un dito molto più efficace della mano e del raggio di luce per comprendere<br />
in sé la forma che proviene dal braccio e dall’anima dell’artefice. La possiede! L’illusione è riuscita,<br />
vive, e l’anima sente che vive; ed ora parla, ma non come se vedesse, come se toccasse, sentisse284 .<br />
L’esperienza tattile quindi portava ad una particolare modalità di conoscenza dell’opera<br />
scultorea: ciò non avveniva, naturalmente, per la pittura. Poiché si trattava di due tipi di imitazione<br />
estremamente diversi, Herder riteneva che anche gli oggetti rappresentati non dovessero<br />
essere gli stessi e soprattutto che la scultura dovesse astenersi dalla raffigurazione del brutto285 :<br />
282 In questo passo è riscontrabile l’eco del pensiero hogarthiano.<br />
283 Ibid., p. 46.<br />
284 Ibid. Si è già notato che erano stati accennati nel Cinquecento alcuni motivi sulla scultura come arte fruibile nella sua<br />
tridimensionalità e Bronzino appunto, riportando i pareri dei sostenitori di questa arte, scriveva: «dicono che molto è più bel<strong>lo</strong><br />
e dilettevole trovare in una sola figura tutte le parti che sono in uno uomo o donna o altro animale, come il viso, il petto e l’altre<br />
parte dinanzi, e volgendosi trovare il fianco e le braccia e quel<strong>lo</strong> che l’accompagna, e così di dietro le schiene, e vedere corrispondere<br />
le parti dinansi a quelle dallato e di dietro, e vedere come i muscoli cominciano e come finiscano, e godersi molte belle concordanzie,<br />
et insomma girandosi intorno ad una figura avere intero contento di vederla per tutto; e per questo essere di più diletto che la pittura».<br />
In P. Barocchi, Scritti d’arte..., tomo I, p. 501. Cfr. E. AGAZZI, Il corpo conteso. Rito e gestualità nella Germania del Settecento, Jaca Book, Milano 1999.<br />
285 Anche Cicognara, in seguito, avrebbe esposto questo concetto; a proposito di un bassorilievo del Sansovino scrisse<br />
infatti: «Rappresenta esso la giovinetta affogata in una fossa paludosa del contado di Padova, e dal Santo ritornata in vita [...]. Egli<br />
è vero che nell’imitazione di simili oggetti l’artista presenta un quadro tolto alla natura, e che s’incontrano in questa tutte le<br />
forme, le età, le brutture, ma è altresì indubitato e riconosciuto che tocca all’artista il far tali scelte nell’imitazione che per queste si<br />
elimini dal soggetto ogni sconcia o disgradevole rappresentanza, temperandola, ove richieggasi, con tutti quei sussidj che il bel<strong>lo</strong><br />
ideale può suggerir senza tradir la natura. In questo soggetto [...] campeggia nel mezzo una vecchia rugosa e servilmente imitata<br />
da una mal scelta natura [...] cose tutte che portano nelle opere di scultura un manierato, un caricato che non riscontrasi in quelle<br />
degli antichi [...] e da cui, se non rifugge talvolta il pennel<strong>lo</strong>, si ricusano però sempre i marmi destinati a più nobili rappresentazioni,<br />
e a portare più durevolmente alla posterità la storia degli avvenimenti disgiunta da tutto ciò che, non servendo a renderne<br />
più chiara l’intelligenza, potesse essere in qualche modo spiacevole o ingrato». L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol.. V, p. 272.<br />
83
84<br />
Roberta Cinà<br />
«Sino a che punto la scultura può dar forma a ciò che è brutto e la pittura raffigurar<strong>lo</strong>?<br />
Risposta. Sin dove i sensi <strong>lo</strong> permettono, la vista per la pittura e il tatto per la scultura.<br />
Le due arti tuttavia non riposano sul medesimo fondamento» 286 .<br />
L’autore citava l’esempio della raffigurazione di un cadavere:<br />
Quel pittore che dipinse un cadavere in decomposizione da costringere <strong>lo</strong> spettatore<br />
a turarsi il naso [...] è certo un artista disgustoso. Ma <strong>lo</strong> scultore che offrì al nostro sentimento<br />
del tatto il ripugnante cibo per vermi di un cadavere, in modo da far<strong>lo</strong> penetrare in noi e<br />
dilaniarci, ungendoci di pus e di ribrezzo, non ho nome per questo carnefice del nostro piacere.<br />
Là posso volgere <strong>lo</strong> sguardo altrove e ricrearmi in altri oggetti, qui devo farmi strada con la<br />
lentezza di un cieco, così che tutta la mia carne e le mie ossa ne son rose, e la morte passa con<br />
un brivido nei miei nervi! [...]Gli antichi evitavano il brutto lì dove <strong>lo</strong> si deve evitare, nei corpi<br />
degli uomini e degli dei. Lessing e Winckelmann hanno dato sufficienti prove di come gli<br />
antichi evitassero per quanto possibile la deformità anche negli affetti, nella sofferenza, nelle<br />
dissonanze 287 .<br />
Gli autori citati da Herder avevano effettivamente dichiarato che le arti figurative<br />
dovevano astenersi dal raffigurare oggetti raccapriccianti. Oltre al già ricordato passo di<br />
Winckelmann, va ricordato un brano di Lessing: «si immagini di spalancare al Laocoonte la<br />
bocca, e si giudichi. Lo si faccia gridare, e si osservi. Era una figura che suscitava compassione,<br />
perché esprimeva insieme bellezza e do<strong>lo</strong>re; adesso è divenuta so<strong>lo</strong> una brutta, ripugnante<br />
figura dalla quale volentieri si volge <strong>lo</strong> sguardo, perché la vista del do<strong>lo</strong>re suscita dispiacere senza<br />
che nel contempo la bellezza dell’oggetto sofferente riesca a tramutare questo dispiacere nel<br />
dolce sentimento della compassione. La sola ampia apertura della bocca [...] nella pittura è una<br />
macchia e nella scultura un incavo che fa l’effetto più sgradevole del mondo» 288 .<br />
Schelling attribuiva alla «naturale diversità delle due forme d’arte figurativa» 289 il fatto che<br />
la scultura dovesse astenersi dal rappresentare la sofferenza. La rappresentazione scultorea della<br />
sofferenza e del brutto andava insomma evitata; Herder ribadiva il concetto anche alla luce<br />
dell’eternità della scultura, che avrebbe tramandato ai posteri «la bruttezza delle forme […]<br />
recando danno alle generazioni future» 290 .<br />
Dall’idea della perennità delle statue derivava anche il concetto che esse non dovessero<br />
rappresentare gli abiti di tempi e paesi diversi, il che era invece concesso alla pittura. Herder<br />
scriveva:<br />
286 J.G. HERDER, Plastica..., p. 60.<br />
287 Ibid., p. 62.<br />
288 G.E. LESSING, Laocoonte..., p. 30.<br />
289 F. SCHELLING, Le arti figurative..., p. 64. Così l’autore proseguiva spiegando i motivi delle differenze tra le due forme artistiche:<br />
«Infatti per la plastica, che rappresenta le sue idee per mezzo di oggetti materiali, il fine supremo sembra dover consistere<br />
proprio nel perfetto equilibrio tra anima e materia; se si dà una certa prevalenza a quest’ultima, essa scende al di sotto<br />
dell’idea che le è propria; ma sembra del tutto impossibile che essa innalzi l’anima a detrimento della materia, poiché per far ciò<br />
dovrebbe superare se stessa».<br />
290 J. G. HERDER, Plastica..., p. 62.
La scultura nella letteratura artistica del Settecento<br />
Le forme della scultura sono tanto costanti ed eterne quanto <strong>lo</strong> è la semplice pura<br />
natura dell’uomo, le figure della pittura, che sono una tavola del tempo, si succedono seguendo<br />
la storia, la specie umana e l’epoca. Se un intero paese trova belli i corsetti affusolati e i piedini<br />
cinesi […], mettete pure i piedi sul piedistal<strong>lo</strong> come una statua, e, se volete, le scarpe strette con<br />
i tacchi a trampoliere, ed ogni commento sarà superfluo. Lo stesso vale per il corsetto affusolato<br />
e i seni premuti verso l’alto e l’acconciatura a torre e la gonna ampia come una tenda. Nella vita<br />
comune simili artifici possono contribuire a migliorare l’aspetto in qualcosa [...] Un viso<br />
picco<strong>lo</strong> può diventare piacevole sotto l’alta acconciatura a torre, e <strong>lo</strong> stesso vale per il seno al di<br />
sopra di un torso a imbuto, o per il piede picco<strong>lo</strong> sotto l’ampia gonna a campana; tali cose [...]<br />
possono risvegliare l’immaginazione in modo da farla guizzare verso l’alto o verso il basso, ed è<br />
questo spesso l’unico fine ed intenzione del tutto. Osservate adesso la figura intera come fosse<br />
una statua, con la sua torre, tenda e cono rovesciato, e ora certo l’immaginazione non scivola più.<br />
È una cosa brutta, contro natura, fatta di lascivia e gotica costrizione, che sfigura il corpo<br />
e annienta qualsiasi buona forma291 .<br />
Che la scultura non dovesse riprodurre abiti moderni fu enunciato anche da Cicognara,<br />
che criticò la raffigurazione delle vesti nelle sculture moderne, individuando questa pratica come<br />
una della cause della decadenza barocca292 . Egli infatti asseriva che tutte le arti imitative<br />
hanno pur sempre i <strong>lo</strong>ro canoni separati e le <strong>lo</strong>ro forme convenienti, per quanto il fondo<br />
primitivo possa esser <strong>lo</strong> stesso. Nell’opposto difetto al contrario cadrebbe l’arte della pittura<br />
ove si prefiggesse i modi della statuaria. Ma peggiore fu l’effetto che doveva produrre per questa<br />
violazion di confine l’arte del<strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong>, poiché più reale e sensibile diviene quel difetto che si<br />
vede e si tocca per ogni parte, che l’altro il quale presentasi dal lato meno sfavorevole su d’una<br />
superficie soltanto; cosicché gli svolazzi dei capelli e dei panni, e le smorfie affettate d’una statua<br />
la fanno parere non so<strong>lo</strong> cattiva dal lato migliore, ma la rendono insopportabile dagli altri lati<br />
ne’ quali <strong>lo</strong> spettator la riguarda, assomigliando a una pesante scogliera tutto ciò che s’intende<br />
dover graziosamente e leggiermente vestirla 293 .<br />
Fu, insomma, la tridimensionalità della scultura a differenziarla significativamente dalla pittura 294 ,<br />
portando a una piena rivalutazione della statua, alla quale veniva infine riconosciuta «la<br />
possibilità di creare con la sua presenza materica, la sua luce, il suo spazio» 295 .<br />
291 Ibid., p. 63.<br />
292 Egli addebitò la decadenza della scultura nel periodo barocco all’aver raffigurato abiti ed acconciature di pessimo<br />
gusto: «<strong>Di</strong>vennero quindi le forme de’ vestimenti ancora più disgraziate, e infelici quei monumenti che ne conservarono in rilievo<br />
le miserabili caricature incompatibili coll’arte del<strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong> [...] nulla ridusse a peggior condizione l’arte della scultura, quanto<br />
il voler trattare nei marmi i soggetti convenienti al pennel<strong>lo</strong>, e comporre, e panneggiare le figure nel<strong>lo</strong> stesso modo che appartiene<br />
di far<strong>lo</strong> al pittore; la qual cosa alterò tutti i principi dell’arte del<strong>lo</strong> scarpel<strong>lo</strong>. S’abbandonò l’imitazion del<strong>lo</strong> antico, non si osservò<br />
più la natura, e si composero i modelli affettati e panneggiati grottescamente nella stessa forma tanto per i pittori che per gli<br />
scultori. Nessuno più riconobbe la circoscrizione delle proprie discipline». L. CICOGNARA, Storia della scultura..., vol. VI, pp. 30-33.<br />
Concetti come questo sarebbero stati presenti fino al 1847 in P. SELVATICO, Sulla Architettura e sulla Scultura..., p. 438: «Lo scalpel<strong>lo</strong>,<br />
divenuto imitatore della pittura barocca, ebbe per conseguenza di quella soltanto i difetti, senza nessuno dei pregi; e le statue<br />
disposte, come diceasi al<strong>lo</strong>ra, alla pittoresca, se guardate da un punto pareano ancora sopportabili, viste da un altro opposto<br />
somigliavano a scogli od a bernoccoli informi per quei tanti <strong>lo</strong>ro svolazzi, e quelle pieghe strampalatissime».<br />
293 L. CICOGNARA, Storia della scultura...cit., vol. VI, cap. I, pag. 33.<br />
294 Ben <strong>lo</strong> si evince dalle parole di Herder: «La statua non è esposta alla luce, ma crea la sua luce; non è nel<strong>lo</strong> spazio, ma<br />
crea il proprio spazio. <strong>Di</strong> conseguenza non la si dovrebbe nemmeno paragonare alla pittura, che dipinge sulla superficie, su di una<br />
tavola luminosa data, che l’occhio abbraccia per intero, e a partire da un so<strong>lo</strong> punto di vista». J.G. HERDER, Plastica..., p. 96.<br />
Ana<strong>lo</strong>ghi concetti avrebbe esposto Schelling: «l’arte plastica, nel senso più preciso del termine, si rifiuta di dare al proprio oggetto<br />
<strong>lo</strong> spazio dell’esterno: esso <strong>lo</strong> porta in sé. Ma proprio questo le impedisce una maggiore estensione [...] Al contrario, la pittura può<br />
misurarsi col mondo in dimensione più ampia». F. SCHELLING, Le arti figurative..., p. 57.<br />
295 S. LA BARBERA, Il Paragone delle Arti..., p. 130.<br />
85
ACCENTI NAZIONALISTICI NEGLI SCRITTI D’ARTE SU PERIODICO: 1914-1920.<br />
UNA CAMPIONATURA *<br />
MARTA NEZZO<br />
So<strong>lo</strong> di recente, da noi, gli studi vengono accentrando l’attenzione sull’intimo nesso che<br />
talune attitudini nazionalistiche della critica d’arte, evidenti fra 1920 e 1945, hanno con le spinte<br />
politiche fornite dalla prima guerra mondiale. Le indicazioni della storiografia hanno semmai<br />
riconnesso spunti e intenti al più vago sentire patriottico d’impostazione ottocentesca. Vuoi perché,<br />
relativamente ai primi anni Venti, accenti identitari di natura più benigna sono ad alcuni parsi<br />
prevalenti, vuoi perché, guardando agli sviluppi nei Trenta, le implicazioni fasciste e naziste<br />
hanno imposto più gravi considerazioni.<br />
Tuttavia, di fatto, l’imprinting ideo<strong>lo</strong>gico della Grande Guerra ha avuto, nell’Italia del Ventennio,<br />
un riflesso di lunga durata che individuerei nella critica dell’arte contemporanea e poi nella<br />
teoria, pratica e divulgazione della tutela. Si tratta però di esiti di natura mistilinea, ove le pulsioni<br />
scioviniste si presentano sovrapposte e ta<strong>lo</strong>ra confuse a questioni pianamente identitarie,<br />
tradendo appena la propria origine traumatica.<br />
Fra gli esempi del caso potremmo citare il sorvegliato ita<strong>lo</strong>centrismo di alcune riviste, peraltro<br />
aperte a contributi internazionali, come “Deda<strong>lo</strong>” o “L’Esame” (nate rispettivamente nel 1920<br />
e nel 1922); più aderente a un sobrio senso di patria parrebbe, al primo sguardo, l’evoluzione<br />
costante delle politiche di tutela, nondimeno sfociate nelle imprese legislative fasciste e<br />
fortemente nazionaliste di Giuseppe Bottai 1 .<br />
* Il testo che qui presento in versione annotata, è stato esposto oralmente alla Journée d’études La Nation. Enjeu de l’histoire de l’art<br />
en Europe 1900-1950, Paris, Institut National d’Histoire de l’art, 18 novembre 2008.<br />
1 La legge 1039/1 giugno 1939, elaborata a partire dal 1937 e giustamente celebre, procederà in paralle<strong>lo</strong> con le trattative<br />
internazionali, avviate dall’Office International des Musées (della SDN), per ottenere una convenzione di protezione del patrimonio<br />
storico-artistico in caso di guerra. Esaminando i pronunciamenti di Bottai in merito, le pesanti ipoteche ideo<strong>lo</strong>giche su natura,<br />
significato e prassi della tutela nostrana, si fanno evidenti. Rinvio in merito a G. BOTTAI, La Protection des chefs-d’oeuvre de l’esprit, “Nouvelles<br />
Littéraires”, 12 febbraio 1938, p. 8 e La Tutela delle opere d’arte in tempo di guerra, “Bollettino d’arte”, XXXI, s. III, X, aprile 1938, pp. 429-430,<br />
ora in G. BOTTAI, La politica delle arti. Scritti 1918-1943, a c. di A. MASI, Editalia, Roma 1992, pp. 141-143. Per approfondire le questioni<br />
legislative resta fondamentale V. CAZZATO (a c. di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Istituto poligrafico e<br />
Zecca del<strong>lo</strong> Stato, Roma 2001, 2 voll. Per qualche cenno sulla posizione dell’Italia rispetto alla politica preventiva dell’OIM,<br />
potrà essere utile M. NEZZO, “Praeterea Archiva, Bibliothecae, Musea, Pinacothecae ac praestantissima cuiusvis Artis opera in Domo nostra<br />
asylum ac tutamen habuerunt” (2008), in L’Abbazia di Santa Maria di Praglia, Abbazia di Praglia, in corso di pubblicazione.
88<br />
Marta Nezzo<br />
E del resto è ovvio che, nella codificazione e assimilazione culturale di una giovane<br />
Unità, la nostra, gli spunti siano stati eterogenei e non sempre positivi, tanto più se<br />
consideriamo che il processo unitario medesimo si è compiuto, in Italia, non con una<br />
rivoluzione sociale o un’ultima sollevazione contro il servaggio, ma nel crogiuo<strong>lo</strong><br />
europeo della guerra. Un’occasione sproporzionata, dove il nazionalismo attivato<br />
contro il nemico non poté prescindere dal nazionalismo necessario ad accreditarsi<br />
presso gli alleati e da quel<strong>lo</strong> per animare e compattare il fronte interno. Il che avvenne in<br />
un momento assai complesso: da un lato, per la storiografia di settore, il cui model<strong>lo</strong><br />
corrente, positivista e venturiano, s’affacciava alla crisi metodo<strong>lo</strong>gica indotta dalle teorie formaliste e<br />
dalla fi<strong>lo</strong>sofia crociana; dall’altro, per il sistema stesso delle arti e in particolare per la recente<br />
revisione legislativa dei meccanismi di tutela, con l’istituzione delle soprintendenze, l’avvio della<br />
cata<strong>lo</strong>gazione, il freno alle esportazioni.<br />
È dunque alla ricerca di spunti ibridi, colti al <strong>lo</strong>ro primo germogliare, che mi<br />
muoverò qui, attraverso una modesta ma significativa campionatura di riviste, limitata<br />
al tempo di guerra. Gli estremi crono<strong>lo</strong>gici fissati sono infatti il 1914 – per l’Italia<br />
coincidente con la campagna interventista – e quel 1920 che vede il ripristino della<br />
normalità, fra ritorno delle opere ricoverate fuori sede e nuovi input alla stampa<br />
specializzata. La mia scelta, decisamente ristretta, cade su tre periodici, eterogenei<br />
per natura e target, da cui ho selezionato gli articoli palesemente compromessi, nel<br />
tema o nel metodo, con i riflessi ideo<strong>lo</strong>gici del conflitto.<br />
Per primo viene l’organo a stampa del Ministero della Pubblica Istruzione, il<br />
“Bollettino d’arte”, che, col relativo “Supplemento” di “Cronaca delle belle arti”,<br />
segue dal 1907 le attività delle Soprintendenze e pubblica le novità più interessanti 2 ;<br />
ho poi vagliato “L’Arte”, di Adolfo Venturi, dal 1898 erede del nobile “Archivio<br />
storico dell’arte”, dedicata agli studi dal Medioevo al Settecento (con estreme propaggini<br />
ottocentiste) e di prestigio scientifico massimo 3 ; infine presento un affondo su<br />
“Pagine d’arte”, fervido foglio di attenzione all’attualità 4 e, dal 1914, supplemento<br />
informativo alla “Rassegna d’arte Antica e moderna” di Guido Cagnola e Francesco<br />
Malaguzzi Valeri 5 .<br />
2 Per una ricognizione generale sul periodico rinvio a R. IMPERA, Il “Bollettino d’arte”, 1907-1919, in Riviste d’arte fra Ottocento ed età<br />
contemporanea. Forme, modelli, funzioni, Atti del convegno, Torino 3-5 ottobre 2002, a cura di G.C. Sciolla, Skira, Milano 2003, pp. 123-138.<br />
3 La bibliografia su Venturi e le sue riviste è cospicua. Mi limito a indicare un punto di riferimento recente in G. C.<br />
SCIOLLA, Il ruo<strong>lo</strong> delle riviste di Adolfo Venturi, in Adolfo Venturi e la Storia dell’arte oggi, Atti del convegno, Roma 25-28 ottobre 2006, a<br />
cura di M. D’Onofrio, Panini, Modena 2008, pp. 2008, pp. 231-236.<br />
4 In merito si veda M. NEZZO, “Pagine d’arte”, 1913-1919, in Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea ..., 2003, pp. 139-163.<br />
5 Sulle precedenti stagioni di “Rassegna d’arte”, segna<strong>lo</strong> A. ROVETTA, Gli esordi della “Rassegna d’arte”, Milano 1901-1907,<br />
in Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea ..., 2003, pp. 101-122; ID., La “Rassegna d’arte” di Guido Cagnola e Francesco<br />
Malaguzzi Valeri (1908-1914), in Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, Atti del Convegno,<br />
Milano 30 novembre-1 dicembre 2006, a cura di R. Cioffi e A. Rovetta, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 281-316.
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
Segna<strong>lo</strong> sin d’ora che la mia lettura si muove sul registro corale. Cioè, pur profittando di singole<br />
voci, mira a focalizzare il trend critico di ciascuno dei periodici selezionati e del relativo milieu, così<br />
da rendere non una visione individua ma una temperatura ambientale. Inoltre largo spazio lascerò<br />
all’argomento e silentio, nel costante sforzo di sottolineare l’importanza di talune e<strong>lo</strong>quenti<br />
astensioni argomentative.<br />
Ad esempio, per quanto riguarda il 1914 e la campagna interventista, il “Bollettino d’arte” e<br />
il suo supplemento non ne recano traccia. È invece interessante notare che, ancor prima che le<br />
ostilità accendano l’Europa, esso percorre i temi dell’Italia co<strong>lo</strong>niale, ovviamente sub specie<br />
archeo<strong>lo</strong>gica. La rivista infatti, cui il profi<strong>lo</strong> istituzionale impone precisi doveri informativi,<br />
descrive gli scavi effettuati nella recentemente acquisita Tripolitania 6 , facendo particolare attenzione<br />
a relegare in cronaca il delicato passaggio fra l’attività di ricerca degli italiani ospiti e quella degli<br />
italiani occupanti 7 . Nel dichiarare che “era primo compito della nazione erede di Roma rimettere<br />
in stato decoroso l’arco di Marco Aurelio, e raccogliere le varie antichità che, pur fra la noncuranza<br />
turca, erano disperse per Tripoli e nei dintorni” 8 , attiva blandamente il vecchio codice<br />
nazional-patriottico focalizzato sul mito dell’Urbe (nostra unica vera ipostatizzazione<br />
ideo<strong>lo</strong>gico-identitaria da Piranesi in qua), contaminando<strong>lo</strong> però con un più attuale ed entrante<br />
concetto: la conservazione. Il fatto che la rivendicata romanità si inveri nella tutela rinvia alla<br />
recente approvazione della legge Rosadi per le Antichità e Belle Arti, datata 1909 e prova<br />
manifesta di avanzamento civile dell’Italia. Ed è questo speciale progresso che il supplemento del<br />
“Bollettino” sembra voler ribadire, tornando con ritmo cadenzato, nei mesi seguenti, sui Servizi<br />
archeo<strong>lo</strong>gici in Libia 9 .<br />
In questo precedente potremmo ravvisare emblematicamente il bilanciamento del rapporto<br />
autocoscienza-nazionalismo a monte della guerra: da un lato la recente creazione delle<br />
Soprintendenze, il tentativo di vietare le esportazioni suggellano il va<strong>lo</strong>re identitario del<br />
patrimonio e delle pratiche espletate per conservar<strong>lo</strong>; dall’altro l’abbinamento di tali conquiste<br />
al mito della romanità (dominatrice e civilizzatrice insieme) dichiara l’ampia propensione dei<br />
va<strong>lo</strong>ri identitari a lasciarsi strumentalizzare dalle più diverse necessità ideo<strong>lo</strong>giche. E viceversa.<br />
Ma torniamo al conflitto europeo: nemmeno l’intervento scalfisce, nell’immediato,<br />
l’equilibrio della rivista e del suo satellite, la cui attenzione, nella primavera del 1915, è tutta<br />
a documentare i danni e le perdite per il terremoto nella regione marsicana.<br />
E in effetti sino al 1917 gli articoli di argomento bellico saranno limitati alle pagine del<br />
“Supplemento” e connotati da un carattere informativo, poco incline alla deriva nazionalista.<br />
Scorriamoli brevemente.<br />
Nell’agosto 1915, due pezzi si riferiscono al<strong>lo</strong> stato di guerra: primo, significativamente,<br />
giunge il necro<strong>lo</strong>gio di uno dei molti funzionari delle Belle Arti morti in battaglia; seconda<br />
arriva la pubblicazione dei Provvedimenti del Comando Supremo per la tutela delle opere d’arte nei territori occupati 10 .<br />
6 G. NAVE, Frammenti indigeni d’arte cristiana a Tarhuna ed Henscir Uhéda Tripolitania, “Bollettino d’arte”, VIII, III, 1914, pp. 96-104<br />
7 Missione Archeo<strong>lo</strong>gica Italiana in Cirenaica e in Tripolitania, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, I, 3, marzo 1914,<br />
pp. 17-19 8 Ivi, p. 19.<br />
9 I servizi archeo<strong>lo</strong>gici in Libia (I), “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, I, 4, aprile 1914, pp. 26-28.<br />
10 Gian Giacomo Porro (Ispettore presso il Museo di antichità di Cagliari) e Provvedimenti del Comando Supremo per la tutela delle<br />
opere d’arte nei territori occupati, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, II, 10, ottobre 1915, pp. 70-72 e pp. 72-73.<br />
89
90<br />
Marta Nezzo<br />
Si tratta della cosiddetta ordinanza Cadorna, del 31 agosto 1915, che estende ai territori riconquistati,<br />
sintetizzata in cinque articoli, la sostanza del model<strong>lo</strong> conservativo nostrano, fissato dalla citata<br />
legge Rosadi. Il documento, prodotto dall’Ufficio Affari civili del Comando supremo, mira a<br />
congelare la situazione esistente, vietando gli scavi, le vendite, le asportazioni, le manomissioni<br />
e, in definitiva, qualsiasi tipo di intervento su oggetti, di proprietà pubblica o privata, che<br />
“abbiano interesse artistico, storico, archeo<strong>lo</strong>gico o paletno<strong>lo</strong>gico”; per i ritrovamenti fortuiti<br />
impone la segnalazione immediata.<br />
Appena promulgato, il testo viene utilizzato come riprova della preminenza morale della civiltà<br />
italiana da quotidiani come il “Corriere della Sera” 11 ; e il fatto che, in questa sede ministeriale, al<br />
contrario, esca in maniera asettica, indica appunto una certa refrattarietà del “Bollettino”<br />
all’inquinamento ideo<strong>lo</strong>gico.<br />
Egualmente, quando, nel novembre 1915, leggiamo l’annuncio della Rovina del Soffitto agli<br />
Scalzi 12 , per le bombe austriache cadute su Venezia, spazi e ritmi sono addirittura brachi<strong>lo</strong>gici.<br />
E persino quando, nel settembre-ottobre 1916, il solito “Supplemento” annuncia la requisizione<br />
all’Austria di palazzo Venezia in Roma («a tito<strong>lo</strong> di rivendicazione italiana e [...] giusta rappresaglia» per<br />
i danni inflitti ai monumenti veneziani dalle incursioni aeree nell’estate 1916) 13 , le parole sono misurate.<br />
Ma è la stessa veste cronachistica – vien fatto di pensare – a mantenere i toni bassi, poiché<br />
le concentrazioni informative, in sé prive di connotazione critica, risultano facilmente resistenti<br />
alla strumentalizzazione.<br />
A breve termine semmai, il risultato è un singolare effetto specchio, in cui il fermento ideo<strong>lo</strong>gico<br />
interagisce con i preesistenti problemi di tutela dell’Italia, mantenendo alto – su quelli e non<br />
sulla guerra – <strong>lo</strong> stato d’allerta. Così, in “Cronaca”, nel novembre-dicembre 1916, Corrado Ricci<br />
(direttore generale delle Belle Arti) firma l’artico<strong>lo</strong> programmatico Perché l’arte onori gli eroi degnamente,<br />
ove se da un lato auspica che i nuovi martiri vengano celebrati «oltre che negli scritti, anche nel<br />
marmo e nel bronzo», dall’altro chiede che i nuovi monumenti non vengano a deturpare l’aspetto<br />
di edifici e piazze. «Siano essi, per noi, e pei posteri, cagione a un tempo d’orgoglio patriottico<br />
e di felicità estetica, e non di turbamento e d’onta per l’arte nostra» 14 . Sull’argomento Ricci<br />
tornerà ancora, facendo pubblicare opportune circolari: «Occorre che l’entusiasmo patriottico<br />
non trascuri ogni considerazione di natura artistica, sino al punto di menomare la bellezza d’antiche<br />
opere d’arte con l’applicar <strong>lo</strong>ro le odierne, così spesso in aperto dissidio per costumi, per<br />
esecuzione, per sentimento. È perciò necessario che le Soprintendenze vigilino per evitare<br />
pericoli del genere, intervenendo presso gli speciali comitati e le amministrazioni comunali,<br />
e segnalando, dove occorra, i singoli casi al ministero» 15 .<br />
11 [U. OJETTI], La tutela dei monumenti nelle terre conquistate. Il museo e gli scavi di Aquileia, “Corriere della Sera”, 19 settembre 1915,<br />
p. 3. In merito rinvio a M. NEZZO, Critica d’arte in guerra. Ojetti 1914-1920, Terra Ferma, Vicenza 2003.<br />
12 Vale a dire della Traslazione della Santa Casa di Loreto di Giovan Battista Tiepo<strong>lo</strong>. Cfr. Rovina del Soffitto degli Scalzi,<br />
“Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, II, 11, novembre 1915, p. 81.<br />
13 Il Palazzo di Venezia e Danni prodotti ai monumenti di Venezia dalle incursioni aeree dal giugno al settembre 1916, “Cronaca delle<br />
belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, III, 9-10, settembre-ottobre 1916, risp. p. 65 e pp. 65-66.<br />
14 C. RICCI, Perché l’arte onori gli eroi degnamente, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, III, 10-11, novembredicembre<br />
1916, pp. 81-82: 82.<br />
15 C. RICCI, Circolare. Statue e lapidi commemorative, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, IV, 1-2, gennaiofebbraio<br />
1917, pp. 14-15. Si veda ancora Monumenti commemorativi in zona di guerra. Circolare n. 56, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al<br />
Bollettino d’arte”, VII, 9-12. sett. dic. 1920, p. 72.
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
Ancora nella medesima direzione vanno i suoi interventi contro l’infestante/degradante<br />
presenza di manifesti di propaganda (come quelli sul prestito nazionale) in contesti urbani di<br />
grande va<strong>lo</strong>re artistico 16 . Tutte ammonizioni che non esaltano la guerra e l’uso nazionalista del<br />
patrimonio, ma attraverso quel<strong>lo</strong> tematizzano l’annoso problema della gestione dei centri storici<br />
italiani, tormentati in tempo di pace da continui rimaneggiamenti, in particolare a livel<strong>lo</strong> urbanistico.<br />
Una piaga cui so<strong>lo</strong> parzialmente han posto argine le teorie di Charles Buls sull’Estetica della città<br />
(1905) e quelle di Gustavo Giovannoni su Vecchie città ed edilizia nuova, pubblicate nel 1913 17 .<br />
Nell’Italia post-unitaria, funestata da sventramenti e<br />
inventramenti, spesso vittima del suo stesso bisogno di<br />
riqualificarsi visivamente per la nuova era, le parole di<br />
Ricci sono un segnale forte in direzione della conservazione 18<br />
e la guerra stessa, le marcature nazionaliste sembrano una<br />
mera occasione scatenante.<br />
Certo, se 1915, 1916 e parte del ’17 trascorrono, nella<br />
storia della rivista, entro il chiuso recinto della cronaca,<br />
fra note telegrafiche e circolari 19 , le ragioni sono anche<br />
altre: la censura e, probabilmente, il metodo stesso di<br />
lavoro e documentazione tipico del “Bollettino”, aduso a<br />
binare i saggi di studio, di altra levatura concettuale, a un<br />
apparato iconografico, sia pur misurato. Infine la convinzione,<br />
generalizzata fino alla primavera 1916, che la guerra sarà<br />
breve. Un sentire che, dopo la Strafexpedition austriaca del<br />
giugno di quell’anno (spinta ben dentro i nostri confini<br />
storici), è inficiato dai fatti.<br />
Pagina introduttiva al primo numero monografico<br />
dedicato alla protezione dei monumenti<br />
durante la Grande Guerra, “Bollettino d’Arte”,<br />
XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 173.<br />
E infatti, con il numero multip<strong>lo</strong> dell’agosto-dicembre<br />
1917, la <strong>Di</strong>rezione generale dell’Antichità e Belle Arti<br />
licenzia il suo primo grande pronunciamento in materia<br />
di emergenza bellica.<br />
16 C. RICCI, Circolare 11 aprile 1915, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, IV, 5-7, maggio-giugno-luglio 1917, p. 42.<br />
17 Già L’esthétique des villes, pubblicato nel 1893 da Charles Buls, a Bruxelles, aveva richiamato il va<strong>lo</strong>re dei quartieri antichi,<br />
la necessità di rispettarli ed accordare ad essi i nuovi edifici. L’opera, resa nota a Roma dalla Società Amatori e Cultori di<br />
Architettura sin dal 1899, venne tradotta in italiano nel 1903, a cura di Maria Pasolini, e accompagnata dal testo di una conferenza<br />
su L’esthétique de Rome, tenuta dal<strong>lo</strong> stesso Buls nella capitale il 14 gennaio 1902 (C. BULS, L’estetica della città, Associazione Artistica<br />
fra i Cultori di Architettura, Roma 1903). Sull’argomento hanno scritto M. LUPANO, Marcel<strong>lo</strong> Piacentini, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 7-11<br />
e G. ZUCCONI, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1855-1942), Jaca Book, Milano 1999 2 , part. pp. 90; 109-11.<br />
In tempi più vicini ai nostri interessi, Gustavo Giovannoni pubblica in merito Vecchie città ed edilizia nuova,“Nuova Anto<strong>lo</strong>gia”,<br />
XLVIII, 995, 1 giugno 1913, pp. 449-472 e Il “diradamento” edilizio dei vecchi centri, Ivi, XLVIII, 997, 1 luglio 1913, pp. 53-76, riuniti<br />
molti anni più tardi nel volume Vecchie città ed edilizia nuova, UTET, Torino 1931.<br />
18 Si vedano anche le conquiste propriamente conservative: F. ROCCHI, Ricerche sperimentali per la conservazione e la difesa dei<br />
bronzi artistici dai bombardamenti, “Cronaca delle Belle Arti. Supplemento al Bollettino d’Arte”, V, 5-8, maggio-agosto, 1918, pp. 35-36.<br />
19 Segna<strong>lo</strong> ancora la Circolare del Ministro Giardino sull’Occupazione di edifici monumentali per ragioni militari. Circolare 28 agosto 1917<br />
del Ministero della guerra [...], “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’arte”, IV, 8-12, agosto-dicembre 1917, p. 64. Quanto ai<br />
danni da bombardamento, verranno segnalati puntualmente sino al termine del conflitto.<br />
91
92<br />
Marta Nezzo<br />
Esce così La difesa del patrimonio artistico italiano contro<br />
i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione dei monumenti,<br />
introdotto da Ricci 20 . Il testo fa parte di una suite: il<br />
programma prevede infatti che escano altri tre volumi di<br />
relazioni sul lavoro svolto dalle Soprintendenze durante le<br />
ostilità, dedicati rispettivamente ai lavori di Protezione degli<br />
oggetti d’arte mobili, all’elenco dei Danni e a quel<strong>lo</strong> dei Rifugi.<br />
Soltanto i primi vedranno la luce: nel ’17, appunto, quel<strong>lo</strong><br />
dedicato alle Protezioni dei monumenti e nel ’18 quel<strong>lo</strong> sulla<br />
Protezione degli oggetti d’arte 21 . A questi già corposi consuntivi<br />
ne verrà aggiunto, nel 1920, ancora un altro, di Ettore<br />
Modigliani, relativo alle attività della soprintendenza <strong>lo</strong>mbarda 22 .<br />
In questa sequenza le venature ideo<strong>lo</strong>giche si fanno<br />
finalmente percepibili. Si addita la barbarie nemica con<br />
l’esplicita intenzione di contrapporle la lungimirante attività<br />
di tutela della colta Italia. E con ciò – è importante<br />
sottolinear<strong>lo</strong> – l’argomento nazionalista, il mito ipostatizzato,<br />
non è più quel<strong>lo</strong> della romanità e della rivisitazione<br />
archeo<strong>lo</strong>gica, ma esclusivamente quel<strong>lo</strong> della conservazione,<br />
con un significativo sbilanciamento referenziale dal passato<br />
remoto alla militanza nel presente. Dal punto di vista<br />
argomentativo, l’ipoteca propagandistica è tutta concentrata<br />
nell’Introduzione di Ricci ai saggi dei soprintendenti:<br />
Pagina introduttiva al saggio di CORRADO<br />
RICCI, L’Arte e la guerra, in La difesa del patrimonio<br />
artistico italiano contro i pericoli della guerra<br />
(1915-1917). I. Protezione dei monumenti,<br />
“Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII,<br />
agosto-dicembre 1917, pp. 175-178: 175.<br />
Confesso che, prima che il presente cataclisma si rovesciasse sul mondo, vivevo<br />
adagiato nella persuasione che, grazie all’attività e al<strong>lo</strong> sviluppo dei sentimenti estetici ed<br />
umanitari onde vantasi la società nel tempo nostro, certe rovine e certi massacri, <strong>lo</strong>ntani ormai<br />
nella storia, non si sarebbero più rinnovati. E confesso pure che una ragione per <strong>bene</strong> sperare<br />
mi veniva dall’aver più volte considerato come alcune virtù umane, che dapprima si manifestano<br />
in casi per così dire sporadici, divengono poi, col tempo e per fortuna, patrimonio comune. [...]<br />
Purtroppo la guerra attuale ci ha gettati nella più do<strong>lo</strong>rosa delusione: ché se anche dal nostro lato<br />
tale rispetto ha preoccupato la mente di chi ha il comando della guerra, esso è ben mancato<br />
ai grandi stati nemici che, prima, nei facili tempi di pace, ostentavano ammirazione e riverenza<br />
20 C. RICCI, L’Arte e la guerra, in La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione dei<br />
monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, pp. 175-178.<br />
21 “Bollettino d’arte”, XII, fasc. IX-XII, settembre-dicembre 1918, contiene le relazioni particolari dei soprintendenti:<br />
G. FOGOLARI, Relazione sull’opera della Sovrintendenza alle gallerie e agli oggetti d’arte del Veneto per difendere gli oggetti d’arte dai pericoli della<br />
guerra, con allegato Elenco di opere d’Arte del Veneto sottratte ai pericoli di guerra; G. PELLEGRINI, Provvedimenti presi a tutela degli oggetti di<br />
antichità e d’arte sottoposti alla giurisdizione della Sovraintendenza per i Musei e gli scavi di antichità del Veneto, contro i pericoli di guerra;<br />
E. MODIGLIANI, Relazione del R. Sovraintendente alle Gallerie della Lombardia su operazioni di sgombero degli oggetti d’arte compiute nelle provincie<br />
di Vicenza e di Verona; A. COLASANTI, Provvedimenti presi a tutela degli oggetti d’antichità e d’arte esposti ai pericoli della guerra; M. ONGARO,<br />
Provvedimenti presi a tutela di oggetti d’arte sottoposti alla giurisdizione della Sovrintendenza dei Monumenti di Venezia; G. GEROLA, Relazione del<br />
R. Sovraintendente dei Monumenti della Romagna, incaricato delle operazioni di sgombero di oggetti d’arte compiute nella provincia di Mantova.<br />
22 Provvedimenti di tutela contro i pericoli della guerra attuati a cura della R. Sovraintendenza alla Gallerie e alle Raccolte d’arte delle<br />
provincie <strong>lo</strong>mbarde, “Bollettino d’arte”, XIV, fasc. IX-XII, settembre-dicembre 1920. Più tardi e in altra sede editoriale verranno<br />
affiancati, a questo notevolissimo lavoro, i cinque fascicoli di A. MOSCHETTI, I danni ai monumenti e alle opere d’arte delle Venezie nella<br />
guerra mondiale MCMXV- MCMXVIII, Istituto federale di Credito per il risorgimento delle Venezie, Quaderni LXIII-LXVIII, 1928-1931,<br />
a <strong>lo</strong>ro volta raccolti in volume unico, dotato di indice analitico, nel 1932 (Deposito esclusivo presso le librerie Sormani, Venezia) .
Fotografia dei sostegni in muratura alle arcate a pianterreno<br />
di Palazzo Ducale in Venezia, con speciale protezione<br />
dell’ango<strong>lo</strong>, in La difesa del patrimonio artistico italiano<br />
contro i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione dei<br />
monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII,<br />
agosto-dicembre 1917, p. 199.<br />
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
Fotografia delle protezioni interne alla Cappella degli<br />
Scrovegni (Padova), in La difesa del patrimonio artistico<br />
italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione<br />
dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII,<br />
agosto-dicembre 1917, p. 228 . I paglietti d’alga, indipendenti,<br />
sono spessi 15 centimetri e sospesi a correnti lignei,<br />
sorretti da montanti in ferro. La distanza fra materassi ed<br />
affreschi è di 1 metro e 70 centimetri. Si noti <strong>lo</strong> strato di<br />
sabbia, di 60 centimetri, che copre il pavimento.<br />
Fotografie delle difese parziali (in paglietti d’alga) alla pala d’altare<br />
di Cima, in S. Giovanni in Bragora e al monumento Tron ai Frari, in<br />
Venezia, in La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della<br />
guerra (1915-1917). I. Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI,<br />
fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 218.<br />
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Marta Nezzo<br />
per l’arte nostra e se ne atteggiavano a protettori, pronti alla critica tostoché qualche lavoro<br />
paresse non soddisfare, non dico alla <strong>lo</strong>ro scienza, ma al <strong>lo</strong>ro gusto [...]. Fatto sta che, nella guerra<br />
attuale, i nostri avversari non hanno voluto risparmiare i monumenti, perché (a parte quanto<br />
hanno compiuto d’abominevole contro superbi palazzi e magnifiche chiese del Belgio e della<br />
Francia), una volta ch’essi mandavano, a più riprese, velivoli, a gettar bombe su Venezia e su<br />
Ravenna, l’offesa a edifici mirabili diveniva inevitabile per Venezia, probabilissima per Ravenna,<br />
essendo la prima tutto un seminato prodigioso di monumenti, essendone oltremodo ricca la<br />
seconda, città per giunta, innocua, non d’altro oramai popolata che di ospedali! D’altra parte è<br />
da osservare che se i primi bombardamenti di Venezia parvero tendere a scopi militari, i<br />
susseguenti, come notò <strong>bene</strong> Gino Fogolari, «rivelarono l’infernale progetto, freddamente<br />
studiato ed attuato, di distruggere quel che la città, sacra all’amore del mondo, vanta di più<br />
bel<strong>lo</strong>... Chi segue sulla pianta di Venezia i segni posti a ricordo delle bombe, cadute con visibili<br />
effetti o inesp<strong>lo</strong>se o sommerse, ha la coscienza di poter affermare che i maggiori monumenti furono<br />
fatti con premeditazione iniquo bersaglio» 23 .<br />
Oggi sappiamo (dalle relazioni militari) che così non fu e dunque la natura proditoria del<br />
discorso ci è chiara, così come il va<strong>lo</strong>re coesivo ch’esso assume nel più generalizzato appel<strong>lo</strong><br />
all’unità nazionale, particolarmente do<strong>lo</strong>roso e cogente dopo l’ottobre 1917, cioè dopo Caporetto.<br />
Ma è soprattutto sull’impostazione generale di questi particolarissimi numeri del “Bollettino”, che<br />
i fermenti ideo<strong>lo</strong>gici del momento agiscono con evidenza; segnatamente producendo una<br />
rilevante evoluzione sulla gestione dell’apparato iconografico. Inediti, infatti, non sono soltanto<br />
parole e concetti – i richiami alla distruzione di Reims e alla barbarie nemica; a mutare è piuttosto<br />
la costruzione del rapporto testo-immagini. Rispetto al precedente costume della rivista, le<br />
fotografie aumentano in maniera esponenziale, sul model<strong>lo</strong> delle pubblicazioni di propaganda.<br />
Mi riferisco a opere come gli album Treves dedicati alle operazioni militari, condotti sui motivi<br />
della <strong>lo</strong>gistica e della vita di campo, ma anche sulle desiderabili prospettive urbane delle terre<br />
irredente; o a un libro come i Monumenti italiani e la guerra, sponsorizzato nel ’17 dal Ministero della<br />
Marina, e costruito da Ugo Ojetti sulla collazione fotografica di opere nude e «vestite da difesa»,<br />
di monumenti integri e bombardati 24 .<br />
Certo, il “Bollettino” mantiene pur sempre un profi<strong>lo</strong> sobrio: non si abbandona a tal genere<br />
di spettacolari giustapposizioni, anzi, l’intento di documentare i lavori resta prevalente.<br />
Edifici, sculture e quadri protetti, sono esibiti, per <strong>lo</strong> più, a prescindere dal <strong>lo</strong>ro aspetto originario<br />
va<strong>lo</strong>rizzando piuttosto i paramenti di difesa; si declina la progressione dei lavori in un crescendo<br />
che, reiterato nell’arco di circa centocinquanta immagini, destituisce le opere d’arte della <strong>lo</strong>ro<br />
identità e del <strong>lo</strong>ro ruo<strong>lo</strong> simbolico individuale. Per questa via l’empaquetage del patrimonio, assume,<br />
in sé, un fascino esteticamente straniante, non meramente artistico, quanto piuttosto operativo,<br />
riconducendo ossessivamente il lettore al va<strong>lo</strong>re assoluto della tutela, nuovo motivo identitario,<br />
temporaneamente assunto come mito nazionalista. Il quale ultimo, di qui in avanti, verrà richiamato<br />
di continuo, anche in contesti molto meno raffinati: quando, sul finire del 1918, a guerra ormai<br />
vinta, Antonio Muñoz celebrerà sul supplemento di “Cronaca” la visibile italianità artistica delle<br />
terre redente, non potrà trascurare la nostra futura opera di salvataggio e conservazione 25 .<br />
23 C. RICCI, L’Arte e la guerra..., 1917.<br />
24 Cfr. M. NEZZO, Critica d’arte in guerra..., 2003.<br />
25 A. MUÑOZ, I monumenti delle Terre redente, “Cronaca delle belle Arti. Suppl. al Bollettino d’Arte”, V, 9-12, settembredicembre<br />
1918, pp. 41-42.
Fotografie del ‘lievo’ dei cavalli marciani, in La difesa del<br />
patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-<br />
1917). I. Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI,<br />
fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 182.<br />
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
Fotografia della protezione (con saccate) degli amboni<br />
della navata destra, in San Marco a Venezia, in La difesa<br />
del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra<br />
(1915-1917). I. Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”,<br />
XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 188 .<br />
Si noti la foderatura delle co<strong>lo</strong>nne con paglietti d’alga.<br />
Fotografia delle protezioni al fianco sud di San Marco a Venezia, in<br />
La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-<br />
1917). I. Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII,<br />
agosto-dicembre 1917, p. 185.<br />
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Marta Nezzo<br />
Fotografia della protezione (con saccate) dell’altare di<br />
San Pao<strong>lo</strong>, in San Marco a Venezia, in La difesa del patrimonio<br />
artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917). I.<br />
Protezione dei monumenti, “Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-<br />
XII, agosto-dicembre 1917, p. 189.<br />
Fotografia della protezione (con saccate) del ciborio<br />
dell’altar maggiore, in San Marco a Venezia, in<br />
La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli<br />
della guerra (1915-1917). I. Protezione dei monumenti,<br />
“Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre<br />
1917, p. 197.<br />
Fotografia della protezione (con paglietti d’alghe) del septo dei Dalle<br />
Masegne, in San Marco a Venezia, in La difesa del patrimonio artistico<br />
italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917). I. Protezione dei monumenti,<br />
“Bollettino d’arte”, XI, fasc. VIII-XII, agosto-dicembre 1917, p. 193.
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
Tuttavia la questione non è meramente formale e propagandistica: come ho avuto modo di<br />
scrivere anche di recente 26 , le riforme Rava-Ricci-Rosadi 27 – fra istituzione delle soprintendenze<br />
e avvio della cata<strong>lo</strong>gazione – realmente ricevono, dall’esperienza frontale della distruzione,<br />
sollecitazioni straordinarie: la conservazione – prassi e sostanza significante – ne esce pregna di<br />
nuove potenzialità, anche comunicative, che diverranno esplicite nel tempo lungo del vissuto<br />
nazionale. Il che, se vogliamo, segna definitivamente il passaggio da una visione intuitivamente<br />
amministrativa del patrimonio, a una visione politicamente complicata, destinata a costituirsi<br />
come parte non irrilevante del nostro sistema delle arti.<br />
Ne sopravviverà, a ostilità chiuse, un nuovo modo, più densamente visivo, di fare cronaca e<br />
critica d’arte e, insieme, una più consapevole sensibilità alla tutela, avviando il processo<br />
che condurrà alle riforme di Bottai, preparate sin dal 1937 e solidificate in legge nel 1939 28 .<br />
Riforme che, <strong>lo</strong> ripeto, vanno crono<strong>lo</strong>gicamente sovrascritte alla complessiva involuzione<br />
autarchica e rigidamente sciovinista del sistema delle arti italiano; coincidono, per intenderci,<br />
con l’uscita dalla Società delle Nazioni, con i concorsi di pittura a tema ideo<strong>lo</strong>gico, con le<br />
decorazioni muraliste più o meno fascistizzate. Si costituiscono, insomma, come un profitto<br />
identitario inscritto nell’iniquo bacino del nazionalismo totalitario.<br />
E veniamo al caso de “L’Arte”, di venturiana fattura, tesa fra medioevo ed età moderna, in<br />
aporetica sosta sulla soglia del contemporaneo. Premetto che, per quanto mi consta, nel periodo<br />
prebellico, il periodico non mostra particolari sintomi d’infiltrazione nazionalista, né nella critica,<br />
né nella storiografia d’argomento anteriore all’800. E la ragione è quasi intuitiva: la forte<br />
connotazione ita<strong>lo</strong>centrica degli studi e l’ansia d’aggiornamento metodo<strong>lo</strong>gico, fra purovisibilismo<br />
europeo e crocianesimo nostrano, sono prevalenti 29 .<br />
Non stupisce dunque che, durante l’intero conflitto, in modo pressoché assoluto, “L’Arte”<br />
mantenga il rigore così a lungo coltivato, astenendosi recisamente da toni o accenti di<br />
tipo ideo<strong>lo</strong>gico-propagandistico.<br />
Se il mondo ministeriale si lascia sbilanciare a fatica, quel<strong>lo</strong> scientifico (tradizionalmente<br />
legato all’area tedesca da profonda stima professionale), di fronte al nemico tace ostinatamente<br />
e mirabilmente. Qualche voce, fuori coro, si limita a denunciarne la barbarie in modo formulare<br />
e posticcio 30 , inadatto a indurre contaminazione col fare critico reale.<br />
26 M. NEZZO, “È <strong>lo</strong>gico pretendere che nella linea del fuoco l’esercito distolga pur un uomo o una trave o un sacco di terra per riparare dai<br />
proiettili dei nemici un altare, un portale, una lapide? Pure anche questo il nostro esercito ha fatto”, in A. M. SPIAZZI, C. ROGONI, M. PREGNOLATO<br />
(a cura di), La memoria della prima guerra mondiale: il patrimonio storico-artistico tra tutela e va<strong>lo</strong>rizzazione, Terra Ferma, Vicenza 2008, pp. 113-141.<br />
27 Sul progresso normativo e giuridico della tutela in Italia, nel primo Novecento, si vedano M. BENCIVENNI, R. DALLA NEGRA,<br />
P. GRIFONI, Monumenti e istituzioni. II. Il decol<strong>lo</strong> e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915, Soprintendenza per i Beni<br />
Ambientali e Architettonici per le Province di Firenze e Pistoia, Firenze 1992. Sulla elaborazione della Legge Rosadi si veda<br />
R. BALZANI, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, Il Mulino, Bo<strong>lo</strong>gna 2003.<br />
28 Cfr. nota 1.<br />
29 Semmai il germe politico s’insinua nella preparazione di talune mostre a tema, come quella fiorentina sul Ritratto del<br />
1911; o, ancora e con promiscuità davvero sospetta, nel dibattito sulla ricerca di uno stile nazionale per l’architettura, ma non in<br />
una rivista specializzata del<strong>lo</strong> spessore de “L’Arte”.<br />
30 Alberto Serafini ad esempio, che, a proposito del Trittico intagliato conservato a S. Pietro in Zuglio, scrive: «quest’opera<br />
doveva essere, secondo L. Venturi, il solito punto di partenza per una eventuale ricostruzione dell’attività di Domenico da<br />
Tolmezzo intagliatore. Ma ora non sappiamo, purtroppo, se i novelli barbari abbiano asportato dal Friuli nostro – come altre cose –<br />
anche questa. Niuna maraviglia!» (A. SERAFINI, Intorno a un trittico sconosciuto di Domenico da Tolmezzo, “L’Arte”, XXI, 1919, pp. 53-56: 53).<br />
L’obiettivo del discorso, con ogni evidenza, non è l’accusa al nemico, bensì la configurazione di una personalità artistica.<br />
97
98<br />
Marta Nezzo<br />
Tuttavia è pur vero che, nel periodo considerato, la rivista ospita di rado firme straniere, né<br />
dedica alcun artico<strong>lo</strong> ad artisti non italiani, germanofoni o altro; semmai qualche tito<strong>lo</strong> va al<br />
collezionismo inglese e alla critica ottocentesca francese (Fromentin, Baudelaire).<br />
L’ambiente più colto, quel<strong>lo</strong> degli studi insomma, puntella un assetto identitario stabile e<br />
centripeto, ma di sciovinismo critico non v’è traccia.<br />
Stante tale atteggiamento, perdurante dal 1914 al 1918, con sorpresa rileviamo che, ferocemente,<br />
all’indomani della vittoria, “L’Arte” presenta un nucleo compatto di articoli aperti al viraggio nazionalista.<br />
È Eva Tea ad assumersene l’onere, nei confini di<br />
una tri<strong>lo</strong>gia conchiusa, che occupa spazi nel so<strong>lo</strong><br />
1919. I temi scelti sono strettamente connessi alla<br />
conclusione delle ostilità, alle trattative di pace, alla<br />
relativa <strong>bene</strong>ficenza: Tea recensisce infatti l’esposizione<br />
internazionale d’arte organizzata a Parigi per gli<br />
orfani di guerra e poi la mostra veneziana delle opere<br />
rientrate da Vienna; ma soprattutto interviene su<br />
Le rivendicazioni d’arte italiana 31 , cioè sulla richiesta<br />
nostra di avere risarcita parte del danno bellico con<br />
dipinti di proprietà degli annientati Imperi centrali.<br />
Qui le ansie di gestione e tutela dell’esistente, già<br />
individuate nel “Bollettino” ministeriale, si complicano<br />
con una vo<strong>lo</strong>ntà di rapina dopo Napoleone obliata;<br />
la marcatura ideo<strong>lo</strong>gica dell’artico<strong>lo</strong> è assai forte.<br />
A giustificarne formalmente la presenza, nella nobile<br />
sede della rivista venturiana, è la circostanziata<br />
requisitoria storica ordita dall’autrice, che elenca le<br />
appropriazioni, più o meno indebite, condotte nei<br />
Copertina de “L’Arte”, XXII, I-II, 31 gennaio-30 aprile 1919,<br />
numero in cui compare l’artico<strong>lo</strong> di Eva Tea dedicato<br />
a L’Esposizione internazionale di Parigi.<br />
secoli sul nostro territorio, sia dalle case regnanti<br />
austriache che dai direttori dei musei prussiani.<br />
Ma ciò che colpisce è la profonda contaminazione<br />
cui il dettato critico è costretto: tutta la prima parte<br />
del testo, infatti, risolve e stempera la richiesta ignobile entro le coordinate di una ben condotta<br />
storia del collezionismo. A uno sguardo ravvicinato, però, l’alterazione ideo<strong>lo</strong>gica del model<strong>lo</strong><br />
di partenza si fa evidente: le tradizionali figure della collezione e del collezionista vengono<br />
compresse, offuscate; il fil-rouge del discorso non è offerto né da una individua raccolta, né dalle<br />
dinastie ‘predatrici’ (Lorena e Absburgo): trionfa invece una geografia tutta ‘italiana’ di patrimoni<br />
(gonzagheschi, estensi, medicei ecc.) estinti, dispersi, legalmente venduti o trafugati, ceduti per<br />
diritto matrimoniale o testamentario. Insomma Tea, per legittimare l’invocazione trista al<br />
risarcimento, proditoriamente costruisce l’immagine di una patria da sempre unita (nell’arte) e<br />
da sempre derubata, innescando l’equivalenza asportazione/svilimento identitario 32 .<br />
31 E. TEA, Le rivendicazioni d’arte italiana, “L’Arte”, XXII, 1919, pp. 72-76: 72.<br />
32 “Per noi italiani – scrive – l’arte è sensibile vinco<strong>lo</strong> di patria come la terra ed il mare, ché nessun altro popo<strong>lo</strong>, spenta<br />
la Grecia, l’ebbe più domestica e famigliare e legata col viver civile. Ed [essa] è insieme supremazia e ricchezza, poi che so<strong>lo</strong> nella<br />
qualità dei prodotti possiamo gareggiare industrialmente con le altre nazioni” (Ibid.).
E sottolinea:<br />
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
La formula ‘l’arte si paghi con l’arte’ va sviluppata nelle sue conseguenze meno appariscenti.<br />
Insieme con la rovina dei freschi di Venezia, di Nervesa, di Romanziol, vera diminutio della<br />
nostra vita artistica, altre perdite si devono considerare, fra cui molte irreparabili: le spese per<br />
la protezione dei monumenti; il deperimento degli oggetti d’arte durante i salvataggi e i trasporti;<br />
l’energia dei competenti rivolta a proteggere il patrimonio nazionale, anziché a studiare e a<br />
produrre opere di bellezza; il rischio. [...] Sentire con esatta misura questi oltraggi ideali e chiederne<br />
virilmente giustizia non sarà piccola prova della nostra maturità spirituale. Nella scelta delle<br />
cose belle, nella lealtà del richiederle, nella tenacia per ottenerle, nella sapienza d’usarne per la<br />
rinascita, si vedrà se gli italiani hanno davvero senso e cuore d’artisti 33 .<br />
Un appel<strong>lo</strong> tanto più inquietante, poiché parte dall’ambiente scientifico a attribuzionista<br />
venturiano, che da simile arricchimento potrebbe avere vantaggi diretti, incrementando – con ulteriore<br />
comodità di frequentazione – quella sorta di privatizzazione studiosa dei patrimoni museali a<br />
lungo rimproverata agli storici: «Nei compensi – ribadisce Tea – la scelta si porterà liberamente<br />
sui capolavori più desiderabili; anzi, per i voti dei pubblici istituti e della stampa, essa va<br />
prendendo carattere di vero plebiscito nazionale» 34 .<br />
Del resto, anche la denuncia de «la rapina sistematica che il Bode e seguaci esercitarono<br />
lungamente indisturbati», ancora una volta maschera sotto il do<strong>lo</strong> nemico, il problema, tutto interno,<br />
del mercato antiquario sommerso e del ritardo post-unitario nel promulgare leggi contro l’esportazione.<br />
Nell’invocare la reintegrazione di serie smembrate, la pertinenza delle opere ai luoghi<br />
d’origine (eccetera), l’autrice strumentalizza quei principi della tutela teorizzati e promossi fra<br />
Sette e Ottocento (da Quatrémére de Quincy a Pio VII) e poi compromessi – per ragioni<br />
economiche – proprio dall’amministrazione sabauda. Con ciò nel ’19 le colpe del<strong>lo</strong> stato unitario<br />
trovano naturale e tuttavia inesatto sfogo sul nemico battuto:<br />
Perché non ci siamo risentiti prima? Il rimprovero è più <strong>lo</strong>gico che giusto. La debolezza<br />
politica ci teneva pusilli, e una lunga crisi di mediocrità spirituale ci faceva sentire men viva la<br />
privazione dei nostri beni più veri. [...] Non si tratta soltanto di arricchir Gallerie e Musei, ma<br />
di risollevare la vita artistica del paese 35 .<br />
Affermazione, quest’ultima, densa di implicazioni: si vuole rimpatriare l’arte nostra non<br />
soltanto per ‘avere’, ma per ‘rinascere’.<br />
Il che rilancia congiuntamente crisma identitario e nazionalismo sul tavo<strong>lo</strong> della modernità,<br />
produzione, gestione o critica delle arti che sia, sostanziandola dei va<strong>lo</strong>ri della tradizione.<br />
Scrive ancora Tea:<br />
Grazie all’antico genio italiano e alla recente vittoria noi avremo presto tante opere d’arte<br />
da ritrovarci imbarazzati a riporle; fieri di tanta dovizia non dimentichiamo ch’essa appartiene<br />
al popo<strong>lo</strong>. Nelle chiese, nelle scuole, nei pubblici ritrovi, dovunque si può compier l’inconscia<br />
33 Ivi, p. 75.<br />
34 Ibid.<br />
35 Ibid.<br />
99
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Marta Nezzo<br />
educazione dell’occhio e del gusto, si dedichi al popo<strong>lo</strong> il dono della vittoria: ve ne sia per ogni<br />
regione o città, in rapporto con la tradizione artistica secolare. A questo proposito s’affollano al<br />
pensiero molte questioni vitali: la preparazione del popo<strong>lo</strong> a custodire i suoi beni; l’insegnamento<br />
del disegno, questo secondo alfabeto [...]; l’educazione del gusto nei seminari, donde escono<br />
i custodi e i committenti dell’arte chiesastica; la funzione pedagogica dei Musei; le scuole e le<br />
botteghe d’arte; il dovere del<strong>lo</strong> Stato e i suoi limiti [...]. Benvenute siano intanto le opere dell’arte<br />
nostra, le donatrici di gioia, che stanno per varcare i termini raggiunti dalla nuova Italia.<br />
Come nell’antica Roma, offriremo le spoglie più belle al genio dei nostri morti 36 .<br />
E val la pena, a questo punto, ricordare che l’apertura di questo sequel nazionalista era andata<br />
alla recensione dell’Esposizione internazionale d’arte a Parigi e, in particolare, della sezione italiana,<br />
interamente giocata sull’arte veneziana fra Sette e Ottocento. Già lì, proponendo la priorità del<br />
rococò italiano su quel<strong>lo</strong> francese, Tea attivava il nesso tradizione-modernità 37 testé descritto, per<br />
affermare l’attualità della lezione veneta nella pittura nostra dell’Ottocento e oltre:<br />
Noi crediamo fermamente che in certa moderna pittura italiana, e specie nella veneta, sia<br />
un tesoro di virtù solide, modeste vere qualità di mestiere, che l’occhio distratto da mode<br />
eccessivamente spiritose non sa più <strong>bene</strong> discernere. Purtroppo, manca dei nostri moderni<br />
la conoscenza critica. Perché abbiamo preferito studiare i francesi, gli inglesi, gli svedesi prima<br />
di noi stessi; errore generoso che molte esposizioni come questa ci aiuteranno a riparare 38 .<br />
Al di là della sua stessa validità critica, la scelta di ricucire Sette, Otto e Novecento, di<br />
nobilitare il presente provincialismo agganciando<strong>lo</strong> a un nobile passato, si basa su un gioco di<br />
opposizione diretta con le altre culture figurative europee. Manovra identitaria e nazionalista<br />
insieme, peraltro non inedita, basti ricordare la polemica Soffici-Ojetti, sulla mostra degli<br />
Impressionisti organizzata nel ’10 al Lyceum di Firenze 39 .<br />
Ma dopo la guerra simili imprese hanno diverso sapore: le moltiplicate opportunità sul piano<br />
della partecipazione e del confronto culturale – le stesse che avevano permesso il martiro<strong>lo</strong>gio<br />
interalleato dei monumenti e che condurranno la Società delle Nazioni alla cooperazione<br />
intellettuale – impongono, per l’attualità, la va<strong>lo</strong>rizzazione critica di una riconoscibile opzione<br />
formale nostrana: una continuità antico-moderno che ci salvi dalla co<strong>lo</strong>nizzazione artistica e, in<br />
definitiva, anche storiografica.<br />
Soprattutto di fronte alle culture amiche. La posta in gioco è alta, tanto almeno da connotare<br />
in senso progressivamente politico, in questa e in altre sedi, la virulenta polemica metodo<strong>lo</strong>gica<br />
sulla revisione critica dell’Ottocento, alla lunga sfociata nelle opposte prospettive del Gusto dei Primitivi<br />
di Lionel<strong>lo</strong> Venturi e degli scritti di un Somarè o un Ojetti.<br />
36 Ivi, p. 76. La tesi è ripresa nel successivo artico<strong>lo</strong> su la Mostra delle opere d’arte tornate da Vienna (E. TEA, “L’Arte”, XXII, 1919,<br />
pp. 113-120), che – per inciso – sono opere restituite e non oggetti trafugati con la scusa del risarcimento: «Le fonti vitali d’Italia –<br />
scrive Tea – non sono quella d’Inghilterra, di Francia, d’America; l’unicità della nostra g<strong>lo</strong>ria artistica si crea un diritto unico; non<br />
sembri audace la tesi che gli operai della bellezza, arditamente poveri, ne siano anche, per quanto <strong>lo</strong>ro compete, i custodi» (Ivi, p. 120).<br />
37 Quanto al Settecento propone un paragone diacronico fra i Ricci, Piazzetta, Tiepo<strong>lo</strong> e i francesi Van Loo, Watteau,<br />
Boucher, per concluderne l’anticipo nostro sulla formulazione del rococò.<br />
38 E. TEA, Esposizione internazionale d’arte a Parigi, “L’Arte”, XXII, 1919, pp. 47-48: 48.<br />
39 Sulle vicende dell’esposizione si veda almeno F. Fergonzi , Firenze 1910 - Venezia 1920: Emilio Cecchi, i quadri francesi e<br />
le difficoltà dell'impressionismo, “Bollettino d'arte”,LXXVIII, s. VI, 79, maggio-giugno 1993, pp. 1-26 e J.F. Rodriguez, La réception<br />
de l’Impressionisme à F<strong>lo</strong>rence en 1910. Prezzolini et Soffici maîtres d’œuvre de la “Prima esposizione italiana dell’impressionismo francese e delle<br />
scolture di Medardo Rosso”, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1994.
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
Insomma se il fermento nazionalista ha trovato un mito nobilitante nella conservazione, di<br />
fatto trova nell’esercizio sul contemporaneo un campo d’azione ideale, dove più duttile è la<br />
penetrazione nel fare critico.<br />
Perciò mi pare interessante concludere il nostro percorso guardando a “Pagine d’arte”, rivista<br />
fondata nel ’13 da Guido Marangoni, ma già nel ’14 raccordata alla “Rassegna d’arte antica e moderna”<br />
dell’editore Alfieri e Lacroix. Si tratta di un foglio informativo e militante, aperto all’antico e al<br />
moderno insieme, diretto a un pubblico colto ma non necessariamente specializzato. Esperimento<br />
per noi particolarmente utile, vuoi per l’illustre e variata agenda dei collaboratori – giornalisti,<br />
critici, artisti di punta nel panorama nazionale – vuoi per l’adesione intensa all’attualità, dunque,<br />
dati i tempi, alla quotidianità del conflitto. E infatti qui (diversamente da quanto accade nel<br />
“Bollettino” e ne “L’Arte”) sarebbe possibile una lettura evenemenziale di spunti e derive;<br />
arricchita dalla particolare inclinazione che il gruppo dirigente imprime al foglio: “Pagine d’arte”,<br />
infatti, costantemente riflette su natura e confini della propria militanza, sia critica che politica,<br />
in un’affabulazione scoperta.<br />
Il nazionalismo connesso al momento storico e spendibile nelle scritture d’arte, non è negato,<br />
ma tematizzato, acquisito e studiato come opzione intellettuale possibile. Dei numerosissimi<br />
esempi disponibili ho voluto isolarne almeno tre: le peculiarità del battage interventista; derive e<br />
approdi dell’uso ideo<strong>lo</strong>gico dell’illustrazione; la riflessione sul va<strong>lo</strong>re della critica negli assetti di crisi.<br />
E partiamo dalla promozione dell’intervento. Ugo Ojetti ne concerta qui la sua migliore, più<br />
flautata edizione 40 :<br />
Parlare d’arte nell’estate 1914 è difficile, perché è inutile, per molti ridico<strong>lo</strong>: nessuno ci<br />
ascolta. Da questo cataclisma, comunque finisca, non usciranno un’arte nuova e un nuovo stile<br />
[...]. Si può dire, senza cadere nel mistico, che l’arte annunci l’avvenire? Certo da questo<br />
sconvolgimento nuovi fatti e fattori morali sorgeranno. L’arte già li indicava? Il ritorno alla semplicità,<br />
alla sintesi, alla corposità (la parola è di jeri) dell’arte classica, tutti <strong>lo</strong> avevamo veduto iniziarsi<br />
da anni, trionfare sulle minuzie del realismo, sul<strong>lo</strong> sfarfalleggiare dell’impressionismo [...] par<br />
quasi che l’umanità, in quel che ha di più profondo e di più sensibile, cioè nell’arte, senta<br />
all’avvicinarsi della tempesta il bisogno di raccogliersi in poche linee, in volumi definiti e in<br />
simmetrie equilibrate, <strong>lo</strong>ntano dalla fantasia estravagante, dall’improvvisazione scapigliata, dal<br />
disordine voluttuoso 41 .<br />
E, certo, il giornalista non dimentica di soffiare sul fuoco dell’incendio di Reims,<br />
cannoneggiata dai tedeschi:<br />
Se un esercito nemico mai entrasse anche per poche miglia di qua dai nostri confini, se una<br />
squadra nemica osasse bombardare uno qualsiasi dei nostri porti aperti [...] le rovine di questi<br />
tesori del mondo custoditi da noi potrebbero in un sol giorno diventare tanto frequenti ed<br />
orrende che al confronto quelle del Belgio o della Sciampagna o della Piccardia sarebbero quasi<br />
dimenticate 42 .<br />
40 Si vedano U. OJETTI, Sosta, “Pagine d’arte”, II, 14, 30 agosto 1914, p. 193; ID., Reims e noi, ivi, II, 15, 30 settembre 1914, p.<br />
205; ID., Pittura di battaglie, ivi, II, 20, 15 dicembre 1914, p. 257.<br />
41 U. OJETTI, Sosta..., 1914.<br />
42 ID., Reims e noi..., 1914.<br />
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Marta Nezzo<br />
Sulla medesima linea editoriale, altri propagano l’eco delle devastazioni da Ypres, Arras,<br />
Lovanio, in un crescendo che culmina nell’appel<strong>lo</strong> contro I tedeschi e la distruzione dei monumenti<br />
d’arte, lanciato da Jacques Mesnil nel marzo 1915 43 .<br />
Ma, in redazione, c’è anche chi lavora di contrappunto.<br />
Il giovane Raffael<strong>lo</strong> Giolli, direttore in pectore del foglio, presenta infatti, nell’ottobre del ’14,<br />
un pezzo intitolato Le nostre esercitazioni barbariche 44 , ove <strong>lo</strong> sconcerto per i disastri prodotti<br />
dall’artiglieria su città e monumenti di Belgio e Francia, è proiettato sull’incuria italiana per il<br />
paesaggio, in tempo di pace:<br />
<strong>Di</strong>ciamo pure chiaro che noi non abbiamo nessun diritto di fremere per la distruzione<br />
d’una via caratteristica di Louvain, se la nostra sensibilità si fa meno squisita e tace e non si<br />
rinsalda in un ardore polemico quando la difesa è possibile, dinanzi alla persistente deformazione<br />
grottesca e villana del caratteristico aspetto del nostro bel paese 45 .<br />
Le difficoltà nostre a conservare collezioni, tessuti urbani o paesaggi – che abbiamo visto<br />
richiamate con discrezione da Corrado Ricci sul “Bollettino” del 1916 e 1917 e, nel ’19, risolte<br />
da Eva Tea in nazionalismo aggressivo – sono evocate qui con piana onestà intellettuale; di<br />
modo che su “Pagine d’Arte”, già nel ’14, il battage sciovinista di Ojetti dia<strong>lo</strong>ga e scopertamente<br />
si contrappone alla pulsione identitaria benigna di Giolli.<br />
Con identica movenza, gli articoli tangenti il conflitto si mescolano, un fascico<strong>lo</strong> dopo<br />
l’altro, alle tradizionali note d’arte antica e moderna, firmate da Mario Salmi, Guido Cagnola,<br />
Alfredo Vinardi, Giulio Ulisse Arata e dal<strong>lo</strong> stesso Giolli: certo il <strong>lo</strong>ro peso, nell’economia di ogni<br />
numero, si fa più evidente. L’intervento, con la presa di Aquileia 46 , permette di inaugurare la<br />
rubrica “Seguendo la guerra” e, presto, all’aggiornamento sulla devastazione del Belgio 47<br />
s’abbinerà quel<strong>lo</strong> sulle distruzioni in Italia: dalla rovina del Tiepo<strong>lo</strong> agli Scalzi, al bombardamento<br />
i S. Apollinare Nuovo a Ravenna 48 , all’oltraggio alla Basilica ed al Museo di Aquileja,<br />
dopo la Strafexpedition 49 .<br />
43 In “Pagine d’arte”, III, 5, 15 marzo 1915, pp. 41-44.<br />
44 “Pagine d’arte”, II, 16-17, 30 ottobre 1914, pp. 217-219. L’artico<strong>lo</strong> si appoggia a una lettera aperta al Ministro della<br />
Pubblica Istruzione, di ana<strong>lo</strong>go contenuto, stilata da Antonio Massara, direttore del Museo del Paesaggio di Pallanza, e pubblicata<br />
sul numero di settembre della rivista.<br />
45 Ivi, p. 217.<br />
46 L’unico testo fuor delle maglie della cronaca nel numero del 30 maggio 1915.<br />
47 Al citato J. MESNIL, I tedeschi e la distruzione ..., 1915; faranno seguito ID., I rapporti del professor Clemen e l’oggettività tedesca,<br />
Ivi, III, 15, 30 settembre 1915, pp. 121-123; ID., La morte di Ypres, Ivi, IV, 13, 30 luglio 1916, pp. 97-98.<br />
48 Bombe nemiche a Ravenna su S. Apollinare Nuovo, rubrica “Seguendo la guerra”, “Pagine d’arte”, IV, 4, 29 febbraio 1916, pp. 25-26.<br />
49 «Ora anch’essa è stata ferita come i nostri soldati, e ci pare più sacra di prima la bella, la santa Basilica, e sentiamo di<br />
amarla di più [...] L’attentato non è riuscito, ma il crimine, intenzionalmente, è stato consumato». E ancora: [...] «le autorità civili<br />
e militari si portarono sollecitamente sul sito, escogitando i provvedimenti d’urgenza per riparare i danni inferti alla Basilica, al<br />
Museo e alla chiesa di S. Antonio. Ugo Ojetti, che ha l’incarico della conservazione dei monumenti nella zona di guerra, venne ad<br />
Aquileja nel giorno stesso, quantunque fosse in linea e ben <strong>lo</strong>ntano da Aquileja; ci venne il comm. D’Adamo, segretario generale<br />
per gli Affari civili. E già si lavora alle riparazioni: una incancellabile macchia copre di vergogna l’esercito austriaco. E i suoi vilissimi<br />
attentati non servono ad altro che a far<strong>lo</strong> esecrare di più e a suscitare in noi nuove e più splendide energie e più fieri propositi di<br />
<strong>lo</strong>tta». C. COSTANTINI (Conservatore della Basilica), L’oltraggio austriaco alla Basilica ed al Museo di Aquileja, “Pagine d’arte”, V, 5,<br />
15 maggio 1917, pp. 103-104.
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
Su questa via inevitabilmente la rivista apre un secondo bacino operativo, più disponibile al<br />
compromesso, forse anche perché gestito in proprio dall’editore. Vi si ospitano firme poco note,<br />
ameno dal punto di vista storico-artistico. Quella, ad esempio, di Tomaso Sillani, segretario generale<br />
dell’associazione Pro Dalmazia, che il 15 aprile 1915 apre la breve rubrica “L’Arte nelle<br />
terre irredente”, con Dalmazia bella 50 ; cui seguiranno Le gemme del mare 51 e Aquileja 52 : un viaggio<br />
virtuale fra ciò che abbiamo avuto e ciò che vorremmo riprenderci. In queste sedi, arricchendo<br />
l’apparato fotografico in misura estranea alle consuetudini del periodico, Alfieri e Lacroix ottiene<br />
il doppio effetto di pubblicizzare volumi di imminente pubblicazione – in questo caso Lembi di<br />
Patria – e di partecipare a un’effettiva sensibilizzazione nazionalista sul tema dell’irredentismo.<br />
Come si vede, ancora una volta, il segnale preciso della virata ideo<strong>lo</strong>gica sta nell’aumento delle<br />
illustrazioni, che si fa notevole a partire dal gennaio 1917 53 .<br />
A quest’ambito vanno ascritti anche<br />
interventi di maggior respiro saggistico: nel luglio<br />
’17, si anticipa, con ampio corredo iconografico,<br />
L’arte Dalmata e Giorgio da Sebenico, testo di Adolfo<br />
Venturi destinato al volume Dalmazia Monumentale<br />
(preparato assieme a Ettore Pais, Pompeo Molmenti<br />
e all’immancabile Tomaso Sillani).<br />
Infine compaiono, sulle copertine e all’interno<br />
della rivista, le fotografie del patrimonio «vestito<br />
da difesa», tratte dal già citato testo base per la<br />
strumentalizzazione bellica delle arti, l’ojettiano<br />
I Monumenti Italiani e la guerra.<br />
Da qui in avanti il periodico proporrà tutta una<br />
serie di articoli sulle operazioni di presidio ai<br />
nostri capolavori, soprattutto veneziani 54 ,<br />
allineandosi al circuito propagandistico ufficiale,<br />
che permette all’Italia di partecipare al compianto<br />
interalleato sui monumenti.<br />
Ma la spinta ad interagire visivamente con<br />
gli avvenimenti, presto deraglia verso altre<br />
sperimentazioni. Accade così che l’impegno<br />
ideo<strong>lo</strong>gico di “Pagine d’Arte” si esprima, fra<br />
Il ‘lievo’ dei cavalli marciani sulla copertina di<br />
“Pagine d’arte”, V, 8, 15 agosto 1917.<br />
1915 e 1916, nella promozione di alcuni<br />
concorsi per cartoline di guerra 55 .<br />
50 “Pagine d’arte”, III, 9, 15 aprile 1915, pp. 73-76.<br />
51 Nella rubrica “L’arte nelle terre irredente”, “Pagine d’arte”, III, 14, 30 agosto 1915, pp. 113-115.<br />
52 Nella rubrica “Seguendo la guerra”, “Pagine d’arte”, III, 11, 15 giugno 1915, pp. 89-91.<br />
53 A quest’altezza la rivista cambia pelle: sparisce il sottotito<strong>lo</strong> che la individuava come “Cronaca e notiziario della Rassegna<br />
d’Arte Antica e Moderna”; la periodicità cambia – da quindicinale a mensile – e compaiono le copertine illustrate, in cartoncino.<br />
54 Ricordo La difesa dei nostri monumenti, “Pagine d’arte”, V, 8, 15 agosto 1917; C. TRIDENTI, Condottieri in ritiro, Ivi, VI, 1,<br />
gennaio 1918, pp. 1-7; V; LA ROCCA, I cavalli di San Marco a Roma, Ivi, VI, 2, febbraio 1918, pp. 17-22<br />
55 “Pagine d’arte”, III, 16, 15 ottobre 1915, pp. 133-136; “Pagine d’arte”, III, 17, 30 ottobre 1915, p. 142<br />
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Marta Nezzo<br />
È il primo passo verso una progressiva apertura alla<br />
pubblicazione di opere contemporanee, di contenuto militare<br />
ma non soltanto: I Territoriali di Aquileia, I bersaglieri al<br />
ponte Sdraussina di Italico Brass, ma anche il Do<strong>lo</strong>re di<br />
Vincenzo De Stefani, Il combattimento di Neuwe Chapelle di<br />
Frank Brangwyn, Saldatura di bombe di Greppi, La fame di<br />
Aldo Carpi. Fra le numerosissime firme troviamo ancora<br />
Aristide Sartorio, Lino Selvatico, Hermann Paul, Alberto<br />
Salietti, Anselmo Bucci, Paul-Émile Colin e via così, finché<br />
la pace non stempererà la tensione nei nomi di Tito,<br />
De Nittis e persino Watteau.<br />
Il dato interessante e innovativo, però, è che questa<br />
direttrice di lavoro impone all’attenzione interna, con<br />
omonima rubrica, anche “I disegnatori di guerra”<br />
stranieri 56 : Hermann Paul, Muirhead Bone, Henry De Groux,<br />
Félicien Cacan, Jean-Louis Forain, Maurice Barraud,<br />
F. Maesler, Dunoyer De Segonzac, C. R. W. Nevinson,<br />
Paul-Émile Colin. Un gruppo decisamente composito,<br />
dove, a sorpresa, balugina l’avanguardia.<br />
Certo “Pagine d’arte” non si propone di valutarne le<br />
opere con estensione saggistica; la presenza di queste firme<br />
sorregge, semmai, una manovra di critica in atto, che<br />
vuol sollecitare anche in patria la produzione di soggetto<br />
bellico, accrescendo la schiera dei vari Pogliaghi, Carpi,<br />
Bucci e Brass.<br />
In tale senso anche <strong>lo</strong> Stato maggiore dell’esercito è<br />
chiamato al confronto. Scrive Giolli nel ’17:<br />
Ma guardate la Francia! Ha inteso subito che<br />
la guerra non è niente; è un fatto muto che diventa<br />
e<strong>lo</strong>quente so<strong>lo</strong> se la parola l’esprime: e non c’è parola<br />
più evidente e persuasiva e commovente dell’arte, la<br />
sola che duri nella g<strong>lo</strong>ria, nella storia. Governo, editori<br />
artisti, tutti mobilitati; così che oggi per la sua<br />
guerra s’è formata nel mondo una voce così forte e<br />
viva, e delle sua guerra s’è formata nel tempo un’immagine<br />
così ricca e profonda, che di tutta la guerra europea<br />
questa sola appare oggi, e sembrerà domani che sia<br />
esistita 57 .<br />
Italico Brass, I bersaglieri al ponte di<br />
Sdraussina, in copertina su “Pagine d’arte”,<br />
V, 3, 15 marzo 1917.<br />
Greppi, Saldatura di bombe, sulla copertina di<br />
“Pagine d’arte”, V, 9, 15 settembre 1917.<br />
56 La rubrica era stata progettata da Raffael<strong>lo</strong> Giolli per la “Rassegna d’Arte Antica e Moderna”. Si vedano le affermazioni<br />
del<strong>lo</strong> stesso Giolli in Esposizioni milanesi. L’arte degli alleati, “Pagine d’arte”, IV, 19-20, 15 dicembre 1916, pp. 145-146.<br />
57 Problemi di guerra, “Pagine d’arte”, V, 9, 15 settembre 1917, pp. 155-158.
Félicien Cacan, Avanti i seppellimenti sulla via di Sompuis,<br />
12 settembre 1914 (litografia), in apertura dell’artico<strong>lo</strong><br />
senza firma, I disegnatori di guerra: Félicien Cacan, in<br />
“Pagine d’arte”, V, 3, 15 marzo 1917, pp. 60-61: 60.<br />
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
Félicien Cacan, L’ambulanza a Suippes, 14 settembre 1914 (litografia),<br />
in I disegnatori di guerra: Félicien Cacan, in “Pagine d’arte”, V, 3,<br />
15 marzo 1917, pp. 60-61: 61.<br />
L’ esempio straniero, costantemente<br />
invocato a conforto, innesca un moto interculturale<br />
che arriverà a lambire persino i problemi<br />
di ricostruzione del dopoguerra. E ciò perché,<br />
nell’intento di muovere nuove energie, la rivisita non giustappone Italia ed Europa<br />
nell’angusto spazio di coppie oppositive, ma apre il più possibile la visuale nostra agli<br />
stimoli esterni.<br />
L’adesione ai temi nazionalisti perde il suo potere di soffocamento: paradossalmente, il<br />
periodico che più e meglio avrebbe potuto rispondere alla ragione delle armi con<br />
un’adesione totale, con l’annullamento delle motivazioni metodo<strong>lo</strong>giche in favore di<br />
una dissipazione sciovinista della critica, offre risposte diversificate e complesse. Che<br />
potremmo riassumere nell’idea di una partecipazione schierata ma consapevole.<br />
Del resto da molto tempo, “Pagine d’arte” si pone il problema di definire un ruo<strong>lo</strong><br />
plausibile per gli artisti e per i critici in una società sollecitata in senso distruttivo.<br />
Giolli, nel febbraio 1915, dichiarava:<br />
Le torri d’avorio non resistono più, in questa guerra. Tutti abbiamo questa guerra<br />
aspra e tormentosa nel cuore. Tutti avremo il <strong>bene</strong>ficio di questa prova violenta, di<br />
questo martirio vo<strong>lo</strong>ntario e generoso, di questo ideale sacrificio.<br />
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Marta Nezzo<br />
E ancora:<br />
Che sia guerra che vinca o che non vinca. Ma, se vinca, ci darà anche un’arte che opererà<br />
con più larghezza e intensità, perché avrà fiducia nel trionfo; ci darà una critica che scriverà con<br />
fervore e con vigore perché saprà d’aver un’arte nazionale da difendere58 .<br />
Ben più che altrove, qui, l’osmosi fra crismi identitari e derive nazionaliste è intesa con chiara<br />
coscienza.<br />
Configurandosi, sin dal principio, come luogo di frizione fra problemi teorici e realtà pratica,<br />
fra cronaca e giudizio, la rivista matura come corpo consapevolmente ibrido. E avverte<br />
l’esigenza profonda di trarre, dal concentrarsi degli avvenimenti, <strong>lo</strong> spunto per una rifondazione<br />
vera e propria, intimamente identitaria, del sistema delle arti italiano. Vaglia i nuovi strumenti della<br />
propaganda, sonda le prospettive imposte dal nazionalismo. E infine sembra uscire dalla crisi<br />
europea animata da nuova lucidità, dal continuo slancio verso un model<strong>lo</strong> di militanza intriso di<br />
creatività, di interventismo culturale e sociale, di entusiasmo: fra ’18 e ’19 non si occuperà<br />
soltanto di restituzioni e risarcimenti, ma delle rinascenti polemiche d’architettura, delle mostre<br />
della para-avanguardia veronese 59 , del futuro.<br />
Anche Giolli, come Eva Tea, come molti altri, medita sul ruo<strong>lo</strong> della critica d’arte.<br />
Ma le impone il giogo di un’eticità profonda, capace di governare la riflessione per affrontare i<br />
drammi della storia.<br />
«Il va<strong>lo</strong>re delle idee è fattivo concreto tangibile», scrive su “Pagine d’Arte” nel febbraio 1917 60 ;<br />
e ancora, in marzo:<br />
come il pittore dal vero ha tratto mille osservazioni che incentra, rifonde, ricrea in una unità<br />
nuova, prima inesistente, nella sua visione lirica, così il critico trae dall’arte costruita, dalla vita<br />
formata, mille osservazioni, le incentra, le ricrea in una nuova unità: che è la sua coscienza della<br />
storia. Per modo di dire. Perché è da sé che la trae61 .<br />
E dopo Caporetto:<br />
C’è qualche cosa che continuerebbe a vivere tra le più dannate ipotesi di un domani<br />
catastrofico, – la nostra coscienza, il nostro pensiero. E continuare oggi a pensare, come prima<br />
si faceva, a scrivere, non è più quella cieca follia che sarebbe invece nel continuare ad agire.<br />
Perché appunto questo del pensare e del<strong>lo</strong> scrivere è uno dei modi di rientrar nella nostra anima,<br />
di capirci. Anche se si pensi so<strong>lo</strong>, ma che sia con serietà, e si scriva dell’arte62 .<br />
58 R. GIOLLI, L’arte di domani (Per credere alla guerra e alla storia), “Pagine d’arte”, III, 4, 28 febbraio 1915, pp. 34-35.<br />
59 L. FIUMI, Esposizione d’arte Moderna,“Pagine d’arte”, VI, 5, mag. 1918, pp. 60-62; La Cispadana di Verona, Ivi, VII, 9, set. 1919,<br />
pp. 79-81. Entrambi figurano nella rubrica “Esposizioni”.<br />
60 R. GIOLLI, Indicazioni, “Pagine d’arte”, V, 2, 28 febbraio 1917, p. 26.<br />
61 ID., Contenuti, “Pagine d’arte”, V, 3, 15 marzo 1917, p. 51.<br />
62 ID., Il so<strong>lo</strong> problema. Parentesi, “Pagine d’arte”, V, 11, 15 novembre 1917, pp. 179-180.
Accenti nazionalistici negli scritti d’arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura<br />
L’inarrestabile <strong>lo</strong>tta, fra i va<strong>lo</strong>ri identitari e la <strong>lo</strong>ro possibile degenerazione sciovinista, si<br />
scioglie nel<strong>lo</strong> specchio di una coscienza limpida. Opzione viva e perico<strong>lo</strong>sa dell’essere pensiero,<br />
come dimostrerà, molti anni dopo, proprio Raffael<strong>lo</strong> Giolli, assassinato a Mauthausen-Gusen nel 1945.<br />
VignettadiJean-LouisForain,inaperturadell’artico<strong>lo</strong>,<br />
senza firma, I disegnatori di guerra: Forain, in<br />
« Pagine d’arte », V, 4, 15 aprile 1917, pp. 80-81: 80.<br />
<strong>Di</strong>segno inedito di Jean-Louis Forain, in I disegnatori di guerra: Forain, in<br />
«Pagine d’arte», V, 4, 15 aprile 1917, pp. 80-81: 81.<br />
Albin Egger-Lienz, Finale. L’illustrazione chiude il trafiletto I disegnatori<br />
della guerra: Egger-Lienz, in “Pagine d’arte”, VII, 7, 15 luglio 1919, pp. 64-65: 65.<br />
107
“IO LO CONOSCEVO BENE...”<br />
RENATO GUTTUSO VISTO DA LEONARDO SCIASCIA<br />
GIUSEPPE CIPOLLA<br />
1 L. SCIASCIA, <strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>, “L’Espresso”, 11 ottobre, 1987, infra.<br />
2 G. JACKSON, Nel labirinto di Sciascia, Edizioni La Vita Felice, Milano 2004, p. 202.<br />
3 B. CARUSO, Le giornate romane di Leonardo Sciascia, La Vita Felice, Milano 1997, p. 63.<br />
A giustificazione del suo amore per l'arte,<br />
Leonardo ha scritto molto sugli artisti e di ogni<br />
artista ha saputo sempre cogliere un lato<br />
particolare e inedito.<br />
Bruno Caruso, Le giornate<br />
romane di Leonardo Sciascia,<br />
Edizioni La Vita Felice, Milano 1997<br />
«Ho conosciuto benissimo Renato Guttuso: e posso dir<strong>lo</strong> non so<strong>lo</strong> per i frequenti<br />
incontri, la lunga confidenza, la simpatia e l’affetto che avevo per lui, ma anche – e soprattutto<br />
– perché il nostro essere d’accordo nel giudicare persone, fatti e libri nella <strong>lo</strong>ro immediata verità,<br />
se appena tentavamo di risalire ai principi, diventava fondamentale e profonda discordia» 1 .<br />
Più che mai simili in moltissimi contenuti, come l’attaccamento alla <strong>lo</strong>ro terra, l’interesse per<br />
una giustizia sociale, il rinnovamento di istituzioni superate. Personalmente non potevano essere<br />
più diversi: Sciascia illuminista, costante seguace del fi<strong>lo</strong> della ragione, uomo riservato; Guttuso<br />
esuberante, di temperamento passionale a volte volubile, perennemente in crisi, in cerca di<br />
compagnia, amici, amiche, movimento.<br />
Sciascia non amava distaccarsi per periodi molto lunghi dalla Sicilia, mentre Guttuso<br />
trascorreva lunghi periodi <strong>lo</strong>ntano dalla sua terra, ma non se ne distaccava mai emotivamente:<br />
quasi tutta la sua pittura ritorna alle vedute marine, ai ritratti, alle nature morte che sono radicati<br />
in Sicilia. Non a caso amava ripetere «Anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia» 2 .<br />
I rapporti di intensa e comprovata amicizia tra Renato Guttuso e Leonardo Sciascia, come<br />
noto, furono segnati nel 1979, da una rottura prettamente di carattere politico – definita<br />
dal comune amico Bruno Caruso il «fattaccio» 3 –, che tuttavia portò a un distacco molto sofferto
110<br />
Giuseppe Cipolla<br />
tra i due 4 . Sciascia era stato consigliere comunale assieme a Guttuso a <strong>Palermo</strong>, eletto nel 1975<br />
nelle liste del Pci, carica da cui si dimise dopo circa un anno e mezzo, mentre dal 1979 al 1983,<br />
in un momento di disapprovazione con il compromesso storico del PCI, diventò deputato al Parlamento<br />
nelle file del Partito Radicale 5 . In seguito, fatto che poi determinò la fine della storica amicizia,<br />
fu il noto misunderstanding con Berlinguer e Guttuso sul caso Moro riguardo alla questione<br />
delle responsabilità dei servizi segreti dell’Est nel rapimento 6 .<br />
Un rapporto che fino a quella data era stato segnato, pur nelle divergenze di vedute, da<br />
profonda amicizia, come emerge, ad esempio, da un intervista al<strong>lo</strong> scrittore apparsa su “Critica<br />
Sociale” nel gennaio del 1978, dove, alla domanda sui legami personali e politici con Guttuso,<br />
Sciascia rispose: «Con Guttuso ho rapporti di profonda amicizia, mai incrinati dalla sua<br />
ortodossia e dal mio dissenso. In questo siamo entrambi molto siciliani» 7 . Appena un anno dopo<br />
<strong>lo</strong> scrittore verrà smentito proprio dall’“ortodossia politica” del grande pittore, che, nel maggio<br />
del 1979, in seguito alla candidatura di Sciascia nelle liste del Partito Radicale, scriverà:<br />
«Caro Leonardo, il senso di sgomento che ho provato nell’apprendere la notizia della tua<br />
candidatura nel PR mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia amicizia per te» 8 .<br />
Una frase perentoria, che dimostra quanto per il pittore le divergenze e la “contraddizione” nelle<br />
scelte politiche del<strong>lo</strong> scrittore rappresentassero un muro invalicabile anche per i rapporti personali.<br />
Ed è significativa, infatti, la risposta di Sciascia, che chiarisce la propria visione in merito:<br />
La tua preoccupazione e il tuo sgomento non vengono dal<strong>lo</strong> scoprirmi in contraddizione:<br />
sono un modo e del tuo modo di vivere il comunismo, e del tuo modo di intendere l’amicizia. Tu<br />
dici “La notizia della tua candidatura nel PR mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia<br />
amicizia per te”. Al contrario, il tuo essere comunista negli anni del realismo socialista, durante<br />
la polemica Vittorini-Togliatti, di fronte ai fatti d’Ungheria e di Cecos<strong>lo</strong>vacchia, in questi anni<br />
di compromesso storico, non mi hanno mai fatto riflettere sull’amicizia che sentivo per te anche<br />
prima di conoscerti e che poi ha trovato conferma nel conoscerti. [...] Un mio concittadino usava<br />
chiudere le discussioni con questa frase: “Siamo d’accordo, ma la pensiamo diversamente”. Anche<br />
noi, caro Renato, siamo d’accordo su tante cose: ma la pensiamo diversamente. Contentiamoci<br />
dell’essere d’accordo su qualche punto. E continuiamo, finché si può, a pensarla diversamente9 .<br />
Fin qui la storia nota delle <strong>lo</strong>ro divergenze politiche legate alla fase conclusiva dei<br />
<strong>lo</strong>ro rapporti: ma è, tuttavia, in campo figurativo e letterario che emergono svariati punti<br />
di condivisione, che vanno a comporre, nella <strong>lo</strong>ro varietà, il lungo sodalizio culturale intercorso<br />
fra i due prima del 1979.<br />
4 Su questo punto cfr. L. SCIASCIA, <strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong>..., 1987.<br />
5 A. MAORI, Leonardo Sciascia: e<strong>lo</strong>gio dell’eresia, Edizioni La Vita Felice, Milano 1995, pp. 22-24.<br />
6 Su questa vicenda cfr. L. SCIASCIA, A futura memoria: se la memoria ha un futuro, Bompiani, Milano 1989, pp. 102-105.<br />
7 L. SCIASCIA, Intervista su “Critica Sociale”, gennaio 1978, ripubblicata in L. SCIASCIA, La palma va a nord, a cura<br />
di V. Vecellio, Gammalibri, Milano 1982, p.17.<br />
8 Lettera di Renato Guttuso a Leonardo Sciascia, s.d., pubblicata su “La Repubblica”, maggio 1979.<br />
9 Lettera di Leonardo Sciascia a Renato Guttuso, s.d., pubblicata su “La Repubblica”, maggio 1979.
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
Prima di sondare nel<strong>lo</strong> specifico la rete di tali rapporti, però, sia consentita una breve<br />
e generale premessa relativa ai legami di Sciascia con le arti figurative.<br />
Un aspetto poco noto, infatti, dell’attività extra-letteraria di Leonardo Sciascia – ma che con<br />
la letteratura presenta frequenti e indissolubili punti di contatto – è la sua intensa passione per<br />
le arti figurative, condensata in una cospicua produzione di scritti d’arte 10 .<br />
Come per il cinema, si può distinguere uno Sciascia che scrive d’arte (presentazioni, elzeviri,<br />
saggi critici) da uno Sciascia appassionato d’arte (nella veste a lui non tanto congeniale di<br />
collezionista, e in quella, diversamente più autentica e spontanea, di frequentatore di atelier<br />
e gallerie d’arte) e, infine, da uno Sciascia che mutua nella sua scrittura narrativa immagini<br />
dall’arte figurativa 11 . Un interesse ampio<br />
quel<strong>lo</strong> del<strong>lo</strong> scrittore che si muove dalla<br />
passione per le stampe e la grafica in genere<br />
– come attesta la cospicua collezione che<br />
donò alla Fondazione Sciascia a Racalmuto,<br />
costituita da circa duecento disegni e<br />
incisioni con i ritratti degli scrittori da lui<br />
più amati dal Cinquecento al Novecento,<br />
raccolti nei numerosi viaggi e soggiorni a<br />
Parigi, Milano, Torino, Parma, Firenze e<br />
Roma – alla vasta produzione di scritti<br />
d’arte articolatasi attraverso la critica<br />
d’arte militante in presentazioni, cata<strong>lo</strong>ghi<br />
di mostre, nella stampa periodica e nelle<br />
riviste d’arte, e su argomenti quali scultura,<br />
Renato Guttuso, Autoritratto, 1936, olio su tela, cm 49 x 60,5, Galleria<br />
d'Arte Moderna, <strong>Palermo</strong>.<br />
pittura, disegno, incisione, architettura e fotografia 12 . Dall’interesse per l’arte moderna in<br />
Sicilia, come attesta la lettura socio<strong>lo</strong>gica sul Ritratto di Ignoto di Antonel<strong>lo</strong> da Messina del Museo<br />
Mandralisca di Cefalù 13 , o gli scritti dedicati a Francesco Laurana, Caravaggio 14 , Filippo Paladini 15<br />
e Pietro d’Asaro 16 ; o i rapporti con la cultura figurativa contemporanea, non soltanto siciliana.<br />
10 Una prima ricognizione bibliografica degli scritti di Sciascia sulle arti figurative è stata pubblicata da Francesco<br />
Izzo (cfr. F. IZZO, Come Chagall vorrei cogliere questa terra: L. Sciascia e l’arte. Bibliografia ragionata di una passione, in La memoria di<br />
carta, a cura di V. Fascia, con scritti di F. Izzo e A. Maori, Edizioni Otto/Novecento, Milano 1998, pp. 191-276), che ringrazio<br />
vivamente per avermi fornito preziosi suggerimenti. Recentemente è stata pubblicata una nuova ricognizione bibliografica,<br />
cfr. A. MOTTA, Bibliografia degli scritti di Leonardo Sciascia, Sellerio editore, <strong>Palermo</strong>2009.<br />
11 Su questo aspetto si veda l’informata biografia di G. TRAINA, Leonardo Sciascia, Mondadori, Milano 1999, pp. 48-50.<br />
12 Per un quadro generale sui rapporti tra Sciascia e le arti figurative cfr. La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative,<br />
cata<strong>lo</strong>go della mostra (Racalmuto 1999) a cura di P. Nifosì, Edizioni Salarchi Immagini, Comiso 1999; e<br />
G. CIPOLLA, L’universo sciasciano delle arti figurative, “El Aleph”, 11, Francotirature, Milano 2009, pp. 81-89.<br />
13 Cfr. G. MANDEL, L’opera completa di Antonel<strong>lo</strong> da Messina, con introduzione di L. Sciascia, Milano 1967.<br />
14 Cfr. CaravaggioinSicilia,ilsuotempo,ilsuoinflusso,cata<strong>lo</strong>godellamostra(Siracusa1984)acuradiF.Abbate,Sellerioeditore,<strong>Palermo</strong>1984.<br />
15 Cfr. Mostra di Filippo Paladini, cata<strong>lo</strong>go della mostra (<strong>Palermo</strong> 1967) a cura di M. G. Paolini e D. Bernini, saggio<br />
introduttivo di C. Brandi, <strong>Palermo</strong> 1967.<br />
1 6 Cfr. Pietro d’Asaro il «Monoco<strong>lo</strong> di Racalmuto», cata<strong>lo</strong>go della mostra (Racalmuto 1984-1985) a cura di<br />
M. P. Demma, prefazione di L. Sciascia, <strong>Palermo</strong> 1984.<br />
111
112<br />
Giuseppe Cipolla<br />
Renato Guttuso, Voltaire, 1972, disegno a china,<br />
355x255 mm, Fondazione Sciascia, Racalmuto.<br />
Per quanto riguarda i ritratti degli scrittori del<br />
passato da lui raccolti, e ora conservati alla Fondazione<br />
Sciascia a Racalmuto, si possono citare qui almeno le<br />
due chine di Guttuso donate al<strong>lo</strong> scrittore per la sua<br />
collezione: si tratta di due ritratti di Voltaire, scrittore<br />
amatissimo da Sciascia, di cui uno di profi<strong>lo</strong>, dove<br />
l’artista appose una significativa dedica: «A Leonardo, a<br />
Voltaire e alla Dea Ragione», a dimostrazione del<br />
sodalizio culturale tra i due; e l’altro che rappresenta<br />
una sorta di studio “divertito” del volto del<strong>lo</strong> scrittore<br />
francese visto nelle varie espressioni, anche qui con una<br />
scritta di Guttuso: «pour Voltaire» 17 .<br />
La familiarità di Sciascia con l’arte contemporanea è<br />
confermata, inoltre, dal frequentatissimo contatto con<br />
pittori come Guttuso, Mino Maccari, Lia Pasqualino Noto,<br />
Antonel<strong>lo</strong> e Francesco Trombadori, Tono Zancanaro,<br />
Cazzaniga, Fabrizio Clerici, Emilio Greco, Bruno Caruso<br />
e Fausto Pirandel<strong>lo</strong>, oltre alle sue relazioni, seb<strong>bene</strong> più<br />
distanti, con altri, tra cui spicca la figura di Giorgio De Chirico,<br />
che intervistò nel 1975 in occasione di una mostra del pittore a <strong>Palermo</strong>.<br />
Sciascia era molto conosciuto negli studi palermitani, romani, milanesi e parigini frequentati<br />
da scrittori e pittori, come amico e come collega. Inoltre è stato il tutore di numerosi giovani<br />
pittori, ai cui vernissages delle mostre a <strong>Palermo</strong>, Parma, Milano, Torino e altre città italiane non<br />
mancava mai.<br />
Quando si tratta, poi, di artisti particolarmente congeniali e siciliani, come Antonel<strong>lo</strong> da Messina,<br />
Emilio Greco, Renato Guttuso e Bruno Caruso, esulando da differenziazioni storiche, in questi<br />
casi <strong>lo</strong> scrittore trasforma la sua pagina critica quasi in una pagina narrativa, “raccontando” le<br />
ana<strong>lo</strong>gie esistenziali fra gli artisti e i luoghi della vita siciliana, quasi registrandone i tratti<br />
endemici del <strong>lo</strong>ro legame con la cultura isolana.<br />
Si ricordi, inoltre, l’attività, poco nota, di Sciascia, come fondatore e direttore della rivista<br />
“Galleria: rassegna bimestrale di cultura”, fondata nel 1949 assieme a Mario Petrucciani e<br />
Jole Tornelli ed edita da Salvatore Sciascia a Caltanissetta, che annoverava tra i suoi<br />
collaboratori Pier Pao<strong>lo</strong> Pasolini, Alberto Moravia, Mario Praz, Emilio Cecchi, Ferruccio<br />
Ulivi, Enrico Falqui; e storici e critici d’arte, tra cui Roberto Longhi, Car<strong>lo</strong><br />
Ludovico Ragghianti, Roberto Salvini, Cesare Brandi, Giulio Car<strong>lo</strong> Argan e Federico<br />
Zeri. Nomi che testimoniano la sensibilità del periodico per le arti visive, a dimostrazione dei<br />
17 Entrambi i disegni sono firmati e datati in basso a sinistra: il primo reca la firma e la data: «Guttuso / 1-1-1972»,<br />
e il secondo: «Guttuso / 1-1-1972».
Renato Guttuso, Pour Voltaire, 1973, disegno a china,<br />
700x550 mm, Fondazione Sciascia, Racalmuto.<br />
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
legami esistenti nella seconda metà del Novecento<br />
tra critica letteraria e critica d’arte 18 . Sciascia coinvolgeva<br />
spesso i suoi amici pittori per illustrare il periodico<br />
nisseno, come nel caso del numero del 1955 dedicato<br />
a Nino Savarese, per il quale aveva chiesto a Guttuso<br />
e Maccari una serie di disegni con i ritratti del grande<br />
scrittore ennese 19 .<br />
Un discorso a sé è rappresentato poi dalla sua<br />
passione per l’incisione: Luigi Bartolini, Mario<br />
Calandri, Mino Maccari, Ernesto Treccani (che<br />
Sciascia conobbe tramite Guttuso), Leonardo<br />
Castellani, Flavio Costantini, Tono Zancanaro,<br />
sono i nomi degli incisori più vicini al goût esthétique<br />
del<strong>lo</strong> scrittore; un gusto che si muove tra recupero<br />
della tradizione naturalistica dell’arte moderna e<br />
linguaggi a volte di matrice neosimbolista o<br />
neoespressionista, ma sempre votati a intenti narrativi.<br />
Non è un caso che molti degli artisti prediletti da<br />
Sciascia, fossero anche scrittori, come nel caso di<br />
Savinio, Caruso, Antonel<strong>lo</strong> Trombadori e altri, personaggi che affascinavano Sciascia per il <strong>lo</strong>ro<br />
“dilettantismo” stendhaliano, per il <strong>lo</strong>ro “peregrinare nel mondo con spirito universalistico” 20 .<br />
Quasi come compensazione metafisica, inoltre, nei suoi romanzi, egli ha spesso incastonato nella<br />
narrazione improvvise apparizioni di immagini tratte dal patrimonio artistico mondiale:<br />
dal tableau vivant erotico composto dal protagonista <strong>Di</strong> Blasi e dalla sua amante<br />
nel Consiglio d’Egitto (1963), che rimanda alle scene galanti dei dipinti di Boucher;<br />
alla presenza della Tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti e della Zattera della Medusa di<br />
Géricault in Todo Modo (1974), dove il protagonista è un pittore anonimo di successo, che<br />
senza molte difficoltà potrebbe essere identificato proprio con Guttuso 21 ; alla nota incisione di<br />
Dürer ne’ Il cavaliere e la morte (1988); al quadro rubato, allusivo al furto della Natività di<br />
Caravaggio dell’Oratorio di San Lorenzo di <strong>Palermo</strong>, in Una storia semplice (1989) 22 .<br />
18 Sulla rivista “Galleria” cfr. G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti figurative attraverso la direzione di “Galleria. Rassegna<br />
bimestrale di cultura” (1949-1989), “Annali di Critica d’Arte”, in corso di stampa.<br />
19 Cfr. Nino Savarese, “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura”, VI, 5-6, 1955.<br />
20 Cfr. F. IZZO, Come Chagall..., 1998, p. 194.<br />
21 In Todo modo Sciascia, pur tacendo il nome del pittore-protagonista, fornisce un indizio sulla sua identità, quando<br />
al suo primo incontro con l’antagonista Don Gaetano, questi dice al pittore anonimo: «mi pare di riconoscerla... Aspetti, non mi dica<br />
il suo nome... In televisione, circa tre mesi fa: facevano vedere come nasce un quadro, un suo quadro... Francamente, poteva<br />
farsi vedere a dipingere un quadro più bel<strong>lo</strong>... Ma l’ha fatto apposta, immagino: come nasce un brutto quadro per un brutto mondo,<br />
un quadro senza intelligenza per quei milioni di esseri senza intelligenza che stanno davanti a un televisore» (cfr. L. SCIASCIA, Todo<br />
modo, in Opere 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1989, p. 110). E di fatti Guttuso, che è un caso emblematico di<br />
artista che accanto a grandi capolavori dovette realizzare anche molti dipinti “corrivi” per il mercato, nel noto programma<br />
televisivo aveva realizzato in diretta una Natura morta con peperoni.<br />
22 Sulle suggestioni figurative dei romanzi sciasciani cfr. G. JACKSON, Nel labirinto di Sciascia, pp. 183-207.<br />
113
114<br />
Giuseppe Cipolla<br />
Questa in sintesi la vasta rete in cui si viene a col<strong>lo</strong>care l’interesse di Sciascia per le arti visive,<br />
nella quale – come vedremo – la figura di Guttuso inevitabilmente occupa un posto significativo.<br />
Tra gli artisti siciliani del Novecento, infatti, la figura di Guttuso è stata forse quella che più<br />
ha suscitato l’interesse, accanto a quel<strong>lo</strong> della critica ufficiale, di letterati e poeti, in varia misura<br />
adusi alla critica d’arte. Come emerge dalla vasta bibliografia su Guttuso, numerosi risultano gli<br />
scritti di letterati – in genere presentazioni e testi introduttivi a cata<strong>lo</strong>ghi di mostre – quali<br />
Alberto Moravia, Elio Vittorini, Giuseppe Ungaretti, Alfonso Gatto, Pier Pao<strong>lo</strong> Pasolini,<br />
Fernandez, Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia.<br />
Dagli scritti di Elio Vittorini e Duilio Morosini nel cata<strong>lo</strong>go della mostra milanese del 1942 23 ,<br />
a quel<strong>lo</strong> di Pab<strong>lo</strong> Neruda del 1954 24 , alla celebre monografia di Vittorini del 1960 25 , per non<br />
tacere poi di quelli di Alberto Moravia 26 , Pier Pao<strong>lo</strong> Pasolini 27 , Giuseppe Ungaretti 28 ,<br />
Elsa Morante e di altri scrittori 29 . Inutile, forse, aggiungere qui quanto le ragioni di questa diffusa<br />
attenzione siano da ricondurre alle comuni radici culturali dell’antifascismo, sulle quali si fonda<br />
gran parte della cultura italiana del secondo Novecento, e a cui si deve, peraltro, quel clima culturale<br />
che vide un legame stringente e ideo<strong>lo</strong>gico tra arte e letteratura, del quale risulta emblematico il<br />
sodalizio tra Sciascia e Guttuso.<br />
Nell’acceso dibattito post-bellico tra realisti e astrattisti, dove la figura del pittore bagherese<br />
occupa un posto rilevante 30 , Sciascia si schiera apertamente con i sostenitori del figurativismo,<br />
mantenendo tuttavia alcune riserve sulle posizioni estremiste di matrice marxista dell’amico 31 .<br />
E difatti, tempo dopo, in un’intervista dove gli veniva chiesto se condivideva l’estetica del<br />
“realismo socialista” della pittura di Guttuso, <strong>lo</strong> scrittore fermamente rispondeva:<br />
No, e del resto, per un artista vero – qual è per esempio Guttuso – il “realismo socialista” non esiste.<br />
Guttuso è un grande pittore più quando fa “I tetti di Sicilia” che quando dipinge i “Funerali di<br />
Togliatti”. Le etichette esistono in senso deteriore, e per la parte deteriore32 .<br />
23 E. VITTORINI, D. MOROSINI, <strong>Di</strong>segni di Guttuso, Edizioni di Corrente, Milano 1942.<br />
24 P. NERUDA, A. TROMBADORI, Renato Guttuso, Vystavnì Sine Mànesa, Praga 1954.<br />
25 E. VITTORINI, Guttuso, Edizioni del Milione, Milano, 1960.<br />
26 A. MORAVIA, F. GRASSO, Renato Guttuso, Edizioni Il Punto, <strong>Palermo</strong> 1962.<br />
27 P. P. PASOLINI, Venti disegni di Renato Guttuso, Editori Riuniti, La Nuova Pesa, Roma 1962.<br />
28 G. UNGARETTI, Renato Guttuso, Zeichnungen 1930-1970, Propyläen Verlag, Berlino 1970.<br />
29 È noto quanto estesa e notevole fosse la rete di amicizie di Guttuso in campo artistico e letterario, ci si limita a<br />
ricordare tra questi Picasso, di cui Guttuso era ospite almeno due volte l’anno, Neruda che fu testimone alle sue nozze con Mimise,<br />
«la persona che più l’ha capito e che più l’ha amato» come scrisse Sciascia.<br />
30 Sul dibattito in ambito figurativo tra realismo e astrattismo nel secondo dopoguerra cfr. R. BOSSAGLIA, La ripresa del dopoguerra:<br />
le varie tendenze, in EAD., L’arte nella cultura italiana del Novecento. Con un dizionario minimo degli artisti e dei critici, Laterza, Milano 2000, pp. 37-41.<br />
31 La scelta di campo in favore del realismo, che fu naturalmente trasversale rispetto alla letteratura e alle arti visive, va intesa<br />
nel solco della cultura gramsciana che emergeva nella critica letteraria e figurativa dei primi anni Cinquanta attraverso riviste quali<br />
“Nuova Corrente”, “Nuovi Argomenti”, “ L’esperienza poetica”, “Galleria”, “Il Selvaggio”, dove scrivevano Pasolini, Romanò, Roversi,<br />
Maccari, Guttuso stesso e Sciascia. Su questo punto cfr. M. ONOFRI, Storia di Sciascia, Editori Laterza, Roma 2004, pp. 33-34.<br />
32 L. SCIASCIA, Intervista pubblicata su “Critica Sociale”, 1978, p. 17.
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
Non è un caso, forse, che Sciascia scelga proprio un dipinto come Paese del latifondo<br />
siciliano del 1956, come illustrazione della copertina di uno dei suoi romanzi più<br />
celebri, Il giorno della Civetta, pubblicato da Einaudi nel 1961 33 .<br />
Inoltre Sciascia, sin dai primi anni Cinquanta, dimostra il suo interesse per artisti dediti al realismo,<br />
anche di epoche precedenti, come attestano alcuni saggi e recensioni di questi anni: si ricordi,<br />
ad esempio, la recensione apparsa su “Galleria”, nel novembre del 1952, della monografia su<br />
Vincenzo Gemito di Fortunato Bel<strong>lo</strong>nzi e Renzo Frattaro<strong>lo</strong>, dove ritroviamo espressa meglio la<br />
sua visione del realismo nell’arte: «la verità si fa arte e diventa più vera della stessa verità da cui<br />
muove». O si consideri la sua recensione, anni dopo, alla mostra parigina di Courbet del 1977 al<br />
Grand Palais, dove, liberando l’artista dalla semplicistica etichetta di “realismo socialista” cui<br />
aveva contribuito un saggio di Louis Aragon, afferma: «i quadri dicono semplicemente la storia<br />
di un grande pittore, una storia ricca di contraddizioni, di ambiguità e di mistero quanto quella<br />
di ogni grande artista, in ogni tempo», per sgombrare poi il campo da ogni dubbio citando uno<br />
scritto del pittore del 1855, dove l’artista stesso affermava: «l’etichetta di realista mi è stata<br />
imposta così come agli uomini del 1830 è stata imposta quella di romantici (…) ho voluto<br />
semplicemente mettere nell’intera conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e<br />
indipendente della mia individualità» 34 . E qui si notano già le premesse di fondo della prospettiva sciasciana<br />
nei confronti del realismo, che sarà poi alla base della sua visione del realismo di Guttuso con il quale<br />
<strong>lo</strong> scrittore entrerà in contatto nel secondo dopoguerra negli ambienti romani del Caffè Greco.<br />
In quegli anni Guttuso era già per molti artisti un punto di riferimento nodale, e nel suo<br />
entourage romano gravitavano artisti che poi furono molto vicini a Sciascia. Si pensi al<strong>lo</strong> scultore<br />
messinese Augusto Perez, assistente nel 1936 di Emilio Greco all’Accademia di Belle Arti a<br />
Napoli; oppure ad Antonel<strong>lo</strong> Trombadori, che fu anche fine scrittore; e, infine, a Bruno Caruso,<br />
i cui rapporti con Sciascia furono altrettanto significativi e non so<strong>lo</strong> nel periodo romano.<br />
Lo studio di Guttuso di via Margutta a Roma, in quegli anni, era frequentato, inoltre, da artisti<br />
siciliani che ne sposarono idealità etiche e politiche, come Carla Accardi, Ugo Attardi, e gli artisti<br />
della Scuola Romana, sulla quale Sciascia scrisse un artico<strong>lo</strong> apparso nel 1983 sul “Corriere della Sera” 35 .<br />
Con l’inizio degli anni Sessanta si affievolisce in parte per Guttuso l’impegno politico a favore<br />
della riflessione, con un linguaggio alto, non più inquadrabile in categorie, che trova le proprie<br />
ragioni nel ricordo, testimoniato nel cic<strong>lo</strong> pittorico autobiografico.<br />
33 Cfr. Renato Guttuso, Paese del latifondo siciliano (1956). Illustrazione per la copertina dell’edizione originale di L. SCIASCIA,<br />
Il giorno della civetta, Einaudi, Torino 1961.<br />
34 Cfr. L. SCIASCIA, I misteri di Courbet, in Id., Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, pp. 202-208.<br />
35 Cfr. L. SCIASCIA, Scuola Romana: una mostra per risvegliare una città, “Corriere della Sera”, 5 maggio 1983. Sulle frequentazioni<br />
del<strong>lo</strong> studio romano di Guttuso negli anni del dopoguerra cfr. D. FAVATELLA LO CASCIO (a cura di), Storie di amici e di arte. Opere dal<br />
Museo Renato Guttuso, cata<strong>lo</strong>go della mostra (Bagheria-Vigevano 2004), Bagheria 2004, pp. 21-22.<br />
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Giuseppe Cipolla<br />
Sono gli anni che Crispolti definisce di “realismo esistenziale” 36 , al quale Sciascia guarda<br />
con maggiore simpatia, come dimostra la sua attenzione per i dipinti del cic<strong>lo</strong> autobiografico<br />
dedicati ai “mostri” di Villa Palagonia, sulla quale anni dopo <strong>lo</strong> scrittore scriverà una nota<br />
introduttiva di particolare spessore storiografico 37 .<br />
I rapporti tra i due si intensificano negli anni Sessanta, con frequenti incontri a Roma, nel<strong>lo</strong><br />
studio di Bruno Caruso, frequentato da numerosi artisti dell’entourage sciasciano: Fabrizio Clerici,<br />
Tono Zancanaro, Mino Maccari, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, Car<strong>lo</strong> Levi e altri. E proprio<br />
in uno di questi incontri nasce l’idea della pubblicazione della cartella Vietnam-Libertà, apparsa<br />
poi nel 1968, alla quale aderirono con le <strong>lo</strong>ro incisioni Attardi, Guttuso, Levi e Vespignani,<br />
introdotte dal testo di Sciascia 38 . Sempre negli stessi anni i due si ritrovano spesso nelle gallerie<br />
d’arte palermitane, prima fra tutte “Arte al Borgo” di Eustachio Catalano, e poi del figlio Maurilio 39 .<br />
Non va poi dimenticata la collaborazione di Sciascia al quotidiano “L’Ora” di Vittorio Nisticò, dove<br />
proprio in quegli anni <strong>lo</strong> scrittore andava pubblicando elzeviri, articoli su vari artisti, recensioni di mostre<br />
e altro, contribuendo al clima mitteleuropeo e aggiornato che anche il periodo proponeva 40 .<br />
E proprio da un artico<strong>lo</strong> del quotidiano “L’Ora” del 22-23 febbraio 1969, ad esempio, emerge<br />
la frequentazione assidua di Sciascia degli ambienti artistici palermitani, dove ritrovava tutti i<br />
suoi più cari amici, da Enzo ed Elvira Sellerio a Eustachio Catalano, a Ignazio Buttitta, a Natale<br />
Tedesco; e proprio in merito alla mostra di Lia Pasqualino Noto, il suo nome è tra gli ospiti<br />
illustri in casa della pittrice, dove si dava una cena in onore di Guttuso e della moglie Mimise.<br />
Evienefuori,cheinquell’occasioneGuttusodissediSciascia:«hainsegnatoanoisicilianiadamarelaSicilia» 41 .<br />
Nell’autunno del 1969 i due si trovano assieme a <strong>Palermo</strong> per curare la mostra di Gianbecchina alla galleria<br />
“La Robinia”, occasione che porterà Sciascia a scrivere una nota critica sul pittore di Sambuca di Sicilia 42 .<br />
Nel 1971, in concomitanza con la mostra anto<strong>lo</strong>gica di Guttuso realizzata dal Comune di<br />
<strong>Palermo</strong> al Palazzo dei Normanni – nel cui cata<strong>lo</strong>go figuravano scritti di Sciascia stesso, Franco<br />
Grasso e Franco Russoli – <strong>lo</strong> scrittore racalmutese decide di dedicare interamente al pittore un<br />
numero di “Galleria” 43 , affidandone la cura editoriale a Natale Tedesco.<br />
36 E. CRISPOLTI, Malinconie esistenziali di Guttuso, da Milano (1935), e suggerimenti parigini di Severini, da Roma (1937), ai Pasqualino,<br />
a <strong>Palermo</strong> (un frammento di storia dei “Quattro”), in Il presente si fa storia: scritti in onore di Luciano Caramel, a cura di C. De Carli,<br />
F. Tedeschi, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 313-330.<br />
37 F. SCIANNA, La villa dei mostri, introduzione di L. Sciascia, Einaudi, Torino 1977; <strong>lo</strong> stesso testo di Sciascia è ripubblicato in<br />
una versione più ampia in L. SCIASCIA, Cruciverba, Einaudi, Torino 1983, pp. 67-75.<br />
38 Cfr. Vietnam-Libertà, Istituto Litografico Internazionale, Milano 1968 [con 5 acqueforti originali di Bruno Caruso, Car<strong>lo</strong><br />
Levi, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, in 90 esemplari]. Sull’argomento si veda A. MOTTA, Bruno Caruso negli scritti di<br />
Leonardo Sciascia, in Storia di un’amicizia. Scritti di Leonardo Sciascia sull’opera di Bruno Caruso, Kalós, <strong>Palermo</strong> 2009, p. 124.<br />
39 Le informazioni sull’assidua frequentazione di Sciascia della Galleria “Arte al Borgo”, negli anni Sessanta e Settanta,<br />
si devono a una piacevole conversazione verbale con Maurilio Catalano, che ringrazio vivamente. Sulle mostre degli anni Sessanta<br />
e Settanta nella galleria palermitana cfr. E. DE CASTRO, “Arte al Borgo” 1963-1973: dieci anni di mostre a <strong>Palermo</strong>, “Retab<strong>lo</strong>”, I, 1999, 11, p. 7.<br />
40 Il noto periodico palermitano “L’Ora”, fondato dall’imprenditore siciliano Ignazio F<strong>lo</strong>rio, nel corso della metà del Novecento<br />
ebbe tra le più autorevoli firme, per quanto concerne la critica d’arte, oltre a Sciascia, anche <strong>lo</strong> stesso Guttuso, e inoltre<br />
Maria Accascina, Adolfo Venturi, Emilio Cecchi e altri. Per un inquadramento generale del periodico citato cfr. G. DE MARCO, “L’Ora”.<br />
La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano (1918-1930). Fonti del XX seco<strong>lo</strong>, Silvana Editoriale, Cinisel<strong>lo</strong> Balsamo, Milano 2007.<br />
41 Cfr. “L’Ora”, 22-23 febbraio 1969, p. 13.<br />
42 Cfr. R. GUTTUSO, L. SCIASCIA, Gianbecchina, cata<strong>lo</strong>go della mostra, galleria “La Robinia”, <strong>Palermo</strong> 1969.<br />
43 Il periodico, fondato da Sciascia nel 1949 a Caltanissetta, si affacciava nel clima culturale del dopoguerra inserendosi nel<br />
dibattito sul realismo con una posizione in parte critica nei confronti del neorealismo, specialmente quel<strong>lo</strong> più politicizzato,<br />
promuovendo invece una cultura libera da ogni paternalismo politico e improntata sull’autonomia della letteratura e delle arti, nel<br />
solco comunque della tradizione realistica, riconosciuta in scrittori come Alvaro, Bontempelli, Brancati, Jovine, Moravia,<br />
Savinio, Vittorini e Zavattini, rivendicando il va<strong>lo</strong>re espressivo del linguaggio letterario. In ambito figurativo, queste posizioni si<br />
rispecchiavano nell’adesione iniziale al realismo sociale di Renato Guttuso e Giuseppe Migneco del gruppo di “Corrente”, del quale<br />
però Sciascia non condivideva l’estremismo politico, e successivamente nell’interesse verso le esperienze più libere, orientate tra<br />
figurativismo simbolico ed espressionismo lirico, di Bruno Caruso, o verso il linguaggio visionario di ascendenza metafisica<br />
di Alberto Savinio e Fabrizio Clerici.
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
Il numero monografico, articolato in tre sezioni, comprendeva una prima parte dedicata<br />
all’anto<strong>lo</strong>gia della critica, con scritti di illustri letterati e critici, tra cui quelli di Roberto Longhi<br />
(Lettera per la mostra di Guttuso a New York), Giovanni Testori, Elio Vittorini (Storia di Renato Guttuso),<br />
Cesare Brandi (La mostra di Guttuso a Parma), Car<strong>lo</strong> Ludovico Ragghianti (Guttuso pittore e scultore)<br />
e Antonel<strong>lo</strong> Trombadori; una successiva sezione costituita dagli omaggi, scritti e poesie, di letterati<br />
italiani e stranieri, tra cui Pier Pao<strong>lo</strong> Pasolini, Mario Soldati, Leonardo Sciascia, Rafael Alberti,<br />
John Berger e Pab<strong>lo</strong> Neruda; e infine, chiudeva il numero una anto<strong>lo</strong>gia degli scritti di Guttuso<br />
sulle arti figurative 44 .<br />
Appare significativo che Sciascia decida di dedicare un intero numero di “Galleria” a Guttuso,<br />
a una data in cui già l’artista bagherese rappresentava uno dei più importanti autori della pittura<br />
del Novecento.<br />
Importanza che il periodico nisseno voleva consacrare attraverso le testimonianze sia dei<br />
letterati che dei critici, e infine con gli scritti di Guttuso stesso sulle arti, quasi considerare l’artista<br />
nella totalità del suo apporto alla cultura del tempo, a volerne quindi sottolineare la portata<br />
universale, attraverso però una rigorosa attenzione alla fortuna critica.<br />
È qui che compare il primo scritto di Sciascia sull’amico ritornato a <strong>Palermo</strong> per la grande<br />
mostra del Palazzo dei Normanni. Guttuso a <strong>Palermo</strong> è però una acuta nota biografica, nel senso<br />
più strettamente esistenziale, dove <strong>lo</strong> scrittore guarda all’uomo Guttuso, all’uomo di successo che<br />
suo malgrado si trova a <strong>lo</strong>ttare contro sé stesso, aspetto che porta Sciascia a una singolare<br />
rievocazione dei personaggi verghiani:<br />
Ci sono, sì, i suoi quadri: nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari,<br />
sotto gli occhi di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscoprirla; ma sono come le terre al<br />
sole di don Gesualdo. «Ma egli è siciliano», dice ancora Lawrence di Gesualdo, «e qui salta fuori<br />
la difficoltà». La difficoltà, per Guttuso, per noi, per ogni uomo che è nato in quest’isola, di<br />
vivere dopo aver fatto, dopo avere accumulato quadri o libri o denaro; la difficoltà a resistere, a<br />
non soccombere «sotto il gruzzo<strong>lo</strong>» della ricchezza o della g<strong>lo</strong>ria o soltanto e semplicemente<br />
delle cose fatte, delle cose in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione.<br />
Con questo accostamento, Sciascia non fa altro che inserire l’artista nel più ampio concetto<br />
di “sicilitudine”, neo<strong>lo</strong>gismo sciasciano per eccellenza che fa eco a un’altra concezione del<strong>lo</strong><br />
scrittore, quella della “Sicilia come metafora del mondo”, vere e proprie chiavi di lettura<br />
della storia culturale siciliana secondo cui «scrittori e artisti, poeti e pittori, attraverso la<br />
particolarità e le particolarità della Sicilia, hanno raggiunto l’universalità» 45 .<br />
Del resto i “travagli esistenziali” di Guttuso, in rapporto anche con la sua attività pittorica, che<br />
Sciascia conosceva <strong>bene</strong> visti i profondi legami di amicizia che li legò dagli anni Cinquanta in poi,<br />
44 Cfr. Renato Guttuso, a cura di N. Tedesco, “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura”, a. XXI, 1-5, gennaio-ottobre 1971.<br />
45 L. SCIASCIA, Come si può essere siciliani, in ID., Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, p. 20.<br />
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Giuseppe Cipolla<br />
emergono già a partire dalla fine degli anni Trenta, come attesta ad esempio il carteggio con un altro<br />
suo grande sodale, Cesare Brandi – che sarà poi anche amico di Sciascia nel periodo palermitano.<br />
Nel 1939, così infatti scrive Guttuso al critico senese riguardo al suo rapporto problematico con<br />
la pittura: «Non posso dirti come vada il lavoro, perché non ne so nulla, e poi ho avuto il mal di<br />
denti, e poi è un momento che di lavorare non ho voglia. La campagna mi ha eccitato qualche<br />
momento – così bella e così inaspettatamente ricca di co<strong>lo</strong>re... Ma certe volte io vedo, sento<br />
penso e non mi piace dipinger<strong>lo</strong>. Mi pare di guastarmi un piacere privato. Non so che<br />
deduzione trarre da siffatti sentimenti ma preferisco guardare persino senza pensare...» 46 .<br />
Il trovarsi “perennemente in crisi”, componente quasi sartriana della poetica guttusiana,<br />
tuttavia, viene vista anni dopo da Sciascia non tanto come una défaillance, quanto come il più<br />
autentico punto di forza del pittore: «nessuna crisi può segnare il punto del cedimento per un<br />
uomo, per un artista, il cui elemento di vita è appunto la crisi. Guttuso è sempre in crisi: sicché<br />
nessuna crisi può coglier<strong>lo</strong> con insidia o alla sprovvista. Il suo essere pittore è una passione, una<br />
febbre, cioè, propriamente, una crisi» 47 .<br />
Un aspetto nodale e comune a una parte della critica letteraria e artistica su Guttuso, e che in<br />
questi scritti emerge dichiaratamente, è, quindi, l’inscindibilità tra l’uomo Guttuso e la sua opera,<br />
e tra la sua opera e la Sicilia. Assunto questo, tanto apparentemente semplicistico quanto legato<br />
a una problematicità di carattere critico-letterario fortemente presente non so<strong>lo</strong> negli scritti di<br />
Sciascia.<br />
Quando Sciascia scrive di Guttuso avverte di trovarsi di fronte ad un grande artista,<br />
totalmente immerso nella vita, per il quale arte e vita coincidono a tal punto da non lasciare spazio<br />
all’ironia e al gusto, due strumenti che servono a prendere le distanze. La personalità di Guttuso<br />
<strong>lo</strong> porta ad una considerazione di carattere generale, in certo qual modo paradossale<br />
per <strong>lo</strong> scrittore, attratto dall’ironia: «A pensarci <strong>bene</strong>, sono poi questi strumenti (l’ironia e il<br />
gusto) che impediscono <strong>lo</strong> scatto verso la grandezza. Un grande artista, un grande scrittore, non<br />
ha ironia e non ha gusto; e così anche i grandi momenti della letteratura, dell’arte, sono<br />
quelli che mancano di gusto e non sono governati dall’ironia» 48 .<br />
La percezione del paesaggio siciliano negli anni ‘50 e ‘60 era stata condizionata molto dalla<br />
pittura di Guttuso, dai violenti contrasti cromatici, e Sciascia non ne è immune. Recensendo, nel<br />
1971, una mostra dell’amico <strong>lo</strong>mbardo Giancar<strong>lo</strong> Cazzaniga, avverte, però, che in Sicilia si può<br />
trovare anche un’altra luce, diversa da quella dipinta da Guttuso, un altro paesaggio in grigioargento-viola,<br />
una Sicilia dai toni spenti, come l’aveva vista Cazzaniga nei suoi paesaggi siciliani.<br />
Esigenza primaria di questi scritti di Sciascia su Guttuso è quella di porsi non già come testi<br />
46 Lettera di Renato Guttuso a Cesare Brandi, 25 luglio 1939, Archivi della Soprintendenza di Siena; pubblicata in Brandi<br />
Guttuso, storia di un’amicizia, a cura di F. Carapezza Guttuso, Electa, Milano 2006, p. 10.<br />
47 L. SCIASCIA, La semplificazione delle passioni, in Cata<strong>lo</strong>go della Mostra anto<strong>lo</strong>gica dell’opera di Renato Guttuso, <strong>Palermo</strong>, Palazzo<br />
dei Normanni, 1971, infra.<br />
48 P. NIFOSÌ, Leonardo Sciascia: la passione di un “incompetente”, in La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, cata<strong>lo</strong>go<br />
della mostra (Racalmuto 1999) a cura di P. Nifosi, Edizioni Salarchi Immagini, Comiso 1999, p. 19.
analitici sulle opere dell’artista, in<br />
chiave descrittiva o ekfrastica, quanto<br />
quella di illuminarne sinteticamente<br />
alcuni significativi aspetti della poetica,<br />
enucleandone le più profonde radici<br />
culturali.<br />
Tale operazione e i conseguenti<br />
giudizi critici, tuttavia, risultano mediati<br />
da profonde conoscenze della storiografia<br />
artistica, e in particolare di quella relativa<br />
alla fortuna critica dell’artista siciliano.<br />
Nella pagina sciasciana si possono<br />
individuare almeno due direttive relative<br />
ai modelli di critica figurativa del<br />
Novecento: la prima, per quanto<br />
riguarda il linguaggio, ha origine nella<br />
critica di matrice rondista, precipuamente<br />
in figure come Cecchi e Praz – per i<br />
quali <strong>lo</strong> scrittore manifestò sempre la<br />
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
Renato Guttuso, La Vucciria, 1974, olio su tela, 300x300 cm, Palazzo<br />
Steri, <strong>Palermo</strong> (proprietà dell'Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong>,<br />
donazione dell'artista).<br />
sua predilezione 49 ; mentre la seconda, inerente ai contenuti e alle metodo<strong>lo</strong>gie di analisi<br />
dell’opera d’arte, può essere individuata nelle pur diverse influenze della critica dagli anni Sessanta<br />
agli anni Ottanta di Ragghianti, Brandi, Argan e Calvesi, questi ultimi tre, in successione, titolari<br />
della cattedra di Storia dell’Arte all’Università di <strong>Palermo</strong>, incidendo fortemente oltre che sulla scuola<br />
storico-artistica siciliana, anche sul panorama dell’arte contemporanea e della critica d’arte militante.<br />
L’inestricabile binomio Sicilia-Guttuso ritorna nelle parole di Sciascia più volte:<br />
«quando si parla di Renato Guttuso, della sua pittura, si parla di Bagheria. Il paesaggio, la<br />
gente. L’intraprendenza e l’acutezza dei bagheresi, i fasti e nefasti dell’amor proprio. La vampa<br />
dei co<strong>lo</strong>ri, la morte. Bagheria con le sue ville settecentesche, estremo delirio dell’anarchia baronale;<br />
coi suoi giardini di limoni, in cui delira l’anarchia mafiosa. I mostri di Palagonia. Il mare dell’Aspra» 50 .<br />
E sono richiami confermati anche dalla critica ufficiale. Basti leggere, ad exemplum,<br />
le mirabili pagine di Calvesi del 1985, quando osserva «la Sicilia, la terra per antonomasia della<br />
nascita e del lutto, dei sogni e delle visioni che continuamente la rievocano, la Sicilia<br />
chiama Guttuso, <strong>lo</strong> chiama con i suoi mostri impietriti in bizzarre contorsioni, sul muro di cinta<br />
di villa Palagonia [...]» 51 .<br />
49 Nel caso degli scritti su Guttuso, ad esempio, la prosa d’arte sciasciana, sull’onda dei ricordi della pagina cecchiana e<br />
in genere della critica di matrice rondista – come ha notato Onofri - «vorrebbe portarsi dietro l’infinito di una digressione, la<br />
quale, nel gioco di citazioni e ana<strong>lo</strong>gie, sveli una sua necessità», che nel caso del pittore bagherese è quella di esprimere i riflessi<br />
esistenziali, e non tanto quelli ideo<strong>lo</strong>gici, della sua pittura. Cfr. M. ONOFRI, Storia di Sciascia…, 2004, p. 53.<br />
50 L. SCIASCIA, Nota su Guttuso…, 1972, infra.<br />
51 M. CALVESI, Guttuso e la Sicilia, in Guttuso e la Sicilia. Opere dal 1970 ad oggi, cata<strong>lo</strong>go della mostra (<strong>Palermo</strong> 1985), <strong>Palermo</strong> 1985, p. 15.<br />
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Gli scritti di Sciascia su Guttuso, sotto forma di pensieri, note, divagazioni, in tutto cinque,<br />
distribuiti nel corso degli anni Settanta, involgono la dimensione più autobiografica dell’opera<br />
del pittore e quella quindi maggiormente legata alla Sicilia, che si manifesta nel cic<strong>lo</strong><br />
autobiografico, e in dipinti quali La Vucciria, o i Vespri Siciliani.<br />
È soprattutto la componente narrativa della pittura di Guttuso, correlata all’universo<br />
storico-culturale siciliano, che affascina Sciascia, suscitandogli diverse suggestioni letterarie e<br />
culturali che vanno dal Maga<strong>lo</strong>tti a Verga a Brancati, a Fernandez, Unamuno ecc.<br />
Parlando di opere come La fuga dall’Etna (1938-1939), che <strong>lo</strong> scrittore considera tra le più<br />
significative degli esordi, ritorna inevitabilmente l’accostamento, in chiave narrativa e poetica, a Verga:<br />
La poetica è per entrambi quella di «semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende<br />
avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una fuga. La differenza non è trascurabile. Si potrebbe<br />
dire, con una battuta, che c’è di mezzo tutta la scala zoo<strong>lo</strong>gica: dall’ostrica all’uomo in rivolta.<br />
E tuttavia l’ostrica di Verga, l’uomo attaccato al<strong>lo</strong> scoglio della miseria e degli affetti, soffre<br />
come e quanto l’uomo in fuga, l’uomo in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza, il sistema<br />
della passione52 .<br />
Del resto, la forte componente geografica dell’opera di Guttuso e l’accostamento a Verga,<br />
sono due aspetti che riprenderà a pieno anche Calvesi nel saggio Guttuso e la Sicilia del 1985,<br />
dove, a proposito di questi due punti, afferma che «pochi artisti, come Guttuso, sono così<br />
profondamente segnati dalla <strong>lo</strong>ro origine, e non soltanto nella natura dei temi, ma nelle stesse<br />
scelte linguistiche», e più avanti, riferendosi alla “vocazione al racconto” del pittore, precisa come<br />
«il romanzo di Verga può essere il riferimento più spontaneo e diretto» 53 . Vocazione al racconto<br />
che Calvesi mette in relazione alla venatura popolare insita nella migliore tradizione realistica<br />
della pittura siciliana, a partire dal realismo di fondo di Antonel<strong>lo</strong>, e in particolare di quell’«aria<br />
di famiglia» di cui aveva parlato Sciascia a proposito delle ambientazioni delle Annunciazioni del<br />
pittore messinese. Si viene a delineare qui, come in altri frangenti, un proficuo scambio di idee,<br />
spesso bilaterale, tra <strong>lo</strong> scrittore e il critico, a dimostrazione di influenze reciproche 54 .<br />
Influenze che ritroviamo anche con Brandi, con il quale Sciascia concorda, ad esempio,<br />
nel ritenere la Fuga dall’Etna – sotto l’influenza velata di Picasso – il vero snodo della pittura<br />
guttusiana: «la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna durante un’eruzione<br />
che Natale Tedesco ha chiamato “la Guernica siciliana”, però siciliana è un po’ anche la<br />
Guernica di Picasso; e forse Picasso ha studiato <strong>lo</strong> schema compositivo del Trionfo della morte<br />
di <strong>Palermo</strong> più di quanto Guttuso abbia dipinto la Fuga sotto l’impressione della Guernica che<br />
Cesare Brandi gli aveva al<strong>lo</strong>ra mandato in cartolina»; e gli influssi di Picasso nella Fuga dall’Etna<br />
52 L. SCIASCIA, La semplificazione delle passioni; cfr. appendice, infra.<br />
53 M. CALVESI, Guttuso e la Sicilia..., 1985, p. 11.<br />
54 Ibid., p. 12.
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
Brandi li aveva individuati in un suo scritto apparso nel 1964, in occasione della presentazione<br />
della mostra di Palazzo della Pi<strong>lo</strong>tta a Parma – testo riproposto nel numero di “Galleria” dedicato<br />
al pittore –, dove <strong>lo</strong> storico sottolineava l’importanza cruciale del celebre dipinto, conservato alla<br />
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma: «è di lì che nasce Guttuso, o<br />
meglio è lì l’impennata per cui salì sulla cresta dell’onda ed è riuscito a non scendere» 55 .<br />
Nel 1972 esce a Napoli, per le Edizioni Scientifiche Italiane, una monografia dedicata ai disegni<br />
di Guttuso, dal periodo dei primi studi grafici della Crocifissione (1942) sino alle celebri serie del<br />
Gott mit uns (1944), delle illustrazioni della <strong>Di</strong>vina Commedia (1962), per finire con la Serie autobiografica (1966).<br />
Sono interessanti le considerazioni sul Guttuso disegnatore, per le quali <strong>lo</strong> scrittore parte da<br />
spunti teorici derivanti da <strong>Di</strong>derot, Baudelaire e Alain, che sono peraltro per Sciascia i punti di<br />
riferimento della sua visione in merito al<strong>lo</strong> statuto del disegno. A questa tradizione risale ad<br />
esempio la distinzione baudelairiana, che Sciascia sposa pienamente, tra “disegnatori puri”<br />
e “disegnatori co<strong>lo</strong>risti”, e <strong>lo</strong> scrittore col<strong>lo</strong>ca naturalmente Guttuso nella seconda categoria, affermando:<br />
E ne abbiamo esempio immediato in questi disegni di Guttuso, che sono appunto i disegni<br />
di un co<strong>lo</strong>rista: e tanto più li riconosciamo per tali nell’assenza del co<strong>lo</strong>re, nel bianco e nero. Una<br />
riconoscibilità che viene da quel<strong>lo</strong> che Baudelaire chiama «un metodo ana<strong>lo</strong>go alla natura» – ed<br />
è inutile dire che la natura non è naturalistica. E quale metodo è più ana<strong>lo</strong>go alla natura di quel<strong>lo</strong><br />
dell’azione che viene da dentro le cose, dal centro delle cose, dell’azione che è la cosa – nella<br />
«armoniosa <strong>lo</strong>tta delle masse», nell’aria, nella luce? 56<br />
Il 14 dicembre del 1974 una delle opere più importanti di quel periodo di Guttuso,<br />
la Vucciria, sarà esposta per la prima volta in una mostra a <strong>Palermo</strong> voluta da Sciascia alla<br />
galleria “La Tavo<strong>lo</strong>zza” di Doretta Laudino. Anche qui <strong>lo</strong> scrittore propone uno scritto che, per<br />
quanto breve, colpisce per le sinestetiche impressioni che il capolavoro guttusiano gli suggerisce.<br />
Lo si nota, ad esempio, quando con una sottile lettura icono<strong>lo</strong>gica che <strong>lo</strong> porta a citare persino<br />
le Lettere odorose (1693-1705) del bizzarro conte, scienziato e letterato Lorenzo Maga<strong>lo</strong>tti (Roma,<br />
1637 – Firenze, 1712), afferma:<br />
Ora il visualizzare un fatto visuale quale la Vucciria di <strong>Palermo</strong>, vale a dire un fatto di<br />
predisposta, funzionale e funzionante visualità – il visualizzar<strong>lo</strong> in una pittura, in un quadro,<br />
in un grande quadro – sarebbe una operazione piuttosto ovvia e banale, se non vi concorresse<br />
non so<strong>lo</strong> una celebrazione della visualità nel senso maga<strong>lo</strong>ttiano, ma anche la conoscenza<br />
e conscienza di un significato: di quel che una tale visualità – che sarebbe da dire propriamente<br />
e definitivamente teatralità – umanamente e storicamente significa57 .<br />
55 Il testo di Brandi è pubblicato più volte: cfr. C. BRANDI, Guttuso a Parma, “Il Punto”, Roma, 15 febbraio 1964;<br />
ID., La mostra di Guttuso a Parma, in “Galleria”, XXI, 1-5, gennaio-ottobre 1971, pp. 84-85; ID., Scritti sull’arte contemporanea, Einaudi,<br />
Torino 1976, pp. 401-404; e infine in Brandi e Guttuso: storia diun’amicizia, a cura di F. Carapezza Guttuso, Electa, Milano 2006, pp. 132-134.<br />
56 L. SCIASCIA, Nota su Guttuso, 1972; cfr. appendice infra.<br />
57 ID., La Vucciria di Guttuso; cfr. appendice infra.<br />
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Nel dicembre del 1975 un’altra mostra, sempre alla galleria “La Tavo<strong>lo</strong>zza”, offre a Sciascia<br />
<strong>lo</strong> spunto per presentare una cartella di sei litografie di Guttuso, accompagnate dai relativi<br />
disegni preparatori, riguardanti il tema dei Vespri siciliani. Già anni prima <strong>lo</strong> scrittore aveva<br />
espresso un giudizio sulla poetica dei disegni riguardanti temi della storia siciliana, nel quale – citando<br />
uno scritto di Dominique Fernandez sull’artista – poneva l’accento sulla sostanziale differenza<br />
tra l’uomo politicizzato e l’artista:<br />
Se come marxista non ignora che il mondo non deve essere soltanto contemplato, ma<br />
mutato, la sua sicilianità di fondo <strong>lo</strong> condanna a sentire, da artista, so<strong>lo</strong> il lirico disordine degli<br />
oltraggi, da ciò, possiamo anticipare, il suo incontro col più lirico – anche nel senso del<br />
me<strong>lo</strong>dramma – degli oltraggi che siano stati consumati in Sicilia: quel<strong>lo</strong> che diede esca al Vespro.<br />
Ed è chiaro che Sciascia, tra i due, preferisca di gran lunga l’artista, la sua “prosa figurativa”<br />
capace di narrare in senso “lirico” i fatti drammatici della storia, aspetto che <strong>lo</strong> porta naturalmente<br />
ad affermare: «Il suo sentimento e giudizio del Vespro, in queste immagini, è quel<strong>lo</strong> stesso che<br />
trascorre nei versi di Dante, nella Storia di Amari, nell’opera di Verdi» 58 .<br />
In generale, questi scritti su Guttuso sono costruiti in modo impeccabile nel rapporto tra la<br />
“restituzione” della critica alla sua letterarietà e l’analisi formale, sottolineando al contempo la<br />
capacità di Guttuso nell’inventare col segno le cose, e interpretando la sua opera come fuga<br />
“dell’uomo in rivolta contro la miseria” 59 . Aspetto questo, che inevitabilmente va ad associarsi<br />
con un altra significativa connotazione critica che Sciascia individua nell’opera dell’artista<br />
bagherese, e cioè l’identificazione arte-vita, che in Guttuso più che in altri artisti a lui contemporanei<br />
non è mai fatto banale: “le opere d’arte di Guttuso – scrive infatti Sciascia – non somigliano alla<br />
vita, non sono come la vita: sono, su un piano che non è quel<strong>lo</strong> della vita, la vita” 60 .<br />
È evidente negli scritti di Sciascia l’intenzione critica di sondare in profondità l’essenza umana<br />
dell’artista, le profonde ragioni intrinseche del fatto creativo, però tutto questo in stretta relazione<br />
e misurata compenetrazione con i dati “esterni”, gli aspetti sociali, ideo<strong>lo</strong>gici, letterari e politici<br />
che informano interamente la produzione di Guttuso. Con sorpresa poi ci si accorge che questi<br />
scritti offrono improvvise aperture alla critica figurativa novecentesca, divagazioni colte,<br />
“cruciverba”, combinazioni critiche, spunti notevoli sul<strong>lo</strong> statuto della pittura o del disegno,<br />
che, come osservato da Natale Tedesco, “vengono fuori ad illuminarci sulla cultura, sulla sintassi<br />
intellettuale di Sciascia, piuttosto che per una precisa analisi dell’opera dell’artista in questione» 61.<br />
58 ID., Il Vespro Siciliano, presentazione della mostra di Guttuso, Galleria “La Tavo<strong>lo</strong>zza”, <strong>Palermo</strong> 1975-1976, infra.<br />
59 Cfr. P. NIFOSÌ, Leonardo Sciascia: la passione di un “incompetente”, in La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, cata<strong>lo</strong>go<br />
della mostra (Racalmuto, Fondazione Sciascia, 1999) a cura di P. Nifosì, Racalmuto 1999, p. 19.<br />
60 Cfr. L. SCIASCIA, Nota su Guttuso, in Guttuso. <strong>Di</strong>segni 1938-1972, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972; infra.<br />
61 Cfr. N. TEDESCO, Le genea<strong>lo</strong>gie artistiche di Leonardo Sciascia, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia, cata<strong>lo</strong>go della<br />
mostra (Racalmuto-<strong>Palermo</strong> 1992) a cura di M. Pecoraino, <strong>Palermo</strong> 1992, p. 28.
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
Alla luce però dei dovuti confronti con la coeva critica ufficiale, emerge come tali formule e<br />
costruzioni critiche adottate da Sciascia nella sua scrittura d’arte siano del tutto funzionali e<br />
pertinenti alla materia trattata.<br />
Anche se raramente queste pagine presentano letture formali dei dipinti presi in esame, né tanto<br />
meno tentativi di critica visuale, o di ekfrasis, è perché <strong>lo</strong> scrittore vede i caratteri testuali più<br />
nell’ottica di una funzionalità narrativa. Sciascia si occupa di Guttuso nella misura in cui l’opera,<br />
i dipinti, i disegni rievocano la Sicilia e l’immaginario letterario che ne consegue. In ultima<br />
analisi, è evidente quanto in queste pagine di Sciascia sull’amico pittore, così come altre sulle<br />
arti visive e su altri artisti siciliani, sia assente ogni intenzione di fare critica d’arte – tanto meno<br />
di matrice accademica – quanto piuttosto di continuare un romanzo, scrivendone una delle pagine<br />
più interessanti: il “romanzo della Sicilia del Novecento” dove Guttuso occupa – secondo <strong>lo</strong><br />
scrittore – un posto di primaria importanza.<br />
Appendice*<br />
La semplificazione delle passioni (1971)<br />
«Se io potessi scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere<br />
del pittore. Le condizioni oggi sono storicamente privilegiate, che si abbia la forza e la libertà interna<br />
necessaria in tempi così perico<strong>lo</strong>si». Così scriveva Guttuso nel novembre del 1939, in quel numero del Selvaggio<br />
che Mino Maccari gli dedicava come ad uno «fra i migliori disegnatori che le nuove generazioni artistiche<br />
ci promettano», ed anzi il migliore senz’altro, considerando che dei pittori che al<strong>lo</strong>ra si affacciavano alla<br />
notorietà so<strong>lo</strong> Guttuso ebbe tutto per sé un numero del Selvaggio. Dopo più di trent’anni, forse Guttuso non<br />
si sentirebbe di riaffermare che viviamo in condizioni storicamente privilegiate, ma senza esitazioni tornerebbe<br />
a dichiarare che, se gli si offrisse di scegliere un’epoca in cui vivere e un mestiere, sceglierebbe quest’epoca<br />
e il mestiere del pittore; e che se alle certezze di al<strong>lo</strong>ra sono subentrati i dubbi, se i tempi sono più di al<strong>lo</strong>ra<br />
perico<strong>lo</strong>si, la forza e la libertà interna non gli sono venute meno, e anzi al tramonto della certezza e dal<br />
rampollare del dubbio la sua forza viene a prova decisiva e la sua libertà interna si accresce. O forse non <strong>lo</strong><br />
dichiarerebbe per quel pudore che appunto s’appartiene alla forza, ma tutta la sua opera nell’arco di<br />
quarant’anni, e il lavoro di questi ultimi anni particolarmente, dispiegano questa dichiarazione: Guttuso<br />
tanto più è forte e libero quanto più le condizioni sono difficili, i tempi perico<strong>lo</strong>si – difficili e perico<strong>lo</strong>si sia<br />
per «i destini generali» sia per i destini dell’arte. E questa forza di Guttuso, questa libertà, la conoscono<br />
* Si ringrazia per il consenso accordato alla pubblicazione degli scritti di Leonardo Sciascia su Renato Guttuso la Fondazione<br />
“Leonardo Sciascia” di Racalmuto e gli Eredi. I testi sono stati trascritti riproducendo fedelmente i criteri di scrittura dell’Autore.<br />
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124<br />
Giuseppe Cipolla<br />
<strong>bene</strong> co<strong>lo</strong>ro che da anni vanamente aspettano di coglier<strong>lo</strong> al passo climaterico, quando «todo mal afirmado<br />
pie es caìda, toda fàcil caìda es precipicio»; e intendiamo al passo climaterico dei rivolgimenti e delle mode,<br />
degli scatti avanguardistici, delle reazioni – che per un artista, oggi, viene molto prima di quanto non venga,<br />
quando viene, quel<strong>lo</strong> dell’età; e si ripete. Guttuso il piede in fal<strong>lo</strong> non <strong>lo</strong> mette: non so<strong>lo</strong> perché ha grande<br />
talento e inesauribile energia, ma soprattutto per questa semplice e profonda ragione: che nessuna crisi può<br />
segnare il punto del cedimento per un uomo, per un artista, il cui elemento di vita è appunto la crisi.<br />
Guttuso è sempre in crisi: sicché nessuna crisi può coglier<strong>lo</strong> con insidia o alla sprovvista. Il suo essere pittore<br />
è una passione, una febbre – cioè, propriamente, una crisi. Prima che nel tempo, nelle condizioni storiche,<br />
il suo privilegio è quel<strong>lo</strong> di essere un uomo che ama la vita con furore ed angoscia, che con furore ed angoscia<br />
vuol coglierne il flusso, capirla, esprimerla, rappresentarla. Appartiene a quella linea di scrittori, di artisti,<br />
cui manca l’ironia e il gusto: a tal punto immersi nella vita che non sanno che farsene di questi due strumenti<br />
di misurazione, e cioè di distacco. E, a pensarci <strong>bene</strong>, sono poi questi due strumenti che impediscono <strong>lo</strong><br />
scatto verso la grandezza. Un grande artista, un grande scrittore, non ha ironia e non ha gusto; e così anche<br />
i grandi momenti della letteratura, dell’arte, sono quelli che mancano di gusto e non sono governati dall’ironia.<br />
Già sul vecchio numero del Selvaggio, nella nota di presentazione presumibilmente scritta da Maccari,<br />
si diceva Guttuso «immune dalle eccessive pretese letterarie e dalle calligrafiche divagazioni che viziano<br />
gran parte del disegno moderno»; che «i segni morti, i segni equivoci non hanno posto nelle composizioni»<br />
sue; che «alle tentazioni di una arbitraria eleganza, che pure la sua abilità gli renderebbe facile, egli oppone<br />
una coscienza che <strong>lo</strong> sconsiglia dalle avventure non confacenti al suo carattere e al suo temperamento».<br />
E dopo aver detto che i suoi disegni possono anche essere aridi ma sono sempre onesti, l’autore della nota<br />
spiegava come tale qualifica di onestà fosse da intendere nel senso «d’un iniziale atteggiamento morale, a cui<br />
il pittore deve in gran parte la felicità dell’azione, la padronanza dell’avventura, il ritmo vibrato della scrittura».<br />
Dopo tanti anni, davanti alla lunga e fitta prospettiva dell’opera di Guttuso, queste parole assumono più<br />
vaste e suggestive risonanze. La felicità dell’azione, l’avventura – l’avventura di vivere nella pittura, di vivere<br />
la pittura come avventura: felicemente, e cioè con do<strong>lo</strong>re. L’iniziale atteggiamento morale da cui diramano<br />
la felicità dell’azione, l’avventura, il vibrato ritmo dei segni, dei co<strong>lo</strong>ri. E mai un segno morto, un segno equivoco.<br />
Magari l’errore: possibile, frequente anzi. Mai l’insignificante o l’ambiguo, nel disegno di Guttuso, nella pittura.<br />
Ma ci lascia, la nota del vecchio Selvaggio, una fondamentale questione da dipanare: l’atteggiamento morale<br />
(cioè «poetico») iniziale, primario. Qual è, da quali radici viene? Ecco un testo brevissimo ma essenziale:<br />
«Tutta la scienza nella vita sta nel semplificare le umane passioni». È di Giovanni Verga; e si trova in Eros,<br />
un romanzo in cui c’è poco di tale scienza. Ma aveva già scritto, Verga, la novella Nedda: «…la fiamma che<br />
scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere<br />
nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le<br />
venti o trenta donne che raccoglievano le ulive del podere facevano fumare le <strong>lo</strong>ro vesti bagnate dalla pioggia<br />
davanti al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano;
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
gli altri ciarlavano della raccolta delle ulive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della<br />
pioggia che rubava <strong>lo</strong>ro il pane di bocca; la vecchia castalda filava, tanto perché la lucerna appesa alla cappa<br />
del focolare non ardesse per nulla, il grosso cane co<strong>lo</strong>r di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco,<br />
rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato di vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio<br />
si mise a suonare certa arietta…». Ed è un caso: ma come la storia del Verga grande comincia da quella<br />
fattoria del Pino alle falde dell’Etna, la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna<br />
durante un’eruzione che Natale Tedesco ha chiamato «la Guernica siciliana» (però siciliana è un po’ anche<br />
la Guernica di Picasso; e forse Picasso ha studiato <strong>lo</strong> schema compositivo del Trionfo della morte di <strong>Palermo</strong><br />
più di quanto Guttuso abbia dipinto la Fuga sotto l’impressione della Guernica che Cesare Brandi gli aveva<br />
al<strong>lo</strong>ra mandato in cartolina). Un caso: ma Savinio ci ha appreso che bisogna far caso al caso nella vita di uno<br />
scrittore, di un artista – ché c’è del metodo nella follia del caso, come in quella d’Amleto. E un tale metodo<br />
ci porta alla fiamma – «troppo vicina forse» – da cui sorge, con la dolente figura di Nedda, la poetica di<br />
Giovanni Verga; alla fiamma da cui erompe, con la fuga di una popolazione – eterna e atroce fuga dalla<br />
natura, dalla storia, da se stessa – la poetica di Renato Guttuso. La poetica è per entrambi quella di<br />
«semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una<br />
fuga. La differenza non è trascurabile. Si potrebbe dire, con una battuta, che c’è di mezzo tutta la scala zoo<strong>lo</strong>gica:<br />
dall’ostrica all’uomo in rivolta. E tuttavia l’ostrica di Verga, l’uomo attaccato al<strong>lo</strong> scoglio della miseria e degli<br />
affetti, soffre come e quanto l’uomo in fuga, l’uomo in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza, il sistema<br />
della passione.<br />
Nelle pagine di Mère Méditerranée che Dominique Fernandez dedica a Guttuso (tre pagine: e restano, tra<br />
quelle che conosciamo, le migliori che siano state scritte su di lui) leggiamo: «L’influenza di Goya e di<br />
Géricault raggiunge in Guttuso l’atavismo siciliano più profondo. Il pittore di Bagheria, esaltato o detestato<br />
per il fatto che dipinge cantonieri, zolfatari e pescatori, è vittima – o autore? – di un equivoco. Come Vittorini,<br />
suo conterraneo, il Vittorini ferito di Conversazione in Sicilia, Guttuso raccoglie il lamento del mondo offeso<br />
ben più di quanto non esorti i proletari alla riscossa… Il vero, il migliore Guttuso è rimasto un autentico<br />
siciliano, cioè un poeta della rassegnazione e della morte, della sconfitta e del massacro, nonostante i<br />
principi rivoluzionari. Se come marxista non ignora che il mondo non deve essere soltanto contemplato,<br />
ma mutato, la sua sicilianità di fondo <strong>lo</strong> condanna a sentire, da artista, so<strong>lo</strong> il lirico disordine degli oltraggi»<br />
(da ciò, possiamo anticipare, il suo incontro col più lirico – anche nel senso del me<strong>lo</strong>dramma – degli oltraggi<br />
che siano stati consumati in Sicilia: quel<strong>lo</strong> che diede esca al Vespro). E prima aveva detto: «Fra due quadri<br />
di pescatori siciliani, la Pesca del pesce spada in cui si vedono gli uomini attaccati e serrati ai remi, e il<br />
Pescatore addormentato, forma abbattuta, spiaccicata sul fondo indaco, il secondo è di gran lunga superiore.<br />
Guttuso dipinge di preferenza le donne nell’atteggiamento del grido, della disperazione; e rovescia le teste<br />
all’indietro, come se un coltel<strong>lo</strong> stesse per affondare in quelle gole. Tutta la sua opera riflette <strong>lo</strong> spavento di<br />
un supplizio imminente… ma si esprime, mi pare, con maggiore vigore quando la minaccia del martirio non<br />
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Giuseppe Cipolla<br />
è esplicita e resta al<strong>lo</strong> stato di rosso, sanguinante fantasma».<br />
Nella sua Storia di Guttuso (1960), Elio Vittorini ha una intuizione che purtroppo lascia subito cadere.<br />
Ricordando il soggiorno di Guttuso a Milano, tra il ’33 e il ’36, ad un certo punto dice: «Era a Milano che<br />
apprendeva dell’avvento di Hitler in Germania, delle cannonate di Dollfuss contro le case operaie in<br />
Austria, del 6 febbraio di Parigi, della Guerra d’Abissinia e della “fondazione dell’impero”. Era a Milano che<br />
portava avanti la sua pittura su un piano in cui il carattere mostruoso di questi fatti politici aveva la stessa<br />
importanza ossessiva che i mostri barocchi delle ville borboniche avevano avuto nelle sue prime prove di<br />
Bagheria». Ci si può spingere più avanti: la pittura di Guttuso è tutta, mentre implica l’ideo<strong>lo</strong>gia e la storia,<br />
la speranza e l’amore, il tripudio dei sensi e la <strong>lo</strong>tta – è tutta nell’ossessiva premonizione o presenza dei<br />
mostri, nell’incombere del rosso e sanguinante fantasma di cui parla Fernandez. La follia, la morte. E l’uomo<br />
non può rispondere alla follia che impazzendo. Non può rispondere alla morte che morendo. «Nobili scienziati»,<br />
faceva dire Brancati all’uomo, in una delle sue ultime note di diario, «io non posso che morire». È la risposta<br />
di ogni siciliano alle cose (e anche a quella che Sartre chiama «la cosa»). E tuttavia le cose vivono e splendono<br />
(a parte «la cosa») perché non si può che impazzire, perché non si può che morire. E così vivono e splendono<br />
nella pittura di Renato Guttuso.<br />
dal cata<strong>lo</strong>go della Mostra anto<strong>lo</strong>gica dell’opera di Renato Guttuso,<br />
a cura di Leonardo Sciascia, Franco Russoli e Franco Grasso, <strong>Palermo</strong>, Palazzo dei Normanni, 1971<br />
Nota suGuttuso (1972)<br />
Tra i pensieri bizzarri sul disegno di <strong>Di</strong>derot, ce n’è uno su cui convergono e da cui si diramano gli<br />
altri: «Autre chose est une attitude, autre chose une action. Toute attitude est fausse et petite; toute action<br />
est belle et varie».<br />
La distinzione tra «posa» e «azione», tra la posa che immeschinisce e falsifica e l’azione che restituisce alla<br />
bellezza e alla verità, è chiara e persino ovvia: quando <strong>Di</strong>derot parla di posa si riferisce ai modelli dell’accademia,<br />
quando parla di azione si riferisce ai modelli che offre la vita e tout court alla vita. Ma poco più avanti la<br />
distinzione si attenua e c’è come uno spostamento dall’oggetto al soggetto, dal model<strong>lo</strong> all’artista. Si apre<br />
la possibilità che il primo termine si cali e realizzi nel secondo, o al contrario – e che insomma la posa può<br />
essere azione o l’azione arridere alla posa so<strong>lo</strong> che il disegnatore sappia e voglia, so<strong>lo</strong> che il suo punto di<br />
vista si muova da fuori e dentro, da una situazione eccentrica a una situazione centrica. «Non è già da troppo<br />
tempo che di un oggetto vedete soltanto la parte che copiate? Cercate, amici miei, di supporre l’intera figura<br />
trasparente e di situare il vostro occhio al centro di essa: da lì osserverete tutto il giuoco esteriore del
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
meccanismo; vedrete come certe parti si distendono mentre altre si accorciano; come queste cedono mentre<br />
quelle crescono; e continuamente interessati all’insieme e al tutto, riuscirete a mostrare, nella parte<br />
dell’oggetto che il vostro disegno presenta, la conveniente corrispondenza con quella che non si vede;<br />
e, non offrendone che una faccia, tuttavia costringerete la mia immaginazione a vedere la faccia opposta.<br />
E al<strong>lo</strong>ra potrò affermare che siete dei disegnatori sorprendenti».<br />
A un seco<strong>lo</strong> e mezzo da <strong>Di</strong>derot, Ortega y Gasset (Sobre el punto de vista en las artes, 1924) vedrà la storia<br />
dell’arte occidentale, da Giotto ai nostri giorni, in un gesto unico e semplice: <strong>lo</strong> spostamento, l’evoluzione<br />
e involuzione del punto di vista; il ritrarsi del punto di vista dall’oggetto al soggetto. Ma non vedrà questo<br />
stadio del punto di vista al centro dell’oggetto, o non ne terrà conto. Del resto, <strong>Di</strong>derot diceva del disegno.<br />
E Ortega parla della pittura. Sappiamo poi come ai saggisti spagnoli, da Unamuno a Ortega, da Menendez<br />
y Pidal a Castro, sia peculiare un processo di emarginazione di tutto quel<strong>lo</strong> che contraddice o ostacola le tesi<br />
alla cui dimostrazione vanno dritti come frecce al bersaglio; e <strong>lo</strong> stesso Ortega, appunto aprendo il saggio<br />
cui ci riferiamo, dice che «la storia, quando è davvero quel che deve essere, consiste in una elaborazione di<br />
films» – cioè in una scelta e montaggio di fatti cristallizzati, di immagini discontinue, di idee disperse che<br />
si ricostituiscono così in unità e movimento.<br />
Ma il punto di vista che <strong>Di</strong>derot inventa e Ortega scarta, si può considerare meramente ottico così come sembra<br />
<strong>Di</strong>derot voglia, senza equivoco, affermar<strong>lo</strong>? Soprattutto ottico, se si vuole: ma al tempo stesso, al di là<br />
dell’evento fisico, suggerisce una categoria, una definizione del disegno moderno nel suo divenire autonomo,<br />
nel suo svincolarsi dalla pittura e nel suo – qualche volta – vincolare la pittura. Un disegno che muove dal<br />
centro delle cose, e perciò, e perciò le rende all’azione. Un disegno di cui ci dà esempio, in queste tavole, Guttuso.<br />
Facciamo ancora un passo in avanti – per il disegno, per i disegni di Guttuso – con Baudelaire.<br />
Dalle sue considerazioni sul disegno, nel Sa<strong>lo</strong>n de 1846, caviamo una distinzione fondamentale: quella tra i<br />
disegnatori esclusivi o puri e i disegnatori co<strong>lo</strong>risti. La distinzione non consiste nel fatto che i disegnatori<br />
puri escludono il co<strong>lo</strong>re e i co<strong>lo</strong>risti <strong>lo</strong> impiegano ma, al contrario, nel diverso linguaggio o genere in cui si<br />
esprimono nell’assenza del co<strong>lo</strong>re. I disegnatori puri si preoccupano di seguire e sorprendere la linea nelle<br />
sue più segrete ondulazioni, e non hanno il tempo di vedere l’aria e la luce, e anzi si sforzano di non vederle<br />
per non venir meno al <strong>lo</strong>ro principio; il co<strong>lo</strong>rista che disegna, al contrario, non vede che l’aria e la luce, cioè<br />
i <strong>lo</strong>ro effetti. «I co<strong>lo</strong>risti disegnano come la natura; le <strong>lo</strong>ro figure sono naturalmente delimitate dalla <strong>lo</strong>tta<br />
armoniosa delle masse co<strong>lo</strong>rate» nel tempo stesso che ne fanno a meno. E insomma: «I puri disegnatori sono<br />
dei fi<strong>lo</strong>sofi e dei distillatori di quintessenze. I co<strong>lo</strong>risti sono dei poeti epici». Più avanti, dirà che soltanto i<br />
co<strong>lo</strong>risti hanno il privilegio del disegno di immaginazione o di creazione e che «i disegnatori puri sono dei<br />
naturalisti dotati di un senso eccellente, ma disegnano per ragionamento, mentre i co<strong>lo</strong>risti, i grandi<br />
co<strong>lo</strong>risti, disegnano per istinto, quasi a <strong>lo</strong>ro insaputa». Là dove, dunque, il co<strong>lo</strong>rista può passare alla<br />
«matita nera» senza pena e anzi con libertà, inventando, creando, il disegnatore puro, se si attenta a passare<br />
al co<strong>lo</strong>re, sempre mostrerà nelle sue cose un che «d’amer, de pènible et de contentieux».<br />
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Giuseppe Cipolla<br />
La distinzione è precisa, e oggi ci è consentito di verificarla forse meglio che al tempo in cui Baudelaire la<br />
faceva: poiché con più «inconcepibile slancio» i disegnatori puri si danno al co<strong>lo</strong>re, e con maggiore autonomia<br />
e libertà i co<strong>lo</strong>risti si danno al disegno. E ne abbiamo esempio immediato in questi disegni di Guttuso, che<br />
sono appunto i disegni di un co<strong>lo</strong>rista: e tanto più li riconosciamo per tali nell’assenza del co<strong>lo</strong>re, nel bianco<br />
e nero. Una riconoscibilità che viene da quel<strong>lo</strong> che Baudelaire chiama «un metodo ana<strong>lo</strong>go alla natura» – ed<br />
è inutile dire che la natura non è naturalistica. E quale metodo è più ana<strong>lo</strong>go alla natura di quel<strong>lo</strong> dell’azione<br />
che viene da dentro le cose, dal centro delle cose, dell’azione che è la cosa – nella «armoniosa <strong>lo</strong>tta delle<br />
masse», nell’aria, nella luce?<br />
Questi brevi testi – di <strong>Di</strong>derot, di Baudelaire – e altri cui ci avverrà di fare richiamo, sono delle approssimazioni,<br />
dei gradi di avvicinamento, a una proposizione che possiamo già nettamente dichiarare: le cose di Guttuso<br />
sono quanto di più vicino alla vista si possa dare nell’arte; e il disegno è il mezzo espressivo suo in cui <strong>lo</strong><br />
scarto tra l’arte e la vita si riduce al minimo.<br />
Non a caso questa proposizione espunge il «come» e la sua ombra: la vicinanza alla vita non è data dal fatto<br />
che sono come la vita, che somigliano alla vita, ma appunto dal contrario. Non somigliano alla vita, non sono<br />
come la vita: sono, su un piano che non è quel<strong>lo</strong> della vita, la vita.<br />
Qualcosa di simile è stato detto per Tolstoj – e benissimo da Lionel Trilling, nel saggio su Anna Karénina.<br />
E vale la pena riportarne il brano finale: «Parte dell’incanto del libro si deve al suo violare la nostra nozione<br />
del rapporto che dovrebbe esistere tra l’importanza di un evento e <strong>lo</strong> spazio ad esso dedicato. La scena di<br />
Vronskij che comprende all’improvviso di essere legato ad Anna non dall’amore ma dalla fine dell’amore,<br />
fatto che co<strong>lo</strong>ra (così nella traduzione, ma ci viene il dubbio non sia la parola esatta) tutto il nostro modo<br />
di intendere la relazione» dei due amanti, è trattata in poche linee; ma intere pagine sono dedicate alla scoperta<br />
di Levin che tutte le sue camicie sono state messe in valigia e non gli resta neppure una camicia da indossare<br />
al suo matrimonio. Fu proprio la somma di attenzione data alle camicie che fece esclamare a Matthew Arnold<br />
che questo libro non doveva essere considerato arte ma vita, e forse questa scena più di ogni altra suggerisce<br />
la vigorosa intelligenza animale che caratterizza Tolstoj come romanziere. Perché qui abbiamo infine la sua<br />
coscienza che <strong>lo</strong> spirito dell’uomo è sempre alle mercé di cose contingenti e banali, il suo senso appassionato<br />
che il contingente e il banale sono della più grande importanza... Comprendere <strong>lo</strong> spirito incondizionato non<br />
è così difficile, ma non v’è nulla di più raro che il comprendere <strong>lo</strong> spirito quale esiste nelle condizioni<br />
ineluttabili creategli dal contingente e dal banale».<br />
Si potrebbe riscrivere questo brano per Guttuso: con qualche modifica, ovviamente, con qualche ritocco.<br />
Anche Guttuso fa violenza alla nozione del rapporto tra gli eventi e <strong>lo</strong> spazio (e qui la parola spazio assume<br />
più forte va<strong>lo</strong>re), tra noi e le cose, delle cose tra <strong>lo</strong>ro. E se spesso tratta il grande evento in grande spazio<br />
(e da ciò certe sue dèfaillances di un’epica senza poesia), è nel<strong>lo</strong> spazio che prendono i piccoli eventi, le cose<br />
contingenti e banali, che riconosciamo la vita. Si potrebbe dire, con una battuta, che la sua grandezza è più<br />
nelle camicie che nelle bandiere. Le camicie di Levin e non quelle di Giuseppe Cesare Abba. Lo spirito (poi-
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
ché ci troviamo la parola tra le mani) ineluttabilmente condizionato dal contingente e dal banale – e che è<br />
poi la vita – gli dà vigore e acutezza più del<strong>lo</strong> spirito incondizionato – che è poi, per lui, la storia. E<br />
sempre si è tentati, di fronte alle sue rappresentazioni dei grandi eventi, al giuoco del sezionamento (a<br />
parte, si capisce, La fuga dall’Etna del 1938 e la Crocifissione del 1941: e anche se amiamo il primo più del secondo,<br />
l’importanza della Crocifissione è evidente, e non so<strong>lo</strong> nella storia di Guttuso) – qualcosa di diverso<br />
della usuale estrazione del particolare: e ne vien fuori che ogni parte è maggiore del tutto, cioè che ogni<br />
parte è vicina alla vita più di quanto <strong>lo</strong> sia la rappresentazione nel suo insieme. Chiamare «composizioni»<br />
i suoi grandi quadri sarebbe insomma esattissimo: per poi operarvi, idealmente, una «scomposizione» – cioè<br />
una deduzione, non una riduzione, del contingente dall’assoluto, del momento quotidiano dal momento<br />
storico, della vita che si fa dalla vita – storicamente, ideo<strong>lo</strong>gicamente – fatta (e questo discorso altri<br />
potrebbe forse far<strong>lo</strong> in ordine a va<strong>lo</strong>ri esclusivamente pittorici: di come nelle parti ci sia, paradossalmente,<br />
più pittura che nell’insieme).<br />
Le camicie di Levin sono importanti perché mancano. Pascal ha avuto un pensiero sul contingente e il<br />
banale che può arrivare ad ucciderci: per affermare che l’uomo è più nobile di tutto ciò che <strong>lo</strong> uccide.<br />
Non ha però tenuto conto del contingente e del banale che può condizionarci o ucciderci non per presenza<br />
e dinamica (la dinamica dell’incidente), ma per mancanza, per assenza. Del resto, non poteva o non gli<br />
importava. La situazione dell’uomo «nelle condizioni ineluttabili creategli dal contingente e dal banale» in<br />
assenza, comincia ad essere visibile dopo. Perché il condizionamento per assenza è di specie economica: ed<br />
è la povertà. Momentanea in Levin (ma a questo punto le camicie di Levin retrocedono a labile pretesto),<br />
inveterata e perenne nei Malavoglia. La vita dei pescatori di Acitrezza, quale Verga ce la rappresenta, altro<br />
non è, in effetti, che il continuo e tragico condizionamento – il tragico che non cresce e precipita ma<br />
continua – dell’uomo da parte delle cose che gli mancano.<br />
Ecco: la condizione da cui le cose (e parliamo propriamente di cose) di Guttuso esp<strong>lo</strong>dono sulla tela o sul<br />
foglio è appunto quella della povertà. E non diciamo la povertà bohémienne alla quale a volte, in esplicita<br />
autobiografia, si riferiscono – ma l’antica e immobile povertà del mondo verghiano che è stato, negli anni<br />
venti e trenta, anche il suo.<br />
Le cose sono fissate sulla tela o sul foglio da una divorante impazienza. Gli spaghetti, le uova al tegamino,<br />
la fetta d’anguria debbono essere, subito dopo, mangiati; il vino deve essere, subito dopo, bevuto. Si tratta<br />
di veri spaghetti, di vere uova, di vera anguria, di vero vino: anche se il segno non li riproduce ma li inventa.<br />
Si tratta insomma di vera fame: e si pensi a quel suo mangiatore di spaghetti del 1956. E comunque si tratta<br />
di un desiderio profondo e sofferto, rapidamente appagato e mai spento – e rapidamente appagato e mai<br />
spento (mai cioè «scorporato», distaccato, sublimato) anche nell’immediata duplicazione – con scarto<br />
minimo, come abbiamo detto – dalla vita all’arte. Una nota di Bergamin può forse esemplificare, semplificare,<br />
quel che intendiamo: «Avete sete e bere acqua è la perfezione della sensualità, raramente raggiunta. Alcune<br />
volte si beve acqua e altre si ha sete. (E altre volte ci si beve la propria sete, mi rispose Unamuno)». Guttuso<br />
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Giuseppe Cipolla<br />
raggiunge questa perfezione della sensualità, bevendo acqua quando ha sete; e va oltre nella perfezione<br />
bevendo, insieme all’acqua, la propria sete.<br />
Automaticamente ricordiamo: «Egli può rivedere tutto un Oriente nell’interno di un frutto nostrano come<br />
il cocomero». È Bruno Barilli che parla di Verdi. E ancora: «Chi è abituato per una certa dimestichezza a<br />
ficcare le mani fra gli ingranaggi dei componimenti musicali, le ritrae improvvisamente, fa un salto indietro<br />
e rimane trasecolato al prorompere della sua foga folgorante e irreparabile». Sembra cioè, la musica di Verdi,<br />
un meccanismo semplice e frusto come quel<strong>lo</strong>, se si alza il coperchio, delle viscere di un pianino: ma<br />
appunto i meccanismi semplici sprigionano, nell’arte, le scariche folgoranti e irreparabili. «Con immediatezza<br />
tutta meridionale», dirà infine, per noi, per questo nostro frammentario discorso su Guttuso, Barilli parlando di<br />
quel «culmine eccelso» che è per lui Il trovatore.<br />
E sembra parli di un Verdi, oltre che di sé sulla soglia della grandezza, Verga quando dice che «tutta la<br />
scienza nella vita sta nel semplificare le umane passioni». Lui, questo processo di semplificazione l’aveva<br />
appena cominciato: «...la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma<br />
gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Pioveva,<br />
e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le ulive del podere facevano fumare le<br />
<strong>lo</strong>ro vesti bagnate dalla pioggia davanti al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che<br />
erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni<br />
della parrocchia, o della pioggia che rubava <strong>lo</strong>ro il pane di bocca...». E così vien fuori Nedda la varannisa;<br />
e Verga passa dalla mediocrità al genio, come è stato detto. Ed è senz’altro casuale: ma come la storia del più<br />
grande Verga comincia da quella fattoria del Pino alle falde dell’Etna, la storia della pittura di Guttuso si può<br />
far cominciare dal quadro (e dal più <strong>lo</strong>ntano intenso disegno che <strong>lo</strong> precede) Fuga dall’Etna durante un’eruzione.<br />
Un caso: ma Savinio ci ha appreso che bisogna far caso al caso, alle corrispondenze e coincidenze le più<br />
vaghe e quasi impercettibili, nella storia di uno scrittore, di un artista – e che insomma c’è del metodo nella<br />
follia del caso. E cercando<strong>lo</strong> in questo, ecco che siamo alla fiamma da cui sorge, con la dolente figura di<br />
Nedda, la poetica di Giovanni Verga; e alla fiamma da cui erompe, con la fuga di una popolazione – eterna<br />
e atroce fuga dalla natura, dalla storia, da se stessa – la poetica di Renato Guttuso. La poetica è per entrambi<br />
quella di «semplificare le umane passioni»; il luogo ad essa connaturato, e che non può essere altro, la Sicilia.<br />
Ma la poetica di Verga, l’uomo attaccato al<strong>lo</strong> scoglio della miseria e degli affetti, soffre come e quanto l’uomo<br />
in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza (come dicessimo sistema nervoso) dell’uomo di Guttuso è<br />
uguale a quel<strong>lo</strong> dell’uomo di Verga: semplificato. Il sistema della sofferenza. Il sistema della passione.<br />
Tra Verdi e Verga, tra un Verdi vissuto e un Verga vaticinato, c’è Francesco De Sanctis.<br />
L’Italia di Guttuso è l’Italia di De Sanctis. (E anche la <strong>Di</strong>vina Commedia disegnata da Guttuso è quella letta da<br />
De Sanctis – e l’Inferno, oltre che luogo delle passioni umane semplificate, come inferno della nostra storia civile).<br />
Da queste tessere, da questo picco<strong>lo</strong> mosaico di tesi e di richiami, dovremmo a questo punto muovere un<br />
discorso meno aleatorio e sfuggente, più coerente, più sicuro, sull’arte di Guttuso. Ma abbiamo davanti
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
l’uomo, il conterraneo, l’amico – la sua irresistibile vitalità e simpatia, la sua parola, il suo gesto – il suo gesto<br />
che dalla vita sconfina nell’arte senza soluzione di continuità, senza sorpresa, senza che ce ne accorgiamo<br />
o che se ne accorga (mentre ce ne accorgiamo e se ne accorge). Qualcosa di simile a quel che Stendhal,<br />
secondo Gide, faceva con malizia: <strong>lo</strong> «scrivere di colpo» – in Guttuso il disegnare o dipingere di colpo – per<br />
cui alla sempre viva e commossa fantasia si mescola «un non so che di aggressivo e di impulsivo, di sconveniente,<br />
d’immediato e di nudo». Ecco: questa catena di aggettivi – aggressivo, impulsivo, sconveniente, immediato,<br />
nudo – può anche definire il mondo che Guttuso ci restituisce nei disegni, nelle pitture. Ma ora vogliamo<br />
al<strong>lo</strong>ntanare il mosaico, e anche quest’ultima tessere, come sfondo a un ritratto. «Incontriamo per la strada<br />
Guttuso. Cammina fra gli amici con il col<strong>lo</strong> sprofondato entro la giacca e la testa piegata a sinistra come tutti<br />
i passeggiatori siciliani che porgono una guancia al molle vento di scirocco; ogni tanto avvolge un braccio<br />
sulle spalle dell’amico che gli sta a destra o dell’amico che gli sta a sinistra...». A Roma, nel 1947, Brancati<br />
ferma nel suo diario questa immagine, questo «riconoscimento» <strong>lo</strong>ntano ma fraterno – quasi avesse riconosciuto<br />
prima il siciliano, e poi che quel siciliano era Guttuso. A <strong>Palermo</strong>, nel 1971, più da vicino...«Prima, quando<br />
venivo in Sicilia subito mi assaliva la smania di andarmene; ora mi viene la tentazione di restarci». Sempre<br />
la sigaretta tra le dita, una appresso all’altra consumate in poche boccate, nervosamente; sempre quell’onda<br />
di fumo davanti al volto, come negli autoritratti. Renato Guttuso, bagherese nato a <strong>Palermo</strong>: che il padre in<br />
quel momento ce l’aveva coi suoi concittadini, o soltanto con gli amministratori comunali, e volle che il<br />
figlio non nascesse a Bagheria ma nella città capitale, nella splendida e misera <strong>Palermo</strong> di quegli anni, di<br />
sempre. Ma la ripicca di Gioacchino Guttuso è rimasta un fatto puramente anagrafico: quando si parla di<br />
Renato Guttuso, della sua pittura, si parla di Bagheria. Il paesaggio, la gente. L’intraprendenza e l’acutezza<br />
dei bagheresi, i fasti e nefasti dell’amor proprio. La vampa dei co<strong>lo</strong>ri, la morte. Bagheria con le sue ville<br />
settecentesche, estremo delirio dell’anarchia baronale; coi suoi giardini di limoni, in cui delira l’anarchia<br />
mafiosa. I mostri di Palagonia. Il mare dell’Aspra.<br />
Il giorno di Natale, Guttuso è andato al cimitero di Bagheria. Ha camminato tra le tombe e ha parlato di<br />
comunismo col custode. Poi è tornato a <strong>Palermo</strong>, in albergo. «È sempre pieno d’angoscia», mi dice la persona<br />
che meglio <strong>lo</strong> conosce e l’ama. Lo guardo mentre ascolta le disperate canzoni di Rosa Balistreri. È come se<br />
fosse arrivato alle radici della sua angoscia, al nudo viluppo delle antiche paure, delle antiche sofferenze.<br />
Morsi cu morsi e cu m’amava persi, – comu fineru li jochi e li spassi! – La bedda libirtà comu la persi, –<br />
l’hannu ‘mputiri li canazzi corsi, – Chiancinu tutti, li liuna e l’ursi, – chianci me matri ca vivu mi persi, – Cu<br />
dumanna di mia, comu ‘un ci fussi, – scrivitimi a lu libru di li persi. Quando Guttuso è a <strong>Palermo</strong> sono<br />
frequenti le serate, in casa di amici, in cui Rosa Balistreri canta: con quella sua voce viscerale e straziata, piena<br />
d’amore e rancore. E tra tutti i canti, Guttuso sembra preferisca questo: un canto di carcerato misteriosamente<br />
dolente, che cela una identità, una storia.<br />
«È morta chi è morta e ho perso chi mi amava, i giuochi e gli spassi sono finiti»: e viene da tradurre «morta»<br />
invece che «morto» perché si ha il senso che l’uomo abbia ucciso colei che <strong>lo</strong> amava; e sta scoprendo ora di<br />
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Giuseppe Cipolla<br />
averla uccisa ingiustamente; e perciò il rimorso, e il vagheggiamento della <strong>lo</strong>ntana e perduta felicità.<br />
«Ho perso la bella libertà, sono ormai in potere degli sbirri, feroci come cani corsi; e perciò piangono tutti,<br />
anche i leoni e gli orsi; e piange mia madre, che vivo mi perse. A chi domanda di me, come non ci fossi:<br />
scrivetemi nel libro dei persi». Uccidiamo sempre le cose che amiamo, rimpiangiamo sempre i verdi<br />
paradisi dell’infanzia e dell’amore; il mondo è una prigione, i cani corsi ci azzannano. Ma piange la madre,<br />
la natura che è madre piange con lei: ed è soltanto il pianto del nostro esser vivi. Meglio dunque esser morti,<br />
calati nel libro dei persi.<br />
Guttuso accompagna il canto a mezza voce, <strong>lo</strong> alza e impenna nel gesto della mano, nell’agitata voluta di<br />
fumo che sale dalla sigaretta. La mano ricade sul libro dei persi, la mano che ha dipinto fiori e battaglie, nudi<br />
di donne, scene d’amore, atrocità storiche e malinconie esistenziali. La mano che ha dipinto altre mani.<br />
Ma la sua non mi fa pensare a quella di Lenin, che lui ha dipinto. Mi fa pensare, viva ma così abbandonata<br />
e stanca, a quella di don Gesualdo. «Guardate che mani», fa dire Verga di quelle di Gesualdo Motta: e basta<br />
per farcele vedere grandi e dure. Ma non è fisicamente che la mano di Guttuso mi ricorda quella di don Gesualdo.<br />
Fisicamente diverse, sono mani che hanno fatto, mani che hanno vinto e che pure posano come vinte.<br />
<strong>Di</strong>ce Lawrence di don Gesualdo: “Ma non altro ottiene dalla ricchezza che un grande tumore di sofferenza,<br />
un amaro tumore...” Dalla ricchezza, dal successo, dalla g<strong>lo</strong>ria, che altro resta a Renato Guttuso se non<br />
uguale tumore di sofferenza?<br />
Ci sono, si, i suoi quadri: nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari, sotto gli occhi<br />
di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscoprirla; ma sono come le terre al sole di don Gesualdo.<br />
«Ma egli è siciliano», dice ancora Lawrence di Gesualdo, «e qui salta fuori la difficoltà». La difficoltà, per<br />
Guttuso, per noi, per ogni uomo che è nato in quest’isola, di vivere dopo aver fatto, dopo avere accumulato<br />
quadri o libri o denaro; la difficoltà a resistere, a non soccombere «sotto il gruzzo<strong>lo</strong>» della ricchezza o della<br />
g<strong>lo</strong>ria o soltanto e semplicemente delle cose fatte, delle cose in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione.<br />
Questa è la <strong>lo</strong>tta di Guttuso, la sua angoscia. Non vuole soccombere sotto le cose che ha fatto, sotto le cose<br />
che fa. La <strong>lo</strong>tta contro il «gruzzo<strong>lo</strong>» nel tempo stesso che inevitabilmente, inarrestabilmente, ogni suo gesto<br />
<strong>lo</strong> fa crescere. La <strong>lo</strong>tta contro la «roba» – che sono i quadri, che è la fama, che può essere anche la ricchezza<br />
– mentre la «roba» dislaga a raggiungere il più <strong>lo</strong>ntano orizzonte. Il «disvivere» mentre tenacemente,<br />
testardamente, profondamente vive. E il suo tornare in Sicilia, il legame fisico che ora ristabilisce con la sua<br />
terra, ha questo senso: di porsi faccia a faccia con la verità, di godere (questo è il punto) il suo tumore di<br />
sofferenza. Gesualdo Motta no, non poteva: «visse ciecamente, sotto l’impeto del sangue e dei muscoli, con<br />
l’astuzia e la vo<strong>lo</strong>ntà, e mai ebbe coscienza di sé. Sarebbe stato migliore se l’avesse avuta? Nessuno può<br />
dir<strong>lo</strong>». Non possiamo dir<strong>lo</strong>. Nemmeno Guttuso può dire se la sua «coscienza di se» <strong>lo</strong> fa migliore di don<br />
Gesualdo che non <strong>lo</strong> sapeva: non può dir<strong>lo</strong> soggettivamente, come uomo che soffre, ma <strong>lo</strong> affermano i suoi<br />
quadri, la sua «coscienza di se» che si fa nostra: coscienza di come siamo, di come soffriamo, di come godiamo<br />
la nostra sofferenza.
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
Vedendo<strong>lo</strong> in luce verghiana, come personaggio sconfitto nel momento stesso in cui vince, vincitore nel<br />
momento in cui è sconfitto, si capiscono tante cose di Guttuso, della sua pittura. Tutto quel<strong>lo</strong> che da lui vien<br />
fuori, nella vita come nell’arte, anche la sua innocenza, s’appartiene alla profonda coerenza di questa<br />
agonia da personaggio verghiano che Verga non riuscì a raggiungere (e avrebbe forse raggiunto se stesso).<br />
E non a caso mi viene il termine agonia: della vita che <strong>lo</strong>tta contro se stessa, e cioè contro la morte.<br />
O al contrario: della morte che <strong>lo</strong>tta contro se stessa, e cioè contro la vita.<br />
«Ogni mattina, quando mi faccio la barba, vedo affiorare nel<strong>lo</strong> specchio il volto di mio padre» – mi ha detto<br />
una volta Guttuso. Ho subito pensato a quell’altro siciliano, suo amico, che «da una ruota / imperfetta del<br />
mondo, / su una piena di muri serrati, / <strong>lo</strong>ntano dai gelsomini d’Arabia», volle parlare al padre: «per dirti /<br />
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità / di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano so<strong>lo</strong> / cicale del<br />
biviere, agavi lentischi, / come il campiere dice al suo padrone: / ‘Baciamu li mani’. Questo, non altro. /<br />
Oscuramente forte è la vita».<br />
Gli antichi dicevano, in diritto, «paterna paternis», al figlio quel che è del padre. Scomparsa nel diritto,<br />
la formula è rinunciata anche nei pensieri, nei sentimenti. Se non da pochi: Quasimodo, Guttuso...<br />
E non si può essere, più di così, siciliani. Più di cosi, uomini.<br />
La Vucciria di Guttuso (1974)<br />
da Guttuso. <strong>Di</strong>segni 1938-1972, con una nota di Leonardo Sciascia,<br />
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972<br />
Così come certe pietanze o dolci in cui c’è tutto (e a volte, persino, la pietanza sconfina nel dolce<br />
e il dolce nella pietanza), e sembrano realizzare il sogno di un affamato, i mercati più abbondanti e traboccanti,<br />
più ricchi, più festosi, più barocchi sono quelli dei paesi poveri, dei paesi in cui <strong>lo</strong> spettro della fame si è sempre<br />
aggirato come la Morte Rossa di Poe – ma a differenza di questa, mai riuscendo a varcare la soglia delle<br />
patrizie dimore. A Bagdad, a Valencia, a <strong>Palermo</strong> un mercato è qualcosa di più di un mercato – cioè di un<br />
luogo dove si vendono vivande o dove si va per comprarne. È una visione, un sogno, un miraggio.<br />
Un “mangiar visuale”: e con effetti di appagamento e delizia pari a quelli delle “bevute visuali” del Maga<strong>lo</strong>tti.<br />
E potremmo anche lasciar cadere la parola mangiare: ché dei cinque sensi, a ben considerare, il meno impegnato<br />
finisce con l’essere il gusto, subordinato agli altri quattro: i quali, dalla sua inattività resi più alerti e sottili,<br />
a compenso gli trasmettono quei segnali tra <strong>lo</strong>ro complementari e concomitanti che diventano “un misto di<br />
gola, di ristoro, di maraviglia, di dolcezza, di liquefazione”, come appunto nelle “bevute visuali” del Maga<strong>lo</strong>tti.<br />
Ora il visualizzare un fatto visuale quale la Vucciria di <strong>Palermo</strong>, vale a dire un fatto di predisposta, funzionale<br />
e funzionante visualità – il visualizzar<strong>lo</strong> in una pittura, in un quadro, in un grande quadro – sarebbe una<br />
operazione piuttosto ovvia e banale, se non vi concorresse non so<strong>lo</strong> una celebrazione della visualità nel<br />
senso maga<strong>lo</strong>ttiano, ma anche la conoscenza e conscienza di un significato: di quel che una tale visualità –<br />
che sarebbe da dire propriamente e definitivamente teatralità – umanamente e storicamente significa.<br />
E potremmo anche fare a meno di dire che non significa il consumo, ma la fame: poiché il quadro di Renato<br />
Guttuso impareggiabilmente <strong>lo</strong> dice.<br />
da “Sicilia”, luglio, n. 76, 1974<br />
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134<br />
Giuseppe Cipolla<br />
Il vespro siciliano (1975)<br />
… Vi si aggiunge ora Renato Guttuso. Il suo sentimento e giudizio del Vespro, in queste immagini,<br />
è quel<strong>lo</strong> stesso che trascorre nei versi di Dante, nella Storia di Amari, nell’opera di Verdi. Certo, Guttuso sa <strong>bene</strong><br />
dell’altro e più esatto giudizio di Croce e degli storici moderni, di quella specie di invettiva lanciata contro la falsa<br />
rivoluzione del Vespro, per colpire la falsa rivoluzione che era il fascismo, da Elio Vittorini. Ma nel suo sentire<br />
popolare, nel suo aver radici nella vita e nel sentimento del popo<strong>lo</strong> (e la sua vitalità, la sua «energia», appunto<br />
consiste nel fatto che la sua cultura, anche nei più puntuali, avvertiti e risentiti aggiornamenti, è humus a<br />
quelle radici), egli torna al fatto in sé, al Vespro nel suo innescarsi e nel suo esp<strong>lo</strong>dere, reciso dagli avvenimenti<br />
di cui fu causa, dalle implicazioni e complicazioni che gli storici poi vi riconobbero e condannarono.<br />
Torna cioè al mito del Vespro come improvvisa e incontenibile rivolta di popo<strong>lo</strong>. Per la giustizia, per la<br />
dignità, per il buongoverno.<br />
E la bella Trinacria, che caliga<br />
tra Pachino e Pe<strong>lo</strong>ro, sopra ’l golfo<br />
che riceve da Euro maggior briga,<br />
non per Tifeo ma per nascente solfo,<br />
attesi avrebbe li suoi regi ancora,<br />
nati per me di Car<strong>lo</strong> e di Rodolfo,<br />
se mala segnoria, che sempre accora<br />
li popoli suggetti, non avesse<br />
mosso <strong>Palermo</strong> a gridar: «mora, mora!»<br />
E se mio frate questo antivedesse...<br />
Se l’antivedesse il tiranno, se l’antivedessero tutti co<strong>lo</strong>ro che operano contro la libertà, contro la giustizia,<br />
contro la dignità umana... E ancora una volta, rappresentando il Vespro, questo dicono, di questo ammoniscono,<br />
le intense e vivide immagini di Guttuso.<br />
da Guttuso, cata<strong>lo</strong>go della mostra, Galleria “La Tavo<strong>lo</strong>zza”, <strong>Palermo</strong> 1975-1976.
<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong> (1987)<br />
“<strong>Io</strong> <strong>lo</strong> <strong>conoscevo</strong> <strong>bene</strong>...” Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia<br />
Ho conosciuto benissimo Renato Guttuso: e posso dir<strong>lo</strong> non so<strong>lo</strong> per i frequenti incontri, la lunga<br />
confidenza, la simpatia e l’affetto che avevo per lui, ma anche – e soprattutto – perché il nostro essere<br />
d’accordo nel giudicare persone, fatti e libri nella <strong>lo</strong>ro immediata verità, se appena tentavamo di risalire ai<br />
principi, diventava fondamentale e profonda discordia. Il che ci rendeva – penso reciprocamente – guardinghi.<br />
Tanto per fare un esempio: conosceva ed amava Voltaire, potevamo parlarne per delle ore con uguale entusiasmo;<br />
ma appena si affacciava la contrapposizione a Rousseau, ecco che – come nel gioco della torre buttava giù<br />
Voltaire e si teneva zelantemente a Rousseau. La sua obbedienza ai principi – o meglio: a un principio – era<br />
indefettibile. Tutt’altra era la sua vita, tutt’altri i suoi sentimenti e pensieri; e con pena portava la contraddizione<br />
del come viveva col come obbediva: ma non ammetteva ci si attentasse a discuterla, pretendeva anzi che<br />
fosse capita e magari e<strong>lo</strong>giata. Il che, ad un certo punto, ci ha portati ad una rottura di cui entrambi<br />
abbiamo sofferto. Ed io posso sinceramente confessare la mia sofferenza, la sua intravedendola nei biglietti<br />
che continuò a mandarmi e nei messaggi che comuni amici mi riferivano. Lo <strong>conoscevo</strong>, ripeto, benissimo:<br />
nelle sue debolezze, nei suoi mutevoli umori, nei suoi “enfantillages” – che eran tanti, a momenti patetici e<br />
addirittura commoventi. La sua frequentazione di persone che comunque rappresentassero il potere aveva<br />
un che di’infantile, senza ombra di utilitarismo. Un nostro amico cui, come a me, qualche volta accadeva di<br />
passare un pranzo o una cena in casa Guttuso, incontrandovi le più disparate persone del potere, soleva<br />
dire: «Quella non è una casa, è un aeroporto». Ma anche se la “casa-aeroporto” di Guttuso può essere assunta<br />
a campione socio<strong>lo</strong>gico e a spiegazione dei fasti e nefasti della politica italiana dell’ultimo quarto di seco<strong>lo</strong>,<br />
io so che quell’accozzare a mensa le persone più disparate veniva principalmente dal suo temperamento, dal<br />
suo voler essere amato da tutti – e dal suo essere irreparabilmente siciliano. Lui riusciva a parlare con tutti,<br />
ad affrescare tutti. C’era una sola cosa in lui di sgradevole: uomo generoso, <strong>lo</strong> era di più con co<strong>lo</strong>ro che un<br />
po’ disprezzava. Ne conseguiva che intrattenere con lui un rapporto non di soggezione – di vera, disinteressata<br />
e libera amicizia – era difficile, anche se in definitiva bel<strong>lo</strong>; ma intrattenerne uno interessato, era facile.<br />
Potrei scrivere lungamente su di lui, sul suo carattere e sui nostri rapporti (ma sui nostri rapporti, se lui ha<br />
conservato le mie lettere come io le sue, chi ne ha voglia potrà domani scriverne). <strong>Io</strong>, qui ed ora, voglio<br />
soltanto dire che gli ultimi suoi giorni di vita sono stati di tutta coerenza rispetto a come era sempre stato.<br />
E l’ho subito dichiarato: né le sue ultime vo<strong>lo</strong>ntà riguardo ai beni, né la sua conversione alla religione<br />
cattolica, mi hanno minimamente sorpreso. Mi ha sorpreso invece, e spiacevolmente, che intorno alla sua<br />
morte si muovesse un caso giudiziario. Ma, detto questo, mi sento in dovere – come cittadino – di esprimere<br />
solidarietà alle due signore che gratuitamente, nella sentenza di archiviazione del caso, sono state offese.<br />
da “L’Espresso”, 11 ottobre 1987<br />
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Aprile 2010<br />
Università degli <strong>Studi</strong> di <strong>Palermo</strong><br />
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