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Fabrizio De André: per sempre contro

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<strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

<strong>per</strong> <strong>sempre</strong> <strong>contro</strong><br />

A cura di Francesco Mendozzi - V A - a.s. 2002/03<br />

Liceo Scientifico Statale Convitto Vittorio Emanuele II - Roma


� Indice<br />

La vita pag. 3<br />

L’idea pag. 6<br />

Volume 1 pag. 8<br />

- Il suicidio<br />

Tutti morimmo a stento pag. 12<br />

- L’angoscia<br />

Volume 3 pag. 18<br />

- Il pacifismo<br />

Nuvole barocche pag. 23<br />

- Robert Burns<br />

La buona novella pag. 27<br />

- I Vangeli apocrifi<br />

Non al denaro non all’amore né al cielo pag. 32<br />

- Ossigeno e idrogeno<br />

Storia di un impiegato pag. 39<br />

- Lo stragismo politico dopo il ‘68<br />

Canzoni pag. 47<br />

- Umberto Saba<br />

Volume 8 pag. 53<br />

- La vita in mare<br />

Rimini pag. 58<br />

- La rivoluzione cubana<br />

L’indiano pag. 64<br />

- La vita nei campi<br />

Creuza de mä pag. 68<br />

- La morte di un figlio<br />

Le nuvole pag. 72<br />

- Il pentitismo<br />

Anime salve pag. 76<br />

- L’alienazione<br />

Conclusione pag. 81<br />

Bibliografia pag. 82<br />

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� La vita<br />

Subito dopo la nascita di <strong>Fabrizio</strong> Cristiano (Bicio, <strong>per</strong> i suoi familiari), il 18 febbraio<br />

1940, i suoi genitori Giuseppe <strong>De</strong> <strong>André</strong> e Luigia Amerio decidono di trasferirsi da Genova<br />

a Revignano d’Asti, ove la famiglia possiede un cascinale (Cascina dell’Orto), <strong>per</strong> sfuggire<br />

ai <strong>per</strong>icoli della guerra. Nel 1944 il padre Giuseppe, professore all’Istituto Palazzi, è<br />

costretto a vivere “clandestinamente” <strong>per</strong> qualche mese <strong>per</strong> aver aiutato i suoi alunni ebrei<br />

a rifugiarsi in campagna. Finita la guerra torna dal campo di concentramento di Manheim<br />

lo zio Francesco Amerio, il quale racconta al piccolo Bicio ed a suo fratello Mauro le<br />

vicende di fame e terrore vissute nel lager; tutto ciò rimane impresso in <strong>Fabrizio</strong>, tanto che<br />

egli stesso nella sua carriera canterà spesso storie di diseredati e umili, <strong>per</strong>ché colpito da<br />

queste tragiche vicende. Alla fine del settembre 1945 la famiglia <strong>De</strong> <strong>André</strong> torna a Genova<br />

e nell’ottobre 1946 <strong>Fabrizio</strong> viene iscritto alla prima elementare all’Istituto delle suore<br />

Marcelline. In una vacanza a Pocol <strong>Fabrizio</strong> conosce Paolo Villaggio, con cui scriverà<br />

parecchie canzoni e condividerà moltissimi anni della sua vita. Nell’ottobre 1948 il piccolo<br />

Bicio comincia a studiare violino: da subito mostra grande orecchio musicale.<br />

Contemporaneamente mostra <strong>per</strong>ò tutta la sua inquietudine, la sua semplicità e la sua<br />

indole ribelle: molesta le domestiche, prende a parolacce le suore del suo istituto,<br />

comincia a frequentare la strada ed i bassifondi di Genova, viene molestato prima da un<br />

maniaco di quartiere poi da un sacerdote durante la<br />

confessione.<br />

Nell’estate del 1950 la famiglia <strong>De</strong> <strong>André</strong> trascorre la<br />

sua ultima vacanza alla Cascina dell’Orto, dato che il<br />

professor Giuseppe la mette in vendita; da allora <strong>Fabrizio</strong><br />

deciderà che, una volta adulto, avrebbe riacquistato il<br />

cascinale: questo sentimento di frugalità lo accompagnerà <strong>per</strong><br />

tutta la vita, soprattutto nella sua avventura in Sardegna. Le<br />

prime es<strong>per</strong>ienze sessuali fanno entrare bruscamente<br />

<strong>Fabrizio</strong> nel mondo dell’adolescenza; anche qui brucerà le tappe, come continuerà a fare<br />

nel corso di tutta la vita. Intanto Giuseppe <strong>De</strong> Andrè, divenuto vicesindaco, tiene spesso<br />

comizi nel suo quartiere ed, esponendo schiettamente la sua avversione all’idea<br />

comunista, susciterà colorite rimostranze, tanto che i comunisti affiggeranno <strong>per</strong> tutta la<br />

città di Genova manifesti con un fotomontaggio rappresentante il professore con in testa<br />

un cappello da prete. Il professore rimarrà adirato dal fatto, <strong>per</strong> la sua nota avversione<br />

anche alla classe clericale (anche <strong>per</strong> l’avvenimento delle molestie al figlio). Lo stesso<br />

<strong>Fabrizio</strong> più tardi dirà del padre: «È un repubblicano anticlericale di destra».<br />

Nel settembre 1954 <strong>Fabrizio</strong>, invitato ad una festa mondana, preso dalla noia,<br />

imbraccia <strong>per</strong> la prima volta una chitarra, iniziando a strimpellare con discreta abilità<br />

qualche brano del suo tempo. Inoltre, a questa festa <strong>Fabrizio</strong> conosce il petroliere<br />

Abelardo Remo Borzini, colto e raffinato imprenditore nonché poeta <strong>per</strong> hobby, che<br />

seminerà nell’animo di Bicio l’amore <strong>per</strong> la lettura, e Riccardo Mannerini, filosofo<br />

anarchico, che morirà anni dopo suicida. Dopo aver preso serie lezioni di chitarra, nel<br />

dicembre 1955 <strong>Fabrizio</strong> fa il suo esordio in pubblico al teatro Carlo Felice di Genova con il<br />

suo gruppo “The Crazy Cowboys”. All’inizio del 1956 <strong>Fabrizio</strong> comincia ad ascoltare i<br />

grandi della musica francese: Edith Piaf, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud e Georges<br />

Brassens. Nell’ottobre del 1956 <strong>Fabrizio</strong> inizia il primo anno di liceo classico e comincia ad<br />

essere realmente trasgressivo con i docenti, sui quali riversa la sua avversione alla<br />

caratura culturale del padre e del fratello Mauro.<br />

L’autentico nemico di <strong>Fabrizio</strong> è il professor <strong>De</strong>cio Pierantozzi, che rappresenta <strong>per</strong><br />

lui il potere, e che egli contrasta con sistematica, continua e quotidiana ribellione. L’unico<br />

professore che rimarrà nel cuore di Bicio sarà don Giacomino Piana (don Birillo),<br />

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insegnante di religione, che mostrerà al suo alunno l’umanità di Gesù e che ispirerà la<br />

canzone “Si chiamava Gesù”. <strong>Fabrizio</strong> inizia nel 1957 ad avere una coscienza politica, e<br />

partecipa alle riunioni dei militanti comunisti della sezione Mariscotti e della Federazione<br />

anarchica di Carrara. Questi sono anche gli anni in cui esplode uno scandalo <strong>per</strong> il<br />

“peccaminoso” amplesso di <strong>Fabrizio</strong> con una ragazza nella parrocchia di quartiere; inoltre<br />

ha un’appassionata relazione con una prostituta di Via del Campo.<br />

Nell’estate del 1960 <strong>Fabrizio</strong>, insieme a Clelia<br />

Petracchi scrive quella che ha <strong>sempre</strong> considerato la sua<br />

prima canzone: “La ballata del Michè”, sull’onda della vena<br />

esistenzialista francese. L’anno dopo conosce il grande<br />

Luigi Tenco in una strana circostanza. A Luigi Tenco era<br />

giunta voce che <strong>Fabrizio</strong> andava in giro dicendo che<br />

“Quando” l’aveva scritta lui: Tenco non ci pensò due volte e andò a cercarlo; una sera<br />

finalmente lo incontrò e gli chiese il <strong>per</strong>ché. <strong>Fabrizio</strong> rispose: «Guarda, ero con una donna<br />

alla quale piaceva “Quando”; le ho detto che l’avevo scritta io e me la sono fatta!», al che<br />

Tenco, scoppiando a ridere: «Beh, se le cose stanno così…». Per poter vantare una<br />

propria autonomia economica <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> e Paolo Villaggio si imbarcano su diverse<br />

crociere (Costa) come animatori musicali, e proprio su una di queste navi nasce l’amicizia<br />

con Silvio Berlusconi, anch’egli animatore <strong>per</strong> soldi.<br />

Verso fine giugno del 1961 <strong>Fabrizio</strong> conosce Enrica (Puny) Rignon, sua futura<br />

moglie, più grande di lui di sette anni; i due si sposeranno l’anno dopo e avranno un<br />

bambino: Cristiano. Dal ’64 al ’68 <strong>De</strong> <strong>André</strong> prende in affitto una casa in campagna a<br />

Savignone, nell’entroterra ligure, con un orto ed un porcile. La scelta ha una tripla valenza:<br />

portare Cristiano fuori città; coltivare la sua passione <strong>per</strong> la terra e rimanere a portata di<br />

Villa Bozano ove tutta la sua cricca fa la “bella vita”. Proprio in questa casa Bicio conosce<br />

Ave Ninchi e Anna Magnani: la stessa Magnani lo colpirà <strong>per</strong> la sua introversione, ma<br />

riuscirà a farla divertire.<br />

ll 27 gennaio 1967, durante la 17ª edizione del Festival di Sanremo, il suo amico<br />

Luigi Tenco si toglie la vita <strong>per</strong> protestare <strong>contro</strong> l’esclusione del suo brano, troppo duro<br />

<strong>per</strong> la società benpensante del festival. Quest’avvenimento ispirerà la “Preghiera in<br />

gennaio”. Il ’67 è <strong>per</strong>ò anche l’anno in cui conosce Francesco Guccini con cui accennerà<br />

un progetto comune, poi mai realizzatosi. Intanto i pezzi di <strong>Fabrizio</strong> destano scandalo fra i<br />

benpensanti <strong>per</strong> il loro contenuto e la Rai decide di censurare alcuni brani: come spesso<br />

avviene, ciò che è proibito è più desiderato, e i giovani fanno di quelle canzoni una<br />

bandiera. La Radio Vaticana, mostrando maggior sensibilità e a<strong>per</strong>tura, trasmette proprio i<br />

pezzi censurati, tanto che i giovani cattolici cantano le sue canzoni durante i loro incontri.<br />

Nel dicembre 1967 a <strong>Fabrizio</strong> viene notificata la citazione <strong>per</strong> comparire al Tribunale di<br />

Milano quale imputato ai sensi degli artt. 110 e 528 del C.P. <strong>per</strong> avere “in concorso<br />

prodotto e posto in commercio dischi di contenuto osceno” (la canzone in questione è<br />

“Carlo Martello”). Intorno a lui si viene a formare l’alone di artista maledetto.<br />

Nel 1969 il cantautore genovese costruisce una casa<br />

in Gallura (Sardegna), con la precisa volontà di farne<br />

un’azienda agricola. Quattro anni dopo <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

verrà a lungo pedinato dalla Squadra 50 dei servizi segreti<br />

<strong>per</strong>ché sospettato di eversione e di istigazione al terrorismo.<br />

Nella primavera del 1973 accade uno dei più importanti<br />

incontri: quello con Francesco <strong>De</strong> Gregori. <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

rimane impressionato dalla bravura e dalla genialità di questo<br />

giovane artista, con cui in seguito condividerà un intero album. Iniziano <strong>per</strong>ò i problemi con<br />

l’alcol, che lo porterà al divorzio con la moglie Puny, e, associato al numero esorbitante di<br />

sigarette fumate, alla morte. Difatti nel 1974 <strong>Fabrizio</strong> si invaghisce di Dori Ghezzi,<br />

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affermata cantante in coppia con Wess, incontrata davanti ad un distributore automatico:<br />

si sposeranno qualche anno dopo. Il 1° aprile 1976 i <strong>De</strong> <strong>André</strong> firmano l’acquisto<br />

dell’Agnata, piccolo pianoro sardo, al prezzo di cinquantadue milioni: <strong>Fabrizio</strong> rimarrà qui a<br />

Portobello di Gallura <strong>per</strong> quasi 24 anni. Rifugio, momento di aggregazione, contatto con la<br />

natura, fatica, ma tanta soddisfazione; un lavoro accurato, una bella stalla, un bosco ricco<br />

di funghi, prati, giardini, orti curatissimi, pascoli irrigui e una diga. Questo è ciò che serve<br />

al geniale cantautore <strong>per</strong> scrivere i suoi meravigliosi testi. Nel 1977 nasce Luisa Vittoria<br />

(Luvi).<br />

27 agosto 1979. Tempio Pausania, Portobello di Gallura, proprietà <strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

sull’Agnata. Intorno alle 17.00 la sorella di Dori, Fiore, insieme al marito, al padre e alla<br />

madre lasciano la tenuta <strong>per</strong> far ritorno a Porto San Paolo, dove stanno trascorrendo le<br />

vacanze. Insieme a loro parte anche la piccola Luvi. L’ultima a lasciare l’Agnata è la<br />

domestica. Sono le 21.30, Bicio si trova davanti un uomo incappucciato e armato di<br />

pistola; <strong>per</strong> un attimo pensa ad uno scherzo. Non è così. <strong>Fabrizio</strong> e Dori vengono<br />

imbavagliati e, dopo esser stati costretti ad indossare dei giacconi, vengono fatti salire su<br />

un’auto. Sono stati rapiti.<br />

È l’estate più drammatica nella storia del<br />

banditismo sardo, con i <strong>De</strong> <strong>André</strong> sono ben dieci le<br />

<strong>per</strong>sone tenute in ostaggio. Dopo essere stati tenuti<br />

incappucciati <strong>per</strong> diverso tempo, i due ostaggi riescono ad<br />

ottenere di rimanere legati ad un albero a volto sco<strong>per</strong>to;<br />

pian piano, con i rapitori si instaura un rapporto rispettoso<br />

e confidenziale: ai due coniugi viene dato del lei. Uno dei<br />

rapitori, di sinistra, si mostra dispiaciuto che anche Dori,<br />

figlia di o<strong>per</strong>ai, fosse stata rapita. Spiega che quella è la sua unica possibilità di lavoro. <strong>De</strong><br />

<strong>André</strong> capisce che ciò che dice è vero. Giuseppe <strong>De</strong> Andrè, padre di Bicio, deve pagare<br />

seicento milioni <strong>per</strong> rivedere i due coniugi, ritrovati in due giorni differenti, fra il 20 ed il 21<br />

dicembre dello stesso anno, lungo una strada del Goceano. Prima di liberare <strong>Fabrizio</strong> uno<br />

dei banditi gli chiede di <strong>per</strong>donarlo: il cantautore acconsente. Infatti nelle interviste<br />

conseguenti al rapimento, <strong>Fabrizio</strong> mostrerà riconoscenza verso chi lo ha trattato così<br />

“umanamente”. L’amore <strong>per</strong> i sardi e <strong>per</strong> la Sardegna rimarrà immutato.<br />

Il 18 luglio 1985 muore a Genova Giuseppe <strong>De</strong> <strong>André</strong>, allora presidente della<br />

Eridania Zuccheri. Quattro anni dopo a Bogotà, in Colombia, muore suo fratello Mauro.<br />

Dopo anni di successi e riconoscimenti vari, <strong>De</strong> <strong>André</strong> conosce Vasco Rossi e Ivano<br />

Fossati con i quali prima abbozzerà un’o<strong>per</strong>a sulla cultura mongola, poi, esclusivamente<br />

con Fossati comporrà diversi album. Appassionato di pittura (Barocchetto), amante del<br />

bello come delle cose e delle <strong>per</strong>sone vere, <strong>Fabrizio</strong> preferisce <strong>per</strong>ò i libri, (Sciascia, Eco,<br />

Bufalino, Stendhal) e le sigarette. Nel 1993 Cristiano, figlio di <strong>Fabrizio</strong>, arriva secondo con<br />

“Dietro la porta” alla 43ª edizione del Festival di Sanremo. Il 3 gennaio 1995 muore anche<br />

Luigia Amerio, madre di Bicio. Sabato 1° marzo 1996 <strong>Fabrizio</strong> è a Genova <strong>per</strong> il primo<br />

concerto del tour “Anime salve”. A Palazzo Tursi il sindaco di Genova Adriano Sansa gli<br />

assegna il premio “Gilberto Govi”: fra tutti i riconoscimenti ottenuti nella lunga carriera<br />

questo è il più apprezzato <strong>per</strong>ché simbolo dell’amore della città di Genova verso i suoi figli.<br />

Nel 1997 <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> canta in duo con Mina “La canzone di Marinella”.<br />

Nel suo penultimo concerto dice pubblicamente sul palco: «La ‘ndrangheta dà<br />

lavoro!». Il giorno dopo in tutta Italia si alza un coro di vibrante protesta, in un <strong>per</strong>iodo di<br />

restaurazione dovuto a “Mani pulite”. <strong>Fabrizio</strong> capisce e attacca, risveglia le coscienze dei<br />

giovani. Durante lo stesso tour del 1998 Bicio si sente male e viene portato in ospedale.<br />

La tac non lascia s<strong>per</strong>anze: tumore ai polmoni. A Natale la situazione precipita e l’11<br />

gennaio 1999 muore <strong>Fabrizio</strong> Cristiano <strong>De</strong> <strong>André</strong>, accanto a lui come <strong>sempre</strong>, Dori, Luvi e<br />

Cristiano. La sua famiglia.<br />

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� L’idea<br />

<strong>Fabrizio</strong> ha <strong>sempre</strong> avuto un istintivo e spontaneo senso di rivolta, era un<br />

contestatore naturale, non mediato da trame culturali complesse, né politiche né<br />

filosofiche; lo era spontaneamente, non <strong>per</strong> posa. La caratteristica più tipica di <strong>Fabrizio</strong> era<br />

proprio questa straordinaria autenticità, era un ribelle innato, in tutte le sue manifestazioni.<br />

Per cui anticonformista nel vestire, nel muoversi, nell’atteggiarsi, nel fare “casino”, nel non<br />

farlo, nel prendere le cose sul serio sostanzialmente. Era un borghese di nascita che <strong>per</strong>ò<br />

non voleva esserlo, era molto critico in maniera viscerale, ma non estremista. Pur<br />

vestendo in giacca era l’anticonformista <strong>per</strong><br />

eccellenza, non <strong>per</strong> scelta; era una sua dote<br />

naturale che poi è venuta fuori anche nella<br />

musica, nei temi che ha toccato. Fra i sedici e i<br />

diciassette anni <strong>De</strong> <strong>André</strong> inizia a documentarsi<br />

politicamente leggendo Bakunin. Aderisce con<br />

tutto sé stesso all’ideale anarchico che,<br />

evidentemente, garantisce alla sua inquietudine<br />

esistenziale il giusto orizzonte di libertà,<br />

l’affrancamento da ideologie, preconcetti, da tutto<br />

ciò che è sovrastruttura, falsità, ipocrisia. In un<br />

certo senso si potrebbe dire che l’anarchia di <strong>De</strong><br />

<strong>André</strong> si radica nelle sue insofferenze adolescenziali, al di qua delle letture e della<br />

compatibilità ideale con l’anarchia “storica”. Non solo. A fronte di quanti si sono domandati<br />

come poteva conciliare il suo essere anarchico con l’appartenenza a una delle famiglie più<br />

benestanti di Genova, emerge con limpidezza la fatica, la sofferenza di una maturazione<br />

antiborghese proprio all’interno di un universo che, prima di tutto attraverso la figura<br />

paterna, incarna il suo disagio ed il suo obiettivo polemico. Per quasi trent’anni <strong>Fabrizio</strong> ha<br />

continuato a parlare del potere, non facendo politica ma lanciando messaggi attraverso le<br />

proprie composizioni poetiche e musicali.<br />

L’essere anarchico di <strong>Fabrizio</strong> è passato attraverso mille es<strong>per</strong>ienze: la vita in<br />

campagna, le bande di quartiere, le contraddizioni tra quello che i suoi avrebbero voluto lui<br />

fosse e quello che lui era, <strong>per</strong> quello che sceglieva e cercava di essere. Vivendo la<br />

drammatica schizofrenia di chi si trova contemporaneamente da entrambi i lati della<br />

barricata. Attraverso le letture <strong>De</strong> <strong>André</strong> capisce che gli anarchici sono dei miserabli che<br />

aiutano chi è più miserabile di loro. Ma scopre anche che quei miserabili che vivono ai<br />

margini della società (prostitute, omosessuali, ladruncoli, ubriaconi) sanno essere più<br />

solidali e autentici di quelle “piccole femmine agghindate”, come lui le definisce, che egli<br />

trova nelle feste della Genova bene. Perché anarchico individualista? Perché anziché<br />

scegliere e cercare la gente con cui vivere certe idee, <strong>Fabrizio</strong> sceglie di viversele da solo,<br />

cercando di farlo con una coerenza che passa anche attraverso le contraddizioni di un<br />

essere umano. Essere anarchici è una categoria dello<br />

spirito, della propria mente. Eccolo allora suonare <strong>per</strong><br />

il PCI, <strong>per</strong> gruppi dell’estrema sinistra e magari proprio<br />

in quei concerti davanti a qualche “femmina<br />

agghindata”, eccolo votare un caro amico nelle liste<br />

DC <strong>per</strong>ché onesto; oppure avere nel gruppo dei<br />

musicisti con idee politiche molto diverse dalle sue. Un<br />

libertario tollerante. <strong>Fabrizio</strong> dimostra di aver <strong>sempre</strong><br />

avuto, sin da giovane, pochissime idee, ma in<br />

compenso fisse, soprattutto che c’è ben poco merito<br />

nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Per <strong>Fabrizio</strong> bisogna aspettare che i valori si<br />

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storicizzino, in quanto i valori di una generazione non vengono considerati giusti dalla<br />

generazione precedente. Lo diverranno più tardi.<br />

Curiosa è la causa <strong>per</strong> cui <strong>De</strong> <strong>André</strong> tifava il Genoa. La passione <strong>per</strong> i “grifoni”<br />

nacque quando era ancora bambino e più precisamente quando, assieme al padre e al<br />

fratello, era andato allo stadio a vedere l’in<strong>contro</strong> Genoa - Torino. La squadra torinese<br />

aveva sconfitto il Genoa, e, forse <strong>per</strong> la sua predisposizione a prendere le difese dei più<br />

deboli, <strong>Fabrizio</strong> decise da allora di tifare <strong>per</strong> i rossoblù.<br />

Nel 1967 la rivista “Rossana” invia una giornalista a parlare con <strong>Fabrizio</strong> <strong>per</strong> un<br />

articolo che verrà poi chiamato “La mosca bianca della piccola musica”: il cantautore<br />

accoglie la giornalista ma inizialmente non vuole concederle l’intervista. Il motivo è<br />

l’anonimato; <strong>Fabrizio</strong> è infatti convinto che finché rimane nell’anonimato può fare ciò che<br />

vuole. In seguito ad una domanda sull’idea politica <strong>De</strong> <strong>André</strong> risponderà che non si<br />

occupa di politica, ma che è la politica ad occuparsi di tutti noi; comunque secondo il suo<br />

punto di vista la politica dovrebbe essere fatta da<br />

tecnici.<br />

Il cantautore vive il ’68 a contatto con gruppi<br />

di estrema sinistra, partecipando al tentativo di<br />

rinnovamento: non li segue, <strong>per</strong>ò. Difatti, secondo<br />

<strong>Fabrizio</strong>, un artista, indipendentemente dall’ideologia,<br />

è un “coniglio” individualista. <strong>De</strong> <strong>André</strong> non avrebbe<br />

mai fatto la lotta armata, ma condivideva quelli che<br />

oggi vengono chiamati gli eccessi sessantottini, anche<br />

<strong>per</strong>ché li aveva quasi promossi attraverso le sue<br />

canzoni. Condivideva la rivolta <strong>contro</strong> un certo modo<br />

di gestire la società. Il ’68, <strong>per</strong> lui, è stata una rivolta<br />

spontanea, ma è un bene che non sia andata a buon<br />

fine, visto che il grosso problema di ogni rivoluzione è che, una volta preso il potere, i<br />

rivoluzionari cessano di essere tali <strong>per</strong> diventare amministratori.<br />

Una cosa è certa: <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> ha avuto una vita intensissima, che gli ha dato,<br />

in termini di es<strong>per</strong>ienza, molti più anni di quelli anagrafici. Il prezzo pagato è stato alto, la<br />

sua non è stata un’esistenza facile; ha <strong>sempre</strong> imboccato strade tortuose e anche il<br />

destino non lo ha certo aiutato. Vista da fuori, sembra quasi la vita di un artista maledetto,<br />

in realtà è la vita di un uomo che di maledetto non ha nulla. Sul suo sequestro <strong>Fabrizio</strong> ha<br />

dovuto concedere parecchie interviste. In una di queste afferma che nel caso del<br />

sequestro di <strong>per</strong>sona non bisogna non giustificare i rapitori, altrimenti si esce mal ridotti<br />

dall’es<strong>per</strong>ienza. Bisogna invece vedere il rapimento come una punizione ai propri peccati,<br />

in modo da diventare un espiazione psicologica. Dopo lo spiacevole avvenimento, il<br />

cantastorie genovese ne uscirà più concreto e adulto. In lui c’è la trasgressione, la voglia<br />

di non fare cose ovvie, cose scontate, ed avere come punto di riferimento la sua cultura e<br />

la sua intelligenza. In occasione della<br />

presentazione alla stampa <strong>De</strong> <strong>André</strong> viene<br />

interpellato a proposito della Lega, il fenomeno<br />

politico di allora (è il 1992). Le sue risposte, con<br />

molta su<strong>per</strong>ficialità e provincialismo, verranno<br />

interpretate da alcuni giornalisti come un’adesione<br />

al movimento di Bossi. <strong>Fabrizio</strong> precisò di aver<br />

simpatizzato <strong>per</strong> qualcosa che somigliava molto<br />

alla Lega, ovvero il Partito Sardo d’Azione, e che la<br />

Lega era un movimento centrista. La risposta di <strong>De</strong><br />

<strong>André</strong> sarà: «Io sono talmente favorevole al<br />

decentramento che darei autonomie speciali <strong>per</strong>sino ad un condominio!».<br />

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� Volume 1<br />

Anno di pubblicazione<br />

1967<br />

Casa discografica<br />

Bluebell<br />

Produzione<br />

Reverberi - Malcotti<br />

1. PREGHIERA IN GENNAIO<br />

2. MARCIA NUZIALE<br />

3. SPIRITUAL<br />

4. SI CHIAMAVA GESÙ<br />

5. BARBARA<br />

6. VIA DEL CAMPO<br />

7. CARO AMORE<br />

8. LA STAGIONE DEL TUO AMORE<br />

9. BOCCA DI ROSA<br />

10. LA MORTE<br />

11. CARLO MARTELLO (ritorna dalla battaglia di Poitiers)<br />

Il discografico Antonio Casetta <strong>per</strong>mise a <strong>Fabrizio</strong> di scegliere gli uomini con cui<br />

lavorare. Anziché Federico Monti Arduini, all’epoca preposto a curare le produzioni<br />

Bluebell Records, <strong>De</strong> <strong>André</strong> impose Giampiero Reverberi, con il quale si era trovato bene<br />

artisticamente ed umanamente. Nel primo disco, che verrà intitolato “Volume 1”, prendono<br />

parte due canzoni tratte dal re<strong>per</strong>torio di Brassens: “Marcia nuziale” e “La morte”, insieme<br />

ad una nuova versione di “Carlo Martello”. Il resto del materiale è inedito, e tutto di<br />

altissimo livello. Due, in particolare, i brani che faranno presa sul pubblico: “Via del<br />

Campo” e “Bocca di rosa”, nelle quali <strong>Fabrizio</strong> racconta storie e situazioni vissute e<br />

ascoltate nei carruggi genovesi. Impressiona la facilità descrittiva, la capacità di affrontare<br />

temi <strong>per</strong> quell’epoca assai delicati; “Bocca di rosa” punta sul divertito ribaltamento della<br />

morale comune mettendo in scena l’Italia sessuofoba, la provincia ipocrita ridicolizzata dal<br />

trionfo dell’”amor profano”, “Via del Campo” è segnata da una profonda pietas <strong>per</strong> quei<br />

<strong>per</strong>sonaggi drop-out ai quali <strong>De</strong> <strong>André</strong> rimarrà <strong>sempre</strong> legato. Il contenuto delle canzoni<br />

appaga certa morbosità, contribuisce certamente al successo di <strong>De</strong> <strong>André</strong>.<br />

In “Volume 1” sono presenti due composizioni che, seppure all’epoca oscurate da<br />

brani di maggior presa, si collocano fra le <strong>per</strong>le deandreiane. “Preghiera in gennaio” è<br />

un’invocazione a Dio <strong>per</strong>ché accolga in paradiso l’anima di un suicida; dedicata a Luigi<br />

Tenco, venne scritta nelle due notti successive alla sua morte. L’altra, “Si chiamava Gesù”,<br />

prende spunto, come si è detto, da una lezione dell’insegnate di religione del liceo, don<br />

Piana, nella quale <strong>De</strong> <strong>André</strong> era rimasto particolarmente colpito dall’umanità della figura di<br />

Cristo. Infine il “duello” fra “Caro amore” e “La stagione del tuo amore”, brani che si sono<br />

contesi <strong>per</strong> anni il posto nell’album. Prima della pubblicazione del disco, Casetta ebbe la<br />

grande intuizione di inserire i testi dei brani, cosa <strong>per</strong> quegli anni inusuale. Fu una mossa<br />

importantissima, che <strong>per</strong>mise a tanti ragazzi di ripetere sulle loro chitarre quelle nuove ed<br />

insolite canzoni, dando l’avvio a una sorta di passaparola che contribuì non poco<br />

all’affermazione di <strong>Fabrizio</strong>. I giornali parlavano con <strong>sempre</strong> maggiore insistenza del<br />

nuovo fenomeno musicale, che suscitò l’interesse di due riviste cattoliche: “Il focolare” e<br />

“Rimini studenti”, le quali diedero ampio risalto a “Si chiamava Gesù”, lodandone il testo.<br />

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- Il suicidio<br />

La “Preghiera in gennaio” è stata scritta nelle due notti successive al suicidio di<br />

Luigi Tenco, grande amico di <strong>Fabrizio</strong>. Tenco si tolse la vita nel 1967 <strong>per</strong> protestare <strong>contro</strong><br />

la non ammissione alla fase finale del festival di Sanremo del suo brano “Ciao, amore<br />

ciao”, <strong>per</strong>ché ritenuto inadatto ad una manifestazione classica come quella: lui, che<br />

fortemente aveva preso parte alla contestazione del ’68. Quella di <strong>De</strong> <strong>André</strong> è<br />

un’invocazione a Dio <strong>per</strong>ché accetti nel suo regno l’anima di un suicida; le parole<br />

colpiscono il cuore e la musica accompagna languidamente il testo. <strong>Fabrizio</strong> ha già<br />

cantato una canzone sul suicidio: “La ballata del Michè”. Ho deciso di analizzare tre<br />

differenti cause di suicidio attraverso le morti di Catone Uticense, grande politico romano<br />

che si uccise <strong>per</strong> non cadere nella dittatura cesariana; Ian Palack, giovane studente ceco<br />

che si diede fuoco in piazza <strong>per</strong> protestare <strong>contro</strong> l’ingresso dei carri armati sovietici nel<br />

suo Stato; e Primo Levi, suicida <strong>per</strong> non essere riuscito ad accettare la tremenda<br />

es<strong>per</strong>ienza del lager nazista.<br />

- Il suicidio dei classici (Marco Porcio Catone Uticense)<br />

Pronipote di Catone Censore, fu tribuno militare in Macedonia e legato di Pompeo<br />

<strong>per</strong> la guerra <strong>contro</strong> i pirati del 67, questore nel 64 e tribuno della plebe nel 62. Dopo aver<br />

osteggiato le ambizioni di Pompeo al potere <strong>per</strong>sonale, vide in Cesare il vero <strong>per</strong>icolo <strong>per</strong><br />

le istituzioni repubblicane e, allo<br />

scoppio della guerra civile (49), si schierò<br />

con i pompeiani, ritenendoli i difensori<br />

della legalità senatoria. Quando Pompeo fu<br />

sconfitto a Farsalo, Catone, che l’aveva<br />

seguito in Oriente, si rifugiò in Africa dove i<br />

pompeiani ricostruirono un<br />

esercito, debellato poi da Cesare a Tapso nel<br />

46. Catone, che era rimasto al comando<br />

del presidio di Utica, alla notizia della<br />

disfatta, vista spenta ogni s<strong>per</strong>anza, non<br />

volle cadere nelle mani del vincitore e si diede<br />

la morte.<br />

Strenuamente avverso ad ogni forma<br />

di potere <strong>per</strong>sonale e attaccato ai valori della<br />

libertà repubblicana, la scarsa duttilità politica<br />

e il momento storico, privarono di efficacia la<br />

battaglia che improntò la sua vita; in sostanza<br />

fu il rappresentante di un conservatorismo chiuso non solo a qualsiasi compromesso con<br />

le nuove forze che si andavano affermando, ma anche ad una comprensione della nuova<br />

realtà. Fu molto presto idealizzato dagli ambienti repubblicani e anticesariani, soprattutto<br />

in epoca neroniana, come simbolo dell’opposizione irriducibile alla tirannide.<br />

Dante Alighieri pone nel “Purgatorio” Catone Uticense a guardiano del regno del<br />

Purgatorio, come simbolo della difesa della libertà a costo della vita. Catone, nel dialogo<br />

con Virgilio, è concepito come lo stoico, l’uomo del dovere <strong>per</strong> il dovere, il severo custode<br />

che ammonisce le anime a non lasciarsi sedurre dai ricordi del mondo, ricordando loro che<br />

duro è il cammino dell’espiazione. Il suicida Catone ha staccato col corpo ogni legame dal<br />

mondo e, uscendo dal Limbo, ha accettato la legge divina che mette un netto distacco fra<br />

gli eletti e i reprobi. La magnanimità di Catone, se fu rinuncia alla vita in quanto esempio di<br />

libertà agli uomini, è anche umiltà, che è l’unico mezzo <strong>per</strong> salire alla grazia.<br />

9


Vidi presso di me un veglio solo,<br />

degno di tanta reverenza in vista,<br />

che più non dee a padre alcun figliuolo.<br />

Lunga la barba e di pel bianco mista<br />

portava, a’ suoi capelli semigliante<br />

de’ quai cadeva al petto doppia lista.<br />

Li raggi de le quettro luci sante<br />

fregiavan sì la sua faccia di lume,<br />

ch’i’ l’ vedea come ‘l sol fosse davante.<br />

«Chi siete voi che <strong>contro</strong> al cieco fiume<br />

fuggita avete la pregione etterna?»,<br />

diss’el, movendo quelle oneste piume.<br />

«Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna?,<br />

uscendo fuor de la profonda notte<br />

che <strong>sempre</strong> nera fa la valle inferna?<br />

Son le leggi d’abisso così rotte?<br />

O è mutato in ciel novo consiglio,<br />

che, dannati, venite a le mie grotte?».<br />

«Tu ‘l sai, ché non ti fu <strong>per</strong> lei amara<br />

in Utica la morte, ove lasciasti<br />

la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.<br />

Non son li editti etterni <strong>per</strong> noi guasti,<br />

ché questi vive e Minòs me non lega;<br />

ma son del cerchio ove son li occhi casti<br />

di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,<br />

o santo petto, che <strong>per</strong> tua la tegni:<br />

<strong>per</strong> lo suo amore adunque a noi ti piega.<br />

Lasciane andar <strong>per</strong> li tuoi sette regni;<br />

grazie riporterò di te a lei, se d’esser<br />

mentovato là giù degni».<br />

«Marzia piacque tanto a li occhi miei<br />

mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora,<br />

«che quante grazie volse da me, fei.<br />

Or che di là dal mal fiume dimora,<br />

più mover non mi può, <strong>per</strong> quella legge<br />

che fatta fu quando me n’uscì fora.»<br />

- Il suicidio <strong>contro</strong> l’oppressione (Ian Palack)<br />

Non c’è praghese che non ricordi Ian Palack con un misto di affetto e di strazio: in<br />

fondo aveva poco più di vent’anni, quando una sera di fine agosto 1968, proprio in quel<br />

giardinetto affollato dai suoi coetanei nell’ora di punta, si cosparse di benzina e poi si<br />

diede fuoco, bruciando come un bonzo. Lo fece <strong>per</strong> protesta, <strong>per</strong> una protesta politica, e<br />

ciò può sembrare sciocco o grande, dipende dal punto di vista e forse dalla generazione di<br />

appartenenza. Non si può quindi affermare che sia stato un povero illuso o un santo<br />

martire. La “primavera” di Praga era iniziata molto presto, in gennaio, quando il segretario<br />

del Partito Comunista Cecoslovacco al potere, Novotny, un su<strong>per</strong>stite dell’era staliniana, fu<br />

sostituito da Dubcek, esponente della dissidenza interna e favorevole ad una progressiva<br />

liberalizzazione del regime. Riassumeva il senso del suo revisionismo nella formula di un<br />

socialismo dal “volto umano”, un tentativo di conciliare ciò che di buono vi è nella<br />

tradizione marxista con il rispetto delle minime libertà individuali. Timorosi che questo<br />

processo di liberalizzazione politica si estendesse agli altri Paesi del blocco sovietico, le<br />

truppe dell’URSS e di quattro Stati del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia,<br />

occuparono Praga, arrestarono Dubcek, misero al<br />

suo posto un governo fantoccio filosovietico e<br />

iniziarono la “normalizzazione”, ossia la caccia ai<br />

cosiddetti “elementi” antisovietici, antisocialisti, o<br />

meglio nazionalisti borghesi.<br />

Tuttavia conta il fatto che né Palack, né<br />

Dubcek erano “elementi” antisovietici o antisocialisti,<br />

ma credevano grosso modo nelle stesse cose in cui<br />

credevano i giovani carristi dell’Armata Rossa. Il che<br />

trasforma l’invasione di Praga in una planetaria<br />

guerra civile interna alla sinistra, con effetti devastanti<br />

nella coscienza di chi allora ci credeva. E quei giovani<br />

carristi erano palesemente imbarazzati, addirittura<br />

spesso piangevano anche loro mentre spingevano il<br />

carro armato in mezzo ad una folla immensa, pacifica e “popolare”. Piangevano tutti,<br />

aggressori ed aggrediti, e la folla saliva fin sopra, fin dentro al carro armato <strong>per</strong> spiegare<br />

che non era possibile, era un equivoco, <strong>per</strong>ché avevano tutti gli stessi ideali. Difatti anche<br />

Ian Palack era un comunista, lo era stato con orgoglio fino a pochi mesi prima e forse quel<br />

suo gesto dis<strong>per</strong>ato era l’unico modo <strong>per</strong> rimanerlo senza vergogna.


- Il suicidio <strong>per</strong> un trauma vissuto (Primo Levi)<br />

È difficile capire il <strong>per</strong>ché del suicidio di Primo Levi: è<br />

stato il peso della sua tremenda es<strong>per</strong>ienza nel lager, con il<br />

suo sforzo di non dimenticare, che ha, alla fine, distrutto la sua<br />

voglia di vivere? Oppure è stato un raptus improvviso che lo ha<br />

scaraventato giù in quella tromba delle scale? Oppure un<br />

incidente? Non c’è risposta certa a questi interrogativi. Non è<br />

possibile trovarla nei suoi scritti che non lasciano trasparire<br />

nulla che possa spiegare quello che è capitato. Riguardo al<br />

suicidio vi si trovano considerazioni di segno opposto. Primo<br />

Levi se ne distanzia come da una soluzione dis<strong>per</strong>ata, da<br />

comprendere, ma non da imitare, quando parla dei suicidi Jean<br />

Amery ne “I sommersi e i salvati”, nonché di Trakl e Celan ne<br />

“L’altrui mestiere”. Invece nel racconto “Verso occidente” che<br />

narra dei lemming, roditori che si dirigono in massa a morire annegati nel mare, affronta il<br />

dilemma del suicidio con coinvolgimento e partecipazione, tanto da far supporre che il<br />

problema in qualche modo lo tormentasse.<br />

Neppure aiutano le testimonianze delle <strong>per</strong>sone che lo hanno conosciuto. Alcuni<br />

amici molto vicini a lui affermano che negli ultimi tempi Primo Levi fosse terribilmente<br />

depresso <strong>per</strong> cui il suicidio non li ha sorpresi. Altri invece pensano il contrario: lo scrittore<br />

Ferdinando Camon, <strong>per</strong> esempio, riferisce di aver ricevuto il giorno dopo la morte di Primo<br />

Levi una sua lettera ottimistica piena di progetti <strong>per</strong> il futuro. Rita Levi Montalcini, in<br />

un’intervista, dice di non credere assolutamente al suicidio. Lo scrittore Mario Rigoni Stern<br />

pensa invece che Primo Levi abbia sentito tutt’a un tratto l’im<strong>per</strong>ioso richiamo “Wstawac”,<br />

la sveglia del lager, che <strong>per</strong> anni, dopo la liberazione, ha <strong>per</strong>seguitato i suoi sonni.<br />

Primo Levi ha voluto, in primo luogo, essere un testimone, una fonte di<br />

informazione sui lager nazisti. Questo ha saputo farlo con efficacia e con una grande<br />

carica di umanità, senza aggredire il lettore buttandogli in faccia l’orrore, ma riferendo i fatti<br />

pacatamente con precisione e onestà, astenendosi dall’emettere condanne, ma deferendo<br />

il giudizio a chi ascolta la sua testimonianza. In seguito <strong>per</strong>ò Primo Levi ha continuato ad<br />

approfondire la riflessione su tutti gli aspetti che riguardano i lager e la società che li ha<br />

prodotti, e di riflesso sul comportamento umano. Egli ha voluto capire, e far capire, <strong>per</strong>ché<br />

Auschwitz è stato possibile.<br />

11


� Tutti morimmo a stento<br />

Anno di pubblicazione<br />

1968<br />

Casa discografica<br />

Bluebell<br />

Produzione<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

1. CANTICO DEI DROGATI<br />

2. PRIMO INTERMEZZO<br />

3. LEGGENDA DI NATALE<br />

4. SECONDO INTERMEZZO<br />

5. BALLATA DEGLI IMPICCATI<br />

6. INVERNO<br />

7. GIROTONDO<br />

8. TERZO INTERMEZZO<br />

9. RECITATIVO (2 invocazioni e 1 atto di accusa)<br />

10. CORALE (leggenda del re infelice)<br />

Insieme a Mannerini, <strong>Fabrizio</strong> stava lavorando ad alcuni testi da adattare alle sue<br />

musiche. Colui che è stato il suo maestro di pensiero di lì a pochi anni se ne sarebbe<br />

andato via appeso ad una corda. Si tratta del primo concept-album realizzato in Italia,<br />

inciso con un’orchestra di ottanta elementi. Questa cantata in si minore <strong>per</strong> coro e<br />

orchestra venne registrata negli studi Rca di via Tiburtina in un caldissimo agosto del<br />

1968. Casetta, a cui piaceva rischiare, o meglio investire, negli artisti in cui credeva, cercò<br />

di creare tutti i presupposti <strong>per</strong> realizzare una produzione che fosse all’altezza di quelle<br />

angloamericane. I risultati furono eccellenti dal punto di vista artistico, seppur penalizzati<br />

da problemi tecnici. L’album contiene alcune composizioni come “Cantico dei drogati”,<br />

“Leggenda di Natale”, “Inverno” e “Ballata degli impiccati”, nelle quali è assai difficile<br />

tracciare il confine fra poesia e canzone. Di assoluta eleganza il lavoro musicale del<br />

maestro Reverberi, che darà un tono di continuità alle composizioni, sia in termini di<br />

missaggio che di arrangiamento. In brani come “Cantico dei drogati”, scritto insieme a<br />

Riccardo Mannerini, <strong>Fabrizio</strong> cercò una catarsi dalla schiavitù dell’alcol. Il disco fu<br />

pubblicato nel mese di settembre e le note di co<strong>per</strong>tina presero spunto da una bozza<br />

scritta dal professor <strong>De</strong> <strong>André</strong>. Furono quelli giorni molto intensi, dedicati alla realizzazione<br />

di nuovi dischi, ad un progetto con i New Trolls e alle registrazioni di altre canzoni che<br />

Casetta volle preparare <strong>per</strong> sfruttare il successo de “La canzone di Marinella”.<br />

“Tutti morimmo a stento” o “Volume 2” venne presentato a Roma alla libreria<br />

Rinascita; nonostante la presenza della chitarra, <strong>Fabrizio</strong> preferì ricorrere al giradischi.<br />

L’album in breve tempo arrivò al secondo posto in classifica. <strong>De</strong> <strong>André</strong> passò buona parte<br />

della seconda metà del 1968 insieme a Giampiero Reverberi. Dovevano realizzare l’album<br />

d’esordio <strong>per</strong> i New Trolls e <strong>per</strong> fine anno uscire con un LP che contenesse nuove versioni<br />

delle canzoni più popolari di <strong>Fabrizio</strong>. Come se non bastasse, i due ai primi di aprile<br />

incisero a Milano la colonna sonora del programma televisivo <strong>per</strong> ragazzi “I viaggi di<br />

Gulliver”. Su testi di Umberto Simonetta ed Enrico Vaime, <strong>De</strong> <strong>André</strong> e Reverberi<br />

composero le musiche, ispirate alle liriche dei trovatori provenzali. È in questo <strong>per</strong>iodo che<br />

<strong>Fabrizio</strong> si appassiona alla musica brasiliana, in particolare a João Gilberto e a Caetano<br />

Veloso, del quale seguirà con partecipazione le vicende artistiche e politiche.<br />

12


- L’angoscia<br />

Il “Cantico dei drogati”, scritto a quattro mani col poeta anarchico Riccardo<br />

Mannerini, è il ritratto dello stato d’angoscia, di dis<strong>per</strong>azione e di infelicità in cui il drogato<br />

si trova nel rapportarsi al mondo e a Dio, a Cui chiede invano che la morte lo colpisca<br />

presto <strong>per</strong> liberarlo dalle sofferenze. Egli maledice la sua vita e le sue azioni chiedendosi<br />

come potrà venir giustificato da sua madre, anche lei dis<strong>per</strong>ata <strong>per</strong> la condizione del figlio.<br />

Per analizzare questo sentimento, che è comunque parte dell’animo umano, ho cercato il<br />

suo significato nel pensiero e nelle o<strong>per</strong>e di tre grandi artisti: Giacomo Leopardi, cha nella<br />

sua “teoria del piacere” ha seguito, molto realisticamente, un filo logico <strong>per</strong> arrivare a dire<br />

che l’angoscia è un sentimento innato nell’uomo. Il secondo <strong>per</strong>sonaggio da me analizzato<br />

è il filosofo danese Kierkegaard, il quale ha sostenuto il concetto dell’angoscia come stato<br />

principale dell’essere nella vita di chi non crede; infine il pittore norvegese Edvard Munch,<br />

che attraverso il suo capolavoro, “Il grido”, ha scovato il sentimento di malessere che una<br />

visione, reale o presunta, può provocare su un uomo qualunque.<br />

- L’angoscia come infelicità eterna (Giacomo Leopardi)<br />

Tutta l’o<strong>per</strong>a leopardiana si fonda su un sistema di idee<br />

continuamente meditate e sviluppate, il cui processo, prima<br />

dell’approdo ai testi compiuti, si può seguire attraverso le<br />

migliaia di pagine dello “Zibaldone”. La ricostruzione almeno<br />

sommaria di questo sistema nella sua evoluzione nel tempo è<br />

quindi una premessa indispensabile alla lettura della poesia e<br />

della prosa leopardiane.<br />

Al centro della meditazione di Leopardi si pone subito un<br />

motivo pessimistico, l’infelicità dell’uomo. Egli arriva a<br />

individuare la causa prima di questa infelicità in alcune pagine<br />

fondamentali dello “Zibaldone” del luglio 1820. Restando fedele<br />

ad un indirizzo di pensiero settecentesco e sensistico, identifica<br />

la felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l’uomo non<br />

desidera “un” piacere, bensì “il“ piacere: aspira cioè a un piacere che sia infinito, <strong>per</strong><br />

estensione e <strong>per</strong> durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall’uomo<br />

può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione <strong>per</strong>petua, un<br />

vuoto incolmabile dell’anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che<br />

<strong>sempre</strong> gli sfugge nasce <strong>per</strong> Leopardi l’infelicità dell’uomo, il senso della nullità di tutte le<br />

cose, E Leopardi si preoccupa di sottolineare che ciò va inteso non in senso religioso e<br />

metafisico, come tensione verso un’infinità divina al di là delle cose contingenti, ma in<br />

senso puramente materiale.<br />

L’uomo è dunque, <strong>per</strong> Leopardi, necessariamente infelice, <strong>per</strong> la sua stessa<br />

costituzione. Ma la natura, che in questa prima fase è concepita dal poeta come madre<br />

benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature, ha voluto sin dalle origini<br />

offrire un rimedio all’uomo: l’immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato agli<br />

occhi della misera creatura le sue effettive condizioni. Per questo gli uomini primitivi e gli<br />

antichi greci e romani, che erano più vicini alla natura, e quindi capaci di illudersi e di<br />

immaginare, erano felici, <strong>per</strong>ché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà,<br />

o<strong>per</strong>a della ragione, ha allontanato l’uomo da quella condizione privilegiata, ha messo<br />

crudelmente sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso angosciato. La prima fase del pensiero<br />

leopardiano è tutta costruita su questa antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni.<br />

Gli antichi, nutriti di generose illusioni, erano capaci di azioni eroiche e magnanime; erano<br />

anche più forti fisicamente, e questo favoriva la loro forza morale; la loro vita era più attiva<br />

e intensa, e ciò contribuiva a far dimenticare il nulla ed il vuoto dell’esistenza. Perciò essi<br />

13


erano più grandi di noi sia nella vita civile, ricca di esempi eroici e di grandi virtù, sia nella<br />

vita culturale. Il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le illusioni, ha spento<br />

ogni slancio magnanimo, ha reso i moderni incapaci di eroiche azioni, ha generato viltà,<br />

meschinità, calcolo gretto ed egoistico, corruzione dei costumi. La colpa dell’infelicità<br />

presente è dunque attribuita all’uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla<br />

natura benigna.<br />

Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, la vede dominata<br />

dall’inerzia e dal tedio; ciò vale soprattutto <strong>per</strong> l’Italia, miserevolmente decaduta dalla<br />

grandezza del passato. Scaturisce di qui la tematica civile e patriottica che caratterizza le<br />

prime canzoni leopardiane. E ne deriva anche un atteggiamento titanico: il poeta, come<br />

unico depositario della virtù antica, si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha<br />

condannato l’Italia a tanta abiezione, e sferza violentemente la sua “codarda” età. Questa<br />

fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula del pessimismo “storico”:<br />

nel senso che la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo<br />

storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria<br />

di felicità e pienezza vitale.<br />

Questa concezione di una natura benigna entra <strong>per</strong>ò in crisi. Leopardi si rende<br />

conto che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla conservazione della<br />

specie, e <strong>per</strong> questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza.<br />

Ne deduce che il male non è un semplice accidente, ma rientra nel piano stesso della<br />

natura. Si rende conto inoltre del fatto che è la natura che ha messo nell’uomo quel<br />

desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi <strong>per</strong> soddisfarlo. In una fase intermedia,<br />

Leopardi cerca di uscire da queste contraddizioni attribuendo la responsabilità del male al<br />

“fato”; propone quindi una concezione dualistica, natura benigna <strong>contro</strong> fato maligno. Ma<br />

ben presto arriva alla soluzione delle contraddizioni rovesciando la sua concezione della<br />

natura. Questo punto d’approdo, nella sua o<strong>per</strong>a, emerge all’improvviso, chiarissimo, nel<br />

“Dialogo della Natura e di un islandese”, del maggio 1824; ma questo sbocco è in realtà<br />

preceduto da un lungo travaglio, testimoniato dallo “Zibaldone”. Il poeta di Recanati<br />

concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo<br />

cieco, indifferente alla sorte delle sue creature; meccanismo anche crudele, in cui la<br />

sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale, <strong>per</strong>ché gli individui devono<br />

<strong>per</strong>ire <strong>per</strong> consentire la conservazione del mondo. È una concezione non più finalistica ma<br />

meccanicistica e materialistica. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso, ma solo<br />

della natura. L’uomo non è che vittima innocente della sua crudeltà.<br />

Se filosoficamente Leopardi rappresenta la natura come meccanismo<br />

inconsapevole, somma di leggi oggettive non regolate da una mente provvidenziale,<br />

miticamente e poeticamente ama <strong>per</strong>ò rappresentarla come una sorta di divinità malvagia,<br />

che o<strong>per</strong>a deliberatamente <strong>per</strong> far soffrire e distruggere le sue creature. Viene così<br />

su<strong>per</strong>ato il dualismo natura-fato: alla natura vengono attribuite le caratteristiche che prima<br />

erano del fato, la malvagità crudele e <strong>per</strong>secutoria. Coerentemente con l’approdo<br />

materialistico, muta anche il senso dell’infelicità umana: prima, in termini sensistici, era<br />

concepita come assenza di piacere, in una dimensione psicologica ed esistenziale; ora<br />

l’infelicità, materialisticamente, è dovuta soprattutto ai mali “esterni”, a cui nessuno può<br />

sfuggire: malattie, elementi atmosferici, cataclismi, vecchiaia, morte.<br />

Se causa dell’infelicità è la natura stessa, nel suo cieco meccanismo immutabile,<br />

tutti gli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, in ogni tipo di<br />

società, sono necessariamente infelici; anche gli antichi, pur essendo capaci di illudersi,<br />

erano vittime di quei terribili mali. Al pessimismo “storico” subentra così un pessimismo<br />

“cosmico”: nel senso che l’infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa<br />

dell’uomo, ma ad una condizione assoluta, diviene un dato eterno e immutabile di natura,<br />

vane sono la protesta e la lotta e non resta che la contemplazione lucida e dis<strong>per</strong>ata della<br />

14


verità. Subentra infatti in Leopardi un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e<br />

rassegnato, suo ideale non è più l’eroe antico, teso a generose imprese, ma il saggio<br />

antico, soprattutto quello stoico, la cui caratteristica è l’”atarassia”, il distacco<br />

im<strong>per</strong>turbabile dalla vita.<br />

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza<br />

nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più<br />

materiale che spirituale. […] La malinconia, il sentimentale moderno ec., <strong>per</strong>ciò appunto sono così dolci,<br />

<strong>per</strong>ché immergono l’anima in un abisso di pensieri indeterminati, de’ quali non sa vedere il fondo né i<br />

contorni.<br />

- L’angoscia di chi non crede (Sören Aabye Kierkegaard)<br />

Al problema dell’angoscia come modo di essere della<br />

esistenza del Singolo, il filosofo danese Kierkegaard dedica “Il<br />

concetto dell’angoscia”, che è del 1844. «L’angoscia è la<br />

possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la<br />

fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge<br />

tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni». L’angoscia<br />

forma “il discepolo della possibilità” e prepara il “cavaliere della<br />

fede”. Sempre nel 1844 Kierkegaard pubblica l’importante<br />

volume “Briciole filosofiche”, in cui l’autore esamina l’idea di<br />

maieutica religiosa ed analizza il significato della categoria del<br />

possibile. Ma, intanto, l’anno avanti, nel 1843, egli aveva dato<br />

alle stampe “La ripetizione” dove, all’ideale estetico della vita,<br />

viene contrapposta la riconquista di sé, vale a dire dell’esistenza autentica attraverso la<br />

fede. Anche gli “Studi nel cammino della vita” (1845) esaminano lo stesso tema. E ne “La<br />

malattia mortale” (1849) Kierkegaard, sfruttando i risultati delle o<strong>per</strong>e precedenti,<br />

contrappone alla dis<strong>per</strong>azione, che è la vera “malattia mortale”, la salvezza della fede; e<br />

sostiene che fuori della fede non c’è che dis<strong>per</strong>azione.<br />

La caratteristica dell’uomo in quanto spirito è quella <strong>per</strong> cui il Singolo, diversamente<br />

che nelle specie animali, è su<strong>per</strong>iore alla specie. L’animale ha un’”essenza”, ed è quindi<br />

determinato, giacché l’essenza è il regno del necessario, di cui la scienza ricerca le leggi.<br />

L’esistenza, in breve, è il regno della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, è quello<br />

che diventa. Questo vuol dire che il modo di essere dell’esistenza non è la realtà o la<br />

necessita, bensì la “possibilità”. Ma, scrive Kierkegaard ne “Il concetto dell’angoscia”: «La<br />

possibilità è la più pesante delle categorie». Infatti, nella “possibilità” tutto è egualmente<br />

possibile, e chi fu realmente educato mediante la “possibilità”, ha compreso anche il suo<br />

lato terribile e sa che egli dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che questo<br />

lato terribile (la <strong>per</strong>dizione, l’annientamento) vive al fianco dell’uomo.<br />

L’esistenza è libertà, poter-essere, cioè possibilità: possibilità di non scegliere, di<br />

restare nella paralisi, di scegliere e di <strong>per</strong>dersi; possiblità come “minaccia del nulla”. La<br />

realtà è che l’esistenza è possibilità e quindi “angoscia”. L’angoscia è il puro sentimento<br />

del possibile; è il senso di quel che può accadere e che può essere molto più terribile della<br />

realtà. Perché, se uno esce dalla scuola della possibilità e se ha tratto vantaggi<br />

dall’es<strong>per</strong>ienza dell’angoscia, allora darà alla realtà una nuova spiegazione; esalterà la<br />

realtà, e anche quando essa pesa grave sopra di lui, si ricorderà che essa è molto più<br />

“leggera” di quanto non fosse la possiblità.<br />

Il possibile, afferma Kierkegaard, corrisponde <strong>per</strong>fettamente al futuro. Il possibile è,<br />

<strong>per</strong> la libertà, il futuro, e il futuro, <strong>per</strong> il tempo, è il possibile. Per questo, angoscia e futuro<br />

sono congiunti. L’angoscia caratterizza la condizione umana: chi vive nel peccato è<br />

angosciato dalla possibilità del pentimento; chi vive, essendosi liberato dal peccato, vive<br />

nell’angoscia di ricadervi. Ma l’importante è capire che l’angoscia “forma”: essa, infatti,<br />

15


distrugge tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni. È in questo modo che Dio, che<br />

vuole essere amato, discende con l’aiuto dell’inquietudine, a caccia dell’uomo.<br />

E se l’angoscia è tipica dell’uomo nel suo rapportarsi al mondo, la “dis<strong>per</strong>azione” è<br />

propria dell’uomo nel suo rapporto con se stesso. La dis<strong>per</strong>azione è, <strong>per</strong> Kierkegaard, la<br />

colpa dell’uomo che non sa accettare se stesso nella sua profondità. E la dis<strong>per</strong>azione è la<br />

“malattia mortale”: un eterno morire senza tuttavia morire, un’impotente autodistruzione.<br />

Dal punto di vista cristiano, neanche la morte è “malattia mortale”, e tanto meno lo è<br />

qualsiasi sofferenza terrestre e temporale come la povertà, la malattia, la miseria, la<br />

tribolazione, le avversità, i tormenti, le pene spirituali, il lutto o l’affanno. La morte può<br />

essere la fine di una malattia, ma, nel senso cristiano, la morte non è la fine: il dis<strong>per</strong>ato è<br />

quindi un “malato a morte”. La dis<strong>per</strong>azione è il vivere la morte dell’io. E ogni uomo è<br />

dis<strong>per</strong>ato e forse più di ogni altro lo è colui che non sente in sé nessuna dis<strong>per</strong>azione. Ma,<br />

precisa il filosofo, ogni uomo è dis<strong>per</strong>ato eccetto quando guardandosi dentro, e volendo<br />

essere se stesso, l’io si “immerge”, attraverso la propria trasparenza, nella potenza che<br />

l’ha posto.<br />

La scaturigine della dis<strong>per</strong>azione sta nel non volersi accettare dalle mani di Dio, è<br />

allora chiaro che l’esistenza autentica è quella disponibile all’amore di Dio, quella di colui<br />

che non crede più a se stesso ma soltanto a Dio. E questa fede in Dio, questo<br />

testimoniare la verità dalla parte del Signore, porta il cristiano ad entrare in diretto conflitto<br />

con questo mondo, e simultaneamente gli fa capire che, dal punto di vista cristiano, lo<br />

scopo della vita terrena è di essere portati al più alto grado di noia della vita. E quando si è<br />

giunti a questo punto, allora si sostiene in modo cristiano la “prova” della vita e si è maturi<br />

<strong>per</strong> l’eternità.<br />

Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in<br />

cui la fine sarebbe la morte e la morte sarebbe la fine. E questa è precisamente la dis<strong>per</strong>azione.<br />

- L’angoscia di una visione (Edvard Munch)<br />

Per mettere a fuoco il senso della più famosa o<strong>per</strong>a di Munch, “Il grido”, nessuna<br />

descrizione è più efficace delle parole dello stesso pittore: «Una sera passeggiavo <strong>per</strong> un<br />

sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e<br />

guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue.<br />

Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro,<br />

dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando». Munch come tutti gli<br />

espressionisti sente così profondamente la sofferenza umana, la miseria, la violenza e la<br />

passione, da considerare poco onesta l’insistenza sull’armonia e la bellezza nell’arte.<br />

Affronta la cruda realtà dell’esistenza esprimendo compassione <strong>per</strong> i diseredati,<br />

trasformando l’o<strong>per</strong>a in denuncia, scandalizzando e scuotendo l’atteggiamento<br />

benpensante e borghese.<br />

Nulla di esterno suggerisce l’angoscia che induce il <strong>per</strong>sonaggio, probabilmente<br />

una donna, ad urlare. Il suo sguardo atterrito non è diretto all’eventuale osservatore, non<br />

ne invoca l’aiuto. Le mani premute alle orecchie <strong>per</strong> non sentire nulla, nemmeno il<br />

possibile conforto dei passi della coppia alle spalle, che del resto cammina in direzione<br />

opposta; a raggiungere quest’ultima è invece lo steccato, ma con una fuga talmente<br />

vertiginosa da non lasciare alcuno spazio all’idea di un suo, <strong>per</strong> quanto tardivo, ritorno. La<br />

vita, se <strong>per</strong> vita si intende la quiete, è irrimediabilmente lontana e <strong>per</strong>duta, nei profili<br />

azzurrati delle barche e nella sagoma tenue del campanile, miraggio di un senso del<br />

vivere di cui si è smarrita finanche la memoria. In questo intenso capolavoro l’es<strong>per</strong>ienza<br />

emotiva si dilata in malessere universale e tutto concorre a manifestare questo dramma: il<br />

paesaggio del fiordo, il taglio diagonale e ascendente del ponte, la ringhiera che anziché<br />

difendere imprigiona, il tramonto insanguinato come un gorgo che risucchia il mondo, e<br />

16


infine la figura, strana creatura col volto da teschio, che grida e corre in<strong>contro</strong> allo<br />

spettatore.<br />

Come le onde sonore, le pennellate accese si propagano all’intorno della donna<br />

ma, a differenza di queste, conformi soltanto all’imprevedibilità di un impulso emotivo<br />

talmente violento da mutarsi, <strong>per</strong> tragico paradosso, nel suo esatto contrario; la lacerante<br />

assenza di emozioni. È questo che forse colpisce e deturpa la figura e che ci spinge a<br />

ricordare che essa era, e non è più, una <strong>per</strong>sona. Il prevalere delle tinte scure e del grigiobruno<br />

nella parte bassa del dipinto lo confermano, così come la scarna e deformata<br />

sagoma del volto della donna, assai più simile ad un teschio che al viso di una <strong>per</strong>sona<br />

viva. Nella litografia de “L’urlo”, eseguita dall’artista due anni dopo il dipinto (1895),<br />

l’aggressività del segno risulterà ancor più accentuata e risolverà in pura tensione<br />

disegnativa quel disarmonico rapporto con la realtà naturalistica dei colori: l’acqua azzurra,<br />

la terra bruna, la vegetazione verde e il sole rosso. Pur intimamente legato al simbolismo,<br />

come dimostrano la ricerca di un’analogia tra suono e colore e la sostanziale fluidità del<br />

segno, Munch seppe tuttavia imprimere alla propria arte un’inedita intensità emotiva, cui<br />

guarderanno come un modello i “fauves” e soprattutto gli espressionisti tedeschi, uniti al<br />

maestro norvegese da un’altrettanto tragica visione del vivere.<br />

Edvard Munch, Il grido, 1893<br />

olio, tem<strong>per</strong>a e pastello su cartone, 91x73,5 cm<br />

Oslo, Nasjonalgalleriet<br />

17


� Volume 3<br />

Anno di pubblicazione<br />

1968<br />

Casa discografica<br />

Bluebell<br />

Produzione<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong> - Reverberi<br />

1. LA CANZONE DI MARINELLA<br />

2. IL GORILLA<br />

3. LA BALLATA DELL’EROE<br />

4. S’I’ FOSSE FOCO<br />

5. AMORE CHE VIENI AMORE CHE VAI<br />

6. LA GUERRA DI PIERO<br />

7. IL TESTAMENTO<br />

8. NELL’ACQUA DELLA CHIARA FONTANA<br />

9. LA BALLATA DEL MICHÈ<br />

10. IL RE FA RULLARE I TAMBURI<br />

Questa uscita, avvenuta nel mese di dicembre, si rivelò strategicamente<br />

azzeccatissima; grazie alle nuove versioni de “La canzone di Marinella”, “Amore che vieni<br />

amore che vai”, “La guerra di Piero”, Casetta mise sul mercato un album ad altissimo<br />

potenziale di vendite. <strong>Fabrizio</strong> propose inoltre la traduzione di uno dei classici di Brassens,<br />

“Il gorilla”, destinato a diventare uno dei pezzi forti del suo re<strong>per</strong>torio. Accanto ad essi, tre<br />

<strong>per</strong>le: “S’i’ fosse foco”, tratta da un sonetto di Cecco Angiolieri, “Nell’acqua della chiara<br />

fontana”, altra traduzione brassensiana, e “Il re fa rullare i tamburi”, canzone popolare<br />

francese del XIV secolo. Il successo è strepitoso; con “Tutti morimmo a stento” ancora al<br />

diciannovesimo posto, “Volume 3” raggiunge i vertici, ed entrambi rimangono in classifica<br />

<strong>per</strong> circa due anni. Tra il ’68 ed il ’69, oltre che con “Senza orario senza bandiera” dei New<br />

Trolls, <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> è sul mercato con due nuovi album, cinque 45 giri e un’ulteriore<br />

edizione su 33 giri del materiale Karim (la precedente etichetta). Casetta era riuscito a<br />

lavorare bene su <strong>De</strong> <strong>André</strong>, grazie anche a brillanti collaboratori come Rosanna Mani, sua<br />

addetta stampa <strong>per</strong> i primi dischi e poi futura codirettrice di “Sorrisi e canzoni TV”. L’idea di<br />

inserire i testi, alcune coincidenze fortunate, le cause penali e la censura avevano<br />

contribuito a formare il culto di <strong>Fabrizio</strong>. La sua assenza dalle scene favorì la curiosità dei<br />

fan, desiderosi di sa<strong>per</strong>e qualcosa di più sul suo conto, aumentando così l’interesse della<br />

stampa nei suoi confronti.<br />

Per consentire al nuovo lp la migliore penetrazione sui mercati, Toni Casetta decide<br />

di far uscire, a breve distanza l’uno dall’altro, tre singoli. Il primo, che precederà l’album,<br />

sarà “Carlo Martello”, abbinato a “Il testamento”. A esso seguirà l’attesissimo e<br />

vendutissimo “La canzone di Marinella” / ”Amore che vieni amore che vai”, unitamente ad<br />

un altro dei più venduti 45 giri deandreiani contenente “La ballata del Michè” / “La guerra di<br />

Piero”. Questi singoli, a conferma del successo di “Volume 3”, avranno un fortunatissimo<br />

seguito con “Il gorilla” / “Nell’acqua della chiara fontana”, pubblicato nel 1969 oltre a<br />

“Leggenda di Natale” / “Inverno”, tratto da “Tutti morimmo a stento”. “La ballata del Michè”,<br />

prima vera canzone di <strong>Fabrizio</strong>, narra del suicidio di un uomo recluso <strong>per</strong>ché omicida <strong>per</strong><br />

amore: <strong>De</strong> <strong>André</strong> riesce <strong>per</strong>ò meravigliosamente a dimostrare come il Michè fosse un<br />

individuo “quasi innocente” <strong>per</strong>ché innamorato.<br />

18


- Il pacifismo<br />

Canzone tuttora simbolo dei movimenti pacifisti italiani, “La guerra di Piero” venne<br />

incisa a Roma tra il 18 e il 25 luglio 1964 agli studi Dirmaphon. Questo brano è entrato<br />

quattro anni dopo nei re<strong>per</strong>tori dei militanti di sinistra e dei cattolici, egualmente impegnati<br />

a ridefinire il proprio ruolo nel sociale. La storia, emblematica, è quella di un giovane<br />

soldato che viene ucciso da un suo coetaneo, anch’egli militare, solo <strong>per</strong>ché “aveva la<br />

divisa di un altro colore”; realismo, crudezza, ma soprattutto denuncia è ciò che<br />

caratterizza una delle canzoni più belle e significative della nostra cultura musicale. Oltre a<br />

questo brano, <strong>Fabrizio</strong> ha composto, <strong>per</strong> sottolineare la stupidità e la pazzia che<br />

caratterizzano le guerre, “Girotondo”, “Andrea” e “La ballata dell’eroe”. Mai come oggi il<br />

movimento pacifista si sta facendo strada: dopo aver vissuto anni di dure lotte <strong>contro</strong><br />

molte guerre, il numero di pacifisti nel mondo sta esponenzialmente crescendo, forse<br />

<strong>per</strong>ché i popoli sono <strong>sempre</strong> più convinti dell’inutilità della guerra come metodo di<br />

risoluzione <strong>per</strong> le incomprensioni internazionali. Ho deciso quindi di portare a<br />

testimonianza del sentimento di pace le idee di tre grandi <strong>per</strong>sonaggi: Kant, che nel suo<br />

trattato “Per la pace <strong>per</strong>petua” ha teoricamente costruito le basi del pacifismo moderno,<br />

Ungaretti e la sua “Non gridate più”, dis<strong>per</strong>ata richiesta di cessazione della guerra <strong>per</strong><br />

rispettare la pace dei morti; infine il grande poeta romano Trilussa, che nei suoi arditi e un<br />

po’ cinici versi ha spesso evidenziato la fratellanza innata degli uomini e il tragitto che la<br />

pace deve compiere attraverso la guerra (fatta dai potenti) <strong>per</strong> attuarsi.<br />

- La pace <strong>per</strong>petua (Karl Immanuel Kant)<br />

Per quanto riguarda il concetto della storia, Kant<br />

condivide il punto di vista illuministico sulla civiltà come sforzo<br />

verso una società umana universale o cosmopolitica, di cui<br />

detta le condizioni nel breve ma importante scritto “Per la pace<br />

<strong>per</strong>petua”. In quest’o<strong>per</strong>a Kant riconosce il suo pensiero retto<br />

su alcuni punti fondamentali. Gli Stati nei loro rapporti esterni<br />

vivono in uno stato giuridico provvisorio; lo Stato di natura è<br />

uno Stato di guerra e <strong>per</strong>ciò uno Stato ingiusto; essendo<br />

questo Stato ingiusto, gli Stati hanno il dovere di uscirne e di<br />

fondare una federazione di Stati secondo l’idea di un contratto<br />

sociale originario, vale a dire un’unione dei popoli <strong>per</strong> mezzo<br />

della quale essi si obbligano a non immischiarsi nelle discordie<br />

intestine gli uni degli altri ma a proteggersi <strong>per</strong>ò <strong>contro</strong> gli<br />

assalti di un nemico esterno. Questa federazione non istituisce un potere sovrano ma<br />

assume la figura di un’associazione in cui i singoli componenti rimangono su un piano di<br />

collaborazione tra uguali.<br />

La costituzione di ogni Stato, <strong>per</strong> Kant, deve essere repubblicana. La repubblica<br />

non è soltanto la miglior forma di governo <strong>per</strong> quel che riguarda i rapporti fra lo Stato e il<br />

cittadino, ma anche <strong>per</strong> quel che riguarda i rapporti tra gli Stati. Essa garantisce, meglio di<br />

ogni altra forma, la libertà e la pace: è dunque la principale condizione di quella<br />

coesistenza pacifica nella libertà che costituisce l’ideale morale della specie umana. Inoltre<br />

il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati. Non basta che<br />

gli Stati diventino repubblicani: la repubblica è una condizione necessaria ma non<br />

sufficiente <strong>per</strong> la pace <strong>per</strong>petua. È necessario quindi che le repubbliche così costituite<br />

diano vita ad una federazione, cioè si obblighino ad entrare in una costituzione analoga<br />

alla costituzione civile nella quale si possa garantire a ogni membro il proprio diritto.<br />

Questa federazione si deve distinguere da un lato da un su<strong>per</strong>-Stato ma dall’altro si deve<br />

distinguere da un puro e semplice trattato di pace, <strong>per</strong>ché quest’ultimo si propone di porre<br />

19


termine a una guerra, mentre quella si propone di porre termine a tutte le guerre e <strong>per</strong><br />

<strong>sempre</strong>.<br />

Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di una universale<br />

ospitalità. Mentre il diritto internazionale regola il rapporto tra gli Stati e il diritto interno<br />

regola i rapporti fra lo Stato e i suoi cittadini, il diritto cosmopolitico regola i rapporti tra uno<br />

Stato e i cittadini degli altri Stati. La massima fondamentale del diritto cosmopolitico è che<br />

uno straniero che si reca nel territorio di un altro Stato non deve essere trattato ostilmente<br />

sino a che non abbia commesso atti ostili allo Stato ospitante. Kant giustifica questa<br />

massima col diritto spettante a tutti gli uomini di entrare in società coi loro simili in virtù del<br />

possesso comune originario di tutta la su<strong>per</strong>ficie terrestre. Ma in quest’ultimo articolo del<br />

suo progetto di pace <strong>per</strong>petua Kant stabilisce un limite a questo diritto di ospitalità o<br />

<strong>per</strong>lomeno vuol definire l’ambito entro cui esso possa esercitarsi, dicendo che non può<br />

estendersi oltre le condizioni di una universale ospitalità: vuol dire che colui che è ospite di<br />

uno Stato straniero non può approfittare di questa sua posizione <strong>per</strong> disgregare lo Stato o<br />

<strong>per</strong> minacciarne l’esistenza. Questa clausola è chiaramente diretta <strong>contro</strong> l’ingerenza dei<br />

cittadini degli Stati colonizzatori nei Paesi indigeni; <strong>per</strong> il filosofo russo è quindi implicito<br />

che il diritto cosmopolitico contenga il rifiuto di ogni forma di razzismo e schiavismo. Il<br />

dovere dell’ospitalità si lega alla necessità di favorire la reciproca conoscenza e<br />

coo<strong>per</strong>azione, quindi di pacifici rapporti tra i popoli.<br />

Lo Stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno status naturalis. Questo è piuttosto uno<br />

Stato di guerra, nel senso che, se anche non vi sono ostilità dichiarate, è <strong>per</strong>ò continua la minaccia che esse<br />

abbiano a prodursi. Dunque lo Stato di pace dev’essere istituito.<br />

- La pace nel rispetto dei morti (Giuseppe Ungaretti)<br />

Quel clima di morte, di guerra e di dolore, presente in<br />

“Non gridate più” di Giuseppe Ungaretti, viene evidenziato<br />

dall’uso dell’im<strong>per</strong>ativo (con accenti di preghiera) rivolto alla<br />

collettività <strong>per</strong> invitare al rispetto dei morti, all’ascolto della loro<br />

voce e de loro messaggio. Il dolore segna l’a<strong>per</strong>tura del poeta<br />

al senso della storia e del tempo, nonché al recu<strong>per</strong>o della<br />

metrica tradizionale. Sono oramai lontani i tempi della<br />

s<strong>per</strong>imentazione, della ricerca della parola “pura” volta a<br />

svelare e illuminare la verità che si cela oltre l’apparenza e il<br />

mondo sensibile. Le sofferenze individuali, l’accostamento ai<br />

classici, la riflessione sulla fede religiosa, l’es<strong>per</strong>ienza terribile<br />

del secondo conflitto mondiale (il poeta aveva già combattuto la<br />

Grande Guerra), spingono alla solidarietà, alla pietà, all’impegno civile <strong>per</strong> fermare le<br />

barbarie. Di grande forza espressiva l’adynaton del primo verso, così come la<br />

contrapposizione tra le urla e il fragore provocato dai vivi e il sussurro im<strong>per</strong>cettibile dei<br />

defunti. Ma proprio in quel sussurro è risposta la s<strong>per</strong>anza dell’umanità, la lezione di vita,<br />

l’insegnamento volto ad evitare il reiterarsi dell’orrore e della distruzione.<br />

I valori di civiltà eternati dalla poesia sono ancora una volta affidati alle tombe,<br />

come già insegnava Foscolo ne “I sepolcri”. Il rispetto <strong>per</strong> i defunti, la capacità di coglierne<br />

il messaggio dando ascolto alle voci interiori, la dolente consapevolezza che <strong>per</strong>fino la<br />

natura evita il novello Attila, costituiscono i nuclei concettuali della lirica. È piuttosto<br />

interessante notare come l’elemento caratteristico della guerra posto in risalto da<br />

Ungaretti sia il rumore (le urla). L’effetto immediato della cessazione del conflitto, dopo il<br />

fragore delle armi, dei proclami, dei pianti, è il silenzio, eco di morte e distruzione, ma<br />

anche invito alla riflessione, alla pietà, alla ricerca di messaggi altrimenti im<strong>per</strong>cettibili.<br />

Lasciare i defunti nella loro pace, nelle case diventate tombe, significa attribuire loro un<br />

ruolo simbolico, di “monumentum”, che predispone all’attesa e all’ascolto di un messaggio.<br />

20


L’indifferenza alle voci sussurrate è una reiterazione dell’uccisione, dello strazio, <strong>per</strong>ché<br />

rende il sacrificio inutile.<br />

Ungaretti s<strong>per</strong>imenta, nel dopoguerra, la ricerca di nuove forme espressive: dallo<br />

stile ermetico, individualistico, rarefatto delle prime raccolte, si assiste alla graduale<br />

conquista di nuove soluzioni espressive, più accessibili e comunicative, a<strong>per</strong>te verso l’altro<br />

e verso la storia. La considerazione del dolore che non è più solo intimo e <strong>per</strong>sonale<br />

(Ungaretti subisce, tra l’altro, la <strong>per</strong>dita di un figlio amatissimo), ma coinvolge tutti gli<br />

uomini nella catastrofe immane del conflitto mondiale, conferisce al dettato poetico del<br />

poeta una decisa connotazione etica, civile, umanitaria e socialmente impegnata.<br />

Cessate d’uccidere i morti,<br />

non gridate più, non gridate<br />

se li volete ancora udire,<br />

se s<strong>per</strong>ate di non <strong>per</strong>ire.<br />

Hanno l’im<strong>per</strong>cettibile sussurro,<br />

non fanno più rumore<br />

del crescere dell’erba,<br />

lieta dove non passa l’uomo.<br />

- La pace dopo la guerra (Trilussa)<br />

Trilussa dava voce al sentimento e alla mentalità piccoloborghese<br />

<strong>per</strong>ché tale era egli stesso; la sua satira non risparmiava<br />

nessuno <strong>per</strong>ché era lui <strong>per</strong> primo a non risparmiarsi. Mascherate le<br />

proprie emozioni, nascondere una lacrima tra le risate, togliere il velo ai<br />

buoni sentimenti e alle ideologie di tutti i coloro, rivoltare i buoni<br />

propositi <strong>per</strong> scoprire che la fratellanza fa <strong>sempre</strong> rima con “panza”:<br />

questo faceva Trilussa con i suoi versi e le sue favole. Aristocratici,<br />

intellettuali, politici, preti, gente del popolo: ce n’era <strong>per</strong> tutti. Durante<br />

una campagna elettorale, i socialdemocratici affissero sui muri di Roma<br />

i versi de “La cornacchia libberale”, sonetto che metteva a nudo le<br />

contraddizioni dell’idea liberale; detto fatto, un’ora dopo i liberali<br />

rispondevano con un’altra affissione, quella de “Er compagno<br />

scompagno”, favola sul socialismo. Il mondo di Trilussa (o Carlo<br />

Alberto Salustri) è un mondaccio, la gente è “gentaglia e gentarella”: gli uomini sono<br />

ipocriti come quel bottegaio che un momento prima era decisissimo a chiamare la polizia e<br />

un momento dopo è tutto inchini e sorrisi <strong>per</strong> il cliente che gli ha saldato il debito; hanno la<br />

memoria corta come quell’innamorato che dopo qualche tempo risponde, a chi gli<br />

domanda della donna del cuore, di non ricordarsi più chi fosse.<br />

Chi, dopo il Belli, ha saputo come Trilussa adattar così spesso entro la ferrea<br />

cornice del sonetto quadri tutti essenziali, senza su<strong>per</strong>fluità e né ritagli né sforature, con<br />

quei versi precisi e cadenzati nei quali la frase combacia nativamente e logicamente con la<br />

misura dell’endecasillabo? Dissacrare, smontare, smascherare. Trilussa prende spunto<br />

dalle favole di La Fontaine <strong>per</strong> rovesciarne il finale riportandolo alla sua ben nota morale.<br />

Dopo aver riveduto e corretto le favole della tradizione Trilussa si slanciò nell’invenzione<br />

originale con una vera parata di fuochi d’artificio: polli, oche, somari e cavalli, piccioni e<br />

aquile, sorci e gatti, leoni, pecore e maiali, tutti intenti a disquisire, a sentenziare, a litigare<br />

nel comune segno del tornaconto, della “panza”. Tutti portatori di una filosofia che<br />

potremmo chiamare della “Maria Tegami”, il fortunato <strong>per</strong>sonaggio scaturito<br />

dall’inesauribile fantasia trilussiana che, sulle colonne del Travaso, commentava fatti della<br />

cronaca e della politica con velleità letterarie inversamente proporzionali alla mancanza di<br />

cultura; tale fu il successo degli articoli che l’editore li raccolse in un volumetto, da regalare<br />

ai lettori, che si apriva con un’autobiografia dell’autrice.<br />

21


Per la sua attenzione verso la cronaca, il suo “cavalcare” la cronaca, sembrarono<br />

creare un contrasto piuttosto vistoso con la quasi totale assenza di poesie ispirate ai fatti<br />

della Prima e, più tardi, della Seconda Guerra Mondiale. Ciò che, del resto, gli fu<br />

rimproverato da molti critici. In realtà c’è “Il Natale della guerra” o la “Ninna nanna de la<br />

guerra”, a riprova del cordone ombelicale che lega Trilussa ai romani. Leggere ora quelle<br />

poesie vuol dire provare un brivido di commozione; vien da pensare, oggi, che<br />

l’atteggiamento di Trilussa di fronte allo strazio dei bombardamenti e dei massacri non<br />

fosse dettato da facile scetticismo piccolo-borghese, da un generico ed epidermico orrore<br />

del macello, ma da una dis<strong>per</strong>azione più larga e da una compassione eterna <strong>per</strong> il piccolo,<br />

meschino essere che è l’uomo. Da una malinconia, da un’infinita tristezza <strong>per</strong> la giustizia e<br />

la verità che non ci sono e non ci saranno mai senza che gli uomini cessino ugualmente di<br />

immaginarle, di sognarle, di sentirsi pronti <strong>per</strong> dare loro consistenza in terra. La “Ninna<br />

nanna de la guerra” è quindi la metafora <strong>per</strong>fetta di quell’idea di pace che deve, <strong>per</strong> forza<br />

di cose, passare attraverso la guerra.<br />

Ninna nanna, nanna ninna,<br />

er pupetto vò la zinna;<br />

dormi, dormi, cocco bello,<br />

sennò chiamo Farfarello<br />

Farfarello e Gujermone<br />

che se mette a pecorone,<br />

Gujermone e Ceccopeppe<br />

che se regge co le zeppe,<br />

co le zeppe d’un im<strong>per</strong>o<br />

mezzo giallo e mezzo nero.<br />

Ninna nanna, pija sonno<br />

ché se dormi nun vedrai<br />

tante infamie e tanti guai<br />

che succedeno ner monno<br />

fra le spade e li fucili<br />

de li popoli civili.<br />

Ninna nanna, tu nun senti<br />

li sospiri e li lamenti<br />

de la gente che se scanna<br />

<strong>per</strong> un matto che commanna;<br />

che se scanna e che s’ammazza<br />

a vantaggio de la razza<br />

o a vantaggio d’una fede<br />

<strong>per</strong> un Dio che nun se vede,<br />

ma che serve da riparo<br />

ar Sovrano macellaro.<br />

Chè quer covo d’assassini<br />

che c’insanguina la terra<br />

sa benone che la guerra<br />

è un gran giro de quatrini<br />

che prepara le risorse<br />

pe li padri de le Borse.<br />

Fa la ninna, cocco bello,<br />

finché dura sto macello:<br />

fa la ninna, ché domani<br />

rivedremo li sovrani<br />

che se scambieno la stima<br />

boni amichi come prima.<br />

So cuggini e fra parenti<br />

nun se fanno comprimenti:<br />

torneranno più cordiali<br />

li rapporti <strong>per</strong>sonali.<br />

E riuniti fra de loro<br />

senza l’ombra d’un rimorso,<br />

ce faranno un ber discorso<br />

su la Pace e sul Lavoro<br />

<strong>per</strong> quer popolo cojone<br />

risparmiato dar cannone!<br />

22


� Nuvole barocche<br />

Anno di pubblicazione<br />

1969<br />

Casa discografica<br />

Roman<br />

Produzione<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

1. NUVOLE BAROCCHE<br />

2. E FU LA NOTTE<br />

3. VALZER PER UN AMORE<br />

4. PER I TUOI LARGHI OCCHI<br />

5. CANZONE DELL’AMORE PERDUTO<br />

6. CARLO MARTELLO (ritorna dalla battaglia di Poitiers)<br />

7. IL FANNULLONE<br />

8. GEORDIE<br />

9. DELITTO DI PAESE<br />

“Nuvole barocche” è una sorta di raccolta del <strong>per</strong>iodo in cui <strong>De</strong> <strong>André</strong> incideva <strong>per</strong><br />

la Karim, comprensiva di canzoni apparse nei primi singoli e non inserite nel primo album.<br />

Infatti nell’album sono presenti le versioni originali arrangiate con pochi strumenti del<br />

“Valzer <strong>per</strong> un amore”, rielaborazione del “Valzer campestre” (tratto dalla “Suite siciliana”)<br />

di Gino Marinuzzi jr. e della “Canzone dell’amore <strong>per</strong>duto”. Inoltre sono presenti “Nuvole<br />

barocche”, “E fu la notte” e “Per i tuoi larghi occhi” (tratta da una poesia di Elvio Monti),<br />

tutte canzoni che risentono ancora dello stampo melodico di fine anni Cinquanta. “Il<br />

fannullone” è invece un brano scritto a quattro mani con Paolo Villaggio: è la storia della<br />

loro giovinezza, un’età dominata dalla sregolatezza, dall’ozio, dalla pazzia, dal sesso,<br />

dall’alcool, dalle donne. C’è “Carlo Martello (ritorna dalla battaglia di Poitiers)”, ironica<br />

descrizione di un rapporto sessuale del sovrano Carlo con una semplice paesana, la quale<br />

si <strong>per</strong>mette, a “prestazione” conclusa, di chiedere soldi al re: quest’ultimo non dice di no,<br />

ma rimane deluso dall’illusione di aver fatto breccia nel cuore della donna.<br />

“<strong>De</strong>litto di paese” è l’amara storia di un povero anziano, il quale vuole ritrovare la<br />

sua giovinezza attraverso una prostituta, tant’è che dopo “quattro baci e una carezza” il<br />

vecchio signore confessa la sua impossibilità a pagare la donna. Questa va a chiamare il<br />

protettore e insieme uccidono l’anziano; dopo ciò si accorgono realmente, mettendo a<br />

soqquadro casa, che il defunto era davvero povero, e vengono colti dalla polizia che<br />

chiedono <strong>per</strong>dono in lacrime sul corpo del povero vecchio. I due omicidi vengono<br />

condannati a morte e impiccati in piazza: è a questo punto che entra in gioco l’occhio<br />

critico di <strong>Fabrizio</strong>, il quale giustifica quasi i due, ammettendo la loro semplicità e<br />

legittimando il loro <strong>per</strong>dono. Infine il brano, che pare più una filastrocca, “Geordie”, cantata<br />

in duo con la cantante inglese Maureen Rix, è la storia di un ragazzo ventenne, che, <strong>per</strong><br />

aver rubato “sei cervi nel parco del re”, viene condannato a morte. La giovane sposa, alla<br />

notizia della condanna, si reca a Londra <strong>per</strong> implorare il re di non uccidere Geordie, ma il<br />

sovrano offre la possibilità di impiccare Geordie con una “corda d’oro”: offerta alquanto<br />

non gradita dalla moglie. Ella, infatti, accetterà ironicamente e amaramente il destino del<br />

giovane sposo rispondendo: «È un privilegio raro!». Insomma “Nuvole barocche” è un<br />

album in cui sono presenti un po’ tutti le tematiche che in seguito costituiranno la<br />

discografia di <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong>.<br />

23


- Robert Burns<br />

Lo “Geordie male” era il “maschio standard” di Newcastle, fannullone e dedito alla<br />

birra; fu rappresentato da Reg Smyhthe nella figura di Andy Capp. Potrebbe quindi<br />

trattarsi della vicenda di George Gordon (da qui “Geordie”), quarto o sesto conte di Huntly,<br />

che, ribellatosi <strong>contro</strong> il re di Scozia Giacomo VI nel 1589, fu imprigionato e condannato a<br />

morte come traditore, ma in seguito liberato <strong>per</strong> intercessione della sua famiglia. Dalla<br />

ballata appare che i Gordon erano pronti a liberare il loro congiunto con la forza, ma è più<br />

probabile che Giacomo VI avesse voluto evitare, con il suo gesto di clemenza, l’inimicizia<br />

di una potentissima famiglia che era stata storicamente <strong>sempre</strong> dalla parte della corona di<br />

Sant’Andrea. Certo è che Geordie doveva godere di grande popolarità, se la somma<br />

veramente enorme imposta alla moglie <strong>per</strong> il suo rilascio fu raccolta senza alcuna<br />

difficoltà. Il testo fa parte di quelli forniti da Robert Burns <strong>per</strong> lo “Scottish Musical Museum”<br />

di James Johnson; è verosimile che, come nel caso di “Tam Lin”, il grande poeta scozzese<br />

vi abbia messo le mani. “Geordie” ha avuto grande diffusione nell’intera Gran Bretagna e<br />

ha dato luogo a numerosissime varianti. Quelle inglesi, <strong>per</strong>ò, pur mantenendo un’affinità di<br />

fondo con la vicenda originale (il nucleo fisso rimane <strong>sempre</strong> la giovane sposa che si reca<br />

a corte <strong>per</strong> salvare l’amato), fanno di Geordie un bracconiere ed eliminano l’”happy end”.<br />

Nell’Inghilterra tradizionale il bracconaggio era punito in modo veramente draconiano. In<br />

particolare, la caccia di frodo nelle tenute e nelle riserve reali era punita in modo ancor più<br />

severo, spesso con la pubblica impiccagione; a queste rigidissime leggi non sfuggivano<br />

neanche i nobili.<br />

- Life and career<br />

Robert Burns, often described as the “peasant poet”, was<br />

born in a clay cottage (1759) at Alloway, in Ayrshire, Scotland. The<br />

eldest of seven children of a poor farmer, he was soon obliged to<br />

work as a labourer on his father’s farm, leading a life which he<br />

himself described as the “cheerless gloom of a hermit, and the<br />

unceasing toil of a galley slave”. His education, however, was not<br />

neglected. He was not an unlettered peasant, as he has sometimes<br />

been portrayed. Since his childhood he had been very fond of<br />

reading, often carrying books into the fields to read them in his rare<br />

leisure moments. Although he did not have a regular schooling, he<br />

was able to pick up a fairly good knowledge of the classics and the<br />

main 18 th century English poets. It was from his illiterate other and<br />

his country fellows, however, that he learnt Scottish folk literature, language and music.<br />

He began writing very early, but his real awakening as a poet took place in 1784-85,<br />

when he discovered the collections of vernacular Scottish poetry by Allan Ramsay and the<br />

works of Robert Fergusson, with their vivid, racy descriptions of the life and amusements<br />

among the Edinburgh poor. For the first time, Burns realized the potential wealth of his<br />

native dialect as a literary language; following his two original models, he began writing<br />

about the world and the life around him. He quite often though up his poems while working<br />

at his plough. Then, at night, he would sit down in his garret and write them down.<br />

In 1786, oppressed by economic and sentimental troubles (throughout his life he<br />

had a weakness for women and drink), and impelled by his reckless, rebellious nature, he<br />

planned to emigrate to Jamaica, in the West Indies. Before leaving, however, he decided<br />

to publish his poems, among other things to obtain the passage-money for the voyage.<br />

The publication, known as the “Kilmarnock edition”, made him very famous and, instead of<br />

Jamaica, it took him for a time to Edinburgh. Here, on the wake of the fashionable<br />

veneration for Rousseau’s ideas, he soon became the darling of Edinburgh’s literary<br />

24


circles, which, ignoring the real extent of his literary knowledge, hailed him as the<br />

“Heaven-taught plowman”. Back home, thanks to the money earned from the second<br />

edition of his poems, he bought and eventually sold a farm, married Jean Armour, one of<br />

his many loves, found a job in the excise service and spent his spare time collecting some<br />

of the extant traditional Scots songs.<br />

His radical sympathies for the French Revolution, when it broke out, got him into<br />

trouble, and he was even prosecuted for seditious speeches, which almost cost him his<br />

excise job. Although he overcame the storm, his already poor health began declining and,<br />

in 1796, he died of heart disease, resulting more from the hard labour of his youth than<br />

from excess and dissipation, as some critics believed.<br />

Burns’s poems, collected under the title “Poems chiefly in the Scottish dialect”, were<br />

almost all composed in only two years, from 1784 to 1786 (though some of them were<br />

published in later editions). Over a limited <strong>per</strong>iod of time, he was able to produce a<br />

remarkable number of works varying in character and subject matter. We can only attempt<br />

to cover the best of these, grouping them roughly into three sections.<br />

- Themes and language<br />

Passionate, honest and independent, a rebel by nature and endowed with an<br />

extrovert tem<strong>per</strong>ament, Burns was quite often baffling and impudent in him works, but also<br />

capable of lyrical emotion and pathos. The main themes of his poems are nature, love,<br />

simplicity, freedom. His sense of nature was quite different from that of his<br />

contemporaries, since for him it was neither a distant, abstract landscape, nor the mirror of<br />

his feelings. Neither did he idealize it as an imaginary Arcadia, nor “romantically” endow it<br />

with a mystic spirit. He loved nature not so much for its own sake as for its relationship to<br />

man. He looked at nature with the eye of a tenant farmer, who knew hard work and<br />

suffering. It meant to him above all the earth, the field where he<br />

worked, a reality he had to cope with every day. He was the poet of<br />

rural life in its concrete reality. He believed in “Nature’s social<br />

union”, which made man a brother to all animals, plants and flowers,<br />

and he regretted that man should have had to “master” nature<br />

instead of remaining part of it.<br />

The theme of love is proposed again and again in the eternal<br />

game of kisses and quarrels, passion and forsaking. Often in the<br />

form of delicate, short idylls, his love poems are outstanding for the<br />

loveliness and tenderness of their lines. Moreover his return to<br />

simplicity, together with the use of a really spoken language and his sense of nature,<br />

makes him the forerunner of Wordsworth’s poetical theories. His passion for freedom led<br />

him to consider any political and social injustice as unbearable. This passion, together with<br />

his love for his native country, his spirit of revolt, his sympathy with the poor and his<br />

deeply-rooted patriotism, earned him the universally recognized title of “national” poet of<br />

Scotland. Finally with his caustic humour, Burns was a talented satirist, but he was also at<br />

his best in tender lyrics, in songs of married life, in the remembrance of lost love, in regret<br />

for the impossibility of re-living old times and past events.<br />

Burns almost always wrote in a simple Ayrshire dialect, particularly suited to folk<br />

poetry, which is usually strongly influenced by oral tradition; he has an anomalous position<br />

in English literature, since he wrote his verse in Scots. Still spoken in parts of Scotland,<br />

Scots is often considered a mere dialect of English, although, had Scotland remained<br />

independent, it would certainly now be regarded as a separate language. Burns used a<br />

language really spoken, the opposite of “poetic diction”; his poetry rises from a<br />

conversational level, from small market-town and village talk about various subjects<br />

always related to <strong>per</strong>sonal and local interests; it rises from that level in rhythms that have a<br />

25


elation also to dance-tunes. It was above all in his shorter poems that Burns showed the<br />

best of his poetic vein.<br />

- Adam Armour’s prayer<br />

Adam Armour was probably Jean Armour’s brother, who, along with some other<br />

lads, “stanged”, or carried Agnes Wilson, a female fornicator,<br />

astride a pole through the streets of Mauchline. He became<br />

involved in a breach of the peace, and while evading arrest, met<br />

Burns, whose advice he sought. The poet is supposed to<br />

have suggested that Armour should find someone to pray for him,<br />

and Armour to have replied: «Just do’t yourself, Burns, I know no<br />

one so fit». The authority for this story is the unreliable and<br />

frequently inventive Allan Cunningham. Adam Armour is said<br />

to have become a mason, and to have visited Burns at Ellisland.<br />

Gude pity me, because I’m little!<br />

For though I am an elf o’ mettle,<br />

An’ can, like ony wabster’s shuttle,<br />

Jink there or here,<br />

Yet, scarce as lang’s a gude kail-whittle,<br />

I’m unco queer.<br />

An’ now Thou kens our waefu’ case;<br />

For Geordie’s jurr we’re in disgrace,<br />

Because we stang’d her through the place,<br />

An’ hurt her spleuchan;<br />

For whilk we daurna show our face<br />

Within the clachan.<br />

An’ now we’re dern’d in dens and hollows,<br />

And hunted, as was William Wallace,<br />

Wi’ constables-thae blackguard fallows,<br />

An’ sodgers baith;<br />

But Gude preserve us frae the gallows,<br />

That shamefu’ death!<br />

Auld grim black-bearded Geordie’s sel’-<br />

O shake him owre the mouth o’ hell!<br />

There let him hing, an’ roar, an’ yell<br />

Wi’ hideous din,<br />

And if he offers to rebel,<br />

The heave him in.<br />

When <strong>De</strong>ath comes in wi’ glimmerin blink,<br />

An’ tips auld drucken Nanse the wink,<br />

May Sautan gie her droup a clink<br />

Within his yett,<br />

An’ fill her up wi’ brimstone drink,<br />

Red-reekin het.<br />

Though Jock an’ hav’rel Jean are merry-<br />

Some devil seize them in a hurry,<br />

An’ waft them in th’ infernal wherry<br />

Straught trhough the lake,<br />

An’ gie their hides a noble curry<br />

Wi’ oil od aik!<br />

As for the jurr-puir wothless body!<br />

She’s got mischief enough already,<br />

Wi’ stanged hips, and buttocks bluidy<br />

She’s suffer’d sair;<br />

But, may she wintle in a woody,<br />

If she wh-e mair!<br />

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� La buona novella<br />

Anno di pubblicazione<br />

1970<br />

Casa discografica<br />

Produttori Associati<br />

Produzione<br />

Danè<br />

1. LAUDATE DOMINUM<br />

2. L’INFANZIA DI MARIA<br />

3. IL RITORNO DI GIUSEPPE<br />

4. IL SOGNO DI MARIA<br />

5. AVE MARIA<br />

6. MARIA NELLA BOTTEGA D’UN FALEGNAME<br />

7. VIA DELLA CROCE<br />

8. TRE MADRI<br />

9. IL TESTAMENTO<br />

10. LAUDATE HOMINEM<br />

Nel 1970 a Milano, al Circolo della Stampa, viene presentato “La buona novella”, il<br />

nuovo album di <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong>, che firma testi e musiche, avvalendosi della<br />

collaborazione di Giampiero Reverberi, con Roberto Danè in veste di produttore. Anche in<br />

questa occasione viene scelta la forma del concept-album, una costante nella carriera di<br />

<strong>Fabrizio</strong>, che a questo album si mostrerà molto legato, soprattutto negli anni ‘90, quando<br />

dal vivo riproporrà brani come “L’infanzia di Maria”, “Il ritorno di Giuseppe”, ”Maria nella<br />

bottega d’un falegname” e “Tre madri”. “Il sogno di Maria” è sicuramente una delle più<br />

belle canzoni composte da <strong>De</strong> <strong>André</strong>, una delle sue preferite, come dimostrano le<br />

straordinarie riproposizioni live nel tour teatrale ’97-’98. La dimensione religiosa si scioglie<br />

liricamente in un ritratto di fanciulla rapita dal messaggio misterioso della sua prossima<br />

maternità. Fra immagini sapientemente essenziali e la incisiva evocazione di uno stato di<br />

veglia-sonno emerge in tutta la sua delicata fisicità il mistero dell’Annunciazione, memore,<br />

certo, dei Vangeli, ma anche di tanta pittura medievale e rinascimentale.<br />

I <strong>per</strong>sonaggi a noi noti attraverso la letteratura “classica” vengono ripresi dai<br />

Vangeli apocrifi e subiscono l’umanizzazione garbata, efficace, di <strong>Fabrizio</strong>. La sua poetica,<br />

le sue capacità descrittive , si esprimono ai massimi livelli. Anche nelle scuole si comincia<br />

a toccare il tasto della poesia di <strong>De</strong> <strong>André</strong>. Il successo de “La buona novella” fu inferiore<br />

alle aspettative della casa discografica, ma venne bilanciato dalle vendite del 45 giri “Il<br />

pescatore” / “Marcia nuziale”, prodotto da Roberto Danè. “Il pescatore” verrà riproposto, in<br />

una infinità di versioni, sia su disco che dal vivo, da artisti e orchestre d’ogni genere. È di<br />

questo <strong>per</strong>iodo il primo tentativo di Sergio Bernardini di convincere <strong>Fabrizio</strong> ad esibirsi dal<br />

vivo. Ne “Il testamento di Tito” <strong>De</strong> <strong>André</strong> rivede a modo suo i dieci Comandamenti, dando<br />

una sua libera impressione sulle regole sacre e sulla volontà dell’uomo di rispettarle. Nel<br />

1970 <strong>De</strong> Andrè rilesse l’“Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, scrittore e<br />

libertario americano, che la moglie Puny gli aveva regalato in edizione economica.<br />

Appassionatosi ai <strong>per</strong>sonaggi tratteggiati con sapienza da Masters, decide di realizzare il<br />

suo nuovo disco lavorando intorno a quelle figure chiedendo, <strong>per</strong> la parte letteraria, la<br />

collaborazione dello scrittore romano Giuseppe Bentivoglio, con il quale aveva lavorato in<br />

precedenza <strong>per</strong> la “Ballata degli impiccati”.<br />

27


- I Vangeli apocrifi<br />

Il concept-album presentato nel 1970 ha come sfondo culturale i Vangeli apocrifi<br />

(scritti non riconosciuti dalla Chiesa documento ufficiale della vita di Gesù): è la storia<br />

dell’infanzia di Maria, della tristezza di Giuseppe, dell’agonia di Gesù Cristo, del<br />

testamento di Tito il ladrone, della dis<strong>per</strong>azione delle madri dei condannati. Con toccante<br />

sensibilità <strong>De</strong> <strong>André</strong> proietta l’ascoltatore nella vita “privata” e “umana” del figlio di Dio,<br />

dipingendolo, secondo appunto i Vangeli apocrifi, come un normale ragazzo con uno<br />

spiccato senso di generosità e umanità. Insomma: Gesù uno di noi.<br />

- Cosa sono e da dove provengono<br />

L’aggettivo “apocrifo”, in greco, significa segreto, nascosto. Sembra che stesse ad<br />

indicare, fino al IV secolo d.C., alcuni scritti che qualche setta cristiana metteva a<br />

disposizione solo degli iniziati, non ritenendo che gli scritti fossero di facile comprensione<br />

<strong>per</strong> le masse. Quando la Chiesa cominciò a distinguere in “ispirata e no” la letteratura di<br />

Cristo, escluse quei testi apocrifi dal codice canonico. Gli apocrifi sembrano colmare il<br />

vuoto dei quattro canonici sull’infanzia di Maria, la storia di Giuseppe, l’infanzia di Gesù e<br />

la storia di Erode e Pilato. Ma la differenza più affascinante è l’attenzione che gli autori<br />

mettono anche sulla natura comunque umana dei loro protagonisti; costoro, e il popolo<br />

che vive con loro, sembrano semidei di vario grado immersi in una meravigliosa e a volte<br />

anche troppo fantastica leggenda, costretti a viverla come umili e martoriati esseri umani<br />

in balia di questa unica commedia umana. La sco<strong>per</strong>ta più entusiasmante, <strong>per</strong> chi legge i<br />

Vangeli apocrifi è che l’immagine di Gesù, da essi trasmessa, non trasfigurata dal mito e<br />

dalle sovrastrutture dogmatiche, è proprio quella che più sazia oggi la nostra sete di<br />

giustizia, di pace e di amore. Gesù non è negli apocrifi la<br />

vittima espiatoria delle nostre colpe ancestrali, né il figlio di<br />

Dio, che vuole essere adorato, ma l’uomo che si è proposto<br />

come esempio <strong>per</strong> insegnarci a vivere con serenità, con la<br />

coscienza tranquilla che non si lascia corrom<strong>per</strong>e e<br />

contaminare dal male.<br />

I più antichi apocrifi erano i Vangeli appartenenti a<br />

comunità giudaiche, sparse fin dagli albori del Cristianesimo in<br />

Palestina e in Siria. La voce di questi primi cristiani è stata<br />

soffocata. <strong>De</strong>i loro Vangeli non rimane che qualche citazione,<br />

talora distorta e malevolmente interpretata, negli scritti<br />

posteriori dei Padri della Chiesa. Per gli Ebioniti<br />

(dall’ebraico “ebionim”, gli “umili”), Gesù era un uomo<br />

giusto che, ispirato da Jahveh come gli antichi profeti biblici,<br />

aveva tuonato <strong>contro</strong> i ricchi, i potenti, i profittatori. La presenza tra i suoi discepoli di<br />

almeno tre Zeloti faceva credere che egli si fosse investito di una missione rivoluzionaria,<br />

che era andata fallita, ma aveva fatto di lui un simbolo sacro.<br />

I Nazareni (da “nazir”, il “separato”) riconoscevano in Gesù un modello di purezza e<br />

di rigore morale, che li teneva separati, non contaminati, dalla corruzione della società. Per<br />

darne segno, essi seguivano un’usanza che si fa risalire a Mosè: un voto <strong>per</strong>enne o<br />

temporaneo di castità e semplicità dei costumi, tenendo <strong>per</strong> tutto il <strong>per</strong>iodo del voto i<br />

capelli intonsi. Il loro nome corrisponde all’epiteto dato a Gesù stesso il “nazareno”, che<br />

non deriva, come comunemente si crede da Nazareth, inesistente a quei tempi, ma<br />

denuncia invece, anche da parte di Gesù, l’osservanza di un simile voto. Altrettanto casti,<br />

poveri, e vegetariani, erano i Nicolani, secondo la tradizione fondati da un diacono dei<br />

primi apostoli, di nome Nicola, e più tardi gli Encratiti, che, rinunciando anche al vino,<br />

commemoravano il ricordo di Gesù cenando con pane e acqua.Questo comportamento di<br />

28


umiltà, povertà e frugalità dilagherà nel IV secolo a intere masse di fedeli, con i Manichei,<br />

poi nel Medioevo con i Catari (i “puri”), più tardi con i Poveri di Lione, fondati da Pietro<br />

Valdo e gli Spirituali, eredi di San Francesco, come protesta popolare <strong>contro</strong> la corruzione<br />

della società e <strong>contro</strong> la stessa Chiesa che si era lasciata coinvolgere, rifiutando la sua<br />

autorità e la sua concezione di Gesù, Signore, re dei re, assiso trionfalmente in trono, <strong>per</strong><br />

ripresentarlo umile tra gli umili, povero fra i poveri.<br />

Intanto, già fin dal II secolo, nel colto ambiente di Alessandria d’Egitto, erano<br />

cominciati a diffondersi i Vangeli gnostici, di ispirazione neoplatonica, che interpretavano<br />

la predicazione di Gesù su fondamenti razionali. Dagli gnostici Gesù era visto come<br />

simbolo della verità che illumina la conoscenza (questo è il significato del vocabolo greco<br />

“gnosis”) del bene e del male, <strong>per</strong> cui è possibile all’uomo seguire la via della rettitudine<br />

<strong>per</strong> intima convinzione. Lo gnosticismo imponeva un severo distacco dalle occasioni di<br />

peccato, ma anche una carità fraterna, rivolta ad aiutare gli altri, comunicando loro la gnosi<br />

appresa. Il bacio, tra gli gnostici, non era soltanto un segno di affetto, ma il mezzo con chi<br />

amava fecondava e generava un altro fratello. Un filo conduttore lega queste varie correnti<br />

eretiche del Cristianesimo: l’umanità di Gesù con tutte le passioni più nobili dell’uomo: lo<br />

sdegno <strong>per</strong> l’intolleranza, la prepotenza, la cupidigia di denaro, la pietà <strong>per</strong> i poveri ed i<br />

sofferenti, la capacità di commuoversi e di piangere, il coraggio di rintuzzare il bigottismo<br />

farisaico, e di sferzare i mercanti del Tempio, di affrontare a viso a<strong>per</strong>ti i potenti. Un uomo,<br />

la cui tragica fine, e l’apocrifo che riporta un immaginario scambio di lettere fra Pilato e<br />

l’im<strong>per</strong>atore Tiberio vuol essere una testimonianza dell’ipocrisia del potere politico, che<br />

elimina un <strong>per</strong>sonaggio molesto e poi ne compiange la morte, ne ha fatto un martire e un<br />

modello ideale <strong>per</strong> tutti coloro che lottano <strong>per</strong> la libertà e la dignità umana.<br />

Forti movimenti religiosi, soprattutto protestanti, ai nostri giorni, tornano ad<br />

accentuare questo aspetto di Gesù. I combattenti <strong>per</strong> la libertà dell’America Centrale<br />

dicono che il vero cristiano deve<br />

essere rivoluzionario. È<br />

questo il vero Gesù? Sì, è anche questo.<br />

Nella molteplicità di interpretazioni che<br />

<strong>per</strong>mette la vicenda di Gesù sta il segreto<br />

del suo eterno fascino. Nemmeno<br />

Gesù si sottrae al destino di ogni<br />

essere vivente: ognuno conta <strong>per</strong> gli<br />

altri nella misura in cui gli altri riescono<br />

ad attribuirgli una <strong>per</strong>sonalità che<br />

corrisponda a ciò che essi si aspettano<br />

da lui. E oggi, in questa società sconvolta dal male, <strong>sempre</strong> sull’orlo di una catastrofe,<br />

anche le previsioni apocalittiche d’una lontana distruzione del mondo intero, attribuite a<br />

Gesù da certi apocrifi, sono di sconvolgente attualità. Non <strong>per</strong> intervento dell’ira divina,<br />

come Gesù pensava, ma certo a causa della follia degli uomini stessi potrebbe essere<br />

prossima la fine del mondo. Riusciranno almeno i su<strong>per</strong>stiti, se ve ne saranno, a fare<br />

tesoro degli ammonimenti del Gesù degli apocrifi, <strong>per</strong> costruire finalmente un nuovo<br />

mondo, basato su principi di amore, fratellanza e giustizia?<br />

- Il Codice di Arundel 404<br />

Si tratta di uno scritto apocrifo, riguardante la nascita e l’infanzia del Salvatore,<br />

risalente forse al VI secolo. In esso possiamo notare che il destinatario della <strong>per</strong>secuzione<br />

di Erode era il piccolo Giovanni Battista e che sulla sua <strong>per</strong>sona incombeva la stessa<br />

predestinazione regale che riguardava Gesù.<br />

Elisabetta udendo che Giovanni era ricercato dai sicari <strong>per</strong> ucciderlo, lo prese, salì su di un monte altissimo,<br />

e cercò con lo sguardo tutt’intorno il luogo ove poterlo nascondere. Poi gemette e, in lacrime, esclamò rivolta<br />

29


al Signore: «Signore Dio, offri tu un riparo affinché questo monte accolga la madre con il figlio». Il monte era<br />

altissimo ed essa non se la sentiva più di salire. Improvvisamente il monte si spaccò e accolse lei con il figlio,<br />

e in quello stesso luogo avevano una grande luce, giacché l’angelo del Signore era con loro, li custodiva e<br />

nutriva.<br />

- Il Vangelo di Pietro<br />

Il Vangelo detto “di Pietro” sembra essere uno dei più antichi manoscritti che la<br />

Chiesa definisce apocrifi. Fino al 1886 era conosciuto, come oggi i Vangeli cosiddetti<br />

giudeo-cristiani, solo <strong>per</strong> le citazioni effettuate dai Padri della Chiesa in alcune loro o<strong>per</strong>e.<br />

Nel 1886, in Egitto, ad Akhmim, dentro la tomba di un monaco furono trovate delle<br />

<strong>per</strong>gamene contenenti, fra l’altro, questo testo che è stato identificato dagli studiosi come il<br />

Vangelo di Pietro. Si tratta, probabilmente, di uno scritto composto nel II secolo da una<br />

comunità cristiana che potrebbe avere attinto a fonti giudaico-cristiane.<br />

Condussero due malfattori e crocifissero il Signore in mezzo a loro. Ma lui taceva quasi che non sentisse<br />

alcun dolore. Quando drizzarono la croce, vi scrissero: “Questo è il re di Israele”. Posero le vesti davanti a<br />

lui, le divisero e su di esse gettarono la sorte. Ma uno di quei malfattori li rimproverò, dicendo: «Noi soffriamo<br />

così a causa delle azioni cattive che abbiamo commesso. Ma costui, divenuto salvatore degli uomini, che<br />

male vi ha fatto?». Indignati <strong>contro</strong> di lui, ordinarono che non gli fossero spezzate le gambe e così morisse<br />

tra i tormenti.<br />

- Il Vangelo di Maria<br />

Si tratta di uno scritto gnostico che fu rinvenuto nel cosiddetto Papiro 8502 di<br />

Berlino, di cui si hanno notizie dal 1896, ma che fu pubblicato solo nel 1955. La Maria a<br />

cui è attribuito è Maria Maddalena. Questo scritto attribuisce un’importanza fondamentale<br />

alla figura della Maddalena, come discepolo che Gesù avrebbe anteposto <strong>per</strong>sino ai suoi<br />

apostoli maschi.<br />

Levi replicò a Pietro dicendo: «Tu sei <strong>sempre</strong> irruente, Pietro! Ora io vedo che ti scagli <strong>contro</strong> la donna come<br />

fanno gli avversari. Se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v’è dubbio che il Salvatore<br />

la conosca bene, <strong>per</strong>ciò amò lei più di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell’uomo <strong>per</strong>fetto,<br />

formarci come egli ci ha ordinato, e annunziare il Vangelo senza emanare né un ulteriore comandamento, né<br />

un ulteriore legge, all’infuori di quanto ci disse il Salvatore.<br />

- Il Vangelo copto di Tomaso<br />

Si tratta di uno scritto gnostico che fu rinvenuto nel 1945 presso Nag Hammadi, in<br />

Egitto, da un contadino che scavava nel terreno. In quell’occasione fu sco<strong>per</strong>ta un’intera<br />

collezione di scritti gnostici, in lingua copta, che erano ormai dati <strong>per</strong> scomparsi da secoli.<br />

Questo testo, le cui origini possono essere fatte risalire al II secolo, è un complesso di<br />

centoquattordici sentenze, introdotte generalmente dalla formula “Gesù disse”. I Vangeli<br />

gnostici non hanno l’impostazione biografico-narrativa tipica dei Vangeli canonici. Questa<br />

o<strong>per</strong>a si rivela uno scritto esoterico contenente parole che non devono essere svelate ai<br />

profani, la comprensione delle quali è apportatrice di vita. Ogni detto forma un’unità<br />

indipendente solo raramente si osserva un piccolo raggruppamento di detti (o “loghia”)<br />

collegati ad un tema, da parole chiave o da riferimento dell’uno all’altro: i detti sono<br />

<strong>per</strong>lopiù assai brevi e hanno la forma di prescrizioni, sentenze, aforismi; qualche volta si<br />

incontrano brevi conversazioni con i discepoli, con Simon Pietro, con Maria, con Matteo e<br />

Tomaso. Qualche detto è molto vicino a parole o parabole dei Vangeli canonici.<br />

Gesù disse: «Forse gli uomini pensano che io sia venuto a gettare la pace sul mondo, ignorando che io sono<br />

venuto a gettare divisioni, fuoco, spada, guerra. Cinque saranno in una casa: tre <strong>contro</strong> due e due <strong>contro</strong> tre,<br />

il padre <strong>contro</strong> il figlio e il figlio <strong>contro</strong> il padre, ed essi se ne staranno soli».<br />

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- Il Vangelo di Filippo<br />

Si tratta, come <strong>per</strong> il Vangelo di Tomaso, di uno scritto gnostico che fu ritrovato nel<br />

1945 presso Nag Hammadi, da un contadino che scavava nel terreno. Questo testo, le cui<br />

origini possono essere fatte risalire al II secolo, è un complesso di centoventisette<br />

sentenze contenenti spesso linguaggi criptici <strong>per</strong> iniziati.<br />

Taluni hanno detto che Maria ha concepito dallo Spirito Santo. Essi sono in errore. Essi non sanno quello<br />

che dicono. Quando mai una donna ha concepito da una donna? Maria è la Vergine che nessuna forza ha<br />

violato, e questo è un grande anatema <strong>per</strong> gli ebrei che sono gli apostoli e gli apostolici. Questa Vergine, che<br />

nessuna forza ha violato e le potenze si contaminano. E il Signore non avrebbe detto: «Mio padre che è nei<br />

cieli», se non avesse avuto un altro padre, ma avrebbe detto semplicemente: «Mio padre».<br />

- Il Protovangelo di Giacomo<br />

Pochissimi testi parlano dei genitori di Maria. Ma dal Protovangelo di Giacomo<br />

emergono due biografie dense di fede e di tenerezza. Un pezzo fondamentale della storia<br />

della salvezza. Di loro nei Vangeli canonici non c’è traccia, eppure la tradizione cristiana<br />

ha accolto e venerato Gioacchino e Anna come i genitori della Vergine. I loro<br />

nomi compaiono solo nella letteratura apocrifa. Il Protovangelo di Giacomo,<br />

attribuito all’apostolo Giacomo il Minore, è il più antico e viene fatto risalire a<br />

prima dell’anno 150, e <strong>per</strong> questo motivo considerato più un testo<br />

extracanonico che un vero e proprio apocrifo. In realtà <strong>contro</strong> la tesi che<br />

farebbe del Protovangelo di Giacomo uno dei più antichi documenti cristiani,<br />

quasi contemporaneo dei normali Vangeli, stanno alcuni argomenti, come la<br />

mancanza di testimonianze sicure circa l’esistenza del testo prima del VI secolo, che<br />

rendono dubbia la paternità e la datazione del documento in questione. Certo è che<br />

questo apocrifo, <strong>per</strong> la ricchezza dei particolari con cui offre il racconto sulla vita della<br />

Madonna e sulla nascita di Gesù, rappresenta una delle testimonianze più vive del<br />

Cristianesimo primitivo, tant’è che l’arte figurativa cristiana, l’agiografia, la novellistica<br />

medievale hanno largamente attinto a questi racconti, ripetendone i motivi e imitandone gli<br />

atteggiamenti.<br />

Ed ecco che Giuseppe si preparò a partire <strong>per</strong> la Giudea. E una grande agitazione avvenne in Betlemme di<br />

Giudea, poiché arrivarono dei magi che chiedevano: «Dov’è il re dei giudei che è nato? Poiché abbiamo<br />

visto la sua stella in Oriente e siamo venuti <strong>per</strong> adorarlo». Udendo questo, Erode fu turbato e mandò dei<br />

messi ai magi e fece chiamare i grandi sacerdoti e li interrogò, dicendo: «Che cosa sta scritto riguardo al<br />

Cristo? Dove deve nascere?». Gli dicono: «In Betlemme di Giudea: così infatti sta scritto». Egli allora li<br />

congedò. E interrogò i magi, dicendo loro: «Che segno avete visto circa il re che è nato?». Dissero i magi:<br />

«Abbiamo visto una stella grandissima, che brillava tra queste altre stelle e le oscurava, così che le stelle<br />

non si vedevano, e noi <strong>per</strong> questo abbiamo capito che un re era nato <strong>per</strong> Israele e siamo venuti <strong>per</strong><br />

adorarlo». Ed Erode disse: «Andate e cercate; e se lo trovate fatemelo sa<strong>per</strong>e affinché anch’io vada ad<br />

adorarlo. I magi se ne andarono. Ed ecco la stella che avevano visto in Oriente li precedeva finché giunsero<br />

alla grotta, e si fermò in capo alla grotta.<br />

31


� Non al denaro non all’amore né al cielo<br />

Anno di pubblicazione<br />

1971<br />

Casa discografica<br />

Produttori Associati<br />

Produzione<br />

Danè - Bardotti<br />

1. DORMONO SULLA COLLINA<br />

2. UN MATTO (dietro ogni scemo c’è un villaggio)<br />

3. UN GIUDICE<br />

4. UN BLASFEMO (dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato)<br />

5. UN MALATO DI CUORE<br />

6. UN MEDICO<br />

7. UN CHIMICO<br />

8. UN OTTICO<br />

9. IL SUONATORE JONES<br />

Dopo aver ottenuto l’avallo di Fernanda Pivano, storica traduttrice di Masters,<br />

<strong>Fabrizio</strong> <strong>per</strong>fezionò i testi che si riveleranno, come la stessa Pivano ha confermato,<br />

decisamente più belli degli originali. Le figure scelte vengono raccontate con una tale<br />

partecipazione da sembrare veramente figlie della penna di <strong>De</strong> <strong>André</strong>. I testi di Masters<br />

furono lavorati e adattati alle musiche e, in alcuni casi, modificati o ampliati. I <strong>per</strong>sonaggi<br />

scelti sono molto “deandreiani”, dal giudice carogna tratteggiato in “Un giudice”, che riporta<br />

alle atmosfere de “Il gorilla”, ad “Un blasfemo”, arrabbiato non tanto con Dio quanto con i<br />

preti. “Un matto” propone invece la figura del diverso, che in quanto tale viene attaccato<br />

dal branco <strong>per</strong> dare sfogo alle proprie frustrazioni. Una galleria di sconfitti descritti da<br />

<strong>Fabrizio</strong> con una vena quasi commovente. E anche in “Non al denaro non all’amore né al<br />

cielo” ritornano i riferimenti all’infanzia passata nelle campagne piemontesi. Letto a 18 anni<br />

<strong>per</strong> la prima volta e riletto nel 1970, l’“Antologia di Spoon River” ha colpito il cantautore<br />

genovese <strong>per</strong> la sincerità dei suoi <strong>per</strong>sonaggi, <strong>per</strong> il modo in cui essi non hanno più niente<br />

da aspettarsi e non hanno più nulla da pensare; così che parlano come da vivi non sono<br />

mai stati capaci di fare<br />

Una nota particolare <strong>per</strong> le musiche, curate dall’allora giovanissimo Nicola Piovani,<br />

destinato ad una luminosa carriera. A dirigere le o<strong>per</strong>azioni Roberto Danè, che insieme a<br />

Sergio Bardotti ne curò la produzione agli studi Ortophonic di Roma. Proprio Bardotti<br />

completerà il testo di “Susan dei marinai”, che <strong>Fabrizio</strong> regalerà al suo amico Michele e,<br />

qualche tempo dopo, fu ancora Bardotti, durante una cena in un ristorante sardo a Milano,<br />

a dare una mano a Sergio Bernardini <strong>per</strong> convincere <strong>Fabrizio</strong> ad esibirsi dal vivo. La<br />

collaborazione di Sergio Bardotti con <strong>Fabrizio</strong> si limiterà a “Non al denaro non all’amore ne<br />

al cielo”; intatta rimarrà la loro amicizia e stima, nonostante la saltuaria frequentazione.<br />

Crescevano nel frattempo le richieste di avere <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> dal vivo, ma la risposta<br />

era <strong>per</strong> tutti la stessa. Anche Mina e Charles Aznavour un giorno tentarono di convincerlo<br />

ad esibirsi sul palco. Il problema era di duplice natura: la prima era che <strong>Fabrizio</strong> non<br />

voleva salire su un palcoscenico <strong>per</strong>ché, a suo dire, non voleva stare sopra nessuno.<br />

L’altra motivazione era di carattere fisico, difatti <strong>Fabrizio</strong> si vergognava <strong>per</strong>ché aveva un<br />

problema alla palpebra sinistra, la quale gli rimaneva sull’occhio <strong>per</strong> metà. Una volta<br />

risolto questo problema chirurgicamente, <strong>Fabrizio</strong> comincerà ad esibirsi dal vivo.<br />

32


- Idrogeno e ossigeno<br />

“Non al denaro non all’amore né al cielo”, terzo concept-album di <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong><br />

<strong>André</strong>, contiene la storia del chimico, il quale, morto in un es<strong>per</strong>imento non riuscito,<br />

dall’oltretomba si chiede come facciano gli esseri umani a legarsi fra di loro, proprio come<br />

fanno l’ossigeno e l’idrogeno presenti nel mare. Al chimico appare infatti assai strana la<br />

pacifica convivenza di questi due elementi che non a caso danno vita all’acqua, e che in<br />

altre situazioni potrebbero dar luogo ad esplosioni violentissime: egli arriva <strong>per</strong>ò a capire<br />

che l’ossigeno e l’idrogeno si legano tramite leggi naturali, gli uomini attraverso l’amore.<br />

- L’idrogeno<br />

L’idrogeno è il primo elemento della tavola <strong>per</strong>iodica, avendo un solo protone nel<br />

nucleo e un solo elettrone nel sottolivello 1s. Non si trova<br />

libero in natura, tranne che nelle emanazioni vulcaniche,<br />

ma è l’elemento più abbondante nell’universo, essendo il<br />

principale costituente delle stelle e della materia<br />

interstellare; nel sole, infatti, costituisce il 90% della<br />

massa totale. L’idrogeno naturale è una miscela di tre<br />

isotopi costituita <strong>per</strong> il 99,9% da protio ( 1 H), <strong>per</strong> lo 0,66%<br />

da deuterio ( 2 H, simbolo D) e da trizio ( 3 H, simbolo T), che<br />

è l’isotopo radioattivo i cui nuclei si decompongono<br />

spontaneamente emettendo radiazioni β. Combinato,<br />

invece, l’idrogeno è assai diffuso: esso costituisce lo<br />

0,76% della crosta terrestre e l’11,2% dell’acqua, che è il<br />

suo principale composto. È, inoltre, il componente<br />

fondamentale di tutti i composti organici e della materia<br />

vivente; basti ricordare che nel corpo umano è presente<br />

nella misura del 10%.<br />

L’idrogeno a tem<strong>per</strong>atura ambiente è un gas<br />

incolore, inodore e insapore. È costituito da molecole<br />

formate da due atomi tenuti insieme da un forte legame<br />

covalente. L’idrogeno molecolare è il più leggero dei gas;<br />

rispetto all’aria pura, ad esempio, pesa ben quattordici<br />

volte meno. In laboratorio si ottiene generalmente puro,<br />

facendo reagire lo zinco metallico con un acido forte, usando l’apparecchio di Kipp. Come<br />

si vede nella figura, nella boccia 2 vengono immessi dei pezzetti di zinco, mentre dalla<br />

boccia 1 si lascia colare in 3 acido cloridrico o solforico, il quale, venendo a contatto con lo<br />

zinco della boccia 2, produce idrogeno. La figura mostra ciò che avviene a rubinetto<br />

chiuso: l’idrogeno comprime l’acido nella boccia 3 facendolo risalire in 1 e interrompendo<br />

così il contatto tra l’acido e lo zinco.<br />

Zn + 2 HCl → ZnCl2 + H2 ↑<br />

Industrialmente si prepara facendo passare del vapore surriscaldato su carbone coke,<br />

oppure facendo reagire il metano (CH4) con l’acqua (reforming del metano).<br />

a 1000 °C<br />

C + H2O → Co + H2 ↑<br />

a 850 °C<br />

CH4 + H2O → CO + 3 H2 ↑<br />

33


Numero atomico 1<br />

Massa atomica 1,008<br />

Configurazione elettronica 1s<br />

Potenziale di ionizzazione 13,59 eV<br />

Affinità elettronica 0,752 eV<br />

Elettronegatività 2,1<br />

Punto di fusione -259,23 °C<br />

Punto di ebollizione -252,77 °C<br />

- I composti e gli usi<br />

L’idrogeno nei suoi composti compare in tre stati di ossidazione: +1, 0 e –1. Con lo<br />

stato di ossidazione +1 lo troviamo nella maggior parte dei suoi composti, nei quali si trova<br />

combinato con un elemento più elettronegativo. A parte l’acqua, i composti più importanti<br />

che lo contengono sono il metano (CH4) e tutti gli altri idrocarburi, l’ammoniaca (NH3), gli<br />

acidi inorganici e gli idrossidi. Con lo stato di ossidazione –1 lo troviamo combinato con gli<br />

elementi meno elettronegativi con cui forma gli idruri (molto usati nelle sintesi organiche)<br />

tra cui i più importanti sono: l’idruro di sodio (NaH), l’idruro di litio e alluminio (LiAlH4), i<br />

silani e i borani. Con lo stato di ossidazione 0 lo troviamo nella molecola biatomica H2.<br />

Come elemento allo stato gassoso lo si usava in passato <strong>per</strong> riempire dirigibili e<br />

palloni aerostatici, ma a causa della sua alta infiammabilità è stato in seguito sostituito<br />

dall’elio. Industrialmente la maggior parte dell’idrogeno oggi prodotto è impiegata <strong>per</strong> la<br />

sintesi diretta dell’ammoniaca, dell’acido cloridrico, del metanolo e <strong>per</strong> la trasformazione<br />

degli oli vegetali in margarina. Puro, allo stato liquido, l’idrogeno generalmente viene<br />

utilizzato in miscela con l’ossigeno liquido come propellente <strong>per</strong> razzi vettori che mettono<br />

in orbita i satelliti artificiali. Come deuterio è impiegato <strong>per</strong> preparare l’”acqua pesante”<br />

(D2O), utilizzata come moderatore dei neutroni nei reattori nucleari, mentre come trizio<br />

trova <strong>sempre</strong> più largo impiego in es<strong>per</strong>imenti di radiochimica, di biologia e di medicina, in<br />

quanto questo isotopo presenta una massa ben tre volte maggiore di quella del protio e,<br />

quindi, le differenze tra le proprietà fisiche e chimiche dei composti dell’idrogeno e dei<br />

composti marcati con trizio sono facilmente riscontrabili. L’idrogeno viene<br />

commercializzato in bombole di acciaio, alla pressione di 150 atm, contraddistinte da una<br />

fascia di colore rosso nella parte su<strong>per</strong>iore.<br />

- L’ossigeno<br />

L’ossigeno è il primo elemento del sesto gruppo del sistema <strong>per</strong>iodico ed è<br />

caratterizzato dalla presenza di sei elettroni nel suo livello più esterno. In natura è<br />

costituito da una miscela di tre isotopi: 16 O, 17 O, 18 O, di cui il primo, essendo presente nella<br />

misura del 99,8%, è l’isotopo predominante. Sulla crosta terrestre l’ossigeno, combinato<br />

principalmente sotto forma di ossidi, di carbonati e di silicati, è l’elemento più abbondante<br />

e ne costituisce circa il 50% in peso. Esso si trova, inoltre, allo stato combinato nell’acqua,<br />

in numerosi acidi, nei sali ossigenati e nei composti organici. Nell’aria atmosferica è il<br />

secondo componente in ordine di abbondanza e, nonostante le grandi quantità consumate<br />

dalla respirazione degli organismi viventi, dalla putrefazione, dalle combustioni e dalla<br />

graduale ossidazione delle rocce della crosta terrestre, la sua concentrazione media<br />

rimane praticamente costante.<br />

Il suo consumo viene quasi completamente compensato dall’ossigeno che viene<br />

immesso nell’atmosfera dai processi metabolici delle piante. È ben noto, infatti, il suo ruolo<br />

nella respirazione delle piante e degli animali. Nell’uomo l’ossigeno inspirato dai polmoni<br />

dall’atmosfera viene assorbito dall’emoglobina del sangue e inviato alle cellule che lo<br />

utilizzano <strong>per</strong> la respirazione dei tessuti. Durante la respirazione i carbonati vengono<br />

ossidati fornendo così l’energia richiesta <strong>per</strong> l’attività cellulare. Poiché l’ossigeno è un<br />

34


ossidante lento, è necessario l’intervento di opportuni catalizzatori biologici (enzimi) <strong>per</strong><br />

accelerare le reazioni ossidative, che così possono avvenire alla tem<strong>per</strong>atura corporea.<br />

A tem<strong>per</strong>atura ambiente l’ossigeno è un gas costituito da molecole biatomiche che<br />

soltanto in determinate condizioni (sotto l’azione di scariche elettriche) si trasforma, sia<br />

pure parzialmente, in ozono (O3), che è una sua forma allotropica instabile tendente a<br />

trasformarsi in ossigeno biatomico. Allo stato libero l’ossigeno è un gas incolore, inodore e<br />

scarsamente solubile in acqua, ma comunque in misura sufficiente da consentire le attività<br />

respiratorie degli organismi acquatici.<br />

A tem<strong>per</strong>atura ambiente è assai poco reattivo e gli elementi che in tali condizioni si<br />

combinano con esso sono relativamente pochi. Tale combinazione viene accelerata dalla<br />

presenza di tracce di umidità. A tem<strong>per</strong>atura elevata l’ossigeno diventa fortemente<br />

reattivo, così che, ad esempio, una spira rovente di ferro in atmosfera di ossigeno puro<br />

brucia con fiamma abbagliante trasformandosi in Fe2O3. Nella maggior parte dei composti<br />

(ossidi, acidi, sali, ecc.) il suo stato di ossidazione è –2, mentre nei <strong>per</strong>ossidi, come H2O2 e<br />

Na2O2, ha numero di ossidazione –1. Soltanto con il fluoro, che è l’unico elemento che lo<br />

su<strong>per</strong>a in elettronegatività, ha numero di ossidazione +2 (fluoruro di ossigeno, OF2).<br />

- La preparazione e gli usi<br />

In laboratorio lo si ottiene in piccole quantità <strong>per</strong> azione del calore su ossidi o sali<br />

minerali ricchi di ossigeno come il clorato di potassio (KClO3) e l’ossido di mercurio (HgO).<br />

2 KClO3 → 2 KCl + 3 O2 ↑<br />

2 HgO → 2 Hg + O2 ↑<br />

Industrialmente veniva largamente preparato mediante l’elettrolisi dell’acqua (soluzioni al<br />

20-30% di NaOH o KOH), ma tale metodo è stato del tutto soppiantato a causa degli<br />

elevati costi dell’energia elettrica e sostituito dalla distillazione frazionata dell’aria liquida,<br />

che fornisce ossigeno puro con un titolo che su<strong>per</strong>a il 95%.<br />

L’ossigeno è molto usato come comburente nei cannelli ossidrici e ossiacetilenici e<br />

negli apparecchi <strong>per</strong> la respirazione, sia <strong>per</strong> gli usi clinici che <strong>per</strong> i respiratori usati da<br />

sommozzatori, aviatori e astronauti. I maggiori consumi (63% circa) si hanno comunque<br />

nelle acciaierie <strong>per</strong> i processi di conversione della ghisa in acciaio. Notevoli quantità di<br />

ossigeno vengono oggi assorbite nell’industria missilistica, che lo utilizza come<br />

comburente <strong>per</strong> i motori <strong>per</strong> i razzi. Esso viene commercializzato in bombole di acciaio che<br />

usano il bianco come colore distintivo. A causa della loro limitata capacità, <strong>per</strong>ò, questi<br />

recipienti sono <strong>sempre</strong> più spesso sostituiti da serbatoi di grandi dimensioni, nei quali<br />

l’ossigeno è contenuto allo stato liquido. Sotto forma di ozono, grazie al suo elevato potere<br />

ossidante, è usato come agente sbiancante, disinfettante e nella potabilizzazione delle<br />

acque. Quest’ultimo uso, nonostante il costo più elevato, viene preferito alla clorazione,<br />

che dà all’acqua un cattivo sapore.<br />

Numero atomico 8<br />

Massa atomica 15,999<br />

Configurazione elettronica 2s 2 2p 4<br />

Potenziale di prima ionizzazione 13,61 eV<br />

Affinità elettronica 1,48 eV<br />

Elettronegatività 3,5<br />

Punto di fusione -218,8 °C<br />

Punto di ebollizione -182 °C<br />

35


- La struttura dell’acqua<br />

L’acqua è il composto più importante dell’idrogeno e dell’ossigeno e le sue proprietà<br />

fisico-chimiche ne fanno una sostanza dalle caratteristiche uniche. La sua molecola è<br />

costituita da due atomi di idrogeno e uno di<br />

ossigeno tenuti insieme da legami covalenti<br />

polari formanti un angolo di circa 105°.<br />

Tale geometria conferisce polarità alle<br />

molecole. A causa di tale polarità le molecole<br />

dell’acqua tendono ad accorciarsi in gruppi di<br />

molecole, tra le quali si instaurano veri e propri<br />

legami: legami a idrogeno. La forza di<br />

questi legami dipende dallo stato fisico<br />

dell’acqua. Nello stato solido tali legami<br />

<strong>per</strong>mettono ad ogni molecola di associarsi<br />

saldamente con altre quattro molecole<br />

secondo direzioni ben precise, che<br />

conferiscono al “solido ghiaccio” una<br />

disposizione geometrica tetraedrica che risulta rigida ma con ampi spazi vuoti. La fusione<br />

del ghiaccio porta l’acqua allo stato liquido, nel quale i legami a idrogeno <strong>per</strong>dono la loro<br />

rigidità, con conseguente collasso del reticolo cristallino. In tal modo le molecole si<br />

avvicinano maggiormente, occupando uno spazio minore, così che il liquido acqua diventa<br />

più denso del ghiaccio di circa il 10%. Lo stato gassoso, infine, è caratterizzato<br />

dall’assenza quasi totale dei legami a idrogeno tra le molecole, che, libere di muoversi,<br />

tendono a occupare l’intero volume a loro disposizione.<br />

- Le proprietà<br />

Chimicamente l’acqua è un composto molto stabile, a tem<strong>per</strong>atura su<strong>per</strong>iore ai<br />

2000 °C la sua decomposizione negli elementi costituenti non su<strong>per</strong>a il 2%. Tale stabilità<br />

è, ovviamente, dovuta ai forti legami covalenti tra gli atomi di ossigeno e di idrogeno.<br />

L’acqua reagisce con i metalli alcalini (metalli del 1° gruppo):<br />

2 Na + 2 H2O → 2 NaOH + H2 ↑<br />

Con gli ossidi ionici dei metalli più reattivi l’acqua reagisce fornendo i rispettivi idrossidi:<br />

CaO + H2O → Ca(OH)2<br />

mentre con gli ossidi dei non metalli (anidridi) forma gli ossiacidi:<br />

SO3 + H2O → H2SO4<br />

L’acqua, inoltre, è caratterizzata da un elevato potere solvente collegato alla<br />

polarità delle sue molecole. In conformità alla<br />

regola empirica “il simile scioglie il suo simile”, essa<br />

è in grado di sciogliere le sostanze dotate di legami<br />

ionici, o parzialmente ionici, nonché tutte quelle<br />

sostanze in grado di formare con essa legami a<br />

idrogeno, come ad esempio ammoniaca, alcool<br />

etilico, carboidrati, ecc.. L’acqua è in grado anche<br />

di sciogliere quantità più o meno piccole di<br />

molecole gassose come la CO2 e l’O2. La<br />

possibilità che ha l’acqua di sciogliere l’ossigeno è<br />

importante <strong>per</strong> gli animali acquatici, che usano<br />

36


speciali membrane situate nelle branchie <strong>per</strong> assumere l’ossigeno disciolto, indispensabile<br />

alla loro respirazione.<br />

Poiché è molto facile ottenere acqua di elevata purezza, essa viene usata come<br />

sostanza di riferimento <strong>per</strong> definire alcune grandezze chimico-fisiche come la densità (che<br />

è una grandezza derivata, si riferisce alla massa di 1 ml di acqua, che a 4 °C misura 1 g),<br />

le scale termometriche (tutte riferite alle tem<strong>per</strong>ature di congelamento e di ebollizione<br />

dell’acqua che sono rispettivamente 0 °C e 100 °C nella scala Celsius), la caloria (che è la<br />

quantità di calore necessaria a innalzare di 1 °C un grammo d’acqua) e il pH (che<br />

rappresenta il grado di acidità di una sostanza e fa, anch’esso, riferimento all’acqua pura,<br />

alla quale viene assegnato il valore 7 che indica la neutralità).<br />

- La classificazione delle acque<br />

In natura l’acqua costituisce circa il 70% della su<strong>per</strong>ficie terrestre; infatti, i tre quarti<br />

di essa sono co<strong>per</strong>ti da oceani, mari, laghi e fiumi. Sotto forma di vapore (vapor d’acqua) è<br />

contenuta nell’atmosfera, dove, condensandosi, forma prima le nuvole e poi forma neve,<br />

grandine, brina e rugiada. Non è da sottovalutare, inoltre, la quantità di acqua che scorre<br />

al di sotto della su<strong>per</strong>ficie terrestre (acque sotterranee). Esiste un vero e proprio ciclo<br />

dell’acqua, che attraverso le fasi di evaporazione, condensazione, precipitazione e<br />

scorrimento passa ininterrottamente dalla su<strong>per</strong>ficie terrestre all’aria atmosferica e di<br />

nuovo alla su<strong>per</strong>ficie terrestre. È evidente che tale ciclo viene fortemente influenzato da<br />

diversi fattori ambientali, quali la tem<strong>per</strong>atura, i venti, l’orografia, la distanza dal mare,<br />

ecc.. Le acque si distinguono secondo la provenienza (acque profonde, sorgive, fluviali,<br />

lacustri, marine) e le utilizzazioni (acque minerali, potabili, industriali, agricole). <strong>De</strong>lla prima<br />

classificazione si occupano principalmente i geologi e i naturalisti, della seconda i chimici.<br />

- Acque minerali<br />

Col termine “acque minerali” vengono classificate quelle acque naturali, di fonte o<br />

sorgente, che contengono disciolti meno di 0,1 g/l di sali e che possono anche contenere<br />

disciolti gas come CO2 e H2S. In base al contenuto possono ulteriormente essere<br />

classificate in acque da bibita e in acque da bagno.<br />

Acque da bibita Acque oligominerali (residuo salino a 180 °C minore di 0,20%)<br />

Acque mediominerali (residuo salino a 180 °C compreso tra lo<br />

0,20% e l’1%)<br />

Acque minerali (residuo salino a 180 °C su<strong>per</strong>iore all’1%): salse,<br />

sulfuree, arsenicali, ferruginose, bicarbonate, solfate<br />

Acque da bagno Acque fredde: salse, sulfuree, bicarbonate (t < 20 °C)<br />

Acque ipotermali: salse, sulfuree, bicarbonate (t = 20-30 °C)<br />

Acque termali: salse, sulfuree, solfate (t = 30-40 °C)<br />

Acque termali: salse, sulfuree, bicarbonate, solfate (t > 40 °C)<br />

Comunemente il contenuto salino di un’acqua è espresso in termini di “durezza”,<br />

intendendo <strong>per</strong> durezza di un’acqua la quantità di sali di Ca e Mg in essa contenuta. La<br />

durezza si esprime in “gradi francesi”: un grado francese (1 °f) di durezza corrisponde a 10<br />

mg/l di CaCO3.<br />

- Acque potabili<br />

Un’acqua <strong>per</strong> essere definita potabile deve essere limpida, incolore e inodore,<br />

aerata e di gusto gradevole, deve avere un determinato contenuto salino, deve essere<br />

priva di sostanze tossiche e non deve contenere batteri o virus che possano procurare<br />

gravi malattie infettive. Per la legge italiana il <strong>contro</strong>llo delle acque potabili deve essere<br />

37


effettuato dai laboratori provinciali di igiene e profilassi. Un’acqua non potabile può essere<br />

resa tale sottoponendola ad alcuni particolari trattamenti fisici o chimici, tra cui la filtrazione<br />

(serve <strong>per</strong> chiarificare le acque torbide mediante l’uso di filtri particolari di ghiaia e sabbia),<br />

la sterilizzazione con radiazioni (serve <strong>per</strong> rendere sterili mediante l’uso di raggi<br />

ultravioletti, o raggi X, o γ), l’addolcimento (diminuisce il grado di durezza di acque molto<br />

dure) o la sterilizzazione con reagenti chimici (l’uso di reagenti chimici come cloruro di<br />

calce, cloro gassoso o di ipocloriti rende le acque sterili <strong>per</strong> l’effetto batteriostatico del<br />

cloro: tali sostanze <strong>per</strong>ò hanno il difetto di alterare il sapore e l’odore dell’acque rendendoli<br />

sgradevoli).<br />

Sostanze Valori max consentiti<br />

CaO 120 mg/l (p.p.m.)<br />

MgO 40 mg/l (p.p.m.)<br />

Residuo fisso a 180 °C 300-500 mg/l (p.p.m.)<br />

Sostanze organiche (Kubel) 2,5 mg/l (p.p.m.)<br />

Solfati espressi in SO3<br />

100 mg/l (p.p.m.)<br />

Nitrati espressi in N2O5<br />

27 mg/l (p.p.m.)<br />

Cloruri espressi in Cl 35 mg/l (p.p.m.)<br />

Durezza totale 32 °f<br />

Ammoniaca Assente<br />

Nitriti Assenti<br />

Fosfati Tracce<br />

- Acque industriali e agricole<br />

Nell’industria l’acqua interviene in numerosi processi: <strong>per</strong> alimentare le caldaie di<br />

quegli impianti che utilizzano il vapore; <strong>per</strong> il raffreddamento di alcuni impianti che<br />

lavorano a elevate tem<strong>per</strong>ature; <strong>per</strong> alimentare quei processi dove l’acqua rappresenta<br />

una vera e propria materia prima. Pertanto, le acque impiegate nei vari processi industriali<br />

debbono possedere requisiti che possono differire da industria a industria: le lavanderie<br />

richiedono acqua con minima durezza, mentre l’acqua <strong>per</strong> le industrie tessili deve risultare<br />

assolutamente priva di ferro, manganese e sostanze organiche; l’acqua <strong>per</strong> la cartiere non<br />

deve contenere né ferro né manganese o calcio e deve essere esente da ogni flora<br />

batterica; <strong>per</strong> gli zuccherifici si richiede acqua priva di solfati, carbonati e nitrati e così via.<br />

L’acqua destinata ad alimentare caldaie a vapore deve essere priva di sali incrostanti e<br />

corrosivi, <strong>per</strong>tanto deve possedere una durezza molto piccola o nulla. Il calcare, infatti, è il<br />

principale e più <strong>per</strong>icoloso responsabile delle incrostazioni anche dei più comuni<br />

elettrodomestici (scaldabagno, ferro a vapore, ecc.).<br />

In agricoltura l’acqua esercita un ruolo vitale; non è possibile, infatti, alcuno<br />

sfruttamento del suolo senza un adeguato e razionale sistema di irrigazione. Per tale uso<br />

l’acqua non deve contenere elevate concentrazioni di quelle sostanze che risultano nocive<br />

alle colture come lo ione Na + e lo ione Cl - , che provocherebbero profonde alterazioni del<br />

terreno. Anche <strong>per</strong> l’allevamento del bestiame è richiesta acqua di elevata purezza, con<br />

requisiti del tutto simili a quelli richiesti <strong>per</strong> l’acqua potabile.<br />

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� Storia di un impiegato<br />

Anno di pubblicazione<br />

1973<br />

Casa discografica<br />

Produttori Associati<br />

Produzione<br />

Danè<br />

1. INTRODUZIONE<br />

2. CANZONE DEL MAGGIO<br />

3. LA BOMBA IN TESTA<br />

4. AL BALLO MASCHERATO<br />

5. SOGNO NUMERO DUE<br />

6. LA CANZONE DEL PADRE<br />

7. IL BOMBAROLO<br />

8. VERRANNO A CHIEDERTI DEL NOSTRO AMORE<br />

9. NELLA MIA ORA DI LIBERTÀ<br />

Nel 1972 iniziano i lavori <strong>per</strong> il nuovo album. I collaboratori sono i medesimi:<br />

Roberto Danè è il produttore, Nicola Piovani curerà gli arrangiamenti e Giuseppe<br />

Bentivoglio lavorerà insieme a <strong>De</strong> <strong>André</strong> alla parte testuale. <strong>Fabrizio</strong>, anche <strong>per</strong>ché in un<br />

momento di crisi <strong>per</strong>sonale, non impedirà l’eccessiva politicizzazione dell’album. Ciò farà<br />

nascere numerose polemiche, anche <strong>per</strong>ché sino ad allora <strong>De</strong> <strong>André</strong>, nei suoi testi, aveva<br />

preferito l’allegoria al coinvolgimento politico diretto. Se consideriamo il caldissimo clima<br />

politico dell’epoca, “Storia di un impiegato” acquisisce una sua non trascurabile necessità.<br />

Per molti aspetti è una risposta, come <strong>sempre</strong> molto <strong>per</strong>sonale, alla domanda di<br />

coinvolgimento che girava nell’aria. Certamente furono decisive anche le frequentazioni di<br />

allora. Notevole il lavoro compiuto nella parte musicale dallo stesso <strong>De</strong> <strong>André</strong> e da Piovani<br />

(coautore delle musiche), mentre i testi soffrono di una certa prolissità. Nonostante le<br />

evidenti “intenzioni” politiche, che emergono con particolare intensità in pezzi come<br />

“Canzone del maggio” e “Nella mia ora di libertà”, l’esito più alto è una canzone d’amore:<br />

“Verranno a chiederti del nostro amore”. Era dedicata a Roberta, la donna alla quale<br />

<strong>Fabrizio</strong> fu legato <strong>per</strong> circa due anni da una relazione molto sofferta, cui pose fine una<br />

volta resosi conto di avere a che fare con una di quelle “piccole femmine agghindate” dalle<br />

quali aveva <strong>sempre</strong> cercato di fuggire.<br />

“Storia di un impiegato”, registrato negli studi Ortophonic di Roma, verrà pubblicato<br />

nel 1973 e segnerà la fine della collaborazione con Nicola Piovani e Giuseppe Bentivoglio,<br />

che, nonostante le attestazioni di stima di <strong>De</strong> <strong>André</strong>, manterrà un atteggiamento risentito<br />

nei suoi confronti. In questo concept-album ci sono le prime inclusioni di strumenti<br />

elettronici. È comunque uno degli album più ideologici, proprio <strong>per</strong> questo, come<br />

affermava il cantautore, più penalizzato. “Il bombarolo” narra di un giovane impiegato<br />

trentenne che, non potendone più dei giochi di potere e dell’oppressione, decide di far<br />

saltare in aria il Parlamento: il tentativo, fortunatamente, non funzionerà. Questi brano ed<br />

altri molto forti contenuti in “Storia di un impiegato”, come già detto, costeranno a <strong>Fabrizio</strong><br />

<strong>De</strong> Andrè la censura Rai e il pedinamento della Squadra 50 dei servizi segreti. Il geniale<br />

cantautore viene così accusato dalla destra di eversione e dalla sinistra di qualunquismo,<br />

ma <strong>Fabrizio</strong> non ha mai amato le etichette, ha <strong>sempre</strong> detto ciò che ha pensato senza<br />

doversi preoccupare delle reazioni dei benpensanti.<br />

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- Lo stragismo politico dopo il ‘68<br />

Dopo aver creato due album ruotanti attorno ai Vangeli apocrifi e ad un’o<strong>per</strong>a<br />

letteraria, <strong>Fabrizio</strong> ha sentito l’esigenza di creare un lavoro su sé stesso, sulla sua<br />

ideologia; <strong>per</strong> questo è uscito “Storia di un impiegato”, cronistoria del ’68. L’impiegato è<br />

colui che accetta <strong>per</strong> tutta la vita il compromesso, l’umiliazione (anche la più piccola) e la<br />

semplicità; proprio <strong>per</strong> questo motivo ad un certo punto esplode e da bravo servitore dello<br />

Stato diviene terrorista ed incappa nella macchina della dis<strong>per</strong>azione. Per questo motivo<br />

“Storia di un impiegato” mi ha spinto a fare un quadro generale del terrorismo, e più in<br />

particolare dello stragismo, di matrice politica conseguente al ’68 e ad analizzare i vari<br />

attentati che hanno misteriosamente macchiato la storia del nostro Paese.<br />

- Il quadro generale<br />

Il movimento di protesta del Sessantotto fu <strong>per</strong>ò attraversato, durante e dopo, da<br />

forme di violenza: intimidazioni, distruzioni e atti di vandalismo vero e proprio ai danni di<br />

negozi, luoghi pubblici e università. Tutto ciò era quanto appariva agli occhi di tutti.<br />

Evidentemente, <strong>per</strong>ò, anche se non ben valutata, vi era una novità: l’idea della violenza<br />

come legittima arma politica era entrata nella società italiana. Così, mentre l’attenzione era<br />

richiamata da episodi di intem<strong>per</strong>anza delle sinistre giovanili, studentesche e o<strong>per</strong>aie, più<br />

nascostamente si stava organizzando una seconda forma di violenza, addirittura armata,<br />

proveniente dagli ambienti conservatori della destra<br />

neofascista e dei servizi segreti di Stato, violenza cui anche le<br />

formazioni estremistiche finirono ben presto <strong>per</strong> aderire.<br />

La prima manifestazione di violenza armata avvenne il 12<br />

dicembre 1969, quando nel salone della Banca Nazionale<br />

dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, esplose una<br />

bomba ad alto potenziale, che provocò una strage: sedici morti<br />

e ottantotto feriti. Gli elementi che si riuscirono ad accertare<br />

nel corso degli anni consolidarono la convinzione<br />

che si fosse trattato di un’azione terroristica maturata negli<br />

ambienti dell’estrema desta neofascista. Era stato, in<br />

sostanza, il tentativo di gettare il Paese nel caos e di provocare<br />

una spirale di violenza che creasse le condizioni di una<br />

svolta autoritaria. L’obiettivo era chiaro: bloccare la spinta a<br />

sinistra emersa nella società italiana nel 1968 e un<br />

movimento o<strong>per</strong>aio che, nel 1969, si era rivelato forte e maturo. La strategia della<br />

tensione, inaugurata a piazza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo <strong>per</strong> molti anni una<br />

costante nella cronaca politica del nostro Paese. Una lunga serie di stragi e di violenze<br />

compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e neonaziste come Avanguardia<br />

Nazionale, Ordine Nuovo e Ordine Nero, avrebbe insanguinato le città italiane,<br />

intrecciandosi a manovre preparatorie di azioni golpiste.<br />

Nel corso degli anni Settanta l’attacco allo Stato fu <strong>per</strong>ò sferrato anche da un<br />

estremismo di segno opposto. Al terrorismo “nero” si aggiunse infatti il terrorismo praticato<br />

da organizzazioni clandestine che si proclamavano comuniste (Nuclei Armati Proletari,<br />

Brigate Rosse, Prima Linea). Se i terroristi “neri” si muovevano tra stragi e preparativi<br />

golpisti, quelli “rossi” preferivano gli attentati individuali <strong>contro</strong> bersagli scelti <strong>per</strong> il loro<br />

significato simbolico: magistrati, poliziotti, giornalisti, dirigenti di azienda, politici. Gli<br />

obiettivi finali delle due azioni eversive, ovviamente, erano divergenti. Gli obiettivi<br />

intermedi, invece, erano simili: destabilizzare la società italiana, provocare una lacerazione<br />

irreversibile del tessuto democratico, far precipitare la situazione verso uno s<strong>contro</strong><br />

frontale e una violenza diffusa. Tali obiettivi non furono <strong>per</strong>ò raggiunti, in quanto la<br />

40


democrazia italiana si dimostrò molto più salda di quanto si pensasse. Le stragi più atroci<br />

tra la folla pacificamente riunita, gli attentati a treni e stazioni pieni di gente non<br />

provocarono le reazioni violente e in<strong>contro</strong>llate che i mandanti si attendevano, pronti<br />

evidentemente ad attuare un’immediata stretta reazionaria. Né, d’altra parte, i terroristi<br />

“rossi” riuscirono mai a costituirsi delle basi di massa e a radicarsi nelle fabbriche. Le loro<br />

parole d’ordine non fecero presa e il passaggio alla lotta armata restò <strong>sempre</strong> una scelta<br />

sostanzialmente individuale.<br />

Ciò <strong>per</strong>mise la premessa della sconfitta dei due terrorismi, ai quali tuttavia ne va<br />

aggiunto un terzo; quello dei servizi segreti dello Stato, che dalle indagini giudiziarie poi<br />

effettuate risultò ben presente e attivo, con complicità non ancora del tutto chiarite. Un<br />

risultato di grande rilievo, comunque, l’azione eversiva lo ottenne: il terrorismo, entrato<br />

ormai nella vita quotidiana, avvelenò la lotta politica e contribuì certamente a far rientrare<br />

la domanda di trasformazione emersa con forza nel 1968, costringendo sulla difensiva<br />

partiti e sindacati e facendo di conseguenza esaurire la spinta a sinistra. La vivacità<br />

politica, il desiderio di partecipazione, la domanda di<br />

rinnovamento e di trasformazione rivoluzionaria, la<br />

contestazione anticapitalistica e anticonsumistica, la<br />

solidarietà con le lotte in corso nel Terzo Mondo, il<br />

socialismo antiautoritario, la voglia di rovesciare il “sistema”<br />

che nel ’68 avevano spinto in piazza <strong>per</strong> la prima volta<br />

grandi masse di giovani e di o<strong>per</strong>ai avevano tuttavia<br />

lasciato un segno profondo. Cambiarono i partiti di sinistra,<br />

soprattutto il PCI, e i sindacati che, pur contestati<br />

vivacemente, continuavano a rimanere punti di riferimento<br />

e interlocutori privilegiati del “movimento”. Nascevano,<br />

specialmente a sinistra, organizzazioni e piccoli gruppi<br />

filocinesi, guevaristi e anarchici, alcuni dei quali, in<br />

particolare Potere O<strong>per</strong>aio e Lotta Continua, avrebbero<br />

agito a lungo come estranei e ostili a tutte le forme<br />

costituzionali e quindi come “extraparlamentari” e “antistituzionali”, nonché come<br />

severamente critici con la sinistra “storica”, ottenendo un certo seguito di militanti,<br />

soprattutto tra i giovani.<br />

La difficile situazione economica non impedì il dialogo politico e culturale, che<br />

venne <strong>per</strong>ò profondamente turbato dai continui episodi di violenza che funestavano il<br />

Paese. Mentre si moltiplicavano i rapimenti delle Brigate Rosse, lo stragismo neofascista<br />

dava luogo a episodi di grande efferatezza, mentre venivano sco<strong>per</strong>ti campi di<br />

addestramento paramilitari e progetti più o meno elaborati <strong>per</strong> l’attuazione di un colpo di<br />

Stato: la strage con otto morti e novantaquattro feriti in piazza della Loggia a Brescia (28<br />

maggio 1874) e un’altra con dodici morti e centocinque feriti <strong>per</strong> un attentato al treno<br />

“Italicus” nei pressi di San Benedetto Val di Sambro sulla linea Bologna-Firenze (4 agosto<br />

1974). Come se tutto ciò non bastasse, nel 1976 furono assassinati due procuratori della<br />

Repubblica: Francesco Coco, ad o<strong>per</strong>a delle Brigate Rosse, e Vittorio Occorsio, ad o<strong>per</strong>a<br />

di Ordine Nuovo.<br />

- 12 dicembre 1969<br />

Milano, ore 16.37: un ordigno, composto da sette chili di tritolo, esplode nel salone<br />

centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Il bilancio è<br />

atroce: diciassette morti e ottantotto feriti.<br />

Roma, ore 16.45: una bomba esplode in un corridoio sotterraneo della sede<br />

centrale della Banca Nazionale del Lavoro, tra via Veneto e via San Basilio: tredici<br />

impiegati dell’istituto rimangono feriti, uno di loro in maniera grave.<br />

41


Roma, ore 17.16: scoppia un ordigno sulla seconda terrazza dell’Altare della Patria,<br />

sul lato che si affaccia sui Fori Im<strong>per</strong>iali: nessuna vittima.<br />

Roma, ore 17.24: un’altra esplosione, <strong>sempre</strong> sulla seconda terrazza dell’Altare<br />

della Patria, ma questa volta dalla parte della scalinata dell’Ara Coeli: nessuna vittima.<br />

Milano: ora imprecisata: un impiegato della Banca<br />

Commerciale Italiana di piazza della Scala trova una borsa<br />

nera e la consegna alla direzione. La borsa contiene un’altra<br />

bomba che non esploderà <strong>per</strong> un difetto di funzionamento del<br />

timer del congegno d’innesco. Misteriosamente, alle 21.30,<br />

l’ordigno viene fatto esplodere dagli artificieri della polizia. È<br />

una decisione a tutt’oggi inspiegabile: distruggendo quella<br />

bomba sono stati <strong>per</strong>si <strong>per</strong> <strong>sempre</strong> indizi preziosissimi. Meno<br />

di cinque anni dopo, a Brescia, il copione dei re<strong>per</strong>ti distrutti si<br />

ripeterà dopo un’altra strage: la strage di piazza della Loggia.<br />

Cinque istruttorie, otto processi, tre piste investigative<br />

battute con scarsi risultati, un alternarsi di sentenze in un<br />

baillame di sedi processuali, oltre trenta anni di silenzi, lacune,<br />

depistaggi, inquinamenti. La vicenda giudiziaria della strage di<br />

piazza Fontana si racchiude in questo elenco negativo di<br />

impotenze e scarsa volontà di cercare la verità. All’inizio del 2000, trentun anni dopo i fatti,<br />

si è a<strong>per</strong>to a Milano l’ottavo processo <strong>per</strong> la strage. Questa volta l’accusa punta a<br />

mandanti dell’estrema destra legati all’ordinovismo veneto con, all’apparenza, solidi legami<br />

con uomini dell’apparato dei servizi segreti americani. Purtroppo, anche in questo caso, il<br />

teorema accusatorio, pur avvicinandosi di molto alla soglia della verità, mostra evidenti<br />

lacune dovute, si sostiene da più parti, all’utilizzo nelle indagini di uomini dei servizi segreti<br />

militari italiani e al contributo di qualche ambiguo pentito, <strong>per</strong>altro ora scomparso dalla<br />

scena. Il processo procede a rilento, anche <strong>per</strong>ché uno dei testi dell’accusa, l’”americano”<br />

Carlo Digilio, l’uomo della CIA, ha subito due ictus, è malato di tumore, soffre di disturbi<br />

della memoria e confonde gli eventi.<br />

- 22 luglio 1970<br />

La “Freccia del Sud”, un treno carico di passeggeri (il direttissimo P.T.), tra cui non<br />

pochi pendolari, deraglia nei pressi della stazione di Gioia Tauro, in provincia di Reggio<br />

Calabria, il 22 luglio 1970: i morti sono sei, cinquanta i feriti. Una commissione d’inchiesta<br />

stabilirà che si tratta di un incidente, anche se diversi bulloni che fissano i binari sulle<br />

traversine, verranno trovati allentati o addirittura svitati. Quattro ferrovieri verranno<br />

incriminati <strong>per</strong> il deragliamento del treno. Sarà solo<br />

dopo molti anni che un’inchiesta più attenta accerterà<br />

che la tragedia di Gioia Tauro non è da addebitarsi alla<br />

fatalità, ma ad un attentato di cui ignoti resteranno <strong>per</strong><br />

<strong>sempre</strong>, anche a causa del troppo tempo trascorso, gli<br />

esecutori e i mandanti. Secondo una versione<br />

corrente, ma mai suffragata da elementi di prova, la<br />

matrice dell’attentato di Gioia Tauro è da collegare con<br />

la rivolta di Reggio Calabria, scoppiata appena otto<br />

giorni prima, il 14 luglio, alla notizia che è Catanzaro la<br />

città designata quale sede dell’appena eletta assemblea regionale. Nata dalla collera<br />

popolare, innescata dallo stato di abbandono in cui versa il Meridione italiano, la rivolta di<br />

Reggio Calabria sarà presto egemonizzata dalla destra estrema.<br />

La rivolta rappresenta l’esplosione del più vasto moto popolare della storia della<br />

Repubblica Italiana. Esplode il 13 luglio 1970, in piena crisi di governo, e dura, pur con<br />

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varia intensità, fino al marzo 1971, con qualche fiammata nel settembre dello stesso anno<br />

e strascichi che arrivano fino al 1973. il motivo scatenante della rivolta è, solo<br />

all’apparenza, banale: la sottrazione a Reggio Calabria del titolo di capoluogo della<br />

regione.<br />

- 31 maggio 1972<br />

Avvertita da una telefonata anonima, una pattuglia dei carabinieri, giunge in località<br />

Peteano, in provincia di Gorizia. La chiamata, arrivata al centralino del pronto intervento<br />

alle 22.35, ha descritto un’auto da <strong>contro</strong>llare: una FIAT 500 che presenta due fori di<br />

pistola sul parabrezza. Insomma un normale <strong>contro</strong>llo. I carabinieri si avvicinano alla<br />

piccola vettura, la esaminano, poi uno di loro cerca di aprire il cofano: l’auto salta in aria.<br />

Collegato al gancio di a<strong>per</strong>tura un ordigno con detonatore a strappo. Muoiono, dilaniati<br />

dall’esplosione, il brigadiere Antonio Ferraro e i carabinieri Donato Poveromo e Franco<br />

Dongiovanni. Restano gravemente feriti il tenente Francesco Speziale e il brigadiere<br />

Giuseppe Zazzaro. Chi ha ordito quella micidiale trappola?<br />

L’inchiesta sulla strage di Peteano rivelerà un’intricata<br />

trama fatta di depistaggi, servizi segreti, vecchi arnesi del<br />

golpismo nostrano, militari infedeli e neofascisti convinti di lottare<br />

<strong>per</strong> la rivoluzione, in realtà solo strumenti di provocazione. <strong>De</strong>lla<br />

strage di Peteano si è autoaccusato una delle più emblematiche<br />

figure del neofascismo italiano: Vincenzo Vinciguerra, condannato<br />

all’ergastolo con sentenza passata in giudicato. Vinciguerra,<br />

senza mai accettare né la qualifica, né i benefici spettanti ad un<br />

collaboratore di giustizia e soprattutto senza rinunciare alla sua<br />

identità, da anni sta ricostruendo l’ambiente e i legami che sono<br />

all’origine dello stragismo italiano.<br />

Una vicenda giudiziaria quanto mai intricata quella relativa<br />

alla strage di Peteano, anche se una vicenda giudiziaria formalmente chiusa, certamente<br />

sul piano delle responsabilità penali. Per la morte dei tre carabinieri abbiamo oggi, infatti,<br />

una delle poche condanne passate in giudicato di tutta la storia dello stragismo italiano.<br />

Ma non è un caso che <strong>per</strong> Peteano si sia giunti a questa conclusione grazie alla decisione<br />

di uno dei responsabili di ammettere le proprie responsabilità. Una scelta che <strong>per</strong><br />

l’estremista Vinciguerra ha avuto il significato di una clamorosa denuncia <strong>contro</strong> il suo<br />

stesso ambiente politico. Per Vinciguerra, infatti, l’ordinovismo veneto, ma più in generale<br />

tutto il mondo dell’estrema destra italiana degli anni Settanta, era inquinato da ben<br />

identificati <strong>per</strong>sonaggi dei corpi dello Stato, ma anche da collegamenti con elementi<br />

dell’intelligence atlantico. E che Vinciguerra avesse ragione lo dimostra la stessa storia<br />

processuale della strage di Peteano, intessuta da continui depistaggi. I principali<br />

depistatori? Alcuni ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che, <strong>per</strong> coprire gli autori del<br />

massacro arrivano a costruire una falsa pista che porta all’arresto ed al processo di alcuni<br />

piccoli malavitosi friulani, completamente estranei alla vicenda. Anche quei depistatori di<br />

professione oggi sono stati processati e condannati. Ma sulla strage di Peteano non tutto è<br />

chiaro. C’è ancora qualcosa da capire.<br />

- 17 maggio 1973<br />

È trascorso un anno dall’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi,<br />

assassinato da un killer davanti alla sua abitazione. Nel cortile della questura di Milano, in<br />

via Fatebenefratelli, si è da poco conclusa una cerimonia in ricordo del funzionario, alla<br />

quale ha partecipato il ministro dell’Interno Mariano Rumor. L’auto del ministro sta<br />

uscendo dal portone centrale, quando un ordigno, scagliato da qualcuno nascosto tra la<br />

folla che si è assiepata davanti all’edificio, semina il terrore; quattro morti e cinquantadue<br />

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feriti. Lo spettacolo è allucinante. L’attentatore viene subito individuato, sottratto ad un<br />

tentativo di linciaggio ed arrestato. È Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico individualista,<br />

seguace delle teorie di Steiner, ma stranamente in stretto contatto con alcuni neofascisti<br />

veneti e, lo si scoprirà dopo, in rapporti con il SID, il servizio segreto militare dell’epoca.<br />

Bertoli, appena giunto in Italia, dopo un lungo soggiorno in Israele, sarà condannato<br />

all’ergastolo con sentenza definitiva. Ma la vicenda della strage di via Fatebenefratelli avrà<br />

un imprevisto sviluppo processuale nella seconda metà degli anni Novanta, quando<br />

verranno processati e condannati alcuni neofascisti veneti, assieme ad un ufficiale con<br />

passioni golpiste, già implicato nella trama della “Rosa dei venti” e ad un alto responsabile<br />

dei servizi segreti militari.<br />

Secondo il giornalista bolognese Carlo Amabile, es<strong>per</strong>to in<br />

misteri d’Italia, l’omicidio del commissario Calabresi, avvenuto il<br />

17 maggio 1972 e la strage davanti alla questura di Milano, hanno<br />

infiniti punti di contatto, tanto da sembrare, addirittura, sanguinosi<br />

e dolorosi fili di una stessa trama. E questo a prescindere dalla<br />

circostanza più rilevante: è cioè che il sedicente anarchico e vero<br />

fascista, amico dei servizi segreti, Gianfranco Bertoli lanciò una<br />

bomba davanti alla questura proprio in occasione<br />

dell’inaugurazione di un busto dedicato al commissario, nel primo<br />

anniversario del suo assassinio. Il fatto che Calabresi sapesse chi<br />

era Bertoli, tanto da custodire in un cassetto della sua scrivania<br />

un ampio fascicolo a lui intestato è forse il fatto più noto. Noti sono anche i legami dello<br />

stesso anarchico con la struttura segreta Gladio. <strong>De</strong>cisamente meno note sono, invece, i<br />

legami di Bertoli con l’estrema destra veneta che comprende tutta una serie di <strong>per</strong>sonaggi<br />

che portano alla strage di piazza Fontana del 1969.<br />

Così come mai del tutto chiarito è lo scopo del viaggio che Calabresi, poco tempo<br />

prima di morire, fa a Trieste, assieme ad un <strong>per</strong>sonaggio che lega assieme proprio<br />

l’estrema destra veneta, la strage di piazza Fontana e Gladio. Calabresi indagava su un<br />

traffico d’armi e <strong>per</strong> questo è stato eliminato? Calabresi, semplice e forse inconsapevole<br />

ingranaggio delle deviazioni statali, scopre di essere stato usato? E da chi? Perché mai<br />

nessun magistrato ha voluto approfondire i legami tra l’omicidio Calabresi e la strage del<br />

1973? Per il caso Calabresi, un presunto innocente è ancora in galera. Per la strage alla<br />

questura di Milano la verità è arrivata. Ma dopo ventisette anni.<br />

- 28 maggio 1974<br />

Sono le 10.00 di una piovosa mattina di maggio quando, con un boato, la tragedia<br />

dilania una piazza di Brescia, la centralissima piazza della Loggia, dove è in corso una<br />

manifestazione sindacale. Nascosto in un cestino dei rifiuti, un ordigno confezionato con<br />

circa un chilo di tritolo, uccide otto <strong>per</strong>sone, ferendone altre centotre. Una strage<br />

tremenda, un massacro insensato che colpisce a freddo una città già da tempo, <strong>per</strong>ò, alle<br />

prese con l’emergere di un estremismo di destra violento e<br />

irrazionale. Dopo la strage di piazza Fontana e quella di via<br />

Fatebenefratelli, l’eccidio di Brescia è il terzo attacco cruento<br />

alla convivenza civile. L’inchiesta appare subito viziata<br />

da uno stranissimo episodio, mai del tutto chiarito: su ordine<br />

del vicequestore (responsabile dell’ordine pubblico nella piazza)<br />

Aniello Diamare, il luogo dell’attentato viene<br />

immediatamente fatto pulire dalle autopompe dei vigili del<br />

fuoco. Questo assurdo lavaggio di piazza della Loggia, messo in<br />

atto prima ancora che un magistrato arrivi sul posto, oltre<br />

a provocare la <strong>per</strong>dita di qualsiasi re<strong>per</strong>to utile alle<br />

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indagini, assomiglia molto, troppo, all’inopinata decisione di far brillare l’ordigno trovato il<br />

12 dicembre 1969, subito dopo la strage di piazza Fontana. Un’inchiesta, quella <strong>per</strong> la<br />

strage di Brescia, che parte subito col piede sbagliato, ma che è destinata a continuare<br />

anche peggio. A tutt’oggi la strage di piazza della Loggia è una strage impunita. Una delle<br />

tante.<br />

Difficile dire se nelle varie inchieste condotte <strong>per</strong> la strage di Brescia a prevalere<br />

siano state le incapacità investigative oppure i giochi truccati di chi quelle indagini doveva<br />

portare avanti. Sta di fatto che dopo sette processi anche <strong>per</strong> questo eccidio non c’è<br />

alcuna verità giudiziaria. Dalla piazza lavata con le autopompe che cancellano ogni<br />

elemento di prova al ruolo dell’ufficiale dei carabinieri Francesco <strong>De</strong>lfino, detto <strong>per</strong> inciso<br />

l’uomo che anni e anni dopo arresterà Balduccio Di Maggio, il grande “accusatore”, non<br />

creduto, di Giulio Andreotti, e finirà implicato nelle trattative <strong>per</strong> il sequestro Soffiantini,<br />

dalla messinscena dell’eliminazione di Giancarlo Esposto fino all’orribile fine di uno dei<br />

maggiori indiziati, Ermanno Buzzi, non ucciso, ma fatto uccidere in carcere: tutto quanto si<br />

è mosso attorno alle istruttorie <strong>per</strong> il massacro di otto <strong>per</strong>sone, altro non è che materiale<br />

inquinato.<br />

- 4 agosto 1974<br />

Sulla linea ferroviaria Firenze- Bologna, in prossimità dell’uscita<br />

dalla lunga galleria appenninica, in località San Benedetto Val di Sambro,<br />

un ordigno ad alto potenziale, a base di termite, esplode in un vagone del<br />

treno “Italicus”, affollato di gente che si sposta <strong>per</strong> le vacanze estive. I<br />

soccorsi, difficilissimi nel buio del tunnel, estraggono dalle lamiere del treno<br />

quattordici morti e quarantaquattro feriti. Si scoprirà, durante la lunga<br />

inchiesta giudiziaria che ancora una volta non è riuscita finora a trovare<br />

alcun colpevole, che la bomba sarebbe dovuta esplodere al centro della<br />

galleria, con un impatto di morte ancora maggiore.<br />

- 2 agosto 1980<br />

Le lancette dell’orologio della sala d’aspetto di seconda classe della stazione di<br />

Bologna si fermano sulle 10.25: è quello l’esatto momento in cui esplode un ordigno ad<br />

altissimo potenziale. La presenza di un treno fermo sul primo binario crea un’onda d’urto<br />

che provoca il crollo dell’intera ala sinistra dell’edificio. Una strage di dimensioni<br />

allucinanti: ottantacinque morti e duecento feriti. È la strage più grave che si sia mai<br />

verificata in Italia, ma anche una strage anomala <strong>per</strong>ché si verifica in un momento politico<br />

diverso e ormai lontano da quello in cui si collocano le altre stragi, quelle degli anni<br />

Settanta. Dopo una serie interminabile di processi, tutti molto indiziari ed ideologici,<br />

conclusisi con esiti alterni, <strong>per</strong> la strage alla stazione di Bologna sono stati condannati con<br />

sentenza definitiva, in quanto esecutori materiali, due esponenti dello spontaneismo<br />

armato neofascista: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che da <strong>sempre</strong> protestano la<br />

loro innocenza. Condannati, ma solo <strong>per</strong> depistaggio, anche il gran maestro della Loggia<br />

P2 Licio Gelli e due militari dei servizi segreti. Anche se sotto il profilo giudiziario, a meno<br />

di un doveroso processo di revisione, la strage di Bologna non può essere annoverata tra<br />

le stragi insolute, a parere di chi scrive è proprio questo orrendo episodio uno dei più<br />

grandi punti interrogativi nella storia dei misteri d’Italia.<br />

Una tormentatissima istruttoria durata sei anni. Cinque gradi di giudizio. Un iter<br />

processuale cominciato nel 1987, a sette anni dall’eccidio e conclusosi in Cassazione, nel<br />

1995, con due code dibattimentali che hanno ancor più indebolito l’impianto accusatorio.<br />

Sta in questi dati sommari la vicenda giudiziaria relativa alla strage alla stazione.<br />

Ciononostante sembrerebbe, almeno a prima vista, che <strong>per</strong> la più tremenda delle stragi<br />

45


che l’Italia abbia mai vissuto sia stato raggiunto un certo grado di verità. Eppure, potrà<br />

sembrare strano, ma così non è.<br />

In primo luogo non esiste alcun<br />

mandante <strong>per</strong> quella bomba nella valigia che<br />

esplose alle 10.23 di un tranquillo sabato di<br />

agosto. A venti anni da quella esplosione non<br />

sappiamo né chi la ordinò, né a che tipo di<br />

strategia rispondesse un simile massacro.<br />

Nessun mandante, quindi, anche <strong>per</strong>ché<br />

Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono<br />

stati condannati con sentenza definitiva solo<br />

come esecutori materiali della strage. Esecutori<br />

<strong>per</strong>ché e <strong>per</strong> conto di chi? Condannati, ma <strong>per</strong><br />

depistaggio due “arnesi” della Loggia P2 e due<br />

ufficiali del SISMI. Tutto qui. Anche il castello<br />

accusatorio, pur confermato dalla corte di<br />

Cassazione, presenta molti buchi: le accuse<br />

<strong>contro</strong> la Mambro e Fioravanti si basano<br />

soltanto sulla parola del solito pentito, un<br />

<strong>per</strong>sonaggio della malavita romana quanto<br />

mai inquietante; il depistaggio attuato dagli<br />

uomini del SISMI (la valigia piena di armi sul treno Taranto-Milano del gennaio 1981) era<br />

un ben strano depistaggio che puntava in realtà a far accusare gli attuali condannati;<br />

nessuna seria indagine è stata mai condotta sui molti collegamenti esistenti tra la strage di<br />

Bologna e quella di Ustica. E questo solo <strong>per</strong> citare gli angoli più bui di questa ennesima<br />

vicenda giudiziaria senza una verità certa.<br />

Una ricostruzione minuziosa e dettagliata di tutte le imprese criminali da loro portate<br />

a termine, l’ammissione, senza reticenze, delle loro responsabilità penali e politiche,<br />

l’espiazione delle condanne che diversi tribunali hanno loro inflitto: Francesca Mambro e<br />

Valerio Fioravanti hanno pagato (ed ancora stanno pagando) i loro conti con la giustizia.<br />

Hanno spiegato come e <strong>per</strong>ché dettero vita ad una banda armata denominata NAR<br />

(Nuclei Armati Rivoluzionari), hanno raccontato come e <strong>per</strong>ché decisero di uccidere<br />

magistrati, poliziotti, pentiti, avversari politici, hanno narrato fin nei minimi particolari le<br />

rapine con cui si autofinanziavano e che spesso finivano in maniera cruenta. E <strong>per</strong> tutti o<br />

fatti loro attribuiti sono stati ampiamente condannati. Una sola imputazione hanno <strong>sempre</strong><br />

respinto con sdegno e veemenza: quella di essere stati gli esecutori della strage alla<br />

stazione di Bologna. Incastrati soltanto sulla base di una quanto mai equivoca<br />

testimonianza di un piccolo malavitoso romano e di un cervellotico teorema giudiziario<br />

sviluppato negli anni, con gli immancabili aggiustamenti, dalla procura di Bologna,<br />

teorema, oltretutto, monco e traballante, Mambro e Fioravanti sono stati condannati con<br />

sentenza definitiva della Cassazione.<br />

Ma sono stati davvero loro? O ci troviamo di fronte ad un evidente errore giudiziario<br />

che, oltre a condannare degli innocenti, lascia a piede libero i veri responsabili della più<br />

grande strage italiana? Attorno all’azione dei NAR sono state costruite dalla magistratura<br />

le teorie più ardite. I NAR braccio armato della Loggia P2. I NAR braccio armato di Cosa<br />

Nostra. Valerio Fioravanti è stato messo in relazione alla massoneria deviata di Licio Gelli,<br />

alla banda della Magliana. Perfino ai servizi segreti. Lo hanno accusato di aver ucciso il<br />

giornalista Mino Pecorelli ed il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella: con il<br />

tempo queste accuse sono miseramente crollate. Resta faticosamente in piedi il terzo lato<br />

del triangolo: la strage di Bologna.<br />

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� Canzoni<br />

Anno di pubblicazione<br />

1974<br />

Casa discografica<br />

Produttori Associati<br />

Produzione<br />

Danè<br />

1. VIA DELLA POVERTÀ<br />

2. LE PASSANTI<br />

3. FILA LA LANA<br />

4. LA BALLATA DELL’AMORE CIECO (o della vanità)<br />

5. SUZANNE<br />

6. MORIRE PER DELLE IDEE<br />

7. CANZONE DELL’AMORE PERDUTO<br />

8. LA CITTÀ VECCHIA<br />

9. GIOVANNA D’ARCO<br />

10. DELITTO DI PAESE<br />

11. VALZER PER UN AMORE<br />

“Canzoni” è un disco di transizione, ma interessantissimo sotto molteplici spetti;<br />

ripropone in una nuova veste sei canzoni tratte dal primo re<strong>per</strong>torio deandreiano e<br />

riarrangiate da Giampiero Reverberi insieme alle riuscitissime versioni di “Suzanne” e<br />

“Giovanna d’Arco” di Leonard Cohen curate invece da Nicola Piovani. Tre gli inediti:<br />

“Morire <strong>per</strong> delle idee” e “Le passanti”, tratte dal re<strong>per</strong>torio di Georges Brassens, e la<br />

mitica “Via della povertà”. L’album venne pubblicato anche <strong>per</strong> utilizzare il materiale che<br />

Casetta teneva pronto in caso di urgenti necessità commerciali, come è avvenuto <strong>per</strong><br />

“Volume 3”, o <strong>per</strong> sop<strong>per</strong>ire alla stasi creativa di <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong>.<br />

“Via della povertà” è una strada piena di alcolizzati, pazzi, umili, diseredati, falliti: i<br />

<strong>per</strong>sonaggi che <strong>De</strong> <strong>André</strong> ha <strong>sempre</strong> voluto tratteggiare, <strong>per</strong>ché simboli della semplicità.<br />

“Fila la lana” è una rielaborazione di una musica popolare francese del XV secolo, “La<br />

ballata dell’amore cieco” è un divertissement sul folle amore, <strong>per</strong> cui un uomo si taglia le<br />

vene <strong>per</strong> una donna che “non lo amava niente”. “La città vecchia” è la parodia sull’ipocrisia<br />

dei benpensanti, che prima disprezzano la prostituzione, poi, di notte sono i primi ad<br />

usufruirne: questa composizione prende ispirazione dall’avversione che <strong>Fabrizio</strong> provava<br />

<strong>per</strong> il suo professore di liceo <strong>De</strong>cio Pierantozzi. “Giovanna d’Arco” è la storia della grande<br />

donzella che ha liberato la Francia; <strong>Fabrizio</strong> cerca <strong>per</strong>ò di indagare sullo stato d’animo che<br />

ha spinto la santa a quelle azioni eroiche. La storica “<strong>De</strong>litto di paese” è la ennesima storia<br />

di prostitute, protettori e vecchi poveri: infatti narra la vicenda di un anziano signore che<br />

decide di divertirsi un’ultima volta andando con una prostituta. Al momento del pagamento,<br />

<strong>per</strong>ò, il vecchio individuo non ha soldi <strong>per</strong> pagare, e così la “signora” va a chiamare il suo<br />

“amico” <strong>per</strong> uccidere l’anziano; i due, dopo aver compiuto l’omicidio, trovano solo cambiali,<br />

debiti e atti giudiziari, <strong>per</strong> cui, presi da pietà si inginocchiano sul cadavere e iniziano a<br />

chiedere <strong>per</strong>dono. Sco<strong>per</strong>ti dai carabinieri vengono impiccati. <strong>Fabrizio</strong> cerca di non entrare<br />

nella questione ma si limita a descrivere i fatti così come sono avvenuti; c’è <strong>per</strong>ò una sua<br />

vaga impressione nell’ultima strofa: “qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto”<br />

riassume la comprensione dell’autore verso gli impiccati. Il “Valzer <strong>per</strong> un amore” è infine<br />

la rielaborazione del “Valzer campestre” del maestro Marinuzzi.<br />

47


- Umberto Saba<br />

Il brano “La città vecchia”, pubblicato nel dicembre 1965, risente dell’influenza di<br />

Georges Brassens, ma <strong>Fabrizio</strong> la elabora in maniera straordinariamente <strong>per</strong>sonale. I<br />

<strong>per</strong>sonaggi, gli odori, i sapori, sono definiti, suggestivi, affascinanti; mentre canta sembra<br />

di vivere quelle sensazioni, immersi nell’atmosfera del porto della sua Genova. <strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

si ispira alla “Città vecchia” del poeta triestino Umberto Saba, proiettando quei <strong>per</strong>sonaggi<br />

della Trieste di inizio Novecento nella sua Genova del dopoguerra. D’altronde <strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

può essere considerato il Saba genovese, in quanto legato e affascinato anch’egli dalla<br />

vita marginale della sua città.<br />

- Vita e o<strong>per</strong>e<br />

Nato in una città che apparteneva allora all’Im<strong>per</strong>o<br />

austro-ungarico (a Trieste il 9 marzo 1883), Saba ebbe tuttavia<br />

la cittadinanza italiana <strong>per</strong> via del padre, Ugo Edoardo Poli,<br />

discendente da una nobile famiglia veneziana. La madre,<br />

Felicita Rachele Cohen, apparteneva ad una famiglia ebraica di<br />

piccoli commercianti, tradizionalmente legata alle pratiche<br />

religiose e agli affari. Ma quando ebbe il figlio, era già stata<br />

abbandonata dal marito, un giovane «gaio e leggero»,<br />

insofferente dei legami familiari. Ben presto il bambino viene<br />

messo a balia da una contadina slovena, Peppa Sabaz, che,<br />

avendo <strong>per</strong>so il proprio figlio, riversa su di lui il suo affetto e la<br />

sua tenerezza, finché la madre, austera e severa, lo reclama<br />

presso di sé. Privo della figura paterna, diviso nel suo amore fra<br />

la madre naturale e la madre adottiva, Saba trascorre un’infanzia piuttosto difficile e<br />

malinconica, che rievocherà più tardi nelle poesie intitolate “Il piccolo Berto”.<br />

Frequenta le scuole con scarso profitto e interrompe gli studi alla quarta ginnasiale,<br />

decidendo di proseguirli come autodidatta. L’alternativa è quella di un impiego presso una<br />

ditta triestina, dove subisce la tirannia delle «ore del lavoro lente». La sola forma di<br />

comprensione e di sfogo, destinata a divenire un approdo autentico, gli è offerta dalla<br />

poesia, che inizia ben presto a coltivare. L’amore <strong>per</strong> Leopardi viene contrastato dalla<br />

madre, che cerca di fargli leggere piuttosto uno scrittore costruttivo e impegnato come<br />

Parini, <strong>per</strong> combattere la sua tendenza “troppo pessimistica”. La formazione letteraria<br />

matura via via sui testi di Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Foscolo e Manzoni, fino ai<br />

contemporanei Pascoli e D’Annunzio. Un soggiorno di studio fra il 1905 e il 1906 a<br />

Firenze, dove tornerà nel 1911, non lo coinvolge nella battaglia <strong>per</strong> il rinnovamento<br />

letterario che, proprio in quella città, i giovani intellettuali stavano avviando.<br />

Particolarmente difficili risulteranno i rapporti con “La voce”, che rifiuta di pubblicargli il<br />

saggio “Quello che resta da fare ai poeti”, mentre il concittadino Slata<strong>per</strong> stronca la prima<br />

raccolta dei suoi versi. Come Svevo, anche Umberto Saba, sia pure in misura diversa e<br />

meno clamorosa, sconta la sua collocazione di intellettuale <strong>per</strong>iferico, più legato alle radici<br />

profonde della cultura mitteleuropea che agli atteggiamenti, non di rado su<strong>per</strong>ficiali, di<br />

quella nazionale.<br />

È un isolamento che <strong>per</strong>sisterà anche nei decenni successivi, <strong>per</strong> lo scarso<br />

interesse riservato dalla critica fra le due guerre: fa eccezione il numero unico dedicato a<br />

Saba da “Solaria” nel 1928, con saggi di Giacomo <strong>De</strong>benedetti, Eugenio Montale e Sergio<br />

Solmi. Tra il 1907 e il 1908 compie a Salerno il servizio di leva, un’es<strong>per</strong>ienza che si<br />

rifletterà nei “Versi militari”. Tornato a Trieste sposa Carolina Woelfer, la Lina che canterà<br />

nei suoi versi, così come farà <strong>per</strong> la figlia Linuccia, nata poco dopo. Saba abita a<br />

Montebello, alla <strong>per</strong>iferia di Trieste, dove scrive le poesie di “Casa e campagna.<br />

48


Nel 1911 pubblica la prima raccolta delle “Poesie” e, l’anno successivo, “Con i miei<br />

occhi”. Entrambi i volumi sono firmati con lo pseudonimo che accompagnerà d’allora in<br />

avanti lo scrittore, assumendo una valenza emblematica: il rifiuto del cognome paterno si<br />

risolve infatti in un omaggio alla madre e alla nutrice slovena (Saba proviene da Sabaz, e<br />

significa in ebraico “pane”). Dopo aver partecipato al primo conflitto mondiale, Saba apre a<br />

Trieste una libreria antiquaria, che costituirà, insieme con la poesia, l’occupazione di tutta<br />

la sua vita. Nel 1921 esce il primo “Canzoniere”, in cui Saba raccoglie la sua precedente<br />

produzione poetica; sotto questo titolo, destinato a rimanere definitivo, verranno<br />

comprese, nelle ulteriori edizioni, anche le poesie dei decenni successivi. Sofferente di<br />

disturbi nervosi, nel 1928 intraprende una cura con un allievo di Freud, il triestino Edoardo<br />

Weiss. Si accosta così direttamente alla psicanalisi, che gli offre strumenti più raffinati <strong>per</strong><br />

«smascherare l’intimo vero» e <strong>per</strong> approfondire quella «chiarezza psicologica» che già<br />

caratterizzava la sua produzione poetica.<br />

Colpito dalle leggi razziali, lascia l’Italia <strong>per</strong> recarsi a Parigi; allo scoppio della<br />

guerra, nel 1939, è a Roma, dove Ungaretti cerca di proteggerlo; durante l’occupazione<br />

nazista, vive nascosto a Firenze, ospite anche nella casa di Montale. Nel 1945 Einaudi<br />

pubblica la seconda edizione, di molto accresciuta, del “Canzoniere; quella definitiva, che<br />

abbraccia l’intero arco dell’attività poetica, uscirà postuma nel 1961. La tiepida accoglienza<br />

che la critica aveva riservato alla sua o<strong>per</strong>a induce Saba a farsi interprete di se stesso,<br />

scrivendo la “Storia e cronistoria del Canzoniere”, ricca di acute osservazioni umane e<br />

poetiche. Ma, con il riconoscimento della sua statura di poeta che si consolida nel<br />

dopoguerra, giungono anche le prime importanti attestazioni pubbliche; nel 1946 Saba<br />

aveva ricevuto il Premio Viareggio, cui seguirà, nel 1953, il Premio dell’Accademia dei<br />

Lincei; nel medesimo anno l’Università di Roma gli conferisce la laurea in Lettere “honoris<br />

causa”. Gli ultimi anni sono resi difficili dalle crescenti crisi depressive e dalla malattia della<br />

moglie, che muore nel 1956; Saba la seguirà nove mesi dopo, il 25 agosto 1957.<br />

Nel 1964 esce il volume complessivo delle “Prose”, che comprende le o<strong>per</strong>e<br />

pubblicate in precedenza: in particolare “Scorciatoie e raccontini” e “Ricordi-Racconti”,<br />

dove il gusto della narrazione breve e autobiografica si condensa efficacemente<br />

nell’apologo e nella moralità, sorretta da un’ironia lucida e a volte tagliente. Nel 1975<br />

Einaudi pubblicherà il romanzo incompiuto “Ernesto”, storia, dagli intensi risvolti<br />

psicanalitici, dei turbamenti erotici di un adolescente, in cui l’atmosfera triestina è resa da<br />

un singolare impasto di lingua e dialetto.<br />

- Caratteristiche della produzione poetica<br />

Scorrendo con una certa attenzione i momenti salienti della biografia, emergono<br />

alcuni tratti essenziali: la povertà di avvenimenti esteriori, da cui Saba ricava tuttavia<br />

costanti suggerimenti <strong>per</strong> alimentare la sua vena poetica; il suo isolamento, che<br />

corrisponde ad una sostanziale estraneità nei confronti degli ambienti culturali e delle più<br />

avanzate ricerche letterarie. La sua poesia è quella di un autodidatta, che si fonda<br />

prevalentemente sui libri della tradizione scolastica, ignorando pressoché completamente<br />

il laboratorio delle s<strong>per</strong>imentazioni contemporanee, così vive nel primo Novecento e fertili<br />

di risultati innovatori.<br />

È questo un limite della poesia di Saba, ma anche la sua forza, la condizione e il<br />

segno della sua originalità. La crisi della parola, che investe la poesia novecentesca, non<br />

trova terreno propizio in Saba, che ado<strong>per</strong>a senza timori il termine casalingo e familiare,<br />

“<strong>per</strong> immettersi nelle parole di tutti, nel sermo trito e antico che tutti vivono e parlano”. Non<br />

solo, ma, insieme col linguaggio della quotidianità, Saba riprende e riporta non di rado<br />

quello della tradizione letteraria che una lunga frequentazione ha fatto diventare semplice<br />

e chiara. La predilezione <strong>per</strong> “la parola che nomina” e definisce con precisione, anziché<br />

alludere o evocare, si inserisce in una struttura sintattica articolata e ben definita, che può<br />

49


contenere la poesia, senza sentirne le costrizioni, anche in un verso o in uno schema<br />

proprio della cantabilità tradizionale.<br />

Negli anni delle avanguardie, Saba non esita ad adottare le forme poetiche del<br />

passato, come la metrica regolare e l’uso delle rime: i “Versi militari” ad esempio, che<br />

costituiscono la prima serie organica di testi, sono composti interamente nella forma<br />

classica del sonetto. Anche in seguito Saba farà ampiamente uso di questi elementi,<br />

attribuendo loro una particolare importanza e funzione. La poetica dell’Ermetismo gli<br />

rimarrà sostanzialmente estranea, nel rifiuto di un dettato di ardua comprensione e<br />

dell’analogia come tramite di un rapporto cifrato con la realtà. Pur pulsando nel cuore del<br />

Novecento, la sua poesia è stata definita come espressione di una linea antinovecentista,<br />

in quanto rifiuta le più vistose e s<strong>per</strong>icolate innovazioni<br />

della ricerca poetica del proprio tempo. Questo non<br />

significa che la sua lirica non subisca un’evoluzione anche<br />

sul piano delle soluzioni tecniche, strettamente legate<br />

all’espressione di una sensibilità acuta e moderna.<br />

L’in<strong>contro</strong> con il verso libero di origine ungarettiana gli<br />

serve <strong>per</strong> affinare la sua ispirazione, ma che non ne<br />

modifica le costanti di fondo, bensì imprime loro una più<br />

aurea leggerezza. La commozione del ricordo e<br />

l’a<strong>per</strong>tura verso forme di coralità conducono ad una<br />

drammatizzazione che si realizza nello sdoppiamento<br />

e nella triplicazione della voce in “Preludio e fughe”, la<br />

cui polifonia esalta il “valore dell’eco” della parola.<br />

Con le ultime raccolte la poetica giunge a toni di pura evocazione, in un recu<strong>per</strong>o<br />

del vissuto attraverso la memoria che può unire la proiezione mitica a un inesausto<br />

bisogno di conoscenza e di partecipazione. Al di là delle diverse soluzioni, la poesia di<br />

Saba è <strong>sempre</strong> sostenuta da una chiarezza del dettato che usa modi semplici e immediati,<br />

con un lessico volutamente povero e comune. Il rischio della banalità è consapevolmente<br />

accettato, <strong>per</strong> la scommessa di far sprigionare effetti inediti e originali anche dagli elementi<br />

più scontati del discorso. La sua riduzione del discorso al “grado zero” della scrittura<br />

poetica non ha nulla, tuttavia, di “crepuscolare”. Essa obbedisce ad un movimento di<br />

limpida e lineare efficacia, che dal soggetto si sposta sulla realtà anche più dimessa e<br />

quotidiana <strong>per</strong> giungere a individuare i significati essenziali e universali della vita.<br />

- I temi<br />

Come si è visto, Saba muove spesso da una situazione autobiografica, che non ha<br />

<strong>per</strong>ò nulla di individualistico o di astratto, ma si confronta immediatamente con una realtà<br />

particolare e concreta, legata alle normali consuetudini della vita, alle presenze familiari e<br />

domestiche. La moglie, gli animali della campagna, la città in cui vive sono alcuni dei temi<br />

dominanti nelle prime poesie ma anche in seguito ricorrenti, che Saba si propone di<br />

affrontare nel rispetto della loro autonoma e peculiare individualità. Resta fondamentale, in<br />

ogni caso, il ruolo del soggetto poetante, che, dopo aver indugiato sulle cose, le eleva a<br />

simbolo più generale di una condizione dell’uomo e della vita. Come ha scritto Mengaldo,<br />

Saba coglie “il senso del dispiegarsi dell’es<strong>per</strong>ienza individuale come ripetizione di<br />

un’es<strong>per</strong>ienza già vissuta, individualmente nel proprio passato, archetipicamente nella<br />

vicenda dell’uomo di <strong>sempre</strong>”.<br />

L’umanità del poeta triestino, che costituisce il fulcro della sua ricerca poetica, è<br />

cordiale e diretta ma non riflessa, nella misura in cui è intimamente <strong>per</strong>corsa da una vena<br />

di lucida consapevolezza, che, anche quando non si traduce in toni sentenziosi, è <strong>sempre</strong><br />

espressione di un’intima e sofferta moralità. Il suo realismo poetico non si restringe mai<br />

alle apparenze su<strong>per</strong>ficiali, ma cerca i sensi riposti e segreti delle cose, <strong>per</strong> farne vibrare le<br />

50


isonanze profonde. È una ricerca che non si arresta di fronte al “negativo” dell’esistenza,<br />

anche a costo di metterne a nudo gli aspetti più scomodi e sgradevoli. Apparentemente<br />

semplice e lineare, la poesia di Saba è nutrita dalla lettura dei più s<strong>per</strong>icolati e impietosi<br />

maestri del pensiero contemporaneo, dal Nietzsche a Freud.<br />

Il suo rapporto con la vita è tutt’altro che facile o acquiescente. Saba non ignora, ma<br />

ne fa oggetto di lucida rappresentazione, l’ambiguità profonda dell’esistenza. Le stesse<br />

a<strong>per</strong>ture cordiali dei suoi versi nascono dallo sforzo di su<strong>per</strong>are un individualismo che<br />

conserva in sé tracce profonde di angoscia e di dolore. La città è amata in se stessa ma<br />

anche nei luoghi in cui il poeta può isolarsi. Il desiderio di tuffarsi nella vita di tutti è la<br />

risco<strong>per</strong>ta di un senso di partecipazione che presuppone la solitudine e l’esclusione<br />

dell’individuo. Riprendendo questi spunti, nella poesia “Il borgo”, Saba riaffermerà “il<br />

desiderio improvviso d’uscire / di me stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti /<br />

gli uomini di tutti / i giorni”; ma non mancherà di sottolineare di essere stato “solo con il<br />

mio duro / patire. E morte / m’aspetta”.<br />

I due momenti possono scindersi: al godimento della<br />

gioia, all’amore, può sostituirsi l’angoscia più cupa; così ci si<br />

può salvare dall’orrore riscoprendo le ragioni della più comune<br />

ed elementare solidarietà. Alla fine, quello che conta, è il<br />

rapporto dialettico che si stabilisce fra la gioia e il dolore,<br />

considerati entrambi come elementi costitutivi dell’esistenza<br />

individuale e collettiva. L’ossimoro esistenziale può così essere<br />

considerato come la cifra più autentica, la sintesi di questa<br />

es<strong>per</strong>ienza; ma si tratta di un ossimoro non esas<strong>per</strong>ato nelle<br />

sue componenti antitetiche, bensì composto nelle forme di una<br />

discrezione che resta l’alta testimonianza di una partecipazione<br />

civile e di un impegno umano. È “la serena dis<strong>per</strong>azione” che dà<br />

il titolo alla sezione di poesie comprese fra il 1913 e il 1915; è “della vita il doloroso amore”<br />

che suggella una lirica emblematica come “Ulisse”<br />

- Città vecchia<br />

Alla ricerca della solitudine e alla visione cittadina che si offre dall’alto, presente<br />

nella poesia “Trieste”, si sostituisce qui l’immergersi in “un’oscura via di città vecchia”, in<br />

una strada del quartiere del porto affollata e brulicante della vita di ogni giorno. Questo<br />

bagno nella confusione degli uomini e delle cose, induce il poeta a riscoprire le ragioni<br />

semplici ma autentiche dell’esistenza, ristabilendo con i propri simili un rapporto di<br />

simpatia e di solidarietà. Il discorso sugli umili non ha <strong>per</strong>ò nulla di manzoniano o di<br />

genericamente populistico; esso nasce piuttosto da una visione della città che è di origine<br />

baudelairiana, in quanto coglie anche gli aspetti più sordidi e brutali dell’esistenza.<br />

Addentrandosi “dove è più turpe la via”, Saba avverte il suo pensiero di farsi più<br />

puro, attribuendo alla risco<strong>per</strong>ta dell’umana fratellanza un significato di tipo religioso.<br />

“Signore”, a sua volta, riprende le rime “amore” e “dolore”,che sono <strong>per</strong> il poeta gli<br />

elementi essenziali della vita, termine che conclude il verso 17. A tutte queste parole,<br />

collocate in posizione di rilievo, Saba affida il messaggio di questi suoi versi, nella loro<br />

profonda umanità. Si aggiunga che sin d’ora Umberto Saba sembra assumere un<br />

atteggiamento polemico nei confronti del Simbolismo e di ogni forma di poesia pura:<br />

l’infinito è da lui ritrovato non in una astratta e individualistica relazione di corrispondenze<br />

analogiche, ma nella concreta umiltà della gente povera e diseredata. Qui la cordiale<br />

rappresentazione di un angolo popolare di Trieste non scade mai nel populismo, <strong>per</strong>ché il<br />

poeta non si china paternalisticamente su quel mondo, lo sente bensì come un mondo<br />

popolato da creature simili a lui, nelle quali come in lui si “agita il Signore”. Dichiara lo<br />

51


stesso Saba che la folla rigurgitante nei vicoli e vicoletti della città vecchia gli ispira<br />

pensieri di religiosa adesione.<br />

Parrebbe qui trattarsi della materia di un violento, quasi espressionistico, realismo:<br />

e di questo aspro realismo ci sono tutti gli elementi consacrati, tradizionali: femmine,<br />

dragoni, vecchi, bestemmie, marina, prostitute. E tuttavia questa materia si compone in<br />

linee di severa, e pur viva e limpida, poesia morale: si osservi come la rima accortamente<br />

manovrata non soltanto tenga il posto del legame logico necessario <strong>per</strong> giustificare il<br />

passaggio, in una sintassi veramente tradizionale, dalla visione realistica alla meditazione<br />

largamente umana che la conclude; ma come ugualmente attraverso la rima la parola<br />

realistica <strong>per</strong>da di peso, di violenza, di carnalità e di corposità, si allarghi immediatamente<br />

su una prospettiva di analogie morali, di es<strong>per</strong>ienze dell’anima, espresse attraverso segni<br />

sensibili. In questo modo la parola realistica si apre ad accogliere in sé l’eco analogica;<br />

l’intervento di un ordinamento meditativo subisce così, attraverso questo suo allargarsi e<br />

aprirsi, proprio quella violenza metafisica di cui si è tanto parlato in rapporto col linguaggio<br />

della poesia del Novecento; e lo stesso avviene pure <strong>per</strong> la parola morale e meditativa,<br />

anch’essa sollevata da una ferma logicità a una mossa e inquieta atmosfera analogica.<br />

Spesso, <strong>per</strong> ritornare alla mia casa<br />

prendo un’oscura via di città vecchia.<br />

Giallo in qualche pozzanghera si specchia<br />

qualche fanale, e affollata è la strada.<br />

qui tra la gente che viene che va<br />

dall’osteria alla casa o al lupanare<br />

dove son merci ed uomini il detrito<br />

di un gran porto di mare,<br />

io ritrovo, passando, l’infinito<br />

nell’umiltà.<br />

Qui prostituta e marinaio, il vecchio<br />

che bestemmia, la femmina che bega,<br />

il dragone che siede alla bottega<br />

del friggitore,<br />

la tumultuante giovane impazzita<br />

d’amore,<br />

sono tutte creature della vita<br />

e del dolore;<br />

s’agita in esse, come in me, il Signore.<br />

Qui degli umili sento in compagnia<br />

il mio pensiero farsi<br />

più puro dove più turpe è la via.<br />

52


� Volume 8<br />

Anno di pubblicazione<br />

1975<br />

Casa discografica<br />

Produttori Associati<br />

Produzione<br />

Danè<br />

1. LA CATTIVA STRADA<br />

2. OCEANO<br />

3. NANCY<br />

4. LE STORIE DI IERI<br />

5. GIUGNO ‘73<br />

6. DOLCE LUNA<br />

7. CANZONE PER L’ESTATE<br />

8. AMICO FRAGILE<br />

Il 9 gennaio 1975, sulla scia del grandissimo successo che <strong>De</strong> Gregori stava<br />

vivendo con “Rimmel”, la Produttori Associati fa uscire il nuovo album, “Volume 8”,<br />

provocando il disappunto della critica nostrana che mosse pesanti critiche al disco, così<br />

come era avvenuto <strong>per</strong> “Storia di un impiegato”. Si parlò di crisi, lasciando intendere che<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong> aveva dovuto fare ricorso a Francesco <strong>De</strong> Gregori, ma non del contributo che<br />

egli offrì in fase creativa alla realizzazione di “Rimmel”. “Volume 8” è un grande disco, sia<br />

<strong>per</strong> l’importanza di quella collaborazione, sfociata in pezzi come “La cattiva strada” e<br />

“Canzone <strong>per</strong> l’estate” sia, soprattutto, <strong>per</strong>ché contiene brani memorabili, che con la<br />

collaborazione non hanno niente a che vedere. “Le storie di ieri”, “Giugno ‘73” e “Amico<br />

fragile”, sono entrati di diritto tra i classici delle rispettive produzioni. L’album, prodotto da<br />

Roberto Danè negli studi Ricordi di Milano, si avvale degli arrangiamenti di Tony Mimms, e<br />

sarà l’ultimo atto della collaborazione con Antonio Casetta: la Produttori Associati di lì a<br />

poco chiuderà i battenti. A seguito del fallimento delle case discografiche andrà <strong>per</strong>duto<br />

tutto l’archivio stampa di <strong>Fabrizio</strong>, sia Karim che Produttori Associati.<br />

Alla fine del 1974 arriverà la decisione di affrontare il pubblico dal vivo. È un<br />

avvenimento inatteso, anche fra gli addetti ai lavori. Una certa impasse creativa, la<br />

necessità di trovare ulteriori fonti di guadagno <strong>per</strong> realizzare il sogno di una tenuta in<br />

campagna, riusciranno ad avere la meglio sulla sua ritrosia ad esibirsi live. “Amico fragile”<br />

e stata scritta in una notte, dopo che <strong>Fabrizio</strong> era andato ad una festa che si svolgeva in<br />

una villa nel parco residenziale di Portobello di Gallura. Era il <strong>per</strong>iodo in cui esplose la<br />

storia sugli esorcismi: “un momento di oscurantismo”. Nella villa c’erano medici, avvocati,<br />

gente di un certo livello culturale, e <strong>De</strong> <strong>André</strong> voleva sentire le loro idee su questi<br />

avvenimenti. Invece anche quella sera finì con la chitarra in mano. Dopo aver cantato<br />

qualche canzone e aver riprovato a parlare di quelle storie, il cantautore fu zittito dagli<br />

ospiti. A questo punto mandò tutti a quel paese e si ubriacò sconciamente, si rifugiò nel<br />

garage della villa e, quando alle otto di mattina la moglie andò a cercarlo, lui aveva già<br />

scritto parole e musica. Ne “Le storie di ieri” c’è l’uomo che sceglie di condividere delle<br />

idee (quelle fasciste) con altri e si riscopre uomo grazie ad esse, senza chiedersi se siano<br />

più o meno giuste. C’è il marinaio dis<strong>per</strong>ato che non sa come mantenere la famiglia di<br />

“Dolce luna”; c’è il sogno di un amore svanito di “Giugno ‘73” o il benestante incatenato<br />

nella sua quotidianità fatta di famigliola, chiesa e felicità materiale di “Canzone <strong>per</strong> estate”.<br />

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- La vita in mare<br />

La vita dei marinai non è <strong>sempre</strong> facile, tanto che anche <strong>De</strong> <strong>André</strong> ha voluto<br />

comporre un brano sulle difficoltà e sulla dis<strong>per</strong>azione che tante volte assale un lupo di<br />

mare. Nel brano “Dolce luna” <strong>Fabrizio</strong> descrive l’amarezza del marinaio che ricorda le<br />

settimane in alto mare, fra storie di pirati e corsari; ora invece la realtà lo incatena a terra e<br />

lo costringe a regolarsi a causa di una famiglia da portare avanti. Lui <strong>per</strong>ò desidera ancora<br />

le onde del mare e sogna di concepire <strong>per</strong> incanto un figlio con un’immaginaria balena.<br />

L’elemento fantastico e irreale nel mondo dei marinai presente nel testo deandreiano<br />

compare quasi duecento anni prima nella meravigliosa “Ballata del vecchio marinaio”, nata<br />

dall’intesa fra due grandi della letteratura inglese: Coleridge e Wordsworth. Nella ballata<br />

dei due inglesi, il marinaio viene punito da Dio <strong>per</strong> aver ucciso senza giustificato motivo un<br />

albatro, anch’essa creatura del Signore. Inoltre Géricault, che nella sua più importante<br />

o<strong>per</strong>a (“La zattera della Medusa”), con crudo realismo fotografa un naufragio. Infine nel<br />

1881 Giovanni Verga ne “I Malavoglia” descrive oggettivamente il mondo dei pescatori<br />

siciliani, la loro condizione di estrema povertà, la dis<strong>per</strong>azione di ogni giorno, gli stenti,<br />

l’ignoranza, la cattiveria.<br />

- I marinai puniti (Samuel Taylor Coleridge)<br />

Though concerned with the su<strong>per</strong>natural, “The rime of the<br />

ancient mariner” is well organized in a progression of events<br />

resulting from a sequence of causes and effects and leading to an<br />

acceptable conclusion. Yet, without Wordsworth’s suggestions, the<br />

poem would not have been what it is now. It was Wordsworth, in fact,<br />

who was able to restrain the overflowing genius of Coleridge and<br />

discipline it. Moreover, by suggesting the killing of a bird (instead a<br />

man) as the source of the mariner’s ghastly <strong>per</strong>secution, he<br />

managed to reconcile Coleridge’s unbridled imagination and the<br />

formal coherence necessary to give the poem a “human” interest and<br />

a “semblance” of truth. The result was a poem in which the<br />

alternation of real and unreal elements conferred a degree of<br />

credibility on the narration,<br />

without weakening the sense of horror and su<strong>per</strong>natural<br />

mystery it conveys to the reader.<br />

This unreal, fantastic and nightmarish world, peopled with spirits, dead men and<br />

strange animals, provides the ideal setting for the su<strong>per</strong>natural elements and events<br />

spread throughout the poem, such as, for instance the sense of mystery introduced by the<br />

mariner himself, with: his sudden strange intrusion upon the wedding feast, his<br />

appearance, his “long grey beard”, his “skinny hand” and above all his “glittering eye”<br />

almost endowed with a hypnotic power and his way of speaking, so full of archaisms,<br />

which at once brings the reader back in time, into an imaginary past. Moreover the sense<br />

of mystery is introduced by the albatross that comes from nowhere and, both alive and<br />

dead, it is always accompanied by strange phenomena. Even the hint at medieval and<br />

oriental su<strong>per</strong>stitions is an important element, (the albatross is a somewhat mystical bird,<br />

whose killing is like sacrilege and needs punishing) and the hint at the medieval “Danse<br />

Macabre” where a spectre ship approaches carrying two ghosts on board, <strong>De</strong>ath, a<br />

skeleton, and Life-in-<strong>De</strong>ath, a woman probably symbolizing leprosy, another medieval<br />

calamity. There are in “The rime” even the presence of unnatural creatures (sea monsters,<br />

spirits, angels, seraphs) and unnatural events (the ship moves without wind and noise and<br />

it is manoeuvred by a crew of dead people).<br />

All these elements, in part borrowed from the nightmarish world of some Gothic<br />

novels, as well as the extraordinary events it narrates and the obscure symbols it contains<br />

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throughout, leave the poem open to many interpretations. The poem may be simply a<br />

dream caused by opium: some descriptions are in fact similar to the ones usually felt by<br />

drug addicts, for example a first sense of freedom and immensity, soon followed by<br />

anguish and fear, emphasized by the <strong>per</strong>ception of strange noises, by a horrible<br />

impression of dryness and choking and by a sense of horror for some hideous action to be<br />

paid for. But “The rime of the ancient mariner” may be interpreted as a poem about the<br />

abnormal psychology of an old su<strong>per</strong>stitious sailor, half crazed by fear and loneliness, who<br />

gives his <strong>per</strong>sonal version of a shipwreck which he apparently miraculously survived and<br />

the sea voyage is an allegory of life, where the crew represents mankind, the albatross the<br />

pact of love that should unite all God’s creatures and the ship a microcosm, in which the<br />

evil deed of a single <strong>per</strong>son falls on others, too, as often happens in life. Finally, at a<br />

dee<strong>per</strong> level, the poem may be a moral parable of man, from original sin (the killing),<br />

through punishment (isolation), repentance (the blessing of the water snakes) and<br />

penitence (the obsessive repetition of the story), to his final redemption; it symbolizes the<br />

contrast between rationality and irrationality, the former identified with “sunlight”, and the<br />

latter with “moonlight”. In other words “sunlight”, which stands for day, would represent the<br />

power of reason, while “moonlight”, standing for night, would represent the power of the<br />

imagination.<br />

«God save thee, ancient Mariner!<br />

From the fiends, that plague thee thus!<br />

Why look’st thou so?»<br />

With my cross-bow<br />

I shot the Albatross.<br />

- I marinai dis<strong>per</strong>ati (Giovanni Verga)<br />

“I Malavoglia” rappresentano la vita di un mondo rurale<br />

arcaico, chiuso in ritmi di vita tradizionali che si modellano sul ritorno<br />

ciclico delle stagioni e dominato da una visione della vita anch’essa<br />

tradizionale, che si fonda sulla saggezza antica dei proverbi. Ma non<br />

si tratta di un mondo del tutto immobile, fuori della storia: anzi, il<br />

romanzo è proprio la rappresentazione del processo <strong>per</strong> cui la storia<br />

penetra in quel sistema arcaico, disgregandone la compattezza,<br />

rompendone gli equilibri, sconvolgendone le concezioni ancestrali.<br />

L’azione infatti ha inizio all’indomani dell’unità, nel 1863, e mette in<br />

luce come il piccolo villaggio siciliano sia investito dalle tensioni di<br />

un momento di rapida trasformazione della società italiana.<br />

Il sistema sociale del villaggio, che già al suo interno non è<br />

affatto una comunità indifferenziata di “umili” ma è molto articolato in<br />

diversi strati di classe, è investito e trasformato da questi movimenti dinamici che<br />

provengono dall’esterno, dal grande mondo della storia. I Malavoglia, a causa delle<br />

difficoltà economiche indotte dalle trasformazioni in atto, sono costretti a diventare<br />

“negozianti”, da pescatori che erano <strong>sempre</strong> stati; e, in conseguenza del fallimento della<br />

loro iniziativa, subiscono un processo di declassazione, passando dalla condizione di<br />

proprietari di casa e barca a quella di nullatenenti, costretti a vivere alla giornata. Ma,<br />

inversamente, vi sono anche processi di ascesa sociale, rappresentati dall’arrivista don<br />

Silvestro, l’”uomo nuovo”, che ricorre alle arti più subdole e agli intrighi più sottili <strong>per</strong><br />

arrivare ad una posizione di potere. Questo mondo del paese può apparire immobile solo<br />

<strong>per</strong>ché i fatti narrati, in obbedienza al principio dell’im<strong>per</strong>sonalità e alla tecnica<br />

dell’”eclisse” dell’autore e della regressione, sono presentati dall’ottica dei <strong>per</strong>sonaggi<br />

stessi: è la visione soggettiva degli attori della vicenda che rende l’immagine di una realtà<br />

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statica, <strong>per</strong>ché così esse sono abituati a concepirla. Ma la loro visione deforma, tradisce la<br />

realtà, mentre il montaggio narrativo la mette chiaramente in evidenza.<br />

“I Malavoglia” sono stati spesso interpretati come la celebrazione di un mondo<br />

primordiale e dei suoi valori, come idoleggiamento nostalgico di una civiltà contadina, vista<br />

come alternativa e antidoto alla falsità e alla corruzione della vita cittadina. In realtà il<br />

romanzo rappresenta al contrario la disgregazione di quel mondo e l’impossibilità dei suoi<br />

valori. Se, come si è visto, ancora nella prima fase del suo verismo <strong>per</strong>sisteva in Verga<br />

una componente di nostalgia romantica <strong>per</strong> la realtà arcaica della campagna, vagheggiata<br />

come un Eden di innocenza e genuinità, di sentimenti miti, semplici, di “fresco e sereno”<br />

raccoglimento, “I Malavoglia” segano proprio il su<strong>per</strong>amento irreversibile di tali tendenze.<br />

Quel mondo arcaico che scompare sotto l’urto della modernità risulta, nella sua<br />

essenza, non dissimile da quello creato dal progresso, già lacerato al suo interno dagli<br />

stessi conflitti e dalle stesse tensioni. Si alternano quindi costantemente, nella narrazione,<br />

due punti di vista opposti, quello nobile e disinteressato dei Malavoglia e quello gretto e<br />

ottuso degli altri abitanti del villaggio. Questo gioco di punti di vista ha il compito di<br />

straniare sistematicamente i valori proposti dai Malavoglia. Quei valori, onestà,<br />

disinteresse, altruismo, visti con gli occhi della collettività appaiono “strani”, non vengono<br />

compresi, anzi, vengono stravolti e deformati: padron ‘Ntoni che rinuncia alla casa <strong>per</strong><br />

onorare il debito non è ammirato <strong>per</strong> il suo gesto nobile, ma giudicato un “minchione”,<br />

<strong>per</strong>ché non ha applicato la legge dell’interesse; l’angoscia del vecchio patriarca <strong>per</strong> il figlio<br />

in mare durante la tempesta è attribuita dal villaggio essenzialmente al timore <strong>per</strong> il carico<br />

di lupini in <strong>per</strong>icolo, cioè a ragioni economiche.<br />

D’altro lato <strong>per</strong>ò il punto di vista ideale dei Malavoglia vale a fornire un metro di<br />

giudizio dei meccanismi spietati che dominano l’ambiente del villaggio, facendo emergere<br />

dalle cose stesse, senza interventi giudicanti del narratore, la disumanità della logica<br />

dell’interesse e della forza, e consentendo di rappresentarla in una luce critica.<br />

Campana di legno comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che<br />

l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, non dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false<br />

come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san<br />

Francesco; e anticipava anche la spesa <strong>per</strong> la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato,<br />

e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, ché era cristiano e di quel che<br />

faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio.<br />

- I marinai naufragati (Théodore Géricault)<br />

“La zattera della Medusa” è l’o<strong>per</strong>a più importante di Géricault; essa provocò un<br />

vero scandalo tra gli accademici, i critici e il pubblico, offesi dal “ripugnante” realismo dei<br />

particolari. Per questa scena l’artista si ispirò ad un tragico fatto di cronaca che aveva<br />

scosso profondamente l’opinione pubblica: il naufragio della “Medusa”, nave ammiraglia di<br />

un convoglio che trasportava soldati e civili verso la colonia del Senegal. Il naufragio<br />

avvenne il 2 luglio 1816, al largo dell’Africa occidentale; in seguito, centocinquanta<br />

<strong>per</strong>sone salirono su una zattera che <strong>per</strong> diversi giorni andò alla deriva, tra un crescendo di<br />

orrori (un ammutinamento, episodi di cannibalismo), tanto che alla fine la nave della<br />

salvezza, l’”Argus”, potè recu<strong>per</strong>are solo una quindicina di su<strong>per</strong>stiti. Il governo cercò di<br />

mettere a tacere le critiche all’inadeguatezza dei soccorsi, ma due dei sopravvissuti, dopo<br />

aver invano chiesto un rimborso <strong>per</strong> i danni subiti, scrissero un violento resoconto<br />

dell’evento, che fece scalpore in tutta Europa.<br />

Géricault fu a lungo indeciso su quale aspetto della vicenda rappresentare. Alla fine<br />

scelse uno dei momenti più sconvolgenti dal punto di vista emotivo: il primo avvistamento<br />

da parte dei naufraghi dell’”Argus”, il fallace ridestarsi nei su<strong>per</strong>stiti della s<strong>per</strong>anza, il loro<br />

chiamare a raccolta le ultime forze <strong>per</strong> fare segnalazioni e il dis<strong>per</strong>ato sconforto in cui<br />

sprofondano quando la nave scompare. Nel groviglio di corpi, Géricault rappresenta un<br />

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graduale crescendo di emozioni, che vanno dalla dis<strong>per</strong>azione alla falsa s<strong>per</strong>anza. In<br />

primo piano un vecchio padre siede trattenendo il cadavere del figlio; dietro di lui alcuni<br />

sopravvissuti in piedi rivolgono la propria attenzione verso il punto all’orizzonte che un<br />

compagno sta loro indicando; altri languenti a terra si girano, l’uno dopo l’altro, tentando a<br />

fatica di rialzarsi, rianimati da un’ultima tenue s<strong>per</strong>anza; altri ancora aiutano un negro a<br />

salire su un barile, <strong>per</strong>ché possa sventolare la camicia più in alto, <strong>per</strong> chiedere soccorso<br />

all’equipaggio del brigantino in lontananza.<br />

La scena, su cui si proietta l’ombra di un nuvolone enorme, è impostata su una<br />

serie di diagonali che dalla base della zattera convergono verso due diversi apici, l’albero<br />

e la camicia agitata del marinaio; inoltre è dominata da due spinte contrarie: l’onda<br />

montante dei naufraghi protesi, con le mani allungate, verso l’incerta salvezza; la marea<br />

che respinge il relitto, con il vento che, soffiando da destra verso sinistra, gonfia la vela in<br />

direzione opposta. Il fluire e rifluire degli stati d’animo viene qui <strong>contro</strong>llato da<br />

un’impostazione formale precisa. Queste vittime, benché da quindici giorni alla deriva, non<br />

appaiono emaciate, ma imponenti e vigorose, accademicamente disegnate e belle come<br />

eroi antichi. Per la prima volta lo stile classico e le vaste dimensioni della tela, sino ad<br />

allora riservati alla pittura di storia e ai temi grandiosi (episodi biblici, imprese di eroi e di<br />

regnanti), venivano usati <strong>per</strong> rappresentare le sofferenze di gente comune, elevata ad una<br />

dimensione epica, protagonista di un dramma dal valore universale. La scelta tematica<br />

fece pensare che Géricault intendesse attaccare sia la tradizionale gerarchia accademica<br />

dei generi sia la struttura sociale recentemente restaurata: non a caso, lo storico Jules<br />

Michelet avrebbe parlato del dipinto come di un simbolo della Francia, affermando: «È la<br />

nostra società intera che Géricault imbarca su quella zattera!».<br />

Théodore Géricault, La zattera della “Medusa”, 1818-19<br />

olio su tela, 491x716 cm<br />

Parigi, Louvre<br />

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� Rimini<br />

Anno di pubblicazione<br />

1978<br />

Casa discografica<br />

Ricordi<br />

Produzione<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong> - Bubola<br />

1. RIMINI<br />

2. VOLTA LA CARTA<br />

3. CODA DI LUPO<br />

4. ANDREA<br />

5. TEMA DI RIMINI<br />

6. AVVENTURA A DURANGO<br />

7. SALLY<br />

8. ZIRICHILTAGGIA (baddu tundu)<br />

9. PARLANDO DEL NAUFRAGIO DELLA LONDON VALOUR<br />

10. FOLAGHE<br />

Inciso negli studi Fonorama di Milano, “Rimini” è un’o<strong>per</strong>a di passaggio, da cui<br />

emerge uno spietato ritratto della piccola borghesia, della sua assenza morale e politica<br />

che consente al potere di raggiungere i propri obiettivi senza ostacoli. Nell’album si fa<br />

riferimento alla visita di Luciano Lama all’Università di Roma, nel corso della quale invitò<br />

gli studenti alla moderazione, ricevendone in cambio una violenta contestazione. È un<br />

episodio di grande importanza storica. Il sindacato cominciava infatti ad allinearsi al<br />

potere, in un processo che, nel corso degli anni, ha portato alla regolamentazione degli<br />

scio<strong>per</strong>i, impedendo così ai lavoratori di utilizzare in maniera efficace l’unica arma di cui<br />

dispongono <strong>per</strong> difendere i propri diritti. L’episodio viene citato in “Coda di lupo” che con<br />

“Andrea”, dedicato alla diversità, “Rimini”, ”Sally” e il travolgente divertissement di<br />

“Zirichiltaggia” rimane una delle cose migliori di questo primo album <strong>per</strong> la Ricordi. È un<br />

disco interlocutorio, che sottolinea amaramente anche nella parte grafica, dove vengono<br />

ritratti gli aspetti più deteriori e normalizzati della nuova borghesia, la sconfitta della rivolta<br />

del ’68.<br />

“Sally” riporta invece al <strong>De</strong> <strong>André</strong> più classico, ai riferimenti all’infanzia, e ancora<br />

oggi mantiene intatto il suo fascino, facendosi preferire a tutti gli altri, compresa “Avventura<br />

a Durango”, versione italiana di “Romance in Durango” di Bob Dylan il quale, qualche<br />

tempo più tardi, scriverà a <strong>De</strong> <strong>André</strong> una lettera di plauso. Il testo di “Rimini” è una riuscita<br />

mediazione fra il primo <strong>De</strong> <strong>André</strong> e quello più s<strong>per</strong>imentale di “Volume 8”; inoltre, come<br />

pezzo iniziale, è la storia di Teresa: donna affascinata più dai moti rivoluzionari che dalla<br />

sua banale vita reale. “Parlando del naufragio della London Valour” rispecchia i procellosi<br />

tempi in cui si trovava il nostro Paese dove la violenza si esprimeva anche da parte degli<br />

uomini più lontani da essa e nemmeno i poeti sapevano indicare la giusta direzione da<br />

seguire. Da non dimenticare “Volta la carta”, ballata molto ritmata con un testo che<br />

potrebbe essere la sceneggiatura di un film con i suoi repentini cambiamenti di scena,<br />

tutta giocata sullo scorrere del tempo e della vita. Un’ultima, doverosa citazione: la<br />

presenza di uno straordinario chitarrista, Marco Zoccheddu, che dopo questo album,<br />

suonato in maniera su<strong>per</strong>lativa, tornerà nell’anonimato. Quanto a Bubola (nuovo coautore<br />

<strong>per</strong> la parte testuale), continuerà a lavorare con <strong>Fabrizio</strong> in maniera organica fino al 1986.<br />

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- La rivoluzione cubana<br />

Teresa, la protagonista del brano che dà il titolo a questo ennesimo capolavoro<br />

deandreiano, è una donna che, non contenta della sua banale vita, tutta giocata tra<br />

pettegolezzi, mediocrità e abitudini, vede nella rivoluzione cubana e nei miti d’oltreoceano<br />

l’unico sfogo a un’esistenza piatta e <strong>sempre</strong> uguale; sotto le righe “Rimini” è una canzone<br />

critica nei confronti della sinistra italiana, che si dice rivoluzionaria, ma che di rivoluzionario<br />

non ha niente. Per questo motivo ho voluto tracciare le origini, l’avvento e le conseguenze<br />

della rivoluzione che più di quarant’anni fa Fidel Castro ha attuato a Cuba, e grazie alla<br />

quale continua a governare.<br />

- La situazione prima della rivoluzione<br />

Alla fine degli anni Cinquanta, l’isola di Cuba aveva quasi raggiunto i sette milioni di<br />

abitanti, di cui oltre la metà viveva nei centri urbani, anche se le forti migrazioni dalle<br />

campagne si traducevano in occupazioni marginali nel territorio o in mendicità. Cuba si<br />

collocava al terzo posto in America Latina quanto a reddito procapite e fra i primi tre sul<br />

piano dell’istruzione, della sanità e della previdenza sociale. Il 30% della forza lavoro era<br />

disoccupata o sottoccupata e tale <strong>per</strong>centuale cresceva durante la stagione morta della<br />

produzione saccarifera. Le condizioni della popolazione<br />

urbana erano di gran lunga migliori di quelle della<br />

popolazione rurale sotto molti aspetti, primo fra tutti quello<br />

abitativo, dal momento che in campagna il 75% della<br />

popolazione viveva in capanne di legno e fango con pavimento<br />

in terra battuta. Cuba poteva contare su quattro letti ed un<br />

medico <strong>per</strong> ogni mille abitanti, ma la metà dei laureati in<br />

medicina esercitava a L’Avana. La mortalità infantile nelle<br />

campagne era molto su<strong>per</strong>iore alla media nazionale del 6%.<br />

Lo stesso analfabetismo, contenuto a meno del 12% nei<br />

centri urbani, balzava al 42% nelle aree agricole.<br />

L’accaparramento di risorse da parte della città era<br />

ben esemplificato dalla capitale, dove viveva oltre un<br />

sesto dei sei milioni e mezzo di abitanti cubani. Era lì che si<br />

riversava la maggior parte dei trecentomila turisti che<br />

annualmente approdavano a Cuba. La presenza così massiccia di visitatori,<br />

prevalentemente statunitensi, ebbe due conseguenze di pari importanza: l’assenza da<br />

parte della borghesia e del ceto medio di modelli di consumo e valori caratteristici della<br />

società nordamericana e la diffusione di locali notturni, case da gioco, prostituzione e tutto<br />

un sottobosco ai limiti della legalità.<br />

- La preparazione alla rivoluzione<br />

Convinto che la lotta <strong>contro</strong> Batista non potesse essere condotta all’insegna del<br />

legalitarismo, Castro era partito <strong>per</strong> l’esilio messicano fermamente intenzionato a<br />

preparare uno sbarco a Cuba e intraprendere azioni di guerriglia. Allo scopo di trovare<br />

fondi <strong>per</strong> l’impresa e di illustrare il suo programma, Fidel Castro fece un lungo giro di<br />

conferenze presso le comunità cubane negli Stati Uniti, ottenendo finanziamenti da più<br />

parti. L’addestramento dei ribelli venne realizzato in una tenuta agricola poco fuori Città<br />

del Messico, dove giunse, tra gli altri, l’argentino Ernesto Guevara, detto “Che”. Guevara<br />

era approdato in Messico ricco di una lunga es<strong>per</strong>ienza di viaggi in America Latina e<br />

immediatamente dopo aver vissuto il fallimento dell’es<strong>per</strong>ienza riformista del governo di<br />

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Jacobo Arbenz in Guatemala, che fece maturare in lui una tenace ostilità nei confronti<br />

degli Stati Untiti.<br />

Un’incursione della polizia messicana, che arrestò e poi rilasciò i rivoluzionari a<br />

patto che lasciassero il Paese, costrinse Castro ad anticipare i tempi della spedizione e<br />

così la notte fra il 24 e il 25 novembre 1956 uno yacht di una ventina di metri, il “Granma”,<br />

salpò sovraccarico alla volta di Cuba. Una serie di contrattempi impedì di realizzare il<br />

piano d’azione. Lo sbarco avvenne con due giorni di ritardo, rendendo inutile la<br />

mobilitazione del fronte interno alla data convenuta che avrebbe dovuto distogliere<br />

l’attenzione delle forze di repressione. Inoltre i rivoluzionari vennero subito individuati e<br />

quindi costretti a dividersi. Solo una ventina di essi riuscì, alla fine, a far <strong>per</strong>dere le proprie<br />

tracce sulla Sierra Maestra, abitata all’epoca da settantamila <strong>per</strong>sone, in prevalenza<br />

precariato, cioè contadini poveri che quasi <strong>sempre</strong> occupavano le terre senza titoli di<br />

proprietà. In quest’area montagnosa fu organizzato il primo focolaio guerrigliero. Sin<br />

dall’inizio i combattenti cercarono di prefigurare il futuro assetto della società cubana<br />

attraverso l’autogoverno delle zone <strong>contro</strong>llate militarmente. Grazie alla creazione di<br />

territori “liberi”, i ribelli cominciarono a esercitare funzioni statali, sia pure in misura ridotta,<br />

riscuotendo imposte, amministrando la giustizia, provvedendo all’istruzione, aprendo<br />

ambulatori e gestendo la sanità. Tutto ciò attrasse militanti di provenienza rurale, sia<br />

contadini che salariati, anche se i quadri dirigenti e intermedi appartenevano quasi<br />

esclusivamente alla piccola e media borghesia urbana. L’immediata caratterizzazione<br />

rurale avrà un peso determinante nel segnare la futura evoluzione della rivoluzione stessa.<br />

Il piccolo gruppo di “barbudos” che agiva sulle montagne risultò dotato di una forte<br />

capacità di attrazione, che dipendeva non tanto<br />

dalla nitidezza del loro messaggio politico o dalla<br />

capacità di stringere alleanze, quanto dalla<br />

apparente ineluttabilità della via insurrezionale, a<br />

causa degli insoddisfacenti risultati con il ricorso<br />

alla via pacifica, e del rifiuto di ogni compromesso.<br />

La stessa assenza di un preciso modello cui<br />

tendere impedì che emergessero contrasti interni<br />

significativi e, unitamente alle o<strong>per</strong>azioni militari<br />

incalzanti e alla esiguità del gruppo combattente,<br />

finì <strong>per</strong> concentrare in breve tempo il potere<br />

decisionale nelle mani di Castro. A favore dei ribelli giocò anche una scarsissima<br />

motivazione a combattere da parte delle truppe regolari. A difendere il mito dei guerriglieri<br />

ed a suscitare simpatie <strong>per</strong> la loro causa intervenne in buona misura la stampa, specie<br />

dopo l’intervista concessa da Fidel Castro a Herbert Matthews, giornalista del New York<br />

Times nel febbraio del 1957.<br />

La coerenza e il rigore dei rivoluzionari non impedì loro di avere contatti con altre<br />

forze. Una delegazione del Partito Ortodosso si recò sulla sierra nel luglio del 1957 e<br />

dall’in<strong>contro</strong> emerse un comunicato congiunto meno avanzato dello stesso programma del<br />

1953. La minor radicalità delle richieste non era <strong>per</strong>ciò indice di un ammorbidimento tattico<br />

volto ad ampliare il fronte antibatistiano e ciò trovò conferma, meno di tre mesi dopo, nella<br />

denuncia del cosiddetto patto di Miami, un documento firmato negli States da vari gruppi di<br />

opposizione, fra cui gli stessi rappresentanti del Movimento 26 Luglio. Fidel Castro<br />

respinse tale fatto <strong>per</strong>ché giudicato troppo moderato ed incline al compromesso, nonché<br />

sostenuto da un’ispirazione filostatunitense, mentre nazionalismo ed antim<strong>per</strong>ialismo<br />

rappresentarono principi sui quali i combattenti della sierra non furono mai disposti a<br />

transigere. All’interno del fronte castrista le divisioni pur esistenti riguardavano<br />

sostanzialmente questioni di strategia, con il fronte impegnato sulla Sierra Maestra che<br />

insisteva sull’assoluta priorità della guerriglia e l’ala urbana del movimento che appariva<br />

60


estia ad abbandonare i vecchi sistemi di lotta, forte di una tradizione politica che veniva<br />

dagli anni Venti.<br />

I contrasti fra i due schieramenti esplosero nell’aprile 1958 a causa della decisione<br />

del fronte urbano di proclamare uno scio<strong>per</strong>o generale. L’agitazione fallì clamorosamente<br />

anche <strong>per</strong> la caparbietà con cui fu evitato ogni tipo di accordo con i comunisti. La<br />

preminenza della via insurrezionale rurale venne sancita all’a<strong>per</strong>tura, da parte del<br />

Direttorio e dei comunisti, di nuovi focolai guerriglieri sulla Sierra Escanlray. Gli studenti<br />

giunsero a questa decisione dopo il fallimento dell’attacco al palazzo presidenziale del<br />

marzo 1957, conclusosi con la morte di parecchi militanti; i comunisti, tra la cui base già da<br />

tempo si erano levate voci favorevoli alla collaborazione con i guerriglieri della sierra, a<br />

partire dal 1958 abbandonarono le ipotesi di formazione di un vasto fronte antibatistiano e<br />

la diffidenza nei confronti di Castro <strong>per</strong> ammettere la possibilità d’una lotta armata rurale,<br />

sia pure a condizione che fosse accompagnata da mobilitazioni urbane.<br />

L’alleanza col Movimento 26 Luglio, sancita dalla presenza di militanti comunisti tra<br />

le fila castriste, fu <strong>per</strong>fezionata nell’ottobre del 1958 con la stipula di un patto di unità<br />

sindacale. A quell’epoca, Castro era giù riuscito a stabilire la propria egemonia sulle forze<br />

antibatistiane grazie ai successi militari, in particolare dopo l’a<strong>per</strong>tura di un secondo fronte<br />

sulla Sierra Cristal ed il fallimento della grande offensiva governativa tra aprile e giugno.<br />

Tale sconfitta andava certo attribuita alla capacità militare dei guerriglieri, ma soprattutto al<br />

crollo morale dei soldati e alle crepe registratesi nella compattezza del corpo degli ufficiali.<br />

Nel marzo 1958, inoltre, gli USA avevano sospeso le forniture militari a Batista, anche in<br />

seguito alla cattura ed al successivo rilascio di cittadini nordamericani da parte dei<br />

guerriglieri. Nella seconda metà dell’anno, infine, le file dei ribelli crebbero di numero<br />

grazie all’arrivo di disertori e lavoratori agricoli, fortemente motivati dalla legge di riforma<br />

agraria, emanata ad ottobre nei territori liberati, che prevedeva la concessione di terre a<br />

chi non ne possedeva o ai piccoli proprietari: vale a dire alla stessa base sociale della<br />

guerriglia (questa riforma era elaborata in modo che non potesse essere ripresa in mano<br />

dai gruppi finanziari che sostenevano la monocultura zuccheriera, né da altri sistemi di<br />

consorzi agrari).<br />

- La rivoluzione<br />

Le elezioni presidenziali fissate <strong>per</strong> il novembre 1958 da Batista si tennero in una<br />

situazione ormai ampiamente compromessa. Il tasso di astensione fu impressionante e la<br />

Casa Bianca avvertì il presidente uscente che non avrebbe<br />

fornito nessun appoggio al nuovo ed amorfo capo<br />

dell’esecutivo, invitando anzi l’ex-sergente ad uscire di scena.<br />

All’alba del primo gennaio 1959, dopo che le forze armate si<br />

erano praticamente sfaldate, Batista lasciò l’isola in mano ad<br />

una giunta militare che propose inutilmente un armistizio ai<br />

ribelli. Il 2 gennaio le colonne di Ernesto Guevara e di Camillo<br />

Cienfuegos entrarono ne L’Avana paralizzata da uno scio<strong>per</strong>o<br />

generale e l’8 gennaio vi faceva il suo ingresso trionfale Fidel<br />

Castro. La vittoria del “lider maximo” e dei suoi uomini<br />

appariva come il primo successo della nuova strategia<br />

guerrigliera teorizzata dal “Che”.<br />

Le decisioni iniziali, prese dal nuovo governo di Fidel,<br />

furono inizialmente di componente etica: chiusura delle case<br />

da gioco e di tolleranza, lotta senza quartiere al traffico di<br />

droga, liberalizzazione degli accessi agli alberghi, spiagge,<br />

locali sino ad allora riservati a circoli esclusivi. Tutto questo affascinò la maggioranza della<br />

popolazione e il nuovo governo ebbe grande consenso.<br />

61


Nel marzo del 1959 fu imposta una diminuzione dei canoni d’affitto del 30-50%,<br />

accompagnata da una riduzione del prezzo dei medicinali, libri scolastici, tariffe elettriche,<br />

telefoniche e dei trasporti urbani. Dopo aver ridotto gli affitti, si varò una riforma che mirava<br />

a trasformare gli inquilini in veri e propri proprietari attraverso il pagamento degli alloggi<br />

con rate mensili proporzionali al reddito.<br />

Ma le proteste interne iniziarono dopo l’emanazione, nel maggio 1959, della prima<br />

riforma agraria, che fissava <strong>per</strong> le tenute agricole un limite massimo di 402 ettari. La<br />

su<strong>per</strong>ficie coltivabile veniva assegnata a coo<strong>per</strong>ative oppure distribuita a proprietà<br />

individuali di un minimo di 27 ettari. Il governo, <strong>per</strong> impedire il minifondo, proibiva la<br />

vendita delle terre ricevute e il loro frazionamento. Con la nuova riforma agraria fu istituito<br />

l’INRA (Istituto Nazionale di Riforma Agraria). Questa riforma suscitò forti reazioni nelle<br />

campagne ma anche presso le classi alte e i ceti medi urbani. Le manifestazioni più<br />

clamorose di dissenso furono rappresentate dalla fuga, negli Stati Uniti, del comandante<br />

delle forze armate Pedro Diaz Lanz, e dall’arresto di Huber Matos, governatore della<br />

provincia di Camarguey, accusato di cospirazione <strong>per</strong> essersi opposto alla riforma agraria.<br />

- Le conseguenze della rivoluzione<br />

Tra la fine del 1959 e quella del 1960, sollecitato dalla spinta popolare liberata dalla<br />

rivoluzione, ma anche dalla puntigliosa volontà dei suoi più stretti collaboratori (tra cui il<br />

fratello Raul e il Che) di compiere una profonda trasformazione della società cubana,<br />

Castro attuò un piano di riforme e di nazionalizzazioni senza precedenti in America,<br />

stabilendo al tempo stesso rapporti più stretti con i comunisti e con la sinistra studentesca<br />

(formazione delle Organizzazioni Rivoluzionarie Riunite, che nel 1962 si trasformarono in<br />

Partito Unito della Rivoluzione Socialista, dal 1956 Partito Comunista Cubano), fino a<br />

dichiarare socialista la propria rivoluzione (ottobre 1960). Il governo statunitense, che già<br />

aveva reagito alla nazionalizzazione dei trust americani sospendendo l’acquisto di<br />

zucchero cubano, ruppe le relazioni con L’Avana il 3 gennaio 1961.<br />

Nel tentativo di rovesciare il nuovo gruppo dirigente castrista, il presidente J. F.<br />

Kennedy autorizzò i servizi segreti degli<br />

Stati Uniti a organizzare una<br />

spedizione militare i esuli cubani<br />

(millequattrocento uomini equipaggiati<br />

con armi e mezzi aeronavali<br />

statunitensi), che <strong>per</strong>ò venne annientata<br />

mentre tentava di sbarcare a Cuba nella<br />

Baia dei Porci (Playa Girón, 17 aprile 1961).<br />

Fattosi ormai evidente l’inserimento di Cuba<br />

nel campo sovietico (la repubblica socialista fu<br />

proclamata il 1° maggio 1961 e un<br />

accordo di mutua assistenza con<br />

l’Unione Sovietica venne siglato un anno più tardi), gli USA, dopo<br />

la “crisi dei missili”<br />

dell’ottobre 1962 (invio di missili strategici sovietici a Cuba e conseguente azione navale e<br />

diplomatica statunitense <strong>per</strong> bloccarne la fornitura e imporne il ritiro), ottennero<br />

l’espulsione de L’Avana dall’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) nel 1964 ed<br />

eressero intorno all’isola un vero e proprio cordone sanitario.<br />

L’isolamento<br />

politico e l’embargo economico, i cui effetti furono in parte ridotti dagli<br />

aiuti degli Stati socialisti e non allineati, non deviarono <strong>per</strong>ò il corso della rivoluzione<br />

cubana, volta a realizzare un modello di società socialista originale, con forme di potere<br />

a<strong>per</strong>te alla dialettica tra diverse tendenze politiche e una <strong>per</strong>manente mobilitazione delle<br />

masse. All’esaltazione della spontaneità popolare <strong>contro</strong> possibili involuzioni burocratiche<br />

o settarie, che contrassegnò l’es<strong>per</strong>ienza cubana di tale <strong>per</strong>iodo (<strong>per</strong> “settarismo” fu<br />

62


espulso da Cuba nel 1962 il leader comunista A. Escalante, rientrato poi nel 1964), fece<br />

ris<strong>contro</strong> in politica estera il tentativo di fare di Cuba il polo di riferimento delle lotte<br />

anticoloniali e antim<strong>per</strong>ialiste del Terzo Mondo, sfociato nella creazione<br />

dell’Organizzazione Tricontinentale, con sede a L’Avana (1966). L’”internazionale delle<br />

guerriglie”, come fu chiamata, ebbe <strong>per</strong>ò vita effimera sia <strong>per</strong> il <strong>per</strong>durare<br />

dell’accerchiamento esterno dell’isola, impossibilitata a reggere economicamente un<br />

indefinito slancio rivoluzionario, sia <strong>per</strong> le obiettive difficoltà politiche di inserire il disegno<br />

castrista nella ferrea logica dell’equilibrio dei blocchi.<br />

Divergenze sorte in seno allo stesso gruppo dirigente cubano circa le modalità<br />

dell’industrializzazione e dell’impegno antim<strong>per</strong>ialista, sottolineate dall’allontanamento di<br />

Guevara, caduto poi alla testa dei guerriglieri boliviani (1967), imposero sulla fine degli<br />

anni Sessanta una graduale revisione politica nel senso di una strategia generale a più<br />

lungo termine entro il quadro della distensione <strong>per</strong>seguita dalla Russia. Così agli inizi degli<br />

anni Settanta si andò elaborando una politica estera che puntava sull’alleanza con i<br />

governi riformisti sorti in alcuni Paesi latinoamericani (concretatasi nella revoca delle<br />

sanzioni politiche ed economiche imposte nel 1964 e nell’ammissione di Cuba nel mercato<br />

comune degli Stati sudamericani, 1975, premessa al rientro nell’OSA) e su un processo di<br />

allineamento al disegno sovietico di coesistenza (ingresso nel Comecon; avvio della<br />

normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti). In politica interna, un’analoga revisione<br />

degli orientamenti iniziali verso l’industrializzazione spinta (autocritica di Castro del 1970)<br />

ha portato, insieme col decentramento amministrativo e con forme di potere popolare<br />

(democrazia di base sancita dalla costituzione del 1976), a un rilancio delle produzioni<br />

agricole tradizionali (zucchero, tabacco, caffè), come presupposto <strong>per</strong> la diversificazione<br />

dell’apparato produttivo verso nuovi rami d’attività: l’industria leggera, le colture<br />

specializzate e la valorizzazione del patrimonio minerario, le cui risorse potrebbero<br />

consentire a Cuba di diventare uno dei maggiori produttori mondiali di nichel.<br />

63


� L’indiano<br />

Anno di pubblicazione<br />

1981<br />

Casa discografica<br />

Ricordi<br />

Produzione<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong> - Bubola<br />

1. QUELLO CHE NON HO<br />

2. CANTO DEL SERVO PASTORE<br />

3. FIUME SAND CREEK<br />

4. AVE MARIA<br />

5. HOTEL SUPRAMONTE<br />

6. FRANZISKA<br />

7. SE TI TAGLIASSERO<br />

A PEZZETTI<br />

8. VERDI PASCOLI<br />

In seguito chiamato “L’indiano”, <strong>per</strong> la co<strong>per</strong>tina di Frederic Remington raffigurante<br />

un pellerossa,<br />

il nuovo album uscirà con il semplice nome e cognome dell’artista “<strong>Fabrizio</strong><br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong>”. È un lavoro di grande qualità, che beneficiò del buon clima creatosi in sala di<br />

registrazione grazie ad un <strong>De</strong> <strong>André</strong> voglioso di rituffarsi nella sua attività dopo la<br />

tremenda avventura del sequestro. Tranne “Verdi pascoli”, da considerare musicalmente<br />

come un divertissement, il disco contiene canzoni molto belle, da “Hotel Supramonte”,<br />

chiaramente ispirata al rapimento, a “Canto del servo pastore”, all’epica “Fiume Sand<br />

Creek”, divenuta una dei classici live di <strong>Fabrizio</strong>, a “Se ti tagliassero a pezzetti” che<br />

ribadisce il legame dell’autore con la natura, i suoi elementi. “L’indiano” viene inciso nei<br />

mesi di giugno e luglio 1981 al castello di Carimate, negli studi Stone Castles, la nuova<br />

scommessa di Toni Casetta. Per lanciarli, Casetta si avvalse della collaborazione di<br />

Alessandro Colombini, tra l’altro autore delle registrazioni della caccia al cinghiale assieme<br />

alla Compagnia di caccia di Marco Lattuneddu, che aprono il disco nel brano “Quello che<br />

non ho”. Il pezzo “Ave Maria” è invece una rielaborazione di un canto tradizionale sardo di<br />

Albino Puddu ed è cantata a due voci con Mark Harris. Infine nell’album c’è un maniacale<br />

ritorno alle stelle, in brani come “Fiume Sand Creek”, “Franziska” e “Verdi pascoli”, viste<br />

come luce nella notte. Chi non possiede stelle non possiede il lume <strong>per</strong> potersi addentrare<br />

nelle tenebre.<br />

A Carimate<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong> rivide dopo tanto tempo Mauro Pagani, il quale gli fece<br />

ascoltare<br />

alcuni pezzi ai quali stava lavorando e gli illustrò il proprio originale e intenso<br />

progetto musicale. Stava <strong>per</strong> iniziare la marcia di avvicinamento che avrebbe portato al<br />

capolavoro “Creuza de mä”. Con una aggueritissima formazione <strong>Fabrizio</strong> ritorna sulla<br />

strada a presentare il nuovo 33 giri. Uscito a fine agosto, nel giro di una sola settimana<br />

venderà ben 180.000 copie, un successo corroborato da quello delle esibizioni dal vivo.<br />

Massimo Bubola, oltre a eseguire con <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> “Una storia sbagliata” (singolo<br />

uscito l’anno prima, abbinato a “Titti”), accompagnato dal gruppo presenterà alcuni brani<br />

tratti da “Tre rose”, l’album uscito <strong>per</strong> la Fado (etichetta di <strong>De</strong> <strong>André</strong>). Ad agosto la Rai<br />

riprenderà il concerto alla Bussoladomani di Lido di Camaiore, riproponendolo il 26<br />

novembre in prima serata su Rai Uno. A fine estate <strong>De</strong> <strong>André</strong> è ospite della finale del<br />

Festivalbar, dove viene premiato Massimo Bubola. Il 29 ottobre, all’età di sessant’anni,<br />

muore Georges Brassens, ucciso da un tumore.<br />

64


- La vita nei campi<br />

Il “Canto del servo pastore” riassume malinconicamente la vita solitaria di un<br />

pastore<br />

sardo, servo del signore, che passa le sue giornate ad ammirare le sue bestie e a<br />

fare nostalgici<br />

pensieri sulla sua famiglia, s<strong>per</strong>ando che la notte spenga la sua tristezza.<br />

Giacomo Leopardi nel suo “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” parla di un<br />

ingenuo e primitivo pastore asiatico che passa le serate a chiedere invano alla luna quale<br />

sia il destino e il senso della vita umana; molto prima di lui già Tibullo e Virgilio nelle loro<br />

o<strong>per</strong>e avevano immaginato un mondo agreste pacifico e sereno, in pieno contrasto quindi<br />

con l’idea di solitudine leopardiana. Infine ho scelto il bellissimo quadro di Teofilo Patini<br />

“Vanga e latte”, in cui l’artista ha dipinto la quotidianità ma soprattutto gli stenti che molte<br />

volte accompagnano la vita nei campi.<br />

- La solitudine della vita agreste<br />

(Giacomo Leopardi)<br />

Con il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”<br />

Leopardi nuovamente si volge a considerare<br />

più in generale, tramite<br />

la figura<br />

esemplare del pastore errante, la costitutiva infelicità<br />

dell’intero genere umano e anzi di tutti gli esseri viventi. Nel<br />

paesaggio desolato dell’immensa steppa asiatica, sovrastato dalla<br />

misteriosa vastità del cielo stellato, un pastore interroga la luna sul<br />

<strong>per</strong>ché delle cose e sul senso del destino umano. Ma le sue<br />

domande non trovano risposte, e il silenzio del cielo sconfinato gli<br />

conferma ciò che già sapeva, cioè che l’universo è un enigma<br />

indecifrabile nel quale l’unica cosa certa è il dolore degli uomini e di<br />

tutti gli esseri viventi. Scegliendo una figura umile come<br />

protagonista della lirica,<br />

Leopardi vuole dimostrare come tutti, ricchi o poveri, intellettuali o<br />

analfabeti, si pongono<br />

le stesse domande senza risposta sul significato della vita e<br />

sull’esistenza del male; anzi, sulle labbra di un semplice pastore questi interrogativi<br />

acquistano una forza particolare, primordiale e assoluta, che esprime la “radice” comune<br />

della condizione umana.<br />

In questo canto le strofe si presentano come una successione di domande rivolte<br />

alla luna. Il colloquio del pastore<br />

con la luna oscilla tra due spinte contrastanti; da un lato,<br />

egli sembra<br />

s<strong>per</strong>are che le sofferenze della vita abbiano una spiegazione che la luna<br />

conosce; dall’altro ne dubita e pensa che la negatività del destino umano sia un dato<br />

troppo tragico quanto indiscutibile. Il pastore non rinuncia all’idea che la luna possa<br />

svelare i misteri della vita e della morte, dell’infinito andar nel tempo e mutare delle<br />

stagioni e dell’inquietante vastità dell’universo. La bellezza della primavera e del cielo<br />

stellato devono giovare a qualcuno, non possono essere semplici apparenze di un<br />

universo indifferente. Ma lo sconforto emerge nell’ammissione finale, in cui i dubbi fiduciosi<br />

lasciano spazio ad una certezza terribile: “a me la vita è male”.<br />

Dimmi, o luna: a che vale<br />

al<br />

pastor la sua vita,<br />

la vostra vita o voi? dimmi: ove tende<br />

questo vagar mio breve,<br />

il tuo corso immortale?<br />

Vecchierel bianco, infermo,<br />

mezzo vestito e scalzo,<br />

con gravissimo fascio in su le spalle,<br />

<strong>per</strong> montagna e <strong>per</strong> valle,<br />

<strong>per</strong> sassi acuti, ed alta rena, e fratte,<br />

al vento, alla tempesta, e quando<br />

avvampa<br />

l’ora, e quando poi gela,<br />

corre via, corre, anela,<br />

varca torrenti e stagni,<br />

cade, risorge, e più e più s’affretta,<br />

senza posa o ristoro,<br />

lacero, sanguinoso; infin ch’arriva<br />

colà dove la via<br />

e dove il tanto affaticar fu<br />

volto:<br />

abisso orrido, immenso,<br />

ov’ei precipitando, il tutto<br />

obblia.<br />

Vergin luna, tale<br />

è la vita mortale.<br />

Nasce l’uomo a fatica,<br />

65


ed è rischio di morte il nascimento.<br />

Prova pena e tormento<br />

<strong>per</strong> prima cosa; e in sul principio stesso<br />

la madre e il genitore<br />

il prende a consolar<br />

dell’esser nato.<br />

Poi che crescendo viene,<br />

l’uno e l’altro il sostiene, e via pur <strong>sempre</strong><br />

con atti e con parole<br />

studiasi fargli core,<br />

e consolarlo dell’umano<br />

stato:<br />

altro ufficio più grato<br />

non si fa da parenti alla lor prole.<br />

[…] Spesso quand’io ti miro<br />

star così muta in sul deserto<br />

piano,<br />

che, in suo giro lontano,<br />

al ciel confina;<br />

ovver con la mia greggia<br />

seguirmi viaggiando a mano a mano;<br />

e quando miro in cielo arder le stelle;<br />

dico fra me pensando:<br />

a che tante facelle?<br />

Che fa l’aria infinita, e quel profondo<br />

infinito seren? che vuol dir questa<br />

solitudine immensa? ed io che sono?<br />

Così meco ragiono: e dalla stanza<br />

smisurata e su<strong>per</strong>ba,<br />

e dell’innumerabile famiglia;<br />

poi di tanto adoprar, di tanti moti<br />

d’ogni celeste, ognio terrena<br />

cosa,<br />

girando senza posa,<br />

<strong>per</strong> tornar <strong>sempre</strong> là donde son mosse;<br />

uso alcuno, alcun frutto<br />

indovinar non so. Ma tu <strong>per</strong> certo,<br />

giovinetta immortal, conosci il tutto.<br />

Questo io conosco e sento,<br />

che degli eterni giri,<br />

che dell’esser mio frale,<br />

qualche bene o contento<br />

avrà fors’altri; a me la vità è male.<br />

[…] Se tu parlar sapessi, io chiederei:<br />

dimmi: <strong>per</strong>ché giacendo<br />

a bell’agio, ozioso,<br />

s’appaga ogni animale;<br />

me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?<br />

Forse s’avess’io l’ale<br />

da volar su le nubi,<br />

e noverar le stelle ad una ad una,<br />

o come il tuono errar di<br />

giogo in giogo,<br />

più felice sarei, dolce<br />

mia greggia,<br />

più felice sarei, candida luna.<br />

O forse erra dal vero,<br />

mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:<br />

forse in qual forma, in quale<br />

stato che sia, dentro covile<br />

o cuna,<br />

è funesto a chi nasce il dì natale.<br />

- L’esaltazione della vita<br />

agreste (Albio Tibullo)<br />

Nel I libro del “Corpus Tibullianum”,<br />

oltre alle poesie d’amore <strong>per</strong> <strong>De</strong>lia, trovano<br />

posto elegie sulla deplorazione della guerra e sulla vita agreste.<br />

All’orrore <strong>per</strong> la guerra,<br />

Tibullo accompagna l’esaltazione della pacifica e serena vita dei campi, a cui il poeta si<br />

augura di potersi dedicare, onorando gli dei dei suoi padri e rimanendo fedele alla<br />

semplice religiosità tradizionale. La poesia tibulliana risulta più ”vera” e più efficace non<br />

quando vuole esprimere i conflitti e le drammatiche contraddizioni della passione amorosa,<br />

ma quando diventa evasione, astrazione e rifugio in un mondo soggettivo e illusorio,<br />

costruito al di fuori dei confini della vita reale. Il tema che il poeta sente più congeniale e<br />

che sa rendere con sensibilità ed accenti suoi peculiari è infatti l’aspirazione alla serena e<br />

pacifica vita dei campi, idealizzata secondo i moduli della poesia bucolica (non senza<br />

influssi delle “Bucoliche” di Virgilio), ma inserita in un contesto tipicamente romano nei<br />

frequenti richiami ai valori della tradizione e della primitiva civiltà latina, dominata dalla<br />

semplice religiosità agreste.<br />

La campagna è <strong>per</strong> Tibullo, come <strong>per</strong> i poeti alessandrini e <strong>per</strong> Virgilio, un luogo<br />

idilliaco di evasione, lontano e al riparo dai vizi, dalla corruzione e dalla violenza, dalla<br />

politica e dalla guerra: un mondo di pace e d’innocenza, una sorta di paradiso <strong>per</strong>duto ove<br />

rifugiarsi con la fantasia, abbandonandosi ad un sogno nostalgico. Rispetto alle<br />

“Bucoliche”, si possono rilevare da un lato un maggiore realismo nella descrizione delle<br />

occupazioni agricole, dall’altro una maggiore indeterminatezza nei riferimenti alla realtà<br />

storica da cui il poeta vuole astrarsi: non troviamo infatti la deplorazione esplicita delle<br />

guerre civili; anzi, le guerre di cui parla Tibullo si configurano <strong>sempre</strong> come guerre di<br />

conquista, intraprese <strong>per</strong> avidità di ricchezze.<br />

Hic placatus erat, seu quis libaverat uva,<br />

Seu dederat sanctae spicea<br />

serta comae,<br />

Atque aliquis voti compos liba ipse ferebat<br />

Postque comes purum filia parva favum.<br />

66


- La quotidianità della vita agreste (Teofilo Patini)<br />

La famiglia di “Vanga e latte” è formata dalle figure essenziali,<br />

padre, madre e figlio,<br />

ritratte in a<strong>per</strong>ta campagna: l’uomo è intento a vangare il terreno mentre la donna,<br />

interrotto momentaneamente il lavoro, si siede in terra e allatta il figlio neonato. Sul terreno<br />

giacciono gli oggetti che compongono il quadro e descrivono simbolicamente la vita della<br />

famiglia: la culla e l’ombrello posto a ripararla, il basto, la piccola botte, il cencio rosso e,<br />

sulla destra, la giacca, il cappello e il piatto di polenta con le due posate di legno; anche il<br />

cielo, visto dal basso, sembra poggiare pesantemente sulla terra, generosa solo di sterpi e<br />

stoppie. I contadini sono impastati della terra che lavorano. L’anonimo vangatore incarna<br />

la fatica dell’umanità, la sua grandezza statuaria è priva di ogni retorica. La donna,<br />

descritta con tenerezza nelle vesti logore, nei gesti forti ma delicati, è una “Madonna” del<br />

latte, la cui forza sta proprio nell’accettazione di un’esistenza di stenti. Il bimbo succhia<br />

avidamente, con un’energia vitale che è il presupposto necessario delle lotte che dovrà<br />

combattere.<br />

Le figure sono disposte lungo una fuga prospettica verso l’infinito, segnalata sul<br />

piano di terra dalle gambe della donna, dal piede d’appoggio del contadino e dalla vana<br />

conficcata nel terreno, sul piano su<strong>per</strong>iore dalla linea che parte dal gomito levato<br />

dell’uomo e che cade all’estremità destra del dipinto, formando con la direttrice precedente<br />

un angolo acuto. L’impostazione rigorosamente prospettica del dipinto, che degrada dalle<br />

nitide nature morte del primo piano alle zolle che increspano il terreno e alla costa<br />

montana segnata dalle prime nevi, riserva quasi metà della tela al cielo, che conferisce<br />

alla scena la limpidezza del primo mattino. Patini dà volume alle figure attraverso il colore,<br />

che assorbe in sé la luce e che ha fatto parlare di “caravaggismo all’aria a<strong>per</strong>ta”. La<br />

pennellata è ampia, con lievi chiaroscuri, come nelle gambe del bimbo, e punti in cui il<br />

colore si rapprende e diventa materico, come nelle stoppie in primo piano. L’adesione<br />

sentimentale di altri pittori ai propri <strong>per</strong>sonaggi lascia qui il posto ad un’interpretazione<br />

rigidamente oggettiva della realtà, che assume valore storico: una storia “minore” di piccoli<br />

eventi quotidiani, raccontata dai protagonisti.<br />

Teofilo Patini, Vanga e latte, 1883-84<br />

olio su tela, 213x372 cm<br />

Roma, Ministero dell’agricoltura e delle foreste<br />

67


� Creuza de mä<br />

1. CREUZA DE MÄ<br />

2. JAMIN-A<br />

3. SIDUN<br />

4. SINAN CAPUDAN<br />

5. A PITTIMA<br />

6. A DUMENEGA<br />

7. DA A ME RIVA<br />

Anno<br />

1984<br />

di pubblicazione<br />

Casa discografica<br />

Ricordi<br />

Produzione<br />

Pagani - <strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

PASCIÁ<br />

Le registrazioni si svolsero<br />

alla fine del 1983 tra i Felipe Studio di Milano e gli Stone<br />

Castles di Carimate. Il<br />

disco riuscirà ad evocare suoni, profumi, voci, odori, sapori e<br />

bellezze di tutto il Mediterraneo ma sarà, soprattutto, un canto d’amore a Genova. Uscito<br />

quasi in sordina ai primi di febbraio, solamente ai primi di maggio riuscirà ad entrare tra i<br />

top ten. La stampa italiana in questa occasione darà prova di maturità cogliendo in pieno<br />

la grandezza della proposta di <strong>De</strong> <strong>André</strong> e Pagani spingendo le vendite del disco. Articoli,<br />

interviste, recensioni, special radiofonici e televisivi, ammirate dichiarazioni dei colleghi<br />

avranno la meglio sulla iniziale indifferenza del pubblico. Il grande interesse nato intorno a<br />

“Creuza de mä” non sfuggì al promoter che nel mese di giugno doveva portare in tour <strong>per</strong><br />

l’Italia Bob Dylan e Carlos Santana con i rispettivi gruppi, e che propose a <strong>Fabrizio</strong> di<br />

aprire il concerto allo stadio San Siro di Milano. <strong>Fabrizio</strong> rifiutò. <strong>De</strong> <strong>André</strong> intanto, dopo<br />

aver approfondito la conoscenza della musica mediterranea, grazie anche al preziosissimo<br />

confronto con Mauro Pagani si appassionò alla letteratura islamica e preislamica. Con<br />

l’arrivo dell’estate giunse anche il momento di presentarsi dal vivo con il viaggio di “Creuza<br />

de mä”. I due produttori dovettero risolvere diversi problemi di ordine tecnico e raccogliere<br />

una band capace di riproporre in maniera adeguata il suono e le difficili partiture del disco.<br />

“Jamin-a” è un ritratto a tutto tondo di una prostituta araba che ogni marinaio<br />

vorrebbe incontrare a terra; “Sidun” è il canto straziante di un padre che assiste alla<br />

violenta morte del figlio. “Sinan capudan pasciá” è l’antica vicenda di un marinaio<br />

genovese che salvò nel XV secolo la vita di un sultano, fu nominato “gran vizir” ma rigettò<br />

l’accusa di aver rinnegato <strong>per</strong> essersi convertito all’Islam <strong>per</strong>ché in fondo aveva<br />

semplicemente vissuto la sua vita “bestemmiando Maometto al posto del Signore”. “A<br />

dumenega” è la magistrale ricostruzione delle tipiche passeggiate che le prostitute<br />

facevano con le loro “madame”; “A pittima” è il freddo ritratto degli esattori genovesi alle<br />

dipendenze dei signorotti. Infine “Da a me riva” esplica tutto l’amore di <strong>Fabrizio</strong> <strong>per</strong><br />

Genova. Si deve ricordare che “Creuza de mä” fu premiato come miglior album del<br />

decennio 1980-89 dalla rivista “Musica e dischi” e premiato anche <strong>per</strong> la meravigliosa<br />

co<strong>per</strong>tina. La grande intuizione di Mauro Pagani e <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> fu quella di utilizzare,<br />

accanto a strumenti etnici, la classica sezione ritmica costituita da basso e batteria e,<br />

soprattutto, il synclavier, il più evoluto synth a livello commerciale: la commistione si rivelò<br />

riuscitissima e vincente, ed il suono di questo capolavoro si sarebbe caratterizzato <strong>per</strong> una<br />

sua affascinante originalità.<br />

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- La morte di un figlio<br />

Sidone, protagonista della canzone “Sidun” (interamente in dialetto genovese) è un<br />

padre che assiste ad una delle cose più strazianti<br />

che possano accadere ad un genitore:<br />

vede<br />

il suo bambino morire di tumore. A testimonianza della dis<strong>per</strong>azione che un genitore<br />

prova di fronte ad un evento tale ho deciso di portare il celebre componimento “Pianto<br />

antico” di Giosue Carducci, in cui il poeta comunica il suo dolore <strong>per</strong> la <strong>per</strong>dita del suo<br />

piccolo Dante. Anche il regista Nanni Moretti si è dato da fare <strong>per</strong> delineare il sentimento<br />

di vuoto che prova un genitore colpito dalla morte di un figlio: questo sentimento è ben<br />

espresso nel riuscito film “La stanza del figlio”. A differenza di questi due artisti ho voluto<br />

analizzare anche il dipinto “Saturno che divora uno dei suoi figli” di Francisco Goya, in cui<br />

viene tremendamente ritratto appunto il dio Saturno nell’attimo di uccidere, divorandolo,<br />

suo figlio: metafora della cieca bestialità del potere che teme l’usurpazione.<br />

- Il piccolo Dante (Giosue Carducci)<br />

Di fronte al dolore <strong>per</strong> la morte del proprio bambino<br />

non ci<br />

sono più parole, c’è solo il pianto, la manifestazione, cioè, più<br />

individuale e intima,<br />

nascosta, privata, di una sofferenza<br />

altrimenti<br />

inesprimibile. Ed allo stesso tempo è un pianto antico,<br />

universale ed esteso, quasi, al dolore di tutti gli esseri viventi,<br />

capace di esternare in quattro quartine di settenari un<br />

sentimento inaccessibile, legato ad un evento a ed un momento<br />

particolari, ma insieme estendibile al passato, anche attraverso<br />

una densa filigrana di rimandi testuali e concettuali alla poesia<br />

classica, ed in particolare al lirico greco Mosco, e al futuro, nel<br />

momento in cui questo “Pianto antico” si fa emblema della<br />

condizione esistenziale dell’uomo. Giù il titolo di questa breve<br />

lirica, legata alla scomparsa del piccolo Dante, unico figlio<br />

maschio, oltre alle due bambine<br />

Beatrice e Laura, di Carducci, ed inserita nella raccolta<br />

“Rime nuove” (1887), ci dà<br />

l’esatta <strong>per</strong>cezione del <strong>per</strong>iodo storico e degli sviluppi della<br />

poetica dell’autore.<br />

Il componimento si colloca, infatti, in quella fase che segna <strong>per</strong> Carducci il<br />

passaggio da poeta “artiere” a poeta “artista” che, abbandonato lo strale polemico-satirico<br />

di “Giambi ed epodi”<br />

e la foga giacobina e libertaria della fase “satanica”, si concentra su<br />

temi più<br />

intimi e privati, affrontando appunto il problema del dolore, della morte, della<br />

memoria e della nostalgia con un atteggiamento di virile accettazione del destino, lontano<br />

sia da tentazioni nichilistiche ed autodistruttive, che da prospettive consolatorie di marca<br />

spirituale-cristiana, ma <strong>sempre</strong> confortato dalla lezione della poesia classica. Anche un<br />

altro componimento della stessa raccolta, infatti, “Funere mersit acerbo”, che prende il<br />

titolo da un emistichio virgiliano dell’”Eneide”, rievoca la scomparsa del piccolo Dante,<br />

legata idealmente a quella dell’altro Dante, fratello ventenne dell’autore, morto suicida<br />

pochi anni prima.<br />

Anche “Pianto antico” presenta la tematica centrale della poesia carducciana,<br />

l’opposizione luce-ombra, vita-morte. Le due polarità in opposizione sono nettamente<br />

ripartite tra le prime<br />

due strofe e le ultime due. Nelle prime due dominano immagini di luce<br />

e di calore,<br />

con intense note coloristiche, e rendono il senso della vitalità prorompente<br />

della natura primaverile. A questi motivi, nelle ultime due si contrappone il motivo<br />

dell’aridità, del freddo, del buio, dell’assenza di gioia vitale e d’amore. La serie delle<br />

opposizioni si può così ricostruire sulla base della trama delle parole chiave: “rinverdì vs<br />

inaridita”, “luce vs terra negra”, “calor vs terra fredda” e “amore vs inutil vita”.Ma già nella<br />

prima parte, pur dominata dalla solarità, è presente una nota cupa che anticipa il clima<br />

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della seconda parte: il “muto orto solingo”. È un’immagine di morte: il giardino è muto<br />

<strong>per</strong>ché non risuona più dei giochi del bambino. L’io lirico si protende dis<strong>per</strong>atamente, ma<br />

vanamente, verso immagini di solare vitalità, <strong>per</strong> scacciare l’immagine della morte che<br />

l’ossessiona. Il ritmo si sviluppa dalla prima all’ultima strofa in un crescendo di<br />

drammaticità, rendendosi man mano più asciutto, franto, spezzato dall’allitterazione della<br />

lettera “r” e da suoni duri e aspri. Parallelamente lo stile volge verso una <strong>per</strong>entorietà che<br />

si fa lapidaria, al punto che l’ultima quartina è quasi un epitaffio, nelle ripetizioni anaforiche<br />

e nella rigidità icastica del costrutto.<br />

L’albero a cui tendevi<br />

la pargoletta mano,<br />

il verde melograno<br />

da’ bei vermigli fior,<br />

n el muto orto solingo<br />

rinverdì tutto or ora<br />

e giugno lo ristora<br />

di luce e di calor.<br />

T u fior de la mia pianta<br />

p ercossa e inaridita,<br />

tu de l’inutil vita<br />

estremo unico fior,<br />

sei ne la terra fredda,<br />

sei ne la terra negra;<br />

n é il sol più ti rallegra<br />

né ti risveglia amor.<br />

- Il ricordo del figlio (Nanni Moretti)<br />

L’ormai celebre film “La stanza del figlio” di Moretti si<br />

presenta scabro, essenziale, al limite dell’oscenità intesa come<br />

esibizione del privato.<br />

Qui (nella stanza del figlio) la disarmante<br />

fisicità del dolore (contrizione e pianto) al lavoro produce lo<br />

strappo del sipario del palcoscenico della vita. Forse Moretti era<br />

partito cinematograficamente da Kieslowski e la sua<br />

rappresentazione minimale dell’esistenza legata al caso; se così<br />

fosse l’ispirazione si sarà <strong>per</strong>sa strada facendo <strong>per</strong>ché il film non<br />

riesce mai a trascendere gli eventi che mette in scena, la<br />

quotidianità (i gesti, gli sguardi, le parole, le cose) non si traduce<br />

in metafisica né sotto il profilo contenutistico né sotto quello<br />

squisitamente linguistico.<br />

Al di là di tutto è comunque singolare il suggerimento che<br />

lo psicanalista di Moretti<br />

consiglia <strong>per</strong> liberare i pazienti e se stesso dal male di vivere:<br />

praticare lo sport che p iù si avvicina alla propria indole. Se si soffre l’agonismo e la<br />

competizione come nel caso di Andrea, il figlio, è più naturale essere un sub piuttosto che<br />

un tennista, se il rapporto con la gente non è positivo meglio misurare i propri limiti<br />

individuali con un sano footing, se al contrario è piacevole e stimolante immergersi nella<br />

collettività ecco che ideale può essere il basket come sport di squadra.<br />

Splendida la figura di Laura Morante, unica della famiglia a non praticare alcuno<br />

sport <strong>per</strong>ché unica spettatrice del film (vede il doppio del figlio che la sfiora in corsa, vede<br />

il figlio negli occhi di Arianna, la ragazza di cui forse era innamorato ma<br />

non ne parlava,<br />

vede la<br />

stanza del figlio con i suoi abiti e scopre le sue lettere). Forse il film più attoriale di<br />

Moretti svela malinconicamente e soprattutto involontariamente l’intima autorialità<br />

dell’autarchico (ergo il suo stato d’animo). Questa ultima fatica del regista di Brunico,<br />

nonostante il quasi unanime consenso di pubblico e critica, è destinata a dividere la sua<br />

filmografia e probabilmente gli stessi suoi estimatori di <strong>sempre</strong> ma è fisiologico <strong>per</strong> una<br />

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pellicola che rappresenta la divisione-lacerazione (conseguentemente il dolore) di un<br />

essere umano.<br />

- L’uccisione di un figlio (Francisco Goya)<br />

Il “Saturno che divora uno dei suoi figli” è una rappresentazione di un tema<br />

mitologico<br />

che fa parte della famosa serie di pitture “nere” della Quinta del Sordo, così<br />

chiamate <strong>per</strong> la predominanza di timbri tenebrosi. Appartiene<br />

all’attività più tarda di Goya e<br />

venne eseguita, con altri tredici, <strong>per</strong> la decorazione della Quinta del Sordo, la sua<br />

abitazione privata nella campagna sulle sponde del Manzanarre. L’artista,<br />

settantaquattrenne, è ormai quasi completamente sordo, solo, sfiduciato dalla piega che<br />

hanno preso le vicende politiche europee e spagnole in particolare, ed è preda<br />

dell’angoscia di cui testimonianza gran parte della produzione della sua vecchiaia. Goya,<br />

in questa terribile figurazione, fa riferimento ad un tema che iniziò ad essere trattato<br />

nell’arte occidentale a partire dal Medioevo, Saturno che divora un figlio, e lo dipinge con<br />

inedita crudezza. Quest’o<strong>per</strong>a, assieme alla raffigurazione di “Giuditta e Oloferne”, dipinta<br />

nello stesso luogo, ha probabilmente un significato politico.<br />

“Giuditta e Oloferne” esalta, infatti, il tirannicidio, mentre “Saturno che divora uno<br />

dei suoi figli” sembra simboleggiare il tiranno che divora i suoi sudditi, un’allusione di Goya<br />

a Ferdinando VII. L’atmosfera allucinata e la potenza fantastica<br />

della scena si manifestano<br />

nel concentrare<br />

la rappresentazione su pochi elementi, mediante un uso altamente<br />

suggestivo della luce, che fa emergere dal fondo scuro la figura mostruosa, trattata con<br />

toni ocra e grigiastri, sui quali spicca, nota raccapricciante, il rosso del sangue del corpo<br />

dilaniato del figlio. La modernità nell’uso dei mezzi pittorici mette quest’o<strong>per</strong>a tra i principali<br />

precedenti dell’Espressionismo.<br />

Francisco Goya, Saturno che divora uno dei suoi figli, 1820-23<br />

olio su intonaco trasportato su tela, 143,5x81,4 cm<br />

Madrid, Prado<br />

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� Le nuvole<br />

Anno di pubblicazione<br />

1990<br />

Casa discografica<br />

Fonit Cetra<br />

Produzione<br />

Pagani - <strong>De</strong> <strong>André</strong><br />

1. LE NUVOLE<br />

2. OTTOCENTO<br />

3. DON RAFFAÈ<br />

4. LA DOMENICA DELLE<br />

SALME<br />

5. MEGU MEGUN<br />

6. LA NOVA GELOSIA<br />

7. A CIMMA<br />

8. MONTI DI MOLA<br />

Nonostante la ferita ancora<br />

a<strong>per</strong>ta della morte del fratello Mauro, <strong>Fabrizio</strong>, con il<br />

sostegno di Dori, inizia la fase<br />

finale della produzione del nuovo album. Il recente premio<br />

assegnato<br />

a “Creuza de mä”<br />

non fa che aumentare le responsabilità, che obbligare a<br />

produrre qualcosa di unico. L’album è scritto a quattro mani con Mauro Pagani, suo<br />

compagno di viaggio dal 1984. A loro si affiancheranno Massimo Bubola, con il quale<br />

<strong>Fabrizio</strong> scrive i testi di “Don Raffaè” e Ivano Fossati <strong>per</strong> i testi di “Megu megun” e “A<br />

cimma”. Fa inoltre la sua comparsa Piero Milesi, invitato da Pagani insieme a Sergio<br />

Conforti a realizzare gli arrangiamenti di “Le nuvole” e “Ottocento”. “Le nuvole” è, di tutta la<br />

discografia del cantautore genovese, il disco più a<strong>per</strong>tamente e volutamente politico. “La<br />

domenica delle salme”, in particolare, avrà il compito di dare una vibrante sferzata al<br />

potere accusando il sistema del pentitismo. Palese il riferimento a Renato Curcio,<br />

brigatista carcerato, il quale, <strong>per</strong> non aver aiutato la giustizia, non gode dei privilegi offerti<br />

ai suoi “bravi colleghi”. Ma “Le nuvole” sarà anche un atto di autocritica nei confronti di<br />

status symbol, cianfrusaglie, sovrastrutture di stampo prettamente borghese.<br />

Da un punto di vista stilistico, “Le nuvole” è un disco meno omogeneo del<br />

precedente, ma non <strong>per</strong> questo meno interessante anche musicalmente. Basti pensare ad<br />

“Ottocento”, che riporta all’o<strong>per</strong>a buffa dell’inizio del diciannovesimo secolo e al primo<br />

Rossini. E come dimenticare i profumi del mare, e della sua Genova, che escono da<br />

“Megu megun” e da “A cimma”, diretta continuazione di “Creuza de mä”, i cui testi<br />

vengono scritti assieme a Fossati durante un soggiorno sulla costiera amalfitana e poi a<br />

casa di Ivano. “Monti di mola” è invece un divertente omaggio alla Sardegna cantato in<br />

gallurese e ispirato ad una delle tante storie raccontategli dagli amici pastori. La hit del<br />

disco è “Don Raffaè”, cantata in un napoletano maccheronico, che narra con l’ironia tipica<br />

di <strong>Fabrizio</strong> situazioni sociali che di divertente hanno ben poco. Il brano susciterà qualche<br />

polemica, ma raccoglierà anche molti consensi, come quello di don Raffaele Cutolo. “Le<br />

nuvole” è un disco di pensiero forte, di dichiarazioni chiare e nette. L’a<strong>per</strong>tura, spiazzante<br />

e suggestiva, è affidata al brano omonimo, dove <strong>De</strong> <strong>André</strong> sceglie di non apparire con la<br />

sua voce, lascia il proscenio alla splendida orchestra diretta da Piero Milesi e alle<br />

melodiose voci dal chiaro accento sardo che declamano il testo. Registrato al Metropolis di<br />

Milano, l’album viene pubblicato il 26 settembre 1990 dopo un paio di rinvii che<br />

contribuiscono ad aumentare l’attesa. In co<strong>per</strong>tina le nuvole.<br />

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- Il pentitismo<br />

Il pentitismo è <strong>sempre</strong> stato uno dei temi caldi di <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong>, in quanto egli<br />

non hai mai potuto accettare<br />

l’idea del <strong>per</strong>dono di un criminale attraverso un aiuto, quasi<br />

<strong>sempre</strong> manipolato e fasullo. Cosicché ne “La domenica delle salme” <strong>Fabrizio</strong> ha voluto<br />

parlare<br />

di Renato Curcio <strong>per</strong> evidenziare quanta ingiustizia ci sia in Italia. In un’intervista<br />

del 6 maggio<br />

1993 <strong>De</strong> <strong>André</strong> dirà di Curcio: «Lui che non ha commesso nessun delitto è<br />

ancora in galera, <strong>per</strong>ché non si è dissociato, ovvero non ha approfittato di quella regola,<br />

<strong>per</strong>altro immorale, attraverso la quale si possono avere dei benefici di legge. Insomma,<br />

Curcio, che non è una spia, resta dentro mentre vedo alcuni dei miei sequestratori<br />

circolare liberamente in Gallura». È <strong>per</strong> questo che voglio parlare del fenomeno del<br />

pentitismo, da anni in voga <strong>per</strong> le stragi mafiose, attraverso l’analisi dei pro e dei <strong>contro</strong> di<br />

questo sistema investigativo.<br />

- La nascita del circuito degli speciali<br />

La prima norma sui cosiddetti pentiti fu introdotta dalla legge Cossiga del 1980, una<br />

delle più importanti innovazioni<br />

legislative nate in quegli anni <strong>per</strong> contrastare il fenomeno<br />

della<br />

lotta armata. Questa norma fu voluta <strong>per</strong>sonalmente dal generale Dalla Chiesa, che<br />

intuì, prima di altri, la necessità di strumenti legislativi<br />

nuovi. Le leggi speciali in materia di<br />

ordine pubblico erano certo state utilissime, ed i risultati si erano visti. Ma questo non<br />

bastava a su<strong>per</strong>are la logorante guerra di trincea che si combatteva ormai da anni. Serviva<br />

uno strumento nuovo, in grado di agire contemporaneamente sia militarmente che<br />

politicamente, che fosse capace, anche pagando costi ingenti sul<br />

piano dell’autorità statale, di creare divisioni nel fronte avversario.<br />

Bisognava liberarsi da un astratto principio di legalità che impediva<br />

il pieno dispiegamento di un agire pragmatico e flessibile,<br />

laicamente disposto a misurare, nelle singole contingenze, costi e<br />

benefici, non pregiudizialmente contrario a meditazioni, trattative e<br />

contrattazioni, qualora queste fossero risultate utili.<br />

Nella prassi poliziesca lo scambio impunità-delazione è una<br />

pratica antica e consuetudinaria. L’azione investigativa ha da<br />

<strong>sempre</strong> utilizzato questo strumento, che è senza dubbio tra i più<br />

efficaci. La novità che la legislazione sul pentitismo<br />

introduce sta<br />

nel fatto<br />

che questa pratica riceve adesso un riconoscimento<br />

giuridico, diviene forma<br />

legale, interviene nella procedura penale, determina l’entità delle<br />

pene, subordinando il giudizio<br />

sull’atto criminoso alla capacità di delazione del suo autore.<br />

Dopo due anni di concreta s<strong>per</strong>imentazione sul campo, la materia del pentitismo<br />

trovò una sua sistemazione<br />

definitiva nella legge n. 304 del 29 maggio 1982. La pressione<br />

che gli organi inquirenti o<strong>per</strong>arono sul legislatore affinché fosse data concretezza alle<br />

esigenze di una nuova contrattualità tra Stato e organizzazioni politiche armate fu decisiva<br />

<strong>per</strong> l’approvazione<br />

di questa norma. Il suo meccanismo è tanto semplice quanto efficace:<br />

lo Stato rinuncia, del tutto o in parte, ad esercitare la sua pretesa punitiva nei confronti<br />

dell’autore del reato associativo che interrompe il vincolo che lo lega ai concorrenti,<br />

fornendo informazioni utili sulla struttura e sulla organizzazione dell’associazione o della<br />

banda. La natura del contratto di collaborazione prescrive tassativamente che il<br />

collaboratore o<strong>per</strong>i un netto passaggio di campo sul piano concreto dell’azione militare.<br />

L’utilità della collaborazione è misurata, in denaro, dalla quantità di nomi che egli rivela,<br />

dal numero di basi che indica, dalle informazioni sugli organigrammi e sui ruoli che<br />

fornisce, dal disvelamento delle responsabilità su singoli eventi delittuosi.<br />

Questa grande innovazione avrà egli effetti dirompenti sul piano o<strong>per</strong>ativo, e<br />

costituirà un paradigma delatorio premiale che dimostrerà una forte efficacia soprattutto<br />

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nella gestione di altre emergenze criminali che vivrà il nostro Paese negli anni a venire. Le<br />

norme delatorio-premiali sono, comunque, tutte dentro la logica della soluzione militare<br />

delle emergenze<br />

sociali. Ciò che questa legislazione consegna nelle mani degli inquirenti<br />

è un arnese di enorme potenza, che è stato fabbricato direttamente sul campo e, solo<br />

successivamente, formalizzato e reso ampiamente o<strong>per</strong>ativo. La figura sociale del pentito<br />

nasce prima dell’apparire della sua forma giuridica.<br />

- La s<strong>per</strong>imentazione del meccanismo<br />

Nel febbraio 1980, dopo appena un mese dalla sua cattura, Patrizio Peci, militante<br />

della colonna torinese delle BR e membro della Direzione<br />

Strategica, inizia il suo lungo e<br />

dettagliato<br />

racconto, rivelando nomi, basi, struttura organizzativa, storia e progetti della più<br />

forte formazione armata del Paese. Il pentimento<br />

di Peci avvenne nel reparto di<br />

isolamento<br />

del carcere speciale di Cuneo. Il dibattito sul ruolo che il carcere duro svolge<br />

nel predisporre, favorire ed incentivare le scelte di collaborazione è a tutt’oggi ancora<br />

a<strong>per</strong>to. Sul piano storico, della storia recente del nostro Paese, è innegabile che le due<br />

emergenze che hanno dato luogo a questi regimi detentivi, la lotta armata e la criminalità<br />

organizzata degli anni Novanta, hanno trovato nell’istituzione di un modello detentivo<br />

speciale un momento di grande efficacia dell’azione repressiva. In entrambi i casi, dagli<br />

speciali è venuta fuori una fitta schiera di defezioni, abbandoni delle organizzazioni,<br />

passaggi di campo e collaborazioni, e questi risultati non sono assolutamente da<br />

sottovalutare.<br />

Non sono da sottovalutare le conseguenze che hanno sui singoli condizioni di<br />

detenzione di questi livelli di rigidità. Le sofferenze<br />

fisiche, l’isolamento, l’essere faccia a faccia, soli,<br />

con la crudezza del carcere, l’improvvisa <strong>per</strong>dita della<br />

propria vita di relazione, le deprivazioni sensoriali ed<br />

affettive, la paura della violenza, sono fattori che<br />

indubbiamente concorrono a creare una condizione di<br />

grande debolezza e fragilità degli individui. Ed in queste condizioni qualsiasi gesto è possibile, dalla violenza<br />

<strong>contro</strong> se stessi, a quella <strong>contro</strong> gli altri,<br />

dall’autodistruzione, all’esplosione dell’istinto di<br />

sopravvivenza, dal rafforzamento dei propri<br />

vincoli di appartenenza all’abbandono del campo,<br />

al<br />

ritiro, alla fuga. Non c’è da stupirsi che da un carcere<br />

speciale esca un pentito, come non deve suscitare<br />

stupore se esce un impiccato o un malato di<br />

mente. Ma un pentito non fa il pentitismo. Chi arriva al<br />

tradimento ci arriva <strong>per</strong>ché sente una sconfitta, incombente o avvenuta.<br />

Il carcere duro, da solo, può creare un delatore, ma non<br />

è in grado di produrre una<br />

cultura del pentitismo. Ci vuole altro, sono necessarie altre<br />

condizioni affinché ciò<br />

avvenga. Nessuna guerra è s tata vinta <strong>per</strong>ché si è riusciti ad infiltrare delle spie tra le fila<br />

dell’avversario. Il pentitismo è tale quando entra in una deriva, quando il soggetto che<br />

riceve l’attacco <strong>per</strong>de forza di movimento, arretra, de<strong>per</strong>isce. Qui si parla di soggetti<br />

collettivi, di entità sociali complesse, non della piccola banda di ladri d’appartamento.<br />

Gli speciali erano in piedi già dal 1977, e fino al 1980 dalla numerosa schiera di<br />

coloro che finirono in carcere non venne fuori nessun significativo caso di cedimento. E<br />

molti tra essi avevano attraversato le realtà più dure della massima sicurezza. Peci iniziò a<br />

collaborare dopo appena un mese dall’arresto, ed il suo fu soltanto l’inizio di un fenomeno<br />

destinato<br />

ad estendersi. Al carcere duro si può resistere quando si è forti, finché si è forti,<br />

sia sul piano soggettivo, sia su quello dell’identità collettiva. Solo quando questa forza non<br />

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c’è, o si incrina, o viene meno, <strong>per</strong> un qualsiasi motivo, la tecnologia di induzione alla<br />

delazione di cui il carcere dispone riesce a raccogliere tutti i suo frutti. E questa tecnologia<br />

nel carcere è ampiamente collaudata e s<strong>per</strong>imentata. L’utilizzazione sistematica<br />

dell’informatore, l’”infame” <strong>per</strong> la cultura carceraria, che fornisce informazioni <strong>per</strong> decifrare<br />

le dinamiche comunitarie, è lo strumento privilegiato dallo staff <strong>per</strong> <strong>contro</strong>llare la sicurezza<br />

dentro gli istituti. Il prezzo di questa collaborazione, nel carcere prima della riforma, era<br />

prevalentemente il lavoro, che abbiamo visto essere risorsa ambitissima, quanto scarsa,<br />

nei nostri penitenziari. E lo è ancora oggi.<br />

Ma, con la nuova normativa sui pentiti, il modello delatorio-premiale riceve ben altra<br />

forza. In cambio dell’occhio vigile e dell’orecchio attento il delatore adesso può ambire<br />

addirittura a modificare la sua condizione di detenuto, può contrattare l’uscita anticipata<br />

dal carcere. Quella sistematica o<strong>per</strong>a di costruzione della delazione, prima confinata nel<br />

lavorio<br />

silenzioso delle forme del potere interne all’istituzione totale, assume adesso<br />

importanti risvolti esterni. Oltre che a custodire ed a redimere, il carcere si sente anche<br />

chiamato ad una presenza diretta nell’azione inquirente, e su questa chiamata alle armi si<br />

giocarono in questi anni un bel po’ di carriere di membri dello staff ministeriale. La classe<br />

dirigente dei penitenziari ed i vertici del corpo degli agenti di custodia entrarono con piena<br />

titolarità in concorrenza con le altre forze di polizia e con la magistratura, in quella<br />

particolarissima industria che produce un bene dall’altissimo valore sociale aggiunto: il<br />

pentito.<br />

- La crisi del sistema<br />

Il fenomeno del pentitismo segnala una crisi profonda delle organizzazioni criminali<br />

e del loro sistema di potere, <strong>per</strong>cepito dai suoi stessi leader come scricchiolante, incapace<br />

di<br />

garantire protezione, privo di futuro. Ma l’occasione non è stata colta dallo Stato, che ha<br />

rinunciato a governare il pentitismo:<br />

e tale rinuncia, tollerabile quando i collaboratori erano<br />

pochi e selezionati, è diventata insostenibile, sino a trasformarsi in boomerang, quando il<br />

pentitismo è diventato un arcipelago esteso e variegato. Le questioni di carattere etico<br />

relative ai limiti dello scambio tra collaborazione e impunità (soprattutto <strong>per</strong> gli autori di<br />

crimini atroci commessi sino a pochi giorni prima del pentimento) si sono presto intrecciate<br />

con fatti clamorosi ed inquietanti (la commissione di nuovi reati da parte di collaboranti o<br />

l’emergere, in alcuni casi, di accuse calunniose), abilmente sfruttati dal sistema di potere<br />

messo in crisi da diserzioni e collaborazioni. Il pentitismo è così diventato, anche <strong>per</strong> parte<br />

dell’opinione pubblica, un fenomeno sospetto, le organizzazioni<br />

criminali hanno riguadagnato terreno e il fiume delle<br />

collaborazioni è divenuto un ruscello che rischia di sparire.<br />

Eppure le vie <strong>per</strong> un governo efficace del fenomeno<br />

sono da tempo chiare (ed oggetto <strong>per</strong>sino di un disegno di<br />

legge da tempo approvato dal Senato): individuazione di<br />

benefici commisurati ai reati commessi, ché i premi devono<br />

essere appetibili ma non possono spingersi fino all’impunità di<br />

fatto, soprattutto in presenza di delitti efferati; previsione di un<br />

tempo ragionevole entro cui il pentito deve dire ciò che sa,<br />

evitando stillicidi di accuse nel corso degli anni (fonte<br />

inevitabile di sospetti); soluzioni organizzative idonee a<br />

garantire il massimo di genuinità delle dichiarazioni, evitando contatti<br />

con altri collaboranti<br />

e colloqui investigativi paralleli; separazione tra attività di protezione e gestione<br />

processuale del pentito, la cui contestualità produce inevitabilmente<br />

pressioni e<br />

coinvolgimenti impropri. Resta la domanda sul <strong>per</strong>ché sia prevalsa<br />

l’inerzia e il dibattito si<br />

sia concentrato esclusivamente sul valore processuale delle dichiarazioni<br />

dei pentiti.<br />

75


� Anime salve<br />

Anno di pubblicazione<br />

1996<br />

Cas a discografica<br />

Bmg<br />

Produ zione<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong> - Milesi<br />

1. PRINCESA<br />

2.<br />

KHORAKHANÈ (a forza di essere vento)<br />

3. ANIME SALVE<br />

4. DOLCENERA<br />

5.<br />

LE ACCIUGHE FANNO IL PALLONE<br />

6. DISAMISTADE<br />

7. Â CÚMBA<br />

8. HO VISTO NINA VOLARE<br />

9. SMISURATA PREGHIERA<br />

I primi giorni in sala di registrazione passano senza problemi, il materiale arrivato in<br />

preproduzione è decisamente<br />

buono, molto bella una composizione di Ivano basata tutta<br />

sul piano. L’impostazione eccessivamente<br />

pianistica sarà probabilmente la causa<br />

dell’interruzione del progetto. <strong>Fabrizio</strong> si sente “accerchiato” dallo staff di Fossati, che<br />

potrebbe<br />

portare alla realizzazione di un album molto più vicino allo stile del collega. Dopo<br />

un chiarimento<br />

Fossati decide di assecondare <strong>De</strong> <strong>André</strong>. Il tema fondamentale di “Anime<br />

salve” è quello della solitudine che deriva <strong>per</strong> lo più da emarginazione, emarginazione che<br />

trae origine da comportamenti diversi da quelli della maggioranza, della norma. Spiegato<br />

così potrebbe sembrare semplicemente un disco che parla di minoranze emarginate. In<br />

effetti queste <strong>per</strong>sone, nella difesa dei loro diritti, tentano semplicemente, senza fare del<br />

male a nessuno, di somigliare a se stesse e così facendo difendono la loro libertà. “Anime<br />

salve” viene presentato a Milano nello Spazio Guicciardini. Oltre alla stampa sono<br />

presenti alcuni amici intimi, come Fernanda Pivano e Beppe Grillo. L’accoglienza è<br />

trionfale.<br />

<strong>De</strong> <strong>André</strong> nelle interviste parla dei suoi programmi, che prevedono con l’anno nuovo<br />

il tour di “Anime salve”, un disco nel 2003 e la pubblicazione di un romanzo scritto insieme<br />

ad un giovane scrittore. Il tour viene procrastinato anche a causa della scomparsa del<br />

<strong>per</strong>cussionista Naco, morto in estate in un incidente stradale a al quale l’album è dedicato.<br />

In una settimana<br />

“Anime salve” raggiunge il primo posto nelle classifiche; poi<br />

improvvisamente<br />

le vendite rallentano; comunque l’album in pochi mesi su<strong>per</strong>erà le<br />

300.000 copie, un buon risultato se confrontato al <strong>per</strong>iodo di crisi del mercato, ma<br />

certamente non adeguato ad un’o<strong>per</strong>a di così grande valore artistico. Il disco si apre con la<br />

storia di un transessuale brasiliano e della sua vita estrema; “Dolcenera” è una<br />

melanconica ballata che parla di un tradimento amoroso. “Disamistade” è lo s<strong>contro</strong> fra<br />

due famiglie e la musica struggente aiuta ad entrare nella vicenda; “Ho visto Nina volare” è<br />

legato a ricordi infantili. Infine “Smisurata preghiera” è l’elegia dell’album da cui si evince la<br />

tematica fondamentale delle minoranze. Il brano è ispirato alla saga di “Maqroll - il<br />

gabbiere“ di Alvaro Mutis: un marinaio che continua il suo viaggio errando senza mai<br />

arrivare alla meta prefissata. Il suo andare è <strong>per</strong>ò solo un pretesto <strong>per</strong> capire le cose<br />

importanti della vita, il senso dell’avventura e gli affetti.<br />

76


- L’alienazione<br />

Il transessuale di “Princesa”, gli zingari di “Khorakhanè”, le minoranze della<br />

“Smisurata preghiera” sono tutti <strong>per</strong>sonaggi al limite, descritti da <strong>Fabrizio</strong> nel loro stato di<br />

alienazione di fronte alla vita<br />

e al mondo intero. Difatti Fernandino (il trans) vive<br />

completamente estraniato un’esistenza<br />

dove la paura è il sentimento che lo accompagna<br />

sul<br />

palcoscenico del suo lavoro (il marciapiede); gli zingari dell’Est vivono nel fango,<br />

<strong>per</strong>ché respinti e storicamente <strong>per</strong>seguitati; infine tutte le minoranze in generale costrette<br />

a difendersi da un mondo così brutale che tende ad omologare tutto e ad appiattire ogni<br />

differenza, <strong>per</strong> la paura della diversità. Marx ne “Il Capitale” ha elaborato la sua dottrina<br />

sull’alienazione dell’o<strong>per</strong>aio e Luigi Pirandello, in quasi tutte le sue o<strong>per</strong>e, ha ironicamente<br />

evidenziato la “trappola” dell’estraneità degli uomini alla vita. Il filosofo tedesco Feuerbach<br />

si è invece preoccupato di studiare l’alienazione nella religione, arrivando a dire che essa<br />

è la causa della dipendenza dell’uomo da Dio.<br />

- L’alienazione del lavoro (Karl Marx)<br />

Sulla terra “ferma” e “tonda” Marx non trova un uomo che<br />

si fa o si realizza trasformando o umanizzando, insieme ad altri<br />

uomini, la natura nel senso<br />

dei bisogni, dei concetti o dei progetti<br />

o piani dell’uomo stesso. Quel che trova sono uomini alienati,<br />

vale a dire espropriati<br />

del loro valore di uomini ad o<strong>per</strong>a<br />

dell’espropriazione<br />

o alienazione del loro lavoro. In realtà, come<br />

dice lo stesso Marx ne “Il Capitale”: «Il ragno compie o<strong>per</strong>azioni<br />

che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti<br />

architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che<br />

fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è<br />

il fatto che egli ha costruito la celletta “nella sua testa” prima di<br />

costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un<br />

risultato che era già presente<br />

al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già<br />

presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento<br />

naturale, qui egli realizza il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il<br />

modo del suo o<strong>per</strong>are».<br />

Tutto questo vuol dire, <strong>per</strong> Marx, che l’uomo può vivere umanamente, cioè farsi in<br />

quanto uomo, umanizzando appunto la natura secondo i suoi bisogni e le sue idee,<br />

insieme agli altri uomini. Il lavoro sociale è antropogeno. E distingue l’uomo dagli altri<br />

animali: l’uomo, infatti, può trasformare la natura, oggettivarsi in essa, umanizzarla; può far<br />

di essa il suo corpo inorganico.<br />

Sennonché, se guardiamo la storia e la società, vediamo che il lavoro non viene più<br />

fatto <strong>per</strong> il bisogno di appropriarsi, insieme agli altri uomini, della natura esterna, vediamo<br />

che non viene compiuto <strong>per</strong> il bisogno di oggettivare la propria umanità, le proprie idee e<br />

progetti, nella materia prima. Vediamo invece che l’uomo lavora <strong>per</strong> la sua pura<br />

sussistenza. La proprietà privata, fondata sulla divisione del lavoro, rende il lavoro<br />

“costrittivo”.<br />

All’o<strong>per</strong>aio viene alienata la materia prima; vengono alienati gli strumenti di<br />

lavoro; gli viene strappato via il prodotto del lavoro; l’o<strong>per</strong>aio, con la divisione del lavoro,<br />

viene mutilato della sua creatività e umanità. L’o<strong>per</strong>aio è una merce nelle mani del<br />

Capitale. È questa l’alienazione del lavoro, dalla quale, ad avviso di Marx, derivano tutte le<br />

altre forme di alienazione, come quella politica (in cui lo Stato si erge al di sopra e <strong>contro</strong><br />

gli uomini concreti) o quella religiosa. Il su<strong>per</strong>amento di questa situazione in cui l’uomo è<br />

trasformato in bruto avviene, secondo Marx, attraverso la lotta di classe che eliminerà la<br />

proprietà privata e il lavoro alienato.<br />

77


Esattamente l’alienazione del lavoro consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è<br />

“esterno” all’o<strong>per</strong>aio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro non si<br />

afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto ma infelice, non sviluppa una libera energia<br />

fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’o<strong>per</strong>aio solo<br />

fuori del<br />

lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se<br />

non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma<br />

costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto<br />

un mezzo <strong>per</strong> soddisfare bisogni “estranei”. Per tutto ciò, l’uomo si sente libero solo nelle<br />

sue funzioni animali (mangiare, bere, procreare, ovvero ancora abitare una casa e<br />

vestirsi), e si sente niente di più che una bestia nelle sue funzioni umane, cioè nel lavoro.<br />

Giacché l’alienazione dell’o<strong>per</strong>aio nel suo prodotto significa non solo che il suo<br />

lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui,<br />

indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza <strong>per</strong> “sé stante”;<br />

significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea. E,<br />

<strong>per</strong> concludere,<br />

l’estraneazione dell’o<strong>per</strong>aio nel suo oggetto si esprime nel fatto che<br />

quanto più l’o<strong>per</strong>aio produce tanto meno ha da consumare; quanto maggior valore<br />

produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più bello è il suo<br />

prodotto, tanto più l’o<strong>per</strong>aio diventa “deforme”; quanto più raffinato il suo oggetto, tanto più<br />

egli si “imbarbarisce”; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente; quanto<br />

più il lavoro è spirituale, tanto più egli p diventato materiale e “schiavo” della natura.<br />

L’alienazione del lavoro fa sì che l’o<strong>per</strong>aio diventi tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che<br />

produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L’o<strong>per</strong>aio diventa una merce tanto<br />

più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce.<br />

- L’alienazione dalla realtà (Luigi Pirandello)<br />

L’idea classica dell’individuo creatore del proprio destino e<br />

dominatore del proprio mondo,<br />

dalla <strong>per</strong>sonalità inconfondibile e<br />

coerente, che era rimasta alla base della cultura della borghesia<br />

ottocentesca nel suo momento<br />

di ascesa, ora tramonta: in una<br />

prima fase questi processi inducono a rifiutare la realtà oggettiva<br />

e a chiudersi gelosamente nella soggettività, ma poi<br />

progressivamente anche questa finisce <strong>per</strong> sfaldarsi; l’individuo<br />

non conta più, l’io si indebolisce, <strong>per</strong>de la sua identità, si<br />

frantuma in una serie di stati incoerenti. Pirandello è uno degli<br />

interpreti più acuti di questi fenomeni, e li riflette lucidamente<br />

nelle sue teorie e in quasi tutte le sue o<strong>per</strong>e letterarie.<br />

La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io<br />

suscita nei <strong>per</strong>sonaggi pirandelliani smarrimento e dolore.<br />

L’avvertire di non essere<br />

“nessuno”, l’impossibilità di consistere in un’identità, provoca<br />

alienazione ed orrore, genera un senso di solitudine tremenda. Viceversa l’individuo<br />

soffre<br />

anche ad essere fissato dagli altri<br />

in forme in cui non può riconoscersi. L’uomo si “vede<br />

vivere”, si esamina dall’ esterno, come sdoppiato, nel compiere gli atti abituali che gli<br />

impone la sua “maschera”,<br />

e che appaiono assurdi, destituiti di ogni senso. Queste forme<br />

sono sentite come una trappola, come un carcere in cui l’individuo si dibatte, lottando<br />

invano <strong>per</strong> liberarsi. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti<br />

sociali, al di sotto delle civiltà e delle buone maniere. La società gli appare come<br />

un’enorme “pupazzata”, una costruzione artificiosa e fittizia, che isola irreparabilmente<br />

l’uomo dalla vita, lo impoverisce e lo irrigidisce, lo conduce alla morte anche se egli<br />

apparentemente continua a vivere. Alla base di tutta l’o<strong>per</strong>a pirandelliana si può scorgere<br />

un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che essa impone, e un<br />

bisogno dis<strong>per</strong>ato di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. Anche se la sua<br />

78


vita si svolge sui binari del <strong>per</strong>benismo esteriore, Pirandello è nel suo fondo un anarchico,<br />

un ribelle insofferente dei legami della società, <strong>contro</strong> cui scaglia la sua critica impietosa e<br />

corrosiva. Le convenzioni, le finzioni su cui la vita sociale si fonda, le maschere fittizie che<br />

essa impone, vengono nella sua o<strong>per</strong>a narrativa e teatrale irrise e disgregate.<br />

L’istituto in cui si manifesta <strong>per</strong> eccellenza la “trappola” della forma che imprigiona<br />

l’uomo, separandolo dall’immediatezza della vita, è la famiglia. Pirandello è acutissimo nel<br />

cogliere il carattere opprimente dell’ambiente familiare, il suo grigiore avvilente, le tensioni<br />

segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, le menzogne che si mescolano torbidamente alla vita<br />

degli affetti viscerali ed oscuri. L’altra trappola è quella economica, costituita dalla<br />

condizione<br />

sociale e dal lavoro, almeno a livello piccolo-borghese; i suoi eroi sono<br />

prigionieri di una condizione misera e stentata, di lavori monotoni e frustranti, di<br />

un’organizzazione gerarchica oppressiva. L’unica via di relativa salvezza che si dà ai suoi<br />

eroi è la fuga nell’irrazionale: nell’immaginazione che trasporta verso un “altrove”<br />

fantastico.<br />

Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell’o<strong>per</strong>a pirandelliana ad una figura ricorrente,<br />

emblematica: il “forestiere” della vita, colui che ha capito il “gioco”, ha preso coscienza del<br />

carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere<br />

gli altri dall’esterno della vita e dall’alto della sua su<strong>per</strong>iore consapevolezza, rifiutando di<br />

assumere la sua “parte”, osservando gli uomini imprigionati dalla “trappola” con un<br />

atteggiamento<br />

umoristico, di irrisione e pietà. È quella che Pirandello definisce anche<br />

filosofia del “lontano”; essa consiste nel contemplare la realtà come da un’infinita distanza,<br />

in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l’abitudine ci fa considerare<br />

“normale”, e in modo quindi da coglierne l’inconsistenza, l’assurdità, la mancanza totale di<br />

senso. In questa figura di eroe estraniato dalla realtà si proietta la condizione stessa di<br />

Pirandello come intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo <strong>per</strong>seguito dagli altri<br />

intellettuali del primo Novecento e, nel suo pessimismo radicale, si riserva solo un ruolo<br />

contemplativo, di lucida coscienza critica del reale.<br />

Sceso giù in istrada, mi trovai ancora una volta s<strong>per</strong>duto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo: solo, senza<br />

casa, senza meta. «E ora?» domandai a me stesso. «Dove vado?». Mi avviai, guardando la gente che<br />

passava. Ma che! Nessuno mi riconosceva? Eppure ero ormai tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto<br />

almeno pensare: «Ma guarda quel forestiero là, come somiglia al povero Mattia Pascal! Se avesse l’occhio<br />

un po’ storto, si direbbe proprio lui». Ma che! Nessuno mi riconosceva,<br />

<strong>per</strong>ché nessuno pensava più a me.<br />

Non<br />

destavo neppure curiosità, la minima sorpresa…<br />

- L’alienazione nella religione (Ludwig Feuerbach)<br />

Per il filosofo tedesco Feuerbach La religione è la prima<br />

reazione alla limitatezza dell’uomo: l’infelicità, la sofferenza<br />

conducono l’uomo a Dio.<br />

Nella sofferenza, l’uomo si concentra su se<br />

stesso e la risposta è data da Dio, essere immaginario rispetto al<br />

mondo e alla natura in genere, ma reale<br />

<strong>per</strong> l’uomo. Ma se la<br />

religione<br />

è la prima ma indiretta coscienza che l’uomo ha di se<br />

stesso, essa precede dap<strong>per</strong>tutto la filosofia, non solo nella storia<br />

dell’umanità ma anche in quella degli individui. Dunque dalla religione<br />

bisogna passare alla filosofia, dalla fede bisogna arrivare all’ateismo,<br />

visto che lo sbaglio della religione è proprio questo: considerare<br />

l’essere divino come se fosse qualcun altro, distinto e indipendente<br />

dall’uomo, da cui anzi<br />

l’uomo dipende. È proprio qui la debolezza della religione, l’origine<br />

del suo errore e del suo<br />

fanatismo, <strong>per</strong> cui essa aliena (l’uomo sposta il suo essere fuori di<br />

sé, prima di ritrovarlo in sé) l’uomo da se stesso e gli fa preferire un altro mondo a questo,<br />

allontanandolo dalla sua vera natura. Ma se la religione pone tutto in Dio e toglie tutto<br />

79


all’uomo, allora l’ateismo diventa un dovere morale, affinché l’uomo recu<strong>per</strong>i i predicati<br />

positivi che ha proiettato fuori di sé nell’essenza divina.<br />

Ne “L’essenza della religione” (1846), Feuerbach dice che il fondamento della<br />

religione è il sentimento di dipendenza che l’uomo prova istintivamente nei confronti di Dio.<br />

Ma Feuerbach sostiene che è vero dire che la religione è innata nell’uomo, se <strong>per</strong>ò <strong>per</strong><br />

religione si intende il sentimento dell’uomo di non poter esistere senza un ente che sia<br />

altro da<br />

lui, cioè di non dovere a se stesso la propria esistenza. Dunque ciò da cui dipende<br />

la vita e l’esistenza dell’uomo è da lui considerato Dio. La credenza che Dio abbia<br />

un’esistenza indipendente da quella dell’uomo dipende dal fatto che, in origine, è<br />

considerato come Dio l’ente che esiste fuori dell’uomo, che non è altro che il mondo o la<br />

natura. L’uomo, inconsapevolmente, fa, in un primo momenti, della natura una sorta di<br />

essere vivente, un essere <strong>per</strong>sonale. In un secondo momento ne fa consapevolmente un<br />

oggetto di preghiera e di religione. Mentre in realtà nella religione l’uomo ha come oggetto<br />

solamente se stesso e la natura. Il presupposto della religione è il contrasto tra volere e<br />

potere, desiderare e ottenere. Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare, l’uomo è<br />

illimitato, onnipotente, Dio; mentre nel potere, nell’ottenere, nella realtà, l’uomo è<br />

condizionato, dipendente, limitato.<br />

Il fine della religione è togliere tale contrasto; e l’ente in cui sono tolte le<br />

contraddizioni è Dio. Esiste Dio solo nella religione e nella fede. Si trova Dio solo nella<br />

fede <strong>per</strong>ché Dio non è altro che l’essenza della fantasia e del cuore umano. Dio è,<br />

secondo Feuerbach, il principio fantastico<br />

della realizzazione totale di tutti i desideri umani.<br />

Quali sono<br />

i desideri degli uomini, tali sono le loro divinità. Il segreto della teologia è allora<br />

l’antropologia. Se la religione è la prima ma inconsapevole conoscenza che l’uomo ha di<br />

sé, essa, considerando l’essere divino come distinto dall’uomo, contiene in sé un elemento<br />

di illusione e di errore. Essa è l’alienazione, visto che l’uomo sposta il suo essere fuori di<br />

sé prima di trovarlo in sé. Il su<strong>per</strong>amento dell’alienazione consisterà nel capire che è<br />

l’uomo che ha creato Dio e non viceversa.<br />

A ogni mancanza nell’uomo è contrapposta una pienezza in Dio: Dio è e ha precisamente ciò che l’uomo<br />

non è né ha. Quanto è attribuito a Dio è tolto all’uomo e, viceversa, quanto è dato all’uomo è sottratto a Dio.<br />

[…] Tanto meno è Dio, tanto più l’uomo; tanto meno l’uomo, tanto più Dio. Se vuoi avere Dio, devi <strong>per</strong>ciò<br />

rinunciare all’uomo; e se vuoi avere l’uomo devi rinunciare<br />

a Dio; altrimenti tu non hai né l’uno né l’altro. La<br />

nullità<br />

dell’uomo è il presupposto dell’aver Dio un’essenza. Affermare Dio significa negare l’uomo; onorare<br />

Dio, disprezzare l’uomo; lodare Dio, denigrare l’uomo. La gloria di Dio si fonda esclusivamente<br />

sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo<br />

sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana.<br />

80


� Conclusione<br />

…Insomma, da queste pagine<br />

s<strong>per</strong>o si sia capito che <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> è un artista<br />

poliedrico,<br />

addirittura didattico. Con le sue o<strong>per</strong>e, le sue idee<br />

e la sua vita si possono fare infiniti collegamenti a<br />

<strong>per</strong>sonaggi, eventi e concetti vari. Difatti quelli che ho deciso<br />

di presentare in questo lavoro sono la minima parte di quelli<br />

che avrei potuto analizzare; ho dovuto quindi fare una cernita<br />

degli argomenti a mio avviso più importanti, tralasciando <strong>per</strong><br />

esempio grandi uomini della storia come Carlo Martello e<br />

Giovanna D’Arco delle omonime canzoni, letterati come<br />

Edgar Lee Masters (“Non al denaro non all’amore né al<br />

cielo”, lo ricordo, è la trasposizione musicale dell’”Antologia<br />

di Spoon River”), Pierpaolo Pasolini di “Una storia sbagliata”<br />

o Cecco Angiolieri di “S’i’ fosse foco”, commediografi come<br />

Aristofane <strong>per</strong> il confronto tra le sue “Nuvole” e quelle di<br />

<strong>Fabrizio</strong>, eventi storici come il massacro degli indiani della<br />

bellissima “Fiume Sand Creek” o il movimento della<br />

Carboneria de “I carbonari”; inoltre<br />

concetti di fisica come la complessa ottica di “Un ottico”<br />

o la sregolatezza degli artisti de “Il fannullone”.<br />

È arrivato il momento che<br />

i grandi cantautori vengano studiati anche nelle scuole, al<br />

pari di poeti, scrittori e filosofi: i testi di <strong>Fabrizio</strong> sono poesie e al tempo stesso spaccati di<br />

storia italiana. Forse dovremo aspettare ancora molto prima che un Ministro dell’Istruzione<br />

faccia una tale rivoluzione nei programmi di studio, o forse la nostra è una società troppo<br />

legata alle tranquille e monotone poesie-falsità da fiction televisiva, <strong>per</strong> poter accettare libri<br />

di testo che contengano le o<strong>per</strong>e di <strong>De</strong> <strong>André</strong>, <strong>De</strong> Gregori, Battiato, Guccini o Vasco<br />

Rossi. Nel 2003 la scuola italiana non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso quei vecchi<br />

schemi di educazione ottocentesca: non è riuscita cioè ad accantonare o <strong>per</strong>lomeno a<br />

minimizzare l’approfondimento di autori “inutili”, anche se indubbiamente grandi, come<br />

Petrarca, Cavalcanti, Tasso, Ariosto, ecc.. Se siamo nel 2000, dobbiamo prepararci <strong>per</strong> il<br />

2000.<br />

Non in qualità di “fan” ma di studente sono addolorato dal fatto che la musica, la<br />

letteratura e in generale la cultura italiana abbiano <strong>per</strong>so troppo presto un autore che<br />

avrebbe<br />

potuto offrir loro ancora tanto. Non a caso era infatti in preparazione <strong>per</strong> il 2001<br />

un album<br />

che aveva come tema centrale quello della<br />

notte e del buio: si sarebbe dovuto intitolare “La paura<br />

dura più dell’amore”, dove <strong>Fabrizio</strong>, assieme al maestro<br />

Oliviero Malaspina avrebbe firmato i testi e le musiche.<br />

<strong>De</strong>ll’album <strong>Fabrizio</strong> <strong>De</strong> <strong>André</strong> è riuscito a completare<br />

solo due brani: quello che porta il nome dell’album<br />

stesso e “Un’ombra inquieta”. La moglie Dori Ghezzi non<br />

ha acconsentito alla pubblicazione ridotta dell’album,<br />

ammettendo che il marito era solito tornare sui brani<br />

completati <strong>per</strong> ritoccarli al meglio. In questo modo ha<br />

giustamente rispettato l’idea di <strong>Fabrizio</strong> riuscendo inoltre<br />

a non farsi adescare dalle regole del mercato.<br />

Con questo lavoro di ricerca, di confronto e di<br />

analisi che ho tentato di fare <strong>per</strong> l’esame di maturità,<br />

penso di aver almeno portato un argomento nuovo<br />

e di<br />

aver c ercato di far conoscere meglio quale genio si nascondesse<br />

dietro il più grande<br />

autore italiano del Novecento.<br />

81


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SVAMPA N., MASCIOLI M., Brassens, Muzzio, Padova 1991.<br />

TRILUSSA, Le favole fasciste, Istituto Editoriale Giovanile, Roma<br />

1927.<br />

VERDE S., Massima sicurezza, Odradek, Secondigliano (NA) 2002.<br />

VIVA L., Non <strong>per</strong> un dio ma nemmeno <strong>per</strong> gioco, Feltrinelli, Milano 2001.<br />

WOODCOCK G., L’anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli,<br />

Milano 1966.<br />

Un ringraziamento speciale a:<br />

viadelcampo.com<br />

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