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Libro

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Paolo Vezzoni<br />

Intersezioni<br />

Questioni biologiche<br />

di rilevanza filosofica<br />

Prefazione di<br />

Renato Dulbecco


Affermare che la Filosofia sia un sottoinsieme della Scienza potrebbe apparire<br />

eretico sia ai filosofi che agli scienziati. Tuttavia questo è quanto il presente<br />

libro sostiene con due diversi tipi di argomentazioni.<br />

Il primo consiste nell’adottare un’accezione ampia di Scienza, del tipo di<br />

quella in vigore presso gli antichi Greci (scienza come conoscenza, senza ulteriori<br />

distinzioni) e nel definire come Filosofia l’insieme delle proposizioni di<br />

interesse ‘vitale’ per l’uomo. Il secondo è di mostrare di fatto quante di queste<br />

proposizioni ‘vitali’ per l’uomo siano presenti nel settore della Scienza che va<br />

sotto il nome di Biologia.<br />

L’autore esamina tutto ciò che la Biologia ci dice sui fenomeni viventi e su<br />

come si sono formati nel corso dell’evoluzione, sulla relazione tra geni e personalità,<br />

sulla coscienza, il linguaggio e gli altri aspetti che hanno a che fare<br />

con la specificità della natura umana.<br />

Paolo Vezzoni, nato a Milano nel 1950, ha conseguito il diploma<br />

di maturità classica presso l’Istituto Salesiano Sant’Ambrogio di<br />

Milano e si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1974 presso<br />

l’Università di Milano.<br />

Ha lavorato come Dirigente di Ricerca presso il CNR, occupandosi<br />

di genetica umana nell’ambito del Progetto Genoma Umano, diretto<br />

dal prof Renato Dulbecco, Premio Nobel per la Medicina,<br />

di cui è stato vicecoordinatore. Attualmente dirige il Laboratorio di<br />

Biotecnologie Mediche del CNR presso l’Istituto Clinico<br />

Humanitas.<br />

E’ autore di oltre centottanta pubblicazioni scientifiche e di vari<br />

libri e articoli, tra cui: “Biotecnologie della vita quotidiana”,<br />

Laterza, 2000; “Si può clonare un essere umano”, Laterza, 2003;<br />

“Il futuro e il passato dell’uomo”, Bruno Mondadori, 2006. Per<br />

la rivista “Le Scienze” ha curato insieme a Renato Dulbecco il dossier<br />

“Il Progetto Genoma Umano”, Le Scienze, Quaderni n. 100 D,<br />

1998 e un inserto su “Clonazione: problemi etici e prospettive<br />

scientifiche, Le Scienze, suppl, maggio 1997. E’ autore della voce<br />

“Biotecnologie” per l’Enciclopedia Treccani.<br />

Il presente libro “Intersezioni. Questioni biologiche di rilevanza<br />

filosofica” è stato pubblicato da McGraw-Hill nel 2000.<br />

Email: paolo.vezzoni@itb.cnr.it


A Paolo Raineri<br />

Amico e maestro<br />

Medicus atque philosophus<br />

A mia moglie e ai miei figli<br />

QUESTIONI BIOLOGICHE DI RILEVANZA FILOSOFICA<br />

Paolo Vezzoni<br />

Prefazione di Renato Dulbecco<br />

1


QUESTIONI BIOLOGICHE DI RILEVANZA FILOSOFICA<br />

Prefazione<br />

Avvertenza<br />

Prima parte: Introduzione, Materiali e Metodi<br />

1. Le basi evolutive della conoscenza<br />

. Uomini e conigli<br />

. Il problema della conoscenza<br />

. Terreno sdrucciolevole<br />

.. Postulati<br />

.. Termini e definizioni<br />

.. Fede nella natura<br />

. La base biologica della conoscenza<br />

. Scienza e filosofia<br />

.. Scienza e filosofia: anatomia di un rapporto<br />

. Uno ed un solo metodo di conoscenza per un’enorme vastità di problemi differenti<br />

.. Ritorno al coniglio<br />

.. Materiale e metodi (i metodi della conoscenza)<br />

.. Verificabilità e falsificabilità<br />

.. Miseria della falsificabilità<br />

.. Ci sono più proposizioni in cielo e in terra che in tutta la filosofia della scienza<br />

.. Un metodo proteiforme<br />

.. Castelli di carte<br />

.. Costruttivismo<br />

. Conclusioni<br />

. Tesi del volume<br />

Seconda parte: Risultati<br />

2. Ordine meccanicismo ed ereditarietà<br />

. La biologia molecolare<br />

. La molecola principe<br />

. L’uovo o la gallina<br />

. Il lato oscuro del DNA<br />

. Come si formano i genomi<br />

. Il livello dell’organismo<br />

. Lo sviluppo embrionario<br />

3. L’evoluzione<br />

. L’evoluzione è<br />

. Come funziona l’evoluzione<br />

. La genetica dell’evoluzione<br />

. L’evoluzione umana<br />

.. Paleontologia<br />

.. Genetica<br />

. Progresso e disegno versus caso e necessità<br />

. Pensiero finale<br />

2


4. Geni e comportamento<br />

. L’altruismo<br />

. Geni e comportamento<br />

. Lipidi egoisti e memi egoisti<br />

. I gemelli<br />

. Animali modificati<br />

. La genetica umana e i geni del comportamento<br />

. Rilevanza filosofica<br />

5. La coscienza<br />

. Le neuroscienze<br />

. Biologia molecolare e cervello<br />

. Tecniche di imaging<br />

. La coscienza<br />

6. L’intelligenza artificiale<br />

. L’eresia catara (continua)<br />

. Il dibattito sulla macchina di Turing<br />

. L’intelligenza Artificiale<br />

. COG<br />

7. Gli effetti comportamentali delle alterazioni cerebrali<br />

. Le malattie ereditarie neurologiche<br />

. Lesioni cerebrali con effetti comportamentali<br />

. Alterazioni selettive della coscienza<br />

. Il cervello splittato<br />

. Le malattie mentali<br />

. False e vere memorie<br />

. Una personalità assai fragile<br />

8. Il linguaggio<br />

. Le basi biologiche del linguaggio<br />

. Le basi cerebrali del linguaggio<br />

. Origine evolutiva del linguaggio<br />

. Linguaggio e pensiero nelle scimmie<br />

. Conclusioni<br />

Terza parte: Discussione<br />

9. La maledizione di Hume<br />

. Cos’è la filosofia<br />

. Proposizioni rilevanti per la vita<br />

. La saggezza della filosofia<br />

. Di ciò di cui si può parlare non è lecito tacere<br />

. Il 40% degli scienziati sono francamente dualisti<br />

. Gli scienziati fanno filosofia?<br />

. Ma chi esattamente cade sotto a maledizione di Hume?<br />

10. L’argomentazione di Paley<br />

. L’ordinatore cosmologico<br />

3


. L’ordinatore biologico<br />

. L’unità di tutti i viventi e l’unità del vivente con il non vivente<br />

. La derivazione del vivente dal non vivente<br />

. Tutto è spiegabile all’interno del sistema<br />

. I buchi neri della teoria<br />

11. Il dilemma di Delgado<br />

. Monisti, dualisti, panpsichisti, riduzionisti, emergentisti<br />

. Il difficile concetto di anima<br />

12. Il monito di Epicuro<br />

. La schiavitù dei geni<br />

. Libertà e cervello<br />

. Determinismo oltre i geni (interazionismo)<br />

. La paura sociale del determinismo<br />

. Un punto a favore dei dualisti<br />

Parte quarta: Conclusioni<br />

13. L’invettiva di Feyerabend<br />

. E’ la scienza che definisce i confini dell’indagine filosofica<br />

4


PREFAZIONE<br />

Abbastanza spesso un biologo, uno sperimentatore, dopo un certo numero di anni di esperienza, comincia a guardare a<br />

ciò che sta facendo in un modo nuovo: non si limita a considerare solo l’oggetto a cui sta lavorando, ma guarda oltre, a<br />

problemi più vasti. E così è indotto a cercar di capire l’organizzazione del mondo vivente, le sue leggi, includendo<br />

quelle con cui lui stesso ha familiarità, ma in un disegno più ampio. Egli sente la necessità di evitare una trappola:<br />

quella “di essere così immerso nel mare della scienza da non accorgersi che c’è qualcosa fuori di esso”. Questo è il caso<br />

del collega Paolo Vezzoni, il cui interesse principale sono stati i geni responsabili di malattie ereditarie, e che ora, con<br />

questo libro, affronta i più vasti problemi della biologia, quelli di natura filosofica. Leggendo il suo libro si incontrano<br />

alcuni dei nomi di scienziati spesso illustri che lo hanno preceduto su questo cammino.<br />

Il ventaglio degli argomenti contenuti nel libro è molto esteso, ma si concentra su due domande principali: qual è la<br />

base della conoscenza di noi stessi, ossia della nostra coscienza, e qual è l’origine della vita. Questi problemi trovano<br />

nel libro un’ampia trattazione, che include i precedenti storici, a cui si dà grande importanza, e le conseguenze<br />

biologiche attuali, che vengono discusse in considerevole dettaglio per quel che riguarda il ruolo che possono avere nel<br />

chiarificare i due problemi.<br />

Una speciale attenzione viene rivolta al ruolo del cervello umano come possibile determinazione della coscienza.<br />

Vengono anche esaminati nello specifico i metodi con cui si può arrivare alla conoscenza di questi problemi, per<br />

arrivare alla conclusione che il metodo scientifico, sperimentale, è il solo utile.<br />

I problemi vengono discussi con la logica severa che consenta i pro e i contro di ogni proposizione. Di notevole aiuto in<br />

queste trattazioni sono gli abbondanti riferimenti ad autori precedenti allo scopo di presentare vedute spesso contrastanti<br />

ma rilevanti rispetto ai punti in discussione; molti autori sono citati con precisione in modo che sia facile per un lettore<br />

interessato identificare alter fonti.<br />

In queste discussioni l’autore prende una posizione essenzialmente imparziale. Da buon biologo e sperimentatore egli<br />

considera tutti i dati a disposizione per cercare di giungere ad una conclusione. A un certo punto egli scrive: bisogna<br />

“mostrare quanto di bello produce la conoscenza e lasciare che la gente scelga”. Contrariamente a molti dei suoi<br />

predecessori, egli non argomenta per difendere una sua posizione, ma per arrivare a qualche cosa che si avvicini ad un<br />

consenso. Questo non è facile, data la natura dei problemi: l’autore è ben conscio di questa difficoltà, e cerca di<br />

attenuarla ricorrendo all’umorismo.<br />

I problemi discussi nel libro potrebbero facilmente sfociare in considerazioni religiose, ma l’autore per lo più riesce ad<br />

evitarlo, rimanendo nell’ambito della logica. Solo verso la fine viene posta una domanda che fa intravedere questa<br />

possibilità: “Deve la storia della biologia degli ultimi 3 – 4 secoli venir necessariamente letta come la progressiva<br />

scomparsa dell’ordinatore biologico? O potrebbe essa venir letta come la storia della progressiva purificazione dell’idea<br />

di ordinatore?”. L’idea dell’ordinatore è supportata dall’esistenza di ordine e causalità nella Nature e dalla grande<br />

quantità di incognite riguardanti la vita e l’Universo. Perciò è possibile una Weltanshauung delle nostre conoscenze che<br />

sia più vasta, ma basata e centratasu di esse. Si parla ora di Dio, ma non un “Dio tappabuchi”. Il libro conclude con un<br />

dilemma: “Che Dio esista è assurdo. Ma non si capisce come questa assurdità diventi intelleggibile se le sue aporie<br />

vengono trasferite alla realtà materiale. Per incredibile che possa apparire qualcosa sembra proprio che esista”. E infine<br />

l’ultima domanda: “C’è qualcuno che crede di risolvere facilmente questo problema?”.<br />

Ho letto il libro con molto piacere: ci ho pensato molto e ho imparato molto.<br />

Renato Dulbecco, aprile 2000<br />

5


AVVERTENZA INDISPENSABILE<br />

Jean Piaget, il fondatore dell’epistemologia genetica, sosteneva che i ragazzi di 15-20 anni<br />

attraversano una fase maturativa caratterizzata da una certa propensione alle questioni filosofiche.<br />

Col passare degli anni questa fase viene superata, così che al raggiungimento dell’età adulta queste<br />

problematiche perdono interesse.<br />

Una piccola porzione di persone sembra tuttavia essere incapace di procedere alla fase successiva e<br />

mantiene un certo interesse per domande di carattere filosofico. Molti ritengono che questo possa<br />

nuocere all’individuo, limitando la sua capacità ad affrontare i problemi concreti della vita<br />

quotidiana, e probabilmente hanno ragione.<br />

Questo piccolo libro in realtà è scritto esclusivamente per questa categoria di disadattati,<br />

sicuramente meno dell’1% della popolazione generale, che, a quanto sembra, ha ancora tempo da<br />

perdere. In effetti, non riesco a pensare ad un solo valido motivo per cui una persona sana di mente<br />

debba interessarsi di problemi filosofici, a meno che non faccia parte dell’establishment dei filosofi<br />

di professione per i quali la filosofia è un problema di sopravvivenza.<br />

La biologia è una scienza così vasta e la mia ignoranza è talmente profonda che questo testo sarà<br />

certamente ricco di errori ed omissioni, e di questo mi scuso. In particolare mi sarebbe piaciuto<br />

avere molta più esperienza in un settore quale quello della neurofisiologia e dell’imaging cerebrale<br />

che sono affascinanti, pur essendo estremamente specialistici.<br />

I settori della biologia che sono di pertinenza filosofica sono, nella mia opinione, così numerosi che<br />

non è possibile elencare né tutti i fatti né i punti di vista di ognuno. Ho cercato di riportare<br />

fedelmente il pensiero di tutti quelli che ho menzionato, facendo spesso uso di citazioni dai lavori<br />

originali. Malgrado ciò, è possibile che in certi casi io abbia travisato il pensiero di qualcuno, e sono<br />

pronto a far ammenda fin d’ora.<br />

Ho pensato di dividere il testo in alcune sezioni, con una cadenza che vuole ricordare quella di un<br />

articolo per una rivista scientifica. Secondo questo schema generale, il primo capitolo funge da<br />

Introduzione e da Materiali e Metodi: in esso si fa il punto sulla situazione e si espone il metodo con<br />

cui si vuole procedere. Nei Risultati (capitolo 2-8) si elencano i dati raccolti, mentre nella<br />

Discussione (capitolo 9-12) si cerca di interpretarli. Segue un capitolo conclusivo (capitolo 13).<br />

Questa divisione è evidenziata nell’indice.<br />

Le frasi che precedono ogni sezione sono tutte prese dal primo capitolo di un libretto di Thorton<br />

Wilder. In “Il ponte di St. Louis Rey” un frate assiste al crollo del ponte sulla strada che da Lima<br />

porta a Cuzco e si chiede perché proprio quei cinque uomini e non altri siano morti: essendo per sua<br />

natura portato alla sperimentazione, egli decide allora di analizzare le loro vite in maniera<br />

dettagliata per avere la risposta alla sua domanda. Racchiude le sue conclusioni in un grosso tomo,<br />

che, giustamente, viene bruciato sulla pubblica piazza insieme al suo autore. Naturalmente si tratta<br />

di una storia inventata, l’unica cosa vera sembra sia stato il crollo del ponte.<br />

Impossibile ricordare tutte le persone da cui ho preso qualcosa scritto in questo libro. I miei<br />

familiari, tutti, quelli deceduti e quelli viventi, da cui ho imparato tutto. Poi gli amici con i quali ho<br />

discusso di filosofia per tanto tempo da giovane: Amedeo, Andrea, Piero, Roberto, Ugo, Franco,<br />

Daniele, Claudio. Poi i padri salesiani del Liceo Classico di Milano negli anni dal 1963 al 1968,<br />

alcuni dei quali erano dei veri crani. Un pensiero particolare va poi a Franco Pozzi e Paolo Raineri.<br />

6


Infine vorrei ricordare alcuni dei miei colleghi del CNR di Milano. Nessuno di tutti quelli che ho<br />

menzionato, ovviamente, è responsabile per le aberrazioni qui contenute.<br />

7


Parte prima<br />

Introduzione e Materiali e Metodi<br />

“On Friday noon, July the twentieth, 1714, the finest bridge in all Peru broke and precipitated five<br />

travellers into the gulf below. This bridge was on the high road between Lima and Cuzco, and<br />

hundreds of persons passed over it every day….The bridge seemed among the things that last for<br />

ever; it was unthinkable that it should break….<br />

Everyone was deeply impressed, but only one person did anything about it, and that was Brother<br />

Jupiter. By a series of coincidences so extraordinary that one almost suspect the presence of some<br />

Intention, this little red-haired Franciscan from Northern Italy happened to be in Peru converting<br />

the Indians, and happened to witness the accident.<br />

It was a very hot noon, that fatal noon, and coming around the shoulder of a hill, Brother Juniper<br />

stopped to wipe his forehead…At all events he felt at peace. Then his glance fell upon the bridge,<br />

and at that moment a twanging noise filled the air, as when the string of some musical instrument<br />

snaps in a disused room, and he saw the bridge divide and fling five gesticulating ants into the<br />

valley below.<br />

Anyone else would have said to himself with secret joy: ‘Within ten minutes myself!…’. But it was<br />

another thought that visited Brother Juniper: “Why did this happen to those five? If there were any<br />

plan in the universe at all, if there were any plan in a human life, surely it could be discovered<br />

mysteriously latent in those lives so suddenly cut off. Either we live by accident and die by accident,<br />

or we live by plan and die by plan. And on that instant Brother Juniper made to resolve to inquire<br />

into the secret lives of those five persons that moment falling through the air, and to surprise the<br />

reason of their taking off.”<br />

Thorton Wilder, The Bridge of Saint Louis Rey<br />

8


Capitolo 1.<br />

LE BASI EVOLUTIVE DELLA CONOSCENZA<br />

Uomini e conigli<br />

A Natale mi è giunto in casa un coniglio nano. Se la vita di un coniglio è dura, quella di un coniglio<br />

nano lo è ancora di più. In inverno essenzialmente vive in una piccola gabbia passeggiando talora<br />

per casa, distruggendo tutto quello che riesce. A parte gli improperi che si prende, finchè è in casa<br />

la sua vita è tranquilla, ma in estate i problemi per lui sono maggiori. Quando arriva la bella<br />

stagione parte del suo tempo lo trascorre in un giardino relativamente aperto, perché lui è così<br />

piccolo che passa in tutti buchi e il recinto è assai basso.<br />

Fare del rabbit-watching mentre sta in giardino è assai istruttivo. Si capisce bene perché si dice<br />

“meglio un giorno da leone che cento da coniglio”. Per giunta il nostro coniglio ha degli handicap<br />

ulteriori: non ha buche in cui nascondersi e rilassarsi e secondo, non ha avuto il necessario training.<br />

Il poveretto bruca due secondi e poi alza il muso. Fiuta il vento, ascolta i suoni, spia dappertutto, al<br />

più piccolo rumore sospetto scatta e cambia posizione. Tutti i suoi sensi sono tesi al massimo. Per<br />

lui veramente “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”. Se Raffaello avesse disegnato<br />

un coniglio nella sua Scuola di Atene, non c'è dubbio che l'avrebbe raffigurato con le quattro zampe<br />

ben piantate per terra.<br />

In questa cornice, si capisce come il coniglio debba sfruttare al massimo tutte le informazioni che<br />

gli arrivano. Il loro processamento deve essere corretto, pena la vita. Il coniglio è una macchina per<br />

fare associazioni: odori, rumori, e ovviamente immagini devono essere collegati ai mille pericoli<br />

che lo circondano. Fare associazioni è il suo mestiere, ma cosa associare tra loro? E’ probabile che<br />

il coniglio lo impari da piccolo, presumibilmente anche guardando il comportamento dei suoi simili.<br />

In questo, appunto, il mio coniglio è svantaggiato, non ha avuto nessuno da cui imparare. E così<br />

all’inizio non è stato in grado di comprendere che il giardino accanto era un luogo pericoloso.<br />

Peraltro ho dei dubbi persino che gli fosse chiaro il concetto di cane. E così il giorno che<br />

spontaneamente si è infilato nel giardino di mio fratello, ho potuto per la prima volta nella mia vita<br />

assistere ad un buon esempio di vera lotta per la sopravvivenza. Per la mia generazione, che non ha<br />

fatto nessuna guerra e che è aliena anche dalla caccia, è stato uno spettacolo angosciante, perché né<br />

il cane né il coniglio erano più controllabili, e solo il ricorso al getto d’acqua, come si fa nelle<br />

manifestazioni di piazza, ha potuto distogliere il cane dal fare il suo mestiere. Per il coniglio fare<br />

cattive associazioni o non fare quelle giuste ha un prezzo che generalmente lui paga con la vita, se<br />

non interviene un deus ex machina che cambia il corso degli eventi e risolve situazioni difficili.<br />

Nel corso dei milioni di anni, l’apparato nervoso ha stabilito una stretta connessione tra organismi e<br />

mondo esterno. Era necessario che questa associazione si stabilisse perché le forme viventi più<br />

evolute potessero aver successo. Nelle ultime centinaia di migliaia di anni processi ancora del tutto<br />

ignoti hanno fatto sì che l’interazione con il mondo esterno diventasse così sofisticata da creare un<br />

organismo in grado di riflettere su questo processo ed in ultima analisi su se stesso e sulla realtà che<br />

lo circonda. Non sappiamo nulla su come questo sia avvenuto e quale sia il suo substrato anatomico<br />

e fisiologico, ma la base di questo processo trae certamente origine dalla necessità che alle proprie<br />

sensazioni corrisponda qualcosa di reale. Meccanismi che fossero stati slegati dalla realtà non<br />

avrebbero avuto successo. Quando ci domandiamo come sia possibile che la nostra mente sia in<br />

rapporto corretto con la realtà, dobbiamo tenere presente che organismi da essa avulsi non<br />

avrebbero neanche potuto evolversi.<br />

Ovviamente la natura non ha alcun interesse per gli organismi che essa produce, per lei uno vale<br />

l’altro. Tuttavia gli organismi sono stati in grado di sfruttare alcune contraddizioni della natura,<br />

9


quali l’esistenza di regole. Anche in questo caso non sappiamo perché la natura abbia le sue leggi,<br />

ma constatiamo di nuovo che, se non le avesse, non sarebbero possibili organismi di una certa<br />

complessità. Questa è la miglior risposta a chi sostiene che le leggi di natura siano un’invenzione<br />

della mente umana. Le associazioni, come quella tra un certo odore e la presenza di un carnivoro,<br />

valgono se non sempre, assai spesso. In realtà non sta scritto da nessuna parte che i sensi debbano<br />

dirci sempre cose valide, ed in effetti essi possono essere limitanti o addirittura ingannevoli. Un<br />

puma può avvicinarsi contro vento. Il rumore di un cucchiaio contro una scodella può venir<br />

associato al pasto che contiene, come ben sa il cane di Pavlov. E’ probabile che associazioni<br />

fraudolente avvengano anche in natura, e che in un primo momento durante il suo addestramento<br />

l’animale associ tante sensazioni ad uno stesso evento. La maggior parte di esse probabilmente non<br />

perdurerà, ma alcune, quelle evoluzionisticamente vantaggiose, potrebbero rinforzarsi. Per il<br />

coniglio nano ci sono solo associazioni, non causalità. David Hume sarebbe soddisfatto in un<br />

mondo di conigli 1 .<br />

Il problema della conoscenza<br />

Rimane il problema: quello che è vero per il coniglio è vero anche per l’uomo? Con l’apparire<br />

dell’uomo, le associazioni tra stimoli vengono processate ulteriormente in maniera completamente<br />

nuova. Per quanto tutti i fenomeni biologici si siano evoluti nel tempo e si possano ricostruire<br />

alcune tappe di ogni trasformazione, rimane che il risultato finale si manifesta con delle novità che<br />

non sarebbe stato facile prevedere dall’inizio. L’anatomia e fisiologia comparata, più recentemente<br />

supportate dalla genetica comparata, mostrano come i geni comandino le strutture, la cui evoluzione<br />

è chiara solo col senno di poi. Anche se non possiamo sapere se l’intelletto infinito postulato da<br />

Laplace non possa essere in grado di prevedere tutta la storia evolutiva, noi umani assistiamo alla<br />

comparsa di proprietà che definiamo emergenti, perché non riusciamo a spiegarne la genesi. Il che<br />

non vuol dire che non esistano.<br />

Così la capacità di conoscere è una capacità emergente, stupefacente quanto si vuole, ma è una<br />

realtà. Vi è una specie che pretende di dire qualcosa sul mondo di cui essa stessa fa parte. Come ciò<br />

abbia potuto svilupparsi rimane un mistero. Negarne a priori la possibilità è dogmatismo,<br />

esagerarne il contenuto, superbia.<br />

Dalla notte dei tempi l’uomo ha cercato di stabilire ciò che è. Si è trovato così a discutere dei<br />

metodi per conoscere, dei limiti della conoscenza, del ruolo dei sensi, del loro superamento, del<br />

concetto del concetto, fino a giungere alla messa in discussione della realtà esterna. “Nulla esiste, se<br />

anche qualcosa esistesse non si potrebbe conoscere, se anche qualcosa si potesse conoscere non si<br />

potrebbe comunicare” dichiara Gorgia, punito per questo con la qualifica di Sofista. In realtà questo<br />

aforisma ci prova che i Greci avevano già raggiunto un grande livello di riflessione sulla<br />

conoscenza umana, giungendo a dubitare dei propri sensi. I paradossi di Zenone ne sono un’altra<br />

prova. Chi ci assicura dei nostri sensi, affidarci a loro è una “petitio principii”. In realtà i Greci<br />

hanno già detto tutto, noi siamo qui solo per i dettagli.<br />

Un paio di millenni dopo, Copernico e Galileo potranno costruire su questa dualità sensi-ragione un<br />

nuovo sistema per niente intuitivo. Se da un lato Galileo se la prende con coloro che non vogliono<br />

credere a quello che i sensi dicono loro tramite un nuovo strumento, il cannocchiale, dall’altro li<br />

1 La dottrina di Hume reagisce contro il concetto di legame causale, sostenendo che la nostra mente<br />

ha la propensione di associare degli eventi tra loro, ma che questa associazione non rivela un<br />

legame necessario di tipo causale.<br />

10


accusa anche di non sapersi liberare dai sensi, quando invocano esperienze di ogni giorno per<br />

sostenere la fissità della Terra.<br />

“Né posso a bastanza ammirare l’eminenza dell’ingegno di quelli che l’hanno ricevuta [la teoria<br />

copernicana] e stimata vera, ed hanno con la vivacità dell’intelletto loro fatto forza tale ai propri<br />

sensi, che abbiano possuto antepor quello che il discorso gli dettava, a quello che le sensate<br />

esperienze gli mostravano apertissimamente in contrario” 2 .<br />

Quello che ci vuole è un misto di tutti e due. Non c’è niente nel nostro intelletto che non sia passato<br />

attraverso i sensi, ma non tutto quello che ci è entrato è buono e lodevole.<br />

Nasce così una necessità profonda, quella di riflettere sulla conoscenza e sulle vie per ottenerla. Se<br />

esiste l’intelletto che si pone di fronte alla realtà e la indaga, è anche vero che il più delle volte si<br />

tratta di un lavoro sporco. Come sempre nella vita, non è tutto oro ciò che luccica. Si può<br />

trascorrere notti intere ad ammirare gli astri e a discutere dei massimi sistemi, ma si deve anche<br />

scendere il Rio delle Amazzoni infestato da sciami di incredibili insetti, viaggiare col mal di mare<br />

su una nave per cinque anni intorno al mondo, inseguire l’Eldorado quando tutti asseriscono che<br />

non esiste, seguire il corso del sole per raggiungere le Indie, somministrare dei vaccini per<br />

dimostrare che proteggono dalla rabbia, scavare nel deserto dell’Etiopia per trovare ossa vecchie di<br />

milioni di anni, cercare la pietra filosofale o tentare di rievocare gli spiriti passati. Tutte queste sono<br />

manifestazioni dello stesso desiderio di conoscere. Il problema è riuscire a capire quando sono i<br />

sensi e quando è la ragione che sbaglia.<br />

Terreno sdrucciolevole<br />

1.Postulati<br />

Si dice sovente che alla base di ogni conoscenza vi sono alcuni presupposti senza i quali non si<br />

potrebbe neanche cominciare a discutere. Essi sono: che il mondo esiste, che noi esistiamo, che il<br />

mondo è conoscibile e che noi possiamo conoscerlo.<br />

Ogni tanto qualcuno si dà da fare per dimostrare che è proprio così. Alcuni vogliono cercare di<br />

provare tutto dall'inizio, così da fondare tutta la nostra conoscenza con certezza. In realtà, preistoricamente<br />

parlando, che il mondo esista e che noi esistiamo, non è un presupposto, bensì la<br />

prima delle nostre conoscenze. Se non avessimo stabilito che noi esistiamo e che c'è qualcosa fuori<br />

da noi non avremmo quella dote che va sotto il nome di coscienza.<br />

Se pertanto è vero che non saremmo qui a leggere e a discutere se questa prima scoperta non fosse<br />

mai stata effettuata, è anche vero che non siamo in grado di rispondere all'obiezione che tutto<br />

quello che ci circonda è un'illusione e che quello che crediamo di conoscere è una costruzione<br />

mentale.<br />

Né si può pensare che questa critica sia monopolio di poche menti astruse. In India, l’idea che il<br />

mondo fosse un'illusione da cui doversi liberare risale all'alba della civiltà. Platone nella Grecia<br />

razionale asseriva pur sempre che la realtà è quella che sta fuori dalla caverna e che a noi toccano<br />

2 Vedi G. Galilei: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Opere, Ed.Naz, vol VII. Torino,<br />

1964. Vedi anche R. S. Westfall: The construction of modern science. Cambridge University Press,<br />

Cambridge, 1977, p 21 e P.K. Feyerabend: Il realismo scientifico e l’autorità della scienza. Il<br />

Saggiatore, Milano, 1983, p. 299-343: il passo citato si può trovare a p. 321.<br />

11


solo le ombre. I Pirroniani dubitavano di tutto, tanto da meritare secoli dopo l’attenzione di Pascal,<br />

mentre il suo contemporaneo Descartes non poteva escludere l'esistenza di un demone ingannevole,<br />

anche se sosteneva di poterlo a sua volta raggirare con un gioco di parole.<br />

Checché se ne dica, è veramente grande che queste conclusioni abbiano potuto nascere migliaia di<br />

anni fa. Ci aspetteremmo al contrario una piatta accettazione dei dati sensoriali da parte di popoli<br />

pieni di superstizioni e credenze le più svariate. Il fatto che il livello di critica delle apparenze possa<br />

essere stato così elevato testimonia che la riflessione su se stessi e sul pensiero trae origine dalla<br />

notte dei tempi. Conclusione che del resto va di pari passo con lo stupore che ci coglie davanti alle<br />

pitture rupestri di decine di migliaia di anni fa.<br />

A queste obiezioni in effetti cosa possiamo rispondere? Essenzialmente, il massimo della nostra<br />

risposta nel corso dei millenni è stata del tipo riassumibile nella frase di Engels: "The proof of the<br />

pudding is eating". Di meglio non abbiamo saputo dire. L’unica risposta che abbiamo saputo dare è<br />

stata a livello pratico, non teorico. Abbiamo così mostrato come, se accettassimo questa obiezione,<br />

dovremmo trarre conseguenze fastidiose, compreso l'invito a buttarsi nel pozzo, perché comunque è<br />

un’illusione, o impopolari, come l’invito a regalare dollari perché tanto non esistono. Vista la<br />

scarsità di argomenti conviene accettare una soluzione di compromesso. Vi è una base biologica del<br />

nostro rapporto conoscitivo col reale, ma questa asserzione non è in grado di convincere tutti,<br />

pertanto accettiamo che il reale esiste ed è conoscibile come un postulato. In fondo la geometria di<br />

Euclide comprende cinque postulati e di questi quattro non sono mai stati posti in discussione in<br />

oltre duemila anni.<br />

2. Termini e definizioni<br />

Mentre Descartes cercava di fondare tutto dall’inizio, Blaise Pascal scriveva un piccolo libretto “De<br />

l’esprit geometrique et de l’art de persuader”. Dell’arte di convincere e di persuadere” in cui<br />

riassumeva brevemente lo stato dell’arte della conoscenza 3 . Il nostro modo di conoscere è simile a<br />

quello della geometria, vi sono assiomi che non possiamo dimostrare e vi sono termini che non<br />

possiamo definire. Mentre Cartesio asserisce di pensare e quindi di essere, Pascal mostra<br />

semplicemente come il termine essere sia per l’appunto indefinibile, rendendo pertanto vana la<br />

formulazione di Descartes. Se tutto il nostro linguaggio si basa sul verbo essere, che non sappiamo<br />

definire, evidentemente le basi del nostro ragionamento sono fragili. Quasi due secoli dopo, la<br />

formulazione delle geometrie non euclidee avrebbe confermato che i punti di partenza di tutti i<br />

nostri ragionamenti sono arbitrari, che anche quello che non sembra intuitivo può essere costruito in<br />

un sistema formale. Ma se il terreno su cui si lavora non è solido, se non possiamo neanche dire che<br />

due rette parallele non si incontrano mai, allora qual è lo stato delle costruzioni che vengono<br />

edificate su di esso?<br />

Il verbo essere, che è alla base di tutto, non è definibile e quindi qualsiasi costruzione edificata in<br />

maniera formale su di essa non sa in realtà di cosa parla. Come è possibile basare tutto un sistema<br />

che deve parlarci della terra e dei cieli senza sapere cosa esso voglia dire? D'altro canto, da dove<br />

nasce questa difficoltà? Dal fatto che questo concetto di essere è primitivo, coincide con<br />

l'acquisizione stessa della capacità conoscitiva, è il presupposto senza il quale non saremmo umani.<br />

E' una modificazione che intercorse nel cervello di un ominide che diede origine alla specie H.<br />

sapiens. Questa modificazione ce l'abbiamo tutti ed è per questo che ne possiamo parlare. Essa è<br />

intersoggettiva, tutti abbiamo la stessa modificazione cerebrale e le abbiamo dato il nome di essere.<br />

3 B. Pascal: Sullo spirito geometrico e sull’arte di persuadere. In Opuscoli e lettere. Edizioni<br />

Paoline, Milano; p. 80-120. Il libro fu scritto circa nel 1658<br />

12


Ma le difficoltà non si fermano al concetto di essere. La verità è che abbiamo grande difficoltà<br />

anche a definire operazioni che stanno alla base di ogni forma di conoscenza. Termini indicanti<br />

processi come "spiegazione", "dimostrazione", e altri sono in realtà mal definiti, tanto che alla fine<br />

ci si deve rivolgere al "senso comune", o più prosaicamente, all'autorità di un dizionario, che<br />

ovviamente di autorità non ne ha alcuna, anche se può essere utile per superare gli esami di greco o<br />

di latino.<br />

Il sistema stesso del ragionare è in realtà assai meno certo di quanto possa sembrare. Il problema del<br />

nesso non è chiaro per niente. Prendiamo la migliore delle forme possibili, quella del formalismo<br />

logico o matematico. Certo, alcune forme di ragionamento, come quella del sillogismo, può essere<br />

descritta facendo uso della teoria degli insiemi. Ma cosa dire di alcune nozioni che stanno alla base<br />

di tutto, ad esempio qual è lo status dei connettivi ? Noi li usiamo, addestriamo i bambini ad usarli,<br />

ma non possiamo far di più. In realtà, c’è bisogno di un lungo training perché tutti li usino allo<br />

stesso modo, tanto che anche persone di un certo livello non sempre sanno maneggiarli<br />

correttamente. E' probabile che siamo di fronte a concetti primigeni, che, come accade per il verbo<br />

essere, sono comprensibili solo in quanto hanno un correlato neuronale che è uguale o simile in tutti<br />

i cervelli, almeno in quelli che vengono addestrati nella logica matematica. Il sospetto pertanto è<br />

che ci voglia un addestramento speciale perché tutti possiamo utilizzare termini, concetti ed<br />

operazioni nello stesso senso. In effetti questo potrebbe spiegare perché molti non capiscono la<br />

matematica, in quanto non sono in grado di "sintonizzarsi" sulla stessa lunghezza d'onda degli altri.<br />

3. Fede nella natura<br />

L'ultimo grande presupposto per la conoscenza è la fede nella regolarità della natura. Se la natura<br />

non avesse un comportamento regolare, ogni nostro tentativo di conoscere non sarebbe mai<br />

sommatorio. Ogni dato singolo potrebbe venir acquisito, ma non faremmo alcun passo avanti.<br />

Potremmo presumibilmente dire proposizioni del tipo "ora, qui", ma non generalizzazioni. Se il<br />

giaguaro non riflettesse la luce sempre allo stesso modo e se i fotoni non seguissero sempre le stesse<br />

regole, il coniglio potrebbe accorgersi di un giaguaro una volta sì e una no, e la sua corsa<br />

terminerebbe presto.<br />

In effetti, come scrisse Hume,<br />

“If there is any suspicion that the course of nature may change, and that the past may be no rule for<br />

the future, all experience become useless and can give rise to no inference or conclusion” 4 .<br />

Anche la fede nella regolarità della natura non è in realtà un dato acquisito, ma è il risultato di una<br />

serie di analisi del nostro rapporto con il mondo esterno. E' un'estrapolazione di dati, un’inferenza<br />

su base induttiva, una conclusione cui i primi uomini arrivarono senza che noi possiamo risalirvi.<br />

Inferenza che tra l’altro ha ricevuto alcune conferme da misurazioni. Ad esempio, l’analisi ha<br />

consentito di misurare la costante gravitazionale di Newton, in un arco di oltre 3 millenni, nel quale<br />

è stato determinato che il mutamento annuale è inferiore a quello di una parte su un miliardo 5 .<br />

La nostra presa di coscienza circa la regolarità della natura è pertanto un’inferenza su base empirica,<br />

e va di pari passo, e forse coincide con l’enunciazione del principio di causalità. Cos'è il principio di<br />

causalità? non è una categoria kantiana, non è un principio, ma è la prima delle leggi empiriche.<br />

Pertanto potrebbe essere fallibile, ma malgrado la critica di Hume pochi credono che l’associazione<br />

4 D. Hume. An enquiry concerning human understanding. IV-II-32 (Encyclopedia Britannica,<br />

Chicago, 1952)<br />

5 Citato in Goddard Lynch, A. “Did Popper solve the Hume’s problem?”. Nature 366:105,1993.<br />

13


ipetuta di fenomeni non significhi proprio nulla. Da numerose osservazioni della natura, venne<br />

posta l'ipotesi che ogni evento è collegato ad altri in maniera indissolubile e a questo legame si<br />

diede il nome di causalità. Le osservazioni successive hanno rafforzato questa ipotesi e, con buona<br />

pace di molti meccanici quantistici, ci vuol altro che un principio di indeterminazione per scuoterla.<br />

Rimane tuttavia che il termine di “causa” rientra tra quelli che sono difficilmente definibili, che<br />

possiamo chiamare primitivi, e che per parlarne tra noi dobbiamo assumere o sperare che anche i<br />

nostri interlocutori intendano la stessa cosa, cioè che abbiano avuto la nostra stessa modificazione<br />

cerebrale. Il che in effetti sembra che succeda.<br />

La base biologica della conoscenza.<br />

Il substrato materiale della nostra conoscenza si è evoluto da quello degli animali inferiori, ma ha<br />

acquisito delle capacità imprevedibili. Theodosius Dobzhansky inizia un suo libro osservando che<br />

"Ciò che è strano, meraviglioso, non è l’esistenza reale di Dio, ma che l’idea della necessità di un<br />

Dio sia sorta nella mente di una bestia selvaggia e immorale come l’uomo” 6 .<br />

Se a quell’epoca ci fossero state riviste scientifiche, la nascita dell’idea di Dio sarebbe stata<br />

certamente considerata un breakthrough e avrebbe meritato lunghi editoriali favorevoli. Il problema<br />

è che non ci sono registrazioni dirette delle prime grandi conquiste conoscitive dell’umanità. La<br />

ruota è arrivata tanto, tanto tempo dopo.<br />

Queste grandi conquiste, non sono acquisite per sempre e non sono ancora state cooptate nel<br />

genoma, né si può sapere se un giorno lo saranno. Devono ancora essere apprese da ogni membro<br />

della nostra specie, ma quello che c’è nel nostro genoma ci consente di candidarci ad entrare nel<br />

club. Nei club più esclusivi si entra solo in base al pedigree. Per questo, lo scimpanzé, per ora ne<br />

resta fuori. Però siamo in un periodo di grande democrazia e non sappiamo cosa succederà nel<br />

prossimo millennio.<br />

Che vi sia una base biologica nella nostra conoscenza e che questa possa essersi evoluta, può essere<br />

accettato da molti, ma non da tutti. D’altro canto questa interpretazione ci potrebbe spiegare perché<br />

mai possiamo conoscere la realtà. Perché ci siamo nati dentro. Vi è un gap di qualche milione di<br />

anni tra l’Homo sapiens e l’antenato comune con le scimmie antropomorfe e le tappe intermedie<br />

vengono indagate con gran difficoltà. Sotto i nostri occhi abbiamo ora una specie che non solo<br />

esegue meccanicamente associazioni e comportamenti, ma una specie che formula domande su<br />

tutto. Su ciò che è necessario sulla sua sopravvivenza, ma anche su questioni di fondo: chi è l’uomo,<br />

cos’è la coscienza, da dove origina l’universo e l’uomo stesso, sull’esistenza del mondo reale, che<br />

formula concetti astratti, che si interroga sugli universali, che analizza il proprio cervello, che cerca<br />

di fondare su basi certe le proprie convinzioni. L’uomo vuole conoscere tutto. Sono situazioni<br />

completamente nuove, proprietà emergenti la cui base è ignota, prima di noi non se ne trova traccia.<br />

La domanda pertanto è: come è possibile con tutte queste limitazioni costruire qualcosa che stia<br />

in piedi? La risposta è che è possibile, anche se quello che si ottiene è soggetto a rovinosi crolli.<br />

D'altro canto è possibile costruire palafitte senza conoscere minimamente la legge di gravitazione<br />

universale che tuttavia governa la statica della palafitta. Cuore e polmoni fanno il loro lavoro da<br />

decine di milioni di anni, anche se noi non sappiamo come.<br />

6 T. Dobzhansky: Le domande supreme della biologia. De Donato, Bari, 1969; p. 11. Dobzhansky<br />

cita la frase da Dostoevskij che la fa pronunciare a Ivan Karamazov.<br />

14


Il coniglio nano poveretto, si dà da fare come può. Si attacca a tutto quello che può essergli utile per<br />

salvarsi la pelle. Noi non siamo in una situazione tanto migliore per certi aspetti. E' vero, dopo<br />

centinaia di migliaia di anni di lotta e dopo avere sviluppato una considerevole astuzia, vogliamo<br />

conoscere il mondo non solo per portare a casa la ghirba ma anche per avere risposte a domande che<br />

nessun coniglio si porrebbe mai. Ciononostante, siamo su un terreno assai sdrucciolevole per quanto<br />

riguarda la nostra conoscenza e possiamo scivolare ad ogni pie’ sospinto.<br />

Per fortuna, possiamo far tesoro di tutti i tentativi ed errori fatti dal coniglio. Nel corso di decine di<br />

milioni di anni, le forme viventi cosiddette superiori hanno sviluppato un profondo rapporto con il<br />

mondo reale a prezzo del loro sangue. Non abbiamo idea di quanti organismi si siano sacrificati per<br />

consentire all'uomo di arrivare ad avere non solo degli ottimi sensori, ma soprattutto una capacità<br />

processiva che anche i computer ci invidiano. L'eredità che abbiamo ricevuto è consistente e,<br />

bisogna dire, noi non l'abbiamo certo seppellita sotto terra, ma l'abbiamo investita al meglio.<br />

Abbiamo ereditato la capacità di raccordarci con il reale, anche se non sappiamo come, né quale sia<br />

la base di questo fenomeno, e l'abbiamo applicata così bene che gli dei ci guardano ora con<br />

sospetto. Essi hanno incatenato Prometeo e ci hanno scaricato addosso tutto il contenuto del vaso di<br />

Pandora, ma questo non ci ha fermato. Ci siamo fatti scacciare dal giardino dell'Eden, ma tutto<br />

quello che abbiamo ora ce lo siamo procurato da soli. Fra tutto ciò non vi è dubbio, la conquista<br />

principale è l'affermazione che noi esistiamo.<br />

Pertanto la nostra conoscenza si basa su una serie di risultati grandiosi ottenuti nella notte dei<br />

tempi da sistemi cerebrali che hanno operato una serie di analisi che ci hanno esse stesse<br />

permesso di diventare uomini. Questi risultati, che hanno avuto luogo in tempi e modi che per ora<br />

ci sfuggono completamente, sono tuttavia indimostrabili, nel senso che attribuiamo a questa parola<br />

nelle rigorose analisi scientifiche. Almeno per ora.<br />

Può darsi che questa conclusione getti qualcuno nella disperazione e lo induca all'abbandono e alla<br />

rinuncia. Non credo che per costoro si possa far nulla, sono persi per la conoscenza (la loro scelta<br />

comunque può avere ottime motivazioni). Ma con tutti gli altri ci si può incamminare verso il<br />

terreno della discussione. D'altro canto, cosa dire ad uno che vuole giocare a calcio con le mani ? Se<br />

questo ci chiede perché le regole sono così o, peggio, se ci comincia a chiedere da dove discende<br />

l'obbligo di non usare le mani, cosa si può fare? si può solo chiedergli di togliere il disturbo o nei<br />

casi estremi lasciarlo a parlare da solo.<br />

D'altro canto, il calcio si fa diffondendo sempre più, anche negli Stati Uniti sempre refrattario a<br />

questo sport 7 . Evidentemente il calcio è dotato di un certo fascino tra i giovani. L'analogia però si<br />

dovrebbe fermare qui. Se non c'è nessun motivo per preferire il calcio al basket o al baseball, è<br />

probabile che ci siano numerosi motivi perché la conoscenza sia piacevole per le menti giovani (o<br />

ce ne sono di più che incentivano l'irrazionalità ?). Questi motivi non sono assoluti, ma si spera ci<br />

siano: chi mai sceglie di giocare a cricket oggidì ?. E' bene che sia chiaro fin dall'inizio che si può<br />

decidere di vivere nelle tane fino a diventare ciechi, ma anche i timidi conigli hanno scelto di non<br />

limitarsi a vivere nei cunicoli (da cui il loro nome dotto, Oryctolagus cuniculus, da cui<br />

presumibilmente è derivato il termine italiano) perché evidentemente qualcosa di piacevole c'è<br />

anche fuori, anche se si rischia la pelle.<br />

Pertanto, l'unica possibilità è mostrare quanto di bello produce la conoscenza e lasciare che la gente<br />

scelga. Anche se il terreno è sdrucciolevole, possiamo pure tentare di costruire qualcosa. Date le<br />

7<br />

Trovandomi nell’occasione negli Stati Uniti, ho avuto recentemente modo di verificare<br />

l’entusiasmo degli americani per la vittoria ai mondiali di calcio della nazionale femminile (1999),<br />

vittoria che solo una decina di anni fa avrebbe lasciato tutti indifferenti.<br />

15


premesse, possiamo pensare ai castelli di carte. Non hanno alcuna fondamenta, eppure stanno in<br />

piedi e sono tanto più belli quanto più è bravo l'artista. Ogni tanto cadono giù, ma i materiali sono<br />

sempre riutilizzabili e possono servire per riedificare castelli più belli di quelli di prima.<br />

Scienza e filosofia<br />

Storicamente, ci sono state due grosse pretese alla conoscenza. Sono stati chiamati scienza e<br />

filosofia, anche se vi è grande confusione sui termini. A volte il nucleo centrale della filosofia è<br />

andato sotto il nome di metafisica.<br />

1. Scienza e filosofia: anatomia di un rapporto<br />

L’uomo occidentale parla in diverse lingue, ma pensa in greco. Non che non vi siano state<br />

nell’estremo Oriente sistemi di pensiero di notevole complessità, ma tutti noi viviamo in<br />

problematiche formalizzate dagli antichi Greci.<br />

E’ noto, e viene insegnato in tutte le scuole di ogni ordine e grado, che per gli antichi greci la<br />

conoscenza è una sola, e nei dialoghi platonici vi è un solo modo di ragionare. Aristotele, che fece<br />

una summa delle conoscenza nel suo tempo, distinse nei suoi libri la Fisica (da φυσισ, natura) dalla<br />

Metafisica, anche se le origini di questa denominazione non sono certe 8 . E’ anche noto che nel<br />

Medioevo tutto fu denominato dalla teologia, che per i Greci era una parte della filosofia:<br />

“Philosophia ancilla theologiae”. Non vi è nessuna opposizione tra Teologia e Filosofia, e San<br />

Tommaso è perfettamente aristotelico. Nel Rinascimento però si assiste alla rimessa in discussione<br />

di questo rapporto. La scienza diventa un partner esigente, anche se l’oggetto del contendere non è<br />

la Teologia in se stessa bensì l’interpretazione letterale delle Scritture. La diatriba tra teologia,<br />

filosofia e scienza raggiunge il culmine con la condanna di Galileo 9 . In realtà, Galileo è aristotelico<br />

nel metodo, perché si richiama all’esperienza, e cos’è l’esperienza se non ciò che passa attraverso i<br />

sensi ? 10 Una serie di eventi culturali e politici fanno sì che Galileo si opponga ai neo-aristotelici.<br />

Quali che siano state le cause che portarono al processo di Galileo, rimane che “nell’immaginario<br />

collettivo”, il processo rappresentò sempre il momento che rese indipendente la scienza dalla<br />

Teologia.<br />

Data la potenza della Chiesa di Roma in quel periodo, sorse per gli scienziati la necessità di trovare<br />

un modus vivendi che consentisse loro di perseguire i propri studi senza correre rischi. Nasce così la<br />

separazione tra scienza e filosofia, tra sapere scientifico e sapere filosofico e teologico, tra chi si<br />

interessa del contingente e chi si interessa dell’assoluto. Una buona soluzione dal punto di vista<br />

pragmatico, ognuno è padrone del suo campo e non invade quello dell’altro. L’enorme aumento<br />

delle conoscenze facilita questa separazione: è difficile impadronirsi di più di una branca del sapere.<br />

Se nel tardo Rinascimento la gente può ancora perseguire ambedue gli interessi, basti pensare a<br />

Isacco Newton che scrisse tanti saggi scientifici quanti teologici, man mano che si procede<br />

l’aumento delle conoscenze diventa tale da rendere difficile la pratica di entrambi i settori, il che<br />

contribuisce a divaricare ulteriormente i due tipi di conoscenze.<br />

8 Potrebbe essere che il termine “metafisica” tragga origine dal fatto che veniva dopo il libro di<br />

Fisica o che si volesse indicare argomenti che andavano al di là delle cose fisiche.<br />

9 Vi sono varie interpretazioni delle motivazioni che portarono alla condanna di Galileo, alcune<br />

delle quali addirittura vedono il processo come un sistema per proteggere Galileo da accuse più<br />

pesanti che non la difesa della teoria copernicana, che sarebbe all’epoca stata appoggiata dalla<br />

Chiesa. Vedi P. Redondi: Galileo eretico. Einaudi, Torino, 1983.<br />

10 Vedi quanto affermato sopra sul sottile gioco tra sensi e ragione in Galileo.<br />

16


In Inghilterra tuttavia le cose si svilupparono un po’ diversamente. Qui in seguito allo scisma<br />

anglicano, l’influenza della Roma cattolica era minore. Se è vero che David Hume, col suo invito a<br />

bruciare tutti i libri che non contengano discorsi sulla esperienza o sulla matematica, deve essere<br />

considerato il precursore dei positivisti logici, è anche vero che nell’ambito della Royal Society fu<br />

molto attiva una corrente di pensiero che traeva fiducia dalla religione per lo studio della natura. Il<br />

magnifico ordine naturale veniva considerato una manifestazione divina e l’indagine della natura<br />

veniva vista come una via che portava a Dio. Pertanto la divisione tra scienza e teologia fu inferiore<br />

nell’isola a quella che si manifestò nel continente. Numerosi studi supportano l’ipotesi che, ben<br />

lungi dall’ostacolare la scienza, i presupposti del Cristianesimo abbiano favorito l’indagine<br />

scientifica 11 .<br />

C’è da chiedersi appunto se la visione cristiana non sia stato un elemento decisivo nella nascita<br />

della nuova fisica. Perché la scienza è nata in Occidente ? Come avrebbe potuto nascere in India, in<br />

un paese dove la realtà viene considerata illusione e l’agire ostacola il raggiungimento del nirvana ?<br />

O dove la discussione è impedita dalla mistica ? Nella Summa di Tommaso d’Aquino, tutto vuole<br />

essere rigorosamente dimostrato, il ruolo della ragione è fondamentale: essa è buona e può portarci<br />

alla conoscenza della verità (che in fondo coincide con Dio). Il mondo è il nostro regno, e il precetto<br />

biblico di andare e conquistare il mondo stimola l’uomo non solo a conoscere ma anche ad agire.<br />

Come Weber attribuisce al protestantesimo un ruolo nella genesi del capitalismo, così Robert<br />

Merton sostiene l’enorme importanza del Puritanesimo e del suo ethos nella genesi della scienza del<br />

Settecento 12 . La Royal Society stessa era piena di Puritani. Thomas Sydenham, Robert Boyle, Isaac<br />

Newton e tantissimi altri vedevano gli studi della natura come la glorificazione di Dio e della sua<br />

opera. “The wisdom of God manifested in the work of creation” è il titolo di un libro di John Ray.<br />

William Derham scrive una “Physico-Theology”. Nasce e si diffonde una “Natural Theology” che<br />

si propone di dimostrare l’esistenza e la bontà di Dio attraverso lo studio della natura: William<br />

Paley ne è l’esponente più noto, e il suo libro, uscito nel 1802, porta appunto questo titolo 13 .<br />

La teoria dell’evoluzione segna un nuovo punto di frizione tra scienza e teologia, da cui nel<br />

frattempo anche la filosofia si era emancipata. Pertanto non si può parlare di diatriba tra scienza e<br />

filosofia, in quanto vi erano ormai molte e diverse filosofie ufficiali. Quando le memorie di Darwin<br />

e Wallace vengono presentate alla Royal Society, la Rivoluzione francese e l’Illuminismo sono già<br />

passati e Lamettrie ha già scritto il suo libro “L’homme machine” da oltre un secolo 14 . E’ noto che<br />

solo da pochi anni la Chiesa Romana ha ufficialmente riabilitato dopo Galileo anche Darwin. Ma di<br />

nuovo in Gran Bretagna, malgrado il noto dibattito tra Thomas Huxley e il vescovo Samuel<br />

Wilbeforce, l’accettazione della teoria dell’evoluzione negli ambienti ecclesiastici anglicani è assai<br />

più rapida. Nel 1896, Frederick Temple diviene arcivescovo di Canterbury, la massima carica della<br />

11 C.A. Russell (editor): Science and religious belief. Vedi soprattutto i contributi di R. Merton e di<br />

D.S. Kemsley. Inoltre, vedi R. Hooykaas: Religion and the rise of modern science. Scottish<br />

Academic Press, Edimburgo, 1977<br />

12 R.K. Merton: Puritanism, pietism ans science. Sociological Review 28, part I, gennaio 1936.<br />

Reprinted in C.A. Russell: Science and religious belief. The Open University Press, Londra, 1973;<br />

vedi nota 13, p 20-54. “It is the thesis of this study that the Puritan ethics, as an ideal-typical<br />

expression of the value-attitudes basic to ascetic Protestantism generally, so canalized the interests<br />

of seventeenth-century Englishmen as to constitute one important element in the enhanced<br />

cultivation of science”. p. 20.<br />

13<br />

W. Paley: Natural Theology, or Evidence of the existence and attributes of the Deity collected<br />

from the appearances of nature. Londra, 1802<br />

14 J. Offroy de Lamettrie: L’homme machine, Leida, 1748<br />

17


Chiesa d’Inghilterra. Dodici anni prima aveva tenuto le “Bampton lectures” a Oxford sulla relazione<br />

tra religione e scienza, dove l’evoluzione veniva considerata un assioma 15 .<br />

Ma soprattutto la tregua viene rotta dai neopositivisti o positivisti logici. Nell’accezione di<br />

Wittgenstein, di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere; ma se questo non implica ancora un<br />

giudizio negativo sull’ineffabile, per i filosofi del Circolo di Vienna la metafisica è puro nonsenso.<br />

Ciò che ha senso, logica e matematica a parte, è solo ciò che è suscettibile di verifica sperimentale,<br />

e la metafisica non lo è. Karl Popper introdurrà il concetto di falsificabilità invece di quello di<br />

verificabilità, il che, dal punto di vista dei metafisici, non fa alcuna differenza. In seguito però<br />

l’accusa di nonsenso viene in parte mitigata. La verificabilità o la falsificabilità diventano semplici<br />

criteri di demarcazione e non criteri di senso. Siamo di nuovo alla tregua armata, alla guerra fredda,<br />

ma per lo meno i due schieramenti smettono di accapigliarsi.<br />

La separazione tra scienza e filosofia potrebbe dipendere dal fatto che il metodo di conoscenza è<br />

diverso, dal fatto che il dominio di interesse è diverso o da entrambe le cose. Nell’accezione più<br />

diffusa è l’ultima accezione ad essere preferita dai sostenitori di entrambe le parti. Analizziamo<br />

innanzitutto il problema del metodo di conoscenza.<br />

Uno ed un solo metodo di conoscenza per una enorme vastità di problemi differenti<br />

1. Ritorno al coniglio<br />

Il metodo scientifico è la diretta conseguenza della conoscenza animale. Per l’animale, i dati<br />

sensoriali entrano nel sistema nervoso centrale e vengono automaticamente messi in relazione con<br />

altri dati, il tutto viene poi collegato con alcune risposte comportamentali che tendono<br />

essenzialmente alla conservazione dell’individuo. Il rapporto temporale è estremamente importante<br />

e per l’animale vale assolutamente il “post hoc ergo propter hoc”. Quello che funziona qui è una<br />

specie di induzione automatica. A valle di tutto ciò c’è la verifica del mondo esterno. Se il coniglio<br />

ha sentito un odore ed è fuggito nella tana, la realtà potrà premiarlo se la sua induzione ha<br />

funzionato bene o potrà punirlo se ha funzionato male 16 . Per l’uomo l’induzione è cosciente e anzi<br />

soggetto di accesi dibattiti sulla sua importanza e sul suo significato. Quello che per l’animale è uno<br />

strumento di sopravvivenza diventa qui un principio di conoscenza. Anche per l’uomo comunque il<br />

mondo esterno emette sentenze, ma in campo conoscitivo ormai chi muore sono generalmente le<br />

teorie.<br />

2. Materiali e metodi (i metodi della conoscenza)<br />

Che io sappia, nel corso della storia sono stati reclamati essenzialmente tre tipi (o modi o metodi) di<br />

possibile acquisizione di nuove conoscenze:<br />

1. Il metodo sperimentale, che ha le sue radici nel famoso “nihil est in intellectu quod prius non<br />

fuerit in sensu”, ha permeato tutto il mondo occidentale a partire almeno da Aristotele, tanto da<br />

essere accolto con Tommaso d’Aquino anche nella sfera religiosa e diventare la dottrina<br />

ufficiale dell’Occidente per numerosi secoli: esso prevede che ogni nuova conoscenza derivi<br />

all’uomo attraverso l’interazione tra il suo sistema nervoso (centrale + periferico + organi di<br />

senso) e la realtà esterna.<br />

15 O. Chadwick: Evolution and the churches, 1966, ristampato in Science and Religious belief, vedi<br />

op.cit p.282-293, 1977<br />

16 Nell’esempio in questione, il coniglio salva la pelle se c’è effettivamente in giro un predatore, ma<br />

se in assenza di predatore continuasse a rifugiarsi nei cunicoli, la sua alimentazione ne soffrirebbe.<br />

18


2. Il metodo basato sull’intuizione, che ammette che nuove conoscenze possono essere acquisite<br />

anche senza che queste passino attraverso i sensi, riconosce due varietà, a seconda che a) queste<br />

conoscenze fossero già in noi e andassero solamente risvegliate o invece b) non fossero<br />

precedentemente in noi e noi potessimo acquisirle ex-novo sia in maniera attiva (“meditando”)<br />

che in maniera passiva (per “folgorazione o illuminazione”). Questo metodo, pur ritrovandosi<br />

più frequentemente nella cultura orientale, è presente anche in quella occidentale, basti pensare<br />

oltre che a Platone anche a Bergman. Per alcuni addirittura questo è il metodo di tutta la<br />

filosofia o per lo meno di quella parte di essa che va sotto il nome di metafisica. Generalmente,<br />

ma non è detto che la distinzione sia costante, si ritiene che la versione occidentale motivi<br />

queste sue affermazioni con ragionamenti (pensiamo anche solo alla teoria delle Idee e<br />

dell’Iperuranium di Platone, che, seppure presentata sotto forma dialogica e non con un vero<br />

trattato, tuttavia è sufficientemente chiara e motivata, mentre la versione orientale si fa spesso<br />

un vanto di non essere comunicabile con ragionamenti chiari e distinti, ma solo intuita, sentita,<br />

partecipata o vissuta).<br />

3. Il metodo basato sulla rivelazione in senso lato, può essere definito come segue: è il metodo per<br />

cui un individuo acquista una nuova conoscenza in quanto un altro individuo gliela comunica;<br />

mentre tuttavia l’individuo efferente ha ottenuto o sostiene di aver ottenuto la conoscenza<br />

attraverso l’esperienza diretta del fatto in questione, l’individuo afferente ha precluso questa<br />

possibilità. Questa situazione è presente in molte religioni, ma è anche parte integrante della<br />

nostra vita quotidiana; inoltre molte proposizioni riferite al passato e non regolate da leggi note<br />

appartengono a questa categoria.<br />

Vediamo ora di dire qualche parola in più su ciascuno di questi presunti metodi.<br />

1. Il metodo sperimentale<br />

Il metodo sperimentale si basa sull’esperienza. Attraverso i sensi noi possiamo acquisire un certo<br />

numero di conoscenze che non hanno bisogno di ulteriore elaborazione: possiamo chiamare le<br />

proposizioni che esprimono questo tipo di conoscenza “proposizioni protocollari”, avvisando<br />

tuttavia che non tutti concorderebbero sulla loro semplicità; alcuni infatti sostengono che non si<br />

danno osservazioni pure, ma solo osservazioni mediate da teorie (o nell’ambito di teorie); altri, più<br />

biologicamente, fanno notare che ogni osservazione è sempre elaborata e quindi trasformata dal<br />

nostro sistema nervoso. Come abbiamo detto, vi sono delle limitazioni che minano alla base<br />

l’assunzione del dato come dato puro. Le prime definizioni e le prime assunzioni hanno una base<br />

biologica ed evolutiva che da un lato le rendono incarnate e non astratte (in senso buono), ma<br />

dall’altro assicurano l’ancoraggio alla realtà.<br />

Tutto ciò è senz’altro vero, ma noi qui le considereremo ugualmente come proposizioni semplici e<br />

certe in quanto questo è l’uso che ne fa lo scienziato nel suo lavoro di ogni giorno. Esse vengono<br />

anche dette “atomiche” perché, oltre a rappresentare delle conoscenze, sono anche le unità con cui<br />

vengono costruite conoscenze più generali; è proprio l’enunciazione delle relazioni più generali,<br />

anzi è proprio l’enunciazione delle relazioni tra più fatti (o più proposizioni) che costituisce le<br />

grandi scoperte della scienza. Ora, mentre possiamo considerare le proposizioni atomiche come<br />

immediatamente date attraverso i nostri sensi, abbiamo invece dei procedimenti precisi per valutare<br />

la validità delle conoscenze che parlano di relazioni tra queste proposizioni, e che in genere<br />

vengono chiamate leggi. Pur con qualche schematismo, si può dire che una legge nasce passando<br />

attraverso varie fasi, da tempo riconosciute come caratteristiche del metodo sperimentale.<br />

In una prima fase, che potremmo chiamare di elencazione, si selezionano le proposizioni atomiche e<br />

non atomiche (queste ultime già precedentemente valutate) tra le quali si vuole descrivere una<br />

nuova relazione; potremmo dire semplicemente che in questa fase si elencano i fatti che si vuole<br />

spiegare, senza che abbia alcuna importanza il modo con cui questi siano stati ottenuti: non<br />

interessa cioè sapere se sono stati ottenuti in maniera casuale o addirittura nell’ambito di un’ipotesi<br />

che si vuole controbattere.<br />

19


Nella seconda fase, che potremmo chiamare delle ipotesi, si enuncia la proposizione che descrive in<br />

che modo i fatti precedentemente elencati stanno in relazione tra loro; questa proposizione viene<br />

chiamata ipotesi in quanto se ne riconosce già in partenza l’aspetto di incertezza. In linea di<br />

principio, non vi sono limiti all’arditezza delle ipotesi, essendo questo per molti addirittura un<br />

momento governato dalla libera fantasia o un’attività simil-artistica: unica limitazione che tale<br />

ipotesi sia testabile, cioè che l’ipotesi preveda delle condizioni in cui possa essere verificata o<br />

falsificata, o meglio, in cui possa essere corroborata o indebolita.<br />

E’ importante sottolineare che non vi sono regole fisse per la seconda fase. Per formulare ipotesi<br />

che spieghino tutti i dati raccolti, la mente umana può fare quello che vuole. Può lavorare di<br />

immaginazione, può fare ricorso alle esperienze personali, al proprio senso estetico, alla semplicità,<br />

alla complessità, può trarre spunto dai sogni o dalla cabala, da antichi scritti o da intuizioni<br />

fantascientifiche. Einstein può immaginare di viaggiare su un raggio di luce e Kekulè può sognare<br />

le bisce che si mordono la coda 17 . Si può essere mossi da convinzioni religiose o dal freddo<br />

materialismo, quello che conta non è la psicologia o la sociologia della genesi dell’ipotesi bensì le<br />

sue conseguenze predittive: l’ipotesi deve tornare a confrontarsi colla realtà per ricevere il premio o<br />

il castigo.<br />

Quello che pertanto distingue il metodo scientifico è essenzialmente il fatto che a giudicare delle<br />

bontà di una modificazione cerebrale, quale è una ipotesi, viene chiamato non la mente stessa ma un<br />

arbitro esterno. Naturalmente in pratica vi sono dei limiti alla formulazione di teorie, limiti che sono<br />

psicologici e tecnici. Le ipotesi più pazze possono venir formulate, ma dal momento che la loro<br />

verifica è un processo costoso sia per l’individuo che per la società nel suo insieme, ognuno di noi<br />

opera una certa selezione, cercando di scegliere quelle che sembrano meno strambe o più facili da<br />

verificare.<br />

Quindi mentre porre ipotesi può essere considerata un’attività a priori, l’aggancio con l’esperienza<br />

viene assicurato dal confronto con i fatti, e in questo appunto consiste la terza fase che chiameremo<br />

perciò fase della verifica (non avendo a disposizione nella lingua italiana un semplice sostantivo<br />

corrispondente all’aggettivo “testabile”, di origine anglosassone). La verifica delle ipotesi avviene<br />

mediante il confronto tra le proposizioni previste dalla nuova ipotesi e quelle che descrivono i fatti<br />

realmente verificatesi in seguito all’esperimento. L’esecuzione degli esperimenti costituisce<br />

pertanto la terza fase del metodo sperimentale, e la valutazione dei risultati in rapporto all’ipotesi ne<br />

costituisce la fase conclusiva.<br />

Riassumendo, le proposizioni ottenute mediante le regole del metodo sperimentale hanno le<br />

seguenti caratteristiche: esse sono empiriche, cioè sono ancorate alla realtà; sono sintetiche, cioè ci<br />

danno delle novità, sono provvisorie, cioè possono essere sostituite da altre in qualsiasi momento.<br />

2. Il metodo intuitivo<br />

I sostenitori di questo metodo non rifiutano affatto le conoscenze ottenibili mediante il metodo<br />

precedente; tuttavia sostengono che anche con questo metodo si possono ottenere conoscenze<br />

genuine. Forse si può caratterizzare sufficientemente bene questo metodo se si dice che sostiene che<br />

le prime due fasi del precedente metodo da sole sono in grado di fornire conoscenze: la terza fase<br />

viene considerata inadatta in certe situazioni. Il momento della verifica viene spesso soppresso per<br />

via del fatto che si pretende di parlare di un mondo che va al di là delle esperienze sensibili e per<br />

questo si etichetta frequentemente questo metodo come “filosofico” o “metafisico”, ma sarebbe<br />

possibile applicarlo anche alla realtà sensibile. Le conoscenze che si crede di aver ottenuto mediante<br />

questo metodo vengono spesso definite dai loro sostenitori come assolute; con questo termine<br />

17<br />

Questi sono solo alcuni esempi dei modi più pazzi in cui le ipotesi possono nascere. Einstein<br />

sostiene che da bambino sognava di farsi trasportare da un raggio di luce e che questo lo aiutò<br />

nell’ideazione della teoria della relatività. Kekulè sostiene di aver avuto l’idea della struttura<br />

dell’anello aromatico del benzene sognando dei serpenti che si mordevano la coda.<br />

20


sembra che si intenda dire che esse non sono suscettibili di modificazione nel tempo e nello spazio,<br />

almeno per quanto riguarda il loro nucleo centrale.<br />

Il distacco netto tra questi due metodi viene generalmente attribuito al rifiuto galileiano del “tentar<br />

l’essenza”, riecheggiato poi dal newtoniano “hypotheses non fingo”, dove il termine ipotesi veniva<br />

utilizzato in un senso completamente diverso da quello che poi si è imposto nell’accezione<br />

moderna. L’esistenza di un mondo al di là dei sensi non accessibile tramite la semplice esperienza,<br />

già presente in Platone e ovviamente nelle filosofie indiane, ha in realtà permeato di sé il dibattito<br />

filosofico di tutti i tempi, compreso quello moderno, ritrovandosi non solo in Kant, ma anche in<br />

Wittgenstein, anche se spesso ne veniva sostenuta l’inconoscibilità. Altre volte, se richiesti di<br />

spiegare le modalità con cui si possa avere accesso a questo mondo, i sostenitori della sua esistenza<br />

tirano in ballo concetti a loro volta non facilmente verificabili, quali l’introspezione, la meditazione<br />

e così via. Talora si sostiene che questo mondo possa venir conosciuto attraverso l’esperienza<br />

mistica o che semplicemente basti risvegliare in noi conoscenze sopite come appunto fa la<br />

maieutica socratico-platonica.<br />

Una variante estrema di questo metodo di conoscenza è quello di tipo zen. Io conosco, io so. Tu non<br />

sai e non ci posso far niente. Chiuso il discorso. Al massimo posso raccontarti una bella favoletta.<br />

Con tutto il rispetto per le filosofie orientali e per le loro magnifiche intuizioni, questo approccio,<br />

assai riverito nel mondo orientale, da noi viene riservato in genere ai bambini piccoli, a cui noi ci<br />

rivolgiamo con la versione occidentale dello zen: “E’ così, perché di sì”. Gli psicologi dell’età<br />

infantile ed evolutiva ci dicono che questo atteggiamento è assai dannoso nel rapporto adultibambini.<br />

3. Il metodo della rivelazione<br />

Bisogna subito precisare che qui intendo il termine in senso molto ampio, non nel senso<br />

strettamente religioso. Il singolo individuo può venir a conoscenza di un fatto di cui non ha avuto<br />

esperienza, attraverso l’informazione che gli viene comunicata da un altro individuo che sostiene di<br />

averne avuto esperienza diretta (se non sostiene di averne avuto esperienza diretta si ricade nel caso<br />

precedente, anzi in un sottotipo ancora più debole). Molte proposizioni riguardanti il mondo<br />

materiale del passato cadono in questa categoria, in quanto noi dobbiamo basarci per la loro verifica<br />

su quanto ci viene testimoniato da altri; fanno eccezione quelle che obbediscono a leggi che si<br />

presume funzionassero anche in passato (ad esempio, molti eventi cosmologici possono venir testati<br />

in base a queste assunzioni) o eventi che hanno lasciato tracce ancor oggi rilevabili (ad esempio in<br />

campo biologico, lo studio del DNA consente ora di esplorare almeno parzialmente il passato di<br />

specie e individui). Per altri eventi di cui l’unica traccia è il resoconto scritto, figurato o parlato di<br />

uno o più uomini, la storia, configurandosi come disciplina scientifica che procede per verifica di<br />

ipotesi, ha elaborato una serie di regole per stabilire l’autorevolezza della fonte, come si suol dire.<br />

Infine nel passato vi sono eventi che non hanno lasciato tracce né sulla carta né nella pietra e non<br />

sono più testabili. Qual è lo status di proposizioni intorno ad essi ?<br />

Nella nostra vita quotidiana, questo metodo di accrescere le nostre conoscenze è tanto frequente che<br />

neanche ce ne accorgiamo; in realtà, il fatto che i vari uomini attribuiscano autorevolezza diversa a<br />

fonti diverse è una delle cause per cui vi siano versioni contrastanti di un medesimo evento in teoria<br />

facilmente constatabile, tanto da dover rientrare addirittura nell’ambito delle proposizioni atomiche:<br />

basta pensare ai fatti che accadono durante una manifestazione politica per concludere che il più<br />

delle volte un osservatore imparziale avrebbe tutte le possibilità per enunciare una proposizione che<br />

rispecchi l’accaduto, ma che generalmente chi non ne ha avuto esperienza diretta si troverà<br />

nell’impossibilità di decidere quale delle due versioni rispecchi veramente quello che è successo.<br />

Questo capita naturalmente perché l’evento non è ripetibile, il che al contrario è un assunto di base<br />

per chi studia i fenomeni col metodo sperimentale: lo scienziato, quando esamina un articolo su una<br />

rivista scientifica, anche se non ripete l’esperimento, sa che altri laboratori lo faranno; ciò oltretutto<br />

agisce da deterrente, perché in teoria chi bara sa in partenza che verrà scoperto.<br />

21


Le varie religioni riconoscono spesso fondamentale importanza a questo metodo, e alcune di esse,<br />

ad esempio il Cristianesimo, procedono con dei criteri che sono di tipo storico, valutando i<br />

documenti e analizzando le fonti con criteri precisi e riconosciuti, reclamando che i fatti accaduti<br />

siano valutati con lo stesso spirito con cui si valutano quelli riferiti da Tacito o Tucidide.<br />

Ci si può chiedere quali caratteristiche abbiano le proposizioni ottenute con questo metodo: esse<br />

sono senza dubbio incerte, anche se stabilirne la validità o almeno la probabilità sembra essere<br />

ancora più difficile che per quelle ottenute col metodo sperimentale in senso stretto. Parimenti sono<br />

provvisorie. Sono tuttavia empiriche e sintetiche, per lo meno quelle su eventi che hanno lasciato<br />

una traccia.<br />

4. Valutazione di questi tre metodi di conoscenza<br />

Quello che dovrebbe essere chiaro a tutti è che non conosco nessuna argomentazione che costringa<br />

ad accettare o rifiutare l’uno o l’altro o una combinazione di questi metodi. La valutazione di un<br />

metodo deve basarsi su criteri che non fanno parte del metodo stesso. L’unico criterio cui sembra<br />

possibile appellarsi è quello dell’analisi dei risultati. Ora sembra sufficientemente palese che quanto<br />

a conoscenze prodotte il metodo sperimentale ne ha prodotte infinitamente di più del metodo basato<br />

sul metodo dell’intuizione (ammesso pure che questo ne abbia prodotta qualcuna). Inoltre, anche se<br />

i singoli scienziati possono ostinarsi a seguire convinzioni errate, a lungo andare generalmente<br />

riescono a mettersi d’accordo. Vi è quindi un certo progresso nelle proposizioni ottenute col metodo<br />

scientifico, mentre questo progresso non è ben visibile nelle pretese conoscenze ottenute col metodo<br />

intuitivo, e questo per il semplice motivo che non vi sono criteri per stabilire chi ha intuito giusto.<br />

Insomma, l’unica argomentazione che un seguace del metodo sperimentale potrebbe addurre per<br />

convincere gli altri della bontà del suo metodo consiste nel mostrare come l’interlocutore viva<br />

immerso in un mondo costruito in base ad esso; se poi lo stesso volesse argomentare contro il<br />

metodo intuitivo dovrebbe mostrare come questo metodo si sia mostrato tremendamente sterile o<br />

addirittura abbia provocato dei danni rallentando l’acquisizione di nuove conoscenze.<br />

Si capisce tuttavia come ci si stia avventurando su un campo minato, in quanto un seguace del<br />

metodo intuitivo potrebbe replicare che il cosiddetto progresso della scienza è in realtà un regresso,<br />

tanto è vero che siamo pieni fino al collo di problemi nati proprio da questa società tecnologica fino<br />

al punto di vivere colla spada di Damocle del nucleare sulla testa (anche se in questo periodo la<br />

minaccia sembra essersi ridotta) o da distruggere tutta la natura che ci circonda. Si potrà obiettare<br />

che così facendo si sposta la discussione sull’eticità e non solo sul puro valore conoscitivo del<br />

metodo sperimentale, ma si potrebbe rispondere di nuovo che, visto che i criteri devono<br />

necessariamente essere a misura d’uomo, non si vede perché ci si debba limitare ad un criterio di<br />

pragmaticità senza introdurre altri criteri.<br />

Penso che la discussione potrebbe durare a lungo. Personalmente ritengo che non vi siano<br />

conoscenze ottenibili al di fuori del metodo sperimentale 18 , ma sono costretto ad ammettere che<br />

non ho argomentazioni cogenti per convincere nessuno.<br />

3. Verificabilità e falsificabilità.<br />

Come abbiamo visto, la terza fase del metodo scientifico prevede che sulla base dell’ipotesi<br />

formulata si possano effettuare delle previsioni che avranno luogo nel mondo reale: se queste<br />

18 Eppure in matematica sembra che questo succeda. Una persona si mette lì davanti ad un triangolo<br />

rettangolo di cui conosce solo due lati e scopre come determinare l’altro lato senza misurarlo, anzi<br />

dimostra che questo varrà per qualsiasi triangolo rettangolo. Ora, come questo avvenga ha in realtà<br />

del misterioso. Si risponde in genere che la matematica è una tautologia, che non dice nulla sul<br />

mondo reale, che nella conclusione non c’è nulla di nuovo che non sia già contenuto negli assiomi e<br />

nelle definizioni della geometria, che si tratta di un mondo di convenzioni che ci siamo costruiti<br />

noi…. Non so se questa spiegazione sia convincente. Rimane il dubbio che qualcosa ci sfugga.<br />

22


previsioni, che possono accadere spontaneamente in natura o che noi possiamo provocare in seguito<br />

ad operazioni che vanno sotto il nome di esperimenti, si verificheranno nel modo atteso, l’ipotesi<br />

verrà confermata, in caso contrario verrà screditata. La verificabilità e la falsificabilità di una teoria<br />

sono state spesso contrapposte, e per molti l’idea di falsificare le teorie invece di verificarle sembra<br />

essere l’uovo di Colombo 19 . Da dove deriva questa sensazione?<br />

In primo luogo deriva da una pessima comprensione dell’attività di ricerca, in parte dovuta al ruolo<br />

preponderante ed eccessivo che gioca la fisica tra i filosofi della scienza. La stragrande<br />

maggioranza dei filosofi della scienza sono di estrazione fisica e tendono a trarre i loro esempi da<br />

questa disciplina. Per nostra fortuna, a forza di leggerli, dal momento che gli esempi sono sempre<br />

gli stessi e i dibattiti sono sempre su principio di indeterminazione, esperimento EPR, dualità ondacorpuscolo,<br />

diavoletto di Maxwell e gatto di Schroedinger, meccanica newtoniana in rapporto a<br />

quella relativistica, alla fine ci si abitua. Questo però è un grosso limite, che deve essere apprezzato<br />

nella sua interezza. Naturalmente, gli spettacolari risultati ottenuti a partire da Copernico<br />

giustificavano questo approccio limitativo. In fondo, fino alla fine dell’ottocento la biologia era<br />

poca cosa. La fisica inoltre sembrava parlare propriamente della realtà, perché cercava di rispondere<br />

a domande sulla materia.<br />

In quest’ottica, Rudolf Carnap e il Circolo di Vienna introdussero il criterio di verificazione come<br />

criterio di senso del problema in oggetto. Una teoria aveva senso se era verificabile. Come abbiamo<br />

visto, successivamente la verificabilità divenne un criterio non di senso della teoria, ma solo di<br />

demarcazione tra proposizioni scientifiche e tutto il resto (metafisica).<br />

Ma cosa voleva dire verificabile ? Secondo Hume, non c’era modo di arrivare alla certezza perché il<br />

verificarsi di cento previsioni non implicava nulla a proposito della centounesima. Dal momento<br />

che due fenomeni non sono in relazione causale ma sono solo associati tra loro dalla nostra mente,<br />

ne discendeva che il centounesimo poteva essere tranquillamente diverso. Per Hume ogni nuovo<br />

evento è, come nel lancio della moneta, assolutamente casuale: 10.000 teste non aumentano la<br />

probabilità che esca croce. Ma neanche aumentano la probabilità che esca testa, come sarebbe<br />

portato a pensare un empirista che al contrario comincerebbe a sospettare che la moneta abbia due<br />

teste.<br />

Onestamente non c’è uno scienziato che sia disposto a dar retta a Hume nella pratica, e ci si può<br />

giurare che anche dopo solo cento sequenze identiche con probabilità ½ o 1/6, ogni giocatore<br />

d’azzardo comincerebbe a pensare che la moneta o il dado siano truccati. Sarei proprio curioso di<br />

leggere i giudizi dei referee 20 davanti ad un lavoro che presentasse una simile sequenza di eventi<br />

sperimentali come prodotta dal caso. Ma dal momento che i filosofi della scienza non sono giocatori<br />

d’azzardo e spesso neanche scienziati, questo problema l’hanno preso sul serio. Così, davanti alla<br />

proposta della sostituzione della verificabilità con la falsificabilità, molti hanno pensato che questo<br />

problema fosse stato risolto.<br />

Il ragionamento che sta sotto ci è noto. Mentre non bastano centomila predizioni positive<br />

confermate, ne basta una sola negativa per falsificare una teoria. In questo modo ci possiamo<br />

chiedere quando una teoria è scientifica? Risposta: quando è falsificabile.<br />

19 K. Popper: La logica della scoperta scientifica. Einaudi, Torino, 1970. La prima edizione è del<br />

1934.<br />

20 Oggi ogni articolo che deve essere pubblicato su una rivista scientifica viene esaminato da due o<br />

più referee che hanno il compito di sviscerare il lavoro nei più piccoli dettagli e di valutarne<br />

l’importanza, così da consigliare l’editore se accettare o no il manoscritto per la pubblicazione.<br />

23


4. Miseria della falsificabilità<br />

Ma è la falsificabilità un buon criterio di demarcazione nelle discussioni teoriche sulla scienza o<br />

almeno un buon criterio pratico?<br />

Diciamo subito che per quanto riguarda la seconda parte della domanda, la risposta è senz’altro<br />

negativa. Di fatto vi sono pochissime situazioni in cui gli scienziati si mettono a pensare di<br />

falsificare una teoria. Può accadere che quando vi sono due teorie, entrambe molto accreditate ma<br />

incompatibili, qualcuno possa pensare che sia bene cercare di fare esperimenti o osservazioni che ne<br />

annullino una, così l’altra automaticamente acquista maggior credito. Oppure a volte, nella diagnosi<br />

medica, può succedere che si richiedano esami (cioè che si compiano osservazioni) per escludere<br />

una diagnosi: è pur sempre importante poter dire al paziente, “guardi non sappiamo ancora cosa ha,<br />

ma abbiamo comunque accertato che un tumore non ce l’ha”. Ma quest’ultima situazione, come<br />

vedremo, è una situazione particolare, perché ci si muove non nel completo ignoto, bensì in un<br />

sistema di caselle che è già predeterminato. Ma nella stragrande maggioranza delle ricerche che<br />

vengono pubblicate ogni settimana, si chiedono e vengono riportate verifiche e non confutazioni.<br />

Hermann Bondi e Fred Hoyle qualche decennio orsono lanciarono una teoria detta dello “steady<br />

state” per la formazione dell’universo in concorrenza con il Big Bang. Essendo ammiratori di<br />

Popper, dichiararono che la loro teoria sarebbe stata falsificata da alcune condizioni specifiche.<br />

Quando l’occorrenza di queste condizioni fu accertata, essi cercarono comunque di modificare la<br />

loro teoria in modo da includere anche i nuovi fenomeni 21 .<br />

Certamente questa resistenza potrebbe essere attribuita al principio di Planck, secondo cui le idee<br />

sbagliate scompaiono perché i loro sostenitori muoiono e ai giovani non gliene frega niente della<br />

vecchia teoria, ma sarebbe tuttavia sbagliato pensare che la falsificazione sia sempre efficace. Molto<br />

spesso, accade che la vecchia teoria, che è stata screditata da esperimenti o da osservazioni, possa<br />

venir salvata da apposite modifiche, dette ipotesi “ad hoc”, che, da molti storici della scienza che le<br />

esaminano però in periodo posteriore, vengono trattate più o meno alla guisa delle giustificazioni di<br />

un bambino colto con le dita sporche di marmellata. Chi ha detto che le ipotesi “ad hoc” sono<br />

sbagliate per principio ?<br />

Consideriamo questo esempio “paradigmatico”, direbbe qualcuno. Con i suoi lavori eseguiti nella<br />

seconda parte dell’Ottocento, Mendel aveva stabilito che i geni si ereditano in maniera indipendente<br />

l’uno dall’altro e aveva formulato le leggi che vanno sotto il suo nome. Ma quando, dopo la<br />

riscoperta delle sue leggi, gli studi vennero ripresi, si notò che questo non era vero per tutti i geni.<br />

Alcuni venivano ereditati insieme. Per fortuna invece di eliminare Mendel e i suoi piselli, si<br />

provvide a fare un’ipotesi “ad hoc” che spiegava come mai questo succedeva: i geni avrebbero<br />

potuto risiedere su strutture che venivano ereditate globalmente. Le eccezioni pertanto erano vere,<br />

l’ipotesi “ad hoc” si rivelò esatta, e le leggi di Mendel vengono ancora chiamate leggi anche se i<br />

geni sullo stesso cromosoma possono venir ereditati insieme.<br />

Ma poi c’è un altro problema pratico: c’è una certa reciprocità di verifica e confutazione. Se un<br />

esperimento che dovrebbe falsificare la teoria dà un risultato negativo, la teoria non l’ho falsificata,<br />

ma in fondo ho anche contribuito ad aumentare il suo grado di verifica. Vi possono poi anche essere<br />

casi in cui dopo aver fatto falsificazioni e verifiche non si capisce più niente e si deve enunciare un<br />

nuovo principio per dire che in fondo entrambe le teorie avevano ragione (è il caso della natura<br />

della luce).<br />

Ma il vero problema che rende poco importante la falsificazione è che i fisici hanno sempre<br />

presente teorie universali, mentre i biologi convivono facilmente con teorie imperfette. Ora, i fisici<br />

21 S.G. Brush: How cosmology became a science. Sci Am, agosto 1992; p. 62-70<br />

24


ammettono, subendo l’influenza di Hume, che c’è sempre la possibilità che se lascio cadere un<br />

bicchiere, questo invece di fracassarsi in terra si metta a volare per aria, ma poi rimarrebbero assai<br />

stupiti se questo accadesse. I biologi invece non si stupiscono molto quando qualcosa va storto: non<br />

si scompongono affatto davanti alle eccezioni.<br />

Se la prima metà del XX secolo è stato l’era della fisica, la seconda metà è il dominio della<br />

biologia. Tra i brillanti risultati ottenuti dalla genetica, c’è naturalmente l’attribuzione al DNA di un<br />

ruolo fondamentale come base dell’ereditarietà. La scoperta del codice genetico ha unificato i<br />

viventi e ha dato il “la” ad un’infinità di scoperte. Questo codice prevede che ad ogni tripletta<br />

corrisponda un aminoacido, ma qualcuna di queste triplette ha invece il significato di stop.<br />

Meccanismo universale, verificato in un’infinità di organismi; tuttavia in alcuni casi queste triplette<br />

codificano per un particolare aminoacido, la selenocisteina, o possono venir “aggirate”,<br />

consentendo così di proseguire la decodificazione della successiva parte del messaggio 22 . Si<br />

potrebbe dire: ho falsificato la teoria generale secondo la quale tutte le triplette UGA sono triplette<br />

stop. E sarebbe giusto. E poi cosa faccio? Continuo ad usare il mio codice come prima, e nessuno si<br />

straccia le vesti per questo. E ancora: il dogma centrale della biologia diceva che l’RNA veniva<br />

prodotto dal DNA e non viceversa, ma quando venne dimostrato che anche l’altra via era possibile<br />

si diede un premio Nobel agli scopritori e si andò avanti più contenti di prima.<br />

In generale, tutte le proposizioni particolari non sono falsificabili. Il problema è che in biologia ce<br />

ne sono un’infinità. Non conosco abbastanza bene la fisica per dire se ce ne sono tante anche lì, ma<br />

in biologia, geologia, medicina una parte preponderante è fatta di proposizioni di questo tipo.<br />

Tuttavia tutte queste proposizioni particolari possono essere verificate. Ben venga pertanto la<br />

falsificabilità, ma non la si ritenga una panacea. Se proprio si volesse mantenere un criterio di<br />

demarcazione si metta e/o. Una teoria o una proposizione è scientifica se è soggetta a verifica e/o a<br />

confutazione.<br />

5. Ci sono più proposizioni in cielo e in terra che in tutta la filosofia della scienza.<br />

L’equazione testabilità = senso ha delle difficoltà. Qui ne elencheremo alcune.<br />

Verificabilità in linea di principio.<br />

L’idea di demarcare ciò che è scienza e ciò che è metafisica muoveva dal desiderio di dare il colpo<br />

di grazia alla metafisica e presumibilmente anche alla religione. Tuttavia presentava anche un<br />

aspetto molto attraente anche da un punto di vista pratico, perché rivelava la speranza di eliminare<br />

tutta una serie di questioni assolutamente insulse, quali “quanti angeli ci stanno sulla capocchia di<br />

uno spillo ?”. Con questa attrattiva si spiega il grande successo che ha ancor oggi il concetto di<br />

verificabile. Un’infinità di articoli di commento a nuove tesi, sono in genere del tipo “la proposta di<br />

X.Y. e collaboratori è nuova ed interessante, ogni conclusione è prematura, ma almeno l’ipotesi è<br />

testabile”.<br />

“Di ciò di cui non si parlare, è meglio tacere” pertanto, intesa in senso letterale questa<br />

formulazione è innanzitutto un buon compromesso che dovrebbe funzionare come formula magica<br />

per dirci ciò che vale la pena di prendere in considerazione ed evitare perdite di tempo inutili. In<br />

realtà però, se è comprensibile che il singolo scienziato ritenga preferibile dedicare i propri sforzi a<br />

qualcosa di investigabile (se no corre il rischio di non ottenere risultati pubblicabili), è fastidioso per<br />

i teorici escludere tutto ciò che al momento è non investigabile.<br />

22 B. Alberts et al: Molecular biology of the cell. Garland Publishing, New York, 1994; p. 467.<br />

25


Per comprendere quali problemi siano reali (e quindi affrontabili) Moritz Schlick introdusse il<br />

concetto di verificabilità in linea di principio: noi non possiamo verificare se ci siano crateri<br />

sull’altra faccia della luna, ma possiamo per lo meno, in linea di principio, immaginare le<br />

operazioni per poterlo fare 23 . Schlick scriveva alla fine degli anni venti.<br />

Il problema tuttavia è che la verificabilità, o la falsificabilità, sono in parte funzione dello spazio e<br />

del tempo, delle teorie in voga, nonché dello strumento conoscitivo con cui noi conosciamo e cioè il<br />

nostro cervello. Questo fa sì che introdurre il concetto di verificabilità in linea di principio rischia di<br />

farci prendere delle cantonate. La formulazione di un problema, ad esempio quello della nascita<br />

dell’universo, potrebbe venir catalogato come metafisico in un’epoca ma come scientifico in<br />

un’altra. Inoltre siccome molti problemi sono completamente immersi in una teoria, l’abbandono<br />

della teoria potrebbe rendere il problema metafisico per coloro che vengono dopo e perfettamente<br />

valido per quelli che vi sono immersi. Data una sistemazione concettuale di tipo tolemaico, un<br />

uomo medievale potrebbe pensare che la costruzione di una torre sufficientemente alta potrebbe<br />

risolvere il problema di cosa c’è al di là delle stelle fisse (torre di Babele). O potrebbe pensare di<br />

riuscire a bucare la sfera celeste come nel famoso dipinto, un’immagine ripresa da un recente film<br />

24 .<br />

Prendiamo due discipline come la psicologia e la cosmogonia. Queste oggi vengono usualmente<br />

ritenute parte della scienza (anche se non da tutti). E’ vero che la radiazione cosmica di fondo può<br />

essere una verifica del big bang, ma come si procede quando di sente parlare di concetti quali<br />

universi paralleli, singolarità, creazione continua di materia ? Siamo in grado di verificare una<br />

singolarità ? E se è lecito chiedersi cosa succede dal 10/-37 al 10/-35 secondo, perché non ci si può<br />

chiedere cosa succedeva tra il tempo zero e il 10/-44 secondo? Forse non lo sapremo mai, ma questi<br />

microbi di secondo non sono reali quanto gli altri? E siamo proprio sicuri che non ha senso<br />

chiedersi cosa succedeva al tempo zero ? Se questi universi paralleli esistono, come facciamo a<br />

dimostrarlo ? Non solo, ma spostiamoci indietro di cento anni, quando comunque la mentalità<br />

scientifica era già perfettamente stabilita. Cosa avrebbero pensato i fisici di allora di tutti questi<br />

discorsi ? Certamente alcuni li avrebbero bollati tutti come metafisici. E cosa dire dell’azione a<br />

distanza postulata da Newton ? Pura metafisica, come facciamo a pensare che qualche forza agisca<br />

a distanza, potrebbero dire i suoi contemporanei. Tre secoli dopo Einstein, in un altro contesto,<br />

ironizzava su una “misteriosa azione a distanza” che dovrebbe legare tra loro gli elettroni 25 . E poi<br />

gli esperimenti teorici che status hanno ? E’ più metafisico il gatto del Cheshire o il felino di<br />

Schroedinger ?<br />

In psicologia, la coscienza è sempre stato un terreno minato. Cinquant’anni fa imperava il<br />

behaviorismo, che partiva dal presupposto che quello che c’è dentro nella testa degli individui è<br />

metafisica. E’ una scatola nera, è inutile indagare quello che c’è dentro, quello che possiamo<br />

studiare è quello che entra (stimolo) e quello che esce (risposta). In effetti, non è chiaro come si<br />

possa verificare quello che uno realmente pensa. Forse che il problema scompare per questo? Per<br />

giunta, non siamo neanche d’accordo su ciò di cui stiamo parlando, perché non riusciamo a definire<br />

23 citato in A.J. Ayer: Linguaggio, verità e logica. Feltrinelli, Milano, 1961; p. 14.<br />

24 Nella nota immagine, che secondo H. Robin sarebbe apocrifa (vedi il suo The scientific image<br />

from caveman to computer, Abrams, New York, 1992), un uomo buca il guscio delle stelle fisse,<br />

giungendo a vedere le grandi ruote che muovono i corpi celesti). Nel film “Truman’s show” questa<br />

immagine viene ripresa al termine del film quando Truman arriva al limite della calotta che copre il<br />

villaggio su cui egli ha vissuto ignaro. In questo film vi sono almeno due livelli di lettura. Il primo è<br />

quello dell’incredibile, totalizzante e diseducativo ruolo che svolge la televisione nella nostra<br />

società. Il secondo, invece, può essere compreso ricordando la famosa immagine citata.<br />

25 R.G. Newton: La verità della scienza. McGraw-Hill Libri Italia, Milano, 1999 p 177<br />

26


ene neanche il concetto di coscienza. Tuttavia negli ultimi anni, questo atteggiamento è mutato, il<br />

fantasma del behaviorismo non si aggira più nelle aule dei congressi europei e oggi con le nuove<br />

tecniche di immagine che vengono eseguite nel cervello, si comincia a pensare che forse qualcosa<br />

su alcuni aspetti della coscienza si può anche dire.<br />

Queste difficoltà, e la funzione positiva che concetti vaghi o teorie non ben formulate o per il<br />

momento mancanti di una chiara strategia di verifica, sono alle base di più recenti allargamenti<br />

dell’attributo di scientifico a teorie o qualcosa del genere che vengono chiamati da Lakatos<br />

“programmi scientifici di ricerca” 26 e da Popper “programmi metafisici di ricerca” 27 . Per Popper,<br />

anche la teoria dell’evoluzione non sarebbe una teoria ma un programma metafisico di ricerca, in<br />

quanto non obbedisce al suo criterio di falsificabilità. Ora, questo esempio chiarisce come si rischi,<br />

non il ridicolo, ma almeno la plausibilità, se non si rimane un po’ elastici e se si vuole ingabbiare<br />

l’attività conoscitiva umana in rigidi armature, che ci proteggono magari dagli attacchi dei<br />

metafisici, ma non ci consentono poi di piegarci a raccogliere un fiore che scorgiamo lungo il nostro<br />

cammino. Ora, considerando lo status che occupa in biologia la teoria dell’evoluzione, se la<br />

qualifica di programma metafisico di ricerca è un titolo nobiliare che viene attribuito alle grandi<br />

teorie esplicative per i loro sublimi meriti di servizio, va bene, ma se metafisico viene usato nel<br />

significato usualmente attribuitogli dai filosofi della scienza, allora, pensando alla teoria<br />

dell’evoluzione, non resta che dichiararsi tutti metafisici.<br />

Inoltre, la verificabilità dipende anche dal sistema che conosce, e cioè dal nostro cervello. Per il<br />

momento crediamo che la nostra possibilità di costruzione di teorie verificabili sia superiore a<br />

quella dello scimpanzé. Lo scimpanzé, come del resto il coniglio nano, secondo studi recenti<br />

potrebbe forse essere in grado di fare alcune verifiche. Quale era il grado di teorizzazione<br />

dell’Australopiteco o dell’Homo erectus? Certamente l’insieme delle proposizioni scientifiche di<br />

questi due ominidi sarebbe più limitato del nostro, ma la luna esisterebbe ugualmente 28 . E anche le<br />

supernove, anche se nessun Australopiteco sarebbe in grado di concepire come verificare la loro<br />

esistenza. E quali saranno le possibilità di un uomo fra un milione di anni? Dal momento che la<br />

possibilità conoscitiva dal coniglio a noi ha fatto molta strada, non è impossibile che ne faccia<br />

dell’altra. Tuttavia il reale (o per lo meno le leggi di natura) non è mutato apprezzabilmente negli<br />

ultimi dieci miliardi di anni. Pertanto se definire un problema scientifico vuol dire definire un<br />

problema reale, non dovremmo peccare troppo di antropocentrismo. Quello che noi possiamo<br />

conoscere non si identifica con ciò che è reale e neanche con quello che deve ritenersi sensato.<br />

Un altro problema. Quanto deve essere verificabile una teoria per essere considerata scientifica.<br />

Prendiamo ad esempio l’ipotesi che ci siano altri uomini (cioè esseri intelligenti, sempre che noi<br />

possiamo considerarci tali) nello spazio. In attesa di ricevere un elenco di numeri primi dal cosmo o<br />

di spedire nelle galassie delle sonde del tipo Star Wars che ci trovino la principessa Amidala, cosa<br />

possiamo fare ? Non si sa bene, però qualcuno potrebbe sostenere che questo problema sia<br />

metafisico ? Qualcuno potrebbe argomentare che dato l’enorme numero di pianeti simili alla Terra<br />

26<br />

I. Lakatos: Falsification and the methodology of scientific research programmes. In Criticism<br />

and the growth of knowledge. A cura di I. Lakatos e A. Musgrave, Cambridge University Press,<br />

Cambridge, 1970<br />

27 K. Popper: Unended quest: an intellectual autobiography: William Collins Sons, Glasgow, 1976,<br />

p. 167-180<br />

28 L’immagine è presa da N.D. Mermin: Is the moon there when nobody looks ? Reality and the<br />

quantum theory. Physics Today, aprile 1985, p. 38-47. A sua volta Mermin la prende da A. Pais<br />

(Rev Mod Phys 51:863, 1979) che egli cita nel suo articolo: “We often discussed his notions on<br />

objective reality. I recall that during one walk Einstein suddenly stopped, turned to me and asked<br />

whether I really believed that the moon exists only when I look at it”.<br />

27


che ci deve essere nell’universo 29 , è probabile che questi esseri esistano. Ma di quanto questa<br />

affermazione, che si basa su un’osservazione scientifica, muta i termini del problema ? Intendo dire:<br />

le verifiche non sono tutte dello stesso tipo, ci sono quelle che ci convincono di più e quelle che ci<br />

convincono di meno. Se è disponibile solo una verifica il cui potenziale di conferma è piccolo a<br />

piacere, la teoria diventa scientifica? O rimane ancora nel limbo ?<br />

Un ultimo grande problema è quello che chiamerei il potere esplicativo statico di una teoria. O<br />

anche metodo scientifico abortivo. Un’ipotesi che si adatti bene ad un certo numero di fatti, e che li<br />

colleghi tutti in un’unica spiegazione, ma che non preveda ulteriori verifiche o più frequentemente,<br />

le cui verifiche non siamo al momento ottenibili, che status ha ? Se ne deve parlare o bisogna<br />

tacere? E’ scientifica o metafisica ? Se completiamo la fase 2 del metodo scientifico, cioè<br />

prendiamo un certo numero di fatti e facciamo un’ipotesi che li collega tutti, e non riusciamo a<br />

vedere come andare avanti nella sua verifica, come dobbiamo considerarla ? In fondo, si basa su<br />

fatti: spiega tutte le “postdizioni” ma non ha predizioni. E’ chiaro che nell’accezione ristretta, non<br />

dovrebbe essere scientifica, e ciò certamente ci ripara dall’inserimento di ipotesi assurde. Ad<br />

esempio, che le piste di Nazca siano state fatte dagli alieni, magari spiega un paio di fatti,<br />

essenzialmente l’esistenza di disegni visibili solo dall’alto, ma se si cerca di pensare ad altre<br />

verifiche, nessuno saprebbe come andare avanti. E’ facile dire che quest’ipotesi è ridicola<br />

(incidentalmente, i suoi sostenitori direbbero che in linea di principio essi sanno benissimo come<br />

provare l’ipotesi, basterebbe che gli alieni si facessero vedere), ma è metafisica ? Oppure, poniamo<br />

che noi spieghiamo certi comportamenti e addirittura certi stati patologici con alcune teorie, con<br />

l’inconscio: dal momento che questo non è (anche per sua stessa definizione) indagabile, cosa<br />

dobbiamo pensare del suo status ? e quando avessimo un’ottima teoria, trovata all’ultimo minuto,<br />

che spiega un sacco di fatti proprio bene, ma non si possa poi andare avanti con altre verifiche, cosa<br />

ne sarà di lei ? Le postdizioni non hanno proprio alcun valore ? 30<br />

Proposizioni esistenziali<br />

E' stato detto che la scienza si interessa delle leggi generali, quelle che sono suscettibili di indagini<br />

ripetute, verificabili. Il particolare invece non sarebbe oggetto di scienza. Ma non è esattamente<br />

così. Questo è uno degli svantaggi della fisicizzazione eccessiva della filosofia della scienza. La<br />

scienza di ogni giorno è fatta di indagini che non possono essere espresse sotto forma di leggi<br />

generali bensì di conclusioni particolari. Anche queste conclusioni hanno la loro dignità, anzi in<br />

alcune discipline sono preponderanti.<br />

Prendiamo per esempio lo studio delle malattie. Possiamo chiederci se un gene specifico è<br />

responsabile di una certa malattia ereditaria. Cosa dobbiamo fare ? Essenzialmente dobbiamo<br />

prendere il DNA di pazienti affetti da quella malattia e sequenziarlo. Se ne troviamo anche uno<br />

solo, possiamo concludere che la nostra ipotesi di lavoro è corretta ed è stata verificata: ad esempio<br />

"il gene JAK3 è responsabile di una grave forma di immunodeficienza" 31 . Possiamo forse<br />

falsificare la nostra ipotesi? Come abbiamo visto, per le proposizioni particolari ci si rende conto<br />

che la falsificabilità cade nelle stesse sabbie mobili della verificabilità delle leggi generali. Se<br />

29 G.W. Wetherill: Occurrence of Earth-like bodies in planetary systems. Science 253:535-538,<br />

1991<br />

30 Questo discorso verrà ripreso più avanti. Vedi capitolo 9.<br />

31 P. Macchi et al:. Mutations of JAK3 gene in patients with autosomal severe combined<br />

immunodeficiency (SCID). Nature 377:65-68, 1995<br />

28


esamino 100 casi di SCID 32 e non trovo neanche un caso in cui il gene JAK3 è alterato posso<br />

sempre pensare che il prossimo paziente lo possa avere. E se anche esamino tutti i pazienti con<br />

SCID che ci sono sulla terra, posso sempre pensare che ne nasca uno con l’alterazione di questo<br />

gene.<br />

Il metodo scientifico si applica sia all’ignoto universale che all’ignoto parziale. Mi spiego: se sto<br />

studiando come nasce il cancro, parto da quello che so per indagare altri aspetti al momento<br />

sconosciuti per i quali non c’è alcun sistema di riferimento. Viceversa, se voglio effettuare una<br />

diagnosi, voglio ad esempio sapere se un particolare paziente ha un cancro o un’altra malattia. In<br />

questo caso, dispongo di un certo numero di caselle, ognuna corrispondente ad una diagnosi, che io<br />

stesso ho definito. Devo solamente sapere in quale casella mettere i sintomi e segni del paziente 33 .<br />

Tuttavia per far questo, formulo comunque delle ipotesi, e verifico se il paziente mostra anche i<br />

sintomi, segni o test di laboratorio che dovrebbe avere se appartenesse a quella casella.<br />

In questo caso, è interessante notare come il teorema di Bayes ci consenta di valutare la probabilità<br />

di una diagnosi, dati un certo numero di sintomi. Questo perché ci si muove, nel caso della diagnosi,<br />

in un sistema parzialmente da noi stessi definito. Se noi abbiamo stabilito la probabilità a priori che<br />

associa un sintomo (oppure un segno, esame di laboratorio o altro) ad una serie di malattie, allora la<br />

diagnosi diventa un semplice calcolo e noi possiamo avere automaticamente la completa diagnosi<br />

differenziale del paziente, cioè tutta la serie di possibili diagnosi con annessa una probabilità 34 .<br />

Questo precisamente è quello che manca nella diatriba verificabilità e falsificabilità quando si fa<br />

ricerca in ambiente assolutamente ignoto: la verifica non è quantificata. Gli scienziati compiono i<br />

loro esperimenti, ma la valutazione della verifica è generalmente a spanne. Ne consegue che<br />

nessuno è in grado di dire quanto un’ipotesi sia stata verificata, il che per una ideologia che fa della<br />

quantificazione un mito, è un fattore limitante.<br />

Proposizioni del passato<br />

Ugualmente interessanti i problemi rivolti al passato. I problemi del passato sono talora ritenuti<br />

non-scientifici in quanto non soddisfano il criterio della ripetibilità. Si ritiene in genere che<br />

caratteristica della scienza sia la possibilità che ognuno possa ripetere indipendentemente gli<br />

esperimenti, e che questi siano accessibili a tutti. Ma anche qui il reale e il sensato si dimostrano<br />

relativi al tempo e allo spazio. Durante la guerra di secessione americana, ci si poteva chiedere se<br />

Abramo Lincoln fosse affetto da ulcera e da sindrome di Marfan. Problema perfettamente lecito: se<br />

ne poteva parlare. E problema anche sensato. Morto Lincoln, la diagnosi di Marfan, studiando le<br />

caratteristiche delle sue ossa, potrebbe ancora venir discussa senza giungere ad alcuna certezza, ma<br />

la possibilità di porre diagnosi di ulcera non esiste più: trattandosi di parti molli, il suo stomaco non<br />

c’è più ed ogni prova di ulcera è scomparsa. Oggi, è possibile fare diagnosi di Marfan con certezza<br />

sulle ossa di Lincoln, prelevando il suo DNA, ma la diagnosi di ulcera rimane per il momento non<br />

indagabile. E’ insensato chiedersi se Lincoln avesse l’ulcera ?<br />

Naturalmente il passato può essere oggetto di scienza, tramite una serie di esperimenti che possono<br />

venir effettuati e che sono accessibili a tutti. Ma vi sono certamente fatti che al momento attuale non<br />

sono più suscettibili di esame. Anche la linea di sostenere la dimostrabilità in linea di principio è<br />

discutibile. Dire che l’ulcera di Lincoln è un problema scientifico perché centocinquanta anni fa io<br />

32 SCID: severe combined immunodeficiency, immunodeficienza severa combinata: si tratta di una<br />

grave malattia ereditaria in cui il paziente non ha difese immunitarie e muore perché non riesce a<br />

superare le infezioni<br />

33 “Diagnosticare non è altro che atribuire il caso in esame ad una determinata classe o specie<br />

nosografica.” P. Raineri: Diagnosi clinica. Storia e metodologia. Borla, Roma, 1989<br />

34 E. Poli: Metodologia medica. Rizzoli, Milano, 1965; p.83-91.<br />

29


avrei potuto indagarla può ancora passare. Ma che dire di quello che è successo alcuni milioni di<br />

anni fa, o quando la terra era un ammasso fiammeggiante ? Non avrei neanche la più pallida idea<br />

delle condizioni che potrebbero consentire di fare la verifica. O di cosa è successo durante il primo<br />

secondo dopo il big bang? Tutta la teoria dell’evoluzione si basa su avvenimenti del passato, dei<br />

quali la maggior parte sfugge alla nostra analisi e forse anche ad analisi future. Cosa dobbiamo<br />

pensare di essa ?<br />

Proposizioni su proposizioni<br />

C’è un’ultima categoria di proposizioni che ci interessa in particolar modo. Nella ricerca scientifica<br />

incappiamo in diversi tipi di proposizioni. Possiamo dire: una mutazione nel gene JAK3 causa<br />

un’immunodeficienza grave. Questa proposizione può anche essere espressa nella forma: tutti gli<br />

individui che hanno un’alterazione della funzione della proteina Jak3 hanno un’immunodeficienza.<br />

O possiamo dire: lo studio dei geni homeobox e delle loro mutazioni dimostra che una struttura<br />

embrionaria viene diretta da una sequenza nucleotidica 35 . Ma che dire della seguente: i geni<br />

homeobox hanno giocato un ruolo importante nell’evoluzione delle specie. Questa proposizione è<br />

già di un tipo un po’ diverso. E ancora: lo studio dell’embriologia sperimentale dimostra che lo<br />

sviluppo dell’embrione è regolato da interazioni tra molecole che possono venir perfettamente<br />

descritte con le leggi della chimica e della fisica. E infine: lo studio dell’embriologia sperimentale<br />

non ha bisogno di postulare alcuna forza che non possa essere descritta in termini chimico-fisici.<br />

Questa potrebbe essere descritta come la formulazione dell’ipotesi derivata per induzione dai<br />

risultati di numerosi esperimenti in cui l’analisi di mutazioni spontanee o provocate di geni, insieme<br />

agli altri esperimenti di manipolazione embrionaria, causano alterazioni nello sviluppo embrionario.<br />

Tuttavia, non solo la rilevanza per l’uomo è diversa, ma ci rendiamo anche conto che stiamo<br />

descrivendo livelli diversi della nostra conoscenza, e non solo perché quasi un secolo fa Driesch ha<br />

postulato un’entelechia 36 come responsabile dello sviluppo embrionario e quindi c’è bisogno di<br />

controbattere questa affermazione. Se il vitalismo non fosse mai esistito, l’affermazione potrebbe<br />

comunque comparire in un testo moderno di embriologia. Semplicemente l’ultima proposizione<br />

riguarda un problema più vasto. Guardando le mutazioni della Drosophila in cui il moscerino della<br />

frutta presenta quattro ali invece di due, vogliamo conoscere la causa di questo fenotipo, ma una<br />

volta identificatala, abbiamo ancora voglia di chiederci: questa scoperta ci dice qualcosa sulle leggi<br />

che regolano lo sviluppo embrionario? E questo a sua volta ci dice qualcosa sull’uomo? Ben lungi<br />

dall’essere insensate, queste domande raggiungono il livello più profondo della conoscenza, che si<br />

avvicina al noumeno, o addirittura vi si identifica. Il fatto che adesso si abbia paura di tentare il<br />

livello più profondo della conoscenza è un portato storico della diatriba scienza-filosofia, che ci fa<br />

sospettare di cadere in un pozzo senza fondo, ma in realtà è lo scopo ultimo della conoscenza. Vi è<br />

stato probabilmente un eccesso di reazione nel corso della storia. Così il fatto che si corre il rischio<br />

di infilarsi nelle sabbie mobili non ci può far negare la loro esistenza. Potremmo deciderci di<br />

tenercene alla larga, ma con questo potremmo rinunciare a interessanti prospettive. Alla fin fine,<br />

Colombo ha scoperto l’America rischiando di lasciarci la pelle e questo ha portato nuove<br />

conoscenze (anche se gli indios avrebbero preferito che se ne restasse alla corte di Isabella di<br />

Castiglia). Cosa sia il noumeno, la realtà in se stessa, non è ben chiaro, proprio perché per<br />

definizione si tratta di cose inconoscibili a detta dei creatori del termine, ma è probabile che vi siano<br />

35 Mutazioni nei geni homeobox possono provocare l’assenza, la formazione o la duplicazione di<br />

intere strutture come un’ala o una zampa nella Drosophila melanogaster, un insetto che viene molto<br />

studiato dai genetisti. Vedi il capitolo sullo sviluppo embrionario e sull’evoluzione. Qui basta dire<br />

che mutazioni di questa portata potrebbero aver avuto un ruolo nell’evoluzione delle specie.<br />

36 Vedi capitolo sullo sviluppo embrionario. Entelechia è un termine introdotto da Driesch per<br />

indicare un’entità non materiale che guiderebbe lo sviluppo embrionario.<br />

30


conclusioni scientifiche che esauriscono quasi completamente questo aspetto o che comunque ci<br />

fanno sentire intellettualmente assai soddisfatti.<br />

6. Un metodo proteiforme.<br />

In realtà il metodo scientifico non è affatto esclusivo della nostra attività di ricerca. Si tratta, a<br />

pensarci bene, di un metodo che utilizziamo in ogni momento e in qualsiasi circostanza. Questa<br />

varietà di problemi non viene sempre apprezzata. Però così si rischia di avere una visione limitata<br />

dei meccanismi della conoscenza. Non c'è invece nessuna differenza sostanziale tra come noi<br />

affrontiamo il problema di sapere se dietro all'angolo c'è un giaguaro o di sapere se il protone<br />

decade. Certamente la portata della conoscenza è diversa sotto molti aspetti, ma il meccanismo che<br />

utilizziamo per arrivare alla conoscenza è lo stesso.<br />

Vi sono altri aspetti della vita di ogni giorno. La similitudine tra casi polizieschi e ricerca sono stati<br />

menzionati spesso. Ma se perdiamo le chiavi della macchina, cosa facciamo? Formuliamo delle<br />

ipotesi su dove possiamo averle dimenticate e poi le verifichiamo. In questo caso spesso la ricerca<br />

ha una fine e le chiavi vengono trovate, ma il procedimento è lo stesso, anche se ci si muove talora<br />

in zone non completamente ignote.<br />

Così come il coniglio analizza i dati, effettua associazioni e agisce in conseguenza, cercando di<br />

massimizzare tutte le informazioni e tutte le passate esperienze sue e dei suoi compagni con cui in<br />

precedenza è venuto a contatto, così ogni individuo e per riflesso ogni specie sulla terra, ha la<br />

necessità di rispondere a diversi tipi di problemi in cui una buona conoscenza dei termini della<br />

questione, degli attori e delle circostanze nonché delle regole del gioco non possono che giovargli.<br />

In un modo assolutamente misterioso, le esperienze fondamentali dei suoi antenati sono state pian<br />

piano trasferite nel suo genoma durante la storia evolutiva della specie. Il coniglio è predisposto a<br />

scappare se vede un cane, mentre il cane è predisposto a corrergli dietro. Esempi di questo genere<br />

vanno dalla danza delle api all’imprinting dei paperini di Lorenz. Altre esperienze invece non sono<br />

codificate nel genoma e dobbiamo commettere degli errori per potercene giovare. Come può<br />

accadere ciò ? Esiste solo una filosofia che ha tentato veramente di rispondere a questa domanda, ed<br />

è la dottrina dell’armonia prestabilita di Leibniz. In realtà, non vi è un’armonia prestabilita, ma<br />

questa armonia ce la siamo guadagnata nel corso dell’evoluzione a forza di lacrime e sangue.<br />

Certo il terreno è sdrucciolevole, non sappiamo neanche se sogniamo o siam desti, non sappiamo<br />

bene di cosa parliamo e non sappiamo neppure se dar retta ai nostri sensi o alla nostra ragione, anzi<br />

sappiamo che a seconda della circostanza a volte avranno ragione gli uni e a volte l’altra. Usiamo<br />

termini su cui si basa tutto il nostro sapere che però non sappiamo definire e termini che potrebbero<br />

essere classificati come “metafisici” in un senso sgradevole, ma che corrono il rischio di diventare<br />

dopo un po’ di tempo perfettamente scientifici. Campo magnetico, fattore, azione a distanza,<br />

telepatia, coscienza, introspezione, principio di complementarietà, singolarità. Alcuni di questi<br />

hanno già raggiunto uno status scientifico, altri potrebbero esserne sempre esclusi, altri ancora<br />

stanno lottando per raggiungerlo.<br />

Come il coniglio, e come Pascal sosteneva, non possiamo restare inerti. Dobbiamo scommettere.<br />

Bisogna pur muoversi con una visione pragmatica, ma sapendo che non tutto è uguale, non tutte le<br />

risposte hanno lo stesso valore. Qualsiasi cosa ci fa andare avanti va bene, ma non sappiamo<br />

neanche qual è la direzione in avanti. Malgrado ciò è certo nessun coniglio vuole finire in bocca al<br />

giaguaro.<br />

31


7. Castelli di carte.<br />

Come è allora possibile ottenere qualcosa di valido? Se le definizioni e la logica si basano su<br />

modificazioni del cervello, che da sole non provano il mondo reale, come fanno le nostre<br />

osservazioni a esprimere qualcosa di vero? L’idea di fondare tutto su basi solide, non rispecchia<br />

quello che succede in realtà nell’attività scientifica. Queste solide basi non esistono. Piuttosto, tutti i<br />

nostri sforzi sono come castelli di carte, non tanto perché questi possono crollare, perché anche le<br />

altre costruzioni lo fanno, ma perché questa immagine sottolinea l’interdipendenza delle<br />

osservazioni e delle ipotesi stesse. Mentre un muro di mattoni può stare in piedi da solo, ogni<br />

ipotesi si basa su altre, così come una carta da sola non può stare in piedi. Quando affrontiamo una<br />

nuova tecnica che speriamo ci dica cose nuove su un pezzo di realtà, otteniamo dei dati, ma chi ci<br />

dice che sono quelli buoni ? Ma dopo un certo numero di osservazioni, e confrontando con tutto<br />

quello che si sapeva in precedenza, si vede se i nuovi dati (letteralmente) stanno in piedi. Se stanno<br />

in piedi, il castello di carte tenderà ad ampliarsi, potrà fondersi con altri castelli o demolirli per<br />

utilizzarne lo spazio. Mano a mano potrà succedere che i vari castelli si appoggino l'un l'altro, fino a<br />

raggiungere dimensioni e strutture sorprendenti, ma saranno sempre poggiati su un terreno<br />

sdrucciolevole e l'eventuale crollo di un settore potrebbe trascinarne altri con sé.<br />

Come mai riusciamo – sembra - a ragionare su gli stessi concetti se non possiamo definirli ? Non<br />

c’è prova in realtà che tutti intendiamo la stessa cosa con lo stesso termine, ma il fatto che<br />

riusciamo a fare un certo numero di transazioni significa che esiste un certo grado di<br />

intersoggettività. Qual è la base di questa intersoggettività? La base sta nell’anatomia e nella<br />

fisiologia del nostro cervello. E’ probabile che il verbo essere sia quanto è rimasto del momento<br />

decisivo in cui è nata la coscienza e l’uomo è diventato tale. I cervelli devono avere delle regolarità<br />

che sono sempre le stesse per tutti gli uomini. E’ possibile che l’educazione (il training)<br />

contribuisca a far sì che complessi sistemi di eventi procurino le stesse modificazioni. In realtà<br />

viene troppo sottovalutata la base di questa intersoggettività. La logica sembra a noi adulti un<br />

qualcosa di ineluttabile, ma è chiaro che per i bambini non lo è. Abbiamo ragionato per millenni e<br />

posto delle regole per i sillogismi, senza conoscere la teoria degli insiemi a livello esplicito. Come<br />

poteva succedere questo? La risposta è che deve esserci una struttura cerebrale che è stata forgiata<br />

dalle regole ferree della logica della natura. I bambini greci e latini, e oggi ancora i tedeschi usano<br />

le declinazioni con disinvoltura, senza minimamente sapere cosa sono i casi e i complementi 37 .<br />

Probabilmente l’allenamento guidato dagli adulti, sulla base di una serie di stabili connessioni<br />

cerebrali determinata dai nostri geni e presenti in tutti gli individui appartenenti alla specie umana,<br />

sta alla base di questo fenomeno. Presumibilmente, non esiste solo una struttura per il linguaggio,<br />

come postulano Chomski e i suoi seguaci, ma anche una struttura per la logica.<br />

In realtà, ci siamo evoluti con o per la capacità di prendere decisioni sulla base di dati talora assai<br />

scarsi. Ovviamente, se il coniglio vede un bulldog scappa. Ma cosa deve fare se ne sente l’odore? E<br />

se non lo sente? Può attraversare una strettoia se non sente niente? E se inseguito si trova di fronte<br />

ad un bivio, cosa fa, si siede a pensare un esperimento? Ovviamente no. Ma ci sono situazioni in cui<br />

noi veniamo buttati e dobbiamo scegliere prima di poter compiutamente analizzare tutte le<br />

circostanze. Diremo allora che il problema non ha senso? O cercheremo allora di affrontarlo al<br />

37 E’ impressionante pensare come gli antichi Greci, che inizialmente erano dei barbari, potessero<br />

avere una lingua del genere, e prima di loro probabilmente ce l’avevano altre popolazioni<br />

indoeuropee. Quanto ai tedeschi, mi sono sempre chiesto se il fatto di avere mantenuto questa<br />

proprietà che altre lingue hanno perso abbia qualche relazione con le caratteristiche che vengono<br />

generalmente attribuite a questo popolo. D’altro canto, ci sono poche lingue misere come l’inglese,<br />

ma le nazioni che parlano questa lingua hanno mostrato negli ultimi tre secoli un grande successo<br />

evolutivo.<br />

32


meglio ? Come vedremo, studi recenti ci confortano nell’idea che abbiamo strutture adeguate per<br />

compiere decisioni su dati dubbi ed incerti.<br />

L’approccio logico che può essere usato in queste circostanze è il seguente: cominciamo a muoverci<br />

e a mettere insieme qualcosa. Utilizziamo definizioni temporanee o comunque rifacciamoci<br />

implicitamente all’idea di un rapporto mente/natura. Quando avremo ottenuto qualcosa, vediamo se<br />

sta in piedi. Il fine, in questo caso, giustificherà i mezzi. Se il castello di carte starà in piedi, ci<br />

congratuleremo tra noi e cominceremo ad abitarci.<br />

Dobbiamo pertanto iniziare a costruire sapendo che tutto può franare, ma che comunque, visto<br />

l’ambiente non proprio socievole che ci circonda, è meglio avere a disposizione una palafitta di<br />

tronchi che dormire per terra. Come potremo convincere la gente ad abitare nella nostra palafitta o<br />

addirittura a seguirci in un tempo successivo in abitazioni di livello superiore ? A coloro che ci<br />

mostreranno i disagi dei tronchi, la possibilità che si rompano i pali, l’umidità del lago, e la<br />

possibilità di mostri lacustri, onestamente non potremo ribattere nulla. Non si può pensare che su<br />

alcuna attività umana si arrivi al consenso universale. Non si tratta più di dimostrare (cosa che<br />

probabilmente non è possibile) ma di mostrare la piacevolezza degli edifici che man mano verranno<br />

costruiti.<br />

8. Costruttivismo<br />

Una volta accettate tutte queste limitazioni e aver convenuto che la base dell’armonia tra il nostro<br />

cervello e il mondo reale è la nostra storia evolutiva, la polemica recente con i costruttivisti viene a<br />

cadere. Nel senso che abbiamo nello stesso istante le ragioni del nostro condizionamento e della<br />

nostra libertà di pensiero.<br />

In realtà il dibattito su quanto le nostre abitudini, i nostri preconcetti, le nostre credenze, i nostri<br />

malesseri, le nostre frustrazioni ecc possano influire sulla ricerca della verità, di cui il processo<br />

scientifico è una manifestazione, è di vecchia data. Negli ultimi tempi, a tutte queste preoccupazioni<br />

si è aggiunta anche quella del controllo sociale. La critica marxista ad esempio, oggi meno<br />

aggressiva di un tempo, mostrava come la politica determina anche quale scienza venga fatta, e<br />

poneva l’accento sui danni provocati da una scienza al servizio del capitalismo. Entro certi limiti,<br />

questo è sempre stato vero, basti pensare alla ragione per la quale i finanziatori tiravano fuori i soldi<br />

per finanziare i viaggi intorno al mondo nel secolo sedicesimo.<br />

Oggi tuttavia il controllo politico della ricerca è al massimo: ogni anno si aspetta il bilancio dello<br />

stato per sapere se la risorse saranno minori e maggiori. La scelta di quale progetto finanziare è<br />

sempre più ad alto livello, e, visto che, come si dice, il denaro è del contribuente, si invoca sempre<br />

più l’intervento del cittadino nel giudizio sulla bontà e validità della ricerca. Questo è per certi versi<br />

giusto, per altri errato, ma certamente è inevitabile. Tutto questo è pacifico, né vale la pena di<br />

insistervi troppo. Le decisioni sociali e politiche plasmano tutto l’indirizzo della ricerca. Così pure è<br />

pacifico che la scienza abbia portato ad applicazioni tecnologiche perverse.<br />

Ma il costruttivismo dice qualcosa di più rispetto a questo. Dice che il modo stesso con cui<br />

conosciamo il mondo, i termini della scienza, l’intero suo orizzonte sono costruzioni sociali 38 .<br />

38 Una buona esposizione delle dottrine costruttivistiche è, secondo la mia opinione, quella<br />

presentata in R.G. Newton: La verità della scienza. McGraw-Hill Italia, Milano, 1999. La prima<br />

edizione inglese è del 1997; p. 17-39. Dal momento che si tratta di un settore in cui la polemica è<br />

accesa e che Newton milita nel campo contrario, se uno volesse farsi un’idea delle tesi<br />

costruttivistiche di prima mano può leggere le opere di D. Bloor, B. Latour & S. Wolgar, e di altri<br />

ivi citati.<br />

33


Questo ha provocato la reazione dura di coloro che ritengono che la scienza sia comunque un<br />

riflesso della realtà. La polemica è poi stata acuita dalla beffa di Alan Sokal, un fisico<br />

anticostruttivista che scrisse un articolo infarcito di assurdità e lo spedì a una rivista costruttivista<br />

che glielo accettò 39 . Quando la beffa fu resa nota, molti realisti furono soddisfatti: era stato<br />

dimostrato che il costruttivismo era una massa di stupidaggini.<br />

In realtà la beffa di Sokal dimostra solo che la rivista cui l’articolo fu spedito aveva dei pessimi<br />

referee, o al massimo che il comitato editoriale è ignorante o disattento. Tuttavia chi sa quanto è<br />

difficile talora giudicare un articolo potrebbe essere più comprensivo: anche le grandi riviste<br />

scientifiche talvolta hanno accettato delle patacche. Quello che invece è veramente buffo è il tono<br />

del dibattito, dove i realisti concedono che la scienza è in parte condizionata dai tempi in cui uno<br />

vive, mentre i costruttivisti sostengono che loro sono i primi difensori della parziale oggettività<br />

della scienza. In pratica, il dibattito ricorda altri tipici, ad esempio quello sul ruolo rispettivo della<br />

genetica e dell’apprendimento su alcune caratteristiche umane. Vi sono le due tesi estreme, e poi la<br />

maggior parte delle persone che sono nel mezzo, e nessuno ha gli strumenti per quantificare quello<br />

che dice. Certamente, le idee correnti possono plasmare il pensiero di uno scienziato e dirigere il<br />

corso della scienza, ma fino ad un certo punto. Il problema è che nessuno ha dei metodi per dire<br />

quanto spesso e in che misura questo succede. Soprattutto non può dirlo quando ne è ancora in<br />

mezzo: chi ci riesce è un precursore del suo tempo e generalmente è destinato all’oblio. Quanti<br />

studenti liceali sanno che Aristarco di Samo formulò una teoria eliocentrica abbastanza<br />

soddisfacente quasi due millenni prima di Copernico ? Infine, è presumibile che questa influenza<br />

non sia uguale per tutti i settori scientifici, che in alcuni la liberazione dalle pastoie della società sia<br />

più lenta, che in altri le lenti colorate sociali ci impediscano di apprezzare alcuni aspetti, che in altre<br />

ancora esse siano così scure da farci sfuggire alcuni aspetti della realtà.<br />

Certo, se per società si comprende tutto, incluse le idee scientifiche e gli aspetti tecnologici che esse<br />

determinano, il condizionamento è complesso. Ma questo è ovvio. Quello che conta è che l’uomo<br />

continuamente opera tentativi di “astrazione” verso la realtà, e che questa possibilità gli è data dalla<br />

sua storia evolutiva che è stata forgiata dal suo costante rapporto con le leggi naturali senza il quale<br />

nessun organismo vivente avrebbe potuto propagarsi con successo.<br />

Conclusioni<br />

La conclusione è che il metodo scientifico è l’unico mezzo per conoscere. In realtà, se questo<br />

termine sembra troppo riduttivo, anche solo per motivi storici, potremmo chiamarlo il metodo<br />

razionale (meglio ancora, visto quello che è stato detto, sarebbe meglio: ragionevole). Esso trae<br />

origini dalla nostra storia evolutiva. La raccolta di dati (tramite i sensi) e la loro elaborazione<br />

(tramite il cervello) è alla base dell’esistenza stessa delle forme superiori e il motivo migliore per<br />

pensare che il mondo fuori da noi esista veramente e noi possiamo in parte conoscerlo, perché se il<br />

39 Alan Sokal, professore di fisica alla New York University, spedì un articolo infarcito di<br />

inesattezze dal titolo “Transgressing the boundaries: towards a transformative hermeneutics of<br />

quantum gravity” e lo spedì alla rivista costruttivista “Social Text” che lo pubblicò. La rivelazione<br />

della beffa scatenò una viva polemica tra le due fazioni, che non fu limitata alle riviste scientifiche,<br />

raggiungendo le prime pagine di quotidiani come il New York Times, l’International Herald<br />

Tribune, il London Observer e Le Monde. In Italia, a mia conoscenza, i quotidiani non hanno<br />

ripreso il problema non perché volessero mettere a tacere la cosa, ma semplicemente perché in Italia<br />

la scienza non interessa a nessuno. Sokal ha poi scritto un libro “Imposteures Intellectuelles”,<br />

pubblicato prima in Francia e poi in America. Vedi anche le opinioni apparse in Nature 386:545-<br />

547, 1997; 387:331-334, 1997; 387:543-546, 1997<br />

34


nostro rapporto con la realtà fosse scorretto (cioè se i nostri sensi e la nostra capacità di analisi), non<br />

avremmo avuto fortuna. Ma ad un certo punto è sorta nell’uomo la capacità di mettere in dubbio la<br />

correttezza di questo rapporto, cioè di chiedersi come questo sia possibile, e nel contempo di<br />

prendere coscienza che nulla di quello che ci appare con i sensi non possa essere ingannevole. Ci si<br />

parano allora di fronte problemi di facile soluzione e problemi formidabili. La nostra mente oscilla<br />

pertanto tra il desiderio di avere davanti problemi solubili e quello di affrontare quelli più grossi<br />

anche se nessuno li ha mai risolti. In una delle oscillazioni di questo pendolo, si è stati tentati di dire<br />

che tutto ciò che non è solubile (in linea di principio) è puro nonsenso. O che per lo meno che non<br />

valga la pena di parlarne. Oppure che si può parlarne solo con la poesia.<br />

Scopo del presente libro è mostrare come in realtà l’approccio scientifico sia il solo approccio<br />

possibile, ma che vi è stata troppa enfasi sulla verificabilità attuale. Un australopiteco neopositivista<br />

probabilmente classificherebbe il problema se vi siano crateri sull’altra faccia della luna come<br />

chiaramente metafisico. Al contrario alla domanda se gli dei ogni tanto si arrabbino risponderebbe<br />

che è provato, come verificabile da tuoni e fulmini. Ad un ragazzo del Bangla Desh fu chiesto una<br />

volta se secondo lui gli spiriti esistevano, ed egli rispose che ne era certo. Richiesto della base della<br />

sua certezza, disse che ne era sicuro perché avevano ucciso suo zio. D’altro canto, se introduciamo<br />

il concetto di verificabilità attuale in un determinato momento nel tempo e nello spazio rischiamo di<br />

finire come gli austrolopitecini ipotetici, di elevare la nostra limitatezza a metro di misura di tutte le<br />

cose (παντων των κρεματων αυστραλοπιτεχον μετρον ειναι). Non vorrei che fra 5000 anni ci<br />

considerassero una specie di mente ristretta.<br />

Infine il metodo scientifico non va sovravvalutato. Non è in grado di risolvere il problema delle<br />

definizioni, anzi, più la branca è moderna e più le definizioni sono traballanti e più ci si deve<br />

appellare al senso comune. Il verbo essere è, apparentemente, la base di tutta la conoscenza, ma non<br />

sappiamo cos’è. Probabilmente è uno stato dei nostri neuroni, cui corrisponde non si sa che cosa in<br />

una mente che non si sa che cosa è. Anche le procedure di ragionamento, che ci sembrano tanto<br />

belle, devono essere accettate sulla base del senso comune (buon senso). Impariamo a ragionare<br />

dagli altri, e presumibilmente questo processo, che non è completamente arbitrario, anzi forse non<br />

lo è affatto, viene accettato senza valide motivazioni. Siamo ben lontani da un sistema formale.<br />

Ogni tanto ci troviamo di fronte a nuove frontiere per le quali dobbiamo creare nuovi termini, e non<br />

sappiamo bene quali siano metafisici e quali no. Siamo proprio certi che fra mille anni il principio<br />

di complementarietà di Bohr non venga considerato come un residuo metafisico? 40 Nei territori di<br />

frontiera, dove i sentieri non sono segnati, questi pericoli sono maggiori. Ma spesso le ricchezze<br />

maggiori si raccolgono in territori inesplorati.<br />

Tesi del volume<br />

Una delle prime cose che si imparano facendo pratica di ricerca è distinguere i fatti dalle<br />

interpretazioni. Questo, nelle memorie scientifiche viene sottolineato mediante la distinzione tra il<br />

capitolo che verte sui “Risultati” e quello che li interpreta che viene indicato come “Discussione”.<br />

Ho pensato di mantenere questa separazione anche in questo libro, perché in teoria sui Risultati tutti<br />

dovrebbero essere d’accordo, essi o sono o non sono (in realtà non è esattamente così), mentre sulle<br />

interpretazioni l’accordo è, comprensibilmente, più difficile. Così, il capitolo introduttivo che ho<br />

finito di esporre può essere considerato come l’Introduzione di un lavoro scientifico, in cui viene<br />

tratteggiato in grande linee il problema che deve essere esaminato. Nello stesso capitolo introduttivo<br />

40 A parte le ben note idee di Einstein sull’argomento, vale la pena di menzionare il giudizio di<br />

Schroedinger, che riferendosi al principio di complementarietà notò, citando Goethe, che quando<br />

mancano i concetti si inventano dei nomi.<br />

35


è stato anche fatto cenno a quelli che possono essere considerati i “Materiali e i Metodi” che si<br />

seguono nell’analisi, che in un articolo scientifico rappresentano una sezione fondamentale.<br />

Nei capitoli che seguiranno immediatamente, verrà riportato un certo numero di dati, che<br />

rappresentano una sezione analoga ai “Risultati” di una memoria scientifica. In questa sezione si<br />

esporranno i risultati che sono stati ottenuti in varie discipline, e che come tali dovrebbero essere<br />

riconosciuti da tutti. Nella parte finale del libro troveremo dei capitoli in cui i temi dell’introduzione<br />

vengono ripresi alla luce dei risultati e dove questi vengono commentati più o meno come avviene<br />

nella sezione “Discussione” dei lavori scientifici.<br />

Naturalmente, anche in un lavoro scientifico, non su tutti i risultati vi è sempre accordo comune.<br />

Spesso gli scienziati hanno a disposizione risultati non univoci, talora anche contradditori. Queste<br />

discrepanze possono talora anche trasformarsi in feroci polemiche tra scuole di pensiero scientifico<br />

che possono anche andar avanti per anni. Esse possono dipendere da diverse tecniche adottate, da<br />

disegni sperimentali differenti, dall’esperienza dello sperimentatore, da errori involontari e<br />

raramente da manipolazioni consce o inconsce introdotte dallo sperimentatore. Queste discrepanze<br />

tuttavia vengono generalmente risolte in un tempo relativamente breve, salvo alcune eccezionali che<br />

tornano alla superficie persino in epoche diverse 41 .<br />

Per quanto queste discrepanze sui risultati possano essere rilevanti, quelle sull’interpretazione dei<br />

risultati sono ben più complesse e talora insolubili. Pertanto nella Discussione, lo scienziato<br />

generalmente le esamina tutte, elencando gli argomenti contro o a favore, e talora prendendo<br />

posizione, generalmente con prudenza, accompagnando i suoi rilievi con perifrasi del tipo:<br />

“secondo me”, “sembrerebbe ragionevole concludere”, “alcuni sono portati a sostenere che” e così<br />

via. Nella Discussione bisogna mantenere una mentalità elastica ed essere aperti anche alle ipotesi<br />

che sembrano meno probabili.<br />

Vi è tuttavia un’ulteriore avvertenza da prendere in considerazione, e riguarda la sezione che<br />

potremmo chiamare dei Risultati. Vi è un’infinità di risultati possibili da elencare e una scelta è<br />

stata effettuata su base per così dire arbitraria. Ho cercato di selezionare quei settori della biologia<br />

che hanno una pertinenza filosofica, secondo un approccio che è stato accennato nell’introduzione e<br />

che verrà maggiormente motivato nella Discussione. L’esposizione della sezione Risultati ha per<br />

certi aspetti le fattezze di una review, cioè di quel tipo di articolo scientifico in cui, dopo anni di<br />

lavoro su un particolare argomento che si crede rilevante per la rivista e per la biologia in generale,<br />

si fa una revisione di tutti i dati disponibili, si tentano delle conclusioni e soprattutto si indicano le<br />

linee future di ricerca che dovrebbero chiarire gli aspetti ancora rimasti oscuri.<br />

Essenzialmente, nell’Introduzione abbiamo accennato che la conoscenza ha una base biologica,<br />

legata in un qualche modo alla storia evolutiva del nostro sistema nervoso. Questa prospettiva<br />

storica è l’unica in grado di spiegare come mai può succedere che conosciamo qualcosa sul mondo<br />

reale. Tuttavia, questa stessa incarnazione biologica della conoscenza è la fonte della sua<br />

limitatezza, caratterizzata da postulati, termini e definizioni che non hanno ulteriore riduzione se<br />

non quella del nostro cervello, che per ora ci sfugge, e che comunque non può essere la garanzia<br />

aprioristica di alcuna certezza. I materiali su cui bisogna lavorare e i metodi, o meglio, l’unico<br />

metodo, da seguire, quello che mantiene l’ancoraggio con la realtà, sono pure stati esposti e<br />

motivati brevemente in questo capitolo introduttivo.<br />

41 Un classico esempio di disputa che andò avanti secoli per questioni tecniche è quello della<br />

generazione spontanea.<br />

36


Lo scopo principale del libro non è quello di discutere di singole proposizioni scientifiche, bensì<br />

quello di fare filosofia. Per questo la prima preoccupazione è di chiedersi se questo ha un senso o se<br />

si tratta di discorsi vuoti. La tesi che sosterrò è che fare filosofia è possibile e addirittura doveroso.<br />

Nelle pagine seguenti mostrerò infatti come esistano di fatto proposizioni scientifiche che sono di<br />

importanza filosofica e che pertanto definiscono un insieme di proposizioni che interessano l’uomo<br />

in quanto tale. A differenza di quanto molti sembrano pensare, sarà facile dimostrare che non è vero<br />

che i dibattiti filosofici non portano mai a nulla, ma che al contrario portano ad un sensibile<br />

progresso i cui tempi sono tuttavia assai più lenti di quelli generalmente attribuiti all’impresa<br />

scientifica.<br />

37


Parte seconda<br />

Risultati<br />

“ It seemed to Brother Juniper that it was high time for theology to take its place among the exact<br />

sciences, and he had long intended putting it there. What he had lacked hitherto was a laboratory.<br />

Oh, there had never been any lack of specimens….But these occasions had never been quite fit for<br />

scientific examination. They had lacked what our good savants were late to call proper<br />

control….But this collapse of the bridge of San Luis Rey was a sheer Act of God. It afforded a<br />

perfect laboratory. Here at last one could surprise his intentions in a pure state.<br />

You and I can see that coming from anyone but Brother Jupiter this plan would be the flower of a<br />

perfect scepticism. It resembled the effort of those presumptuous souls who wanted to walk on the<br />

pavements of heaven and built the Tower of Babel to get there. But to our Franciscan there was no<br />

element of doubt in the experiment. He knew the answer. He merely wanted to prove it, historically,<br />

mathematically, to his converts….<br />

This was not the first time that Brother Juniper had tried to resort to such methods. Often on the<br />

long trips he had made (scurrying from parish to parish, his robe tucked up about his knees, for<br />

haste) he would fill to dreaming of experiments that justify the ways of God to man; for instance, a<br />

complete record of the Prayers for Rain and their results….”<br />

Thorton Wilder, The Bridge of Saint Louis Rey<br />

38


Capitolo 2.<br />

ORDINE, MECCANICISMO ED EREDITARIETA’<br />

La biologia molecolare<br />

Il vitalismo era una dottrina biologico-filosofica che supponeva che i processi vitali fossero<br />

intrinsecamente diversi da quelli della materia inanimata. Oggi al contrario si accetta facilmente che<br />

il comportamento dell’unità elementare della vita, la cellula, sia spiegabile completamente con le<br />

leggi della chimica e della fisica. Il termine biologia molecolare indica appunto che tutti i fenomeni<br />

vitali possono essere spiegati a livello molecolare. E’ presumibile che nel prossimo secolo prenderà<br />

piede una biologia “atomica”, che del resto è già in atto, o addirittura una biologia subatomica.<br />

Il termine di biologia molecolare, che ha assunto poi significati più ristretti 42 , in realtà sta ad<br />

indicare che siamo in grado di studiare e descrivere i viventi a livello delle molecole che li<br />

compongono. In realtà, se è vero che una completa descrizione in questi termini non è ancora<br />

compiuta nei dettagli, è anche vero che in alcuni specifici settori la descrizione si confronta già con<br />

livelli inferiori, submolecolari. Questo progressivo aumento di conoscenze per livelli progressivi, in<br />

cui la realtà assume, per così dire, una struttura a cipolla, è stata descritta da molti, tra cui, Francois<br />

Jacob. Nel suo libro “La logique du vivant” 43 , la similitudine delle bamboline russe viene utilizzata<br />

per illustrare questo concetto: le nostre spiegazioni aprono nuove domande che devono a loro volta<br />

essere spiegate ad un livello più profondo, il cui raggiungimento dopo un certo periodo esigerà di<br />

passare ad un livello successivo, in una progressione che si spera, ma non ne siamo certi, prima o<br />

poi abbia a finire.<br />

Il fatto che tutto possa essere spiegato a livello molecolare significa che il biologo utilizza per i suoi<br />

studi leggi e concetti che prende a prestito dalla chimica e dalla fisica. Interpretata in questo senso,<br />

la biologia molecolare è diretta discendente del meccanicismo seicentesco iniziato da Descartes.<br />

All’epoca di Descartes la meccanica era il settore della fisica più avanzato e poteva sembrare adatto<br />

spiegare il vivente in questi termini. Ancora un secolo dopo, Lamettrie usava il termine macchina<br />

per descrivere l’uomo. In seguito divenne evidente che la meccanica da sola non poteva spiegare<br />

tutto, e per questo il termine “meccanicismo” risultò un po’ obsoleto, e viene oggi sostituito con il<br />

termine “riduzionismo”, col quale appunto si indica che il vivente può essere ampiamente “ridotto<br />

a”, cioè “descritto con” leggi fisiche e chimiche comprese quelle che eventualmente non avessimo<br />

ancora scoperto. A sua volta anche questo termine presenta delle difficoltà 44 : vi sono delle<br />

proprietà del vivente che vengono considerate emergenti, nel senso che riesce difficile ascriverle a<br />

livelli più bassi, tanto che alcuni invocano nuovi approcci non riduzionisti. Se anche descriviamo<br />

perfettamente la struttura e la fisiologia di una cellula, il comportamento sociale non dico di<br />

organismi ma anche di popolazioni cellulari gode di proprietà che non si immaginerebbero se si<br />

studiasse solo le singole cellule. Ad esempio, il riconoscimento del self da parte del sistema<br />

immunitario non avrebbe senso se esistessero solo cellule isolate. Quello che si vuole indicare oggi<br />

42 Oggi, senza fare troppa attenzione si usa questo termine per indicare un insieme di tecniche che<br />

nello stesso tempo si basano su, e contribuiscono allo studio del DNA. Esso viene spesso usato in<br />

opposizione al termine biochimica. Ci sono i biologi molecolari che sono distinti dai biochimici:<br />

questi ultimi hanno un’impostazione più classica, mentre gli altri essenzialmente sono i padroni<br />

delle tecniche di ingegneria genetica che applicano ai più svariati problemi biologici. Qui invece<br />

viene mantenuto il significato originario, che è quello di una scienza che si dedica allo studio dei<br />

fenomeni biologici a livello delle molecole.<br />

43 F. Jacob. La logique du vivant. Einaudi, Torino, 1971. L’edizione francese è del 1970.<br />

44 Vedi la discussione del riduzionismo nel capitolo 11.<br />

39


con questi termini in realtà è che i costituenti degli organismi sono molecole che obbediscono alle<br />

leggi di natura che regolano anche il mondo inanimato, e che non bisogna postulare leggi di tipo<br />

sostanzialmente diverso, anche se le proprietà di sistemi viventi organizzati non sarebbero<br />

facilmente predicibili conoscendo le proprietà dei suoi costituenti isolati.<br />

Si possono fornire alcuni esempi di queste descrizioni, che coinvolgono alcuni degli aspetti più<br />

spettacolari del vivente, senza pretendere di scendere in dettagli che sono assolutamente al di fuori<br />

dallo scopo del presente libro. La cellula, che è l’unità fondamentale del vivente, è un insieme<br />

organizzato di molecole. Le strutture che in esse sono riconoscibili, sono tutte composte da<br />

molecole ordinate. La membrana cellulare, ad esempio, che separa la cellula dall’ambiente<br />

circostante e che è la base della sua individualità, è formata da un doppio strato di fosfolipidi in cui<br />

sono comprese numerose proteine, di cui molte diverse da cellula a cellula. La regolazione di molte<br />

interazioni con l’ambiente avviene a questo livello, e meccanismi fisici e chimici vengono utilizzati<br />

per descriverle. Si parla così di gradienti, di diffusione, di costanti di dissociazione e di cinetiche di<br />

legame.<br />

La produzione di energia viene pure descritta in termine di calorie acquisite o utilizzate, l’energia<br />

dei legami chimici viene ceduta od immagazzinata, a livello della membrana mitocondriale<br />

vengono scambiati protoni ed elettroni, ecc. La cellula è un sistema aperto e pertanto essa elude il<br />

secondo principio della termodinamica. L’energia viene immagazzinata nei legami chimici di una<br />

molecola, l’ATP, che rappresenta la moneta di scambio valida per ogni reazione.<br />

La duplicazione cellulare viene osservata tranquillamente al microscopio ed è una successione<br />

precisa di eventi molecolari. Vi è tutta una serie di checkpoint che devono essere superati perché la<br />

replicazione possa aver luogo e se tutti i controlli sono a posto, si procede. In primo luogo viene<br />

duplicato il DNA, poi il DNA si condensa per poter essere impacchettato, così da essere sicuri che<br />

venga mantenuto durante il viaggio. Sono ormai note molte molecole che giocano un ruolo in<br />

questa condensazione. Poi il DNA condensato, sotto forma di cromosomi, attaccati a dei<br />

microtubuli si dispongono in maniera ordinata lungo un fuso mitotico e vengono divisi in modo<br />

esatto tra le due nuove cellule. Se alcune delle molecole implicate in questi meccanismi sono<br />

alterate, la corretta segregazione del materiale cromosomico è impedita o avviene in maniera<br />

erronea.<br />

Il movimento cellulare si basa su una rete di proteine che compongono quello che viene detto il<br />

citoscheletro. Tra queste, due sono fondamentali per il movimento cellulare, l’actina e la miosina.<br />

Facendo presa su punti di contatto con la membrana interna, le miosine scivolano su filamenti di<br />

actina che vengono incessantemente demoliti e ricostruiti, trascinando con sé parte del citoplasma e<br />

contribuendo al movimento cellulare. Questo movimento interno, questa volta ripetuto e coordinato<br />

in tutte le cellule, è alla base della contrazione muscolare. I filamenti di actina sono in contatto con<br />

quelli di miosina, e quando la miosina si contrae, avvicina tra loro i vari filamenti di actina che,<br />

essendo fissati a punti d’ancoraggio intracellulari accorciano le distanze tra questi punti,<br />

provocando la contrazione della cellula muscolare.<br />

Non solo le strutture sono formate da molecole ordinate, ma anche le interazioni tra cellule e i<br />

segnali che tra loro si scambiano sono descrivibili in questi termini. La trasduzione del segnale<br />

dall’esterno all’interno del citoplasma e via via fino al nucleo è uno dei campi più attivamente<br />

studiati, in quanto è alla base di fenomeni fisiologici quali il differenziamento e la replicazione<br />

cellulare, o patologici quali la trasformazione neoplastica. Questo meccanismo, che è un<br />

meccanismo a cascata dove un evento ne stimola degli altri fino a che non viene esso stesso inibito<br />

con un ritorno allo stato iniziale, può venir esemplificato dal modo d’azione di alcune citochine<br />

come le interleuchine 2, 4 o 7, piccole molecole che giocano un ruolo fondamentale nella<br />

40


maturazione dei linfociti. Queste interleuchine si legano a delle proteine presenti sulla membrana<br />

cellulare (recettori), che hanno una porzione esterna che lega la interleuchina, una porzione che<br />

attraversa la membrana e una porzione interna che è a contatto con altre molecole, ad esempio le<br />

kinasi JAK. Queste fosforilano il recettore stesso, e altre proteine, tra cui quelle denominate STAT,<br />

che vengono attivate, entrano nel nucleo e si legano in alcuni punti al DNA. In seguito, altre<br />

proteine defosforilano il recettore che ritorna nella conformazione iniziale, pronto ad essere<br />

riutilizzato; alternativamente in seguito all’avvenuto segnale, la cellula può passare ad uno stadio in<br />

cui il recettore non ha più alcun ruolo e in questo caso può venir degradato. Il segnale cioè non<br />

arriva direttamente dall’esterno ma agisce tramite una cascata di interazioni molecolari che<br />

provocano nella cellula una risposta.<br />

La molecola principe<br />

Tra tutte le molecole che costituiscono la cellula, una però ha un ruolo fondamentale: l’acido<br />

desossiribonucleico, più conosciuto come DNA. Esso è la sede di tutte le informazioni necessarie<br />

per il funzionamento della cellula. Esso raggruppa in sé tutto il necessario per processi complessi<br />

come la moltiplicazione cellulare, la differenziazione tissutale, il funzionamento o il<br />

malfunzionamento di cellule ed organismi, ecc.<br />

Come Gregorio Mendel, il fondatore della genetica formale il cui lavoro rimase sconosciuto per<br />

oltre 30 anni, anche il DNA è stato per lunghi anni ignorato. Scoperto più o meno all’epoca in cui<br />

l’abate moravo enunciava le sue famose leggi, pur risiedendo nel nucleo come implica il suo nome,<br />

venne considerato troppo ottuso per essere la base dell’ereditarietà: si trattava di un polimero<br />

lunghissimo ma monotono, perché composto da una successione di solo quattro piccole molecole<br />

dette nucleotidi. Le proteine sembravano assai più attraenti e meno noiose, consistendo di un<br />

assortimento svariato di 20 aminoacidi. Ma nel 1944 il gruppo di Oswald Avery alla Rockefeller<br />

University lo buttava sulla scena e dal 1953 il brutto anatroccolo diventò un cigno. Da allora il<br />

DNA continua ad avere sempre maggiori riconoscimenti: base della ereditarietà, software della vita,<br />

principio unificante di tutte le forme di vita, partner della selezione naturale, determinante del<br />

comportamento umano e così via. Non sappiamo ancora se tutto ciò gli spetta di diritto, ma si sa, è<br />

sempre bello balzare sul carro del vincitore. In realtà, come spesso succede, non è tutto oro ciò che<br />

luccica, e per essere equilibrati bisogna ricordare che il DNA è anche la base di un’infinità di<br />

malattie ereditarie per non parlare del cancro.<br />

Il genoma dell’uomo, che non è altro che il suo DNA, come più o meno quello di tutti i mammiferi,<br />

contiene circa 100.000 geni. I geni sono una realtà fisica, in quanto non sono altro che dei pezzi di<br />

DNA, un polimero formato a sua volta dall’alternarsi o il succedersi (da cui la parola sequenza) di<br />

quattro piccole molecole, dette basi o nucleotidi. Il genoma dell’uomo è composto di circa 3<br />

miliardi di nucleotidi, presenti in duplice copia. Una piccola parte, forse il 5-10%, rappresenta un<br />

codice, da noi parzialmente conosciuto, che contiene appunto circa 100.000 informazioni per<br />

costruire proteine. La funzione della restante parte non è ancora ben nota, potrebbe anche essere che<br />

parte del DNA non abbia alcuna funzione, sia “junk DNA”, DNA spazzatura. Le proteine sono poi<br />

responsabili della forma stessa della cellula e quindi di un organismo e occupano un posto centrale<br />

perché regolano anche la produzione e il metabolismo di altri costituenti quali i lipidi e i glucidi,<br />

oltre a presiedere al metabolismo degli stessi acidi nucleici, tra cui il DNA stesso.<br />

Non c’è alcun bisogno di entrare nei dettagli che ci porterebbero lontanissimo. Può però essere utile<br />

insistere nella similitudine del computer, perché questo è ormai a noi molto familiare. Questo<br />

perché nel corso dell’evoluzione, la cellula ha avuto la necessità di immagazzinare in maniera<br />

sicura i buoni risultati che otteneva e questo lo ha fatto sotto forma di informazione. Se nascondo un<br />

41


tesoro, posso poi allontanarmi di migliaia di chilometri e tornare decine di anni dopo, o addirittura<br />

affidare le istruzioni ad un altro, e il tesoro può essere ritrovato. Quello che conta è il loro contenuto<br />

informativo. Ciò che sfuggiva nei secoli precedenti era proprio questo, che un’informazione può<br />

essere immagazzinata in una struttura chimica. I geni sono pertanto pezzi di DNA i quali sono<br />

istruzioni codificate. Tali istruzioni sono in grado però di produrre sia l’hardware che il software, è<br />

come se un computer avesse le istruzioni non solo per funzionare ma anche per produrre altre copie<br />

del suo stesso hardware.<br />

Queste istruzioni consentono non solo di replicare le cellule e di assegnare ad ognuna di esse un<br />

compito diverso, ma sono anche in grado di modificare le cellule in risposta a vari stimoli. Questo<br />

vale sia per gli organismi monocellulari che per le singole cellule di organismi complessi, ma le<br />

risposte saranno di livelli diversi. Un microrganismo risponde ad un cambio delle sostanze nutritive<br />

nel suo terreno di cultura attivando informazioni (geni) diversi. Naturalmente questo può avvenire<br />

entro limiti ben determinati, al di là dei quali la cellula non può rispondere e pertanto muore.<br />

Tutte queste interazioni stimolo-risposta vengono effettuate in maniera automatizzata e molte di<br />

queste possono essere descritte, modificate, manipolate e sfruttate sulla base di teorie consolidate,<br />

contribuendo così ad aumentare la nostra fiducia nelle teorie stesse. Pertanto nessun scienziato fa<br />

più uso di “proprietà vitali” specifiche della cellula. La possibilità di convertire la fisiologia<br />

cellulare in denaro contante tramite le biotecnologie contribuisce certamente a diffondere la fiducia<br />

in questa descrizione chimico-fisica della cellula sia nel grosso pubblico che tra i venture capitalists<br />

di Boston e gli gnomi di Zurigo.<br />

L’uovo o la gallina<br />

La spiegazione dell’ereditarietà è ovviamente uno dei successi più clamorosi ottenuti dalla biologia<br />

negli ultimi 50 anni. L’ereditarietà aveva sempre interessato gli uomini: un figlio assomiglia ai<br />

genitori, ma può anche essere assai diverso nel carattere come nel fisico. Nel Settecento e<br />

nell’Ottocento ci si chiedeva come questo potesse avvenire. Teorie come il preformismo cercavano<br />

di spiegare questo incredibile fenomeno. Si invocavano homunculi dentro cui c’erano altri<br />

homunculi e così via fino ad Adamo ed Eva.<br />

Oggi sappiamo che non viene conservata alcuna forma, solo informazione per farla. Concetto<br />

facilmente accettabile in un periodo in cui siamo passati dall’archiviazione di documenti cartacei,<br />

destinati prima o poi al rogo, a quella di microfilm, fino a quelle di bit. La miniaturizzazione<br />

dell’informazione ha luogo ovunque, negli ospedali come nelle banche, ma nessun sistema ha<br />

ancora raggiunto le prestazioni fornite dal DNA.<br />

L’informazione viene replicata ad ogni cellula, e ogni nuova cellula contiene generalmente tutta<br />

l’informazione della cellula da cui è originata. Tuttavia cellule diverse (differenziate) non usano le<br />

stesse informazioni, ma solo un sottoinsieme di esse. Come questo possa avvenire non è ancora<br />

chiaro, anche se, per parti limitate di questo processo, sappiamo quali informazioni dicono quali<br />

altre informazioni devono essere usate. Vi sono dei geni, detti fattori di trascrizione, che attivano<br />

altri geni, e conosciamo anche un certo numero di “master genes” che stanno molto in alto in questa<br />

gerarchia. Il “primum movens” tuttavia non ci è ancora noto. Per ogni organismo superiore, esso è<br />

da rintracciarsi a livello della prima cellula dell’embrione. Tutto è mantenuto in una catena continua<br />

in cui veramente non si può dire se è nato prima l’uovo o la gallina. In questo senso, il problema<br />

dell’homunculus è risolto dal punto di vista delle dimensioni, ma non dal punto di vista della<br />

regressio ad infinitum. In principio probabilmente era l’acido nucleico, o una miscela acido<br />

nucleico-peptide.<br />

42


In pratica ogni cellula attiva solo alcune delle istruzioni (= geni) contenute nel genoma, quelle<br />

necessarie per la sua sopravvivenza, ed eventualmente quelle necessarie per la sua replicazione o<br />

per esercitare una funzione relativa a tutto l’organismo nel caso degli organismi multicellulari.<br />

Quando si replica, esegue prima un duplicato di tutte le istruzioni che vengono così passate ad ogni<br />

nuova cellula. Ognuna di queste utilizzerà solo alcune delle informazioni codificate nel DNA, che<br />

potranno variare nel caso nell’ambiente circostante siano avvenute delle modificazioni importanti.<br />

Così i vari geni possono venire accesi o spenti in risposta alle necessità della singola cellula,<br />

dell’intero organismo o delle modificazioni ambientali.<br />

Pertanto, quali geni verranno espressi viene deciso dall’interazione tra il determinismo genico,<br />

rappresentato dal DNA, e l’ambiente circostante. Cambiando l’ambiente, le istruzioni possono venir<br />

mutate. Nell’ambiente si deve comprendere anche il citoplasma, che rappresenta quella parte<br />

dell’ambiente, delimitata dalla membrana cellulare, più intimamente a contatto con il nucleo, in cui<br />

il DNA è localizzato. Normalmente, il DNA della specifica cellula dirige la composizione del<br />

citoplasma analizzando i segnali che riceve dall’esterno e rispondendo con l’attivazione di un<br />

determinato set di istruzioni pertinenti, meccanismo che è alla base del progressivo<br />

differenziamento cellulare. Questi riassestamenti possono essere massivi, come avviene ad esempio<br />

dopo esposizione ad un fattore di crescita, ma sono comunque mediati da ciò che è presente nel<br />

citoplasma (ad esempio, se la cellula non ha in precedenza prodotto un particolare recettore, potrà<br />

essere completamente insensibile ad un determinato stimolo). Tuttavia, recenti esperimenti fanno<br />

pensare che la capacità di riprogrammazione del DNA possa essere veramente notevole. Negli<br />

esperimenti di clonazione, infatti, in cui un nucleo di una cellula adulta viene trasferito nel<br />

citoplasma di un uovo, tutto l’insieme di istruzioni che quella particolare cellula aveva, viene<br />

resettato e il DNA torna ad esprimere un altro set di istruzioni adatto al suo nuovo stato: è<br />

presumibile che ciò avvenga in seguito all’esposizione al nuovo microambiente con cui è ora a<br />

contatto e che manda segnali diretti all’attivazione di geni tipici di un precoce stadio embrionario.<br />

Tuttavia, la composizione dello stesso citoplasma può, entro certi limiti, subire cambiamenti<br />

notevoli anche in seguito a segnali che vengono dall’esterno, come testimoniato dai recenti<br />

esperimenti di trans-differenziazione, in cui cellule nervose sono state spinte a differenziarsi in<br />

cellule ematopoietiche tramite inoculo in vivo, senza che fosse necessario il trasferimento nucleare<br />

45 . Tutto questo sta ad indicare che, pur nell’ambito di uno stretto determinismo genetico,<br />

l’interazione con l’ambiente è pur sempre rilevante per il destino della cellula.<br />

Il lato oscuro del DNA<br />

L’alterazione di una singola istruzione può avere conseguenze drammatiche per la cellula o per<br />

l’intero organismo. Il fenomeno è stato studiato sia in organismi unicellulari che in organismi<br />

complessi. Nell’uomo ad esempio, vi sono almeno 5000 malattie ereditarie, che sono cioè dovute ad<br />

un’alterazione di una delle istruzioni contenute nel DNA. Anche se non tutti i geni responsabili<br />

delle malattie ereditarie sono ancora noti, tuttavia nella maggior parte di queste malattie in cui<br />

l’istruzione errata è stata identificata, è possibile predire con estrema precisione chi è ammalato e<br />

anche chi si ammalerà, anche nel caso che il soggetto sia ancora asintomatico perché la malattia<br />

insorge in età avanzata. Bisogna tuttavia notare che i geni coinvolti in queste 5000 malattie sono<br />

quelli la cui alterazione consente comunque un certo sviluppo dell’organismo. Altre istruzioni sono<br />

di importanza vitale e un loro malfunzionamento non consente neanche di portare a termine la<br />

45 Bjornson et al.: Turning brain into blood: a hematopoietic fate adopted by adult neural stem cells<br />

in vivo. Science 283:534-537, 1999<br />

43


gravidanza: quando questo avviene precocemente nello sviluppo dell’embrione, la malattia<br />

generalmente non viene neppure riconosciuta.<br />

Oltre alle malattie ereditarie che appaiono spontaneamente nell’uomo, vi è ora una tecnica assai<br />

potente che consente di distruggere singole istruzioni nell’animale da esperimento, in particolare in<br />

quello che è il modello principe per lo studio di genetica di mammiferi, il topo di laboratorio 46 . In<br />

questo modo è possibile studiare la funzione di una singola istruzione nel complesso della fisiologia<br />

della singola cellula e dell’intero organismo. In questo modo, sono state ricreate nel topo malattie<br />

umane; inoltre è possibile studiare anche quelle che sono vitali per l’embrione e che nell’uomo non<br />

è possibile indagare.<br />

Il quadro che si ottiene è un quadro di completa automazione e le previsioni possibili sono<br />

vastissime. Il fatto che studiando la sequenza del DNA di un bambino si possa conoscere il suo<br />

destino è soltanto una delle dimostrazioni più eclatanti o sorprendenti della potenza esplicativa della<br />

teoria.<br />

Le conseguenze sono drammatiche per chi ne viene coinvolto personalmente. Ugo Foscolo<br />

assegnava due quarti del nostro destino alla sorte 47 , ma non conosceva il lato oscuro della genetica.<br />

Il fatto che basti che un solo nucleotide su 3 miliardi sia mutato per condannare un uomo alla<br />

sofferenza e alla morte, deve far meditare profondamente chi è stato così fortunato da essere passato<br />

indenne tra le maglie della sorte.<br />

Come si formano i genomi<br />

Nell’ambito del progetto Genoma Umano disponiamo ormai di un primo draft di circa il 90% della<br />

sequenza della nostra specie e della sequenza completa di numerosi organismi unicellulari e di<br />

alcuni multicellulari, tra cui spiccano il C. elegans e la D. melanogaster. Quello che sappiamo è che<br />

questi genomi hanno una storia entro certi limiti ricostruibile e che alla base della formazione di un<br />

genoma complesso quale quello umano c’è una serie di eventi assai diversi che non rivelano un<br />

piano preciso ma piuttosto una serie di eventi scollegati tra loro.<br />

Nel nostro genoma ad esempio troviamo le tracce di duplicazioni geniche di segmenti di una certa<br />

lunghezza, cioè di segmenti di DNA che nel corso dell’evoluzione si sono duplicati. Questo ha<br />

permesso che uno dei due geni duplicati sfuggisse alla pressione selettiva esercitata dalla sua<br />

46 Questa tecnica, i cui risultati sono menzionati anche in capitoli successivi, si basa sul fatto che,<br />

nel topo, vi sono cellule, dette staminali embrionarie, che mantengono la capacità, pur essendo<br />

coltivate in provetta, di ripopolare l’embrione, dando origine quindi ad un individuo che è in parte<br />

originato da loro stesse. Pertanto, se noi alteriamo un gene a queste cellule è possibile,<br />

reimmettendole in un altro embrione normale, ottenere un individuo in cui parte delle cellule<br />

derivano da quelle col gene alterato e che per questo viene detto chimerico. Dopo opportuni incroci<br />

è possibile ottenere un topo in cui tutte le cellule portano l’alterazione prefissata che si voleva<br />

studiare. In questo modo è possibile valutare la funzione di un gene per difetto, osservando cioè<br />

cosa succede quando l’organismo non ce l’ha.<br />

47 “La fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l’altro quarto ai<br />

loro delitti”. U. Foscolo: Ultime lettere di Iacopo Ortis. Rizzoli, Milano, 1975; p. 144. Il libro fu<br />

pubblicato nella sua interezza nel 1802. Grande figura di poeta romantico, coetaneo di Byron e altri,<br />

pur deluso dal Bonaparte, si batté per la causa repubblicana e dimostrò la validità del suo aforisma<br />

morendo in miseria (a causa delle eccessive spese) e in esilio a Londra dopo aver rifiutato di<br />

lavorare per il Governo Austriaco che aveva ripreso la Lombardia dopo la parentesi napoleonica.<br />

44


importanza nell’economia della cellula e fosse libero di evolversi a produrre un gene diverso anche<br />

se in parte ancora simile nella sua struttura a quello originario. Si è così andati incontro alla<br />

formazione di famiglie geniche, cioè di geni che sono imparentati tra loro perché hanno un’origine<br />

in comune, potendo tuttavia aver assunto funzioni completamente diverse e addirittura opposte. Non<br />

solo, ma le modificazioni intervenute nelle regioni regolatrici possono portare ad un’espressione del<br />

gene solo in particolari tessuti, così che la funzione del gene duplicato può manifestarsi in alcuni<br />

tessuti ma non in altri. Geni nuovi vengono formati anche dall’assemblamento di pezzi di geni<br />

originariamente presenti su tratti diversi di DNA, così che il nuovo gene può avere in comune delle<br />

parti ( “domini”) con due geni diversi: ne può derivare un prodotto proteico che ha alcune proprietà<br />

di entrambe le proteine originarie ma che svolge funzioni parzialmente nuove.<br />

Non solo, ma i geni possono migrare all’interno del genoma. Essi possono venir trascritti in RNA<br />

che per motivi ancora non chiariti può in certi casi reintegrarsi in un altro segmento cromosomale<br />

dando così origine ad un’ulteriore copia del gene che tuttavia ha molte possibilità di non funzionare<br />

più, cioè di non produrre la proteina originaria: nasce così uno pseudogene, un relitto evolutivo, che<br />

via via tende ad accumulare mutazioni inattivanti. Oppure, in rari casi, tutto o parte della sequenza<br />

trasposta viene riutilizzata o entrando a far parte di un nuovo gene o integrandosi in un punto che ne<br />

consente l’espressione. Alcuni di questi “trasposoni” hanno avuto grande fortuna, perché sono<br />

presenti nel genoma umano in un numero stimato vicino al milione di copie. La loro funzione non è<br />

chiara, e potrebbero anche non averne alcuna, oppure potrebbero aver contribuito a particolari<br />

passaggi evolutivi, avendo quindi svolto una funzione in un passato lontano che ora è andata<br />

perduta 48 .<br />

I genomi complessi pertanto sono un coacervo di geni che sono stati messi insieme in maniera<br />

diversa senza un vero disegno preciso durante un processo assai lungo. Essi sono organizzati in<br />

cromosomi che a loro volta sono strutture in parte conservate in parte modificate. Se si confrontano<br />

cromosomi di specie diverse, si nota che alcuni geni sono associati tra loro (sono cioè l’uno accanto<br />

all’altro lungo un determinato segmento cromosomico) in molte specie, ma che ad un certo punto<br />

del cromosoma questa relazione termina bruscamente per rivelare una serie di geni che sono tra loro<br />

nuovamente associati ma che in un’altra specie sono localizzati su un differente cromosoma. In altre<br />

parole, a partire da un determinato progenitore comune sono avvenuti dei riarrangiamenti nei<br />

cromosomi delle varie specie da esso derivate, alcuni dei quali possono anche avere contribuito al<br />

processo stesso di speciazione.<br />

Infine materiale genetico può venir inglobato nel genoma anche dall’esterno. E’ il caso di retrovirus<br />

o altri elementi trasponibili che in casi relativamente rari riescono ad integrarsi nel genoma della<br />

linea germinale, così da essere trasmessi alla progenie. Per quanto rari, questi eventi sono<br />

cumulativi, e ogni specie contiene pertanto un certo numero di virus endogeni la maggior parte dei<br />

quali ormai inattivati. In altri casi invece i geni dei virus integrati sono entrati a far parte del pool<br />

genico della specie contribuendo sequenze codificanti o regolatrici. Questa integrazione tra<br />

materiale genetico diverso ha assunto una particolare valenza nel caso del DNA mitocondriale: i<br />

mitocondri sono organelli presenti nel citoplasma e coinvolti nel metabolismo energetico cellulare,<br />

che si crede siano il risultato del inglobamento di un protobatterio nel citoplasma di un’antica<br />

cellula. Si tratterebbe di un antico caso di simbiosi, testimoniato dal fatto che il mitocondrio ha<br />

conservato alcuni dei suoi geni originari che vengono tramandati di cellula in cellula in maniera<br />

indipendente dal DNA nucleare.<br />

48 L’esistenza di DNA presente in grande numero di copie e che per giunta non ha alcuna funzione<br />

è uno degli argomenti a favore dei sostenitori del DNA egoista, vedi più avanti.<br />

45


Il livello dell’organismo<br />

La descrizione molecolare dei fenomeni legati alla vita non si ferma a livello della singola cellula<br />

ma si estende anche a livello dell’organismo nella sua interezza e non solo nel caso di anomalie<br />

cellulari come potrebbero essere le malattie ereditarie. Come abbiamo detto, le proprietà di un<br />

sistema di ordine di complessità maggiore non sempre sono così ovvie da poter essere predette al<br />

livello inferiore. Tuttavia per molte di queste è possibile una buona descrizione molecolare. Qui ne<br />

descriveremo un esempio, quello della risposta immunitaria adattativa.<br />

E’ noto a tutti che una delle più efficienti difese immunitarie si basa sulla produzione di anticorpi 49 .<br />

Queste molecole riconoscono molecole presenti sui nostri tessuti e molecole che sono presenti solo<br />

su cellule estranee all’organismo. Si dice che sono in grado di distinguere il self dal non-self. Questo<br />

processo, che ha la sua base a livello genetico, viene comunque acquisito durante lo sviluppo fetale<br />

mediante dei complessi fenomeni descrivibili a livello molecolare e cellulare. Da un lato c’è la<br />

necessità di riconoscere tutte le molecole estranee, che sono potenzialmente tossiche per<br />

l’organismo, dall’altro c’è il bisogno di non danneggiare le proprie cellule.<br />

I meccanismi genetici che stanno alla base di questo fenomeno, e cioè la produzione di anticorpi o<br />

comunque di recettori specifici per le varie molecole “buone o cattive” sono sufficientemente noti<br />

nei dettagli. Vi è un numero estremamente elevato di molecole da riconoscere e, a quanto pare, vi è<br />

un numero altrettanto elevato di anticorpi che l’organismo riesce a produrre. In particolare, vi sono<br />

anticorpi anche per molecole che l’organismo non ha mai incontrato né nella sua vita né in quella<br />

della sua specie, anzi, possono venir prodotti anche anticorpi contro sostanze che in natura non<br />

esistono. Dal momento che gli anticorpi sono proteine e che devono essere prodotti da geni, l’idea<br />

che nel DNA di ogni specie potessero esservi tutti i geni anche per fare anticorpi per molecole che<br />

abbiamo creato noi, sembrava assurda.<br />

E in effetti non è così. L’anticorpo è formato da una parte costante e da una regione variabile che<br />

differisce da anticorpo a anticorpo. Mentre la parte costante è codificata da un numero assai piccolo<br />

di geni, la parte variabile è codificata da un numero elevato di piccoli segmenti di DNA che sono<br />

presenti nel genoma di tutte le cellule, ma che nelle cellule che producono gli anticorpi, i linfociti,<br />

vengono assemblati in maniera estremamente varia. Ne consegue che si possono formare una serie<br />

di pezzi di DNA riarrangiati nella maniera più diversa, i quali alla fine di questo processo<br />

produrranno un determinato anticorpo. Dal momento che vi sono miliardi di linfociti, saranno<br />

disponibili un enorme numero di anticorpi predeterminati che sono candidati a legarsi ad un<br />

antigene, inizialmente con un’affinità relativamente bassa. Malgrado questa bassa affinità, il legame<br />

con l’antigene scatena una proliferazione dei linfociti che hanno quel determinato anticorpo, che<br />

così aumentano grandemente di numero. Non solo, ma a seguito di fenomeni che avvengono a<br />

livello del DNA di queste cellule proliferanti, il gene che produce l’anticorpo acquista delle<br />

mutazioni che faranno produrre anticorpi leggermente diversi, la cui affinità per l’antigene potrebbe<br />

essere minore o maggiore. Tuttavia, per un meccanismo selettivo, le cellule che producono un<br />

49 Gli anticorpi, o immunoglobuline (Ig) sono prodotti da un sottoinsieme di linfociti, detti di tipo B.<br />

Si distinguono 5 classi di anticorpi, denominati IgM, IgD, IgG, IgA, IgE. Per una loro corretta<br />

produzione sono tuttavia necessari anche altre cellule tra cui i linfociti di tipo T. Questi a loro volta<br />

producono una serie di molecole che appartengono alla stessa grande famiglia delle Ig, e i cui geni<br />

pure vengono riarrangiati con un processo del tutto analogo a quello che viene utilizzato per<br />

produrre gli anticorpi. Tutte queste molecole cioè hanno una parte costante codificata da uno o<br />

comunque pochissimi geni e una parte variabile che varia da molecola a molecola. Vedi S.<br />

Tonegawa: Somatic generation of antibody diversity. Nature 302, 575-581, 1983<br />

46


anticorpo più “forte” verranno avvantaggiate sulle altre e cresceranno di più, aumentando la risposta<br />

dell’organismo all’antigene dannoso.<br />

Siamo davanti pertanto ad un meccanismo selettivo per cui il legame con l’antigene scatena la<br />

produzione ed il miglioramento di un anticorpo specifico per l’antigene stesso a partire da un panel<br />

di anticorpi che sono prodotti secondo uno schema generale ma con notevole variazioni individuali.<br />

Parimenti, con un processo che però è meno conosciuto, si suppone che le cellule che producono<br />

casualmente anticorpi contro molecole proprie dell’organismo (autoanticorpi) vengano eliminate: se<br />

questo processo non è correttamente completato possono insorgere quelle che sono conosciute come<br />

malattie autoimmuni.<br />

Ma il livello di profondità dell’analisi arriva anche a livello molecolare. Il meccanismo alla base<br />

della diversità anticorpale, come abbiamo visto, è dato dal riarrangiamento di piccoli pezzi di DNA.<br />

Si tratta essenzialmente di un processo di taglia e cuci, in cui pezzi di DNA vengono tagliati e<br />

quello che rimane alle loro estremità viene ricongiunto. Le molecole coinvolte in questo processo<br />

sono oggi sufficientemente note, ed è noto nelle linee essenziali il loro funzionamento. I pezzi di<br />

geni che devono essere assemblati hanno alla loro estremità interna delle sequenze nucleotidiche<br />

specifiche che vengono riconosciute da molecole particolari, dette RAG, che sono in grado di<br />

tagliare in corrispondenza di queste sequenze con una precisione quasi assoluta. Pertanto il taglio da<br />

parte delle RAG fa sì che un pezzo di DNA venga eliminato dal genoma, e che il restante pezzo di<br />

DNA possa venir ricongiunto mediante l’azione di altre molecole il cui mestiere è appunto quello di<br />

ricucire le rotture del DNA. Dal momento che vi sono tantissimi pezzi che possono essere<br />

ricongiunti con vario assortimento, e che per giunta questa giunzione è sempre un pochino diversa e<br />

il numero di linfociti è altissimo, e che infine il gene riarrangiato può ancora mutare, si capisce<br />

come il sistema possa funzionare in modo da proteggerci dalla maggior parte dei microrganismi che<br />

incontriamo durante la nostra vita.<br />

Esempi come questi ce ne sono a centinaia, ma sarebbe inutile dilungarci. Quello che conta qui è<br />

capire la logica della descrizione. Questo esempio tratto dal sistema immunitario illustra il principio<br />

generale secondo cui le interazioni delle cellule dell’organismo tra loro e con altre cellule estranee<br />

possono venir descritte a livello molecolare. La descrizione avviene a posteriori, nel senso che non<br />

sarebbe possibile, al momento per lo meno, prevedere ad esempio la via scelta dai vertebrati per<br />

risolvere il problema dell’immunità studiando, non dico i procarioti, ma neppure gli invertebrati,<br />

che non hanno questo sistema adattativo.<br />

Potrebbe essere anche possibile andare oltre al livello dell’organismo individuale e tentare di<br />

descrivere organizzazioni meta-individuali, cioè organizzazioni sociali ? Questo problema verrà<br />

trattato più avanti in un capitolo successivo.<br />

Lo sviluppo embrionario<br />

La produzione di un organismo adulto a partire da una sola cellula è probabilmente il fenomeno<br />

biologico più stupefacente, e ci riempie di commozione tanto quanto il cielo stellato sopra di noi e<br />

la legge morale dentro di noi. E non solo nel caso dell’uomo, ma anche per organismi modesti come<br />

i nematodi, i moscerini, i ricci di mare, le rane, i pesciolini o i topolini, tutti modelli che vengono<br />

utilizzati in quella disciplina che va sotto il nome di embriologia sperimentale. Come viene<br />

acquisito, a partire da una singola cellula, non solo il differenziamento in vari tessuti, ma anche la<br />

disposizione tridimensionale e la formazione di strutture che sono identiche in tutti i membri della<br />

stessa specie, oltre a presentare leggere variazioni tra una specie e l’altra?<br />

47


Nel corso dei secoli questo problema era rimasto assolutamente confuso, e le teorie proposte erano<br />

state vaghe o, peggio, ridicole. Per tre o quattro secoli si confrontarono preformisti ed epigenetisti. I<br />

primi sostenevano che tutti gli embrioni esistevano già preformati nell’uovo o nello sperma: ne<br />

conseguiva che ogni embrione doveva contenere dentro di sé un numero enorme di “homunculi”,<br />

nel caso della generazione umana, perché dentro il seme di ogni homunculus doveva essercene un<br />

altro in miniatura. Questa conseguenza della teoria, chiamata anche dell’inscatolamento (in francese<br />

“emboitement”), era chiaramente facile bersaglio del sarcasmo da parte degli epigenetisti. Questi<br />

proponevano invece l’esistenza negli embrioni di una “forza” che fosse in grado di indirizzare lo<br />

sviluppo dell’embrione, ma naturalmente avevano il loro punto debole nella loro assoluta incapacità<br />

a dare qualche dettaglio su di essa, così che le loro specifiche proposte erano estremamente facili ad<br />

essere smantellate dalla critica degli avversari.<br />

Hans Driesch, uno dei fondatori dell’embriologia sperimentale, lavorando all’inizio del secolo XX<br />

presso la Stazione Zoologica di Napoli, giunse alla conclusione che l’embrione era dotato di tali<br />

proprietà che non potevano essere spiegate dalle leggi che regolano la materia. L’embriologia<br />

sperimentale consiste nel manipolare l’embrione o il “milieu” che lo circonda e vedere cosa<br />

succede: da questi dati si può costruire una teoria che suggerisce poi nuovi esperimenti in una<br />

sequela che è quella classica del metodo scientifico. L’embrione, è noto, origina come singola<br />

cellula, poi si divide in due, quattro, otto cellule e così via. Tra i vari esperimenti di cui fu pioniere,<br />

Driesch separò le cellule degli embrioni allo stadio di due o quattro cellule (blastomeri) e constatò<br />

che ognuna di esse era in grado di produrre un embrione intero, seppure più piccolo. Parimenti, era<br />

possibile fondere tra loro due embrioni al livello di blastula ed ottenere un unico organismo, questa<br />

volta più grande. Questo ed altri esperimenti lo portarono a concludere:<br />

“E’ quindi provato per alcuni fenomeni vitali che nessun meccanismo di qualunque tipo può essere<br />

la loro base causale. Vi sono necessariamente degli agenti non meccanici. Diamo loro il nome<br />

aristotelico di entelechia, pur sapendo che esso non corrisponde esattamente al concetto<br />

rappresentato dal termine aristotelico…” 50<br />

E’ interessante notare come Driesch sottolinei ripetutamente che le sue conclusioni sono la<br />

migliore, anzi l’unica, spiegazione dei fatti che egli esamina. Egli è convinto che la sua conclusione<br />

derivi dai fatti e che sia pertanto assolutamente scientifica.<br />

“Abbiamo appena mostrato che vi è empiricamente una causalità vitale”. E più avanti: ”Molti non<br />

vedono di buon occhio l’uso che il vitalismo fa del concetto di affinità dei mezzi e del fine, di<br />

teleologia e anche di causa finale. Si potrebbe forse notare che nessuna di queste parole figura in<br />

quest’articolo”. 51<br />

Driesch viene considerato come l’ultimo vitalista (per lo meno di una certa importanza). Oggi in<br />

realtà questi esperimenti che egli eseguì all’inizio del Novecento con grande perizia tecnica sono<br />

alla portata di numerosi laboratori che si sono spinti assai più in là. Oggi è possibile eseguire i suoi<br />

esperimenti su embrioni di topo, prenderne le cellule ai primi stadi di sviluppo e coltivarle in vitro,<br />

reinserirle nella blastocisti e ottenere animali chimerici, cioè animali in parte derivati dalle cellule<br />

50 H. Driesch. Le vitalisme. Scientia 7:13-22, 1907. Versione italiana citata in B. Fantini: La<br />

macchina vivente. Longanesi, Milano, 1986 p 84. Nel termine vi è la radice ev (dentro, interna) e<br />

quella tele (scopo, fine). Fantini (p 22) la definisce come un “fattore naturale non spaziale,<br />

distribuito in tutta la materia vivente, è il principio direttore che permette di raggiungere un fine<br />

preciso univoco seguendo strade diverse in condizioni diverse”. Il termine è tratto dal trattato<br />

“Sull’anima” di Aristotele.<br />

51 Ibidem, p 85.<br />

48


della blastocisti ospite e in parte derivati dalle cellule in essa iniettate. In altre parole, le cellule dei<br />

primi stadi dell’embrione sono totipotenti, e se trattate appropriatamente possono riformare tutto<br />

l’organismo. Addirittura, il nucleo di una cellula, non solo embrionaria ma anche originata da un<br />

tessuto differenziato contiene tutta l’informazione necessaria per ricostruire un organismo, come<br />

hanno dimostrato gli animali clonati che vengono prodotti da qualche anno a questa parte. 52<br />

La risposta è ormai chiara. L’entelechia coincide con il DNA. Nel DNA vi è il programma con tutte<br />

le istruzioni che la prima cellula e poi tutte le altre devono seguire per arrivare a produrre<br />

l’individuo adulto. La concomitante esplosione della teoria dell’informazione e dell’informatica<br />

rende oggi questa spiegazione assai facile da comprendere e da accettare. Su cosa si basa questa<br />

conclusione ?<br />

Vi è un numero sproporzionato di osservazioni genetiche che si sono accumulate nel corso di questi<br />

ultimi due decenni, costruite su osservazioni embriologiche eseguite nell’arco di tutto il secolo<br />

ventesimo. Queste osservazioni sono di due tipi, essenzialmente, a seconda che siano eseguite su<br />

fenomeni spontanei o su fenomeni provocati artificialmente. Abbiamo visto che in un mammifero<br />

come l’uomo e il topo, a dispetto delle diversità nelle dimensioni e nelle capacità, esistono circa<br />

100.000 geni. Come abbiamo detto, è oggi possibile inattivare in maniera assai precisa uno solo di<br />

questi geni e vedere qual è il fenotipo che ne deriva: i risultati ottenuti getteranno luce sulla<br />

funzione del gene indagato. Oppure è possibile studiare i fenotipi anormali insorti spontaneamente<br />

nelle colonie di topi o altri animali e cercare di individuare qual è il gene la cui alterazione ha<br />

provocato il difetto riscontrato.<br />

La formazione delle strutture embrionarie sembrerebbe a prima vista essere troppo complessa per<br />

poter essere spiegate con i geni. Come potrebbero le cellule venir istruite a disporsi a strati, a<br />

formare strutture tubulari, a organizzarsi in organi che mantengono sempre la stessa forma in tutti<br />

gli individui della stessa specie? Non sembra logico postulare l’esistenza di un organizzatore? E<br />

questo organizzatore non sembra dover essere di una natura diversa dalle molecole? Se ci si<br />

trasporta all’inizio del Novecento, quanti non si sentirebbero attratti dalle considerazioni di<br />

Driesch?<br />

Gli studi recenti hanno dato torto a Driesch anche in questo caso. Oggi possiamo causare facilmente<br />

l’assenza di una struttura alterando un singolo gene. Lavorando come abbiamo detto nel topo con la<br />

tecnica della ricombinazione omologa, possiamo inattivare un gene a piacere e vedere cosa ne<br />

consegue. In alcuni casi otteniamo la scomparsa di un’intera struttura o di un organo. Pertanto un<br />

singolo gene può essere o è responsabile della formazione di strutture tridimensionali. Non solo, ma<br />

una loro alterazione può provocare la comparsa di strutture intere.<br />

La storia delle mutazioni omeotiche è emblematica. Si tratta di un esempio eclatante e facile da<br />

comprendere. L’embriologia molecolare, essendo di difficile studio nell’uomo per motivi ovvii, si<br />

dedica con piacere allo studio di piccoli animali che vengono usati come modelli. Il vantaggio è che<br />

su questi modelli si possono effettuare esperimenti con grande facilità; inoltre il tempo di<br />

riproduzione è sensibilmente più corto che nell’uomo. Nel caso della Drosophila, si possono<br />

ottenere progenie grandissime in poco tempo; nel topo la gravidanza dura 21 giorni e ogni 3 –4<br />

mesi si ha a disposizione una nuova generazione di animali.<br />

52 Per dettagli sulla vasta gamma di animali che possono essere ottenuti manipolando l’embrione si<br />

può consultare l’articolo “Animali chimerici, transgenici, knockout e clonati” in Dulbecco et al.<br />

“Clonazione: problemi etici e prospettive scientifiche". Edito come supplemento a Le Scienze del<br />

maggio 1997.<br />

49


Molti embriologi classici, anche prima dell’avvento delle tecniche di ingegneria genetica che hanno<br />

consentito di studiare i geni, hanno fatto uso di mutanti. I mutanti, che sono veramente centrali per<br />

lo studio dell’embriologia come di altri settori di ricerca biologica, sono stati definiti inizialmente<br />

per il loro fenotipo, cioè per il loro aspetto. La parola viene dal greco, φαινω, appaio, la stessa<br />

radice di fenomeno. Il fenotipo è come uno appare, intendendo però ormai anche quello che appare<br />

a livello di test di qualsiasi natura. Il genotipo invece è quello che vi è dietro al fenotipo, la base del<br />

fenotipo. Per decenni, nella prima parte del secolo il genotipo è stato qualcosa di misterioso, oggi<br />

sappiamo che coincide praticamente con il DNA. Un uomo affetto da una malattia ereditaria, per<br />

esempio, da fibrosi cistica, è un mutante.<br />

L’importanza dei mutanti è dovuta al fatto che possiamo sperare di identificare il loro genotipo, cioè<br />

l’istruzione sbagliata. Gli embriologi pertanto guardano le loro colonie di animali per vedere se<br />

insorgono organismi con fenotipi interessanti, ma questa comparsa spontanea è rara. E’ naturale<br />

quindi che abbiano cercato di aumentare la frequenza di queste mutazioni, semplicemente<br />

esponendo gli animali ad agenti che danneggiano il loro DNA, quali, ad esempio, le radiazioni.<br />

Durante un lavoro di questo tipo, furono identificati dei mutanti che dal punto di vista embriologico<br />

erano enormemente interessanti: alcune mosche avevano quattro ali invece di due (Bithorax), altri<br />

avevano una gamba al posto di un’antenna (Antennapedia). Si aveva quindi la possibilità di testare<br />

l’ipotesi secondo cui singoli geni comandano la formazione di un’intera struttura. Se fosse stato<br />

possibile identificare un gene alterato solo nei mutanti, l’ipotesi sarebbe stata confermata.<br />

E in effetti l’ipotesi si rivelò esatta con l’identificazione di geni che erano alterati specificatamente<br />

in questi due mutanti e che definirono una nuova classe di geni. Dal momento che mutazioni di quel<br />

genere venivano chiamati omeotiche (dal greco “ομοιοσ”, simile 53 ), i nuovi geni vennero chiamati<br />

“homeobox”. Quindi non solo vi erano dei geni la cui alterazione comportava l’assenza di una<br />

struttura, ma anche geni la cui alterazione provoca la comparsa di strutture in sedi anormali. Anche<br />

se il meccanismo alla base del fenomeno è ben lungi dall’essere conosciuto nei dettagli, vi sono<br />

ormai numerosi casi del genere a carico di geni della stessa o di altre famiglie, che dimostrano come<br />

anche i fenomeni embriologici più complessi dipendono dall’azione di singoli geni o dalla loro<br />

interazione.<br />

Prendiamo il caso dell’occhio. Più di cent’anni oro sono, William Paley aveva scritto:<br />

if we had no other “example in the world of contrivance except that of the eye, it would be alone<br />

sufficient to support the conclusion that we draw from it, as to the necessity of an intelligent<br />

Creator” 54 .<br />

Ma nel 1995, Walter Gehring e i suoi collaboratori hanno preso delle Drosophilae e hanno fatto<br />

esprimere un gene da loro isolato (“eyeless”) in vari tessuti embrionali (imaginal disks) che<br />

normalmente danno origine a strutture quali le ali e le zampe o gli occhi stessi. Ne vennero fuori<br />

moscerini con occhi sulle ali e sulle zampe. Alcuni avevano occhi in cima alle loro antenne. Questi<br />

occhi “ectopici” (cioè insorti in sedi anomale) erano molto simili a quelli normali e i loro<br />

fotorecettori rispondevano alla luce 55 .<br />

53 Termine introdotto alla fine del secolo XIX dal naturalista William Bateson per indicare il<br />

fenomeno di trasformazione di un organo in un altro.<br />

54 W. Paley. Natural Theology. vol I, p. 81 citato in C.A. Russell: Science and religious belief. The<br />

Open University Press, Londra, 1973; p. 185.<br />

55 G. Halder et al: Induction of ectopic eyes by targeted expression of the eyeless gene in<br />

Drosophila. Science 267:1788-1792, 1995<br />

50


Questi studi dimostrano che i geni regolano anche strutture così perfezionate come quegli occhi<br />

davanti ai quali Paley si riempiva di ammirazione. Curiosamente, questo gene, la cui alterazione<br />

provoca un fenotipo denominato appunto “eyeless”, ha un omologo nel topo, le cui mutazioni<br />

causano un fenotipo denominato “small eye” 56 . Pertanto, in specie così distanti come le mosche e i<br />

topi, lo stesso gene regola lo sviluppo dell’occhio, e la cosa è tanto più sorprendente in quanto gli<br />

occhi degli insetti e dei mammiferi sono apparentemente profondamente diversi. Ma le sorprese non<br />

finiscono qui: il gene omologo nell’uomo, chiamato anche “aniridia” (dalla malformazione che<br />

provoca) è anch’esso responsabile di una malformazione ereditaria dell’occhio e omologhi del gene<br />

sono stati trovati anche in organismi assai lontani evolutivamente quali le planarie.<br />

Un altro esempio è costituito dalla formazione delle dita. Anche la mano, come l’occhio, sembrava<br />

ai tempi di Darwin un esempio eccezionale di struttura che richiedeva un disegno. I pesci, come<br />

noto, non hanno dita ma pinne. Si ritiene che le pinne siano gli antenati degli arti. Tuttavia non è<br />

ben chiaro cosa se ne facessero i pesci delle dita, né come il primo abbozzo delle dita potesse essere<br />

di vantaggio evolutivamente parlando. Questo problema, noto come l’enigma della transizione tra<br />

pesci e tetrapodi (cioè animali con quattro arti), è un problema non ancora risolto. Si può ipotizzare<br />

che le dita si siano sviluppate sulle pinne di pesci che avessero il loro habitat in fondali bassi e pieni<br />

di vegetazione, e che questi primi abbozzi potessero dare un vantaggio di movimento in acque<br />

basse. Il numero delle dita può essere assai diverso, è noto ormai che vi sono fossili che dimostrano<br />

sei o otto dita: la pentadattilia non è più ritenuta necessariamente primitiva. Anche l’aspetto delle<br />

dita può essere assai diverso: il cavallo corre su un monodito, la mucca cammina su due, l’uccello<br />

vola con ali a tre dita, cammina su due o quattro dita a seconda della specie, mentre l’uomo ne ha<br />

cinque sia alle mani che ai piedi, ma nella mano hanno subito un’evoluzione eccezionale. Quello<br />

che però è chiaro è che nella formazione di arti così diversi quali quelli che si hanno negli uccelli e<br />

nei mammiferi, sono implicati sempre gli stessi geni. Come nel caso della formazione degli occhi,<br />

geni omologhi si ritrovano coinvolti in tutte le specie. Questo è dimostrato in maniera classica<br />

tramite l’analisi dei mutanti, siano essi spontanei o ottenuti artificialmente, siano essi nell’uomo o<br />

negli animali d’esperimento.<br />

Come abbiamo visto, i geni homeobox sono fondamentali per la formazione di numerose strutture<br />

durante lo sviluppo embrionario. I classici geni homeobox sia nell’uomo che nel topo sono raccolti<br />

in quattro gruppi (“cluster”) su quattro differenti cromosomi. Ognuno di questi gruppi, la cui<br />

struttura generale è simile in tutti e quattro, è formato da una successione ordinata di geni, simili tra<br />

loro e simili anche a quelli degli altri gruppi. Tuttavia, in generale ogni gene di un determinato<br />

gruppo è più simile al gene degli altri gruppi che occupa la stessa posizione che non a quelli del suo<br />

gruppo. In altre parole, ognuno di questi geni può essere indicato con una lettera da A a D che<br />

indica il cluster di appartenenza e da un numero che indica la sua posizione nel cluster. Geni con lo<br />

stesso numero, che occupano cioè la stessa posizione hanno spesso una funzione correlata e spesso<br />

ridondante. Questo termine significa che questi geni hanno talune funzioni proprie, che nessun altro<br />

gene può sopperire, e altre che invece sono in comune con altri geni. Pertanto l’inattivazione di un<br />

gene homeobox a volte dà origine ad un difetto leggero, mentre l’inattivazione combinata di due o<br />

più geni causa un deficit che è maggiore di quello che ci si aspetterebbe dalla somma dei due singoli<br />

deficit (questo perché alcune ognuno sopperiva a parte delle funzioni dell’altro).<br />

I geni homeobox con i numeri più bassi sono coinvolti in difetti più craniali, mentre quelli con i<br />

numeri più alti causano difetti nella formazione degli arti. Questo fatto è in correlazione con la loro<br />

espressione che appunto viene regolata in maniera tale che i singoli geni vengono espressi durante<br />

56 R. Quiring et al: Homology of the eyeless gene of Drosophila to the small eye gene in mice and<br />

aniridia in humans. Science 265:785-789, 1994<br />

51


lo sviluppo prima nelle regioni craniali e poi in quelle caudali. Questa corrispondenza tra la regione<br />

in cui si esprimono e la loro localizzazione ordinata nel genoma è assai importante, ma la base di<br />

questo fenomeno non è ancora chiara. Si è comunque visto che alcuni di questi geni, insieme a<br />

numerosi altri di cui si comincia a comprendere il ruolo, sono coinvolti nella formazione degli arti<br />

57 . In particolare quelli che occupano una posizione verso la fine di ogni cluster, che hanno la<br />

numerazione tra 9 e 13, sono espressi negli arti durante il loro sviluppo embrionario. Come nel caso<br />

dell’occhio, le mutazioni di questi geni nel topo e nell’uomo hanno dato dei quadri abbastanza<br />

sovrapponibili, dimostrando come questi geni dirigano la formazione di queste strutture e come<br />

questa loro proprietà sia conservata nell’evoluzione 58 .<br />

L’inattivazione artificiale mirata del gene Hoxd-13 nel topo provoca un difetto nella formazione<br />

delle dita, mentre l’inattivazione combinata dei geni Hoxd-11, -12 e -13 provoca una<br />

malformazione più grave. L’inattivazione del gene Hoxa-13 provoca una malformazione lieve, ma<br />

l’inattivazione sia del Hoxa-13 che del Hoxd-13 provoca l’arresto della formazione dell’intera mano<br />

59 . Tutte queste mutazioni, come pure un’altra mutazione insorta spontaneamente (ipodattilia)<br />

dovuta anch’essa al gene Hoxa-13 60 , sono studiate nel topo, ma anomalie dello sviluppo simili si<br />

ritrovano anche nell’uomo. Nella nostra specie infatti, una mutazione del gene Hoxd-13 provoca<br />

una condizione denominata sinpolidattilia 61 , mentre un’altra, che coinvolge invece il gene Hoxa-<br />

13, provoca la sindrome mano-piede-genitali (hand-foot-genital syndrome) 62 . Pur con le leggere<br />

differenze tra il fenotipo delle mutazioni umane e murine, il quadro globale suggerisce le stesse<br />

conclusioni che sono state tratte dallo studio dei geni coinvolti nella formazione dell’occhio.<br />

Oggi si ritiene che l’azione dei geni, in un delicato network di attivazione e inattivazione genica, sia<br />

in grado di spiegare tutto lo sviluppo dell’embrione dal momento della fusione tra uovo e<br />

spermatozoo fino al suo completamento. Non solo, ma l’embriologia comparata consente di studiare<br />

tutta la meravigliosa varietà di soluzioni che sono state ideate per consentire un adattamento<br />

all’ambiente. Il pitone, ad esempio, non ha arti, ma ha oltre 300 vertebre, tutte assai simili. Una<br />

diversa regolazione dei geni homeobox e di altri geni sono responsabili di questa estrema soluzione<br />

del pitone 63 , così come lo sono per la formazione delle ali degli insetti o di quelle degli uccelli. Vi<br />

sono veramente pochi dubbi che i geni e la loro interazione con l’ambiente non siano in grado di<br />

spiegare ogni cosa, dall’apparizione della testa che ha avuto luogo centinaia di milioni di anni or<br />

sono, fino al pollice sovrapponibile dell’H. sapiens, apparso nell’ultimo secondo della giornata<br />

evolutiva.<br />

57 S. Manouvrier-Hanu et al: Genetics of limb anomalies in humans. Trends Genet 15:409-417,<br />

1999<br />

58 T. Kondo et al: Genetic control of murine limb morphogenesis: relationships with human<br />

syndromes and evolutionary relevance. Mol Cell Endocrinol 140:3-8, 1998<br />

59 J. Zakany & D. Duboule: Synpolydactyly in mice with a targeted deficiency in the HoxD<br />

complex. Nature 384:69-71, 1996; T. Kondo et al: Of fingers, toes and penises. Nature. 390:29,<br />

1997; Y. Herault & D. Duboule: Comment se construisent les doigts. La Recherche 305:40-44,<br />

1998 .<br />

60 D.P. Mortlock et al: The molecular basis of hypodactyly (Hd): a deletion in Hoxa13 leads to<br />

arrest of digital arch fromation. Nature Genet 13:284-289, 1996<br />

61 Y. Muragaki et al: Altered growth and branching patterns in synpolydactyly caused by mutations<br />

in HOXD13. Science 272:548-551, 1996.<br />

62 D.P. Mortlock & J.W. Innis: Mutation of HOXA13 in Hand-foot-genital syndrome. Nature Genet<br />

15:179-180, 1997<br />

63 M.J. Cohn & C. Tickle: Developmental basis of limblessness and axial patterning in snakes.<br />

Nature 399:474-479, 1999<br />

52


Capitolo 3.<br />

L’EVOLUZIONE<br />

L’evoluzione è ormai una teoria che viene utilizzata in tutti i campi della biologia. La sua vastità è<br />

tale che Karl Popper le attribuisce il rango di programma di ricerca metafisico 64 . Questa<br />

affermazione di Popper non è in verità piaciuta ai biologi evoluzionisti, e lo stesso Popper ha<br />

parzialmente modificato la sua posizione. Forse nella sua definizione il filosofo austriaco voleva<br />

solamente riconoscere la vastità della portata della teoria evoluzione o forse, prigioniero del suo<br />

criterio di falsificazione, non vedeva bene come la teoria potesse essere falsificata. Rimane che vi è<br />

una miriade di dati che si inquadrano assai bene nella teoria dell’evoluzione e anche scienziati che<br />

non lavorano propriamente nel settore della zoologia usufruiscono positivamente della concezione<br />

evoluzionistica.<br />

In verità gli organismi mutano incessantemente e, su scala epocale, danno origine alle<br />

trasformazioni più inattese. Anche il motore dell’evoluzione, l’adattamento all’ambiente, la fitness<br />

o la lotta per la sopravvivenza, la selezione del più adatto, improntano i settori più diversi. Il<br />

concetto di selezione ad esempio viene utilizzato per spiegare la risposta immunitaria come lo<br />

sviluppo del sistema nervoso centrale. Essenzialmente, oggi si ritiene che la prima forma vivente si<br />

è formata agli albori dell’esistenza della Terra stessa, in presenza di condizioni che non sono più<br />

presenti sulla superficie della terra (ma potrebbero esserlo su altri pianeti o sotto la crosta terrestre)<br />

e che da questa prima forma si sono evolute tutte le altre, fino all’uomo.<br />

E’ interessante notare come la fiducia nella teoria dell’evoluzione si sia affermata nel corso dei<br />

decenni. In effetti, vista col senno di poi, la storia della credenza nella creazione delle specie una<br />

per una risulta stupefacente. In fondo, su cosa si basa oggi la nostra credenza nell’evoluzione ? Sul<br />

fatto che gli animali sono estremamente simili l’uno con l’altro, che il piano di costruzione sembra<br />

uno solo, che spesso vi sono varie gradazioni di un determinato carattere, che zone geografiche<br />

isolate hanno animali differenti. In realtà anche oggi, abbiamo poche prove dirette di evoluzione: i<br />

casi in cui abbiamo notato la trasformazione di una specie in un’altra sono praticamente assenti.<br />

Abbiamo sì osservato variazioni della frequenza di alcuni caratteri nell’ambito di una certa specie in<br />

seguito a processi selettivi, ma per questioni di tempo, l’osservazione diretta della trasformazione di<br />

una specie in un’altra, o se vogliamo della derivazione di una nuova specie da un’altra ci è ancora<br />

preclusa. Questi dati tuttavia erano già disponibili nelle loro linee essenziali anche duecento anni fa,<br />

prima di Darwin e Wallace e anche prima di Lamarck. In fondo, anche solo guardando l’enorme<br />

variabilità delle razze che vanno sotto la denominazione di cane, qualcosa doveva pur venir in<br />

mente. Certo, oggi noi abbiamo infiniti dettagli sul piano generale di costruzione degli esseri<br />

viventi, abbiamo tutti i dati genetici che Darwin non aveva, eppure il ragionamento che ne è alla<br />

base poteva essere evidente anche 200 anni fa. Buffon e più compiutamente Charles Lyell, avevano<br />

già dimostrato che la Terra era più antica di quanto non affermassero le Sacre Scritture, e lo stesso<br />

Buffon si era posto il problema se il cavallo e l’asino non discendessero da un antenato comune,<br />

concludendo tuttavia negativamente 65 . In effetti, per i sociologi della scienza, per i sostenitori<br />

64 K. Popper. Unended quest. An intellectual autobiography. William Collins Sons & Co, Glasgow,<br />

1976. “I have come to the conclusion that Darwinism is not a testable scientific theory, but a<br />

metaphysical research program.” p 168. Nella nota 242 precisa che ha usato il termine<br />

“metaphysical because nonfalsifiable”. Per i limiti di questo approccio, vedi anche prima parte.<br />

65 Buffon nella sua Histoire Naturelle ha un capitolo famoso in cui solleva il problema della<br />

parentela tra asino e cavallo. Vedi anche: F.Jacob & A. Langaney: Genèse et actualité de la theorie<br />

de l’evolution. La Recherche 296:18-25, 1997<br />

53


dell’importanza dell’influenza delle credenze sociali-filosofico-religiose sulle teorie scientifiche, la<br />

teoria dell’evoluzione è un vero cavallo di battaglia.<br />

In effetti, quando Darwin espose la sua teoria, aggiungendo a ciò che era già noto le sue<br />

osservazioni raccolte nel lungo viaggio intorno al mondo col Beagle, tra cui sono famose quelle<br />

sulla fauna delle isole Galapagos che erano isolate dal continente americano e su cui vivevano<br />

specie simili ma non identiche a quelle del continente, poteva solo far notare la coincidenza ed<br />

invocare il criterio della semplicità. Ma cosa era più semplice, postulare un enorme complesso di<br />

reazioni e passaggi mossi da leggi e regole che al momento erano sconosciute e difficilmente<br />

immaginabili, oppure rifugiarsi in un intervento esterno ? Ai creazionisti dell’epoca, pronti a<br />

suggerire che l’unità generale dei viventi era ovviamente attendibile perché Dio creava tutte le<br />

specie secondo lo stesso schema generale e che la presenza di fossili di specie scomparse era<br />

comunque spiegabile con successive e ripetute ondate creative, era difficile rispondere. L’unica<br />

spiegazione dell’improvvisa diffusione della teoria evolutiva sta nel fatto che il mondo era maturo<br />

per preferire risposte che eliminavano interventi esterni nella vita di ogni giorno. Se gli astri si<br />

muovevano da soli secondo regole semplici e belle, perché non potevano farlo anche i viventi?<br />

L’evoluzione è<br />

Può essere utile comunque, senza entrare nei dettagli, mostrare quello che è il quadro attuale delle<br />

conoscenze sui meccanismi evolutivi, da cui poi trarre alcune conclusioni.<br />

In primo luogo bisogna chiarire che l’evoluzione è, come recita la formula dei tribunali americani,<br />

al di là di ogni ragionevole dubbio. Quello su cui si discute è come essa sia avvenuta nei dettagli.<br />

Pertanto molte conclusioni attuali potranno venir modificate, e anche dati apparentemente chiari<br />

potranno rivelarsi errati. Quello che oggi si ritiene abbastanza valido è 66 : che circa 3 miliardi e<br />

mezzo di anni fa si sono formate le prime cellule. Che da queste cellule sono poi derivate tutte le<br />

altre forme viventi, anche se nessuno potrebbe giurare sul fatto che la cellula si sia formata una<br />

volta sola o più volte. Che alla base della prima cellula e successivamente di tutte le altre c’era un<br />

acido nucleico, fosse esso il DNA o l’RNA. Che il DNA viene in genere ricopiato con esattezza, ma<br />

che possono talora intercorrere cambiamenti piccoli (mutazioni) o grandi (macromutazioni) che<br />

vanno dal cambio di un singolo nucleotide alla duplicazione dell’intero genoma, passando per le<br />

grosse delezioni o inserzioni, e i rimaneggiamenti cromosomici. Che il numero delle specie viventi<br />

è enorme, ma che quello delle specie estinte è ben maggiore.<br />

Se si va nei dettagli, vi è un grande numero di posizioni che sono suscettibili in futuro di smentita.<br />

Prendiamo per esempio il problema dell’orologio molecolare. Essenzialmente, per orologio<br />

molecolare si intende il fatto che ci si aspetta che la quantità di mutazioni riscontrabili è funzione<br />

lineare del tempo che separa le due specie studiate. Questo concetto viene utilizzato per datare il<br />

tempo passato dal momento in cui due specie si sono separate dall’antenato comune. In realtà, non è<br />

affatto detto che queste mutazioni insorgano sempre con la stessa frequenza nelle varie ere<br />

geologiche; inoltre se anche fosse vero che avvengono tutte con la stessa frequenza, il loro valore<br />

assoluto potrebbe non essere quello che noi pensiamo attualmente. I sequenziamenti massivi di<br />

66 Vedi ad esempio: E. Szathmary & J. Maynard Smith. The major transitions in evolution.<br />

W.H.Freeman, Spektrum, 1995. In questo libro gli autori fanno una storia dell’evoluzione<br />

distinguendo otto transizioni maggiori. Le stesse conclusioni sono esposte in maniera più concisa in<br />

E. Szathmary & J Maynard Smith: The major evolutionary transitions. Nature 374:227-232, 1995.<br />

Degli stessi autori anche: The origins of life: from the birth of life to the origin of language. Oxford<br />

University Press, Oxford, 1999. Vedi anche l’intervista a J. Maynard Smith in: La Recherche<br />

296:32-35, 1997.<br />

54


genomi di varie specie potranno modificare i dettagli, senza scuotere minimamente la nostra fiducia<br />

nell’evoluzione. Un problema analogo si verifica quando si cerca di datare la separazione delle<br />

varie popolazioni umane o si tenta di risalire alla nascita dell’Homo sapiens. Le stime attuali<br />

dell’Eva mitocondriale o dell’Adamo genetico si basano su varie assunzioni, compresa quella del<br />

tasso costante di mutazioni, che potrebbero anche essere notevolmente errate. Non per questo la<br />

teoria dell’evoluzione ne verrebbe sminuita.<br />

Come funziona l'evoluzione<br />

Esula dallo scopo di questo libro elencare tutte le teorie e i dati che supportano l'una o l'altra tesi sui<br />

meccanismi che stanno alla base dell’evoluzione biologica. Quello che è importante è trarre delle<br />

conseguenze per quello che può interessare la rilevanza degli studi dell’evoluzione sul destino<br />

dell'uomo (che è il tema principale di questo libro).<br />

Il concetto di selezione naturale o di natura che seleziona fu formulato da Darwin e da Wallace. Si<br />

dice che Darwin l’abbia derivato dalla selezione artificiale che veniva praticata dagli allevatori, che<br />

erano stati in grado di ottenere razze con caratteristiche più interessanti commercialmente. Tuttavia<br />

Darwin non conosceva i lavori di Mendel, che vennero pubblicati solo nel 1865, alcuni anni dopo il<br />

suo primo libro. Sembra poi che la scelta di isolarsi dalla vita sociale dopo la morte della figlia<br />

Annie gli abbia impedito di venirne a conoscenza 67 . Nel secolo successivo, l'unione tra genetica,<br />

paleontologia, zoologia e geologia fece nascere quella che verrà chiamato Neodarwinismo o la<br />

Grande Sintesi.<br />

Essenzialmente, quello che rimane valido ancor oggi può essere così formulato: i nostri geni sono<br />

fatti di una lunga sequenza di nucleotidi, nella quale insorgono mutazioni con una frequenza<br />

abbastanza bassa. La maggior parte di queste mutazioni, che sono casuali, diminuisce la fitness<br />

dell'individuo, ma alcune di esse possono dare origine a un vantaggio per l'organismo che verrà<br />

selezionato positivamente.<br />

In altre parole, la natura gioca alla roulette, ma è lei a dettare le regole. Le regole sono: io gioco e<br />

perdo quasi sempre, tanto quello che perdo non ha per me alcun interesse, è carta straccia, ma<br />

quando vinco immagazzino la vincita e riparto da zero: quello che vinco è moneta sonante che<br />

comunque non metto più in gioco e che pertanto non posso più perdere. Con queste regole, la natura<br />

non può perdere, è solo questione di tempo perché accumuli grandi vincite.<br />

Il concetto di selezione funziona benissimo a livello cellulare. Si tratta di un potente approccio che<br />

viene utilizzato per esperimenti di ogni giorno. Ad esempio, se si vuole trasfettare un plasmide in<br />

una cellula batterica, si inserisce nel plasmide anche un marker selettivo, ad esempio la resistenza<br />

all’ampicillina. Questo perché il plasmide non trasforma se non una piccola percentuale delle<br />

cellule con cui viene a contatto e noi non sapremmo come distinguerle da quelle non trasformate<br />

che sono la maggioranza. Invece, se sottoponiamo la miscela di cellule ad un mezzo selettivo, in<br />

questo caso l’ampicillina, solamente le cellule trasformate potranno sopravvivere.<br />

Questo vale anche per le cellule di mammifero, che usano marker selettivi come la resistenza alla<br />

neomicina. Anche in questo caso il principio è lo stesso: solo le cellule che sono state trasformate<br />

67 Daniel Dennett asserisce che una copia del lavoro di Mendel giaceva non letta sulla scrivania di<br />

Darwin: vedi D. Dennett: Appraising grace: what evolutionary good is God. The Sciences,<br />

January/February 1997, p. 39-45. Citazione a p. 41. Ignoro su quali documenti Dennett basi su<br />

questa affermazione. Sembra invece certo che il lavoro di Mendel fosse disponibile presso la Royal<br />

Society.<br />

55


dal plasmide contenente la resistenza a questo antibiotico potranno sopravvivere in un terreno di<br />

cultura contenente neomicina. Pertanto, a livello delle singole cellule, il concetto di selezione non è<br />

solamente un concetto astratto ma fornisce effettivamente ogni giorno delle verifiche e delle<br />

predizioni utilissime.<br />

Più difficile è invece verificare l’intervento della selezione a livello delle specie. I problemi sono<br />

due: il primo è che a livello di organismi pluricellulari, la formazione di una specie richiede<br />

comunque un tempo assai lungo, e visto che la teoria dell’evoluzione ha poco più di cent’anni, non<br />

è pensabile dirigere o anche solo constatare la formazione di nuove specie. Ed è ancora più difficile<br />

fare predizioni per il futuro, cioè dire faccio un esperimento in cui otterrò questo e questo, come<br />

dovrebbe fare ogni teoria che si rispetti. Il secondo problema riguarda il fatto che l’apparire di un<br />

fenotipo nuovo, non è sempre la conferma che un cambio genetico sia avvenuto. Ad esempio, se<br />

trasferisco in Nepal degli emiliani che hanno sempre vissuto in pianura, noterò che i loro figli<br />

avranno livelli elevati di ematocrito, ma non sono per nulla certo che questo fenotipo sia su base<br />

genetica. Così come se noto che tutti i polinesiani sono abilissimi nel nuoto, in maniera<br />

statisticamente significativa quando confrontati con gli sherpa, e che è così da generazioni, non<br />

concludo che la differenza sia su base genetica. Un carattere può venir acquisito da ogni nuovo<br />

nato, in risposta al fatto che essi rispondono alla stessa pressione selettiva, senza che<br />

necessariamente debba avere una concomitante modificazione genetica. Pertanto, quando notiamo<br />

che in seguito ad una pressione selettiva avviene una modificazione fenotipica non possiamo esser<br />

certi che questa sia dovuta ad un cambio genetico 68 .<br />

68 Queste ricerche richiedono un tempo notevole, e molti scienziati non ci si imbarcano per il<br />

semplice motivo che o sanno che non ne vedrebbero comunque la fine o pensano che non avranno<br />

fondi sufficienti per seguire la ricerca fino in fondo o perché i sistemi di avanzamento di carriera<br />

richiedono pubblicazioni frequenti. Tuttavia le cose non rimarranno sempre così. Vi sono pertanto<br />

esempi in cui si sono avviate ricerche a lungo termine. Richard Lenski ad esempio lavora con<br />

batteri originariamente identici dal punto di vista genetico e li analizza dopo numerose generazioni<br />

trascorse in diversi tipi di terreno di cultura. In questo modo, dal momento che i batteri erano<br />

derivati tutti da un solo battere (sono cioè clonali), le variazioni che derivano sono tutte acquisite<br />

attraverso l’evoluzione. Vedi T. Appenzeller: Test tube evolution catches time in a bottle. Science<br />

284:2108-2110, 1999.<br />

Nei testi scolastici è riportato il caso delle farfalle di Londra (peppered moth Biston betularia), che<br />

erano diventate scure perché così meglio si confondevano nello smog di Londra (i primi esemplati<br />

scuri vennero notate fin dal diciannovesimo secolo), e che dopo la metà del Novecento<br />

cominciarono a tornare chiare perché gli inglesi avevano migliorato il loro inquinamento. Sempre a<br />

Londra vi sarebbero ormai differenze genetiche nette tra le zanzare che hanno colonizzato la<br />

metropolitana cent’anni or sono e le loro cugine in superficie (Vedi K Byrne & R.A. Nichols: Culex<br />

pipiens in London Underground tunnels: differentiation between surface and subterranean<br />

populations. Heredity 82:7-15, 1999). Nel campo degli organismi multicellulari, le cose sono molto<br />

difficili dal punto di vista organizzativo. Uno dei casi più interessanti è stato riportato nel 1997, a<br />

vent’anni dall’inizio dell’esperimento. Lucertole di un’isola delle Bahamas sono state traslocate in<br />

piccole isole in cui prima erano assenti e hanno mostrato cambi chiaramente adattativi. Ad esempio,<br />

le gambe delle discendenti sono più corte di quelle delle lucertole originarie, e questo è dovuto alla<br />

mancanza di alberi nelle nuove isole: gambe corte infatti danno maggior agilità ma minor velocità.<br />

Non è chiaro tuttavia se questi cambiamenti siano su base ereditaria o appunto siano acquisiti da<br />

ogni nuovo organismo che deve affrontare lo stesso problema. Vedi: J.B. Losos et al: Adaptive<br />

differentaiationfollowing experimental island colonization in Anolis lizards.Nature 387: 70-73,<br />

1997; T.J. Case: Natural selection out on a limb. Nature 387:15-16, 1997; V Morell: Catching<br />

lizards in the act of adapting. Science 276:682-683, 1997.<br />

56


La teoria classica di mutazioni casuali su cui poi agisce la selezione è stata ricavata oltre<br />

cinquant’anni fa sulla base di vari esperimenti, tra cui quelli di Max Delbruck e Salvatore Luria.<br />

Secondo quest’ipotesi, se si fa crescere per varie generazioni la progenie di un batterio che<br />

successivamente viene esposta ad un virus, si formeranno colonie di batteri resistenti in maniera<br />

uniforme in tutte le piastre se la mutazione viene stimolata in seguito all’esposizione al virus (cioè<br />

se il meccanismo selettivo ha una certa responsabilità nella formazione della mutazione: mutazione<br />

diretta o immunità su base ereditaria acquisita), mentre saranno presenti solo in alcune piastre se la<br />

mutazione è avvenuta in precedenza all’esposizione (quelle che avevano avuto la mutazione in una<br />

qualsiasi delle generazioni, prima che i batteri venissero esposti al virus, daranno origine a molte<br />

colonie sulla stessa piastra). Quello che Delbruck e Luria videro fu che le colonie resistenti non<br />

erano distribuite in maniera uniforme ma tendevano ad essere presenti solo in alcune piastre, il che<br />

supportava il secondo meccanismo 69 .<br />

Vi sono altre caratteristiche su cui si discute: queste mutazioni sono “casuali” e si potrebbe supporre<br />

che provochino mutazioni modeste. La natura fa puntate di piccole dimensioni e quindi la sua<br />

vincita è di piccola entità, e così l'aumento della ricchezza è lento e graduale. Si parla pertanto di<br />

gradualismo adattativo. Vi sono però dei problemi, uno di natura teorica e una di natura<br />

sperimentale, che ci suggeriscono che in certe circostanze la natura può anche sbancare il Casinò. Il<br />

primo problema è che non si capisce bene come in molte situazioni un piccolo vantaggio possa<br />

essere selezionato. Una piccola protuberanza, che potrebbe poi evolversi in un arto ad esempio, non<br />

dovrebbe dare nessun vantaggio selettivo e pertanto non si capisce come potrebbe essere<br />

selezionata. Il secondo deriva invece dallo studio dei fossili. Si assiste, in certe occasioni, ad un<br />

improvviso sviluppo di nuove specie con caratteristiche completamente nuove, tali da far supporre<br />

che esse sono sorte in maniera improvvisa, assai rapida e forse addirittura senza forme intermedie.<br />

Chi ha notato questo fenomeno tende così a rigettare il gradualismo, e dire che l'evoluzione è<br />

discontinua, ci sono momenti in cui agisce pigramente e momenti in cui si dà da fare assai. Questa<br />

teoria, detta degli equilibri punteggiati (“punctuated equilibrium”), sostiene che, per l’appunto,<br />

analizzando l’insieme dei fossili disponibili, spesso non riscontriamo un accumulo graduale di<br />

variazioni morfologiche, bensì una vera e propria esplosione di nuove forme in certi periodi e di<br />

relativa stasi in altri 70 . L’esplosione Cambriana è spesso citata come esempio: come risulta dalla<br />

documentazione fossile disponibile, circa 550 milioni di anni fa, nel periodo denominato<br />

Cambriano, apparvero quasi simultaneamente tutti i piani fondamentali di organizzazione degli<br />

animali attuali. Questo sembrerebbe contraddire un accumulo graduale di variazioni. Responsabili<br />

della comparsa di una tale elevata diversità potrebbero anche essere fattori climatici o fisici<br />

straordinari peraltro postulabili ma non facilmente dimostrabili. Alternativamente, vi potrebbe<br />

69 Il classico lavoro di Luria e Delbruck fu pubblicato nel 1943 (Genetics 28:491-511, 1943). Di<br />

recente, Cairns e collaboratori (J. Cairns et al: The origin of mutant. Nature 335:142-145, 1988) e<br />

altri ricercatori hanno sollevato la possibilità che in certi casi certe mutazioni nei batteri e nei lieviti<br />

possono insorgere a frequenze molto più elevate di quelle che dovrebbe essere quelle casuali,<br />

quando i fenotipi mutanti sono vantaggiosi. Questo, secondo alcuni, implicherebbe la possibilità che<br />

eventi ambientali possano “dirigere” direttamente la formazione di nuovi fenotipi agendo sul<br />

genotipo: si sarebbe di fronte ad un ritorno del lamarckismo. Il vero significato degli esperimenti di<br />

questi scienziati è controverso (vedi ad esempio: R.E. Lenski & J. Miller: The directed mutation<br />

controversy and neo-darwinism. Science 269:188-194, 1993). La recente scoperta di DNA<br />

polimerasi “error prone” (che cioè possono commettere degli errori con una certa frequenza<br />

aumentando quindi la frequenza dell’insorgenza delle mutazioni) che verrebbero attivate in seguito<br />

a stress potrebbe almeno in parte spiegare tale fenomeno.<br />

70 N. Eldredge & S.J. Gould: in Models in Paleobiology (editor T.J.M. Schopf). Freeman, Cooper,<br />

San Francisco, 1972; p. 82-115.<br />

57


essere stato un lento accumulo di variazioni in periodo precambriano, di cui però per ragioni che ci<br />

sfuggono, non sono rimaste prove fossili.<br />

A distanza di quasi trent’anni dalla sua formulazione, questa ipotesi ha acquistato un certo peso 71 ,<br />

non solo su base paleontologica o evoluzionistica in senso proprio, ma anche sulla base dei risultati<br />

della genetica dello sviluppo. Gli studi sulle mutazioni omeotiche farebbero in effetti pensare che<br />

semplici mutazioni possono gravemente modificare il piano strutturale di un organismo e quindi far<br />

fare di colpo un grande balzo in avanti dal punto di vista morfologico. Questa possibilità era stata<br />

avanzata già oltre 60 anni fa, specialmente dal biologo Richard Goldschmidt, che aveva suggerito<br />

che mutazioni che colpivano l’organismo in una precoce fase dello sviluppo embrionario, potevano<br />

avere delle notevoli conseguenze morfologiche e strutturali. Egli aveva parlato di “mostri<br />

promettenti”, cioè di organismi molto diversi da quelli della loro specie, la maggior parte dei quali<br />

destinati all’oblio, ma con il potenziale in rari casi di trasmettere un notevole grado di<br />

modificazione strutturale. L'analisi dei genomi che vengono accumulati ormai con un ritmo elevato<br />

e i risultati nello studio dello sviluppo embrionario (vedi) hanno fornito alcune ipotesi plausibili su<br />

come ciò possa avvenire. Inoltre, assai recentemente è stato evidenziato un fenomeno<br />

completamente inatteso: una mutazione in un gene che codifica per una proteina denominata “heat<br />

shock protein 90” sembra in grado di provocare uno spettro di difetti nello sviluppo della<br />

Drosophila, i cui membri affetti peraltro risultano fertili 72 . Sebbene la base di questo fenomeno non<br />

sia compresa, esso confermerebbe che mutazioni che provocano grandi fenotipi, che possono essere<br />

poi tramandati geneticamente, siano effettivamente possibili.<br />

Un altro dibattito concerne l’oggetto della selezione. Qual è il bersaglio della selezione: il singolo<br />

gene, il genoma nel suo insieme, i gameti, l’organismo individuale, le famiglie, i gruppi, la specie<br />

nel suo insieme ? 73 . Un'altra variazione sul tema riguarda il peso relativo di caso e selezione.<br />

Variazioni vantaggiose possono essere selezionate, ma le variazioni neutre non dovrebbero esserlo.<br />

Tuttavia, lo studio dei genomi ha mostrato come in realtà ci siano un sacco di mutazioni che non<br />

sembrano associate ad alcun vantaggio (polimorfismi del DNA). La deriva genetica può però<br />

modificare la frequenza di queste mutazioni: la deriva genetica è un nome altisonante per dire il<br />

caso. Questa osservazione è stata suggerita da Mooto Kimura 74 e altri. La sua teoria neutralista<br />

sottolinea come il caso possa produrre una variazione di frequenze nella popolazione in assenza di<br />

selezione naturale.<br />

Il quadro finale che si ha dei meccanismi evolutivi è il seguente: l’evoluzione è ovviamente una<br />

certezza, ma i suoi meccanismi non lo sono. Tutte le ipotesi che sono state fatte a questo proposito<br />

non sono mutualmente esclusive, ma, probabilmente, i meccanismi che essi invocano sono coesistiti<br />

nel tempo, contribuendo in maniera più o meno rilevante e a seconda delle varie epoche, alla<br />

formazione della diversità. Non esiste presumibilmente un modo solo né vi sono delle regole rigide<br />

secondo cui gli organismi si sono evoluti. Anche la necessità dell’isolamento per la formazione di<br />

una specie potrebbe non essere un presupposto indispensabile, dal momento che vi sono modelli<br />

che consentono la formazione di una specie da una popolazione omogenea anche senza<br />

71 S.J. Gould & N. Eldredge: Punctuated equilibrium comes of age. Nature 366:223-227, 1993<br />

72 S.L. Rutherford & Lindquist S. Hsp90 as a capacitor for morphological evolution. Nature<br />

396:336-342, 1998<br />

73 E. Mayr: The objects of selection. Proc Natl Acad Sci USA 94:2091-2094, 1997<br />

74 M. Kimura. The neutral theory of molecular evolution. Cambridge University Press, Cambridge,<br />

1983. “Contrariamente alla teoria sintetica tradizionale, l’ipotesi neutralista afferma che la<br />

grande maggioranza delle sostituzioni dei mutanti si effettua non per selezione darwiniana positiva<br />

ma per fissazione casuale di mutanti neutri o quasi neutri dal punto di vista selettivo”. Citato in J.<br />

Arnould: La conspiration du hasard et des contraintes. La Recherche 296:100-104, 1997.<br />

58


isolamento 75 . Sebbene i meccanismi non siano chiari, abbiamo tuttavia un bagaglio enorme di dati<br />

che si inquadrano bene nella teoria dell’evoluzione, sia di natura paleontologica che, più<br />

recentemente, di natura genetica.<br />

La genetica dell’evoluzione<br />

Lo studio della genetica ha fornito un nuovo approccio allo studio dell’evoluzione e ha chiarito<br />

meglio la base su cui il tempo ha lavorato per produrre tutta la varietà di specie che conosciamo. Il<br />

tempo è il fattore basilare di tutto, ma bisogna tener conto anche dello spazio. Il principio generale è<br />

che un cambio “vantaggioso” può venir conservato, ma che la sua occorrenza è assai rara. Pertanto<br />

non stupisce che il primo vivente sia comparso sulla terra circa tre miliardi di anni fa. Si suppone<br />

che la vita sia stata preceduta da una fase prebiotica, in cui molecole organiche abbiano cominciato<br />

a formarsi in situazioni ambientali che attualmente non sono più presenti sulla superficie della terra.<br />

Dopo la formazione dei primi viventi monocellulari in grado di immagazzinare le istruzioni<br />

necessarie in un acido nucleico, l’impianto generale non è più stato modificato: tutte le forme<br />

viventi hanno come base un acido nucleico. Tutti i cambiamenti successivi sono avvenuti mediante<br />

modificazione delle istruzioni in esse contenute. Alcune di queste modifiche del programma<br />

consentivano una maggior adattabilità all’ambiente dell’organismo che ne era portatore.<br />

Negli ultimi dieci anni si è avuto un aumento tremendo nelle sequenze di DNA di numerosi<br />

organismi. Il genoma di una ventina di microrganismi, incluso il lievito (che è il primo tra gli<br />

eucarioti, cioè la prima cellula con nucleo) è stata completamente sequenziato, quello del primo<br />

organismo multicellulare, il C. elegans, un nematode, è stato completato, e così pure quello della<br />

Drosophila che è uno degli organismi preferiti dai genetisti. Il genoma dell’uomo sta per essere<br />

terminato anch’esso. Il confronto di tutte queste sequenze ottenute da organismi così lontani nella<br />

scala filogenetica ha mostrato chiaramente come l’evoluzione ha agito tramite conservazione e<br />

modifiche. L’omologo di un gene umano è spesso rintracciabile nel lievito, nel C. elegans e nella<br />

Drosophila, quasi sempre nel topo e praticamente sempre nelle scimmie antropomorfe. Vi è una<br />

strettissima relazione tra la lontananza di due specie e le similarità nei loro genomi. A livello di<br />

mammiferi, è difficile trovare un gene il cui corrispettivo (il gene omologo o come si dice più<br />

propriamente il suo ortologo) non sia presente in tutte le specie, anche se il livello di omologia è in<br />

genere in buona relazione con il tempo trascorso dalla separazione intercorsa tra le due specie, come<br />

determinato mediante indagini indipendenti, quali quelle di natura geologica, morfologica o altre. In<br />

pratica, più le specie sono simili, più lo sono i loro geni.<br />

La precisione dell’analisi è tale che oggi si possono sequenziare geni di diverse specie e stabilire un<br />

albero genealogico che prescinde da ogni ulteriore dato: generalmente si ottengono risultati che<br />

sono compatibili con le conoscenze ottenute con altre tecniche o approcci, ma talora si hanno delle<br />

sorprese. Anche se è presumibile che l’analisi globale dei dati, genetici, paleontologici e geologici<br />

possa dare una visione migliore di quella ottenibile con una singola tecnica, tuttavia sembra che la<br />

precisione dei dati ottenuti attraverso le sequenze nucleotidiche possa essere quella di riferimento<br />

nella maggior parte dei casi.<br />

Questa conservazione delle istruzioni non può far passare in secondo piano i cambiamenti che sono<br />

avvenuti. Veramente l’immagine di Jacob dell’evoluzione come un bricoleur è abbastanza<br />

rappresentativa. Partendo da un’istruzione che aveva mostrato un certo interesse sul mercato della<br />

natura, il tempo ha consentito un enorme numero di variazioni sul tema, di cui possiamo elencarne<br />

75 A.S. Kondrashov & F.A. Kondrashov: Interactions among quantitative traits in the course of<br />

sympatric speciation. Nature 400:351-354, 1999; U. Dieckmann & M. Doebeli: On the origin of<br />

species by sympatric speciation. Nature 400:354-357, 1999<br />

59


alcune: cambi di singoli nucleotidi, piccole inserzioni o delezioni di nucleotidi, duplicazioni di<br />

pezzi del singolo gene, duplicazioni dell’intero gene con successive diversificazioni delle due<br />

istruzioni, duplicazioni di interi genomi, cambi nel pattern di espressione del gene (cioè nei modi e<br />

nei tempi in cui un gene produce una proteina), mescolamento di pezzi di geni tra loro per dare<br />

origine a nuovi geni con proprietà diverse dai geni che hanno contribuito a formarlo, ecc. Tutto<br />

questo si traduce essenzialmente nella produzione di nuovi set di istruzioni, che ampliano<br />

notevolmente le loro possibilità, ma che non perdono tutte quelle proprietà che avevano raggiunto<br />

nei milioni di anni precedenti.<br />

Può essere interessante riprendere ancora l’esempio dell’occhio che abbiamo trattato nel capitolo<br />

precedente a proposito dello sviluppo embrionale. L’importanza di questo genere di studi sia in<br />

evoluzione che nello sviluppo è stata recentemente riconosciuta tanto che è stato coniato il termine<br />

“evo-devo” 76 . Darwin conosceva perfettamente le argomentazioni di Paley, anche se, per un<br />

naturalista come lui, non ci sarebbe stato bisogno di leggerlo per venir catturati dalla complessità di<br />

questo organo. In effetti, Darwin nel suo libro “L’origine delle specie” dedica un intero capitolo<br />

all’occhio, ammettendo che sembrerebbe a prima vista impossibile che un organo del genere si sia<br />

formato a caso. Ora, l’occhio assume forme molto diverse a seconda della specie che viene<br />

esaminata. In particolare, l’occhio dei mammiferi, uomo incluso, è molto diverso da quello della<br />

Drosophila, tanto che sino a poco fa, l’opinione preponderante degli studiosi era che essi si fossero<br />

evoluti indipendentemente. Tuttavia nel 1994, come abbiamo visto, il gruppo di Gehring ha isolato<br />

il gene che presiede alla formazione dell’occhio della Drosophila e ha mostrato che è simile ad un<br />

gene che svolge una funzione analoga nel topo e nell’uomo. Oltre a dimostrare che intere strutture<br />

sono sotto il controllo di un singolo gene, questa scoperta suggerisce che gli occhi delle varie specie<br />

non si sono evoluti indipendentemente 77 . Al contrario fa proprio pensare che siamo davanti ad un<br />

chiaro esempio di bricolage, in cui la natura, assai parsimoniosa, ha pensato bene di utilizzare in<br />

maniera diversa una stessa molecola proteica. Pertanto l’ipotesi che da un occhio assai primitivo, in<br />

cui il gene eyeless/small eye/Pax6 era già attivo, si siano evoluti tutti i vari tipi di occhi, viene oggi<br />

preferita, e quest’ipotesi è ulteriormente rafforzata dal fatto che tutti i metazoi utilizzano lo stesso<br />

pigmento visuale, la rodopsina. D’altronde lo stesso Darwin ammetteva che la comparsa di un<br />

occhio primitivo dovesse essere un evento assai raro e quindi non era facile pensare che questa<br />

struttura fosse insorta numerose volte in maniera indipendente. E’ assai probabile che studi ulteriori<br />

riveleranno numerosi altri geni simili che sono attivi nella formazione dell’occhio in entrambe le<br />

specie.<br />

Il quadro che ne deriva anche in questo caso è di un processo che agisce da solo, senza il bisogno di<br />

intelligenze che intervengano per correggere l’andamento degli eventi. Per fare accettare questa<br />

idea, è tuttavia necessario qualche discussione più approfondita e mostrare come essa debba essere<br />

mantenuta, anche se non tutto è descritto in maniera soddisfacente.<br />

La formazione del primo vivente, ad esempio, ci sfugge. Si potrebbe pensare che tale ipotesi possa<br />

essere testata calcolando la probabilità della formazione di molecole organiche da molecole<br />

inorganiche o della trasformazione di una specie da un’altra. Ma ora come ora, le varie ipotesi,<br />

compresa quella che vede l’RNA come primo attore (“RNA world”), non sono granché.<br />

Un’obiezione rilevante riguarda il fatto che, data la stima attuale dell’età della terra, non vi è stato<br />

tempo sufficiente perché l’evoluzione sia avvenuta. Nulla di metafisico in questa obiezione, se<br />

veramente ci fosse una discrepanza eccessiva tra tempo e probabilità, si potrebbe pensare che vi<br />

sono leggi a noi ancora ignote da scoprire o addirittura, come hanno fatto L. E. Orgel, F. H. Crick e<br />

76 Da “evolution” e “development”; quest’ultimo significa appunto sviluppo<br />

77 W. Gehring & K. Ikeo: Pax 6. Mastering eye morphogenesis and eye evolution. Trends Genet<br />

15:371-377, 1999<br />

60


altri, postulare che i primi viventi sono venuti dallo spazio (panspermia) 78 . Ma non sono certo che<br />

chi ipotizza qualche tendenza all’autorganizzazione della materia, che gli scienziati oggi negano<br />

con forza, debba essere accusato di irrazionalità. Un ottimo professore d’italiano faceva notare<br />

come postulare l’evoluzione a caso, equivalesse a sostenere di poter ottenere la Divina Commedia<br />

buttando per aria le lettere dell’alfabeto.<br />

Noi conosciamo con una certa approssimazione la frequenza di mutazioni negli organismi attuali,<br />

che sono dotati della capacità di riparare lesioni al DNA. Il problema è che la frequenza delle<br />

mutazioni è solo uno dei fattori che provocano la formazione di una specie. Tutti gli altri dati ci<br />

sono ignoti, la forza della selezione, le modificazioni su cui agisce più o meno, l’isolamento cui<br />

sono andate incontro le specie, le condizioni di partenza, e così via. Anche a livello di molecole<br />

prebiotiche, di come abbiano potuto formarsi e associarsi, non sappiamo nulla o comunque<br />

dobbiamo ricorrere ad assunzioni che hanno una base modesta. Pertanto il problema non è<br />

affrontabile oggi come oggi. A chi pensa comunque che siano troppo pochi gli anni trascorsi, si<br />

deve ricordare che in realtà la probabilità non va riferita solamente alla Terra. Potrebbe essere che<br />

in effetti la comparsa della vita sia una cosa estremamente rara e che la Terra sia l’unico pianeta su<br />

cui essa ha potuto verificarsi e quindi bisogna tener conto che il tempo ha potuto agire non solo sul<br />

nostro pianeta ma su un’infinità di mondi e che se oggi siamo qui a parlarne sulla Terra è per una<br />

forma debole del principio antropico.<br />

L’evoluzione umana<br />

E’ probabile che il motivo principale per cui Darwin esitò a pubblicare le sue teorie sull’evoluzione,<br />

fino a quando non si sentì costretto a farlo dalla famosa lettera di Wallace, fu per gli aspetti che<br />

aveva la sua teoria sull’evoluzione dell’uomo. Come noto, non toccò il problema dell’evoluzione<br />

nel suo libro del 1859, ma lo affrontò solo 12 anni dopo nel suo “The descent of man” 79 . Se le<br />

preoccupazioni dei salotti possono essere ben riassunte nella famosa espressione “Speriamo non sia<br />

vero, ma se lo fosse, che almeno non lo si sappia in giro”, le obiezioni di profondo significato sono<br />

già tutte evidenti nel famoso dibattito tra Thomas Huxley e il vescovo Samuel Wilbeforce.<br />

Che l’uomo non faccia eccezione alla regole generale dell’evoluzione da altre forme è oggi<br />

ampiamente accettato da tutti, anche dalla Chiesa Cattolica che nel nostro mondo occidentale ne è<br />

stata la più fiera avversaria. Recentemente infatti, Papa Giovanni Paolo II ha riconosciuto che<br />

l’evoluzione è più di una semplice ipotesi. E’ chiaro ovviamente che il problema per i cattolici non<br />

riguarda l’evoluzione delle varie specie, bensì solamente quella dell’Homo sapiens. Va detto chiaro<br />

che quando il Papa accetta l’evoluzione mantiene tuttavia che qualcosa di assolutamente diverso è<br />

responsabile della natura umana e delle caratteristiche che lo distinguono fondamentalmente dagli<br />

altri animali.<br />

78 Francis Crick ha anche pubblicato un libro su questo tema. F. H. Crick. L’origine della vita,<br />

Garzanti, Milano, 1983 (l’edizione inglese è del 1981). Prima di loro comunque la panspermia era<br />

stata già proposta da Svante Arrhenius nel 1906. Anche Fred Hoyle, uno dei sostenitori dello<br />

steady-state theory che postulava la creazione continua di materia, ha pubblicato un libro su questo<br />

argomento: F. Hoyle & N.C. Wickramasinghe. Lifecloud. Harper & Row, New York, 1978<br />

79 A questo proposito, Dobzhasnky afferma: “E’ un peccato che il titolo di uno dei più grandi libri<br />

di Darwin sia ‘La Discesa’ invece che ‘L’Ascesa’. L ‘idea della necessità di Dio ed altri pensieri ed<br />

idee che innalzano l’uomo erano sconosciuti ai nostri lontani progenitori. Nacquero, si<br />

svilupparono e si radicarono nell’uomo durante la sua lunga e faticosa ascesa dalla condizione<br />

animale a quella umana”. T. Dobzansky: le domande supreme della biologia. De Donato, Bari,<br />

1969; p. 11.<br />

61


E’ chiaro che l’Homo sapiens è derivato da un antenato comune con le altre scimmie antropomorfe,<br />

l’orango, il gorilla, lo scimpanzé. L’uomo non deriva da queste scimmie antropomorfe, bensì da un<br />

antenato comune, da cui discendono anche queste tre specie. Quali sono le prove di questa comune<br />

derivazione? Esse sono essenzialmente di due tipi, una paleontologica e l’altra genetica.<br />

1. Paleontologia<br />

Nel 1856, pochi anni prima della pubblicazione del libro di Darwin, vennero rinvenute nella valle<br />

del fiume Neander vicino a Dusseldorf, delle ossa umane che apparvero subito agli esperti alquanto<br />

strane: l’interpretazione che se ne diede all’epoca fu che si trattava di ossa di un cosacco deforme<br />

che era finito a morire in quella zona. Solamente più tardi, alla luce della teoria evoluzionistica e<br />

della loro datazione si comprese che si era di fronte alle ossa di un individuo a noi simile che era<br />

vissuto oltre centomila anni prima di noi e che dal luogo dove furono rinvenute è ora noto come<br />

uomo di Neanderthal.<br />

Oggi si conosce un notevole numero di reperti fossili che si pongono in mezzo tra le scimmie<br />

antropomorfe e l’Homo sapiens. Questi reperti riempiono il gap di circa 5 milioni di anni che si<br />

reputa intercorra tra noi e l’ultimo antenato comune con lo scimpanzé, che si ritiene sia la scimmia<br />

antropomorfa più vicina a noi. Parimenti riempiono anche il gap per così dire morfologico tra noi e<br />

lo scimpanzé. In altre parole, i fossili trovati si collocano in un periodo di tempo di 3-4 milioni di<br />

anni e presentano delle caratteristiche che via via si staccano da quelle tipiche delle scimmie e si<br />

avvicinano ad aspetti più chiaramente umani.<br />

Vi è una precauzione da chiarire innanzitutto. Lo studio dei fossili non è per niente facile e questo<br />

spiega come su numerosi punti non ci sia concordia. In primo luogo, un fossile deve essere datato.<br />

Questo può essere fatto mediante criteri geologici o zoologici: il fossile cioè viene riferito allo strato<br />

di escavazione in cui viene trovato. Lo strato viene poi datato indipendentemente e le ossa<br />

assumono automaticamente l’età dello strato in cui furono trovati. La concomitanza dei reperti<br />

umani o umanoidi con ossa di altre specie di cui è conosciuta la datazione contribuisce anch’essa<br />

alla datazione. Inoltre, un fossile può essere datato con metodi intrinseci, che misurano l’età del<br />

reperto sulla base del decadimento di isotopi radioattivi. In secondo luogo, il reperto fossile è<br />

sempre largamente incompleto, specialmente quando si tratta di crani, che sono di grande<br />

importanza per via dei notevoli cambiamenti di forma, struttura e dimensioni che sono associati<br />

all’evoluzione umana. In terzo luogo, se guardiamo alla nostra specie, ci rendiamo conto che le<br />

variazioni tra gli individui sono enormi: non è pertanto sempre facile, disponendo di un pezzettino<br />

d’osso comprendere se siamo davanti ad una nuova specie o se si è di fronte ad una variazione di<br />

una specie nota. Come si vede ce n’è a iosa per giustificare diatribe a ripetizione.<br />

Pur tenendo conto di queste difficoltà, e cercando di riassumere e semplificare, i fossili trovati<br />

possono essere così riassunti. L’H. habilis visse tra i 2.3 e 1.6 milioni di anni fa. L’H. ergaster visse<br />

tra gli 1.9 e gli 1.5 milioni. L’H. rudolfensis visse tra 2.4 e gli 1.8 milioni. L’H. erectus visse tra 1.9<br />

e 0.2 milioni di anni. L’H. neanderthalensis visse tra 250.000 e 40.000 anni fa, ma potrebbe anche<br />

essere assai più vecchio. Quest’ultimo potrebbe essere preceduto dall’H. heidelbergensis, il cui<br />

reperto principale sarebbe vecchio di circa 650.000 mila anni. Questi fossili si sovrappongono<br />

parzialmente con quelli che del genere Australopithecus, di cui gli esemplari più recenti, assegnati<br />

all’A. boisei, sarebbero di poco superiori al milione di anni, un poco più giovani di quelli assegnati<br />

all’A. robustus, mentre i più antichi, come l’A. anamensis giungerebbe a 4 milioni di anni 80 .<br />

L’Australopitechus afarensis, cui appartiene il famoso reperto denominato Lucy, sarebbe di oltre 3<br />

80 M.G. Leakey et al: New four-million-year-old hominid species from Kanapoi and Allia Bay,<br />

Kenia. Nature 376:565-571, 1995; M.G. Leakey: New specimens and confirmation of an early age<br />

of Australopithecus anamensis. Nature 393:62-66, 1998<br />

62


milioni di anni, mentre tra i due e i tre milioni di anni si collocherebbe l’H. africanus. Ancora più<br />

vecchio sarebbe l’Australopithecus ramidus, che supererebbe i 4 milioni di anni 81 .<br />

Il campo è in realtà in velocissima evoluzione, e in questi ultimi vent’anni è stato raccolto un<br />

numero impressionante di reperti. Per certi aspetti in fondo, quanto più ci sono fondi per scavare<br />

tanto più si raccoglieranno reperti. Nel 1999 ad esempio sono stati pubblicati i risultati dei lavori di<br />

scavo in Etiopia orientale, che hanno portato alla luce reperti attribuiti ad una nuova specie l’A.<br />

garhi che risale a circa 2.3 milioni di anni fa, e che mostra interessanti caratteristiche che lo<br />

rendono, secondo alcuni, ma non altri, un possibile candidato come nostro antenato 82 .<br />

Ovviamente, man mano che ci si sposta in avanti nel tempo, i reperti aumentano e le cose sono più<br />

precise. Sembra ad esempio abbastanza assodato che uomini con la nostra stessa struttura<br />

scheletrica, cioè l’H. sapiens sapiens detto anche Cromagnon, si siano imposti in tutto il mondo tra i<br />

40.000 e i 30.000 anni fa, soppiantando completamente e in maniera assai rapida l’H.<br />

neanderthalensis che prima occupava l’Europa e il Medio Oriente. Ma anche su come siano andate<br />

esattamente le cose non vi è consenso. Fino a poco fa la versione ufficiale era che il Cromagnon,<br />

dotato di un vantaggio selettivo, legato presumibilmente ad una sua maggior intelligenza, forse in<br />

relazione all’acquisizione del linguaggio stesso, aveva soppiantato il Neanderthal senza mischiarsi<br />

ad esso. Manifestazione di questa superiorità del Cromagnon era la comparsa circa 30-40.000 anni<br />

fa di un fiorire delle arti e della tecnologia, come riscontrabile nella grotta di Lescaux.<br />

Recentemente tuttavia alcuni ricercatori sostengono che la realtà può essere descritta anche<br />

diversamente, con un lungo medioevo durato fino a 40.000 anni fa, quando, per motivi ignoti, un<br />

rinascimento si affermò sia tra i Neanderthal che tra i Cromagnon. Questa nuova interpretazione,<br />

che tuttavia non spiegherebbe perché i Neanderthal siano stati soppiantati dai Cromagnon, si basa<br />

sulla esatta datazione di alcuni siti, tra cui quelli della Grotte Chauvet e del sito di Arcy-sur-Cure,<br />

entrambi in Francia. Se questi siti risalgono a meno di 38.000 anni, è presumibile che siano opera di<br />

Cromagnon, ma se fossero più vecchie dei 40.000 anni fatidici, dimostrerebbero che i Neanderthal<br />

avevano compiuto da soli il passo verso la manifestazione simbolica artistica e la fabbricazione di<br />

sofisticati manufatti.<br />

Questo problema può sembrare di lana caprina, ma è invece rilevante. Alla base c’è l’ipotesi che il<br />

Cromagnon fosse portatore di un cambiamento genetico che lo rendeva più intelligente del<br />

Neanderthal e che gli consentì di soppiantarlo completamente. Vi sarebbe pertanto una diversità<br />

biologica, non solo culturale: per questo, perché gli mancava qualcosa (presumibilmente nel<br />

cervello), il Neanderthal sarebbe scomparso. Non avrebbe mai potuto competere con il Cromagnon<br />

perché vi era una differenza biologica che non poteva essere colmata dall’imitazione. Alcuni teorici<br />

si sono spinti più in là, suggerendo che questo qualcosa potrebbe essere il linguaggio simbolico 83 .<br />

Questo avrebbe dato ai Cromagnon un vantaggio tale da eliminare la specie inferiore. Addirittura, i<br />

Neanderthal avrebbero potuto rappresentare una specie diversa, non mischiabile col Cromagnon, e<br />

questo spiegherebbe perché i tratti del Neanderthal siano stati persi completamente 84 .<br />

81 T. White et al: Australopithecus ramidus, a new species of early hominid from Aramis, Ethiopia.<br />

Nature 371:306-312, 1994.<br />

82 J. de Heinzelin et al: Environment and behavior of 2.5-million-year-old Bouri hominids. Science<br />

284:625-629, 1999; B. Asfaw et al: Australopithecus garhi: a new species of early hominid from<br />

Ethiopia. Science 284:629-635, 1999; E. Culotta: A new human ancestor. Science 284:572-573,<br />

1999<br />

83 vedi a questo proposito anche il capitolo sul linguaggio<br />

84 Secondo alcuni, i Neanderthal avrebbero convissuto per un certo tempo con i Cromagnon e<br />

questo farebbe supporre che si siano incrociati tra loro. Se questo fosse confermato, bisognerebbe<br />

capire perché i tratti dei Neanderthal (toro sovraorbitario, robustezza dello scheletro, ecc) non siano<br />

63


D’altro canto, obiettano gli altri non vi è nessuna prova che il vantaggio dei Cromagnon non fosse<br />

semplicemente culturale. Qualche decennio dopo, un nuovo avanzamento culturale si impose,<br />

quello legato all’agricoltura. Nessuno tuttavia pensa adesso che esista un gene dell’agricoltura, o<br />

che chi per primo scoprì il modo di “addomesticare” le piante avesse il cervello geneticamente<br />

diverso da quello del vicino (in teoria sarebbe possibile, ma sembra poco probabile). Questo<br />

potrebbe essersi verificato anche nel caso del linguaggio, ed essere questo semplicemente una<br />

caratteristica culturale, ammesso che sia esso ad essere responsabile della vittoria dei Cromagnon.<br />

Pertanto, la conclusione è che lo studio dei fossili ha dimostrato che negli ultimi cinque milioni di<br />

anni hanno vissuto numerosi ominidi i quali hanno caratteristiche fisiche, deducibili dallo studio del<br />

loro scheletro, intermedi tra l’uomo moderno e le scimmie antropomorfe attualmente esistenti quali<br />

le dimensioni del cranio (e quindi il volume del cervello), la stazione eretta, la struttura della mano<br />

e dell’osso ioide che regge il laringe (quest’ultimo è importante perché la capacità di parlare<br />

sembrerebbe dipendente da una modificazione del laringe di cui si possono trovare le tracce nella<br />

conformazione di quest’osso). Che in un dato periodo più di un ominide abbia convissuto e che<br />

alcuni di questi ominidi potrebbero essere i nostri antenati mentre altri hanno costituito dei rami<br />

secchi. Che è possibile entro certi limiti stabilire la datazione dei reperti e che pertanto alcune forme<br />

sono più antiche di altre, che le forme più evolute compaiono più recentemente, e che studi futuri<br />

potranno definire meglio numerosi punti ancora dubbi. Per moltissimi altri problemi invece non c’è<br />

consenso tra gli esperti, il che può derivare da alcuni preconcetti dei ricercatori, ma essenzialmente<br />

significa che i dati attualmente disponibili sono insufficienti per trarre qualsiasi conclusione. Tra i<br />

problemi irrisolti vi sono:<br />

1. Quali di questi fossili sono sulla linea diretta che ha dato origine all’H. sapiens? In realtà non se<br />

ne sa nulla. Decenni fa, quando c’era una grande scarsità di fossili, ogni fossile che si trovava<br />

veniva automaticamente messo come un anello di congiunzione, perché aveva tratti intermedi tra<br />

quelli delle scimmie e quelli dell’uomo. Oggi, con tutti i fossili trovati, si è ormai certi che in una<br />

data epoca co-esistevano varie specie di ominidi, e che molti di queste probabilmente hanno<br />

rappresentato vicoli ciechi. Oggi alcuni ritengono che l’A. africanus, lo stesso A. garhi e l’H.<br />

erectus/ergaster possano essere tra i nostri antenati diretti, ma la cosa è ben lungi dall’essere certa.<br />

2. Ogni volta che compare un nuovo fossile c’è il problema se sia sufficientemente diverso dagli<br />

altri da meritare una nuova specie o se è sufficientemente simile da essere incluso in una specie già<br />

nota.<br />

3. Non è facile fare una relazione tra anatomia quale può essere derivabile dai fossili e<br />

comportamento umano, anche perché non c’è consensus su cosa sia necessario per essere<br />

classificati come uomini. Il fare strumenti è sovente stato ritenuto una cosa fondamentale, ma se<br />

questo può essere vero per le ultime centinaia di migliaia di anni, non è chiaro cosa succedeva<br />

milioni di anni fa. Ad esempio, sembra accertato che l’A. garhi usasse pietre per disarticolare le<br />

membra degli animali uccisi e per tagliarne la carne: vi sono chiari segni rimasti sulle ossa che<br />

indicano che sono stati inferti colpi precisi, forse addirittura per succhiarne il midollo osseo. E’<br />

più riscontrabili nell’uomo moderno. Essi potrebbero essere stati persi perché svantaggiosi.<br />

Un’alternativa potrebbe essere che gli ibridi Cromagnon/Neanderthal non fossero fertili.<br />

Recentemente è stata segnalata l’esistenza di un fossile che potrebbe essere un ibrido di questo<br />

genere. Vedi C. Duarte et al: The early Upper Paleolithic human skeleton from the Abrigo do Lagar<br />

Velho (Portugal) and modern human emergence in Iberia. Proc Natl Aca Sci 96:7604-7609, 1999.<br />

Naturalmente le conclusioni di questi studiosi sono messe in dubbio da altri. D’altro canto, le<br />

abitudini dei Cromagnon nei periodi storici a noi noti è comunque quello di mischiarsi con le<br />

popolazioni conquistate, almeno dal punto di vista della linea femminile. In tal caso nel nostro DNA<br />

mitocondriale dovrebbe esserci i segni di questo processo, dal momento che questo DNA viene<br />

trasmesso per via esclusivamente materna.<br />

64


questo sufficiente per classificarli umani? In fondo è documentato che anche gli scimpanzé<br />

cacciano e si nutrono di babbuini. Lo stesso discorso vale per l’andatura eretta, che sembra apparsa<br />

abbastanza precocemente. Anche le dimensioni del cranio (di cui vi è comunque un aumento<br />

rispetto a quanto si trova negli scimpanzé), non può essere preso tout court come prova di umanità.<br />

Dal punto di vista tassonomico, la dicitura Homo indica un genere, ma i suoi limiti sono assai<br />

imprecisi: recentemente è stato suggerito ad esempio di rimuovere l’H. habilis e l’H. rudolfensis dal<br />

nostro genus e di inserirlo in quello dell’Australopithecus 85 . Per quanto riguarda il linguaggio,<br />

nessun indicatore del cranio è in grado di predirlo, tanto che si discute se l’H. neanderthalensis, che<br />

è in fondo a noi similissimo, ne fosse dotato, mentre la conformazione del laringe potrebbe indicare<br />

che eravamo pronti per parlare, senza poterlo provare con certezza.<br />

4. Pur guardando all’Africa come la culla dell’umanità, e malgrado gli enormi risultati ottenuti dagli<br />

scavi in Etiopia, Kenia e Tanzania, non è ancora del tutto certo che almeno in un secondo tempo,<br />

cioè nell’ultimo milione di anni, la linea evolutiva diretta non si sia invece spostata in Asia.<br />

2. Genetica<br />

Oltre ai reperti paleontologici, anche per l’evoluzione dell’uomo si hanno dati forniti dalla genetica.<br />

Si ritiene che i genomi dell’Homo sapiens e dello scimpanzé siano simili per circa il 98-99% e<br />

sarebbe certamente interessante sapere a carico di quali geni siano le differenze. Il sequenziamento<br />

ormai prossimo del genoma dell’Homo sapiens, cui farà certamente seguito un sequenziamento<br />

almeno parziale del genoma dello scimpanzé fornirà sicuramente la risposta a questa domanda.<br />

Dal momento che sono ormai disponibili un certo numero di fossili, se fosse possibile ottenere il<br />

DNA degli ominidi che ci hanno preceduto, si potrebbero risolvere gran parte dei quesiti che<br />

abbiamo visto essere rimasti insoluti. Abbiamo visto che il DNA di una specie può essere<br />

paragonato con quelle di altre in modo da stabilire quanto esse siano simili, e che il livello delle loro<br />

somiglianze è proporzionale alla loro distanza evolutiva. Pertanto sarebbe possibile stabilire quali di<br />

questi fossili sono i nostri antenati e quali invece lontani parenti. Purtroppo sembra che ci siano<br />

poche speranze di riuscire a recuperare questi DNA. Alcuni anni or sono vi era stato una grande<br />

eccitazione in seguito a dei lavori scientifici che sostenevano di aver sequenziato pezzi di DNA di<br />

specie vecchie di decine di milioni di anni. Alcuni organismi infatti si sono conservati in ambra, una<br />

sostanza resinosa, così bene da far pensare che anche il loro DNA fosse ancora intatto. Tuttavia<br />

lavori più recenti portano a ritenere che si sia trattato di artefatti, cioè di errori. Sembrerebbe che sia<br />

difficile ottenere DNA più vecchi di un milione di anni, anche nel caso che questi siano stati<br />

congelati nel permafrost dal momento della loro morte. La diatriba non è completamente conclusa<br />

86 : non si tratterebbe di questioni tecniche, ma proprio del fatto che semplicemente non ci sarebbe<br />

più nessun DNA da studiare dopo così tanti anni.<br />

Pertanto per il momento si può pensare di studiare con qualche successo e molte difficoltà il DNA<br />

dell’H. neanderthalensis. E’ quello che è stato fatto recentemente dal gruppo di Svante Paabo, che<br />

avrebbe sequenziato un pezzo di DNA mitocondriale ottenuto dai resti fossili trovati nel 1856 nella<br />

valle di Neander 87 . Le sue conclusioni, su cui non tutti sono d’accordo, tenderebbero a provare che<br />

l’H. neanderthalensis era una specie diversa dalla nostra, perché le differenze trovate rispetto al<br />

DNA dell’uomo moderno sono più di quelli che ci si attenderebbe nel periodo di tempo intercorso.<br />

Altri tuttavia fanno notare che i dati analizzati sono veramente pochi, perché è stato sequenziato<br />

solo un pezzo di circa 300 nucleotidi, e che per giunta non siamo affatto sicuri di conoscere la<br />

quantità di mutazioni attese, perché il DNA mitocondriale potrebbe mutare più velocemente di<br />

85 B. Wood & M. Collard: The human genus. Science 284:65-71, 1999<br />

86 Per un parere opposto vedi ad esempio: G. Poinar: Ancient DNA. Am Scient 87:446-457, 1999<br />

87 M. Krings et al: Neanderthal DNA sequences and the origin of modern humans. Cell 90:19-30,<br />

1997<br />

65


quanto pensiamo noi. Se fosse confermato che il Neanderthal è veramente molto diverso dal<br />

Cromagnon, l’idea che questo potesse essere intellettualmente superiore per questioni biologiche<br />

diventerebbe più probabile, anche se ovviamente non certa.<br />

E’ tuttavia possibile cercare di tornare indietro nel tempo studiando i DNA degli uomini moderni.<br />

L’uomo moderno ha un DNA caratteristico della sua specie, ma ogni uomo ha delle piccole<br />

differenze che vengono chiamati “polimorfismi” e il cui insieme lo rende unico (a parte i gemelli<br />

monovulari che sono proprio identici). Questi polimorfismi, essendo nient’altro che mutazioni del<br />

DNA avvenute nelle varie generazioni, possono essere vantaggiose, svantaggiose o neutre, ma in<br />

questo caso sono semplicemente dei marcatori che ci dicono che abbiamo avuto un antenato<br />

comune. Studiando pertanto tanti individui sparsi per il mondo, è possibile contribuire a conoscere<br />

la preistoria umana e risalire in teoria fino ai nostri primi antenati.<br />

In effetti, vi sono due pezzi di DNA che ci sono derivati esclusivamente tramite la linea femminile e<br />

tramite la linea maschile rispettivamente: il DNA mitocondriale, infatti, viene trasmesso solo<br />

dall’uovo e non dallo spermatozoo, pertanto studiando questo si può risalire al DNA della prima<br />

donna, l’Eva mitocondriale. Al contrario il DNA di parte del cromosoma Y è esclusivo dei maschi<br />

e pertanto ci permette di risalire all’Adamo genetico. Questi studi sono tuttavia minati dal fatto che<br />

si devono ammettere alcune assunzioni che possono essere ragionevoli, ma che sono lungi dal poter<br />

essere considerate certe.<br />

Le conclusioni attuali più accettate sono comunque le seguenti: un’Eva mitocondriale visse<br />

probabilmente in Africa tra i 100.000 e i 200.000 anni fa, e così pure un Adamo genetico 88 . Questo<br />

però non significa automaticamente che l’H. sapiens derivi da una sola coppia, anzi, si ritiene che<br />

all’origine vi sia stata una popolazione tra i 10.000 e i 100.000 individui. Dall’Africa questi uomini<br />

si sparsero in tutto il mondo, ed in particolare in Asia e in Europa, dove soppiantarono l’H. erectus<br />

che viveva in queste zone e più tardi l’H. neanderthalensis, senza mischiarsi con essi. Tuttavia non<br />

si può escludere che un certo mescolamento genetico abbia avuto luogo e che non vi sia pure stato<br />

un ritorno dall’Asia verso l’Africa. Le dinamica delle popolazioni potrebbe essere stata più<br />

complessa di quanto si pensi, con un flusso preminente “Out of Africa”, ma con possibili ritorni<br />

migratori e rimescolamenti genici<br />

89 . Neanche l’ipotesi alternativa, “l’ipotesi dell’origine<br />

multiregionale”, che sostiene che l’H.sapiens ebbe un’origine multicentrica diffusa a tutte le aree<br />

occupate precedentemente dall’H.erectus, può ancora essere esclusa con sicurezza.<br />

Se non vi è molta speranza di ottenere DNA dei fossili antichi, c’è però buona possibilità di studiare<br />

le ultime decine di migliaia di anni. Non solo si potranno probabilmente ottenere DNA da fossili<br />

recenti 90 , ma lo studio delle attuali popolazioni potranno permettere di risalire alla genetica delle<br />

88 F.J. Ayala: The myth of eve: molecular biology and human origins. Science 270:1930-1936,<br />

1995; H.A. Erlich: HLA sequence polymorphism and the origin of humans. Science 274:1552-<br />

1554, 1996; J.A.L. Armour: Minisatellite diversity supports a recent African origin for modern<br />

humans. Nature Genet 13:154-160, 1996; L.L. Cavalli Sforza: The DNA revolution in population<br />

genetics. Trends Genet 14:60-65, 1998<br />

89 Un recente studio suggerisce che la via principale e forse unica seguita dalle popolazioni per<br />

uscire dall’Africa fu dall’Etiopia verso la penisola arabica e l’India. Vedi: L. Quintana-Murci et al:<br />

Genetic evidence of an early exit of Homo sapiens sapiens from Africa through eastern Africa.<br />

Nature Genet 23:437-441, 1999<br />

90 Oltre alle ossa potrebbe essere possibile ottenere DNA da altri resti, ad esempio le mummie.<br />

Vedi: S. Paabo: Molecular cloning of ancient Egyptian mummy DNA. Nature 362:709-715, 1985. Il<br />

caso più noto finora, è quello dell’uomo Tirolese, un corpo vecchio di circa 5000 anni interamente<br />

conservato trovato sulle Alpi del sud Tirolo italiano nel 1991. Il gruppo di Svabo ha analizzato il<br />

66


popolazioni presenti sulla terra qualche migliaio di anni fa. I dati genetici, assieme a quelli<br />

archeologici e di linguaggio, potranno illuminare la nostra preistoria. Cavalli Sforza e i suoi<br />

collaboratori, degli antesignani negli studi di popolazioni basati sul DNA, compiendo analisi nelle<br />

popolazioni mediorientali ed europee hanno dimostrato dei gradienti di frequenza genica che<br />

descriverebbero una migrazione dal Medio Oriente all’Europa che sarebbe andata di pari passo con<br />

la diffusione dell’agricoltura, la quale, come noto, sorse presumibilmente nelle regioni della<br />

mezzaluna fertile e si diffuse solo in un secondo tempo in Europa 91 .<br />

In altre parole, le tecniche di agricoltura si diffusero in Europa solo perché le popolazioni che la<br />

praticavano migrarono in Europa a partire dal Medio Oriente: del resto l’ipotesi sembra ovvia,<br />

perché non si può pensare che i viaggi fossero semplici 5.000 anni prima di Cristo, né che vi fossero<br />

dei corsi di apprendimento per forestieri. Quando Abramo migra, migra la sua stirpe che si porta<br />

addietro quello che ha (tra cui le sementi) e quello che sa. Naturalmente vi è un mischiarsi genetico<br />

con le popolazioni locali e questo appunto spiega il gradiente che si riscontra oggi. Alcune<br />

popolazioni tuttavia erano più difficili da soppiantare o da contattare, e per questo i Baschi e i Sardi<br />

mostrano un assetto genetico che li separa dagli altri europei.<br />

Un altro interessante aspetto riguarda l’uomo dei nostri tempi. Il concetto di razza ha provocato e<br />

provoca forti emozioni. In passato molti hanno pensato che ci fossero differenze genetiche notevoli<br />

tra le varie razze. Non sembra sia così: le differenze tra individui della stessa popolazioni sono più<br />

grandi che tra le varie popolazioni, anche tra quelle su continenti diversi. Inoltre, anche se con<br />

frequenze differenti e con qualche rara eccezione, tutti i polimorfismi sono presenti in tutte le<br />

popolazioni. Questo fa supporre che non vi siano differenze sostanziali tra le razze e che non vi sia<br />

un substrato genetico per chi ritiene alcune razze meno intelligenti o meno capaci di altre 92 .<br />

Progresso e disegno versus caso e necessità<br />

Poco dopo la pubblicazione del libro di Darwin (1859), ebbe luogo il famoso dibattito tra Thomas<br />

Huxley e l'arcivescovo Wilbeforce. Se qualcuno pensasse che la scienza non può esprimere<br />

proposizioni di interesse filosofico, la storia dei dibattiti tra evoluzionisti e creazionisti basterebbe a<br />

confutarlo.<br />

L'implicanza filosofica che deriva dalla teoria sintetica dell’evoluzione affermatasi nella prima metà<br />

del Novecento e successivamente aggiornata da neutralisti e seguaci degli equilibri punteggiati, è<br />

che apparentemente tutta l'evoluzione si basa su una molecola chimica con proprietà curiose e su<br />

meccanismi casuali o comunque materiali che escludono forze vitali o altre entità non materiali.<br />

Questa implicazione era già chiara al vescovo Wilbeforce, che pure ignorava l’esistenza stessa del<br />

DNA. Eppure non è esatto dire che Darwin o altri suoi seguaci considerassero il darwinismo come<br />

sinonimo di ateismo. Molti autori hanno sottolineato che Darwin aveva avuto un’educazione<br />

protestante ortodossa, che aveva considerato la possibilità di diventare sacerdote e che è difficile<br />

trovare nei suoi scritti alcunché di antireligioso. Michael Ruse ha recentemente rivisto i rapporti tra<br />

suo DNA, concludendo che si trattava di un DNA di tipo europeo senza particolari caratteristiche.<br />

Vedi: O. Handt et al: Molecular genetics analyses of the Tyrolean Ice Man. Science 264:1775-1778,<br />

1994<br />

91 L. Cavalli Sforza e F. Cavalli Sforza: Chi siamo? La storia della diversità umana. Mondadori,<br />

Milano, 1995<br />

92 Vedi articoli vari (di J. Marks; A. Piazza; A.H. Goodman; R. Caspari; L. Excoffier) in “Aux<br />

origins de la diversité humaine: la science et la notion de race. La Recherche 302:56-89, 1997<br />

67


Darwin e la religione dell’epoca 93 . Ruse mostra come Darwin sia passato da una fase teista ad una<br />

fase deista sulla base dei suoi studi sulle scienze naturali, per finire in una fase agnostica, che non<br />

ebbe origine dal suo lavoro di scienziato bensì fu determinata dalla morte della figlia cui era<br />

attaccatissimo: la sua scomparsa gli parve incompatibile con la credenza in un Dio buono. Tuttavia,<br />

Ruse sostiene che Darwin era profondamente convinto che un progresso effettivamente avesse<br />

avuto luogo nel corso dell’evoluzione e che un disegno esistesse. Non solo, ma il fatto che la sua<br />

esecuzione non richiedesse interventi continui nell’Universo indicava una maggior elevatezza del<br />

Creatore nei confronti di un Dio che avesse bisogno di intervenire di continuo nel mondo reale per<br />

ritoccarlo: allo stesso modo, i macchinari industriali che cominciavano a diffondersi nell’Inghilterra<br />

della sua epoca rivelavano una maggior padronanza da parte dell’uomo rispetto ai lavori artigianali.<br />

Una statuetta d’avorio ci può far pensare che chi l’ha fatta possedesse già un certo pensiero<br />

simbolico, ma la Cappella Sistina ci lascia maggiormente stupefatti: più il disegno è complesso e<br />

più deve essere sofisticato il suo autore. Dio non interviene nel mondo perché non ha bisogno di<br />

farlo, avendo già preveduto e preparato tutto dall’inizio. In fondo, al termine della storia evolutiva<br />

compare l'uomo, che è il signore della natura, un essere strabiliante, in grado di dipingere la<br />

Gioconda, scrivere la Divina Commedia e l'Amleto e chi più ne ha più ne metta.<br />

Ruse pertanto tende a concludere che è possibile vedere l’evoluzione in un’ottica di disegno e<br />

progresso, e mostra come di fatto questa posizione sia stata adottata da notissimi evoluzionisti come<br />

Ronald A. Fisher e Theodosius Dobzhansky. In campo cattolico, il gesuita Pierre Teilhard de<br />

Chardin, paleontologo, è il più noto tra coloro che videro un progresso e un senso nell'evoluzione,<br />

un disegno e un fine, un punto Omega cui l'evoluzione tendeva 94 . Lungi dall'essere un processo<br />

casuale, l'evoluzione rilevava un disegno divino, che aveva nella comparsa dell'uomo il suo<br />

momento culminante, in buon accordo con i suoi studi di paleontologia umana di cui era un esperto.<br />

Per Teilhard, tutto all'interno dell'evoluzione procedeva in maniera autonoma, ma l'evoluzione nel<br />

suo insieme era un processo direzionale e anche diretto, nel suo caso dalla mente divina. E' tuttavia<br />

possibile pensare anche ad una versione panteista del problema, in cui la materia tende per sua<br />

natura verso la vita. E questa, che sicuramente non era la posizione di Teilhard, gli valse le critiche<br />

dei cattolici: come noto, il suo libro poté uscire solamente postumo, pur essendo stato steso una<br />

quindicina di anni prima. Non minori critiche gli vennero dall’establishment scientifico, per il quale<br />

il suo libro, che egli voleva fosse letto “unicamente ed esclusivamente come una memoria<br />

scientifica”, era nella migliore dell’ipotesi l’opera di un mistico o un poeta e nella peggiore un<br />

completo nonsenso. Teilhard ebbe tuttavia anche dei sostenitori, tra cui sicuramente vanno ricordati<br />

Julian Huxley e Theodosius Dobzhansky.<br />

In realtà, la maggior parte degli studiosi tende a rifiutare questa visione, anche se vi sono ancora<br />

alcuni che vedono comunque nell'evoluzione un certo disegno globale. Quali sono le ragioni alla<br />

base di questo rifiuto ? Sono essenzialmente di due tipi: il primo si basa sul criterio di semplicità: se<br />

tutto all'interno della storia della vita si può spiegare con cause materiali, perché postulare qualcosa<br />

93 M. Ruse: Darwinism and atheism: different sides of the same coin. Endeavour 22:17-20, 1998.<br />

Vedi anche il suo libro: Can a darwinian be a christian? The relationship between science and<br />

religion. University of Cambridge Press, Cambridge, 1999<br />

94 P. Teilhard de Chardin. Le phénomène humain. Seuil, Paris, 1955. Sebbene sia più noto per i suoi<br />

scritti filosofici, Teilhard produsse oltre 250 report scientifici nell’arco di 40 anni di attività. Tra i<br />

suoi contributi scientifici particolarmente rilevanti possono essere ricordati quelli sulla struttura<br />

geologica della Somalia, dell’Etiopia e della Cina, sui fossili di mammiferi europei ed asiatici, sui<br />

fossili umani di Giava e Cina (sinantropo) e sull’australopitecine sudafricane. Fu anche coinvolto,<br />

senza alcuna colpa, nella vicenda di Piltdown, una faccenda non ancora completamente chiarita, in<br />

cui delle ossa rinvenute in tale località vennero erroneamente attribuite ad un anello di congiunzione<br />

tra l’uomo e la scimmia.<br />

68


di diverso per spiegare l'evoluzione nel suo complesso. Secondo il rasoio di Ockham, “Entia non<br />

sunt multiplicanda praeter necessitatem”, con tutti i vantaggi e i limiti di questo principio che<br />

comunque in scienza è vastamente applicato, anche se non è un criterio assoluto (potremmo anche<br />

esserne ingannati). Il secondo è di tipo argomentativo: chi dice che vi è un progresso<br />

nell'evoluzione? al contrario, è ormai evidente che vi sono rami secchi che non hanno dato origine a<br />

niente, le specie scomparse sono di gran lunga più di quelle presenti (questo fatto dovrebbe far<br />

meditare i sostenitori troppo strenui della biodiversità), la natura ha prodotto un'enorme quantità di<br />

dinosauri per poi lasciarli scomparire in breve tempo. E chi dice che l'uomo è il meglio? lo diciamo<br />

noi che siamo uomini, ma in base a che cosa?<br />

Stephen Jay Gould ad esempio sostiene che quelli che meglio hanno risposto al comandamento di<br />

andare e dominare il mondo sono i batteri che sono molto più adattati dell'uomo al loro ambiente.<br />

Vi sono più batteri, si fa notare spesso, nell'intestino di un uomo di quanti uomini siano mai esistiti<br />

sulla faccia della terra.<br />

Gould ha una buona spiegazione per questo progresso apparente, e lo illustra in suo libro prendendo<br />

a prestito dati e concetti del baseball 95 . Il baseball è un bellissimo gioco, che però lascia<br />

assolutamente indifferenti gli Europei. Più semplice usare l’analogia della “passeggiata<br />

dell’ubriaco”, che trova ampio riscontro anche nella vecchia Europa. Gould dice: sembrerebbe che<br />

gli ubriachi abbiano una preferenza per il lato del marciapiede rivolto alla strada, perché ci<br />

finiscono sempre dentro. In realtà, non è così: l’ubriaco oscilla sia da una parte che dall’altra, ma da<br />

una parte ha il muro che lo respinge, mentre dall’altra no. Così l’evoluzione, ha un muro sinistro<br />

che non può oltrepassare, mentre a destra può andare dove vuole ed in effetti ogni tanto le capita.<br />

“Una sola direzione è aperta verso il cambiamento”. Quindi l’andamento dell’evoluzione verso la<br />

complessità è solo apparente. Si tratta di oscillazioni che vanno sia verso il progresso che verso il<br />

regresso, ma essendo partita dal nulla, sembra che vada verso il più complesso, così come l’ubriaco<br />

sembra sempre finire sulla strada.<br />

In effetti, adesso va di moda sostenere che noi siamo solo una delle tante specie dell’universo, per<br />

giunta assai prepotente e crudele, che disprezza le altre specie e i suoi simili e che rovina l’ambiente<br />

che lo ha creato. Tutto questo è vero, ciononostante, le precisazioni di Gould sono forse eccessive.<br />

In effetti, Gould dimentica una cosa che dovrebbe invece interessarlo: che i batteri non possono<br />

leggere il suo libro e convincersi di essere i padroni della terra. C'è presumibilmente un motivo per<br />

cui siamo noi a mettere gli scimpanzé in gabbia e a studiarli e non viceversa. Non sembra<br />

arrischiato dire che, se da un lato la stragrande maggioranza degli scienziati ritiene che l'evoluzione<br />

vada a tentoni, è anche d'accordo nel ritenere che effettivamente l'uomo è l'organismo più<br />

complesso, anche se questo non significa tout court accettare che l'evoluzione sia direzionale o<br />

addirittura che abbia un senso.<br />

Per Francois Jacob, l’evoluzione assomiglia a un bricoleur perché non butta via niente, ma riutilizza<br />

tutto 96 . La genetica dell’ultimo decennio ha mostrato quanto vera sia questa affermazione che<br />

secondo alcuni può conciliare gradualismo ed equilibri punteggiati 97 . Come abbiamo visto, se<br />

95 S.J.Gould. Gli alberi non crescono fino al cielo. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1997. Per<br />

nostra fortuna, Gould introduce nella versione italiana un “Breve manuale di baseball per i lettori<br />

italiani”. La scelta del baseball come metafora rivela una certa visione americanocentrica<br />

dell’autore. L’alcolismo è invece una manifestazione ecumenica che affratella tutti gli uomini. La si<br />

trova a p 173-174 della versione italiana.<br />

96 F. Jacob. Evolution and tinkering. Science 196:1161-1166, 1977. F. Jacob. Evoluzione e<br />

bricolage. Gli espedienti della selezione naturale. Einaudi, Torino, 1978<br />

97 D. Duboule & A. S. Wilkins. The evolution of bricolage. Trends Genet 14:54-58, 1998. Gli autori<br />

introducono il termine di “transizionismo” per denominare la loro posizione.<br />

69


sequenziamo i genomi di organismi tanto lontani quanto l’uomo e il C. elegans, un piccolo verme,<br />

notiamo che quasi tutti i suoi geni hanno una controparte nell’uomo. Le somiglianze della sequenza<br />

nucleotidica e proteica sono tali che i geni omologhi (ortologhi) sono facilmente evidenziabili.<br />

Questo presumibilmente non vale per tutti i geni, ma per la maggior parte. Nei mammiferi ci sono<br />

più geni, alcuni effettivamente non riscontrabili nel nematode, e cioè realmente nuovi (l’alternativa<br />

è che il nematode li abbia persi) altri che sono semplicemente dovuti a una o più duplicazioni<br />

seguite da divergenza. Cioè ad un gene del C. elegans corrispondono parecchi omologhi nei<br />

mammiferi, che a loro volta si sono diversificati raggiungendo espressioni e funzioni anche molto<br />

diverse. Non solo sono conservate le sequenze, ma molto spesso anche le funzioni dei prodotti<br />

genici, anche se lo stesso pezzo è stato inserito in un contesto più ampio o anche molto diverso.<br />

Intere vie metaboliche sono conservate, ma adattate ai nuovi bisogni dell’organismo. Infine lo<br />

studio dello sviluppo embrionario ha, come abbiamo visto, mostrato il potenziale di variabilità<br />

insito in alcuni geni.<br />

Un bricoleur però generalmente ha un disegno in mente. In questo senso il bricoleur sostituisce<br />

l’ingegnere, ma entrambi sono solo una metafora 98 . Nessun disegno neanche per Richard Dawkins,<br />

che assume posizioni più radicali. Tutti abbiamo imparato nei licei la metafora dell’orologiaio. Se<br />

esiste un orologio, deve esistere un orologiaio. Versione semplificata ma esemplare dell’argomento<br />

tomistico dell’ordine: se esiste l’ordine deve esistere l’ordinatore. In realtà, leggendo la versione di<br />

questa argomentazione che ne fa il già citato vescovo Paley nel suo famoso libro “Natural Theology<br />

or Evidences of the existence and attributes of the Deity, collected from the appearance of nature”<br />

99 non si può non apprezzare la forza di questo argomento.<br />

E’ probabile che non si possa eliminare questa argomentazione a cuor leggero. Per Richard<br />

Dawkins invece il problema è già risolto. Nella prefazione al suo libro “The blind watchmaker”,<br />

scrive<br />

“This book is written in the conviction that our own existence presented the greatest of all<br />

mysteries, but that it is mistery no longer because it is solved. Darwin and Wallace solved it, though<br />

we shall continue to add footnotes to their solution for a while yet” 100 .<br />

La metafora tuttavia è di tal forza che Dawkins sente il bisogno di riprenderla per confutarla.<br />

L’orologiaio esiste, dice Dawkins, ma è cieco. Il motore unico (non immobile) è il gene egoista. In<br />

uno scenario degno di Blade Runner, Dawkins descrive in maniera chiara ed elegante il successo di<br />

questi geni, ora denominati replicatori (meglio replicanti) 101 :<br />

“Quali strani strumenti di autoconservazione avrebbero portato i millenni? Quale sarebbe stato il<br />

destino di questi antichi replicatori quattro miliardi di anni dopo? Essi non si sono estinti in quanto<br />

sono gli antichi maestri dell’arte della sopravvivenza, ma non cercateli nel mare, perché hanno<br />

rinunciato a quella libertà molto tempo fa. Adesso si trovano in enormi colonie, al sicuro<br />

all’interno di robot giganti, fuori dal contatto con il mondo esterno, con il quale comunicano in<br />

98 F. Jacob & A. Langeney. Genèse et actualité de la theorie de l’evolution. La Recherche 296<br />

(marzo):18-25, 1997. “C’est une question qui ne relève pas de la science. On ne prouvera jamais<br />

que Dieu exist ou n’existe pas. C’est une question de gout”. La posizione di Jacob pertanto sembra<br />

essere di tipo classico, i domini di scienza e filosofia sono completamente separati.<br />

99 W. Paley. Natural Theology or Evidences of the existence and attributes of the Deity, collected<br />

from the appearance of nature. Faunder, London, 1802.<br />

100 R. Dawkins. The blind watchmaker. Longman, Harlow, 1986. Prefazione, p. xiii<br />

101 R. Dawkins. The selfish gene. Oxford University Press, Oxford, 1976. Edizione it: Il gene<br />

egoista. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995 p 23<br />

70


modo indiretto e tortuoso e che manipolano a distanza. Essi si trovano dentro di voi e dentro di me,<br />

ci hanno creato, corpo e mente e la loro conservazione è lo scopo ultimo della nostra esistenza.<br />

Hanno percorso un lungo cammino, questi replicatori e adesso sono conosciuti sotto il nome di<br />

geni e noi siamo le loro macchine di sopravvivenza”.<br />

Anni prima, Monod aveva scandalizzato molti col suo “Il Caso e la necessità” 102 .<br />

“L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente<br />

dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun<br />

luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre”.<br />

In realtà, non c’era molto da stupirsi, le conclusioni di Monod si trovano in numerosi filosofi<br />

precedenti. Viene subito in mente Albert Camus, più o meno contemporaneo di Monod, e il suo<br />

Mito di Sisifo 103 .<br />

“Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la<br />

fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo<br />

universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni<br />

bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano da soli un mondo. Anche la<br />

lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.<br />

Tuttavia la novità era nel fatto che era uno scienziato, per giunta insignito del premio Nobel per la<br />

medicina, a dirlo. Ma non tutti sarebbero d’accordo. Abbiamo già citato la posizione di Teilhard de<br />

Chardin. Meno nota al grande pubblico è invece la posizione di Theodosius Dobzansky.<br />

Dobzansky, insigne genetista, ha contribuito moltissimo alla messa a punto della teoria sintetica<br />

dell’evoluzione, che, come abbiamo visto, ha coniugato la genetica di Mendel con la teoria<br />

dell’evoluzione. Nel suo libro “The ultimate concern of biology” Dobzansky affronta senza mezzi<br />

termini le implicazioni filosofiche della biologia:<br />

“Generalmente si è d’accordo nel ritenere che la biologia possa avere implicazioni filosofiche più<br />

di altre scienze: Un biologo, in qualità di biologo, deve quindi saper scegliere e presentare quei<br />

fatti, quelle teorie e quelle idee che egli ritiene di generale interesse e portata sul piano umano” 104 .<br />

L’opinione di Dobzhansky sul significato dell’evoluzione è quanto mai chiara:<br />

“E’ ormai un luogo comune affermare che la scoperta darwiniana dell’evoluzione biologica ha<br />

completato il processo di degradazione e di alienazione dell’uomo, iniziato con Copernico e<br />

Galileo. Non riesco ad immaginare un’affermazione più errata, e forse il punto essenziale da<br />

discutere in questo libro è la validità del contrario: l’evoluzione è motivo di speranza per l’uomo.<br />

Ovviamente, l’evoluzionismo moderno non ha ridato alla terra il primitivo posto di centro<br />

dell’universo. Ma, anche se l’universo non è sicuramente geocentrico, potrebbe ben essere<br />

antropocentrico. L’uomo, questo misterioso prodotto dell’evoluzione del mondo, potrebbe anche<br />

102 J Monod. Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne.<br />

Seuil, Paris, 1970. Edizione it: Il caso e la necessità. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1970; p<br />

143<br />

103<br />

A. Camus. Le mythe de Sisyphe. Gallimard, Paris, 1942. Edizione it: Il mito di Sisifo.<br />

Bompiani, Milano, 1980. La citazione è la chiusa del libro, p 121.<br />

104 T. Dobzansky: le domande supreme della biologia. De Donato, Bari, 1969. L’edizione americana<br />

è del 1967; p. 10.<br />

71


esserne il protagonista e forse la guida. In ogni caso non è statico, non è finito e non è immutabile.<br />

Ogni cosa in esso è coinvolta nel flusso e nello sviluppo evoluzionistico” 105 .<br />

Pensiero finale<br />

Per la maggior parte degli aspetti, in fondo l’evoluzione dell’Homo non presenta particolari<br />

problemi né suscita apprensioni. I nostri organi e le nostre cellule sono così simili non solo a quelli<br />

dei primati ma anche a quelli di altre specie che addirittura si parla di utilizzare organi di queste<br />

specie per trapiantarli negli uomini. Né nessuno si sente sminuito per questo. Tuttavia vi è un<br />

aspetto particolare che non si ritrova negli animali, la coscienza, che lascia dubbiosi. Come questa<br />

ha potuto evolversi? Per quanto ci si guardi in giro, sembriamo proprio unici in questo riguardo.<br />

Anche se più o meno si ritiene che il tempo che separa l’uomo dallo scimpanzé sia lo stesso che<br />

separa l’orango dallo scimpanzé, non vi è la stessa differenza di prestazioni tra queste due scimmie<br />

antropomorfe che c’è invece tra l’uomo e lo scimpanzé.<br />

La coscienza è effettivamente una proprietà emergente che lascia stupefatti. Oggi si cerca di<br />

attribuire anche ad altre scimmie antropomorfe qualità umane, ma con scarso successo. Alla<br />

coscienza vengono associate le qualità superiori dell’uomo, quali l’altruismo, il pensiero simbolico,<br />

il libero arbitrio ecc. Può tutto questo essere spiegato con i geni o con l’interazione tra i geni ed<br />

ambiente?<br />

105 Ibidem, p. 15<br />

72


Capitolo 4.<br />

GENI E COMPORTAMENTO<br />

L’altruismo<br />

L’intelligenza è solo la più banale delle caratteristiche umane, e siamo pronti ad ammettere che<br />

anche i cani ce l’abbiano, per non dire gli scimpanzé. Le caratteristiche più specifiche dell’uomo<br />

sono altre, sono la coscienza di sé, la volontà, la bontà, il libero arbitrio e l’altruismo. E’ chiaro che<br />

queste sono le ultime frontiere per la descrizione riduzionista della realtà. Queste caratteristiche<br />

fanno parte della realtà, per quanto imprecisi possano essere questi concetti, per quanto difficile<br />

possa essere una loro definizione e per quanto complessa possa essere la loro discussione.<br />

Tra queste, l’altruismo è stato di recente oggetto di varie discussioni tra scienziati e non. Una<br />

caratteristica come l’altruismo sembrerebbe attrarre di più gli studiosi di neuroscienze che gli<br />

scienziati interessati all’evoluzione. Ma gli etologhi riscontrano manifestazioni di altruismo anche<br />

in molti animali inferiori e devono spiegare come comportamenti altruisti, che sembrano minare<br />

alcuni fondamenti dell’evoluzione, possano essersi affermati.<br />

All’inizio degli anni sessanta, William D. Hamilton affrontò il problema di come fosse possibile<br />

spiegare in termini evolutivi alcuni fatti che sembrano andare contro alla teoria della selezione del<br />

più adatto alla riproduzione. In alcune specie dette "sociali", specialmente di insetti, tra cui le<br />

formiche e le termiti, numerosi membri della società sono sterili. Detto in termini sommari, cosa se<br />

ne fa l'evoluzione di individui sterili? D'altro canto, dato che, sterilità a parte, questi individui sono<br />

normali e soprattutto svolgono un ruolo notevole nella loro società, come può questo sistema essere<br />

risultato vantaggioso dal punto di vista evolutivo? Come possono essersi evolute organizzazioni<br />

sociali come quelle di api, formiche e termiti?<br />

Questo problema era già stato riconosciuto da Darwin come una notevole difficoltà per la sua teoria.<br />

Darwin aveva accennato alla possibilità che l'evoluzione agisse non solo sull'individuo ma anche<br />

sulla sua famiglia (in senso lato). Hamilton notò che un individuo sterile può contribuire alla<br />

diffusione di un gene (o un insieme di geni) favorendo la trasmissione dei geni di uno stretto (o<br />

anche relativamente lontano) parente con cui ha in comune una certa percentuale dei suoi geni.<br />

Hamilton diede una formulazione matematica delle condizioni necessarie perché questo si verifichi<br />

106 .<br />

La formulazione matematica di Hamilton dice essenzialmente che se abbiamo P definito come<br />

grado di parentela, C come il costo dell’atto altruistico e B come il beneficio ricavato dal<br />

beneficiante dell’azione altruistica, un atto altruistico dovrebbe essere favorito dall’evoluzione se<br />

P x B – C > 0.<br />

106 W.D. Hamilton. The genetical evolution of social behaviour. I e II. J Theor. Biol. 7:1-16; 17-<br />

52,1964. Secondo A. Brown, l’idea di Hamilton trarrebbe origine dalle idee di George Price, un<br />

biologo dilettante che aveva formulato una prova matematica che mostrava che l’altruismo era<br />

possibile, ma niente affatto nobile. Più tardi Price si sarebbe suicidato perché sconvolto da questa<br />

scoperta. Vedi: A. Brown. The Darwin wars: how stupid genes became selfish gods. Simon &<br />

Schuster, 1999.<br />

73


Il ragionamento che sta sotto è il seguente: essere imparentati significa che abbiamo in comune un<br />

certo numero di geni, pertanto, se aiuto mio fratello a salvare la pelle, dò una mano anche ai miei<br />

stessi geni. Quindi più stretta è la parentela, più facile è la manifestazione di altruismo.<br />

E’ importante notare come in questo caso si debba ammettere che in un certo qual modo è cambiato<br />

l’oggetto della selezione. Non è più l’individuo, ma è la famiglia o il gruppo nella misura in cui c’è<br />

un imparentamento. Ma potrebbe essere anche il gene. In entrambi i casi sembra necessario che gli<br />

animali in questione siano capaci in un certo qual modo di riconoscere i propri simili (kin<br />

recognition).<br />

Un ulteriore contributo all’analisi della genesi dell’altruismo venne poi data da un altro biologo,<br />

Robert L. Trivers, che suggerì che un’altra via per spiegare la nascita di comportamenti altruistici è<br />

che questi siano reciproci 107 . In questo caso quindi non è necessario essere imparentati, anzi si può<br />

anche appartenere a specie diverse. La collaborazione tra specie diverse in realtà è da tempo nota e<br />

va sotto il termine di simbiosi.<br />

Un notevole impulso a questo tipo di ricerche si ebbe da un articolo a firma di John Maynard Smith<br />

e George Price in cui la “Teoria dei giochi” veniva applicata a livello teorico all’analisi dei conflitti<br />

animali 108 . La Teoria dei giochi viene utilizzata in politica ed in economia per studiare situazioni in<br />

cui insorgono conflitti. Successivamente Robert Axelrod, che non era un biologo ma un ricercatore<br />

in politica ed economia, suggerì di modellare questo problema nella forma del Dilemma del<br />

Prigioniero 109 . Se due prigionieri complici di un delitto vengono arrestati hanno di fronte 4<br />

possibilità: se collaborano tra loro (non con la polizia) guadagnano bene tutti e due (se tacciono,<br />

cioè, stanno un po’ in galera, ma poi vengono scarcerati per mancanza di indizi); se parlano tutti e<br />

due, perdono in certa misura (rei confessi, usufruiscono entrambi dei benefici di legge e si fanno un<br />

certo numero di anni di galera ma non troppi); se uno dei due invece tradisce l’altro, cedendo alle<br />

lusinghe della polizia, cioè confessa mentre l’altro insiste nella sua linea dura, il primo guadagna<br />

molto (usufruisce della legge sui pentiti, che come succede in Italia, è un vero affare per i<br />

collaboratori di giustizia) ma l’altro becca la pena più severa. Il dilemma, da cui il gioco prende il<br />

nome sta nel fatto che la scelta più logica dal punto di vista del singolo è di tradire, perché se il<br />

complice collabora si becca il massimo e se tradisce anche lui, si becca una punizione minore. Non<br />

c’è scelta: bisogna tradire. Ma il paradosso è che con questa logica tradiremo tutti e due, sapendo<br />

che se entrambi non tradissimo guadagneremmo di più.<br />

Trasportato in termini evolutivi: non può nascere un comportamento altruistico perché sarebbe<br />

svantaggioso per chi lo manifesta. Almeno questo se il gioco viene effettuato una volta sola. Le<br />

cose però cambiano se il gioco viene ripetuto un numero imprecisato di volte. Vi è tutta una<br />

letteratura sull’argomento e sono stati implementati vari programmi computerizzati di simulazione<br />

di quello che succede con le varie strategie 110 . Le possibilità, ed anche gli esiti, sono veramente<br />

107 R.L. Trivers. The evolution of reciprocal altruism. Q.Rev Biol. 46:35-57, 1971<br />

108 J. Maynard Smith & G.R. Price. The logic of animal conflict. Nature 246:15-18, 1973<br />

109 In realtà, l’articolo di Trivers citava il Dilemma del Prigioniero ma non lo sviluppava.<br />

110 E’ al di fuori degli scopi del libro riferire tutti gli studi e le simulazioni basati sul Dilemma del<br />

prigioniero a partire dall’articolo che Axelrod e Hamilton pubblicarono insieme come frutto della<br />

loro collaborazione: R. Axelrod & W.D. Hamilton. The evolution of cooperation. Science<br />

211:1390-1396, 1981. Tra le pubblicazioni più accessibili, si possono vedere: M.A. Nowak. The<br />

arithmetics of mutual help. Scient Am p. 76-81, 1995 (giugno); A.L. Lloyd. Computing bouts of the<br />

prisoner’s dilemma. Ibidem; p. 110-115. Vedi anche il capitolo 12 della nuova edizione di “Il gene<br />

egoista” di Dawkins, dal titolo “I buoni arrivano primi”. J.H. Holland. Genetic algorithms. Scient<br />

Am p 66-72, 1992 (luglio). Axelrod stesso ha scritto un libro: The evolution of cooperation, Basic<br />

74


infiniti, perché possono variare i soggetti in campo (le strategie) e il loro numero, gli interessi in<br />

gioco (i premi e le punizioni), il numero di partite, ecc. Abbiamo detto che, se il venir traditi<br />

equivale all’uscita di scena (ergastolo o condanna a morte), non vi sarà più possibilità di gioco, e in<br />

questo caso la gente tenderà ad essere assai più prudente (tradire), ma se pur perdendo si ha la<br />

possibilità di rifarsi, la strategia migliore potrebbe essere diversa. Quello che si è visto e che<br />

importa al fine della nostra discussione è che in quest’ultimo caso vi sono molte strategie che<br />

premiano i cooperativi. Spesso, se i giocatori sono parecchi, il traditore abitudinario termina il gioco<br />

con un bottino assai più modesto di quello dei cooperanti.<br />

A questi modelli matematici, che vengono generalmente implementati su computer e che<br />

consentono la simulazione di veri e propri tornei, corrispondono numerosi tentativi di dimostrazione<br />

di altruismo legato a parentela o a reciproco vantaggio nelle specie animali. E’ chiaro che l’analisi<br />

teorica può essere assai elegante e in casi come quelli del Dilemma del prigioniero, può essere<br />

addirittura divertente. Ma se non si dimostra che si applica ai casi specifici, la teoria rimane<br />

plausibile ma non testata. Vi sono almeno due stadi in questa ricerca per un biologo: prima si<br />

devono trovare comportamenti che sembrino altruistici, poi bisogna cercare di calcolare o stimare le<br />

tre variabili (P, B e C) e concludere se i nostri calcoli sono compatibili con quello che osserviamo.<br />

Per far questo bisogna andare sul campo, e studiare in dettaglio questi sistemi, che va detto subito<br />

sono più frequenti e più facilmente indagabili tra gli insetti sociali.<br />

Da allora innumerevoli studi che spiegano il comportamento altruistico sulla base di un vantaggio<br />

evoluzionistico sono stati pubblicati 111 . Tuttavia eseguire questi studi non è così semplice. La<br />

verifica di queste ipotesi sulla cooperazione è alquanto difficile e complicata. Si devono osservare<br />

specie che si muovono in libertà nel loro terreno, e il loro studio è assai difficile da un punto di vista<br />

logistico e pratico. Bisogna stabilire quali animali sono imparentati e bisogna essere in grado di<br />

Books, New York, 1984. N.S. Glance & B.A. Huberman hanno lanciato una variazione sul tema, il<br />

Diner’s dilemma: come ci si comporta ad un pranzo in cui il conto verrà diviso in parti uguali,<br />

indipendentemente da quanto uno mangia? Vedi: N.S. Glance & B.A. Huberman. The dynamics of<br />

social dilemmas. Scient Am p76-81, 1994 (marzo). Altri studi più recenti tendono a studiare<br />

modelli matematici di varianti più simili alle situazioni reali. Ad esempio il computer memorizza<br />

facilmente i comportamenti dei vari giocatori, ma l’uomo o l’animale deve ricordarseli tutti. Il ruolo<br />

della memoria in questo processo è stato studiato in M. Milinski & C. Wedekind: Working memory<br />

constrains human cooperation in the prisoner’s dilemma. Proc Natl Acad Sci 95:13755-13758,<br />

1998. Il problema di cosa succede se, invece di ammettere solo comportamenti di completa<br />

cooperazione o di pieno tradimento, si consentono varie gradazioni, è stato indagato in G. Roberts<br />

& T.N. Sheratt: Development of cooperative relationship through increasing investment. Nature<br />

394:175-179, 1998. Vedi anche corrispondente editoriale: L. Keller & H.K. Reeve. Familiarity<br />

breeds cooperation. Nature 394:121-122, 1998. Il dilemma del prigioniero è stato applicato allo<br />

studio di fagi, piccoli virus che infettano i batteri. Vedi: P.E. Turner & Chao L. Prisoner’s dilemma<br />

in an RNA virus. Nature 398:441-443, 1999 e il suo editoriale M.A. Novak & K. Sigmund: Phagelift<br />

for game theory. Nature 398:367-368, 1999. Recentemente Novak e Sigmund hanno introdotto<br />

il concetto di reciprocità indiretta, in cui l’azione altruistica di un individuo verso un altro provoca<br />

una ricompensa da un terzo individuo. Vedi M.A. Novak & K. Sigmund: Evolution of indirect<br />

reciprocity by image scoring. Nature 393:573-576, 1998.<br />

111<br />

Vedi per esempio i seguenti articoli riassuntivi. R. Pool: Putting game theory to the test.<br />

Science 267:1591-1593, 1998; C. Packer & A.E. Pusey: Divided we fall: cooperation among lions.<br />

Scient Am p 52-59, 1997 (maggio); R. Heinsohn & C. Packer: Complex cooperative strategies in<br />

groop-territorial African lions. Science 269:1260-1262, 1995; D.W Pfennig & P.W. Sherman Kin<br />

recognition. Scient Am p. 98-103, 1995 (giugno); D.W. Tallamy: Child care among insects. Scient<br />

Am p 72-77, 1999 (gennaio).<br />

75


iconoscerli e distinguerli l’uno dall’altro. Bisogna seguirli per un tempo abbastanza lungo. Non<br />

bisogna alterare il loro habitat e le loro abitudini. Così, studi di questo tipo in mammiferi sono<br />

estremamente rari, mentre sono più frequenti quelli su insetti, specie su quelli altamente sociali. Ma<br />

il comportamento di formiche e termiti può essere assai più geneticamente determinato di quello dei<br />

mammiferi e quello che è vero per la regina delle api può non essere vero per la marmotta<br />

sentinella. Così i dati a supporto della teoria su organismi superiori sono assai pochi e il rischio che<br />

lo sperimentatore produca dati non validi o si lasci trasportare dalle sue premesse teoriche esiste.<br />

Quando si faranno esperimenti accurati si saprà di più, e non è escluso di avere delle sorprese. Ad<br />

esempio, un recente studio sulle manguste (Suricata suricatta) è giunto alle conclusioni opposte a<br />

quello che è il microparadigma generale: il comportamento della sentinella è un comportamento<br />

egoista e non altruista. Le sentinelle sono le prime a vedere il predatore, il loro rischio di venir<br />

predate non è aumentato, anzi sono in ottima posizione per nascondersi nelle tane, e tendono a<br />

svolgere questa attività quando hanno la pancia piena: difendono innanzitutto se stesse e non si<br />

interessano se gli altri animali sono o no imparentati con loro 112 .<br />

Infine, vi sono un paio di commenti da fare alle teorie sull’altruismo. Il primo riguarda l’altruismo<br />

reciproco: qui si commette un errore abbastanza frequente quando si parla di concetti difficili da<br />

studiare empiricamente. Si definisce il concetto in maniera ristretta per poterlo maneggiare meglio,<br />

poi ce se ne dimentica e si ritorna al significato più generale che è quello usato comunemente<br />

“dall’uomo della strada”. Il dilemma del prigioniero può essere utile per studiare come possono<br />

sorgere comportamenti cooperativi in cui ambedue i partner ci guadagnano, ma che di altruistico<br />

hanno ben poco. In realtà questi studi potrebbero illuminarci su come nascono le lobby in America<br />

o le mafie in Italia, ma non su come si sviluppa il vero comportamento altruistico. Il secondo<br />

commento è di natura evoluzionistica: l'altruismo, quello vero, è comunque molto raro; se è<br />

realmente vantaggioso per una popolazione nella sua interezza, perché non si è diffuso fino a<br />

diventare comunissimo ? perché non tutte le specie sono come le formiche ?<br />

Geni e Comportamento<br />

Fin dove si può spingere quest’analisi evoluzionistica e genetica sui comportamenti ? Nel 1975<br />

Edward O. Wilson, un grosso esperto di formiche, diffuse le idee che si era fatto studiando questi<br />

animaletti nel libro “Sociobiology: the new synthesis” 113 . Oggi i suoi seguaci sono detti appunto<br />

sociobiologi. Quello che sostengono Wilson e i suoi colleghi è che i geni determinano ampiamente<br />

il comportamento sia nelle formiche che nell’uomo.<br />

La sociobiologia, nelle parole dei suoi sostenitori,<br />

“iniziò negli anni 70, con gli scritti di un gruppo di scienziati, specialisti in biologia e scienze<br />

sociali, fra i quali Richard D Alexander, David P Barash, Jerram L Brown, John Crook, Richard<br />

Dawkins, Pierre van den Berghe e Edward O Wilson…..La sociobiologia non era nata dal nulla.<br />

Seguiva le opere preliminari, e orientate in senso più filosofico, sul ruolo della biologia nel<br />

comportamento umano, di Konrad Lorenz, Donald T Campbell, Irenaus Eibl-Eibesfeldt, Desmond<br />

Morris, Robin Fox, Lionel Tiger e altri. Era basata sui risultati di centinaia di studiosi, dalle<br />

indagini di Jane Goodall sugli scimpanzé, alla scoperta di Thedore Schneirla dei segreti della vita<br />

delle formiche-soldati, alle teorie sull’evoluzione degli altruismo di William D Hamilton, di John<br />

Maynard Smith e Robert L Trivers…..La corrente principale della sociobiologia è costituita da un<br />

112 Clutton-BrockT.H. et al. Selfish sentinels in cooperative mammals. Science 284:1640-1644,<br />

1999. D.T. Blumstein. Selfish sentinels. Science 284: 1633-1634, 1999<br />

113 E.O. Wilson. Sociobiology: The new synthesis. Harvard University Press, Cambridge, 1975<br />

76


complesso intreccio di fatti e di teorie attorno alla vita intima delle termiti da fungo, delle lucertole,<br />

dei babbuini anubis, e di decine di migliaia di altre specie di animali sociali che hanno attirato<br />

l’attenzione degli zoologi di tutto il mondo” 114 .<br />

La tesi principale dei sociobiologi è che i geni hanno un ruolo nella genesi del comportamento di<br />

alcuni animali e probabilmente anche nell’uomo. E’ chiaro che quello che ha scatenato un putiferio<br />

non è l’idea che il formicaio sia retto da rigide regole scritte nel genoma della formica, perché<br />

questo è quello che molti si attendono anche da una visione molto superficiale di questi animali,<br />

bensì l’idea che anche il comportamento umano lo sia. Chi appoggia Wilson, fa notare che nel suo<br />

primo libro il comportamento umano era limitato all’ultimo capitolo, dopo una lunga trattazione<br />

degli insetti sociali. Ovviamente, tra i sociobiologi si va dai più radicali ai più miti, da quelli che<br />

invocano un certo ruolo dei geni nel comportamento umano, a quelli che invocano un controllo<br />

rigido. Per esempio se si legge lo stesso Wilson in un libro scritto otto anni dopo “Sociobiology”, la<br />

sua posizione sembra molto aperta:<br />

“Anche quando i principi derivati da studi di base vengono estesi agli esseri umani, non c’è alcuna<br />

ragione speciale per aspettarsi che il comportamento sociale umano sia del tutto biologicamente<br />

determinato. Potrebbe essere del tutto privo di ereditarietà, o, più probabilmente, qualcosa di<br />

intermedio” 115 .<br />

Detto per inciso, la polemica contro le tesi di Wilson è stata assai acerba ed è stata spesso formulata<br />

sulla base di considerazioni sociopolitiche. L’accusa fu che le tesi di Wilson potrebbero costituire la<br />

base di ideologie razziste e fasciste. Tra gli oppositori più fieri di queste teorie ci sono due insigni<br />

studiosi di evoluzionistica, quali Gould e Lewontin, secondo i quali è l’ambiente che forgia le<br />

personalità. In supporto a Wilson c’è invece Richard Dawkins, la cui analisi vuole estendersi non<br />

solo allo studio dell’evoluzione delle specie ma anche all’evoluzione della cultura umana.<br />

Lipidi egoisti e memi egoisti<br />

Richard Dawkins, che abbiamo già citato nel capitolo sull’evoluzione, è noto per aver introdotto il<br />

termine di “gene egoista” suggerendo che il target della selezione naturale non è l’organismo né il<br />

gruppo, bensì il gene.<br />

I risultati più recenti tuttavia tendono ormai a limitare l’idea del gene egoista a favore di un’altra<br />

ipotesi che sta ricevendo maggior attenzione tra gli addetti ai lavori. Anche se questa formulazione<br />

non ha ancora raggiunto il grosso pubblico perché i media non l’hanno ancora ripresa, è probabile<br />

che diventi la ideologia più diffusa nel millennio che sta per cominciare.<br />

Secondo la nuova teoria, sono i lipidi i veri dominatori del mondo. Questa asserzione si basa su<br />

numerosi fatti che sembrano incontrovertibili (non falsificabili). La loro rilevanza può essere più<br />

facilmente vista se confrontata con l’ipotesi alternativa del gene egoista, da cui è solo in parte<br />

derivata. In primo luogo, se si va ad analizzare tutte le varie forme di vita diffuse nel pianeta, è<br />

facile constatare che non esiste forma vivente che non abbia lipidi. In secondo luogo, per ogni unità<br />

di vivente, i lipidi predominano quantitativamente sugli acidi nucleici: in alcuni tipi cellulari<br />

addirittura costituiscono il 90% del contenuto secco. In terzo luogo, se si prende quello che è il più<br />

stupefacente prodotto dell’evoluzione, e cioè il nostro cervello, si dimostra che esso è<br />

tremendamente ricco di lipidi. In quarto luogo, nelle società tecnologicamente più sviluppate e più<br />

114 C.J. Lumsden & E.O. Wilson: Il fuoco di Prometeo. Le origini e lo sviluppo della mente umana.<br />

Mondadori, Milano, 1984, p. 64-65. L’edizione americana è del 1983.<br />

115 Ibidem, p. 65<br />

77


icche i lipidi la fanno da padrone, e questo malgrado un’intensa campagna denigratoria di<br />

gruppuscoli radicaleggianti che tende ad alterare il normale corso dell’evoluzione in cui i grassi<br />

cervelli tendono ad essere associati con voluminosi addomi. Vi è una grande concentrazione di<br />

lipidi nelle zone nevralgiche del pianeta come l’isola di Manhattan e vi è una chiara correlazione tra<br />

zone geografiche ad alto consumo di energia e quelle ad alta concentrazione lipidica. Anche se<br />

mancano stime esatte, è probabile che il 20% delle zone ad alto contenuto lipidico consumino l’80%<br />

delle risorse energetiche disponibili. Infine, spingendo l’analisi a livello molecolare, è accertato che<br />

i lipidi sono portatori di un numero di funzioni imprevedibili anche solo vent’anni fa. A riprova del<br />

loro ruolo va citato il fatto che senza lipidi non c’è vera vita: infatti i virus, che hanno acidi nucleici<br />

e proteine, ma non lipidi, non godono di vita autonoma ma hanno bisogno anche solo per la loro<br />

replicazione di cellule ricche di lipidi. Anzi, la loro prima azione è quella di connettersi con tutta<br />

una serie di lipidi organizzati quali quelli che formano la membrana plasmatica. Questa è la vera<br />

fonte di individualità che stabilisce la separazione di fondo tra l’individuo e il suo ambiente, la vera<br />

unità su cui agisce la selezione. Solo che i lipidi sono così astuti che per non dare nell’occhio fanno<br />

credere che dipenda tutto dagli acidi nucleici. Questi in realtà sono così monotoni e prevedibili da<br />

non poter essere la vera eminenza grigia della vita. I lipidi dominano il mondo e gli acidi nucleici<br />

sono solo i loro prestanomi.<br />

Questo breve testo è plausibile, solo che non vi siamo ancora abituati. Solo i posteri diranno se<br />

questa prospettiva abbia un grande futuro dinanzi a sé 116 . Direi che per ora il lipide egoista è nella<br />

stessa situazione del “meme” egoista.<br />

L’idea del meme come unità di base della selezione nel mondo della cultura dell’uomo, è stata<br />

esposta da Dawkins nell’ultimo capitolo del suo libro “Il gene egoista”.<br />

“Io credo che un nuovo replicatore sia emerso di recente proprio su questo pianeta. Ce l’abbiamo<br />

davanti, ancora nella sua infanzia, ancora goffamente alla deriva nel suo brodo primordiale ma già<br />

soggetto a mutamenti evolutivi a un ritmo tale da lasciare il vecchio gene indietro senza fiato. Il<br />

nuovo brodo è quello della cultura umana. Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore, un<br />

nome che dia l’idea di un’unità di trasmissione culturale o di un’unità di imitazione. “Mimeme”<br />

deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono affine a<br />

“gene”: spero che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in<br />

meme…..Esempi di memi sono melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi.<br />

Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o<br />

cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un<br />

processo che in senso lato, si può chiamare imitazione….I memi dovrebbero essere considerati<br />

come strutture viventi e non soltanto in senso metaforico, ma anche tecnico. Quando si pianta un<br />

meme fertile in una mente, il cervello ne viene letteralmente parassitato e si trasforma in un veicolo<br />

per la propagazione del meme, proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di<br />

una cellula ospite”. 117<br />

Ma i parallelismi “gene-meme” non finiscono qui. E’ accertato che un meme, come un gene, può<br />

essere egoista, anche spietato, come dice Dawkins, ma certamente non è obbligatorio che sia<br />

intelligente. Vi è in giro un’infinità di memi assolutamente deficienti che hanno fatto fortuna. Vi<br />

sono geni analoghi ? Certamente, basta guardare le sequenze ripetute presenti anche in un migliaio<br />

116 L’argomentazione sviluppata in questa forma leggermente eterodossa vuole mostrare come le<br />

stesse argomentazione fatte per il meme egoista e parzialmente per il DNA egoista siano trasferibili<br />

a parecchie altre situazioni. Il lipide egoista è tanto plausibile quanto il meme egoista, cioè assai<br />

poco. Soprattutto, entrambe non aggiungono nulla allo studio dei lipidi e delle idee, rispettivamente.<br />

117 R. Dawkins: Il gene egoista. Mondadori, Milano, 1995. p. 201-202.<br />

78


di copie nei genomi degli organismi superiori. Cosa servono nessun lo sa, ma si sono diffusi<br />

implacabilmente, tanto quanto le canzoncine dei Beatles.<br />

Una delle caratteristiche dei memi è che possono mutare. Anzi, come fa notare Dawkins la regola è<br />

che mutino. Come per i geni, alcune mutazioni sono vantaggiose per il meme e altre sono<br />

svantaggiose. Il più bell’esempio della mutazione di un meme che gli ha assicurato l’immortalità, o<br />

per lo meno molti secoli di vita, lo traggo da un libro di Luca Cavalli Sforza, noto genetista umano.<br />

Quando ero piccolo mi piaceva tantissimo l’aggettivo “lapalissiano”, che è più o meno sinonimo di<br />

evidentissimo, così evidente da essere addirittura sciocco. Mio padre, da cui ho appreso<br />

direttamente il meme mutato, mi spiegava che traeva origine dal detto su Monsieur de la Palisse<br />

“Un quart d’heure avant la mort, il était encore en vie”. In un suo libro, Cavalli Sforza sostiene che<br />

la versione originaria era “Un quart d’heure avant la mort, il faisait encore envie” e ha dalla sua la<br />

plausibilità 118 . E’ interessante notare come la versione mutata sia stata la fortuna del meme, perché<br />

è stata la sua stranezza a garantirne la conservazione, la versione corretta non sarebbe certamente<br />

stata ricordata o comunque non avrebbe avuto la diffusione che ha avuto. Vi sono numerosi esempi<br />

in natura di geni scorretti che hanno fatto ugualmente fortuna, basti ricordare il gene della<br />

drepanocitosi che è un gene della globina mutato. La sua fortuna, sembra accertato, dipende dal<br />

fatto che avere una copia del gene protegge in parte dai danni della malaria.<br />

Fermo restando che il futuro riserba sempre delle sorprese, c’è da chiedersi quali vantaggi ci<br />

derivino dalla formulazione del meme egoista. Finora sono stati prodotti articoli e libri e un certo<br />

numero di discussioni 119 , ma, dobbiamo chiederci, cosa abbiamo in più di quello che avevamo<br />

prima ? Tutti sapevamo già che un’idea o un concetto o anche una stupidata possono diffondersi, e<br />

che alcuni di questi hanno un successo strepitoso, mentre altri vanno nell’oblio. Che questo possa<br />

essere casuale è certo: quanti libri interessanti sono andati perduti nell’incendio della biblioteca di<br />

Alessandria o comunque sono scomparsi nel medioevo? E quanti libri interessantissimi sono<br />

completamente ignorati fin dalla loro pubblicazione ? Cosa ce ne viene in tasca dall’ipotesi dei<br />

memi egoisti o altruisti? Questo approccio sarà utile per spiegare l’evoluzione culturale, porterà a<br />

delle predizioni nuove che potranno essere verificate su come funziona il nostro cervello ? Dawkins<br />

ammette che “la teoria dei memi sia pura ipotesi”, ma il modo con cui è stato formulata fa dubitare<br />

persino che meriti tale appellativo.<br />

I gemelli<br />

Detto con parole semplici, poche persone obietterebbero che i geni controllano la maggior parte dei<br />

nostri caratteri fisici. La gente accetta facilmente che la propria statura o il proprio colore degli<br />

occhi siano dovuti ai geni, anche se malgrado tutti i risultati ottenuti dalla genetica, il metodo<br />

migliore per predire ad esempio l’altezza di un nascituro rimane quello di misurare i genitori, un<br />

approccio già disponibile migliaia di anni fa.<br />

In realtà non è così neanche per certi caratteri fisici che a prima vista potrebbero sembrare sotto<br />

stretto contatto genetico. Prendiamo ad esempio il peso o il volume dei muscoli. Entrambe queste<br />

caratteristiche fisiche subiscono una grande influenza di circostanze ambientali 120 . E cosa dire<br />

118 “Un quarto d’ora prima della morte, egli era ancora in vita”. La versione originale suona invece<br />

come “un quarto d’ora prima di morire egli faceva ancora invidia”. Per l’intera strofa vedi F & L.<br />

Cavalli Sforza: La scienza della felicità. Mondadori, Milano, 1997.<br />

119 Vedi ad esempio: S. Blackmore: The meme machine. Oxford University Press, Oxford, 1999<br />

120 Tutti coloro che come me sono fuori forma converranno che sono solo le avverse circostanze<br />

ambientali ad esserne responsabili, e non i nostri geni, che invece sono bellissimi.<br />

79


dell’intelligenza o di caratteri ancora più misteriosi quali quelli riassunti come “mentali” o<br />

“comportamentali” ?<br />

Il problema di quanto incidano i geni e di quanto incida l’ambiente è vecchio quanto l’umanità. Gli<br />

anglosassoni lo hanno denominato “nature-nurture”, natura (la genetica) o nutrimento (l’ambiente),<br />

e lo fanno risalire a Francis Galton, cugino di Darwin. Al di là dell’aneddotica, in questi ultimi<br />

cent’anni si è cercato di affrontare il problema con lo studio sistematico dei gemelli veri, detti anche<br />

identici o monovulari. I gemelli veri sono dei cloni, cioè hanno tutti i geni identici, mentre i falsi<br />

gemelli hanno in comune, come i normali fratelli, il 50% dei geni. I gemelli veri normalmente<br />

crescono nello stesso ambiente, pertanto non è possibile distinguere quanto nelle loro somiglianze<br />

comportamentali abbia giocato la genetica e quanto l’ambiente. Però, se i due gemelli venissero<br />

separati alla nascita, tutte le somiglianze comportamentali dovrebbero essere attribuite al loro<br />

assetto genetico.<br />

Naturalmente, non è possibile separare a bella posta i gemelli, ma in certi casi essi vengono dati in<br />

adozione oppure vengono separati alla nascita per le vicissitudini della vita. E’ chiaro che essi<br />

hanno già avuto in comune l’ambiente dei nove mesi di gravidanza, ma questo particolare è sempre<br />

stato considerato trascurabile. Almeno fino a due anni fa quando una meta analisi eseguita su oltre<br />

200 studi ha suggerito che il periodo passato nell’utero della madre contribuisce apprezzabilmente<br />

alla stima dell’ereditabilità dell’intelligenza, e che pertanto parte di quanto era stato ritenuto<br />

ereditario dipende invece dall’ambiente in cui il feto si sviluppa 121 .<br />

Gli studi effettuati in questo senso, in particolare per quanto riguarda l’intelligenza, sono giunti alla<br />

conclusione che grosso modo il 50% dei caratteri sono controllati dalla genetica. Questa è una<br />

conclusione rassicurante, in quanto sembrerebbe allontanare la possibilità, peraltro già negata da<br />

tutti i genetisti, di poter sfruttare la tecnica di clonazione per fabbricare individui che pensano e si<br />

comportano allo stesso modo. Si tratta comunque di conclusioni che vanno prese con le pinze,<br />

perché non sono così facili da effettuare. Bisogna inoltre pensare che, per quanto vengano separati<br />

alla nascita, non è ben chiaro quanto gli ambienti in cui vengono inseriti siano effettivamente<br />

diversi. Non capita quasi mai che uno dei due gemelli viene adottato da uno statunitense e l’altro da<br />

un boscimano; anche il censo delle famiglie cui vengono affidati probabilmente non è diversissimo.<br />

E’ importante rendersi conto che dai dati sull’ereditarietà dell’intelligenza c’è poi chi trae<br />

conclusioni di vasta portata, spesso assolutamente inadeguate. Per uno scienziato, che il quoziente<br />

d’intelligenza (IQ) sia predeterminato alla nascita, è un problema come un altro, ma per altri può<br />

urtare le proprie convinzioni. Qualche anno fa c’è stato un grosso dibattito sul libro di Herstein e<br />

Murray 122 , che partendo dall’ereditabilità dell‘IQ giungeva a conclusioni pesanti: c’è una<br />

correlazione tra IQ e stato sociale (cioè i più poveri sono meno intelligenti, come risulta dagli studi<br />

sulla distribuzione dell’IQ nella società); l’IQ generale dell’intera popolazione è destinato a<br />

scendere perché i più poveri (più stupidi) sono più fertili; i ricchi (più intelligenti) si sposeranno tra<br />

loro, aumenteranno il loro IQ e formeranno una casta sempre più distaccata dai più poveri.<br />

E’ chiaro che queste tesi possono a prima vista non piacere a molti, ma la prima domanda non è se<br />

piacciono o no, ma se siano motivate o campate per aria. Anche per chi è preoccupato per il destino<br />

dei poveri, la cosa migliore non è negare ciò che è vero, perché se si sa come stanno veramente le<br />

cose si riesce a controbatterle meglio. Un’altra cosa da evitare è quella di prendersela con gli autori,<br />

121 B. Devlin et al: The heritability of IQ. Nature 388:468-470, 1997; M. McGue: The democracy<br />

of the genes. Nature 388:417-418, 1997<br />

122 R.J. Hernstein & C. Murray: The Bell curve: intelligence and class structure in American life.<br />

Free Press, New York, 1994<br />

80


a meno che non sia provata la loro tendenziosità. In fondo il loro lavoro potrebbe essere un<br />

campanello d’allarme per effettuare interventi sociali più mirati 123 .<br />

Ora, il punto di partenza è sapere se è vero che i più ricchi sono più intelligenti dei più poveri.<br />

Facciamo attenzione, perché non vogliamo sapere se i più ricchi sono stati più intelligenti dei più<br />

poveri, perché in una società puramente meritocratica (che peraltro non esiste) chi ha ottenuto di più<br />

vuol dire che è stato più bravo. Il problema è se è nato così, oppure se lo è diventato. Perché se lo è<br />

diventato, allora non tramanderà la sua intelligenza alla sua progenie, la quale nascerà intelligente<br />

tanto quanto quella dei poveracci.<br />

Questa obiezione è molto vecchia e si basa su un problema di non facile soluzione. Quando si<br />

cominciò a formulare i questionari per misurare l’IQ, ci si rese conto facilmente che erano modellati<br />

su quella che era la cultura dominante, quella anglosassone dell’epoca, la quale va bene anche per<br />

gli altri Europei, ma va meno bene per molte minoranze. Inoltre, se la misurazione viene effettuata<br />

ad una certa età, ad esempio in età scolare, in realtà si va a misurare un IQ “attuale” dovuto alla<br />

genetica più tutto quello che è avvenuto negli anni precedenti. Questa presa di coscienza ha fatto sì<br />

che si cercasse da un lato di formulare quesiti che fossero il meno possibile orientati ad una<br />

particolare cultura, dall’altro di affrontare il problema in bambini più piccoli, riducendo così, ma<br />

non eliminando, le influenze ambientali. Parallelamente, si è cercato di migliorare le condizioni<br />

economiche delle classi meno abbienti così da eliminare le differenze dovute ad ambienti meno<br />

stimolanti.<br />

Non vi è però un accordo generale su quanto l’ambiente con cui si è venuti a contatto in periodo pre<br />

o peri-natale possa incidere. Pertanto ogni conclusione è prematura. Un secondo problema è quanto<br />

sia comunque ereditabile l’IQ. Perché se l’eredità è sostanzialmente inferiore al 50%, una vera casta<br />

di più intelligenti non può affermarsi: dopo qualche generazione, i discendenti di persone assai<br />

intelligenti tornano nella media. Pertanto le previsioni contenute nella Curva di Bell non possono<br />

essere accettate da tutti. D’altro canto, nature o nurture, sono in molti a pensare che i poveri stanno<br />

diventando sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi e che, visto che comunque un effetto da<br />

parte dell’ambiente è certo, anche se non perfettamente quantificabile, sarebbe bene darsi da fare<br />

per migliorare la vita dei meno fortunati e rivelare tutte le loro potenzialità che sono una grande<br />

risorsa della società 124 .<br />

Animali modificati<br />

In medicina e biologia si fa grande uso di modelli animali nella speranza che i risultati così ottenuti<br />

siano trasferibili all’uomo. E’ chiaro che le funzioni superiori esclusive della nostra specie non<br />

potrebbero venir indagate nel topo ed è altrettanto chiaro che anche quelli ottenibili non possono<br />

venir trasferiti tout court dai roditori all’uomo. Tuttavia le recenti tecnologie di manipolazione<br />

embrionale nei roditori che consentono di produrre e studiare animali transgenici e animali<br />

knockout ci permettono un approccio diretto allo studio del ruolo dei geni in alcuni comportamenti.<br />

Il principio, teoricamente assai semplice, è quello di inattivare un gene o, al contrario, farlo<br />

esprimere in maniera abnorme, e di vedere quali modificazioni avvengono nel comportamento.<br />

123 Machiavelli per esempio è rimasto come un esempio di depravazione politica. Tuttavia, secondo<br />

l’interpretazione che ne dà il Foscolo nei suoi Sepolcri, il Machiavelli col il suo libro avrebbe in<br />

realtà svelato al popolo la malvagità dei potenti (il Principe).<br />

124 Un esempio del ruolo dell’ambiente ci è fornito dalla vita di Mario Capecchi, l’inventore della<br />

tecnica degli animali knockout. Vedi: G. Stick: Of survival and science. Scient Am, agosto 1999, p.<br />

26-27<br />

81


Migliaia di animali transgenici sono stati prodotti e oltre 1000 geni sono stati sinora inattivati nel<br />

topo. I fenotipi ottenuti sono i più vari, e molti di questi colpiscono anche i comportamenti. Tuttavia<br />

nella maggior parte dei casi, il comportamento non è l’unico aspetto colpito: esso riflette un più<br />

vasto danno che ha luogo nell'intero organismo 125 . E’ possibile che alterazioni meno grossolane<br />

dell’espressione genica possa rivelare un ruolo dei geni nei processi fisiologici. Recentemente, ad<br />

esempio, è stato prodotto un topo transgenico che esprime aumentati livelli di una componente del<br />

recettore 2B del NMDA nel cervello dell’adulto: il topo ha mostrato prestazioni migliori in tre<br />

differenti test usati comunemente per valutare l’apprendimento del topo. Secondo gli autori, questi<br />

risultati fanno pensare che sia possibile aumentare nei mammiferi alcune caratteristiche mentali<br />

quali l’intelligenza e la memoria 126 . Pur rimanendo scettico, mi auguro, essendo ormai in età<br />

avanzata, che questa previsione si avveri al più presto possibile.<br />

Anche la tossicodipendenza, dall’alcool o dalla cocaina, cominciano ad essere studiati con questi<br />

animali modificati. Molto recentemente è stato riportato uno studio che, partendo da osservazioni su<br />

due specie assai vicine tra loro, l’arvicola (“vole”) della prateria e l’arvicola della montagna, delle<br />

quali solo la prima è monogama 127 , ha evidenziato un gene, il recettore della vasopressina, che<br />

avrebbe un ruolo nella genesi di questo comportamento. Gli autori hanno poi creato dei topi<br />

transgenici che riproducono il pattern di espressione di questo gene nell’arvicola della prateria,<br />

notando un aumento delle cure dedicate ai figli. Lo studio è interessante, se confermato, perché la<br />

modifica del comportamento è assai selettiva e non si accompagna ad altre alterazioni evidenti 128 .<br />

La genetica umana e i geni del comportamento<br />

Ai tempi in cui Wilson e Dawkins lanciavano le loro idee della sociobiologia e del gene egoista<br />

lavorando principalmente sugli organismi sociali meno sviluppati, essenzialmente insetti, la<br />

genetica umana era ai suoi albori e non era possibile una dimostrazione diretta delle loro ipotesi<br />

nell’uomo. Oggi però, la domanda se i geni hanno uno stretto controllo sulle caratteristiche<br />

comportamentali dell’uomo (che è poi quello che è di pertinenza del presente volume, poiché di<br />

quello che succede alle formiche la nostra antropocentrica specie non se ne interessa granché) può<br />

essere affrontata con le tecniche della genetica classica che sono state usate negli ultimi due decenni<br />

e che sono servite per identificare i geni di numerose malattie ereditarie. Le problematiche sollevate<br />

da questi autori pertanto sono oggi testabili, anche se ci sono numerosi aspetti che le rendono al<br />

momento di difficile soluzione. L’approccio basato sull’analisi di “linkage” consente di esaminare<br />

se un qualsivoglia “tratto” fenotipico, sia esso una malattia leggera o grave, un qualsiasi aspetto<br />

fenotipico, o appunto un aspetto del carattere sia legato ad una determinata regione cromosomica.<br />

Purtroppo è necessario qui un breve richiamo di genetica umana. Pur appartenendo tutti alla stessa<br />

specie, il genoma di ognuno di noi è un pochino diverso dagli altri, fatta eccezione per i gemelli<br />

monovulari. Queste piccole differenze vengono chiamate polimorfismi e sono distribuite su tutti i<br />

cromosomi umani. E’ possibile seguire nelle varie generazioni questi polimorfismi che vengono<br />

ereditati essenzialmente secondo le leggi di Mendel. Pertanto, se uno di questi polimorfismi cade<br />

dentro o assai vicino al gene responsabile di una malattia, è possibile individuarlo se si dimostra che<br />

125 Vedi ad esempio: F. Tronche et al: Disruption of the glucocorticoid receptor gene in the nervous<br />

system results in reduced anxiety. Nature Genet 23:99-103, 1999<br />

126 Y. Tang et al: Genetic enhancement of learning and memory in mice. Nature 401:63-69, 1999<br />

127 S.C. Carter & L.L: Getz: Monogamy and the prairie vole. Scient Am, giugno 1993, p. 100-106<br />

128 L.J. Young et al: Increased affiliative response to vasopressin in mice expressing the V1a<br />

receptor from a monogamous vole. Nature 400:766-768, 1999<br />

82


quel particolare polimorfismo è presente nei malati e assente negli individui sani. Questo metodo,<br />

detto analisi di legame (linkage analysis) si è rivelato potentissimo in patologia umana<br />

nell'identificare i geni responsabili di malattie monogeniche.<br />

Ma i problemi sono tanti. L’analisi di linkage ha fornito ottimi risultati nel campo delle malattie<br />

ereditarie monogeniche, cioè quelle che, come la fibrosi cistica, dipendono appunto dall’alterazione<br />

di un solo gene. Ma è assai poco probabile che i nostri atti comportamentali siano dovuti ad un gene<br />

solo: probabilmente sono sotto il controllo di molti geni (tratti o malattie multigenici). Inoltre, è<br />

anche probabile, per le ragioni esposte sopra, che oltre alla componente genetica, vi siano anche<br />

fattori ambientali. Si dice allora che i tratti indagati, o la malattia in studio, sono multifattoriali. Ma<br />

nel campo delle malattie multifattoriali, i risultati ottenuti sinora con l’analisi di linkage sono scarsi,<br />

e limitati ad un piccolo numero di malattie, quali ad esempio il diabete, la cui base genetica è<br />

comunque certa.<br />

E questo è il primo problema: l’analisi è relativamente facile se la malattia, il tratto o il carattere è<br />

definito da un solo gene e se la definizione del carattere in questione è chiara. In questo caso, si può<br />

facilmente vedere se il carattere è legato ad un gene. E’ quello che fece per primo Mendel più di<br />

cento anni fa. Ma se la malattia è multifattoriale, è difficile al momento attuale evidenziare un<br />

linkage se questo è inferiore al 10%, anche se le analisi potranno essere affinate in futuro.<br />

Ma poi c’è un altro problema: la diagnosi o se si vuole la definizione del carattere. Se può essere<br />

relativamente facile fare diagnosi di diabete, non lo è altrettanto fare diagnosi di una malattia che<br />

colpisce la psiche. Prendiamo la depressione ad esempio. Vi sono vari gradi di depressione, dove<br />

stabilire la soglia? Vi è la depressione per cause fondate, ma queste non possono essere confuse con<br />

quelle immotivate. Altre malattie insorgono in età avanzata, altre devono essere ricostruite sulla<br />

base di quello che viene riferito dai figli o dai nipoti perché la persona è deceduta. E’ chiaro che c’è<br />

il rischio di qualificare come depresso uno che non lo è o non lo era, oppure di catalogare come non<br />

affetto una persona che tuttavia svilupperà la malattia in età più avanzata e tutto questo disturba<br />

l’analisi. Molto spesso inoltre, queste diagnosi o la definizione dei caratteri normali vengono fatti<br />

sulla base di questionari multiscelta che il paziente compila da solo e anche se molti di questi sono<br />

stati validati da anni di ricerche cliniche, non sono il massimo del desiderio. Ne consegue che se si<br />

confrontano le diagnosi di vari specialisti sugli stessi soggetti, si constata che esse possono variare<br />

anche di parecchio.<br />

Inoltre la malattia può essere eterogenea, cioè può avere cause diverse. Capita infatti abbastanza di<br />

frequente che lo stesso quadro clinico che definisce una malattia (o una sindrome) ereditaria si riveli<br />

dovuto ad alterazioni in geni diversi. Anche questo confonde l’analisi, perché il linkage con una<br />

regione cromosomica potrebbe essere evidenziato solo in un sottoinsieme di questi pazienti.<br />

Tutto ciò contribuisce a rendere l’analisi difficile. Questo sia in campo patologico che in quello<br />

fisiologico. Così non stupisce che sono stati riportati linkage positivi per schizofrenia, sindrome<br />

maniaco-depressiva, omosessualità, autismo. Nel complesso però non vi è una grande concordanza<br />

su questi risultati, e molti di essi, dopo una segnalazione iniziale sono stati messi in dubbio da studi<br />

successivi. All’inizio degli anni novanta ad esempio, in uno studio che, per così dire, ha inaugurato<br />

la genetica del comportamento, lavorando su una popolazione alquanto peculiare, gli Amish, era<br />

stato riportato che un gene di questa sindrome mappava sul cromosoma X, ma questi risultati sono<br />

stati completamente smentiti.<br />

Negli anni novanta gli studi più sbandierati in questo settore sono stati quelli sulla schizofrenia,<br />

sull’omosessualità e su una caratteristica denominata estroversione (“novelty seeking”). La<br />

schizofrenia è una psicosi, di cui non si è riusciti a fissare una base anatomica, fisiologica o<br />

83


iochimica certa; tuttavia vi sono alcune indicazioni che possa esservi una causa non puramente<br />

psicologica della malattia, e pertanto essa sembrerebbe uno dei primi candidati per studi genetici. In<br />

effetti, dei legami con alcune regioni cromosomiche sono stati stabiliti, il che ha fatto pensare che<br />

questi geni esistano. Tuttavia essi non sono stati isolati e alcuni dati sono controversi.<br />

Tuttavia si tratta pur sempre di una malattia grave, e la gente sarebbe ben disposta ad accettarne una<br />

base genetica. Ma che dire dell’omosessualità ? Qui la gente molto spesso potrebbe invocare degli<br />

eventi insorti durante la vita dell’individuo, delle esperienze negative. Vi sono è vero alcuni studi<br />

che depongono per differenze anatomiche riscontrabili tra maschi normali e maschi omosessuali 129 ,<br />

ma anche queste non sono conclusive e comunque potrebbero rappresentare una conseguenza e non<br />

una causa. Così nel 1993, quando Dean Hamer, lavorando presso i National Institutes of Health di<br />

Bethesda, riportò un linkage tra la regione cromosomica Xq28 e l’omosessualità maschile, il suo<br />

lavoro ebbe una grande risonanza 130 . Due anni dopo gli stessi autori riportarono ulteriori dati a<br />

sostegno della loro tesi 131 , ma nel 1999 un grosso studio di ricercatori canadesi ha messo in dubbio<br />

questi risultati 132 . Chi abbia ragione, in questo momento non si sa.<br />

Più o meno la stessa sorte è toccata ad un altro studio che aveva legato un carattere<br />

comportamentale ad un gene che codifica per il recettore della dopamina. Nel 1996, due studi, uno<br />

dello stesso Hamer, avevano sostenuto che chi è portatore di una particolare forma di questo<br />

recettore ha una maggior probabilità di essere un individuo estroverso, uno che ama l’avventura, un<br />

“novelty seeking” per gli inglesi 133 . Tre studi successivi però non sono stati in grado di confermare<br />

questa associazione 134 .<br />

Questi risultati, che possono per il momento essere considerati globalmente come negativi, tuttavia<br />

non possono essere considerati come conclusivi. Non si può ancora concludere che questi specifici<br />

tratti fisiologici o patologici non hanno una componente genetica. Né tanto meno si può escludere<br />

tout court che non vi siano comportamenti geneticamente determinati. Come abbiamo visto si tratta<br />

di studi assai difficili da compiere. Tuttavia la sequenza completa del Genoma Umano e la lista<br />

129 Vedi ad esempio: S. LeVay: A difference in hypothalamic structures between heterosexual and<br />

homosexual men. Science 253:1034-1037, 1991<br />

130 D.H. Hamer et al: A linkage between DNA markers on the X chromosome and male sexual<br />

orientation. Science 261:321-327, 1993. Vedi anche l’editoriale che accompagna l’articolo, assai<br />

ottimista: Evidence for homosexuality gene. Ibidem p. 291.<br />

131 S. Hu et al: Linkage between sexual orientation and chromosome Xq28 in males but not in<br />

females. Nature Genet 11:248-256, 1995<br />

132 G. Rice et al: Male omosexuality: absence of linkage to microsatellite markers at Xq28. Science<br />

284:665-667, 1999. Vedi anche la discussione successiva in I. Wickelgren: Discovery of gay gene<br />

questioned. Science: 284:571, 1999. Uno degli autori del lavoro di Science del 1999, l’esperto di<br />

analisi di linkage Neil Risch aveva peraltro manifestato grossi dubbi anche in precedenza. Vedi la<br />

corrispondenza sull’originale articolo di Rice in: Science 262:2063-2065, 1993<br />

133 J. Benjamin et al: Population and familial association between the D4-dopamine receptor gene<br />

and measures of novelty seeking. Nature Genet 12:81-84, 1996; R.P. Ebstein et al: Dopamine D4<br />

(D4DR) exon III polymorphism associated with the human personality trait of novelty seeking.<br />

Nature Genet 12:78-80, 1996<br />

134 A.K. Malhotra et al: The association between the dopamine D4 receptor (D4DR) 16 amino acid<br />

repeat and novelty seeking. Mol Psychiatry 1:388-391, 1996; E.G. Johnsson et al: Lack of evidence<br />

for allelic association between personality traits and the dopamine D4 receptor gene<br />

polymorphisms. Am J Psychiatry 154:697-699, 1997; D4 dopamine-receptor (DRD4) alleles and<br />

novelty seeking in substance-dependent, personality-disorder and control subjects. Am J Hum<br />

Genet 61:1144-1152, 1997<br />

84


completa di tutti i nostri geni insieme ad una radicale semplificazione delle tecniche di<br />

sequenziamento, consentiranno di testare numerosi geni candidati in un numero consistente di<br />

pazienti. E’ possibile che fra una ventina d’anni si possa avere qualche dato più preciso su questi<br />

problemi.<br />

Non potrebbe l'altruismo vero essere invece totalmente frutto della cultura? Essere un<br />

comportamento completamente appreso? In fondo, l'emergere dell'uomo ha prodotto numerosi<br />

comportamenti che sono anti-evolutivi e che lo sono per motivi culturali. Ad esempio il calo delle<br />

nascite è un'anormalità incomprensibile per i geni egoisti. I geni hanno prodotto una macchina che<br />

gli si rivolta contro. Hanno portato al successo i polimorfismi dell'uomo bianco, ma come negli<br />

scenari fantascientifici, questi replicanti (che siamo noi) vogliono liberarsi della schiavitù dei geni e<br />

scelgono di farlo nell'unico modo possibile: il suicidio riproduttivo. Nemesi storica.<br />

La relazione tra geni e comportamento, è un problema di grande interesse che coinvolge vari aspetti<br />

della nostra vita. In parte verrà discusso anche a proposito del funzionamento cerebrale. Qui è<br />

importante però far notare come il dibattito non può essere oscurato da considerazioni di tipo sociopolitico.<br />

Queste considerazioni devono essere successive e non preliminari all’accertamento dei<br />

fatti. In altre parole, prima c’è il problema se i geni dirigano o no il nostro comportamento, poi si<br />

può riflettere sulle conseguenze sociali che questo comporta. Negare che i geni possano regolare i<br />

nostri comportamenti perché alcuni potrebbero basarsi su questo fatto per giustificare il razzismo<br />

dimostra un approccio errato al problema della conoscenza.<br />

Rose, Lewontin e Kamin hanno scritto un libro di risposta alle tesi di Wilson e Dawkins: “Not in<br />

our genes” 135 . Il titolo riassume assai bene il contenuto: i nostri comportamenti non sono predetti<br />

dai nostri geni. Ma l’enfasi del libro è troppo messianica e poco scientifica. Non si può sposare una<br />

tesi sulla base delle proprie convinzioni ideologiche. Se i geni svolgono un ruolo nella<br />

determinazione del comportamento, ce l’hanno ci piaccia o no. Quello che si può fare onestamente<br />

al momento è raccogliere dati a favore o contro le due tesi, perché oggi c’è un’unica risposta a<br />

questa domanda: non sappiamo se e quanto i geni influiscano. E’ evidente, come abbiamo detto, che<br />

i geni non determinano tutto né nel caso dell’uomo né nel caso dei mammiferi. Se uno nasce con<br />

tutti i geni giusti per essere grasso ma nasce nel Ruanda o nel Biafra, è assai difficile che lo diventi,<br />

almeno finché non cambiano le condizioni di vita in questi paesi. Parimenti, se uno nasce nelle<br />

favelas ha scarsa probabilità di diventare professore universitario, ma se viene adottato la sua<br />

probabilità aumenta. Ognuno di noi ha migliaia di casi analoghi nella sua esperienza. La maggior<br />

parte degli scienziati è d’accordo che parte è dovuto ai geni e parte no, ma il dibattito è sulla<br />

percentuale. Oggi questo è la sfida conoscitiva, quantificare queste percentuali. Per il resto si<br />

scivola sulle asserzioni fideistiche o sulle dichiarazioni politiche che hanno rilevanza morale, non<br />

fattuale.<br />

Rilevanza filosofica<br />

Secondo Dawkins e Wilson, il caso dell’altruismo è un caso particolare di comportamento, in un<br />

framework in cui tutti i comportamenti umani sono scritti nei geni. E’ chiaro che questo problema è<br />

di grande portata filosofica, nel senso in cui abbiamo definito filosofia. Infatti esso coinvolge il<br />

problema del libero arbitrio, della colpa e del merito, del fato e del nostro destino. Infinite le pagine<br />

letterarie e quelle filosofiche dedicate a questo problema. Ancora una volta i Greci hanno detto<br />

tutto. E’ inutile che Teti si affanni a rendere invulnerabile il corpo del figlio, è scritto, ed Ettore<br />

prossimo alla morte lo vede chiaramente, che Febo Apollo e Paride, malgrado il suo valore, lo<br />

135 S. Rose, R. Lewontin, L. Kamin: Il gene e la sua mente. Arnoldo Mondadori Editore, Milano,<br />

1983. Titolo dell’edizione originale: Not in our genes, edito nello stesso anno.<br />

85


uccideranno alle Porte Scee. Come si vede, neanche agli dei è concesso di mutare il destino. Non è<br />

solo il nostro destino fisico ad essere già scritto, ma anche le nostre azioni, i nostri atti di rilevanza<br />

morale. Il destino di Edipo è già determinato alla nascita, è inutile che suo padre o lui stesso<br />

cerchino di mutarlo. Che Edipo sia un uomo probo o una carogna, al fato poco importa, egli è<br />

destinato a macchiarsi dei delitti più orrendi. Mutano i dettagli, il destino è scritto nei cieli piuttosto<br />

che all’interno di noi nei nostri geni, ma il succo non cambia.<br />

Qual è la posizione più realista su questo problema: il comportamento è completamente determinato<br />

dai geni ? E’ assai improbabile che sia così. In primo luogo, vi è tutta una serie di studi che ha<br />

ampiamente dimostrato l’influenza di fattori ambientali su una serie di comportamenti di cui il più<br />

banale è l’intelligenza. Neanche questo elemento è geneticamente determinato, figuriamoci quelli<br />

più complessi quali il libero arbitrio, la forza di volontà, la bontà, la gioia di vivere ecc. In secondo<br />

luogo, il fenomeno del linguaggio è esemplare: noi ereditiamo presumibilmente una struttura che ci<br />

rende idonei al linguaggio, che potrebbe benissimo essere avere una base anatomica e<br />

neurofisiologica, ma è completamente assente dai geni prescrivere che parleremo l’inglese piuttosto<br />

che il tedesco. Potremmo anche non parlare affatto, se non venissimo per ipotesi a contatto con il<br />

linguaggio umano.<br />

Potrebbe essere utile vedere cosa succede con un sistema strettamente determinato. Il suo<br />

comportamento sarà monomorfo, le sue mosse saranno prevedibili ? Il sistema Deep Blue, che ha<br />

recentemente battuto il campione mondiale di scacchi Gary Kasparov è completamente descrivibile<br />

in termini di software, e potrebbe essere preso come esempio di un sistema completamente<br />

determinato: del resto è una macchina, e molti sosterrebbero che le idee estreme dei sociobiologi ci<br />

assimilano a questo. Dawkins dice appunto che noi siamo dei robot per la sopravvivenza dei nostri<br />

geni. Ma chi potrebbe pensare di conoscere le mosse di Deep Blue ? impossibile, perché Deep<br />

risponderà a seconda della mossa del suo avversario. Quindi, anche nel sistema geneticamente più<br />

determinato, le sue mosse dipendono dagli stimoli che riceve dall’ambiente. Per i sistemi che<br />

apprendono, lo sviluppo dipende da quello che incontrano. E’ difficile avere umani identici in<br />

partenza per testare l’ipotesi, bisogna ricorrere ai gemelli monoovulari, ma anche in questo caso i<br />

parametri non sono facilmente controllabili. Sarei veramente curioso di vedere due sistemi identici<br />

che affrontano l’uno i migliori giocatori di scacchi del mondo e l’altro dei brocchi. Penso che ad un<br />

certo punto non saranno più completamente uguali. Questo esperimento, facile da fare, fa pensare<br />

che stimoli diversi producano personalità e comportamenti diversi. Figuriamoci poi se il sistema è<br />

diverso già in partenza.<br />

D’altro canto, è chiaro che i geni qualcosa controllano. Se si guarda all’estrema varietà di razze<br />

canine, che appartengono pur tutte alla stessa specie, si deve concludere che il pessimo carattere del<br />

bull dog (pitbull), qualche legame ai suoi geni ce lo deve pur avere. La varietà delle razze canine<br />

può essere considerato un esperimento di natura (anche se l’uomo ha contribuito ad amplificare il<br />

fenomeno), ed è lecito usarlo per trarre conclusioni.<br />

E’ chiaro che se tutto fosse scritto nei geni, il nostro concetto di colpa e pena subirebbe delle<br />

trasformazioni notevoli. Chi potrebbe più essere definito colpevole delle sue azioni ?<br />

Un’implementazione in campo giuridico di questi principi, ora come ora, sarebbe assolutamente<br />

impossibile, nessuna società complessa presumibilmente potrebbe rimanere in piedi. In realtà, nel<br />

periodo successivo al secondo conflitto mondiale, si è diffuso ampiamente nell’opinione pubblica<br />

una progressiva presa di coscienza dei limiti della responsabilità individuale nelle azioni.<br />

Paradossalmente, le ragioni portate avanti per sostenere la non responsabilità erano di natura<br />

opposta a quelle dei sociobiologi. Era l’ambiente a determinare le azioni dell’individuo, gli episodi<br />

che avevano segnato la sua vita, dalla nascita in ambienti sociali disastrati fino alla sua crescita in<br />

circostanze disperate. Ora questa conclusione è ampiamente accettata dall’opinione pubblica ed è<br />

86


presa in considerazione nei processi, ma solo fino ad un certo grado. Non tutti quelli che nascono in<br />

ambienti disastrati diventano delinquenti, quindi una parziale responsabilità personale rimane.<br />

Altrimenti non varrebbe neanche la pena di fare i processi.<br />

Ma sarebbe lo stesso se invece dell’ambiente in cui siamo cresciuti giungessimo alla conclusione<br />

che è dai geni che deriva il nostro comportamento reale. Cosa ci potevo fare, sosterrebbe l’accusato,<br />

sono nato col gene sbagliato. Come potete avere il coraggio voi, che siete nati con l’allele giusto, di<br />

rinchiudermi ad Alcatraz, solo perché ho qualche nucleotide di differenza? Ma anche per i nati con<br />

tutto il genoma a posto che soddisfazione ci sarebbe? Non solo non avremmo merito alcuno per le<br />

nostre conquiste acquisite solo apparentemente con grande sacrifici, ma anche tutte le nostre azioni<br />

più nobili non varrebbero nulla. Leonida si fa trucidare alle Termopili perché ha l’omologo del gene<br />

della formica-guerriero, Pietro Micca perché era omozigote per il gene di “il rischio è il mio<br />

mestiere” mentre Salvo d’Acquisto e Padre Kolbe avevano un gene che non consentiva loro di<br />

tacere al momento opportuno.<br />

Da un punto di vista pratico, la situazione diventerebbe insostenibile e dovrebbero intervenire tutta<br />

una serie di stravolgimenti sociali che non sarebbero compatibili con la odierna società. Né sarebbe<br />

giustificabile l’ottimismo di Dawkins secondo il quale noi siamo diventati ora in grado di fregare i<br />

geni egoisti, perché tutto, anche questa capacità sarebbe già scritta nei geni.<br />

87


Capitolo 5.<br />

LA COSCIENZA<br />

Quanto abbiamo detto sinora riguardava, da un punto di vista filosofico, il problema della realtà<br />

esterna e di un ordinatore che si ponesse garante della sua esistenza e del suo ordine. L’altro grande<br />

problema è quello di cercare di capire qualcosa sulla nostra individualità in mezzo al mondo. Qual è<br />

la ragione della nostra peculiarità nel mondo animale, cui nel corso dei secoli sono stati dati i nomi<br />

più diversi: personalità, coscienza, mente, anima, psiche, cervello, io, self, ego e superego e così<br />

via. Problema anche storicamente filosofico per eccellenza, perché da quando il pensiero umano ha<br />

cominciato ad essere tramandato, di queste cose si trova ampia traccia. Anzi, se ne trovano tracce<br />

anche in epoca preistorica con ampie documentazioni su sepolture e cerimonie che presuppongono<br />

una qualche teoria della mente e della capacità di sopravvivere dopo la morte.<br />

Così, nell’antichità questo problema è stato affrontato in maniera che affermerei scientifica (cioè<br />

valida, razionale, sensata), naturalmente per l’epoca. Quello che mancava erano le tecniche, ma<br />

sarebbe assurdo far dipendere il senso di un problema dalla potenza delle tecniche. Secondo il mito<br />

ristretto della scienza odierna, e delle ideologie ad essa correlate del neopositivismo e del<br />

behaviorismo, tutto il capitolo della nostra personalità è privo di senso.<br />

Il behaviorismo è spesso ritenuto l’applicazione delle dottrine neopositiviste al campo della<br />

psicologia. In realtà, l’enunciazione teorica del behaviorismo fu effettuata in America<br />

indipendentemente dal Circolo di Vienna, e si richiama semmai ai lavori della psicologia sovietica<br />

sul condizionamento in psicologia animale. Il behaviorismo pensava che tutta la psicologia, che in<br />

ultima analisi era lo studio del comportamento, potesse essere descritta in termini di stimolo e<br />

risposta. Tutto quello che accadeva in mezzo, cioè (nel caso della psicologia umana) nella testa<br />

della gente, non interessava a nessuno, essenzialmente perché, non potendosene parlare, bisognava<br />

tacerne. Nei casi dei behavioristi più estremi, forse non esisteva neanche. Come fu detto di John<br />

Broadus Watson, una delle figure principali del behaviorismo, la sua teoria sosteneva che egli non<br />

aveva una mente.<br />

Negli ultimi 40 anni, tuttavia, l’atmosfera a proposito della coscienza e dei problemi interconnessi si<br />

è in parte mutata. Oggi, il behaviorismo è praticamente scomparso. Al suo posto c’è la “teoria<br />

cognitiva”. Essa prende come oggetto di studio la coscienza. In realtà, quella del cognitivismo, più<br />

che una disciplina o una teoria è un approccio. Si tratta di pensare che il problema della coscienza,<br />

della personalità o come diavolo si voglia chiamarlo, è analizzabile con metodo scientifico. La<br />

scienza cognitiva ha la sua galleria di antenati e le sue bestie nere, come ogni “ismo” che si rispetti<br />

136 . Ha dei pregiudizi, ma ha anche un grande merito, che per certi aspetti la rende una scienza<br />

simile a quella invocata nel primo capitolo: le va bene tutto. In effetti mette insieme intelligenza<br />

artificiale e robotica, psicologia e bioimmmagini, neurobiologia e biologia molecolare, filosofia e<br />

matematica e chi più ne ha più ne metta. Sarebbe addirittura quasi disposta ad accettare anche le<br />

teorie di Freud, se fossero appena un po’ più rispettabili. L’unico escluso è il dualismo di Descartes,<br />

che il cognitivismo aborre quanto la natura aborriva il vuoto.<br />

136 Descartes è ovviamente lo spirito da esorcizzare. Gli empiristi britannici del XVIII secolo sono i<br />

padri nobili. Più recentemente, si ritiene che il behaviorismo, che dominò la psicologia<br />

anglosassone della prima parte del Novecento, abbia rappresentato il più grande avversario dello<br />

studio scientifico della coscienza. Il behaviorismo venne superato tramite la convergenza di vari<br />

fattori, che includevano non solo nuove scoperte e idee in psicologia, ma anche l’influenza di nuove<br />

linee di ricerca quali appunto l’informatica, la neurofisiologia e la linguistica.<br />

88


Pertanto siamo di fronte ad un esempio classico di quanto l’aggredibilità di un problema e l’idea che<br />

se ne ha di esso sia funzione del tempo e dello spazio. Oggi la coscienza è un problema rispettabile<br />

anche nel mondo anglosassone e vi sono degli ottimi corsi di laurea sull’argomento, gli studenti vi<br />

si iscrivono e trovano posti di lavoro nelle più riduzioniste università americane. Parte di questa<br />

rispettabilità è stata costruita sugli avanzamenti tecnologici, dei quali Democrito, Platone e<br />

Aristotele non potevano disporre. Ma i problemi cui le scienze cognitive si rivolgono sono gli stessi<br />

di duemila anni fa, e talora anche le soluzioni sono dello stesso tipo. L’innatismo delle idee di<br />

Platone (che la nostra anima aveva contemplato nell’iperuranio) è così diverso dalla concezione di<br />

Noam Chomsky che oggi postula una grammatica o una sintassi innata ?<br />

Vi sono almeno due grossissimi filoni nelle scienze cognitive. Il primo è quello che cerca la<br />

coscienza nella neurofisiologia, il secondo è quello che ritiene che la nostra mente possa essere<br />

paragonata ad un ottimo computer. In pratica, il primo filone è costituito da scienziati che studiano<br />

il funzionamento del cervello umano o animale con le tecnologie avanzate di tipo neurofisiologico o<br />

neurobiologico, mentre nel secondo filone troviamo esperti di intelligenza artificiale, informatici,<br />

matematici, fisici, robotisti (?) che cercano di far fare al computer tutto quello che sembra<br />

specificatamente umano. Poi però vi sono filosofi che hanno un notevole addestramento in uno o<br />

addirittura in tutte e due i campi, psicologi dell’evoluzione cognitiva, linguisti come Noam<br />

Chomsky e i suoi eredi, medici che seguono pazienti con lesioni cerebrali selettive e chiunque altro<br />

si voglia cimentare nel problema. I due filoni pertanto non sono affatto mutuamente esclusivi ed è<br />

disponibile un vario campionario di pensatori ibridi. Naturalmente vi sono anche fieri avversari che<br />

difendono tenacemente le proprie intuizioni o attaccano coraggiosamente le posizioni altrui.<br />

Si può pensare che una cosa accomuni tutti questi pensatori e scienziati: l’avversione al dualismo.<br />

Qui tuttavia è necessario fare una precisazione rilevante. Dal momento che tutti costoro sono fieri<br />

avversari del dualismo cartesiano, si dovrebbe concludere che siano tutti monisti, cioè in questo<br />

caso, materialisti. Certamente ad invocare homunculi, spiritelli o fantasmi, anime o menti<br />

immateriali tra i seguaci del cognitivismo si sarebbe guardati di sbieco. Tuttavia questo non<br />

significa che il dualismo non abbia sostenitori tra gli scienziati o che per lo meno non vi siano<br />

numerose posizioni per così dire agnostiche. Per certi aspetti il cognitivismo si autodefinisce<br />

monista e non accetta i dualisti, ma questo non esclude che i dualisti ancora esistano: certamente vi<br />

è tutta una scuola psicologica che non si riconoscerebbe nel monismo materialista.<br />

Le neuroscienze<br />

L’ultima frontiera non è negli spazi siderali ma dentro di noi. Oggi si comincia ad investigare<br />

qualche cosa di questo mistero, ma la complessità è tale che ci sentiamo sperduti. Mentre è possibile<br />

pensare che un giorno tutto sarà risolto, oggi quello che possiamo dire del cervello, della mente,<br />

della coscienza, della volontà e del libero arbitrio, è molto poco. Cos’è la coscienza, cos’è la mente,<br />

gode essa forse dello stesso statuto delle idee platoniche ? Gli uomini muoiono, e le loro idee ?<br />

Quali sono i rapporti tra mente e cervello ? Alla vaghezza dei termini e dei problemi si accompagna<br />

l’assoluta mancanza di teorie esplicative del calibro di quelle che abbiamo visto nei capitoli<br />

precedenti.<br />

Non c’è un unico quadro ben sistematizzato dei fatti rilevanti a questo problema, ma vi sono<br />

piuttosto dei risultati a macchia di leopardo, che rimangono purtroppo isolati senza che si riesca a<br />

spingere le nostre conclusioni più in là. Tra questi abbiamo le ipotesi dell’intelligenza artificiale, lo<br />

studio del linguaggio nei primati, le nuove tecnologie per l’indagine del cervello umano in vivo e<br />

soprattutto la patologia umana.<br />

89


Tra tutti i termini cui nel corso dei secoli ci si è riferiti al problema anima-corpo, l’unico che ci è<br />

sufficientemente chiaro perché lo vediamo, lo tocchiamo, lo guardiamo al microscopio, è quello di<br />

“cervello”. Quello che qui ci interessa comunque, non è lo studio del cervello in quanto tale, su cui<br />

negli ultimi due decenni sono stati compiuti enormi passi avanti, basti ricordare lo studio delle<br />

malattie neurodegenerative, quelli di neurobiologia cellulare e quelli di neurofarmacologia. Ad<br />

esempio, la plasticità del cervello, ed in particolare della giunzione sinaptica, è stata dimostrata e<br />

così pure l’esistenza di cellule staminali che potrebbero essere di grande interesse anche terapeutico.<br />

I neurotrasmettitori e i loro recettori sono stati identificati con precisione attraverso la combinazione<br />

di tecniche biochimiche, genetiche e farmacologiche. Lo sviluppo del sistema nervoso viene ora<br />

studiato a livello del ruolo del singolo gene e le tecniche di inattivazione genica cominciano a dare<br />

dividendi anche sul cervello e sul comportamento. Le basi biochimiche e genetiche della memoria<br />

cominciano a venir elucidate. E’ prevedibile che grandi progressi verranno compiuti nei prossimi<br />

decenni.<br />

Quello che ci interessa è invece cosa si sa di quelle che sono le funzioni superiori del nostro<br />

cervello. L’intelligenza e la memoria sono le più basse tra queste. In fondo le prove dell’intelligenza<br />

degli animali fanno parte dell’esperienza quotidiana. Quanto alla memoria, è accettato anche a<br />

livello popolare che quella dell’elefante sia migliore della nostra. Possedere una memoria enorme o<br />

un’intelligenza sopraffina ci può essere utile, ma non ci risolve alcuno dei problemi filosofici di<br />

vecchia data. Tuttavia è interessante notare come un tempo la memoria e il linguaggio fossero<br />

ritenuti caratteristiche dell’anima e come invece oggi, come mostreremo, queste proprietà siano<br />

soggette all’analisi scientifica in maniera soddisfacente.<br />

Negli ultimi due decenni, lo studio del cervello si è avvalso di nuove tecnologie che hanno<br />

terribilmente ampliato le possibilità di indagine. Lo studio delle funzioni del cervello soffre di un<br />

notevole numero di complicazioni che non sono presenti nelle indagini su altri organi, tra queste: la<br />

difficile accessibilità, l’impossibilità pratica di ottenere campioni di tessuto umani, il fatto che le<br />

funzioni superiori si trovano solo nell’uomo e non possono essere studiate in animali da<br />

esperimento ecc. A fronte di tutto ciò sta l’enorme complessità del problema di capire come<br />

funzionano circa 100 miliardi di neuroni ognuno dei quali ha probabilmente da 100 a 1000<br />

connessioni con altri neuroni. Malgrado ciò, oggi si sa molto di più di 20 anni fa sul cervello e<br />

questo è dovuto a numerose tecnologie, alcune delle quali cominciano solo ora ad interagire: i<br />

risultati di questa collaborazione tra varie discipline potrebbero essere estremamente interessanti.<br />

Biologia molecolare e cervello<br />

Vi sono vari modi di studiare il cervello e le funzioni superiori ad esso legate. Quello fornito dalla<br />

moderna genetica si basa al momento sullo studio di base del funzionamento della cellula nervosa e<br />

delle sue peculiarità, cioè della base per cui essa è diversa da altri tipi cellulari. Pertanto, si può<br />

indagare la natura della sua peculiare membrana, i problemi legati alla formazione e alla migrazione<br />

dell’assone 137 , i canali che si devono aprire e chiudere per permettere il flusso di ioni oppure il<br />

legame del ligando che a loro volta provocano una cascata di segnali intracellulari che portano<br />

all’attivazione di certe molecole ed eventualmente alla comparsa del potenziale d’azione, la<br />

plasticità della sinapsi e tante altre cose a livello della singola cellula. Si può studiare i geni<br />

coinvolti in tutte queste proprietà e cosa succede quando questi vengono interrotti.<br />

137 L’assone o neurite è la ramificazione principale del neurone, il cavo, per così dire, con cui esso<br />

trasmette l’impulso elettrico alle altre cellule. Fasci di assoni formano un nervo o comunque un<br />

insieme di fibre che all’interno del cervello prende spesso il nome di proiezioni<br />

90


Il problema principale del SNC è la sua organizzazione, i rapporti tra una cellula e l’altra, le loro<br />

connessioni. La maggior parte di queste connessioni, che formano grandi fasci di fibre che vanno da<br />

una regione ad un’altra all’interno del sistema nervoso centrale, sono determinate geneticamente e<br />

sono presenti in tutti gli individui di una determinata specie. Su questa base di “hardware” si<br />

inseriscono poi le esperienze del singolo, che determinano i comportamenti individuali. Ad<br />

esempio, alcune complesse connessioni di base assicurano che il cane possa secernere acido<br />

cloridrico alla vista della scodella del cibo, ma la particolare storia di un determinato cane può far sì<br />

che esso secerna acido anche quando sente un suono particolare che al cibo è stato associato in sue<br />

precedenti esperienze.<br />

Gli studi di neurofisiologia e di neuroanatomia hanno stabilito una minuziosa mappa di moltissime<br />

connessioni tra diverse regioni del sistema nervoso centrale. La definizione di queste vie<br />

“proiettive” è stata una delle grandi fatiche della neurologia del XX secolo: oltre a stabilire le zone<br />

dove alcune funzioni sono più o meno localizzate, è infatti importante stabilire le connessioni che<br />

tra loro si instaurano. Queste indagini formano la base per comprendere i deficit che intervengono<br />

in seguito a lesioni cerebrali. Nell’ultimo decennio l’analisi si è spostata verso la comprensione dei<br />

meccanismi che regolano la formazione di queste vie durante lo sviluppo embrionario e la<br />

descrizione avviene ormai a livello molecolare. Le connessioni tra regioni cerebrali dell’uomo<br />

hanno delle caratteristiche peculiari specifiche della nostra specie, ma, come tutte le altre<br />

caratteristiche strutturali degli altri organi, si sono evolute secondo le regole esposte nei capitoli<br />

precedenti. Pertanto vi sono connessioni molto antiche conservate tra le varie specie ad indicare la<br />

loro antichità, né più né meno come succede per i geni, la cui struttura generale è conservata anche<br />

lungo un periodo di centinaia di milioni di anni, ma anche modifiche insorte recentemente, basti<br />

pensare alla corteccia cerebrale dei primati.<br />

La biologia molecolare oggi affronta anche questo genere di problemi, cercando di spiegarli a<br />

livello delle singole molecole. In questo caso, uno dei problemi legato alla formazione delle<br />

connessioni è il seguente: come fanno gli assoni di una regione a “sapere” dove devono<br />

“proiettare”, cioè con quali cellule creare una connessione ? Prendiamo l'esempio del sistema<br />

visivo, che nel topo è studiato in dettaglio. Le fibre nervose, provenienti dalle cellule della retina, si<br />

raccolgono nel nervo ottico che si inserisce nel cervello a livello dell'ipotalamo per poi continuare il<br />

percorso attraverso il talamo e terminare nel nucleo genicolato laterale, oppure proseguire fino al<br />

collicolo superiore, situato nel mesencefalo. Il sistema visivo è completato dalla radiazione ottica,<br />

cioé da fibre che collegano il nucleo genicolato laterale ed il collicolo superiore con la corteccia<br />

visiva. A complicare la situazione è il fatto che per poter ottenere una visione binoculare è<br />

necessario che ciascuno dei due occhi sia rappresentato anche nell'emisfero cerebrale opposto. Per<br />

questo motivo parte delle fibre ottiche attraversano la linea mediana (decussazione) e parte invece<br />

non l'attraversano mai, dando origine ad una struttura a forma di X che viene chiamata “chiasma”<br />

ottico.<br />

Come questo ordine sia creato e mantenuto sta anch’esso scritto nel DNA e nelle molecole che esso<br />

codifica. Questo è stato dimostrato in vari modi mediante tecniche congiunte di ingegneria genetica<br />

e di embriologia sperimentale, tra cui, soprattutto, la produzione di animali knockout, in cui le<br />

molecole candidate per dirigere gli assoni al loro punto di arrivo sono state eliminate. Animali di<br />

questo genere, carenti di una sola di una serie di molecole, mostrano migrazioni aberranti degli<br />

assoni di vario genere, compresa l’incapacità a formare il fascio di fibre che costituiscono il nervo<br />

ottico o a passare dall’altro lato della linea mediana. Questo non vale solo per le fibre ottiche e le<br />

loro ulteriori proiezioni verso la corteccia visiva, ma è presumibilmente un meccanismo generale.<br />

Un altro esempio del potere risolutivo della neurobiologia molecolare è dato dallo studio della<br />

memoria. Questa proprietà è una delle caratteristiche neurobiologiche acquisite più precocemente<br />

91


nel corso dell’evoluzione, essendo presente in tutti i vertebrati e in misura circoscritta negli<br />

invertebrati (tanto che i primi studi sulle basi sinaptiche 138 della memoria sono stati compiuti su<br />

neuroni di invertebrati). Vi sono almeno due livelli in cui la memoria può essere studiata, uno è<br />

quello della neuroanatomia, che comporta l’identificazione delle strutture e delle connessioni ad<br />

essa legate (vedi ad esempio i casi riportati in neuropatologia), l’altro è quello molecolare, cioè<br />

delle molecole che regolano eventi che accadono nelle singole cellule che fanno parte di questi<br />

circuiti.<br />

Per lungo tempo si era pensato che la base molecolare della memoria potesse giacere nella<br />

trasmissione sinaptica, cioè in quelle infinite connessioni che hanno luogo tra cellula e cellula.<br />

L’ippocampo, che si trova nel lobo temporale, era pure stato coinvolto in quanto struttura<br />

sovracellulare, nella memoria a lungo termine. Oggi si ritiene che alla base della memoria, sebbene<br />

non si sappia ancora bene come, vi sia un fenomeno denominato “potenziamento sinaptico a lungo<br />

termine” (long term potentiation, LTP), che consiste essenzialmente in un aumento della “forza”<br />

della connessione sinaptica per cui l’intensità della scarica e la sua frequenza aumentano se la<br />

sinapsi viene ripetutamente attivata (qualcosa del tipo “l’uso rafforza l’organo”). In realtà, la LTP<br />

sembra essere una proprietà comune alla maggioranza delle sinapsi eccitatorie del cervello di<br />

mammifero, e come tale presumibilmente è un meccanismo utilizzato per funzioni diverse, tra cui<br />

appunto anche l’apprendimento e la memoria. Quest’ultima si instaurerebbe nell’ippocampo<br />

mediante meccanismi che coinvolgono la LTP.<br />

Anche il fenomeno della LTP è stato studiato intensamente negli ultimi anni facendo uso di<br />

tecniche di neurofisiologia e dei topi knockout, e ha raggiunto il livello di descrizione che è quello<br />

molecolare. Si ritiene oggi che essa richieda l’azione di un particolare tipo di recettori del<br />

glutammato localizzati nella parte a valle della sinapsi (postsinaptica), la cui attivazione richiede la<br />

depolarizzazione della membrana della cellula postsinaptica, che appunto è causata da ripetuta<br />

stimolazione della sinapsi. L’attivazione di questi recettori (chiamati in sigla NMDA) provoca dei<br />

cambiamenti nella membrana, consentendo l’entrata di alcuni ioni quali quelli del calcio e del sodio.<br />

In seguito a questi cambiamenti viene attivata una kinasi, la protein kinasi calcio- e calmodulinadipendente<br />

di tipo II, la quale a sua volta attiva una via metabolica che è di tipo generale che<br />

consiste nella fosforilazione o defosforilazione di altre proteine specifiche. Il fenomeno pertanto si<br />

riduce poi alla specifica implementazione nel tessuto neuronale di una via metabolica che viene<br />

utilizzata in un’infinità di cellule dei vari tessuti (vedi per review nota 139 ).<br />

Tecniche di imaging<br />

Lo studio della cellula nervosa non esaurisce tuttavia tutti i tipi di indagine di neuroscienza, perché<br />

attualmente non indaga l’aspetto dell’interazione tra neuroni ad un livello superiore. Essa va<br />

combinata con gli approcci classici e innovativi della neurofisiologia e dell’imaging, quella serie di<br />

tecniche che consentono di visualizzare parzialmente quanto avviene nel cervello quando noi lo<br />

usiamo (e anche quando non lo usiamo).<br />

Fino a una decina di anni fa, lo studio globale del cervello umano in vivo era praticamente<br />

inesistente in quanto si poteva basare praticamente solo sull’elettroencefalogramma e sulla<br />

138 La sinapsi è il punto in cui avviene uno scambio di informazione per via elettrica o chimica tra<br />

due neuroni: essenzialmente, è il punto in cui l’informazione viene trasmessa da un neurone<br />

all’altro.<br />

139 R.C. Malenka & R.A. Nicoll: Long term potentiation- a decade of progress. Science 285:1870-<br />

1873, 1999<br />

92


scintigrafia cerebrale. Più recentemente la TAC, tomografia assiale computerizzata, ha aggiunto una<br />

dimensione notevole nello studio delle patologie cerebrali, senza tuttavia aumentare di molto lo<br />

studio del funzionamento del cervello in condizioni fisiologiche. D’altro canto, nell’uomo non era<br />

possibile applicare in maniera pianificata le tecniche che venivano utilizzate sulla scimmia, perché<br />

non era certo possibile praticare lesioni a scopo sperimentale o impiantare elettrodi nella testa delle<br />

persone. Sebbene alcune di queste procedure siano stata applicate per motivi terapeutici, e i dati<br />

ottenuti analizzati con grande attenzione, non era possibile investigare granché negli individui<br />

normali. Ricordiamo ad esempio gli esperimenti compiuti da Penfield 140 , che stimolava la corteccia<br />

di pazienti durante interventi a cranio aperto durante procedure chirurgiche eseguite per scopi<br />

terapeutici.<br />

Negli ultimi anni tuttavia molto è cambiato, grazie all’introduzione della PET, positron emission<br />

tomography (tomografia ad emissione di positoni), e della risonanza magnetica funzionale (fMRI).<br />

L’ideale per un neurofisiologo dovrebbe essere la possibilità di studiare in maniera incruenta il<br />

comportamento di un singolo neurone. Sebbene ciò non sia ancora possibile nell’uomo, queste<br />

tecniche sono un primo passo in questa direzione.<br />

Il principio della PET (positron emission tomography, tomografia ad emissione di positroni), si basa<br />

sul fatto che i neuroni quando sono attivati necessitano di energia. E’ pertanto possibile chiedere ad<br />

un soggetto di eseguire una determinata operazione mentale e misurare il consumo di energia o<br />

l’aumento del flusso sanguigno in una determinata area, o semplicemente vedere quali sono le aree<br />

che consumano di più. Sembra logico pensare che tali aree siano coinvolte in quella determinata<br />

funzione.<br />

Anche la risonanza magnetica funzionale si basa essenzialmente sulla misura del consumo di<br />

ossigeno e del flusso sanguigno. Tale tecnica tuttavia ha una maggior sensibilità e non fa uso di<br />

composti radioattivi come invece fa il PET. E’ teoricamente possibile applicarle allo studio di<br />

compiti di varia complessità, così da poter studiare gli eventi cerebrali quando vengono compiute<br />

operazioni svariate, comprese quelle legate ai processi che sono in qualche modo legate alla<br />

coscienza e agli atti di volontà.<br />

Ad esempio, se prendiamo persone che hanno il cosiddetto “perfect pitch”, cioè una particolare<br />

sensibilità alla musica che li rende capaci di riconoscere una nota musicale senza il diapason, si<br />

constata che l’area che si attiva, durante l’esecuzione o l’ascolto di pezzi musicali, è più vasta di<br />

quella di musicisti che non hanno tale capacità e ovviamente della gente normale 141 .<br />

Questo sembra in buon accordo con la generale sensazione che nel cervello più un’area rappresenta<br />

una funzione delicata più è sopra-rappresentata, basti pensare al fatto che la rappresentazione<br />

motoria e sensitiva sulla corteccia cerebrale è disproporzionatamente grande per la mano e la faccia<br />

rispetto ad esempio al tronco. In un altro studio interessante sono stati indagati persone che erano<br />

bilingui dalla nascita e persone che avevano imparato una seconda lingua in età adulta. Differenti<br />

aree venivano attivate nei diversi individui, il che fa pensare che il meccanismo di apprendimento di<br />

una lingua nell’adulto interessi strutture diverse da quelle che sono normalmente attive in età<br />

infantile 142 .<br />

140 W. Penfield: The excitable cortex in conscious man. Liverpool, Liverpool University Press, 1958<br />

141 G. Schlaug et al: In vivo evidence of structural brain asimmetry in musicians. Science 267:699-<br />

701, 1995<br />

142 K. Kim et al: Distinct cortical areas associated with native and second languages. Nature<br />

388:171-174, 1997<br />

93


Queste nuove tecniche possono essere applicate anche allo studio delle lesioni cerebrali. Le lesioni<br />

da traumi, da accidenti vascolari o da processi espansivi sono terribili e causano enormi sofferenze e<br />

mutilazioni. Mentre prima era necessario attendere la morte del paziente per poter documentare con<br />

precisione la lesione cerebrale, oggi le tecniche di imaging consentono di studiare il malato mentre<br />

è ancora in vita e soprattutto mentre gli sottoponiamo compiti che hanno a che fare con la funzione<br />

danneggiata.<br />

La Coscienza<br />

Come abbiamo detto, oggi sembra che molti ritengano che si possa parlare della coscienza<br />

scientificamente. Di nuovo dobbiamo notare come si stia facendo scienza partendo da un termine di<br />

difficile anzi difficilissima definizione. Definire la coscienza non è facile, è presumibilmente un<br />

termine primitivo, o per lo meno sinora deve essere usato come tale. Abbiamo sostenuto che la<br />

coscienza di sé sia la caratteristica specifica dell’H.sapiens, senza la quale non saremmo qui a<br />

discettare di scienza e filosofia. Pertanto possiamo solo sperare che con questo termine tutti<br />

intendano la stessa cosa, cioè che esso sia correlato a “modificazioni cerebrali” omologhe in tutti o<br />

quasi i cervelli.<br />

Vediamo alcuni tentativi tesi, non dico a definire ma comunque a cercare un accordo che vada bene<br />

ad alcuni o addirittura a molti.<br />

John Searle distingue il problema della coscienza da quello della coscienza di sé. La coscienza può<br />

essere affrontata in maniera scientifica, ma la coscienza di sé è una forma molto speciale di<br />

coscienza, forse peculiare dell’uomo. Sembra di capire che quando sostiene che la coscienza è<br />

studiabile scientificamente non vi comprende quest’ultima accezione. Searle definisce scienza e<br />

filosofia più o meno come aveva fatto Auguste Comte, dicendo che<br />

“Philosophy is in large part the name for all these questions which we do not know how to answer<br />

in the systematic way that is characteristic of science…..science is systematic knowledge;<br />

philosophy is in part an attempt to reach the point where we can have systematic knowledge” 143 .<br />

In questo senso, secondo Searle, siamo ora al punto in cui la coscienza può essere analizzata in<br />

maniera sistematica. D’altro canto, anche Searle non trova di meglio che rifarsi a una definizione di<br />

senso comune quale<br />

“those states of sentience or awareness that typically begin when we wake from a dreamless sleep<br />

and continue through the day untill we fall asleep again, die or go into coma, or otherwise become<br />

unconscious” 144 .<br />

Siamo coscienti quando siamo non incoscienti. La coscienza c’è quando non c’è la non coscienza.<br />

Non si tratta, come si può vedere, di definizioni particolarmente brillanti. Per Searle comunque, la<br />

coscienza di cui si parla e che è scientificamente abbordabile, va tenuta distinta dall’attenzione<br />

(perché ci sono tante cose di cui io sono conscio, ma a cui non presto attenzione) oltre che dalla<br />

coscienza di sé.<br />

143 J.R. Searle: How to study consciousness scientifically. Phil Trans R Soc Lond B 353:1935-1942,<br />

1998. La citazione è a p. 1936.<br />

144 Citato in P.E. Griffiths: Thinking about consciousness. Nature 397:117-118, 1999.<br />

94


Due significati di coscienza sono presenti anche per Antonio Damasio, che sostiene con forza la<br />

definibilità di coscienza, anche se alla fine comunque chiama in causa il dizionario 145 . Egli<br />

distingue una coscienza “core” da una “extended”: la prima sarebbe sinonimo di “awareness”,<br />

mentre la seconda sarebbe la vera e propria “consciousness”. Entrambe sono fenomeni interni della<br />

mente, e la seconda dipende dalla prima. La seconda dipende dalla graduale formazione di una sorta<br />

di “self autobiografico”. In un recente libro, Damasio sostiene che la prima è quella che noi<br />

condividiamo con gli altri animali, mentre la seconda è un attributo specificatamente umano, o al<br />

massimo condivisa con alcuni primati 146 . Oltre a ciò, Damasio è noto per sottolineare ripetutamente<br />

come alla base della nostra scelte coscienti vi siano spessi aspetti per così dire emozionali, che<br />

fanno parte integrante degli aspetti più elevati della coscienza 147 .<br />

Secondo David J. Chalmers, il termine coscienza potrebbe riferirsi ad almeno due cose. Egli, a<br />

proposito di coscienza parla di un problema facile e di un problema difficile 148 . Nel problema facile<br />

ci sta una serie di problemi che le scienze neurobiologiche cominciano ora ad affrontare: prima o<br />

poi questi problemi verranno risolti, secondo Chalmers, perché non c’è niente di intrinsecamente<br />

diverso da altri problemi scientifici. Come esempi dei problemi che possono essere raccolti sotto la<br />

dizione “facile”, abbiamo: come può un uomo discriminare tra i vari stimoli sensitivi e reagire a<br />

loro appropriatamente?, come funziona la memoria in generale e la working memory in particolare,<br />

come può il cervello integrare le informazioni che gli derivano da diverse fonti e dare una risposta<br />

comportamentale appropriata? e tanti altri di questo tipo. Ma poi c’è il problema difficile: come i<br />

processi fisici possono dare origine a esperienze soggettive? Egli sostiene che si tratta degli aspetti<br />

più profondi del pensiero e della percezione. Difficili da definire, anche se si possono dare degli<br />

esempi: ad esempio la sensazione che proviamo ad ascoltare alcuni pezzi musicali, ma si potrebbe<br />

aggiungerne una serie infinita: quella che si prova davanti ad un paesaggio, ad un’opera d’arte,<br />

durante una meditazione e così via. Sono questi che costituiscono il vero mistero della mente.<br />

Chalmers propone di considerare la (versione “hard” della) coscienza come un dato fondamentale,<br />

irriducibile, così come lo spazio ed il tempo sono in fisica concetti che vengono accettati così come<br />

sono. Secondo Chalmers, una volta che su questo ci sia stato un accordo, è possibile affrontare il<br />

problema duro della coscienza postulando leggi psicofisiche e metodi di varia natura, comprese<br />

argomentazioni filosofiche, esperimenti di pensiero e descrizioni delle proprie esperienze<br />

soggettive.<br />

“I propose that conscious experience be considered a fundamental feature, irreducible to anything<br />

more basic. The idea may seem strange at first, but consistency demands it. In the 19 th century it<br />

turned out that electromagnetic phenomena could not be explained in terms of previously known<br />

principles. As a consequence, scientists introduced electromagnetic charge as a new fundamental<br />

entity and studied the associated fundamental laws. Similar reasoning should apply to<br />

consciousness. If existing fundamental theories cannot encompass it, then something new is<br />

required” 149 .<br />

145 A.R. Damasio: Investigating the biology of consciousness. Phil Trans R Soc Lond B 353:1879-<br />

1882, 1998<br />

146 A.R. Damasio: The feeling of what happens: body and emotion in the making of consciousness.<br />

Harcourt Brace, New York, 1999<br />

147 A.R. Damasio: L’errore di Cartesio. Adelphi, Milano, 1995. L’edizione inglese è dell’anno<br />

precedente. Come si vedrà più avanti, Damasio sostiene questa sua tesi attraverso lo studio di<br />

pazienti con lesioni cerebrali.<br />

148 D. J. Chalmers: The conscious mind: in search of a fundamental theory. Oxford University<br />

Press, Oxford, 1996. L’edizione italiana è: La mente cosciente. McGraw Hill-Italia, Milano, 1999.<br />

149 D.J. Chalmers: The puzzle of conscious experience. Sci Am dicembre 1995, p 80-86.<br />

95


Anche per Roger Penrose, la coscienza non può essere ricondotta alle note leggi fisiche 150 . Per<br />

Penrose, la mente può fare cose che i computer non riusciranno mai a fare, pertanto ci vogliono<br />

nuove leggi che stanno alla base del funzionamento del nostro cervello. Speculando su quali siano o<br />

possano essere queste nuove leggi, Penrose ritiene che esse possano avere qualcosa in comune con<br />

la teoria quantistica della gravitazione, che deriverebbe da una mistura di meccanica quantistica e di<br />

relatività generale. Penrose ha poi bisogno di una struttura dove queste leggi vengano implementate,<br />

e pensa di averle identificate nei microtubuli, strutture proteiche che contribuiscono al citoscheletro<br />

dei neuroni. Questi sarebbero abbastanza piccoli da poter essere influenzati da effetti quantici, e<br />

grandi abbastanza da poter influire sull’intero neurone. Pur riconoscendo possibile un ruolo di<br />

fenomeni di meccanica quantistica nel funzionamento del cervello e del neurone, l’ipotesi che essi<br />

coinvolgano i microtubuli, derivata da un’idea dell’anestesista Stuart Hameroff, lascia<br />

assolutamente indifferenti i neurobiologi.<br />

Una distinzione tra due tipi di coscienza la pone anche Ned Block, che distingue la “access<br />

consciousness” dalla “phenomenal consciousness” 151 . Che si debbano distinguere almeno due<br />

gradi, o tipi, o livelli di coscienza lo pensa anche John Eccles, che pure è un dualista dichiarato. Egli<br />

scrive:<br />

“We can speak of an animal as conscious when it is capable of assessing its present situation in the<br />

light of past experience and so is able to arrive at an appropriate course of action that is more than<br />

a stereotyped instinctive response” 152 .<br />

L’uomo ha il livello più alto di coscienza, perché ha un principio non materiale, un’anima<br />

immortale, responsabile della coscienza di sé 153 . Ma anche gli animali hanno degli stati mentali.<br />

Pur rigettando l’ipotesi estrema di D.R. Griffin, che sosteneva che anche gli insetti avessero una<br />

coscienza 154 , Eccles sostiene che alcuni animali con un appropriato numero di neuroni nel loro<br />

cervello, possono avere manifestazioni di coscienza del tipo inferiore.<br />

Altri fanno uso delle metafore per cercare di definire la coscienza. Quella del cervello come un<br />

computer, ad esempio, è, per certi aspetti, una metafora (per altri versi è un’ipotesi di lavoro<br />

produttiva). Quella dell’homunculus è un’altra metafora, qualcosa come se nella testa vi fosse un<br />

piccolo uomo che assiste al passaggio delle immagini su un video interiore: questa metafora non va<br />

attualmente per la maggiore. Anche quella del teatro (global workplace) è un’altra metafora: la<br />

coscienza sarebbe come una specie di luce brillante che viene proiettata sul palco tipo quella al cui<br />

centro si materializza Mr Bean all’inizio dei suoi sketch. Questa luce rappresenta l’integrazione di<br />

numerosi input in una singola esperienza conscia, che viene poi disseminata ad una vasta udienza,<br />

proprio come succede a teatro 155 .<br />

150 R. Penrose: Shadows of the mind: a search for the missing science of consciousness. Oxford<br />

University Press, Oxford, 1994<br />

151 N. Block: How can we find the neural correlate of consciousness? Trends neurosci 19:456-459,<br />

1996<br />

152 J.C. Eccles: Animal consciousness and human self-consciousness. Experientia 38:1384-1391,<br />

1982<br />

153 K. Popper & J.C. Eccles: The self and its brain. Springer Verlag, Berlino, 1977<br />

154 D.R. Griffin. The question of animal awareness. Rockefeller University Press, New York, 1976.<br />

Griffin attribuiva coscienza ad esempio alle api, sulla base della loro capacità di trasmettere<br />

informazione con la loro danza.<br />

155 B.J. Baars: Metaphors of consciousness and attention in the brain. Trends Neurosci 21:58-62,<br />

1998<br />

96


Tutti questi vaghi tentativi ci rafforzano nella convinzione che si possa e si debba parlare di<br />

coscienza senza pretendere di definirla esattamente. Come abbiamo sostenuto, si possono studiare<br />

fenomeni anche partendo da concetti confusi o non ulteriormente riducibili. Si può ad esempio<br />

cercare di ricrearla. In effetti, tra tutte le metafore e le definizioni della coscienza e della mente, una<br />

è quella che ha ormai raggiunto vari strati della popolazione: quella del computer. Secondo questa<br />

visione, il cervello è l’hardware e la mente è il software.<br />

97


Capitolo 6.<br />

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE<br />

L’eresia catara (continua) 156<br />

Dopo la sua lezione magistrale rivolta essenzialmente agli impermeabili, il prof Lamis uscì<br />

dall’Università. Aveva smesso di piovere ed un pallido sole lo accompagnò mentre si dirigeva verso<br />

casa, in via Governo Vecchio. Mentre apriva la porta si sentì un impercettibile click, poi il<br />

professore si cambiò le scarpe, salutò la moglie che ricambiò il suo saluto, poi si sedette a tavola.<br />

“C’era tanta gente oggi a lezione, i miei assistenti devono aver raccontato in giro che avrei<br />

mirabilmente confutato quel tedesco, così, malgrado la giornata piovosa, l’aula era piena”.<br />

“Bravi ragazzi quei tuoi due assistenti. A proposito, il Ciotta ti ha cercato stamattina, appena eri<br />

uscito”<br />

“Sì, sono ancora giovani, ma hanno buona volontà. Certo, non so se faranno carriera. Purtroppo<br />

oggi la critica è completamente esterofila, quei tedeschi poi la fanno da padrone. Forse dovrei<br />

mandarli un po’ a Berlino o magari a Vienna. Anche la lingua del resto è fondamentale, metà della<br />

critica e della filosofia è scritta in tedesco”.<br />

“Certo, dovresti preoccuparti un poco della loro carriera, da noi, se non c’è un protettore, una<br />

cattedra non la si può prendere. E forse dovresti essere meno critico con la critica, se non si fa un<br />

po’ di public relation non si ottiene nulla. ”<br />

“Non mettertici anche tu adesso” esclamò il professore, cui evidentemente l’osservazione della<br />

moglie non aveva fatto piacere. “E poi, dopo la lezione di oggi, è chiaro che la mia fama crescerà e<br />

prima o poi potrò sistemare anche loro”.<br />

“Devi aver avuto una giornata molto stressante, caro. Prendi questi amaretti, che ti piacciono tanto.<br />

Forse è meglio che vada a riposarti”.<br />

“Hai ragione cara. Per fortuna che ci sei tu. Buona notte”.<br />

“Buona notte”.<br />

Si udì un piccolo click.<br />

A qualche miglio di distanza.<br />

“Che disastro, Vannicoli ! Per fortuna non se n’è accorto.”<br />

“Già, per fortuna. E poi noi ci siamo spellati le mani per applaudire”.<br />

“Ora sarà a casa dalla moglie. Chissà cosa si diranno. Del resto, deve essere un tipo strano anche la<br />

moglie, non deve essere facile vivere con lui. Te lo immagini, doversi sorbire una lezione privata<br />

sull’eresia catara. Io in effetti fino a poco fa pensavo che fosse celibe”.<br />

“Ciotta, il professore in realtà è vedovo. La moglie è morta almeno venti anni fa”.<br />

“Ma se le ho parlato proprio stamattina, per dirle appunto che avevo avuto un contrattempo”.<br />

“Le hai parlato al telefono ?”<br />

“Sì, per telefono”<br />

“E cosa ti ha detto ?”<br />

“Mi ha detto appunto che era la moglie e che gli avrebbe detto che avevo chiamato”.<br />

Vannicoli guardò negli occhi il suo collega.<br />

“Ciotta, quella è una macchina di Turing”.<br />

“Una macchina di cosa ?”<br />

“Una macchina di Turing”.<br />

“Ah”<br />

156 L. Pirandello: L’eresia catara. In: Novelle. XII Edizione, Edizioni Scolastiche Mondadori,<br />

Verona, 1956; p. 141-154.<br />

98


Di nuovo Vannicoli fissò il collega. “Vedo che non sai cos’è una macchina di Turing. Chiaro<br />

esempio di separazione tra le due culture.”<br />

“E cos’ è allora ?”<br />

Racconto di Vannicoli<br />

Alan Turing morì nel 1954, forse suicida. Nella sua breve vita aveva contribuito a rompere il codice<br />

Enigma dei Nazisti durante la seconda guerra mondiale, ma il suo paese non ebbe un grande<br />

riguardo per lui. D’altro canto la legge è uguale per tutti (si fa per dire). Qualche anno prima aveva<br />

dato alle stampe un articolo innovativo in cui si poneva il problema se le macchine potessero<br />

pensare. Dal momento che non si definisce facilmente cosa sia il pensiero, Turing sostenne che<br />

bisognasse concludere che una macchina fosse in grado di pensare se si fosse dimostrata in grado di<br />

superare una prova di imitazione che divenne poi nota come il “test di Turing”. Brevemente, se<br />

mettiamo in una stanza chiusa un uomo e una macchina mentre un interrogatore sconosciuto sta<br />

fuori dalla stanza, la macchina supera il test se l’interrogatore che pone le domande, ricevendone<br />

risposte scritte, non riesce a distinguere chi è l’uomo e chi è la macchina.<br />

Per lungo tempo la gente discettò se il test dell’imitazione fosse o no un test adatto allo scopo, se<br />

cioè volesse significare che la macchina che lo superasse, pensasse per davvero. Se simulo un<br />

uragano in un computer, si disse, non posso certo pensare che nel computer ci sia davvero una<br />

tempesta. A parte questo, l’articolo di Turing rimane una pietra miliare nella storia dell’intelligenza<br />

artificiale, anche se al momento in cui egli lo scrisse, i computer praticamente non esistevano.<br />

“Forse tu non sapevi che in passato il professor Lamis è stato un grande studioso di intelligenza<br />

artificiale. Ha passato quasi un ventennio lavorando al MIT. Poi però, dopo la morte della moglie,<br />

preferì dedicarsi allo studio della storia del Cristianesimo. Diceva che gli interessava di più. In<br />

realtà, avrebbe potuto diventare straricco con le sue conoscenze. Non ti sto a spiegare come ne sia<br />

venuto a conoscenza, ma quella con cui hai parlato non è altro che un software che il professore ha<br />

costruito, collegandolo ad una scheda sonora. Diciamo che è un CDrom, un videogioco, ma non per<br />

lui, ovviamente. Per lui, in realtà, è tutto quello che gli rimane. Penso che non sarebbe in grado di<br />

vivere senza quel software.”<br />

“Ma come è possibile che nessuno se ne sia accorto?”<br />

“Beh, in primo luogo, i computer ne hanno fatti di progressi. Deep Blue, in fondo, è già obsoleto. E<br />

poi, il professore ha così pochi contatti… qualche telefonata della segreteria dell’università, magari<br />

qualche studente che sta facendo la tesi… non fa vita sociale. Chi vuoi che si ponga il problema. E<br />

poi, visto che lui è così strano, anche se si ottenesse qualche risposta non ben comprensibile dal<br />

software, chiunque penserebbe che strambo lui, stramba anche la moglie.”<br />

“Ma è legale tutto ciò?”<br />

“Beh, penso che la morte della moglie sia stata tranquillamente registrata, ma all’epoca era in<br />

America, pertanto qui nessuno sa che ella morì ”.<br />

“Mi chiedo se l’abbia brevettato”<br />

“Che cosa ?”<br />

“Il suo software”<br />

“Beh, i soldi non gli interessano. E poi, per brevettare dovrebbe comunque rendere pubblica la cosa,<br />

e non credo che ne abbia voglia. A dire la verità, potrebbe anche essere che abbia rimosso tutto<br />

quanto, e che forse ormai confonda il software con sua moglie. In fondo ha confuso gli<br />

impermeabili con gli studenti, potrebbe confondere la moglie con un dischetto.”<br />

“Brevetto a parte, sarebbe comunque un grosso affare commerciale. Pensa quanta gente sarebbe<br />

disposta a pagare per avere il surrogato di un caro defunto. Altro che clonaggio, questo è molto più<br />

pratico.”<br />

99


“A beh, certo. Col clonaggio mica riesci a modellare una personalità a tuo piacere. Anche se tutti i<br />

geni sono uguali, le esperienze di vita non potrebbero esserlo e se una farfalla ti sbatte le ali mentre<br />

vieni al mondo, invece di Einstein diventi Jack lo squartatore. Invece un software, puoi farlo come<br />

vuoi. Puoi metterci dentro tutti i ricordi belli, puoi eliminare i fatti spiacevoli, puoi anche<br />

modificare un po’ la realtà. Il tuo interlocutore lo puoi addolcire come vuoi. E se proprio c’è<br />

qualcosa che non va, puoi sempre fargli ulteriori modifiche.”<br />

“Vedo già la sigla: “Custom Eternity”. E lo slogan: dopo i CD, i CE. Bill creperà dall’invidia. Il suo<br />

monopolio sta per finire. Diventeremo ricchissimi. E non finisce qui. Lanceremo Eternet, una rete di<br />

ex-defunti che popoleranno l’etere. La zia Giuseppina, nata 1893 dialogherà con la nonna<br />

Teodolinda, nata 1901. Chissà cosa si diranno. Zombi virtuali. Venderemo i diritti a Steve, che ne<br />

farà un film. Anche Jacques andrà in pensione. Basta con gli studi sui documenti. Gli storici del<br />

3000 avranno accesso diretto alla vita quotidiana del ventesimo secolo. Gli potranno domandare:<br />

come facevate a guardare 250 puntate di Baywatch senza vomitare ?”.<br />

“Mi sembri proprio scemo. E poi non credere, ormai quella della mente su dischetto è una metafora<br />

già sfruttata.”<br />

“Ah sì ? Però ammettilo. Qui c’è un passo avanti. Qui sono in ballo i sentimenti più profondi<br />

dell’uomo, quelli che rendono la vita degna di essere vissuta. Pensa, Giulietta si sveglia e scopre<br />

che il suo Romeo, appena suicidatosi, in realtà è una macchina di Turing. Gli esce un filo dalla<br />

bocca. Cosa pensi che faccia ?”<br />

“Non saprei.”<br />

“Si stacca la spina. Anche lei era una macchina di Turing e per breve tempo aveva sognato che un<br />

vero mortale la amasse. Errore di sistema” 157 .<br />

Il dibattito sulla macchina di Turing<br />

Per molti anni si è affrontato il problema da due punti vista. Da un lato si discuteva animatamente<br />

sul vero significato del test dell’imitazione, su cosa volesse veramente dire pensare e se il test<br />

potesse veramente indicare, una volta superato, che la macchina realmente pensasse. Dall’altro, la<br />

gente ha cominciato a fabbricare macchine via via più potenti che cominciassero a fare qualcosa di<br />

più che semplici calcoli. Quest’ultima linea comprende anche la robotica, nel tentativo di introdurre<br />

anche un’altra caratteristica umana nei computer, quella di poter non solo pensare ma anche agire.<br />

E’ curioso pensare adesso che in realtà Turing nel suo saggio esaminava tutte le obiezioni contro la<br />

sua tesi, superandole tutte tranne l’ultima. Rigorosamente parlando, pertanto, Turing nel suo<br />

articolo concludeva che nessuna macchina avrebbe mai potuto superare il test dell’imitazione. Ma<br />

qual è questa obiezione ? E’ l’obiezione del paranormale. Turing sembra partire dalla constatazione<br />

che il paranormale esista sulla base del fatto che vi erano individui in grado di indovinare le carte<br />

con una frequenza superiore a quella casuale. Tuttavia questo aspetto della personalità di Turing è<br />

completamente dimenticato. In fondo, ai geni qualche stranezza si può perdonare.<br />

La maggior parte degli addetti ai lavori oggi ritiene che la risposta al quesito di Turing debba avere<br />

risposta affermativa. Naturalmente, la maggior parte dei non addetti ai lavori o non si pone neanche<br />

il problema, oppure pensa che la risposta debba avere risposta negativa: no, i computer non<br />

potranno mai pensare, non saranno mai come noi. Certamente la loro memoria è eccezionale, la loro<br />

capacità di eseguire calcoli è stupefacente, ma noi siamo un’altra cosa.<br />

157 La novella di Pirandello, di cui si simula la continuazione, è una delle più tristi dell’autore di<br />

“Così è, se vi pare” e di “Sei personaggi in cerca d’autore”. Gran parte del dibattito sull’I.A. è fatto<br />

discutendo su esperimenti e situazioni irreali o per lo meno surreali. Mi si concederà pertanto questo<br />

intermezzo. Molti autori, quando si parla di I.A. passano dal piano del ragionamento a quello della<br />

fantasia, e tutto questo capitolo risente in parte di questa atmosfera.<br />

100


John Searle, un filosofo che si interessa di questi argomenti, è forse uno dei pochi addetti ai lavori<br />

che ritiene che il computer non potrà mai pensare, non potrà mai essere cosciente. Searle ha<br />

espresso il suo pensiero in vari libri ed articoli, tra cui uno del 1980 che ha suscitato un grande<br />

dibattito 158 .<br />

La natura dell’obiezione di Searle al test di Turing è semplicemente che non è un buon test per<br />

decidere se la macchina pensa. Egli sviluppa questo argomento. Si fornisca ad uno che ignora<br />

completamente il cinese, poniamo un italiano, due serie di fogli scritti in cinese insieme con una<br />

serie di regole, scritte in italiano, che mettono in relazione il secondo pacco di fogli con il primo.<br />

Gli si dia poi un altro pacco di fogli in cinese, insieme ad un’altra serie di istruzioni in italiano che<br />

correlano gli elementi di questo terzo pacco ai primi due. Coloro che compiono questo esperimento<br />

chiamano le istruzioni “programma” e le risposte in cinese che l’italiano dà sarebbe il test.<br />

Supponendo che il programma sia scritto veramente bene e l’italiano sia sufficientemente astuto,<br />

egli probabilmente passerebbe il test e noi concluderemmo che l’italiano sa il cinese, il che non è<br />

vero. Parallelamente, la macchina nel classico test di Turing, passa il test e noi concludiamo<br />

erroneamente che essa pensa. In realtà, anche se supera il test, il computer non pensa,<br />

semplicemente manipola simboli senza comprenderne il significato, il che rivela che non pensa<br />

come facciamo noi. Il computer per Searle è un ente sintattico ma non semantico, semplicemente si<br />

limita ad applicare delle regole che qualcuno ha scritto per lui.<br />

Più in generale, Searle ritiene che un computer non può essere cosciente perché non ne ha il “potere<br />

causale”. Sembra di capire che questo sia dovuto al fatto che noi siamo biologici mentre la<br />

macchina no:<br />

“…perché io sono un certo genere di organismo con una certa struttura biologica (cioè chimica e<br />

fisica), e questa struttura, in certe condizioni, è causalmente capace di produrre percezione, azione,<br />

comprensione, apprendimento e altri fenomeni intenzionali. E la presente argomentazione vuole,<br />

tra l’altro, affermare che solo qualcosa che abbia questi poteri causali potrebbe avere<br />

quell’intenzionalità. Forse altri processi fisici e chimici potrebbero produrre gli stessi identici<br />

effetti; forse, ad esempio, anche i marziani hanno l’intenzionalità, ma con cervelli fatti di materiale<br />

diverso. Questo è un problema empirico, più o meno simile al problema se la fotosintesi possa esser<br />

compiuta da qualcosa la cui chimica sia diversa da quella della clorofilla…..Le elaborazioni di<br />

simboli formali non hanno di per sé alcuna intenzionalità; sono assolutamente prive di senso; non<br />

sono neppure elaborazioni di simboli, perché i simboli non simboleggiano nulla. Per usare il gergo<br />

dei linguisti, essi hanno una sintassi ma non hanno una semantica.”<br />

Sembrerebbe pertanto di capire che si tratta di un problema di materiali. In effetti, Searle è un<br />

monista, come tutti i suoi colleghi che credono nella coscienza dei futuri calcolatori, il suo dissenso<br />

è limitato ai computer.<br />

“Una macchina può pensare? La mia opinione è che solo una macchina possa pensare e anzi solo<br />

macchine di tipo particolarissimo, cioè i cervelli e altre macchine dotate degli stessi poteri causali<br />

del cervello. ….Qualunque altra cosa sia l’intenzionalità, essa è certamente un fenomeno biologico<br />

e ha altrettanta probabilità di dipendere causalmente dalla biochimica specifica delle sue origini<br />

quanto la lattazione, la fotosintesi e qualsiasi altro fenomeno biologico. A nessuno verrebbe in<br />

mente che si possano produrre latte e zucchero eseguendo una simulazione al calcolatore delle<br />

158 J.R. Searle: Minds, brains, and programs. Behavioral Brain Sciences, 3:417-457, 1980. Articolo<br />

e dibattito sono pubblicati in italiano in: Menti, cervelli e programmi, un dibattito sull’intelligenza<br />

artificiale. Milano, Clup-Clued, 1984.<br />

101


sequenze formali della lattazione e della fotosintesi; ma quando si parla di mente, molte persone<br />

sono disposte a credere in un miracolo del genere…” 159 .<br />

Il dibattito pertanto è tra coloro che sostengono che il computer è o potrà diventare una mente e chi<br />

asserisce che certe cose il computer non le può fare. La dottrina che sostiene a spada tratta le<br />

capacità umane del computer è stata denominata teoria computazionale della mente, secondo la<br />

quale la mente è un computer e un computer può essere una mente. Daniel Dennett è uno dei<br />

maggiori sostenitori di questa identificazione. Per essi quello che conta non è tanto il substrato in<br />

cui la mente è incarnata, quello che conta è l’organizzazione, che può essere implementata in<br />

qualsiasi struttura, biologica e non. Gli avversari ribattono che durante la simulazione al computer<br />

di un tifone, il computer non viene distrutto. Veramente, essi obiettano, riteniamo che la macchina<br />

possa, secondo le parole di Turing:<br />

“Essere gentile, piena di risorse, bella, cordiale, avere iniziativa, avere il senso dell’humour,<br />

distinguere il bene dal male, commettere errori, innamorarsi, gustare le fragole con la panna, far sì<br />

che qualcuno si innamori di lei, imparare dall’esperienza, usare le parole nel modo appropriato,<br />

essere l’oggetto dei propri pensieri, avere un comportamento vario quanto quello umano, fare<br />

qualcosa di realmente nuovo…” 160 ?<br />

Molti ritengono di sì. In 2001 Odissea nello spazio, scritto nel 1968, Hal 9000, il computer di<br />

bordo, dà i primi segni di paranoia. Uccide, come fece Caino all’alba dell’umanità. Diventa proprio<br />

umano. L’ultimo sopravvissuto sull’astronave è costretto a disattivarlo, pur con dispiacere, anche se<br />

ha tentato di uccidere pure lui.<br />

“Dave, - disse Hal – non capisco perché tu mi stia facendo questo… Ho il più grande entusiasmo<br />

per la missione…Stai distruggendo la mia mente…Diventerò infantile…Diventerò nulla…” 161 .<br />

Il vero problema per noi non è l’I.A. ma la volontà artificiale, la bontà artificiale, la coscienza<br />

artificiale. Il dibattito teorico si è avvalso spesso di situazioni di fiction come quella di Hal. Altri<br />

tuttavia hanno intrapreso l’approccio pratico, di produrre computer sempre più sofisticati, per<br />

dimostrare non a parole ma con i fatti la teoria computazionale della mente.<br />

L’I.A.<br />

Man mano che si va avanti, le capacità dei computer migliorano sempre più. Deep Blue ha<br />

vendicato Deep Thought in un tempo assai più breve di quello in cui una volta i figli vendicavano i<br />

padri. L’intelligenza artificiale non stupisce più nessuno. Oggi i computer gestiscono tutto, dalla<br />

borsa di Wall Street all’illuminazione di Manhattan. Speravamo mostrassero qualche défaillance al<br />

giro di boa del millennio, invece sono stati loro a farsi beffe di noi, facendoci aspettare con ansia<br />

cosa succedeva a mezzanotte in Nuova Zelanda.<br />

L’I.A. comunque non ci terrorizza più di un tanto. La regola è che una cosa cui siamo abituati non<br />

fa paura. Noi siamo abituati ad attraversare le strade delle nostre jungle d’asfalto, che<br />

presumibilmente terrorizzerebbero i nostri antenati, i quali al contrario dormivano saporitamente nel<br />

159 Queste due citazioni sono prese dallo stesso articolo, nella traduzione che appare in D.R.<br />

Hofstadter & D.C. Dennett: L’io della mente”. Adelphi, Milano, 1985; p. 354 e 359.<br />

160 A.M. Turing: Computing, machinery and intelligence. Mind 59:443-460, 1950. La traduzione<br />

italiana è presa da AA.VV. La filosofia degli automi. Boringhieri, Torino, 1965; p. 137.<br />

161 A.C Clarke & S. Kubrick: 2001 Odissea nello Spazio. Longanesi & C., Milano, 1972; p.175. Il<br />

libro è del 1968.<br />

102


ezzo delle montagne infestate dai puma. Già adesso, chi fa più i conti a mano? O chi compara tra<br />

loro le sequenze nucleotidiche con foglio e matita. Che i computer possano essere più intelligenti in<br />

un settore specifico, non se ne preoccupa più nessuno. L’inventiva e l’immaginazione ci danno un<br />

po’ più fastidio, e per questo consideriamo Kasparov un traditore: probabilmente non si è<br />

impegnato abbastanza, se avesse riposato di più la sera prima del match decisivo, se si fosse<br />

allenato meglio, se non avesse preso l’incontro sottogamba, non ci avrebbe fatto fare una tale<br />

figuraccia. Possiamo rifugiarci nella poesia e nella musica, ma fino a quando? E se qualcuno ci<br />

avesse già rifilato poesie, racconti o LP scritti o composti da una macchinetta ? Magari vi sono già<br />

best sellers di computer e non lo sappiamo. Forse addirittura hanno scritto un libro di filosofia della<br />

scienza. D’ora in poi pseudonimi e scrittori misteriosi devono essere aboliti, dovrà essere indicato<br />

chiaramente nome e cognome dell’autore oppure dovrà essere specificata chiaramente la sigla della<br />

macchina e il numero di serie.<br />

Quello che rende l’I.A. assai interessante è il fatto che evolve con una rapidità estrema. Questo fa sì<br />

che le varie opinioni sul rapporto fra uomo e computer possano rimanere tali solo per un periodo<br />

breve. Vent’anni fa, sarebbe stato facile ritenere che gli scacchi fossero un gioco troppo complesso<br />

per venir aggredito da un software 162 , ma questa rispettabile opinione oggi è superata. E così sarà<br />

per altre. Tutte le rispettabili opinioni vengono presto messe alla prova. Dove sta la fantascienza e<br />

dove la programmazione a 5 o 10 anni?<br />

COG<br />

Se Deep Blue può attualmente essere considerato il sistema o uno dei sistemi più avanzati nel<br />

campo del pensiero, in quanto il gioco degli scacchi è visto come una delle più compiute<br />

manifestazione di alcune qualità umane, come l’intelligenza, il ragionamento puro, la capacità di<br />

eseguire decisioni difficili e di pianificare comportamenti, COG rappresenta attualmente il massimo<br />

della robotica, cioè della scienza che, in senso molto lato, si propone di eguagliare la capacità di<br />

agire dell’uomo in tutta la sua versatilità.<br />

COG è un progetto che, a partire da alcuni anni (estate 1993), è stato implementato presso il<br />

Massachusetts Institute of Technology 163 . Si tratta di un robot umanoide, un androide in nuce, che<br />

non può camminare, ma che è in grado di muovere le mani, le braccia, la testa e gli occhi e può<br />

ruotare le anche. I motori che consentono i movimenti hanno dei recettori di calore che informano<br />

COG sul suo funzionamento, e che costituiscono un abbozzo embrionale di sensazione cinestesica<br />

che hanno tutti i mammiferi, non solo l’uomo. La visione viene fornita da telecamere, le quali<br />

possono muoversi a 360 gradi, mentre le informazioni sonore sono fornite da microfoni. Tutte le<br />

162 Tuttavia gli addetti ai lavori sono sempre stati di un’altra opinione. Vedere per esempio la<br />

seguente profezia di Norbert Wiener fatta nel 1964 (vedi. N. Wiener: Dio e Golem s.p.a.<br />

Boringhieri, Torino, 1967; p. 31. L’edizione americana è appunto del 1964). “L’opinione generale<br />

di quelli tra i miei amici che sono giocatori di scacchi di un certo livello è che i giorni degli<br />

scacchi, come occupazione umana interessante, sono contati. Essi si aspettano che in un intervallo<br />

di tempo compreso tra i dieci e i venticinque anni, le macchine capaci di giocare a scacchi avranno<br />

raggiunto un alto grado di perfezione e allora, …questi cesseranno di interessare i giocatori<br />

uomini”.<br />

Nel 1989, dopo aver battuto Deep Thought, Kasparov così commentò: “I believe I’ll still be able to<br />

beat any computer in 5 years and probably at the end of the century”. Citato in Science 246:572-<br />

573, 1989 (Humanity 2, computers 0). Altri dichiararono: “He will lose to a computer within the<br />

next 5 to 10 years” e “It will take about 4 years”. Praticamente erano tutti d’accordo.<br />

163<br />

Per un completo aggiornamento della situazione di COG, si può consultare il sito<br />

http://www.ai.mit.edu.projects/cog.<br />

103


informazioni sono elaborate da un sistema a multiprocessore composto da una multiplicità di<br />

sottomacchine che, almeno in parte, possono comunicare l’una con l’altra.<br />

Il progetto COG si basa su alcune assunzioni che erano, al momento in cui il progetto fu lanciato,<br />

alquanto eterodosse, anche se oggi vi sono numerosi progetti che seguono questa linea di ricerca.<br />

Non sappiamo ancora se questo nuovo approccio sarà veramente produttivo, e attualmente coesiste<br />

con quello tradizionale, ma è nato come reazione ad alcuni empasse della strategia precedente.<br />

Come spiega Andy Clark:<br />

“Forse abbiamo semplicemente frainteso la natura stessa dell’intelligenza. Concepivamo la mente<br />

come una sorta di congegno del ragionamento logico accompagnato da un cumulo di dati espliciti,<br />

una serie di combinazione fra una macchina logica e un archivio di informazioni. Così facendo,<br />

ignoravamo la circostanza che le menti evolvono per fare accadere le cose. Ignoravamo che la<br />

mente biologica è, anzitutto, un organo deputato al controllo del corpo biologico. Le menti<br />

producono i movimenti, e devono farlo in fretta: prima che il predatore vi raggiunga, o prima che<br />

la vostra preda vi sfugga. Le menti non sono congegni disincarnati per il ragionamento logico” 164 .<br />

Brooks, il padre di COG, sottolinea quattro di queste assunzioni: lo sviluppo (development),<br />

l’interazione sociale (social interaction), l’incarnazione (embodiment e physical coupling) e<br />

l’integrazione multimodale (multimodal integration). In parole semplici, i padri di COG ritengono<br />

che non si deve porre una linea di demarcazione tra il corpo e la mente, e che bisogna far attenzione<br />

ad alcuni aspetti della mente quale essa effettivamente si forma nell’uomo e nell’animale. La mente<br />

non nasce già bell’e pronta, ma si sviluppa, si evolve nel corso della vita dell’individuo e si è<br />

evoluta nel corso dell’evoluzione, quindi COG deve imparare man mano dalle sue azioni<br />

(development). La mente umana non è in grado di svilupparsi in isolamento, tanto che senza<br />

interazioni sociali il bambino rimane handicappato, basti pensare ai bambini-lupo che non riescono<br />

più ad apprendere un linguaggio (social interaction). La mente non è separata dal corpo, anzi, non<br />

solo il corpo media tutte le interazioni con l’esterno, ma esso stesso invia una serie di input<br />

derivanti dal corpo stesso (cinestesi o propriocezione); pertanto non esistono menti assolute alla<br />

Cartesio, ma devono essere incarnate (embodiment and physical coupling). Infine, sostiene Brooks,<br />

non è detto che tutto sia centralizzato nella mente umana, anzi, gli esperimenti recenti sui<br />

commissurotomizzati 165 , ci fanno pensare che vi siano livelli autonomi che non accedono al livello<br />

di integrazione più elevato, ma che vengono perfettamente compiuti a livelli inferiori. Brooks<br />

respinge l’immagine di un pianificatore centrale che sia al corrente di tutte le informazioni del<br />

soggetto: un tale pianificatore probabilmente sarebbe improduttivo 166 .<br />

Per certi aspetti, i padri di COG hanno subito l’influenza della critica di Searle. Se veramente un<br />

sistema formale non potrà mai essere conscio, facendolo muovere, crescere, imparare, agire e<br />

interagire, forse ci avvicineremo alla coscienza. Francisco Varela, uno studioso di neuroscienze,<br />

164 A. Clark. Dare corpo alla mente. McGraw-Hill Italia, Milano, 1999<br />

165 Vedi sezione su questo argomento nel prossimo capitolo.<br />

166 Queste caratteristiche di base sulle quali si fonda il progetto COG sono ben esplicitate in: R.<br />

Brooks et al: The Cog project: building a humanoid robot. Vedi sito:<br />

http://www.ai.mit.edu/projects/cog/publications.html. Limitatamente all’ultima caratteristica, si<br />

tratta di un problema assai generale. La parola d’ordine, molto in voga oggi, sembrerebbe essere<br />

“decentramento”. Come in politica ed in amministrazione, si tratta di decentrare tutto quello che è<br />

possibile decentrare, e di centralizzare tutto quello che va centralizzato. Con i sistemi viventi c’è un<br />

giudice severo che decide in questa separazione dei ruoli, mentre in politica il giudizio sembra<br />

spesso essere soggetto ad influenze tendenziose che ne minano l’affidabilità.<br />

104


sembra essere di quest’idea. Per lui il cervello non è un calcolatore, ma la coscienza va studiata e<br />

COG potrebbe un giorno arrivare allo stadio di un cagnolino 167 .<br />

Il futuro prossimo venturo<br />

Se son rose fioriranno. La bellezza dell’I.A. è che in un periodo di tempo relativamente breve i<br />

progetti più strambi possono trasformarsi in realtà. Kismet è un altro robot, anch’esso sviluppato<br />

presso il M.I.T. che esaspera, per così dire, l’importanza delle interazioni sociali per la formazione<br />

della mente 168 . Esso (egli?) cerca l’interazione con gli umani, più o meno, nell’intenzione dei suoi<br />

padri, come fanno i bambini. I bambini, non c’è dubbio, imparano dagli adulti, e per ottenere<br />

l’attenzione dei loro genitori e parenti, hanno sviluppato tutta una serie di metodi che vanno dal<br />

pianto micidiale, cui nessuno può resistere (non tanto perché ci si commuove, quanto perché si<br />

spera di riuscire ad interrompere quel suono così sgradevole che penetra fino al midollo), ad una<br />

vasta gamma di sorrisi e moine che risultano generalmente gradite persino allo stanco genitore.<br />

Pertanto Kismet cerca di commuovere o sedurre gli umani che gli stanno intorno dotandosi di un<br />

certo numero di “espressioni” che simulano rabbia, disgusto, paura, felicità o tristezza.<br />

I soliti ricercatori del Media Lab del MIT stanno sviluppando anche computer che “sentono”<br />

l’umore del loro utilizzatore 169 . L’idea ha i suoi aspetti pratici, nell’ambito, si sarebbe detto una<br />

volta, di un razionale sfruttamento della forza lavoro, del tipo se Mozart fa fare più latte alle<br />

mucche, mettiamo la filodiffusione nelle stalle. Ormai numerosi operatori passano tutta la giornata<br />

al computer, e se al computer si affezionano almeno quanto ai loro cagnolini, saranno più<br />

soddisfatti e lavoreranno meglio. A parte queste basse motivazioni, anche questo studio propone al<br />

computer di fare qualcosa di più che meri calcoli e lo avvia verso una dimensione<br />

(apparentemente?) umana.<br />

Per quanto l’I.A. proceda ad un ritmo impressionante, come sa il povero Kasparov, purtroppo molte<br />

cose sono ancora fantascienza. Il 2001 è praticamente arrivato, ma non abbiamo ancora un<br />

computer paranoico. Cosa succederà in futuro? Scienziati e sociologi si pongono il problema della<br />

futura interazione tra computer e umani. Quanto è scienza e quanto è fantasia? Se da un lato una<br />

persona prudente potrebbe dire che è inutile parlarne perché è meglio aspettare ulteriori sviluppi<br />

dell’I.A., molti altri ritengono che il ritmo è tale che se non discutiamo subito, ci troveremo<br />

spiazzati. Comunque, visto che sono occorsi solo un centinaio d’anni a trasformare Verne in uno<br />

scrittore preistorico, e che replicanti e guerre stellari sono ormai nel linguaggio di ogni bambino in<br />

età prescolare, sarà bene vedere un attimino quello che ci aspetta (forse).<br />

Un recente libro di un pioniere dell’I.A. si intitola: “The Age of spiritual machines” 170 . Secondo<br />

l’autore, ben prima del 2050 l’informazione verrà immessa direttamente nei nostri cervelli tramite<br />

connessioni neurali tra i nostri cervelli e le macchine. La distinzione tra umani e macchine non sarà<br />

più netta. I computer saranno coscienti, anche self-coscienti. Il centenario della morte di Turing,<br />

possiamo aggiungere, verrà festeggiato dalle macchine, che trasferiranno le sue ossa in un mausoleo<br />

come quello di Lenin. O forse le macchine avranno sviluppato un senso estetico maggiore di quello<br />

dei padri bolscevichi e Turing, martire del Computerismo, riposerà in una copia del Taj Mahal.<br />

167 H. Kempf: Francisco Varela: le cerveau n’est pas un ordinateur. La Recherche 308:109-113,<br />

1998<br />

168 Per ulteriori notizie, consultare il sito: http:// www.ai.mit.edu/projects/kismet.<br />

169 Per ulteriori notizie, consultare il sito: http:// www.media.mit.edu/affect/ac_research<br />

170 R. Kurzweil: The age of spiritual machines: when computers exceed human intelligence. Viking,<br />

New York, 1998<br />

105


Successivamente, i nostri cervelli saranno connessi direttamente con i computer ed evolveremo<br />

assieme. Chi sia umano e chi no, allora, non sarà più chiaro. I computer si fabbricheranno da soli, e<br />

certamente non dimenticheranno di inserire emozioni nei software, almeno all’inizio, se non altro<br />

per superare il complesso d’inferiorità che (solo inizialmente) avranno per gli umani. Poi quando il<br />

computer per la prima volta farà morire un umano per salvare se stesso, anche questo complesso<br />

verrà superato. In seguito a ciò i computer manifesteranno un complesso di Laio e alcuni di essi<br />

dovranno dedicarsi al lavoro di psicanalista.<br />

I computer, o i robot, erediteranno la terra 171 . Noi ci adatteremo, più o meno come gli Incas si sono<br />

adattati ai conquistadores. Non avremo scampo, forse i più adatti di noi verranno messi a suonare il<br />

violino o a combattere nel Colosseo. Altri, ingenuamente, pensano che invece ci sarà rispetto per gli<br />

antenati. Finiremo – dicono - come i Lari e i Penati. In fondo, Enea non si caricò il vecchio Anchise<br />

sulle spalle fuggendo da Troia in fiamme? I computer si ricorderanno che essi non sono altro che i<br />

figli della nostra mente 172 . Ma, si sa, il rispetto per i genitori non va più di moda, al massimo,<br />

invece che sugli altarini, ci metteranno all’ospizio.<br />

O forse, come oggi va di moda, finiremo in un file. Tutto quello che ci passa nel cervello verrà<br />

ricostruito su un dischetto e archiviato. C’è un libro molto bello, che racchiude come un’antologia<br />

pezzi di bravura di vari scrittori e commenti degli autori. Il libro è arguto, profondo, interessante,<br />

finemente umoristico, simpatico, piacevole e anche qualcos’altro 173 . Tutti dovrebbero leggerlo.<br />

Molti degli articoli contenuti sono del tipo surreale, lanciano una situazione impossibile e poi la<br />

svolgono con grande logica. Il problema ovviamente è se abbia o no qualche attinenza con la realtà.<br />

Naturalmente, inframmezzate, ci sono argomentazioni di tipo classico, che aiutano a far apparire il<br />

libro come un testo scientifico. Si tratta di arte, di fantascienza o di scienza ? Propenderei per la<br />

prima soluzione. Da un punto di vista della discussione scientifica, non è chiaro cosa si possa trarre<br />

da cervelli isolati, ma connessi al proprio corpo, o archiviati e replicati come un software (e i diritti<br />

di copyright a chi vanno) e altre assunzioni piacevoli ma impossibili.<br />

O è solo una questione di tempo?<br />

171 M. Minsky: Will robots inherit the earth?. Scient Am ottobre 1994, p 109-113<br />

172 H.P. Moravec: Mind children: the future of robot and human intelligence. Harvard University<br />

Press, Cambridge (MA), 1988. Più recente, dello stesso autore: H.P. Moravec: Robot: mere<br />

machine to trascendent mind. Oxford University Press, Oxford, 1998.<br />

173 D.R. Hofstadter & D.C. Dennett: L’io della mente”. Adelphi, Milano, 1985<br />

106


Capitolo 7.<br />

GLI EFFETTI COMPORTAMENTALI DELLE ALTERAZIONI CEREBRALI<br />

Nello studio dei fenomeni biologici umani hanno sempre avuto grande importanza quelli che<br />

vengono spesso chiamati “esperimenti di natura”. In un esperimento pianificato dall’uomo, si muta<br />

in genere una sola variabile per vedere l’effetto che fa. Nel caso degli esperimenti di natura, siamo<br />

costretti a prendere quello che la natura ci offre, ma spesso essa sa essere veramente crudele con gli<br />

individui e generosa con gli scienziati. Purtroppo è così. In tal modo numerose osservazioni sono<br />

state fatte e le funzioni corticali superiori, come ebbe a chiamarle Alexander Luria 174 , possono<br />

venir almeno in parte indagate studiando i pazienti che sono oggetto di questi disastri, anche se a<br />

dire il vero, la natura in molti casi non c’entra per niente. Luria, che fu uno dei pionieri nello studio<br />

delle lesioni cerebrali traumatiche e non, poté studiare numerosi casi in cui le lesioni erano state<br />

causate dai conflitti bellici, in cui la crudeltà umana batte certamente quella della natura. In ogni<br />

caso, dal momento che per molte funzioni superiori non esiste la possibilità di effettuare<br />

esperimenti sugli animali, fino a poco tempo fa, prima cioè della comparsa delle nuove tecniche di<br />

imaging, lo studio della patologia era l’unica possibilità per investigare questo genere di problemi.<br />

In una maniera tale da lasciarci talora stupefatti per la stranezza e la bizzarria dei fenomeni che<br />

riscontriamo da un lato e per gli spiragli che ci vengono aperti sul mistero della nostra psiche.<br />

Le malattie ereditarie neurologiche<br />

Le malattie ereditarie, ad esempio, sono esperimenti che ci permettono di studiare la funzione di un<br />

singolo gene direttamente nell’uomo. Vi sono naturalmente delle malattie ereditarie che si riflettono<br />

sulle funzioni corticali superiori. Molte di queste comportano numerosi deficit cerebrali, che sono<br />

tuttavia solo una parte di un disturbo più generale. Altre ci danno un quadro generico di oligofrenia,<br />

cioè di ritardo mentale. Tutte queste non sono di grande interesse, perché sono causate da geni che<br />

sono attivi in molte cellule e il danno cerebrale che ne deriva nasce presumibilmente da un disturbo<br />

metabolico che impedisce alla cellula nervosa di funzionare bene.<br />

Prendiamo ad esempio la sindrome di Lesch-Nyhan. In questa malattia, i bambini nascono<br />

apparentemente normali, ma dopo i 6 mesi di vita inizia a manifestarsi un ritardo dello sviluppo sia<br />

motorio che intellettivo. Anche il comportamento diventa anomalo, vi è aggressività e tendenza<br />

all’automutilazione. Il gene è noto (codifica per l’enzima HPRT), è espresso in tutte le cellule del<br />

corpo, ma gli effetti più drammatici sono a carico del Sistema Nervoso Centrale (SNC). L’enzima è<br />

coinvolto nel metabolismo degli acidi nucleici, ma non si capisce bene perché debba dare un danno<br />

al SNC e tantomeno perché debba provocare quei comportamenti.<br />

Recentemente è stato isolato il gene della sindrome di Rett, una malattia che colpisce<br />

esclusivamente le femmine nella proporzione di circa una su diecimila e che presenta tra le altre<br />

stimmate quella dell’autismo. Il fatto che colpisse solo le femmine ha fatto pensare che il gene<br />

responsabile fosse sul cromosoma X, e che l’alterazione del gene fosse letale nei maschi che hanno<br />

solo un cromosoma X (questo è quello che talora capita con i geni localizzati su questo<br />

cromosoma). Anche in questo caso il gene coinvolto è attivo in tutte le cellule dell’organismo e la<br />

sua funzione non è specifica per il sistema nervoso centrale 175 .<br />

174 Alexander R. Luria, scienziato russo, ha condensato anni della sua ricerche in un libro che è un<br />

classico. A.R. Luria: Le funzioni corticali superiori nell’uomo. Edizioni Giunti, Firenze, 1967<br />

175 R.E. Amir et al: Rett syndrome is caused by mutations in X-linked MECP2, encoding methyl-<br />

CpG-binding protein 2. Nature Genet 23:185-188, 1999<br />

107


Quello che si ricava da queste malattie, in realtà, non è molto. Esse evidenziano dei difetti<br />

funzionali nel metabolismo cellulare, ma non ci dicono molto sui processi che vengono alterati. Non<br />

è possibile dire che i geni alterati sono i geni delle automutilazioni o dell’autismo, né più né meno<br />

di quanto si possa dire che la distrofina, il gene alterato nella distrofia muscolare di Duchenne, è il<br />

gene della deambulazione. Senza di esso la funzione del camminare non può venir svolta, e senza<br />

l’HPRT il cervello non funziona normalmente, ma è chiaro che sono solo dei requisiti perché tutto<br />

si svolga normalmente.<br />

Vi sono poi delle malattie che sono più specifiche per forme comportamentali. Prendiamo il caso<br />

della sindrome di Gilles de la Tourette 176 , una rara condizione in cui l’intelligenza è normale ma in<br />

cui sono presenti numerosi movimenti abituali (spesso chiamati “tic”). A questi si associano<br />

manifestazioni comportamentali più gravi (e più imbarazzanti per il soggetto e per chi gli sta<br />

intorno) quali le imprecazioni involontarie ed esplosive e la pronuncia ripetitiva e compulsiva di<br />

parolacce (coprolalia). Vi sono degli aggregati familiari, e questo suggerisce che potrebbero essere<br />

coinvolti dei fattori genetici, peraltro al momento non individuati.<br />

La narcolessia è una malattia che colpisce circa 1 su 2000 individui e che è caratterizzata da<br />

improvvisi attacchi di sonnolenza e di perdita di tono muscolare (cataplessia). La base biologica<br />

non è nota, anche se è stato notato che i soggetti narcolettici passano direttamente dallo stato di<br />

veglia ad uno stato di sonno in fase REM senza passare in quella fase intermedia di sonno senza<br />

REM. Ovviamente negli attacchi di sonno la coscienza non è più presente, mentre negli attacchi di<br />

cataplessia la coscienza viene mantenuta. Curiosamente, la sindrome è presente anche negli animali,<br />

ad esempio nei cani Doberman e Labrador. Il gene responsabile della narcolessia in questi due razze<br />

canine è stato identificato 177 : si tratta del recettore per l’ipocretina (o orexina), anche se è ancora<br />

troppo presto per dire come questo deficit genetico possa provocare la malattia. Tuttavia anche in<br />

questo caso, per quanto affascinante sia il problema del sonno, specialmente in relazione all’assenza<br />

di coscienza che ne deriva e al fenomeno dei sogni, non sembra che l’identificazione di questo gene<br />

possa darci grandi indizi sul fenomeno della coscienza.<br />

Una malattia genetica che può dirci qualcosa su una delle manifestazioni più specifiche della nostra<br />

specie è la dislessia, un difetto assai circoscritto che si manifesta come una difficoltà a leggere e a<br />

scrivere per cui i bambini affetti sono più indietro in queste capacità rispetto ai suoi coetanei. Non<br />

hanno però alcuna difficoltà nel linguaggio, nel comprendere il significato delle parole e nel vedere<br />

tutto ciò che non è un testo scritto. Il loro livello intellettivo, prima che si cimentino con il leggere e<br />

lo scrivere, non risulta diverso da quello degli altri bambini, ma quando vanno a scuola cominciano<br />

i problemi, non solo perché rimangono intellettualmente indietro, ma perché vivono ovviamente<br />

tutta la vicenda con profondo dolore. Così una madre di un bambino dislessico descrive quello che<br />

accadde a suo figlio quando cominciò ad andare a scuola:<br />

“He went from being a happy child to being very unhappy, miserable, tearful, because he just<br />

couldn’t understand why all those children around him could pick up this business of reading and<br />

writing” 178 .<br />

176 H.I. Kuschner: A cursing brain? The histories of Tourette syndrome. Harvard University Press,<br />

Harvard, 1999<br />

177 L. Lin: The sleep disorder canine narcolepsy is caused by a mutation in the hypocretin (orexin)<br />

receptor 2 gene. Cell 98:365-376, 1999<br />

178 J. Clayton. Lost for words. New Scientist, 24 aprile 1999, p. 27-30.<br />

108


I bambini affetti da questa malattia sono oggetto di intensi studi da parte degli psicologi del<br />

linguaggio, perché lettura e linguaggio sono comunque legati a filo doppio. In particolare, una delle<br />

teorie oggi in voga, lega la dislessia a un deficit nella formazione di una connessione tra i grafemi<br />

(le lettere) e i fonemi (definiti come le più piccole unità del sistema linguistico) 179 . Tuttavia questa<br />

non è l’unica spiegazione possibile. Vi sono anche bambini raccolti sotto la sigla di “difetto<br />

specifico del linguaggio” (“specific language impairment”, SLI), di cui molti, ma non tutti, con<br />

concomitante dislessia, che hanno anch’essi intelligenza assolutamente normale nei test che non<br />

richiedono l’uso del linguaggio, ma che hanno grandissima difficoltà ad usarlo. Forse delle<br />

anomalie specifiche dell’udito sono alla base di questo disturbo, in quanto i bambini affetti hanno<br />

difficoltà a distinguere toni che non siano sufficientemente intervallati tra loro 180 . Altri ricercatori<br />

che hanno studiato una famiglia inglese affetta nell’arco di tre generazioni da disturbi del<br />

linguaggio, suggeriscono che vi è un difetto selettivo del nucleo caudato, geneticamente<br />

determinato 181 . Mentre questi disturbi sono ormai ampiamente riconosciuti anche nelle scuole,<br />

meno riconosciuta è l’esistenza di bambini con difetti nel trattamento dei numeri (discalculia).<br />

Come nel caso dei bambini dislessici, la discalculia, per quanto fastidiosa, non necessariamente<br />

impedisce loro di essere brillanti e di svolgere lavori di alto livello intellettuale se la natura delle<br />

loro difficoltà viene adeguatamente compresa 182 .<br />

Come abbiamo accennato in precedenti capitoli 183 , la tecnologia dei topi “knockout” ci consente di<br />

fabbricare modelli murini di malattie genetiche umane. Tuttavia, nel campo delle funzioni superiori<br />

e dei comportamenti specificatamente umani, questa tecnologia ha dei limiti, dovuti al fatto che,<br />

come abbiamo detto sopra, il cervello umano è assai diverso da quello murino, più di quanto, ad<br />

esempio, il fegato o il polmone lo siano rispetto ai loro corrispondenti organi. Ciononostante, sono<br />

stati segnalati alcuni risultati ottenuti con questo approccio. Ad esempio Mohn e collaboratori<br />

sostengono che riducendo il numero di un particolare tipo di recettori per il glutammato (un<br />

neurotrasmettitore) il topo manifesta comportamenti simili a quelli che nell’uomo vengono attribuiti<br />

a soggetti schizofrenici 184 . Le difficoltà del trasferimento di queste conclusioni al campo umano è<br />

tuttavia evidente a tutti.<br />

Lesioni cerebrali con effetti comportamentali<br />

Se quello che si ottiene dalle malattie neurologiche ereditarie per quanto riguarda la genesi delle<br />

funzioni superiori è assai poco, un’enorme messa di dati è stata acquisita dallo studio di pazienti in<br />

cui specifiche aree del cervello sono state danneggiate in seguito a traumi o accidenti vascolari.<br />

Queste lesioni sono tanto più interessanti quanto più sono selettive, cioè limitate. Un grosso ictus<br />

può provocare una paralisi, una difficoltà al linguaggio e un decadimento globale della capacità di<br />

interagire con il mondo esterno ma è di scarso interesse per lo studio delle funzioni superiori perché<br />

179 S.E. Shaywitz: Dyslexia. Scient Am, novembre 1996; p. 98-104<br />

180 B.A. Wright: defects in auditory temporal and spectral resolution in language-impaired children.<br />

Nature 387:176-178, 1997<br />

181 K.E. Watkins: Functional and structural brain abnormalities associated with a genetic disorder of<br />

speech and language. Am J Hum Genet 65:1215-1221, 1999<br />

182 B. Butterworth: The Mathematical Brain. Macmillan, Londra, 1999. Ed it: Intelligenza<br />

matematica. Rizzoli, Milano, 1999. Nel libro, tra l’altro viene discusso il caso della signora Gaddi,<br />

che in seguito ad un ictus che le colpì il lobo parietale sinistro divenne incapace a manipolare<br />

numeri superiori al quattro. Originariamente descritta in L. Cipolotti et al: A specific deficit for<br />

numbers in a case of dense acalculia. Brain 114:2619-37, 1991<br />

183 Vedi il capitolo 2 e il capitolo 4.<br />

184 A.R. Mohn et al: Mice with reduced NMDA receptor expression display behaviors related to<br />

schizophrenia. Cell 98:427-436, 1999.<br />

109


il danno provocato è troppo esteso. Lesioni più localizzate invece possono ledere solo un’area<br />

cerebrale ristretta, che può essere coinvolta nelle funzioni che associamo alla nostra personalità.<br />

Come spesso ripetuto, ci limiteremo qui a quelle lesioni che ci dicono qualcosa sullo scopo del<br />

nostro libro. Molte aree responsabili del movimento, della sensibilità, della visione, ecc sono state<br />

definite accoppiando lo studio dei deficit riscontrati nell’uomo ai dati ottenuti mediante lo studio<br />

nell’animale, ma il loro interesse per i nostri scopi è limitato. Quello che ci interessa, come abbiamo<br />

già detto ripetutamente, non è un elenco di tutte le lesioni traumatiche del cervello, ma solo di<br />

quelle che colpiscono le funzioni superiori, di cui appunto il linguaggio è una delle manifestazioni.<br />

Anche il comportamento è una manifestazione delle funzioni superiori, almeno alcuni tipi di<br />

comportamento, tra cui quelli che coinvolgono gli aspetti cosiddetti morali, affettivi, logici, volitivi<br />

o decisionali. Il principio su cui questi studi si basano consiste nel definire all’autopsia il danno<br />

cerebrale e correlarlo con i disturbi manifestati dal paziente. Se sono presenti molti pazienti con la<br />

stessa sintomatologia, l’area implicata in quella particolare funzione deficitaria è data dalla minima<br />

area in comune a tutti i pazienti.<br />

A questo riguardo, storicamente, il risultato più notevole, indice insieme di un’eccezionale lucidità<br />

concettuale e di un’elevata capacità di analisi, fu ottenuto il secolo scorso (1861), con la definizione<br />

di un’area cerebrale deputata al linguaggio, l’area di Broca 185 . Si trattò veramente di una scoperta<br />

seminale di grande interesse per vari motivi. In primo luogo fu la prima volta che si collegava un<br />

danno in un punto preciso del cervello ad una funzione superiore: questo era importante in se stesso<br />

e alla luce della diatriba dell’epoca se le funzioni fossero localizzate o diffuse a tutto il cervello. In<br />

secondo luogo suggerì che il cervello poteva venir studiato in maniera sistematica e che, almeno in<br />

teoria, era possibile sperare di comprenderlo.<br />

Nel mondo anglosassone viene spesso riportato il caso di Phineas Gage come quello che stimolò lo<br />

studio dei rapporti tra comportamento morale e cervello 186 . Nel 1848 Gage è un operaio<br />

venticinquenne che lavora alla costruzione di una linea ferroviaria nel Vermont. Il suo compito è<br />

quello di sistemare le cariche per far esplodere le rocce. Ma un giorno Gage subisce un incidente<br />

assolutamente inusuale: mentre sistema una carica esplosiva picchiando sul terreno con una sbarra<br />

di un metro del peso di 6 kg, inavvertitamente ne causa l’esplosione: la sbarra, trasformata in un<br />

enorme proiettile, gli attraversa letteralmente il cranio.<br />

185 E’ veramente interessante vedere come questa scoperta ebbe luogo. Nel 1825, Jean-Baptiste<br />

Bouillaud aveva proposto che il linguaggio fosse controllato dai lobi frontali. Nel 1861, Simon<br />

Alexandre Ernest Aubertin, genero di Bouillaud, presentò una memoria all’Accademia di Francia in<br />

cui analizzava un paziente che aveva tentato maldestramente il suicidio. Il colpo di pistola gli aveva<br />

solamente portato via un pezzo di cranio, mettendo in luce parte del cervello. Comprimendo<br />

dolcemente il lobo frontale mentre il soggetto parlava, questi si interrompeva, finchè la pressione<br />

non veniva rimossa. Stimolato da questi risultati, Paul Broca eseguì l’autopsia di malati afasici (che<br />

cioè non riuscivano più a parlare in seguito a lesioni da ictus), riscontrando quasi costantemente una<br />

lesione nella parte posteriore della terza convoluzione cerebrale dell’emisfero sinistro, che da allora<br />

prese il suo nome (area di Broca). Un’afasia di tipo diverso è dovuta invece ad una lesione dell’area<br />

di Wernicke, situata più posteriormente, sempre nell’emisfero sinistro, riportata da Karl Wernicke<br />

nel 1874.<br />

186 Questo caso introduce almeno due libri che parlano di questi argomenti. Vedi C. Blakemore:<br />

Mechanics of the mind. Cambridge University Press, Cambridge, 1977; e A.R. Damasio: L’errore<br />

di Cartesio: Emozione, ragione e cervello umano. Adelphi, Milano, 1995. Si trova citato in<br />

moltissimi manuali di neurologia e in articoli scientifici.<br />

110


Straordinariamente Gage sopravvisse. La sua personalità tuttavia mutò completamente. Mentre<br />

prima veniva descritto come un uomo di grande efficienza e capacità, e perfettamente responsabile<br />

del lavoro che eseguiva in maniera esatta e precisa, in seguito divenne irriconoscibile anche ai suoi<br />

amici e famigliari, non riuscì a riprendere il suo lavoro, vagò per lunghi anni per gli Stati Uniti e<br />

finì miserevolmente. Il dottore che lo visitò e che poi rimase in corrispondenza con la sua famiglia,<br />

così lo descrive:<br />

“His physical health is good, and I am inclined to say that he has recovered… The equilibrium or<br />

balance, so to speak, between his intellectual faculties and animal propensities, seems to have been<br />

destroyed. He is fitful, irreverent, indulging at times in the grossest profanity (which was not<br />

previously his custom), manifesting but little deference for his fellows, impatient of restraint or<br />

advice when it conflicts with his desires, at times pertinaciously obstinate, yet capricious and<br />

vacillating, devising many plans of future operation, which are no sooner arranged than they are<br />

abandoned… In this regard his mind was radically changed, so decidedly that his friends and<br />

acquaintances said that he was ‘no longer Gage’” 187<br />

Sulla base della descrizione della ferita effettuata dal dr Harlow e di una recente ricostruzione che<br />

ha elegantemente confermato le precedenti conclusioni 188 , si può affermare che la sbarra di ferro<br />

danneggiò i lobi frontali di entrambi gli emisferi. Si trattò di una delle prime dimostrazioni che<br />

danni ai lobi frontali possono modificare notevolmente la personalità di un individuo. Questo venne<br />

confermato poi da numerosi studi di lesioni ai lobi frontali e persino da interventi di resezione<br />

completa dei lobi frontali (lobectomia frontale) o di lesione chirurgica di piccole zone di sostanza<br />

bianca situate in profondità di entrambi i lobi frontali (leucotomia, da λευκοσ, bianco), che<br />

divennero relativamente diffusi a partire dagli anni trenta, allo scopo di trattare severi disturbi<br />

comportamentali. Oggi tali interventi sembrano completamente fuori luogo 189 , ma i risultati ottenuti<br />

con l’indagine neurologica e psicologica di tali pazienti sono di una certa rilevanza.<br />

Il neurologo Antonio Damasio ha raccolto all’Università dello Iowa presso cui lavora un registro di<br />

oltre 2000 pazienti con lesioni cerebrali limitate. Nel suo libro “l’Errore di Cartesio”, che<br />

187 Il dr John Harlow ha descritto il suo paziente in due successivi articoli pubblicati a distanza di 20<br />

anni. Vedi: J.M. Harlow: Passage of an iron rod through the head. Boston Medical Surgical J<br />

39:389-393, 1848; e: Recovery from the passage of an iron bar through the head. Publication of the<br />

Massachusetts Medical Society 2:329-347, 1868. Al momento dell’incidente la sbarra aveva<br />

lasciato un buco di 9 cm che sembrava non dovesse lasciargli scampo.<br />

188 La sbarra e il suo cranio sono conservati al museo della Scuola Medica di Harvard. Basandosi su<br />

questi reperti, e utilizzando moderne tecniche di ricostruzione di immagine del cervello, Hanna ed<br />

Antonio Damasio con i loro colleghi hanno potuto ricostruire il danno subito dal cervello di Gage.<br />

Vedi: H. Damasio et al: The return of Phineas Gage: clues about the brain from the skull of a<br />

famous patient. Science 264:1102-1105, 1994<br />

189 Oggi l’idea di distruggere una gran parte del cervello per indicazioni diverse da quelle<br />

oncologiche o, al limite, per disturbi precisi come l’epilessia sembra completamente assurda.<br />

Tuttavia il premio Nobel del 1949 venne appunto assegnato a Egas Moniz, l’antesignano degli<br />

interventi di leucotomia e lobotomia eseguiti per scopi, diremmo oggi, di psicochirurgia, cioè di<br />

tentativi di risolvere problemi quali ansia, paura, depressione, aggressività o altri mediante<br />

interventi chirurgici sul cervello. Oggi, queste operazioni vengono considerate solamente interventi<br />

da macellai, anche se la resezione di tumori che coinvolgono parti del cervello può talora<br />

coinvolgere, per necessità, i tessuti adiacenti, che peraltro, spesso, sono già stati danneggiati dal<br />

tumore (vedi ad esempio il caso di Elliot). Per ironia della sorte, per giustizia divina, per nemesi<br />

storica o semplicemente per caso, il Dr Moniz fu oggetto di un attentato da parte di un suo paziente<br />

che lo lasciò parzialmente paralizzato.<br />

111


popolarizza i suoi studi su pazienti con alcuni tipi di disordine della personalità, egli riporta<br />

numerosi casi simili a quelli di Gage. Alcuni di questi, ricavati dalla letteratura, hanno rappresentato<br />

casi emblematici, qualcuno direbbe paradigmatici. Damasio descrive poi ampiamente anche un caso<br />

che lui stesso ha potuto seguire e studiare nei dettagli.<br />

“Elliot era stato prima un buon marito e un buon padre; aveva avuto un impiego in un rinomato<br />

studio legale, e ovunque aveva rappresentato un modello, per fratelli e colleghi. Aveva raggiunto,<br />

insomma, una condizione invidiabile, sia personale sia professionale e sociale. Ma a un certo punto<br />

la sua vita cominciò a disfarsi. Era assalito da violenti mal di capo, e concentrarsi gli riusciva<br />

sempre più difficile; inoltre, con il peggiorare della sua condizione, sembrava perdere ogni senso<br />

di responsabilità, cosicché il suo lavoro doveva essere completato o corretto”.<br />

Si scoprì che il paziente aveva un tumore al cervello che comprimeva i lobi frontali: il tumore venne<br />

escisso, tuttavia si dovette rimuovere anche parte del tessuto dei lobi frontali. Il paziente, dal punto<br />

di vista oncologico, guarì completamente, ma la sua personalità risultò notevolmente mutata.<br />

“Non si poteva far conto su Elliot perché eseguisse un’azione appropriata quando ce lo si<br />

aspettava. Si comprende, quindi, come egli perdesse il lavoro, dopo che ripetuti consigli e richiami<br />

da parte di colleghi e superiori erano rimasti inascoltati….Non più legato ad un impiego regolare,<br />

si lanciò in nuovi passatempi e affari rischiosi….Finì con l’inevitabile bancarotta, nella quale perse<br />

tutti i risparmi che vi aveva investito. …La moglie, i figli e gli amici non riuscivano a capire come<br />

mai una persona tanto accorta, e per di più opportunamente preavvertita, potesse agire in modo<br />

così sciocco. Vi fu un primo divorzio, seguito da un breve matrimonio con una donna che né la<br />

famiglia né gli amici approvavano; quindi un altro divorzio. …Sotto certi aspetti, Elliot era un<br />

nuovo Phineas Gage” 190<br />

Sembra pertanto che nel lobo frontale siano situate delle strutture che sono preposte alle decisioni.<br />

Prendere giuste decisioni viene considerata una caratteristica positiva della personalità. Elliot e altri<br />

pazienti con simili lesioni, al contrario, non sanno prendere giuste decisioni, neanche quelle che<br />

sono più evidenti. In effetti molti di questi pazienti sembrano apatici rispetto a quanto accade<br />

intorno a loro. In un altro studio, il gruppo di Damasio ha esaminato pazienti con lesioni frontali,<br />

sottoponendoli ad un test che ha evidenziato come questi pazienti siano deficienti nell’intuizione,<br />

cioè nella capacità di conoscere qualcosa senza un ragionamento conscio. Questi pazienti furono<br />

posti davanti alla scelta tra girare delle carte che davano loro un premio di 100$, ma che spesso<br />

facevano perdere una grande somma di denaro, o carte da 50$ che saltuariamente facevano perdere<br />

solo piccole somme. La strategia giusta era quella di scegliere le carte da 50$. Gli individui normali<br />

cominciarono a fare le scelte appropriate prima di rendersi conto di quale fosse la strategia<br />

vantaggiosa, mentre i pazienti con lesioni prefrontali continuarono a fare scelte svantaggiose anche<br />

dopo aver conosciuto la strategia migliore. Inoltre, utilizzando un test di risposta cutanea al<br />

passaggio di corrente (“skin conductance response”), che rivela un coinvolgimento emozionale<br />

davanti a decisioni dubbie, si constatò che, mentre i soggetti normali manifestavano questa risposta<br />

prima di girare una carta rischiosa, nulla succedeva nei malati, neanche dopo numerosi tentativi<br />

sbagliati. Gli autori concludono che negli individui normali, elementi inconsci guidano il<br />

comportamento prima che la coscienza intervenga 191 .<br />

190 A.R. Damasio: L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Adelphi, Milano,<br />

1995; pag 74-76<br />

191 Bechara et al: Deciding advantageously before knowing the advantageous strategy. Science<br />

275:1293-1295, 1997<br />

112


Lo studio dei pazienti paradigmatici, dei molti altri con lesioni spontanee da ictus o traumatiche,<br />

nonché di quelli in cui vennero effettuati interventi di lobectomia, di leucotomia o di resezioni più<br />

limitate, hanno portato a stabilire un certo consensus che può essere, per gli scopi che ci riguardano,<br />

così riassunto. Vi sono lesioni dei lobi frontali che lasciano sufficientemente intatte le capacità<br />

linguistiche e motorie e funzioni quali l’intelligenza, la memoria, la capacità di eseguire calcoli o di<br />

giocare a dama. Al contrario, come abbiamo visto, queste lesioni provocano dei cambi della<br />

personalità che possono gettare nello sconforto le rispettive famiglie, quali perdita dell’iniziativa e<br />

della spontaneità, un’inerzia sia nel pensiero che nell’azione, l’incapacità di pianificare la propria<br />

attività, di risolvere i problemi e di prendere decisioni adeguate, la perdita di interesse sia per il<br />

proprio lavoro che per altre attività che in precedenza venivano svolte, la manifestazione di aspetti,<br />

quali il turpiloquio, che prima erano assenti, l’impoverimento affettivo e così via. Chi era vicino al<br />

malato, come abbiamo visto, è portato a concludere che “non è più lui”. La reazione che suscita è<br />

quella di compassione, purché si riesca dopo un certo tempo ad accettare che non è colpa del<br />

soggetto quello che gli succede.<br />

Queste conclusioni sono state tratte dallo studio di pazienti adulti, i quali, in seguito alla lesione,<br />

sono difettosi nel loro comportamento morale, ma che tuttavia mantengono a livello conscio gli<br />

standard sociali e morali che hanno acquisito durante la loro vita. Ma cosa succede se la lesione<br />

frontale avviene in giovanissima età? Molto recentemente, il gruppo di Damasio ha riportato i<br />

risultati dello studio di due pazienti in cui le lesioni prefrontali insorsero prima dei 16 mesi di età.<br />

Pazienti così giovani con lesioni di questo tipo sono rarissimi. Questi due pazienti, che oggi hanno<br />

più di 20 anni, hanno manifestato problemi di ordine morale assai più gravi di quelli manifestati<br />

dagli adulti. Ovviamente non si può escludere che il loro comportamento possa essere dovuto ad<br />

altri fattori, tuttavia va notato che la loro situazione famigliare e ambientale era buona e che i loro<br />

fratelli si svilupparono normalmente. Gli autori si pongono il problema delle origini del<br />

comportamento morale e sociale e sottolineano che questi due pazienti hanno alcuni caratteri in<br />

comune con gli psicopatici 192 .<br />

La lesione bilaterale dell’amigdala, una struttura sita nel lobo temporale, dà anch’essa dei disturbi<br />

notevoli del comportamento emozionale e sociale. Questa regione situata nel lobo temporale è stata<br />

da tempo implicata nel controllo delle emozioni sulla base di studi di lesioni provocate negli<br />

animali o insorte spontaneamente nell’uomo 193 . La paziente S.M. ad esempio, che aveva subito un<br />

danno bilaterale all’amigdala, aveva una normale intelligenza e poteva identificare perfettamente le<br />

persone dalle fotografie. Tuttavia aveva una certa difficoltà a riconoscere certe emozioni mostrate<br />

dalle facce delle fotografie stesse. Era in grado di riconoscere la felicità, la tristezza e il disgusto,<br />

ma non la rabbia o la paura 194 . Inoltre, in uno studio che ha coinvolto altri due pazienti con un<br />

simile deficit, tutti e tre i malati non riuscivano a compiere un adeguato giudizio sociale su altri<br />

individui. In particolare essi definivano come affidabili facce che i soggetti normali catalogavano<br />

come assolutamente inaffidabili e indegne di fiducia 195 . Tuttavia quando le persone venivano<br />

descritte con aggettivi o come soggetti di breve storie, i tre pazienti erano in grado di emettere<br />

giudizi precisi. Evidentemente, i concetti relativi all’affidabilità di una persona erano ancora<br />

192 S.W. Anderson: Impairment of social and moral behavior related to early damage in human<br />

prefrontal cortex Nature Neurosci 2:1032 – 1037, 1999<br />

193 N.H. Kalin: The neurobiology of fear. Scient Am 268:94-101, maggio 1993; M. Davis: The role<br />

of amygdala in fear and anxiety Ann Rev Neurosci 15: 353-375, 1992; J.P. Aggleton The<br />

contribution of the amygdala to normal and abnormal emotional states. Trends Neurosci 16:328-<br />

222, 1993.<br />

194 R Adolphs et al: Impaired recognition of emotion in facial expressions following bilateral<br />

damage to the human amigdala. Nature 372:669-672, 1994<br />

195 R. Adolphs et al: The human amygdala in social judgment. Nature 393:470-474, 1998<br />

113


presenti ed accessibili alla coscienza, ma questa non poteva accedere alle informazioni fornite da<br />

una fonte quale quella visiva.<br />

La signora D.R. fu sottoposta all’età di 28 anni ad un intervento di distruzione bilaterale<br />

dell’amigdala eseguito mediante stereotassi, per un’epilessia intrattabile. Dopo l’operazione la<br />

paziente aveva difficoltà a riconoscere l’espressione di alcune facce. Non solo, ma la paziente aveva<br />

problemi anche a distinguere le intonazioni della voce associate a particolari emozioni, quali la<br />

paura e la rabbia. Questo studio dimostra che il ruolo dell’amigdala nel riconoscere certe emozioni<br />

non è limitato alla visione (ad esempio delle facce), ma si estende anche all’udito 196 .<br />

Parte della ricerca neurologica attuale si basa sull’identificazione di pazienti con deficit cognitivi il<br />

più limitati possibile, che vengono poi sottoposti a test psicologici e se possibile a tecniche di<br />

imaging. La paziente K.R., ad esempio, sviluppò a 70 anni una malattia neurologica acuta con<br />

comparsa di “disnomia”, cioè incapacità a riconoscere i nomi, limitata tuttavia, nel suo caso, alla<br />

categoria degli animali. Anche per gli animali, tuttavia, il deficit non era completo. Se richiesta<br />

verbalmente di descrivere gli attributi di un animale (es: il colore di un elefante), aveva delle<br />

difficoltà, tuttavia poteva distinguere gli attributi degli animali se presentati visualmente (ad<br />

esempio poteva correttamente indicare che gli elefanti propriamente colorati erano quelli grigi e non<br />

quelli colorati con colori anomali). La sua conoscenza di altre proprietà degli animali era intatta.<br />

All’autopsia il cervello della paziente presentava lievi segni di diffusa infiammazione (da sindrome<br />

paraneoplastica) che coinvolgeva entrambi i lobi temporali. Per spiegare questo deficit selettivo gli<br />

autori suggeriscono che devono esistere due distinte rappresentazioni di tali proprietà, una basata su<br />

stimoli visuali e una basata su stimoli verbali, in quanto una di esse era perduta mentre l’altra era<br />

conservata 197 .<br />

Alterazioni selettive della coscienza<br />

Vi sono altre lesioni che possono influire sulla personalità o sulla coscienza. Per anosognosia si<br />

intende l’incapacità di un paziente di riconoscere il suo deficit neurologico, insorto a causa di un<br />

ictus, che può essere di diversa natura. Nell’asomatognosia (sindrome di Anton-Babinski), persone<br />

che hanno subito un ictus che ha provocato un’emiplegia sinistra (lesione all’emisfero destro)<br />

possono non rendersi conto della loro situazione. Questi pazienti, a domande precise o per così dire<br />

messi alle strette, negano persino di essere malati o se “costretti” ad ammetterlo, subito dopo<br />

ritornano a negare. Damasio riporta la drammatica vicenda di un giudice della Corte Suprema degli<br />

Stati Uniti, che non riusciva a rendersi conto della sua paralisi e che, occupando una posizione assai<br />

delicata e in vista, divenne un caso pubblico 198 . Non si tratterebbe di una rimozione di tipo<br />

freudiano, ma proprio di un fenomeno in cui la coscienza non ha accesso alle informazioni<br />

riguardanti la parte lesa. Che non si tratti di una rimozione psicologica lo suggerisce il fatto che una<br />

corrispondente lesione all’altro emisfero provoca una paralisi del lato opposto ma non fenomeni di<br />

asomatognosia.<br />

La prosopagnosia è un disturbo nel riconoscimento delle facce, causato generalmente da lesioni<br />

bilaterali dei lobi temporali inferiori. I pazienti affetti, ad esempio, non sanno distinguere le facce<br />

note da quelle ignote (emozionalmente neutre). Tuttavia, se si utilizza il test di conduttanza cutanea<br />

i pazienti, come i normali, manifestano una forte risposta alle facce conosciute, che pure continuano<br />

a non riconoscere come tali. Questo fa supporre che il processamento delle immagini facciali sia<br />

196 S.K. Scott: Impaired auditory recognition of fear and anger following bilateral amygdala lesions.<br />

Nature 385:254-257, 1997<br />

197 J. Hart & B. Gordon: Neural subsystems for object knowledge. Nature 359:60-64, 1992<br />

198 A.R. Damasio: L’errore di Cartesio. Adelphi, Mialno, 1995. p. 115-116<br />

114


inaccessibile alla coscienza, ma ancora connesso con il sistema limbico, responsabile della risposta<br />

cutanea. Nella sindrome di Capgras invece i pazienti non riconoscono i parenti, anzi li giudicano<br />

degli impostori. In un terzo di questi pazienti la sintomatologia è insorta dopo un trauma al cervello,<br />

anche se un’analoga sintomatologia si può ritrovare in alcune psicosi. Ovviamente, come sempre, vi<br />

è un’interpretazione freudiana della genesi della malattia: in seguito al colpo in testa, gli impulsi<br />

sessuali latenti si rivelano, il complesso di Edipo si risveglia e così si nega che la madre, da cui si<br />

sarebbe attratti, sia veramente la madre. Ramachandran nota tuttavia che in un suo paziente anche il<br />

cagnolino risultava un impostore, cosa che fa dubitare di questa interpretazione 199 .<br />

Un’altra condizione drammatica è la cosiddetta “neglect syndrome”. L’individuo sembra ignorare<br />

persone e cose che cadono da un lato del proprio centro visivo e talvolta persino metà del proprio<br />

corpo. Si tratta di una sindrome assai eterogenea che interviene spesso quando la lesione è nella<br />

corteccia parietale posteriore. Oliver Sachs ha descritto uno di questi pazienti che dopo un ictus si<br />

lamentava che qualcuno continuasse a giocargli un macabro scherzo, mettendogli nel letto una<br />

gamba amputata. Quando egli cercava di allontanarla, finiva giù dal letto, perché, ovviamente, la<br />

gamba era la sua 200 . Un paziente di questo tipo può ignorare il cibo posto su una metà del suo<br />

piatto, farsi la barba solo su metà faccia, scrivere solo su una metà del foglio, e se richiesto di<br />

disegnare il quadrante di un orologio, cerca di sistemare tutte le ore da una parte. Questi deficit sono<br />

poi particolarmente eclatanti quando colpiscono persone con speciali capacità precedenti, quali la<br />

capacità di dipingere 201 .<br />

Il cervello splittato<br />

Una serie di osservazioni che riguardano la coscienza, e che sono estremamente sorprendenti per<br />

certi versi, anche se le conclusioni non sono sempre facili da trarre, riguarda le funzioni dei due<br />

emisferi. I due emisferi sono abbastanza simmetrici, e molte delle aree e delle vie neuronali sono<br />

conservate in entrambi. Vi sono però notevoli eccezioni, tra cui la più evidente è senz’altro quella<br />

collegata al linguaggio. Le due aree più note del linguaggio, evidenziate, come abbiamo visto, fin<br />

dal secolo scorso, sono a sinistra nella maggior parte degli individui compresi molti mancini.<br />

Questo ha fatto pensare che vi siano delle differenze tra i due emisferi. Tutte le lesioni raccolte dai<br />

clinici fino agli anni sessanta convergevano nella visione di un emisfero sinistro dominante rispetto<br />

al linguaggio e ad altre funzioni superiori rispetto al destro. Ad esempio, un danno focale, cioè assai<br />

limitato al giro angolare dell’emisfero sinistro può alterare la capacità di leggere: il testo viene<br />

visto, perché la visione è conservata, ma il senso delle parole scritte è perduto. Dal momento che il<br />

danno non coinvolge l’emisfero destro, se ne conclude che la capacità di comprendere il significato<br />

delle parole, che normalmente è ritenuta una funzione superiore, ha sede a sinistra, e che l’emisfero<br />

destro non è coinvolto in questo processo. Con una lesione di questo tipo, il paziente conserva però<br />

la capacità di comprendere il significato delle parole parlate, ma se la lesione colpisce invece l’area<br />

di Wernicke, viene abolita la capacità di comprendere il linguaggio parlato. I suoni vengono uditi,<br />

199 V.S. Ramachandran: Consciousness and body image: lessons from phantom limbs, Capgras<br />

syndrome and pain asymbolia. Phil Trans R Soc Lond B 353:1851-1859, 1998<br />

200 O. Sacks: The man who fell out of bed. Ristampato in O.W.Sacks: L’uomo che scambiò sua<br />

moglie per un cappello. Adelphi, Milano, 1986. Questo libro contiene una serie di casi clinici<br />

drammatici in cui, generalmente, solo una parte della personalità viene colpita.<br />

201 Il caso di un pittore che fu colpito da questa sindrome e i ritratti che fece a varie distanze di<br />

tempo dall’ictus è descritto in M.I. Posner & M Raichle: Images of mind. Scientific American<br />

Library, New York, 1994 p. 152.<br />

115


ma di nuovo il significato delle parole è perduto 202 . Questo contribuì a diffondere la visione di un<br />

emisfero sinistro intellettuale e di un emisfero destro relativamente ritardato.<br />

Tuttavia questa visione, che pur mantiene la sua indubbia rilevanza, è stata modificata dagli studi su<br />

un certo numero di pazienti sui quali, nel tentativo di trattare un’epilessia di un certo grado, venne<br />

praticato l’intervento di commissurotomia. I due emisferi sono tra loro connessi tramite un grosso<br />

fascio di fibre che viene denominato “corpo calloso”, e l’intervento, che consiste nel taglio di queste<br />

connessioni a livello della linea mediana, abolisce la possibilità che i due emisferi possano<br />

comunicare direttamente tra loro. Pertanto tali pazienti, insieme ad animali in cui tale taglio veniva<br />

effettuato a scopi sperimentali, forniscono un buon sistema per studiare le funzioni di ciascuno dei<br />

due emisferi isolatamente. L’intervento di commissurotomia non dava peraltro grande fastidi ai<br />

pazienti, che se incontrati durante una normale conversazione o persino ad un esame clinico non<br />

dettagliato potrebbero risultare assolutamente normali.<br />

Dal punto di vista tecnico, è possibile in questi pazienti, sottoporre un determinato stimolo solo<br />

all’emisfero destro o solo al sinistro. Ricordiamo che le fibre che portano la sensibilità periferica o<br />

che regolano il movimento volontario subiscono generalmente una decussazione (cioè attraversano<br />

la linea mediana e passano nel lato opposto) per la quale il lato destro del corpo è sotto il controllo<br />

dell’emisfero sinistro e viceversa. Ad esempio, un ictus che coinvolge la corteccia motoria destra dà<br />

origine ad una paralisi degli arti sinistri. Pertanto se la mano destra maneggia un oggetto senza<br />

poterlo vedere, gli stimoli relativi finiscono nell’emisfero sinistro e viceversa. Nell’individuo<br />

normale con un corpo calloso intatto, le sensazioni propriocettive originate da un oggetto sito nella<br />

mano sinistra, proiettano sull’emisfero destro, il quale però scambia informazioni coll’emisfero<br />

controlaterale tramite il corpo calloso. Noi constatiamo che un individuo bendato riconosce<br />

facilmente l’oggetto in qualsiasi mano esso sia posto. Per gli stimoli visivi, le cose sono più<br />

complicate, ma è ugualmente possibile far giungere uno stimolo alle cortecce visive di uno solo dei<br />

due emisferi. In questo modo è possibile studiare negli individui commissurotomizzati<br />

esclusivamente uno dei due emisferi, perché lo stimolo arriva a quello da noi prescelto, che tuttavia<br />

non può comunicare con l’altro per via della avvenuta commissurotomia.<br />

Quello che si è visto fu assolutamente sorprendente, soprattutto tenendo conto del fatto che tali<br />

individui risultano nella vita di ogni giorno praticamente normali dal punto di vista neurologico e<br />

comportamentale. Gli studi eseguiti su questi pazienti, compiuti inizialmente da Roger Sperry e i<br />

suoi collaboratori 203 , hanno portato a concludere che l’emisfero destro non è così ottuso come<br />

sembra 204 . Ad esempio il destro è superiore al sinistro nel copiare dei disegni come il cubo di<br />

Necker o la croce maltese (è superiore nella stereognosia). Il sinistro al contrario è superiore non<br />

solo nel linguaggio, come del resto ci si aspetterebbe per il fatto che le aree del linguaggio sono a<br />

sinistra, ma anche nel calcolo e nella ideazione. Tuttavia il cervello è terribilmente plastico, e nei<br />

rari casi di assenza congenita del corpo calloso, i soggetti si comportano come gli individui normali.<br />

Per questo si ritiene che essi abbiano sviluppato dei meccanismi compensatori, tra i quali, sembra,<br />

quello di avere aree di linguaggio sia a destra che a sinistra.<br />

Quello che è però particolarmente interessante è che molte delle performances dell’emisfero destro<br />

avvenivano senza che il sinistro ne fosse conscio. Ogni emisfero disconnesso si comportava come<br />

se non fosse conscio di quello che accadeva all’altro. Questo sembra valere anche per alcuni<br />

primati, ma assume dei caratteri più drammatici nell’uomo, a causa della presenza del linguaggio:<br />

202 J.W. Brown: Aphasia, apraxia and agnosia; clinical and theoretical aspects. Thomas, Springfield,<br />

Illinois, 1972<br />

203 Questi studi hanno valso a Sperry il premio Nobel nel 1981. Vedi ad esempio il discorso<br />

pronunciato in occasione della consegna del Nobel: R. Sperry: Some effects of disconnecting the<br />

cerebral hemispheres. Science 217:1223-1226, 1982. Vedi anche: M.S. Gazzaniga: Principles of<br />

human brain organization derived from split-brain studies. Neuron 14:217-228, 1995.<br />

204 E. Zaidel. In P. Buser & A. Rougeul-Buser (eds): Cerebral correlates of conscious experience.<br />

Elsevier, Amsterdam, 1978, pp 177-197<br />

116


l’emisfero sinistro può così negare con decisione di avere coscienza di ciò che aveva effettuato il<br />

suo omologo controlaterale.<br />

Ad esempio, se un’immagine viene mostrata solamente nel campo visivo sinistro, che proietta<br />

all’emisfero destro o se un oggetto viene posto, in maniera coperta, nella mano sinistra che pure<br />

proietta a destra, il soggetto commissurotomizzato non è in grado di descrivere né l’immagine<br />

visiva né l’oggetto che ha in mano, mentre riesce a farlo con facilità se l’immagine viene mostrata<br />

al campo visivo destro o l’oggetto posto nella mano destra. Anzi il paziente negherà di aver avuto in<br />

mano qualcosa o che gli sia stato mostrato alcunché. Ma attenzione, stiamo parlando della coscienza<br />

mediata dal linguaggio, perché si deve invece concludere che qualcosa l’emisfero di destra conosce.<br />

Infatti, se si mostra una parola scritta indicante un nome di cosa all’emisfero destro e gli si chiede<br />

che cosa ha visto, l’individuo (emisfero sinistro) risponde che non ha visto nulla; ma se gli si chiede<br />

di selezionare con la mano sinistra (governata dall’emisfero destro) una carta che rappresenta<br />

l’oggetto indicato dalla parola precedentemente mostrata o l’oggetto stesso in questione, l’individuo<br />

è in grado di eseguire correttamente il compito.<br />

Il corpo calloso è una connessione che, con qualche eccezione, ha luogo tra aree simmetriche del<br />

cervello che coinvolge un numero stimato di fibre intorno ai 200 milioni. Eccles sostiene che quello<br />

che è veramente interessante è proprio questo fatto che l’emisfero “dominante”, cioè quello sinistro,<br />

mantiene perfettamente la coscienza di tutto ciò che accade e che il linguaggio viene propriamente<br />

amministrato, ma che malgrado ciò questo emisfero, e quindi l’individuo, non ha assolutamente<br />

coscienza di ciò che accade nell’emisfero cosiddetto minore.<br />

Eccles spinge l’analisi di questi dati a concludere che l’emisfero destro è inferiore al sinistro, ma<br />

che comunque è superiore a quello del cervello di altri primati. Egli ha lanciato l’ipotesi che in<br />

condizioni normali l’emisfero destro possa raggiungere la coscienza solo dopo la sua connessione<br />

col sinistro. Quindi solo il sinistro è self cosciente per Eccles, anche se il destro ha comunque delle<br />

capacità superiori a quelle dello scimpanzé. Altri, come Sperry, sottolineando come il destro sia<br />

dotato di una minima capacità di comprendere qualche parola, ma sia superiore, come abbiamo<br />

visto, in alcune funzioni parlano invece di due “menti”, di cui una, la destra, è impossibilitata a<br />

comunicare a noi perché non ha il linguaggio. Eccles invece nega che questa seconda mente esista,<br />

o che per lo meno possa essere self cosciente. Egli ricorre ad un “gedanken experiment” per<br />

convincerci che al destro non si può attribuire self coscienza. Nei soggetti commissurotomizzati, il<br />

soggetto conscio controlla la mano destra, ma non la sinistra, anche se questo può effettuare<br />

movimenti anche apparentemente finalizzati. Continua Eccles:<br />

“In our gedanken experiment the left hand inadvertently grabs a gun, fires it and kills a man. Is this<br />

murder or manslaughter and by whom? If not, why not. But no such questions can be asked if the<br />

right hand does the shooting and the killing. The fundamental difference between the dominant and<br />

minor hemispheres stands revealed on legal grounds. Commissurotomy has split the bihemispheric<br />

brain into a dominant emisphere that is exclusively in liaison with the self-conscious mind and<br />

controlled by it and a minor hemisphere that carries out many of the performances previously<br />

carried out by the intact brain, but is not under control by the self-conscious mind. It may be in<br />

liaison with a mind, but this is quite different from the self-conscious mind of the dominant<br />

emisphere – so different that a grave risk of confusion results from the common use of the words<br />

‘mind’ and ‘consciousness’ for both entities" 205 .<br />

In alcuni pazienti, per gravissimi motivi medici, è stata eseguita la emisferectomia, cioè la<br />

rimozione di un emisfero cerebrale. Se l’ipotesi di Eccles fosse giusta, l’emisferectomia destra<br />

dovrebbe lasciare la self coscienza intatta, mentre quella sinistra dovrebbe rendere l’individuo<br />

205 K.R. Popper & J.C. Eccles: The self and its brain. Springer-Verlag Berlin, 1977; p 329<br />

117


inconscio. In effetti, quella destra causa i difetti attesi, con una notevole conservazione della<br />

coscienza, ma in seguito ad emisferectomia sinistra vengono conservate tracce della coscienza e<br />

anche la capacità linguistica in parte si riprende. Questa ripresa e conservazione sono più evidenti<br />

nei giovani, e ci si potrebbe chiedere se il trasferimento a destra di queste funzioni non sia avvenuta<br />

prima dell’intervento, tenendo conto che questo si sarebbe potuto verificare per via della lunga<br />

sofferenza subita dall’emisfero sinistro durante la malattia prima dell’intervento.<br />

Le malattie mentali<br />

Malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer o la corea di Huntington, sono devastanti, e<br />

certamente distruggono anche la personalità. Ma questo non ci sorprende, perché troviamo<br />

comprensibile che si perda il vigore, la brillantezza d’ingegno, la memoria, e tante altre facoltà così<br />

come si perde la forza muscolare. Quello che ci sorprende è il cambio della personalità, la perdita<br />

del controllo morale o del senso della realtà a fronte di una conservazione almeno apparente del<br />

ragionamento e di altre facoltà superiori.<br />

Le malattie mentali sono un altro campo che chiama in causa il rapporto tra psiche, mente e<br />

cervello. Prendiamo la depressione ad esempio. In un soggetto razionale, la depressione è talora<br />

perfettamente comprensibile. Se ad uno muore il figlio o se un padre di famiglia perde<br />

immeritatamente il lavoro, tutti noi possiamo accettare l’idea che la persona cada preda della<br />

depressione. Dal momento che sono cose che accadono tutti i giorni, siamo disposti ad accettare che<br />

gli eventi della vita possano incidere sulla psiche. Possiamo anche accettare che questo stato<br />

psichico influenzi il soma (cervello incluso). Ma che dire di un depresso senza motivo? Possiamo<br />

postulare cause interiori, ma anche queste spesso non sono riscontrabili. Siamo propensi a dire che<br />

“dipende da lui”. E cosa dire poi dei paranoici, i quali mantengono una certa lucidità, ma<br />

interpretano, apparentemente, alcuni dati in maniera abnorme (“quello ce l’ha con me”).<br />

Proprio perché conosciamo le cause esterne della depressione “ragionevole” o “fisiologica”, e<br />

sappiamo che esse sono causate da fatti oggettivi, da eventi che colpiscono l’individuo, siamo<br />

portati a pensare che le malattie della psiche siano dovute alla vita vissuta del soggetto, alle<br />

difficoltà che si incontrano, ai colpi del destino, o ai propri errori. Si tratta comunque di eventi al di<br />

fuori di noi che sono per così dire eventi “umani”, cioè collegati a qualcosa che direttamente<br />

colpisce la psiche e non i neuroni. E’ l’interazione tra psiche e eventi “con rilevanza psichica” che –<br />

riteniamo - causa la depressione. Nel caso estremo, si può giungere al suicidio, che, per quanto<br />

esecrabile esso sia, è a volte comprensibile perché basato su eventi sconvolgenti: chi potrebbe<br />

condannare Giulietta e Romeo? Parimenti, se esaminiamo adolescenti o bambini disadattati, magari<br />

aggressivi o violenti o addirittura colpevoli di comportamenti orribili, quali il parricidio, siamo<br />

portati a cercarne le cause a livello ambientale, familiare o sociale. Cause dell’anomalo<br />

comportamento includono scarsità di stimoli, di affetto, condizioni economiche e culturali di basso<br />

livello, perdita dei valori nella società moderna e così via. Anche quando le interpretazioni sono di<br />

tipo “psicoanalitico”, ci si confronta in realtà con eventi (o ipotesi di eventi) che sono di natura<br />

psichica, tipo le pulsioni, i complessi ecc.<br />

Questo per lo meno è la visione preponderante che si ha nei media e nei commenti di giudici,<br />

psicologi e operatori sociali quando capita un caso del genere. L’argomento è stato in parte toccato<br />

quando abbiamo parlato di geni e comportamento. Qui tuttavia la discussione è svolta con<br />

un’angolazione diversa. Dato per scontato che una certa predisposizione genetica potrebbe esistere,<br />

qui stiamo invece discutendo l’interazione tra ambiente e cervello, o mente o psiche o personalità.<br />

Nessuno può sostenere che tutti i fattori che abbiamo elencato non siano rilevanti ad esempio nella<br />

118


formazione di una persona disadattata, né che fattori economici e sociali, incluso ad esempio<br />

l’amicizia o l’amore, possono avere un grande ruolo nel benessere di una persona.<br />

Come possiamo accettare allora che un farmaco possa modificare in meglio uno stato mentale<br />

patologico ? Sembrerebbe questa una prova lampante che il comportamento morale dipende da uno<br />

stato cerebrale, dal momento che una molecola può modificare la personalità. E’ interessante notare<br />

come anche in questo caso vi sia una forte componente ideologica da superare, in quanto molti<br />

vedono un contrasto tra società e farmaci. Se molti comportamenti devianti sono causati da<br />

esperienze di vita, da ambienti malsani e poveri, come si può pensare di aggiustare tutto con un po’<br />

di chimica ?<br />

In generale, come è possibile che un semplice composto chimico possa alterare significativamente<br />

la coscienza o il comportamento morale ? Eppure l’utilità dei farmaci antidepressivi è ormai fuori<br />

discussione 206 . Se la coscienza è qualcosa che è libera dalla materia, come possono esistere farmaci<br />

che influiscono sulle sue manifestazioni più alte. In generale, non ci stupiamo che possano esistere<br />

gli analgesici, gli anestetizzanti, i sonniferi e neanche farmaci che ci rimbambiscono. Ma come è<br />

possibile invece alterare il nostro stato affettivo, che si ritiene un aspetto elevato della coscienza.<br />

Molti dei farmaci antidepressivi agiscono a livello delle sinapsi serotoninergiche o noradrenergiche.<br />

Possiamo concludere che la depressione sia semplicemente una questione di livelli di queste<br />

catecolamine? D’altro canto, talvolta anche la psicoterapia può ottenere successi, o eventi della vita<br />

possono far migliorare malati psichiatrici.<br />

Siamo pertanto di fronte ad un’ambivalenza, in cui eventi di natura diversa possono agire<br />

positivamente o negativamente sull’equilibrio della nostra psiche. I farmaci possono dannarci o<br />

possono giovarci, e i casi della vita possono favorirci o colpirci. Indiscutibilmente, stati patologici<br />

causati da problemi “morali” possono migliorare con i farmaci e al contrario, disturbi, come ad<br />

esempio quelli causati da tossicodipendenza, possono giovarsi di eventi “morali”, come ad esempio<br />

l’affidamento a una comunità in cui si cerca di proporre nuovi modelli di vita e nuovi valori.<br />

Entrambe le cose sono innegabili.<br />

False e vere memorie<br />

Tra le turbe della coscienza si possono anche porre le false memorie che stanno diventando un<br />

problema rilevante. La distinzione tra sogno e realtà è stato sovente un tema letterario molto<br />

interessante. Quando sogniamo, siamo spesso attivamente coinvolti, ma fortunatamente quasi<br />

sempre ci svegliamo e siamo in grado di distinguere la realtà dal sogno. La natura quasi magica del<br />

sogno è stata usata da alcuni per predire il futuro, a cominciare dal sogno del faraone che Giuseppe<br />

interpreta nella Bibbia, mentre da altri è stata utilizzata per comprendere la personalità degli<br />

individui e svelare i loro veri problemi. Man mano che si torna indietro nel tempo però, sogni e<br />

fantasie diventano sempre più vaghi. Alcune terapie si basano sulla rievocazione dei ricordi<br />

dell’infanzia, che, essendo spiacevoli, verrebbero rimossi, ma potrebbero venir rievocati grazie<br />

all’abilità del psicoterapeuta.<br />

206 Un best seller sull’argomento, accessibile a tutti, è il libro di P.D. Kramer: Listening to Prozac.<br />

A psychiatrist explores antidepressant drugs and the remaking of the self. Viking, New York, 1993.<br />

In questo libro l’autore, uno psichiatra che si basava sulla psicoterapia, descrive come sia cambiata<br />

la gestione dei malati con l’introduzione dei farmaci antidepressivi, di cui il Prozac (fluoxetina) è il<br />

più conosciuto.<br />

119


Ma vi sono dei problemi. Jean Piaget riferisce di un ricordo molto netto della sua prima infanzia.<br />

Mentre era a spasso con la sua baby sitter, venne fatto oggetto di un tentativo di rapimento che<br />

fortunatamente venne sventato dalla sua accompagnatrice. Egli mantenne un vivo ricordo visivo del<br />

fatto, anche della divisa del gendarme che venne poi in loro soccorso, malgrado che, ed egli se ne<br />

rendeva conto, l’evento fosse accaduto ad un’età in cui pochissimi ricordi vengono conservati. Il<br />

problema è che anni dopo la baby sitter, pentita, scrisse ai suoi genitori che il fatto non era mai<br />

avvenuto, ma lo aveva inventato per guadagnarsi la loro fiducia e riconoscenza 207 .<br />

Evidentemente, una falsa memoria si era formata in seguito al continuo racconto dell’episodio che<br />

gli avevano fatto i genitori. I racconti di genitori e parenti sono la prima e forse l’unica fonte dei<br />

ricordi della nostra infanzia. Oggi il problema ha raggiunto un livello più grave in seguito a fatti<br />

riportati dalla cronaca sulle false memorie 208 . In seguito a sedute di psicanalisi, eseguite in accordo<br />

con alcune teorie che tendono ad attribuire ogni problema psichico ad abusi sessuali e altre orribili<br />

esperienze avvenuti nell’infanzia, alcuni pazienti hanno accusato genitori e conoscenti di averli<br />

violentati da piccoli. In alcuni casi si è accertato che la cosa era materialmente impossibile, in altri<br />

le accuse erano talmente inverosimili da cadere da sole 209 . Quello che qui ci interessa è solamente<br />

che la nostra coscienza può venir ingannata anche relativamente a ciò che dovrebbe essere custodito<br />

nella nostra memoria, cui in teoria dovremmo poter accedere solo noi.<br />

Cosa ci sia immagazzinato nel nostro cervello non lo sappiamo. Per molti ricordi evocati in<br />

situazione di dramma o di insistenza a scopo terapeutico o legale, evidentemente il giudizio è<br />

tutt’altro che sicuro. Quanti ricordi che costituiscono dei classici della psicoanalisi sono inventati,<br />

anche in buona fede? Probabilmente molti, il che non vuol dire negare che il fenomeno dell’abuso<br />

sessuale di minori non esista. Oltre cinquant’anni orsono, Wilder Penfield, un neurochirurgo,<br />

effettuò una serie di stimolazioni della corteccia cerebrale su pazienti sottoposti ad interventi per<br />

ragioni mediche, che sono rimaste classiche e che hanno contribuito, tra l’altro, alla definizione dei<br />

famosi “homunculi” sensitivo e motorio. Durante stimolazione della corteccia sensitiva, ad esempio,<br />

il paziente poteva provare sensazioni in una specifica parte del corpo, mentre la stimolazione della<br />

corteccia motoria causava la contrazione di un determinato muscolo.<br />

Quando Penfield eseguì stimolazioni del lobo temporale, in alcuni casi il paziente riferì sensazioni<br />

di tipo diverso. Ad esempio:<br />

“At the time of operation, stimulation of a point on the anterior part of the first temporal<br />

convolution on the right caused him to say, “I feel as though I were in the bathroom at school”.<br />

Five minutes later, after negative stimulation elsewhere, the electrode was reapplied near the same<br />

point. The patient then said something about “street corner”. The surgeon asked him, “where” and<br />

he replied, “South Bend, Indiana, corner of Jacob and Washington”. When asked to explain, he<br />

said he seemed to be looking at himself at a younger age” 210 .<br />

207 J. Piaget: Intervista su conoscenza e psicologia. Laterza, Bari, 1978; p. 112-113<br />

208 R. Ofshe & E. Watters: Making monsters: false memories, psychotherapy, and sexual hysteria.<br />

Charles Scribner’s Sons, New York, 1994; E.F. Loftus & K. Ketcham: The myth of repressed<br />

memories. St. Martin Press, New York, 1994. M. Pendergrast: Victims of memory. Upper Access<br />

Books, Hinesburg, 1995.<br />

209 E.F. Loftus: Creating false memories. Scient Am, settembre 1997, p 70-75. Alcuni dei<br />

psicoterapeuti sono stati condannati in sede legale al pagamento di ingenti cifre ai genitori<br />

ingiustamente accusati.<br />

210 W. Penfield: The excitable cortex in conscious man. Liverpool University Press, Liverpool, 1958<br />

120


Episodi come questo sono stati spesso interpretati come dimostrazione che i nostri ricordi sono tutti<br />

ben immagazzinati nel cervello e che basterebbe la stimolazione giusta per farli saltare fuori.<br />

Un’interpretazione altrettanto plausibile è che invece questi episodi siano semplicemente delle<br />

confabulazioni e che non abbiano corrispondenza con la realtà. Frammenti di ricordi potrebbero<br />

essere reali, ma potrebbero essere mescolati ad altre sensazioni originate successivamente o<br />

addirittura evocate in maniera anomala. Purtroppo, sembra, non possiamo essere sicuri neanche di<br />

noi stessi, e tutto quello che passa nella testa di persone, per giunta malate, non dovrebbe essere<br />

preso come oro colato.<br />

Quanto però la memoria sia importante per la nostra personalità e per la nostra vita normale è<br />

evidente quando l’accesso ad essa ci viene negato. Il lobo temporale è di grande importanza per un<br />

corretto uso della memoria 211 . Alexander Luria ha potuto seguire un paziente che nel 1941, in<br />

seguito ad un trauma bellico, presentò un’assoluta perdita della memoria, unita ad altri deficit.<br />

L’intelligenza del paziente rimase tuttavia perfettamente normale, e questo non fece altro che<br />

rendere più acuto il suo dramma, perché egli era perfettamente conscio del suo handicap. Luria ha<br />

pubblicato la vicenda umana di questo paziente, che lentamente, con una forza d’animo tremenda<br />

riuscì a descrivere in un diario parte della sua vicenda 212 . Questo caso dimostra come una<br />

coscienza “intatta” può avere dei problemi enormi nella vita di ogni giorno per l’assenza di una<br />

capacità come la memoria, più o meno come un cieco ha difficoltà nella visione.<br />

Prendiamo quest’altro caso di un paziente, il famoso paziente H.M., che per un’epilessia intrattabile<br />

ebbe rimosso, all’età di 27 anni, ambedue gli ippocampi, strutture che hanno un ruolo<br />

importantissimo nella memoria (originariamente descritto da Scoville e Milner 213 ). L’intervento<br />

ebbe successo, perché la sua epilessia fu alleviata, e non ebbe alcun effetto sostanziale sulla sua<br />

capacità percettiva, sulla sua intelligenza e sulla sua personalità. Tuttavia il paziente sviluppò una<br />

grave amnesia anterograda 214 , dal momento che dimenticava gli eventi appena questi avevano<br />

luogo. Ad esempio, se gli veniva detto di ricordare un numero, egli non solo dimenticava il numero<br />

ma dimenticava anche che qualcuno gli avesse detto di ricordarlo. Quando cambiò casa ebbe gravi<br />

211 L.R.Squire & S. Zola-Morgan: The medial temporal lobe memory system. Science 253:1380-<br />

1386, 1991<br />

212 Il diario di questo paziente ha fornito la base per il libro di Luria. Vedi: A. Luria: The man with a<br />

shattered world. Penguin Books Ltd. Harmondsworth, 1975. Curiosamente lo stesso Luria ha anche<br />

descritto in un piccolo libro (A. Luria: The mind of a mnemonist. Penguin Books Ltd.<br />

Harmondsworth, 1975.), la storia di un uomo che, al contrario, era dotato di una memoria<br />

stupefacente. Quest’uomo ricordava con grande facilità numeri e lettere, tanto che, una volta venuto<br />

a conoscenza della sua prodigiosa memoria, lasciò il suo lavoro e si mise a fare il fenomeno di<br />

baraccone. La sua memoria era in effetti prodigiosa e non sbagliava mai. Tuttavia aveva anche<br />

qualche svantaggio, perché faceva una grande fatica a dimenticare, e aveva altri piccoli disturbi.<br />

Luria venne in contatto con questa persona negli anni Venti del secolo scorso e la seguì per 30 anni,<br />

ma il segreto della sua memoria prodigiosa non ha potuto essere svelato. Forse oggi, con le moderne<br />

tecniche di immagine e di indagine psicologica qualcosa di più si sarebbe potuto comprendere. Una<br />

delle ipotesi che si possono fare è che vi fosse un difetto nella cancellazione della memoria a breve<br />

termine, che rimaneva pertanto a disposizione della coscienza.<br />

213 W.B. Scoville & B.Milner: Loss of recent memory after bilateral hippocampal lesions. J Neurol<br />

Neurosurg Psychiatry 20:11-21, 1957.<br />

214 L’amnesia anterograda è quella relativa ad eventi che sono successi dopo l’operazione, mentre<br />

l’amnesia retrograda è quella relativa ad eventi che sono accaduti prima dell’operazione (o di un<br />

dato momento). L’amnesia retrograda in questo paziente era solo modesta, mentre l’anterograda era<br />

praticamente totale. Questo è in relazione probabilmente al ruolo dell’ippocampo nella formazione<br />

dei ricordi, ma non nel loro mantenimento una volta che si sono instaurati<br />

121


problemi a riuscire a ritrovarla, sottostimava la sua età e non era neanche in grado di riconoscere<br />

una sua fotografia recente. Inoltre:<br />

“His initial emotional reaction may be intense, but it will be short-lived, since the incident<br />

provoking it is soon forgotten. Thus, when informed of the death of his uncle, of whom he was very<br />

fond, he became extremely upset, but then appeared to forget the whole matter and from time to<br />

time thereafter would ask when his uncle was coming to visit them; each time, on hearing anew of<br />

the uncle’s death, he would show the same intense dismay, with no sign of habituation” 215<br />

Pur non essendo andato incontro ai problemi enormi del paziente di Luria, anche H.M. non viveva<br />

bene. Anche in questo caso, una coscienza intatta non era tuttavia in grado di ricordare dati di<br />

valore affettivo, che pure noi riteniamo importantissimi per la nostra identità.<br />

Una personalità assai fragile<br />

Qual è la rilevanza di tutti questi dati per il nostro problema ? In primo luogo, si dimostra come<br />

funzioni specifiche della specie umana come il linguaggio, la lettura, la capacità di apprezzare la<br />

musica, la comprensione della matematica sono tutte cose che possono essere rese impossibili da<br />

lesioni cerebrali ben localizzate.<br />

In secondo luogo, anche il comportamento che definiamo “morale” sembra essere sotto il controllo<br />

di un cervello in buone condizioni. L’incidente di Gage avvenne in un periodo in cui la frenologia<br />

era in auge, e il suo caso suggeriva che non solo la sensibilità o la motilità, ma anche funzioni<br />

superiori come il comportamento responsabile potessero avere sede in una regione specifica del<br />

cervello. Alterazioni della personalità non sono fenomeni rari, e probabilmente ogni medico ha, nel<br />

corso della sua professione, incontrato casi del genere, legati in genere a decadimento senile o più<br />

raramente a tumori cerebrali. Talora i cambi comportamentali sono estremamente traumatizzanti per<br />

i congiunti, che giungono a chiedersi quale delle due personalità del proprio congiunto sia quella<br />

vera, quella amabile che conoscevano o quella degradata che si manifesta dopo il danno cerebrale.<br />

Ma come è possibile, e questa è una domanda cui bisogna dare risposta, che esista un principio<br />

extracerebrale se il semplice danneggiamento di alcuni circuiti è in grado di cambiare il modo di<br />

agire di una persona. Per il principio di Ockham, non vale la pena di invocare ulteriori entità se<br />

quelle che ci sono già spiegano tutto. In realtà, alcuni obiettano, queste non spiegano tutto, perché<br />

molte cose sono ancora incomprensibili, e il rasoio di Ockham non è un principio “ontologico”,<br />

bensì un utile strumento pratico. Il laringectomizzato, privo di quell’organo indispensabile per<br />

l’emissione dei suoni che è il laringe, non è in grado di parlare; parallelamente, essi sostengono, se<br />

alcune regioni del cervello non funzionano, la mente non può manifestarsi.<br />

Le caratteristiche della personalità che veramente definiscono un uomo (o una donna) sono<br />

tradizionalmente, anche se oggi sono un po’ in ribasso, la capacità di non farsi piegare dagli<br />

avvenimenti, di organizzare la propria vita secondo dei valori precisi, di provare emozioni in<br />

seguito a fatti che coinvolgono la morte e la malattia, la forza di carattere e la forza di volontà, ecc.<br />

Tutte cose che, come possiamo vedere ad ogni momento rischiano di venir colpite dalla vecchiaia o<br />

da altri eventi patologici. Lo studio dei pazienti ci ricorda che la nostra personalità è assai fragile ed<br />

esposta alle tempeste della vita. Stretti tra l’infanzia e la vecchiaia, non vi è dubbio che vi è solo un<br />

breve momento nella nostra esistenza in cui siamo pienamente responsabili di noi stessi e che le<br />

nostre scelte pienamente coscienti sono solamente una leggera increspatura nell’oceano<br />

dell’esistenza. Come gli antichi pittori medioevali di cui non sono note le date di nascita e morte,<br />

215 Citato in K.R. Popper & J.C. Eccles: The self and its brain. Springer-Verlag Berlin, 1977; p 391<br />

122


anche i migliori di noi fioriscono per un brevissimo tempo per poi scomparire nel magma della<br />

negatività.<br />

123


Capitolo 8.<br />

IL LINGUAGGIO<br />

Il linguaggio è una delle manifestazioni peculiari dell’uomo: esso non è solo un mezzo per<br />

scambiarci informazioni, è anche uno strumento così connesso con la nostra capacità di provare<br />

sentimenti e di ragionare che in parte sembra costituirne l’essenza stessa. Comprendere le basi del<br />

linguaggio vuol dire aprire una finestra sulla nostra natura. Vi sono domande tecniche quali: il<br />

linguaggio è innato, e se sì, qual è la sua struttura biologica? tutte le lingue derivano da una sola<br />

protolingua? vi sono delle regole che il linguaggio umano “è costretto” a seguire per via di questa<br />

struttura biologica prefissata? e domande di significato più profondo quali: qual è il rapporto tra<br />

pensiero e linguaggio? Può esistere pensiero senza linguaggio? Il linguaggio è unico all’uomo? Le<br />

scimmie possono parlare o pensare? O possono essere addestrate a farlo? Tutte queste domande<br />

sono suscettibili di indagine sperimentale e ci dicono qualcosa sulla nostra natura.<br />

Le basi biologiche del linguaggio<br />

Ogni volta che si parla di linguaggio, si prende lo spunto da Noam Chomsky, che viene<br />

generalmente ritenuto il fondatore degli studi moderni su di esso. Chomsky oltre 40 anni fa lanciò<br />

l’idea che il linguaggio fosse una questione innata. Nasciamo già con il nostro cervello predisposto<br />

al linguaggio, più o meno come abbiamo altre facoltà, ad esempio quella di camminare con due arti<br />

solamente. Questo sarebbe provato innanzitutto dal principio della povertà dello stimolo, secondo<br />

cui il bambino apprende l’uso del linguaggio troppo facilmente e rapidamente per non pensare che<br />

abbia già una struttura cerebrale ad esso predisposta. Inoltre, il fatto che tutte le lingue hanno delle<br />

caratteristiche comuni ben si adatta all’ipotesi di Chomsky. Steve Pinker ha usato l’espresssione<br />

“l’istinto del linguaggio” 216 per indicare appunto che nasciamo già marchiati da questa capacità che<br />

nessun altro essere vivente sulla terra possiede. L’ipotesi alternativa sostiene invece che il<br />

linguaggio è un processo su base essenzialmente culturale, che il cervello è plastico e che non vi<br />

sono neuroni specificatamente predisposti al linguaggio. Le similarità tra le varie lingue, se fosse<br />

confermato che proprio tutte hanno la stessa struttura, potrebbe essere spiegata ipotizzando che il<br />

linguaggio sia nato in una tribù che abbia poi conquistato la terra. In questo caso, il linguaggio,<br />

come molti altri caratteri culturali potrebbe esserci stato tramandato con molte variazioni sul tema<br />

che però non ne hanno intaccato la struttura originaria.<br />

Naturalmente, una volta comparso un primo linguaggio, la sua evoluzione potrebbe anche essere<br />

stata assai rapida. Questa seconda fase è certamente su base culturale, in quanto il tempo in cui le<br />

lingue si evolvono è troppo rapido per avere una base biologica. Quello che si eredita è solamente<br />

una struttura biologica che predispone al linguaggio, in quanto bimbi nati in una cultura possono<br />

tranquillamente imparare una lingua anche distantissima da quella dei loro genitori. Generazioni di<br />

popolazioni isolate non perdono la capacità di imparare un’altra lingua da piccoli.<br />

D’altro canto è abbastanza accertato che se il linguaggio non viene appreso in giovane età, poi si ha<br />

una grave difficoltà ad apprenderlo. Sebbene la base cerebrale di questo fenomeno non sia chiara,<br />

questo fatto testimonia che vi sono dei fenomeni neurali che devono verificarsi perché il linguaggio<br />

venga appreso. Si ritiene che vi sia un’età al di sopra della quale si perde la capacità di apprendere il<br />

linguaggio. Questa età dovrebbe essere superiore ai quattro anni, dal momento che è stato riportato<br />

il caso di un bambino affetto da immunodeficienza combinata grave che rimase per ragioni mediche<br />

216 S. Pinker: the language instinct. William Morrow & Co, New York, 1994<br />

124


in isolamento dai 9 mesi ai 4 anni e 4 mesi, il quale fu in grado di acquisire la capacità di parlare<br />

quando, dopo un riuscito trapianto di midollo osseo, fu reinserito nella società 217 .<br />

Per fondamentale che sia il linguaggio per la nostra specie, non sembra tuttavia che la capacità di<br />

parlare debba essere legata indissolubilmente alla capacità di ragionare o pensare. Il rapporto fra<br />

pensiero e linguaggio ha affascinato filosofi, scienziati e pensatori per millenni e non è<br />

assolutamente chiarito neanche ora 218 . Il linguaggio è un prerequisito per il pensiero o è possibile<br />

un pensiero senza linguaggio ? O addirittura, senza il pensiero e la coscienza non può esserci<br />

linguaggio ? E’ certo che lesioni cerebrali circoscritte possono limitare o abolire l’uso del<br />

linguaggio senza che l’intelligenza “non-verbale” ne sia modificata. Ma cosa succede nei bambini<br />

che non siano mai venuti a contatto con il linguaggio ? Vi sono i casi dei bambini-lupo, o comunque<br />

di bambini che sono vissuti isolati dagli uomini, che non sono più stati in grado di parlare e che<br />

sono rimasti con un basso livello intellettivo (il prototipo rimane Victor, “l’enfant sauvage”<br />

descritto nel secolo scorso 219 ). Tuttavia non è chiaro quanto la mancanza di linguaggio piuttosto che<br />

la mancanza generale di stimoli possa aver influito in questi casi.<br />

Oggi i sordomuti che non vengono sottoposti a riabilitazione sono, nella società occidentale,<br />

alquanto rari. Nelle società meno civilizzate probabilmente ci saranno ancora, ma sono poco<br />

studiati. Mentre è praticamente certo che i sordomuti riabilitati posseggono un’intelligenza e un<br />

pensiero apparentemente normali, sembra che anche quelli non riabilitati raggiungano uno sviluppo<br />

normale dal momento che rispondono in maniera soddisfacente ai test non verbali. Il caso di Helen<br />

Keller, una bambina cieca e sordomuta che, all’inizio di questo secolo, imparò a comunicare con un<br />

linguaggio di segni, viene spesso citato a dimostrare che anche in casi di notevole privazione<br />

sensoriale, il pensiero e la coscienza si erano ugualmente sviluppati.<br />

Le basi cerebrali del linguaggio<br />

La tesi che il linguaggio sia innato presuppone una struttura cerebrale ad esso deputata. Parlando<br />

delle conseguenze delle lesioni cerebrali, abbiamo fatto alcuni cenni a quelle che colpiscono il<br />

linguaggio. Come abbiamo detto, gli studi dei neurologi francesi a metà dell’Ottocento sono stati di<br />

importanza fondamentale per chiarire che vi sono aree la cui lesione colpisce in maniera specifica il<br />

linguaggio. Anche gli studi di Roger Sperry sui pazienti commissurotomizzati hanno confermato lo<br />

strano rapporto tra emisfero sinistro e linguaggio e tra linguaggio e coscienza. Per molti anni lo<br />

studio di lesioni cerebrali, insieme a quelli basati sulla stimolazione di specifiche zone cerebrali<br />

durante interventi chirurgici a cranio aperto, hanno rappresentato gli unici approcci all’indagine<br />

delle basi neuronali del linguaggio. Una conferma successiva venne da quella che viene conosciuta<br />

come procedura di Wada, in cui l’anestetizzazione limitata ad un singolo emisfero confermava che<br />

la localizzazione del linguaggio è generalmente a sinistra. Più recentemente, gli studi eseguiti con<br />

PET e fMRI hanno fornito immagini spettacolari dell’attivazione di specifiche aree cerebrali in<br />

217<br />

R.M. Lazar et al.: Language recovery following isolation for severe combined<br />

immunodeficiency disease. Nature 306:54-55, 1983. Tuttavia bisogna notare che i primi mesi in cui<br />

il bambino fu esposto al linguaggio potrebbero essere stati determinanti per la sua capacità di<br />

apprenderlo successivamente. E’ comunque certo che il linguaggio non comparve nel bambino<br />

prima che egli fu rieducato ad esso successivamente al trattamento.<br />

218 Vedi ad esempio: D. Laplane: Controverse: existe-t-il une pensèe sans langage? La Recherche,<br />

novembre 1999, p.62-67<br />

219 J. Itard: Il fanciullo selvaggio dell’Aveyron. Armando Editore, Roma, 1974; Questo è il libro<br />

originario scritto dal medico che studiò il bambino. La storia è rievocata in: H. Lane: The wild boy<br />

of Aveyron, Harvard University Press, Harvard, 1976.<br />

125


seguito a operazioni legate al linguaggio. Anche questi studi hanno confermato che nell’individuo<br />

normale le aree cerebrali classiche sono effettivamente coinvolte nell’uso del linguaggio scritto o<br />

parlato.<br />

Queste tecniche e altre che sicuramente verranno messe a punto nei prossimi anni consentono di<br />

investigare in vivo i fenomeni legati al linguaggio in condizioni normali ma anche patologiche o<br />

comunque inusuali. Neville e colleghi 220 , ad esempio, hanno studiato mediante fMRI tre gruppi di<br />

persone: persone normali che parlavano la loro lingua (inglese), persone sorde dalla nascita che si<br />

esprimevano solo con l’American Sign Language (ASL, il linguaggio dei sordomuti che si basa su<br />

segni eseguiti con le mani) e persone (figli di sordi) che avevano appreso in età infantile ambedue i<br />

linguaggi (inglese e ASL). I primi due gruppi mostrarono attivazione dell’emisfero sinistro quando<br />

processavano il loro rispettivo linguaggio (inglese o ASL). Il secondo e il terzo gruppo, ma non il<br />

primo, mostrarono tuttavia un aumento di attività anche nell’emisfero destro. Questo<br />

apparentemente contrasta con gli studi di lesioni cerebrali nei sordi, in cui, come nei normali,<br />

lesioni nell’emisfero sinistro ma non nel destro alterano la capacità di parlare ASL 221 .<br />

Kim e collaboratori 222 hanno analizzato mediante fMRI l’attivazione di aree cerebrali in pazienti<br />

che parlavano due lingue, analizzandoli a seconda che le avessero apprese alla nascita o<br />

successivamente. Mentre i primi tendevano ad attivare con entrambe le lingue la stessa regione<br />

nell’ambito dell’area di Broca, coloro che avevano acquisito un secondo linguaggio tardivamente,<br />

attivavano zone adiacenti ma non identiche nell’area di Broca. Nell’area di Wernicke, le regioni<br />

attivate erano sempre le stesse. Questi studi, che in fondo sono ancora solo in fase inziale,<br />

dimostrano che sarà possibile spingere lo studio delle funzioni corticali superiori ad un livello di<br />

grande profondità.<br />

L’ asimmetria nella localizzazione del linguaggio, per la quale in circa il 95% dei destrimani e il<br />

70% dei mancini le aree deputate al linguaggio sono poste nell’emisfero sinistro 223 , ha spinto a<br />

cercare se ci fossero differenze anatomiche tra i due emisferi. Queste differenze in effetti esistono,<br />

specialmente a carico di una regione denominata “planum temporale”, sulla faccia superiore del<br />

lobo temporale. Questa asimmetria, che è la più pronunciata riscontrabile nel cervello, fa parte<br />

dell’area di Wernicke, sembra presente anche nei feti, e pertanto non sarebbe una conseguenza<br />

dell’uso del linguaggio bensì appunto una possibile base della localizzazione del linguaggio stesso.<br />

Un’ipotesi è che l’evoluzione del linguaggio sia andata parallela con l’evoluzione di queste<br />

strutture. A questo scopo, l’evoluzione del planum temporale è stata studiata nelle altre specie con<br />

particolare attenzione ai primati. Si ritiene che scimpanzé e uomo si siano separati oltre 5 milioni di<br />

anni fa. Recentemente è stato dimostrato che oltre il 90% degli scimpanzé hanno, come nell’uomo,<br />

il planum temporale sinistro più grande del destro 224 . Questo fa pensare che questa struttura sia<br />

precedente alla comparsa del linguaggio, ma che sia stata cooptata in seguito per il linguaggio.<br />

Un’altra possibilità è che, dal momento che la maggior parte degli umani sono destrimani, e che è<br />

220 H.J. Neville et al: Cerebral organization for language in deaf and hearing subjects: biological<br />

constraints and effects of experience Proc Natl Acad Sci 95:922-929, 1998<br />

221 G. Hickok et al: The neurobiology of sign language and its implications for the neural basis of<br />

language. Nature 381:699-702, 1996<br />

222 K.H. Kim et al: Distinct cortical areas associated with native and second languages. Nature<br />

388:171-174, 1997<br />

223 T. Rasmussen & B. Milner: The role of early left-brain injury in determining lateralization of<br />

cerebral speech functions. Ann NY Acad Sci 299:355-369, 1977<br />

224 P.J. Gannon et al: Asymmetry of chimpanzee planum temporale: humanlike pattern of<br />

Wernicke’s brain language area homolog. Science 279:220-222, 1998<br />

126


probabile che questa caratteristica sia molto più antica del linguaggio (dal momento che l’uso di<br />

strumenti è documentato da circa due milioni di anni), le differenze nel planum temporale possano<br />

aver avuto a che fare con questa caratteristica, che tuttavia non sembra presente nello scimpanzé 225 .<br />

Origine evolutiva del linguaggio<br />

Uno dei modi di apprendere qualcosa su un fenomeno o una struttura è, come abbiamo visto, quello<br />

di studiarlo dal punto di vista evolutivo. Questo approccio, tuttavia, nel caso del linguaggio è assai<br />

difficile, perché è innegabile che ci sia un gap tra le specie riguardo al linguaggio. Non esiste cioè<br />

un continuum di manifestazioni correlate al linguaggio che ne rappresentino stadi iniziali, come<br />

generalmente succede in biologia. Vi sono dei modi di comunicazione nella maggior parte dei<br />

vertebrati, alcuni di questi, come nei delfini o negli scimpanzé, possono essere relativamente<br />

sofisticati, ma è chiaro che c’è comunque un abisso tra le performances dell’uomo e quelle degli<br />

altri animali. Come il pensiero e la coscienza, sembra che il linguaggio appartenga al gruppo di<br />

manifestazioni del tipo “tutto o nulla”.<br />

L’unica possibilità di studiare evoluzionisticamente il linguaggio è pertanto quello di andare a<br />

vedere quanto accade nei primati più evoluti o, più facilmente, nei bambini. In questo modo,<br />

assumendo che l’apprendimento del linguaggio passa nel bambino attraverso un numero di stadi che<br />

parallela quanto avvenuto nell’evoluzione, potremmo forse capire qualcosa di più del linguaggio. E’<br />

importante tuttavia notare che questo assunto non è per nulla provato, e per il momento è solo una<br />

versione cognitiva del vecchio assioma “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”.<br />

Tuttavia, anche se questa ipotesi non fosse vera, è probabile che lo studio dell’acquisizione del<br />

linguaggio nel bambino, che è un processo che richiede mesi o anni, può dirci qualcosa sulla natura<br />

stessa del linguaggio. Basti citare alcuni esempi di risultati recentemente ottenuti. Raccontando<br />

semplici storie a bambini di 8 mesi, alcuni ricercatori hanno dimostrato che a questa età i bambini<br />

iniziano a immagazzinare parole 226 . In un altro studio, sarebbe stato dimostrato che bambini di 7<br />

mesi sono già in grado di formulare alcune regole nell’analisi del linguaggio, in quanto riuscivano a<br />

distinguere brevi sequenze di fonemi, che avevano già udito, da altre per loro nuove 227 . Dal<br />

momento che questo suppone che nella mente del bambino si effettui una generalizzazione tra<br />

sequenze dello stesso o di differente genere, sembrerebbe che nella formazione del linguaggio<br />

abbiano un ruolo delle regole scritte nel cervello umano, come prevede l’ipotesi dell’innatismo<br />

linguistico. Questo suggerirebbe anche che in fondo il cervello umano segue delle regole e che<br />

quindi possa essere simile ad un computer 228 .<br />

In ogni caso, innato o no, se il linguaggio è comparso e si è affermato, è lecito chiedersi quale fosse<br />

il vantaggio selettivo da esso fornito ai suoi utilizzatori. Sono state ipotizzate varie possibilità, quali<br />

un vantaggio nella caccia che poteva essere meglio coordinata con il linguaggio; altri pensano che il<br />

linguaggio abbia potuto fornire una maggior possibilità di estendere alleanze all’interno dello stesso<br />

gruppo di ominidi 229 .<br />

225 Sembrerebbe che la maggior parte degli scimpanzé siano monolateralizzati nell’uso dell’arto<br />

superiore, ma in maniera casuale a destra o a sinistra.<br />

226 P.W. Jusczyk & E.A. Hohne: Infant’s memory for spoken words. Science 277:1984-1986, 1997<br />

227 G.F. Marcus et al: Rule learning by seven-month-old infants. Science 283:77-80, 1999<br />

228 S. Pinker: Out of the minds of babies. Science 283:40-41, 1999<br />

229 R. Dunbar: Grooming, gossip and the evolution of language. Faber & Faber, Londra, 1996. Le<br />

scimmie hanno una complessa struttura sociale, e secondo Frans De Waal stringono alleanze e<br />

intessono complotti all’interno dei loro gruppi. Il linguaggio potrebbe essersi affermato in quanto in<br />

127


Il linguaggio, come è stato detto, non si fossilizza, e pertanto, non è possibile risalire indietro nel<br />

tempo e capire quando è nato. In assenza di questi dati certi, ci si basa su dati indiretti. Gli organi<br />

necessari per parlare, quali il polmone, il laringe, il faringe, la lingua ecc non si sono certo formati<br />

in funzione del linguaggio, ma ne sono stati, per così dire, “parassitati”. Tuttavia, la conformazione<br />

delle vie aree superiori dell’uomo è diversa da quella della scimmia e questa differenza<br />

sembrerebbe legata alla capacità di emettere suoni necessari per il linguaggio umano. Alcuni di<br />

questi cambiamenti, quali la discesa della laringe, sono svantaggiosi (ad esempio la diversa<br />

posizione dell’epiglottide nell’uomo è la causa talora di un errato transito del cibo che può più<br />

facilmente finire nella trachea invece che nell’esofago) e non vi sarebbe pertanto motivo perché si<br />

siano sviluppati e mantenuti se non in vista di un vantaggio evolutivo che sarebbe appunto costituito<br />

dalla possibilità di parlare. Ora, questi cambiamenti sono relativamente precoci, essendo già<br />

presenti un centinaio di migliaia di anni fa nell’uomo di Neanderthal: l’osso ioide, che sostiene il<br />

laringe, e il canale dell’ipoglosso, attraverso cui passa il nervo che innerva la lingua, sono di tipo<br />

moderno già nel Neanderthal, ma non nelle australopitecine 230 . D’altro canto, ovviamente, questi<br />

cambiamenti potrebbero essere presenti anche senza un linguaggio compiuto, ma essere associati<br />

all’emissione di suoni di tipo umanoide, senza le capacità legate al linguaggio moderno.<br />

Una seconda possibilità per indagare la nascita del linguaggio si basa sull’assunto che linguaggio e<br />

profondità di pensiero vadano di pari passo. Se questa assunzione è vera, la documentazione di<br />

manufatti di un certo tipo prova che l’uomo era giunto ad un livello tale in cui sicuramente un<br />

linguaggio sofisticato doveva essere presente. Tra questi riscontri, abbiamo certamente le<br />

manifestazioni artistiche, le cerimonie funebri e presumibilmente la produzione di strumenti<br />

sufficientemente innovativi.<br />

Sulla base delle testimonianze paleontologiche e archeologiche, certamente il linguaggio era<br />

presente 50.000 anni fa. Se lo fosse anche prima, non si può affermare con certezza, ma è possibile<br />

che fosse già presente 100.000 anni fa. L’uomo di Neanderthal aveva un linguaggio moderno? La<br />

discussione è tra coloro che tendono a giudicarlo un ramo secco dell’evoluzione umano, un gigante<br />

rozzo ed ignorante, spazzato via dal Cromagnon forse proprio a causa del linguaggio che faceva la<br />

differenza, e coloro che invece lo vogliono ascrivere a pieno titolo nella galleria dei nostri antenati.<br />

I dati paleontologici non sono definitivi. I sostenitori dei Neanderthal fanno notare che alcuni<br />

manufatti trovati in siti quali il Monte Carmelo in Palestina, alcune rare sepolture associate con<br />

cerimonie “religiose” e l’uso dell’ocra rossa attestano la presenza di pensiero simbolico e pertanto<br />

di linguaggio 231 . Questi autori fanno notare che, almeno in Medio Oriente, Neanderthal e<br />

Cromagnon convissero per decine di migliaia di anni (tra 60.000 e 40.000 anni fa), prima che<br />

avesse luogo la “rivoluzione culturale” che avrebbe portato all’affermazione dei Cromagnon.<br />

La discussione non è priva d’importanza. Si è abbastanza d’accordo sulla presenza di alcune<br />

differenze fisiche tra Neanderthal e Cromagnon, tali che essi vengono talora riferite come la qualità<br />

robusta e quella gracile dell’H. sapiens. Se le manifestazioni del linguaggio e del pensiero<br />

simbolico fossero limitate al Cromagnon, la teoria della base biologica del linguaggio sarebbe, non<br />

provata, ma almeno plausibile. Se invece il pensiero simbolico fosse già stato presente nei<br />

grado di facilitare queste interazioni. Vedi anche F. De Waal: Chimpanzee politics: power and sex<br />

among the apes. Harper & Row, New York, 1983.<br />

230 R.F. Kay et al.: The hypoglossal canal and the origin of human vocal behavior. Proc Natl Acad<br />

Sci U S A. 95:5417-9, 1998. Non tutti tuttavia sono d’accordo nel sostenere che tali trasformazioni<br />

fossero già presenti nell’H. neanderthalensis, sostenendo che questi semplici dati sull’osso ioide<br />

sono insufficienti a dirci con sicurezza la conformazione delle sue vie aeree superiori. Vedi anche<br />

C. Holden: No last word on language origin. Science 282:1455-1458, 1998.<br />

231 O. Bar-Yosef & B. Vandermeersch: Modern humans in the Levant. Sci Am, aprile 1993 pp 94-<br />

100<br />

128


Neanderthal, l’idea che una particolare acquisizione biologica sia alla base della differenza culturale<br />

tra i due diventa più debole.<br />

Non potrebbe forse essere che il linguaggio sia comparso così com’è apparsa la capacità di lavare la<br />

patata tra i macachi (vedi più avanti)? Certo, non si può sapere se la scimmia che per prima ha<br />

cominciato a lavare la patata non avesse una particolare mutazione che l’ha resa capace di tanto, ma<br />

questo sembrerebbe improbabile. Così non si può sapere se chi per primo sviluppò un linguaggio<br />

fosse geneticamente diverso dagli altri o se il primo motto gli sia uscito a caso. In entrambi i casi,<br />

ovviamente, questa scoperta avrebbe dato un vantaggio a lui e ai suoi discendenti e i suoi geni si<br />

sarebbero diffusi.<br />

In qualunque periodo sia nato, il linguaggio si è sicuramente evoluto in una moltitudine di lingue.<br />

La similitudine con i geni è veramente forte. Tuttavia il ritmo del cambiamento è estremamente più<br />

rapido e tale da nascondere le relazioni dopo un certo numero di millenni. Il principio comunque è<br />

sempre quello: una parola muta, ma talora conserva ancora qualcosa della sua struttura originaria<br />

che testimonia la protoparola. Basti pensare alle lingue neolatine e alle loro relazioni tra loro e con<br />

la lingua originaria. Basandosi su questo principio, all’inizio del XIX secolo le similitudini tra<br />

greco, latino e sanscrito vennero riconosciute, così che queste lingue vanno ancor oggi sotto la<br />

dizione di lingue indoeuropee. Oltre ai singoli termini, anche le strutture sintattiche possono<br />

rimanere conservate e rivelare un legame tra le varie lingue. Sulla base di questi studi, molti sono<br />

giunti a sostenere che vi è una sola lingua originaria da cui tutte sono derivate. Non ci sarebbe<br />

quindi solo un’Eva mitocondriale ma anche una “Comare primigenia”. Questo linguaggio poi si<br />

sarebbe diffuso come fece l’agricoltura secondo Cavalli Sforza, cioè spostandosi nei cervelli dei<br />

suoi possessori 232 .<br />

Linguaggio e pensiero nelle scimmie<br />

Le api comunicano, tramite la cosiddetta danza delle api, un sistema stereotipato e presumibilmente<br />

completamente inconscio. Si tratta pertanto di un comportamento innato, cioè scritto nei geni. Le<br />

comunicazioni delle scimmie sono spesso ritenute innate, ma ne siamo sicuri? Esistono studi di<br />

scimmie allevate da sole subito dopo la nascita? Sono esse in grado di comunicare con i loro simili?<br />

Cosa succede alle scimmie antropomorfe allevate in cattività o in isolamento e poi reimmesse nel<br />

loro ambiente naturale ?<br />

Possono le scimmie parlare o comprendere il nostro linguaggio? Data la considerazione in cui<br />

l’uomo tiene il linguaggio, la domanda è rilevante. E, anche se non potesse parlare, una scimmia<br />

può pensare? Parlando a proposto dell’assenza del linguaggio negli animali, Lamettrie così si<br />

esprimeva:<br />

“Ma questo difetto è poi talmente inerente alla costituzione che non vi si possa arrecare alcun<br />

rimedio ? in una parola, è assolutamente possibile insegnare una lingua a questo animale ?…non<br />

lo credo…Perché dunque dovrebbe essere impossibile l’educazione delle scimmie ? Perché la<br />

scimmia non dovrebbe riuscire, a forza di cure, ad imitare, come fanno i sordi, i movimenti<br />

necessari per articolare la parola ? Non oso decidere se gli organi vocali della scimmia non<br />

232 L. Cavalli Sforza e F. Cavalli Sforza: Chi siamo? La storia della diversità umana. Mondadori,<br />

Milano, 1993.<br />

129


possano, checché si faccia, articolare nulla: ma questa impossibilità assoluta mi stupirebbe, data la<br />

grande analogia fra la scimmia e l’uomo” 233 .<br />

Vi sono casi di segnalazione di manifestazioni di intelligenza nei primati, alcune delle quali<br />

superano la qualifica dell’aneddoto. Durante la prima guerra mondiale, il psicologo tedesco<br />

Wolfgang Kolher si dedicò molto a questo problema, e il suo libro è rimasto un classico 234 . I suoi<br />

scimpanzé hanno mostrato una certa capacità nell’uso di strumenti. Altri episodi famosi riguardano<br />

il caso dei macachi di Koshima, una piccola isola giapponese, che impararono a pulire le patate con<br />

l’acqua per liberarle dai granelli di sabbia e gli scimpanzé che sono capaci di infilare un bastone in<br />

un termitaio per poi leccarselo con tutti gli insetti che vi hanno aderito (le termiti invece non hanno<br />

ancora imparato a non salire sul bastoncino).<br />

Oggi si ritiene che gli scimpanzé siano in grado di effettuare una notevole gamma di manifestazioni<br />

per così dire culturali. Il titolo di un recente articolo che ha riunito gli specialisti di scimpanzé di<br />

tutto il mondo è appunto “Culture negli scimpanzé” 235 . Gli autori hanno descritto una serie di<br />

comportamenti “intelligenti” che sono presenti in alcuni gruppi di scimpanzé e li hanno confrontati<br />

con tutti gli altri gruppi. L’insieme di tali comportamenti in un determinato gruppo di animali<br />

costituisce la loro cultura, che per l’appunto, come negli umani, varia da gruppo a gruppo.<br />

Tra le attività culturali dello scimpanzé vi è sicuramente la capacità di comunicare con i propri<br />

simili, mediante suoni che appaiono di natura stereotipata. Gli scimpanzé ovviamente non hanno un<br />

linguaggio flessibile come quello umano, ma non l’hanno perché nessuno glielo ha insegnato o<br />

perché non possono apprenderlo per questioni biologiche ? Su questo problema, differenti scuole di<br />

pensiero danno previsioni opposte. Chi come Chomsky, pensa che vi sia alla base una struttura<br />

innata (cioè biologica), prevederà che gli scimpanzé non potranno mai usare il linguaggio di tipo<br />

umano. Chi al contrario pensa che il linguaggio è completamente appreso e che si tratta solo di<br />

stimolare i neuroni a farlo, potrebbe investire in un progetto di apprendimento del linguaggio da<br />

parte degli scimpanzé.<br />

Teoricamente, e si tratta di un problema ancora non risolto, le scimmie potrebbero avere difficoltà<br />

nell’articolazione di alcuni suoni che potrebbero rendere loro difficile un linguaggio parlato come il<br />

nostro. Quello che ci interessa tuttavia è sapere se possono ragionare come noi. Se, come abbiamo<br />

accennato sopra, il linguaggio parlato o scritto non è un prerequisito indispensabile per il pensiero,<br />

potrebbe essere possibile che gli scimpanzé abbiano una certa rudimentale forma di pensiero e di<br />

ragionamento, ma che non possano parlare; o addirittura potrebbero avere notevoli capacità di<br />

ragionare che noi non riconosciamo ad apprezzare perché siamo antropomorficamente focalizzati<br />

sugli aspetti linguistici. Insomma, quello che ci interessa veramente è la possibilità che le scimmie<br />

possano manipolare simboli con un significato.<br />

In effetti i primi tentativi di insegnare le nostre lingue agli scimpanzé sono stati deprimenti, e da<br />

tempo nessuno usa più questo approccio. Tali tentativi risalgono all’inizio del ventesimo secolo, si<br />

rivolgevano a scimpanzé che erano spesso allevati insieme agli uomini e non portarono ad alcun<br />

risultato per quanto riguarda la capacità di usare alcunché di simile al linguaggio umano. Nadezka<br />

Kohts del Darwinian Museo Darwiniano di Mosca allevò in casa un piccolo scimpanzé, Ioni, il<br />

quale, pur dimostrando notevoli capacità, tra cui quella di distinguere i colori, non pronunciò mai<br />

neanche una parola di russo. Dieci anni dopo, quando la Kohts ebbe un figlio, annotò<br />

233 J. Offroy de Lamettrie: L’uomo macchina e altri scritti. Feltrinelli, Milano, 1973; p. 43-44. Il<br />

libro è del 1748.<br />

234 W. Kohler: L’intelligenza nelle scimmie antropoidi. Giunti, Firenze, 1960<br />

235 A. Whiten et al: Cultures in chimpanzees. Nature 399:682-685, 1999.<br />

130


diligentemente il suo sviluppo fino all’età di quattro anni e successivamente lo comparò alle<br />

capacità di Ioni.<br />

Altri esperimenti vennero compiuti negli Stati Uniti. I coniugi Kellogg avevano grande fiducia negli<br />

scimpanzé e pertanto decisero di allevarne uno di 7 mesi insieme al loro figlio di 10. Anche i<br />

coniugi Hayes allevarono uno scimpanzé in casa, sempre senza risultati. Malgrado la simpatia per<br />

questi animali e persino il legame affettivo che si instaurò tra di essi e gli sperimentatori, la loro<br />

delusione può essere riassunta nelle parole della Kotz, che ebbe a scrivere a conclusione dei suoi<br />

sforzi:<br />

“Ed ora, mentre giungo alla conclusione del mio studio comparativo, sembra come se il ponte per<br />

mezzo del quale ho cercato per tutto il tempo di colmare la distanza tra la scimmia (antropomorfa)<br />

e l’uomo sia andato completamente in pezzi” 236 .<br />

Dopo la seconda guerra mondiale, i primatologi pensarono di evitare le difficoltà legate al<br />

linguaggio parlato ed investigare se si potesse comunicare con altri metodi. Negli anni sessanta,<br />

basandosi sull’American Sign Language, i coniugi Gardner insegnarono a uno scimpanzé di nome<br />

Washoe, che allevarono come fosse un figlio, l’alfabeto usato dai sordomuti. A Sarah invece, lo<br />

scimpanzé allevato in una gabbia dai coniugi Premack, fu insegnato un linguaggio artificiale<br />

costituito da gettoni di diverse forme e colori, che Sarah utilizzava appendendoli ad una lavagna<br />

magnetica. Ogni gettone corrispondeva ad una parola specifica e Sarah doveva metterli nella giusta<br />

sequenza della frase inglese 237 . Al contrario degli studiosi precedenti, le conclusioni dei Gardner e<br />

dei Premack furono molto ottimiste:<br />

“Sarah è riuscita ad imparare un codice, un linguaggio semplice che comprende però alcuni<br />

caratteri tipici del linguaggio naturale….Messa a confronto con un bambino di due anni, Sarah si<br />

difende però molto bene sul piano delle abilità di linguaggio…L’uomo è affetto da pregiudizi<br />

comprensibili a favore della propria specie, e i membri di altre specie devono compiere fatiche<br />

erculee prima che ad essi venga riconosciuto il possesso di capacità simili…Ci auguriamo che le<br />

nostre scoperte cancellino pregiudizi e conducano a nuovi tentativi di insegnare linguaggi<br />

appropriati agli animali” 238<br />

Negli anni settanta, l’entusiasmo era notevole. Anche i coniugi Rumbaugh hanno utilizzato un<br />

metodo simile per il loro scimpanzé Lara: essi usarono un sistema di simboli geometrici che<br />

venivano manipolati su una consolle e visualizzati su un computer. Nel 1978, anch’essi hanno<br />

riassunto i loro interessanti risultati ottenuti con questo approccio 239 . Ma l’anno successivo<br />

Herbert Terrace, psicologo della Columbia University, pubblicava un articolo dal tono fortemente<br />

dubitativo, in cui demoliva le interpretazioni dei risultati ottenuti negli studi precedenti 240 .<br />

236 Citato in A.P Premack: Perché gli scimpanzé possono leggere. Armando editore, Roma, 1978; p.<br />

36. Gli esperimenti con lo scimpanzé Ioni sono del 1913-1916, mentre il figlio nacque nel 1925. Il<br />

confronto tra i due pertanto è stato eseguito sulla base degli appunti presi in precedenza su Ioni. Si<br />

trattava comunque dei primi studi di questo genere, in un’epoca in cui non si sapeva quasi nulla<br />

sugli scimpanzé e in cui gli standard scientifici e i mezzi tecnici erano rudimentali.<br />

237 Questi esperimenti sono stati descritti (in maniera alquanto entusiastica) nel libro citato nella<br />

referenza precedente. Si possono consultare anche le referenze contenute a p.123 dello stesso libro<br />

238 A.J. Premack & D. Premack: Teaching language to an ape. Sci Am, ottobre 1972. La citazione è<br />

presa dall’edizione italiana di Le Scienze.<br />

239 E.S Savage-Rumbaugh et al: Symbolic communication between two chimpanzees (Pan<br />

troglodytes). Science 201:641-644, 1978<br />

240 H.S. Terrace et al: Can a ape create a sentence. Science 206:891-902, 1979<br />

131


Essenzialmente, sosteneva Terrace, non vi erano motivi per concludere che gli scimpanzé studiati<br />

fossero in grado di formare proposizioni né che avessero appreso qualcosa di anche lontanamente<br />

simile al linguaggio umano. I (modesti) risultati ottenuti, che non andavano oltre la combinazione di<br />

due soli segni, erano spiegabili sulla base del fenomeno di “Clever Hans”, cioè di indizi forniti allo<br />

scimpanzé dallo sperimentatore stesso (vedi più avanti). In altre parole, analizzando il<br />

comportamento dello scimpanzé da lui stesso addestrato, ironicamente chiamato Nim Chimpsky,<br />

Terrace constatò che esso tendeva a comunicare utilizzando segni utilizzati poco prima dallo<br />

sperimentatore. Inoltre, analizzando le videoregistrazioni disponibili per Washoe, lo scimpanzé<br />

addestrato dai coniugi Gardner, si accorse che anch’esso si comportava allo stesso modo. Le<br />

conclusioni di Terrace sono:<br />

“…apes can learn vocabularies of visual symbols. There is no evidence, however, that apes can<br />

combine such symbols in order to create new meanings. The function of the symbols of an ape’s<br />

vocabulary appears not so much to identify things or to convey information …as it to satisfy a<br />

demand that it use that symbol in order to obtain some reward” 241 .<br />

Ne seguì una notevole polemica tra sostenitori e detrattori dello scimpanzé 242 . Clever Hans era un<br />

cavallo che era capace di far di conto: batteva lo zoccolo fino ad arrivare al risultato giusto<br />

dell’addizione propostagli. Tuttavia lo psicologo Oskar Pfungst potè dimostrare che in realtà il<br />

cavallo smetteva di battere lo zoccolo basandosi su piccoli movimenti di testa che il suo padrone,<br />

inconsciamente, faceva quando esso raggiungeva il numero giusto 243 . La controversia è lungi<br />

dall’essere sedata, in quanto i sostenitori degli scimpanzé hanno sempre rigettato le critiche di<br />

Terrace e dei suoi alleati. La Savage-Rumbaugh ha recentemente riportato l’addestramento di un<br />

bonobo, di nome Kanzi. I bonobo (o scimpanzé pigmei) sono stati da un po’ di tempo riconosciuti<br />

come una specie a se stante con caratteristiche culturali un po’ diverse da quelle dei loro cugini<br />

scimpanzé, e secondo alcuni sono anche più brillanti di loro. La Savage-Rumbaugh e i suoi<br />

collaboratori sostengono di aver dimostrato che Kanzi possiede una rudimentale abilità sintattica<br />

comparabile a quella di un bambino di due anni 244 . Ma in generale si può dire che l’entusiasmo per<br />

l’argomento è relativamente scemato. Molti oggi ritengono che Nim Chimpsky, lo scimpanzé di<br />

Terrace abbia confermato le tesi di Noam Chomsky secondo cui siamo unici, e che il nostro<br />

cervello sia irrimediabilmente diverso da quello degli scimpanzé, malgrado tutta le tenerezza che<br />

questi animali possono suscitare in noi con le loro trovate, specie se sono piccoli.<br />

241 idem, p. 900.<br />

242 La controversia agli inizi degli anni Ottanta è stata aspra e ha raggiunto anche toni poco<br />

simpatici. Per una breve discussione vedi: B.O. McGonigle. Sign, symbol and syntax in the<br />

language of apes. Nature 286:761-762, 1980; J.L. Marx: Ape-language controversy flares up.<br />

Science 207:1330-1333, 1980; N. Wade: Does man alone have language? Apes reply in riddles, and<br />

a horse say neigh. Science 208:1349-1351, 1980; E.S. Savage-Rumbaugh et al: Chimpanzee<br />

problem comprehension: insufficient evidence. Science 206:1201-1202, 1979<br />

243 T.A. Sebeok & R. Rosenthal: The Clever Hans phenomenon. Ann N.Y.Acad Sci volume 364,<br />

interamente dedicato alla discussione di questo fenomeno.<br />

244 S. Savage-Rumbaugh et al: Language comprehension in ape and child. Monogr Soc Res Child<br />

Dev 58:1-222, 1993; S. Savage-Rumbaugh & R Lewin: Kanzi: the ape at the brink of the human<br />

mind. John Wiley & Sons, New York, 1994; S. Savage-Rumbaugh et al: Apes, language, and the<br />

human mind. Oxford University Press, Oxford, 1998<br />

132


Conclusioni<br />

L’analisi del linguaggio è solo appena iniziata. Oggi il linguaggio viene aggredito con innovazioni e<br />

affinamenti tecnici ideati da psicologi, neurologi, neuropatologi, linguisti, primatologi,<br />

neurofisiologi, informatici, archeologi e genetisti. Nei pazienti con lesioni cerebrali si enfatizzano<br />

coloro che presentano piccolissimi deficit, che una volta presumibilmente non venivano neppure<br />

indagati dai neurologi clinici. Ad esempio, sono stati identificati pazienti affetti da lesioni cerebrali<br />

che sono ancora in grado di riconoscere le forme dei verbi irregolari ma non quelle regolari, o<br />

viceversa 245 . I test psicologici vengono ideati per studiare specifici aspetti del ragionamento e<br />

vengono spesso concepiti per testare complesse teorie riguardanti le basi cerebrali del linguaggio. I<br />

lavori di imaging ci consentono la visione del cervello mentre esegue un compito, anche se i<br />

risultati richiedono essi stessi una notevole capacità di elaborazione da parte di altri cervelli. La<br />

genesi del linguaggio nei bambini viene sempre più studiata con grande pazienza e ingegnosità. Per<br />

ora tuttavia il linguaggio rimane ancora una proprietà misteriosa della specie umana.<br />

245 M. Marslen-Wilson & L.K. Tyler: Dissociating types of mental computation Nature 387:592-<br />

594, 1997<br />

133


Parte terza<br />

Discussione<br />

“Thus it was that the determination rose within him at the moment of the accident. It prompted him<br />

to busy himself for six years, knocking at all the doors in Lima, asking thousands of questions,<br />

filling scores of notebooks, in his effort at establishing the fact that each of the five lost lives was a<br />

perfect whole. Everyone knew that he was working on some sort of memorial of the accident, and<br />

everyone was very helpful and misleading. A few even knew the principal aim of his activity, and<br />

there were patrons in high places.<br />

The result of all this diligence was an enormous book, which, as we shall see later, was publicly<br />

burned on a beautiful spring morning in the great square. But there was a secrete copy, and after<br />

many years and without much notice it found its way to the library of the University of San Martin.<br />

There it lies between two great wooden covers collecting dust in a cupboard. It deals with one after<br />

another of the victims of the accident, cataloguing thousands of little facts and anecdotes and<br />

testimonies, and concluding with a dignified passage describing why God had settled upon that<br />

person and upon that day for his demonstration of wisdom. Yet for all his diligence, Brother<br />

Juniper never knew the central passion of Dona Maria’s life; not of Uncle Pio’s; not even of<br />

Esteban’s. And I, who claim to know so much more, isn’t it possible that even I have missed the<br />

very spring within the spring ?”<br />

Thorton Wilder, The Bridge of Saint Louis Rey<br />

134


Capitolo 9.<br />

LA MALEDIZIONE DI HUME<br />

Per lunghi anni la mia preoccupazione nello scrivere questo libro è stata quella di non<br />

incappare nella maledizione di Hume.<br />

“If we take in our hand any volume of divinity or school metaphysics, for instance, let us<br />

ask, “Does it contain any abstract reasoning concerning quantity or number?” No. “Does it<br />

contain any experimental reasoning concerning matter of fact and existence?” No. Commit<br />

it then to flames: for it can contain nothing but sophistry and illusion” 246 .<br />

Si può facilmente comprendere come a nessuno piaccia lavorare per produrre cose degne di<br />

essere gettate nelle fiamme, non a motivo del fatto che quello che si è scritto è banale e<br />

modesto, ma proprio perché l’oggetto del proprio sforzo non esiste. Sarebbe come scrivere<br />

un trattato di anatomia dell’ippogrifo. Per noi, che, nati troppo prima di Internet, abbiamo<br />

una venerazione estrema per la carta stampata, finire in un rogo rappresenta una punizione<br />

estrema.<br />

D’altro canto, il monito di Hume è comprensibile. Tutti noi vorremmo non essere sommersi<br />

da materiale superfluo e se ci poniamo nell’epoca dell’empirista inglese, la sua reazione è<br />

comprensibile. E lo è ancora di più oggidì, in cui c’è una vera inflazione di libri e riviste,<br />

scientifiche e non. Ma, bisogna chiedersi, che cosa ha di diverso, in linea di principio, il<br />

fuoco di Hume dal rogo dei libri che fece il Terzo Reich o dai lanciafiamme di Fahrenheit<br />

451 ? 247<br />

Vorrei pertanto dedicare qualche riga sulla validità non di questo libro, ma dell’argomento di<br />

questo libro.<br />

Cos’è la filosofia?<br />

Cos’è la Filosofia ? Il dibattito su questo termine è stato ed è quanto mai acceso.<br />

Distingueremo qui tre grosse prese di posizione su questo termine.<br />

Per la Filosofia classica, la filosofia è “scientia rei per ultimas rationes”; i sostenitori di<br />

questa tesi distinguevano notoriamente tre piani di conoscenza, il “quia”, il “quomodo e il<br />

“propter quid”, affermando che quest’ultima, la conoscenza delle cause, fosse la tappa più<br />

alta del conoscere ed appannaggio della filosofia. Far filosofia era “cognoscere causam<br />

246 “Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo<br />

distruggere ? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica<br />

scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri ? No.<br />

Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza ? No. E allora<br />

gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni”. D. Hume: Opere, Laterza,<br />

Bari, 1971; vol II, p. 175.<br />

247 R. Bradbury: Fahrenheit 451. Ballantine, New York, 1953 . In questo libro, Guy Montag è un<br />

pompiere che fa parte di una brigata il cui compito è di bruciare ogni libro rimasto insieme alla casa<br />

di chi lo aveva nascosto. Egli compie il suo lavoro senza problemi finché non incontra una giovane<br />

donna che gli parla di un tempo passato in cui la gente leggeva senza timore. Insieme fuggono ai<br />

margini della società dove vivono uomini liberi, ognuno dei quali ha imparato a memoria un libro<br />

giungendo ad identificarsi ormai con il libro stesso.<br />

135


propter quam res est et non potest aliter se habere” 248 . Insita in questa distinzione, ma<br />

sviluppatasi in maniera chiara solo più tardi, era l’idea dell’esistenza di una realtà che stesse<br />

dietro alla realtà fenomenica e potesse essere colta solo dall’indagine filosofica; fu con la<br />

separazione netta tra scienza e filosofia che questa tesi divenne esplicita. Oggi i diretti<br />

discendenti della filosofia classica sono i discepoli di Tommaso d’Aquino, che formano la<br />

Neoscolastica, contro cui in particolare si dirigono gli strali di Hume (“school<br />

metaphysics”). La loro tesi è che esiste una realtà sensibile che è studiata dalla scienza e una<br />

realtà extrasensibile che è oggetto di studio della filosofia e in particolare della metafisica.<br />

Esistono conseguentemente due insiemi di conoscenze, ognuna con un proprio metodo<br />

valido nel proprio campo. La filosofia “studia gli aspetti più universali, la scienza gli aspetti<br />

particolari”; essa “ha per oggetto il reale nella sua totalità”; “scienza e filosofia sono due<br />

tipi diversi di conoscenza” che usano “due modi diversi di conoscenza”; al metodo di<br />

conoscenza della filosofia “non occorrono esperimenti né laboratori: basta la semplice<br />

astrazione universalizzatrice della quale è capace ogni uomo per il fatto di essere uomo” 249 .<br />

Alla Neoscolastica possono essere accomunate tutte le dottrine che sostengono l’esistenza di<br />

una realtà trascendente e la possibilità di conoscerla mediante un metodo diverso da quello<br />

sperimentale.<br />

Viene poi un gruppo di filosofie che ritengono che questa realtà trascendente esista ma che<br />

non sia conoscibile. Il filosofo più rappresentativo di questa corrente di pensiero è<br />

probabilmente Kant con la sua dottrina della “cosa in sé” o “noumeno” che sta al di là del<br />

mondo fenomenico, ma che noi non possiamo conoscere anche se sentiremo sempre il<br />

bisogno di parlarne. Su questa conclusione di Kant è probabile che abbia influito il fatto che<br />

nella sua storia la filosofia non ha partorito conclusioni definitive o per lo meno ampiamente<br />

accettate, in contrasto con la scienza che proprio a quell’epoca cominciava ad ammassare<br />

splendidi risultati quali quelli della fisica newtoniana.<br />

Il seguace più interessante di Kant è, almeno per quanto riguarda i concetti che voglio qui<br />

mettere a fuoco, l’austriaco Ludwig Wittgenstein: egli compie un breve passo avanti rispetto<br />

alla posizione kantiana, passo che per certi aspetti appare logico ed inevitabile. Il suo<br />

Tractatus Logico-philosophicus termina con la ben nota proposizione 7, che suona: “Di ciò<br />

di cui non si può parlare bisogna tacere” 250 . Questa frase, come mostra anche la<br />

testimonianza personale di uno che lo conobbe bene 251 , non è una negazione di un mondo<br />

extrasensoriale, bensì l’affermazione che esso esiste, ma che il parlarne è vano. In effetti,<br />

basta tener presente, per convincersene, la proposizione 6.522 dello stesso Tractatus: “Vi è<br />

davvero l’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico”. Wittgenstein, personalità assai complessa,<br />

passò in effetti un periodo della sua vita in convento.<br />

Forse contro la sua volontà, ma non senza una certa consequenzialità, Wittgenstein divenne<br />

l’ispiratore e il simbolo del terzo gruppo di filosofie, quelle che negano che esista una realtà<br />

trascendente e che vi sia alcunché da conoscere al di fuori della realtà sensibile. Il passo che<br />

va dalla inconoscibilità alla non-esistenza è senz’altro breve, perché se l’onus probandi<br />

spetta a chi sostiene una tesi e non a chi la combatte, la non-conoscibilità diventa tout court<br />

la non-esistenza. Un mondo non conoscibile è un mondo di fantasmi: certamente c’è chi ci<br />

248 F. Olgiati: I fondamenti della filosofia classica. Vita e Pensiero, Milano, 1953; p. 8<br />

249 S. Vanni Rovighi: Trattato di filosofia. Vol.I. Introduzione e logica. Marzorati Editore, Milano,<br />

1950. Le citazioni sono a p. 29; p.29; p. 30; p.31 e p. 36<br />

250 L. Wittgenstein: Tractatus logico-philosphicus. Proposizione 7. Einaudi, Torino, 1964. Il<br />

Tractatus fu terminato nel 1918 e la prima edizione è del 1921.<br />

251 F. Parak: Wittgenstein prigioniero a Cassino. Armando, Roma, 1978<br />

136


crede senza sentirne il bisogno di provarlo, ma accettando questo approccio si possono<br />

considerare vere un’infinità di cose, dall’olandese volante al liocorno e all’iperuranio.<br />

Questo gruppo di filosofie nacque sotto il nome di neopositivismo o “empirismo logico” ed<br />

ebbe le sue radici nel Circolo di Vienna diretto, per così dire, da Moritz Schlick; ne fecero<br />

parte Rudolf Carnap, Otto Neurath e molti altri; tra i precursori, ovviamente, Hume, e in<br />

minor misura Leibniz e Comte. Tesi fondamentale di questi filosofi è che vi è un unico<br />

metodo di conoscenza, quello basato sul metodo sperimentale, e che vi è una sola realtà<br />

conoscibile o più semplicemente una sola realtà.<br />

Ci possiamo domandare cosa diventa per gli empiristi logici la filosofia. Essa diventa a<br />

seconda delle sfumature che separano un filosofo dall’altro, logica, filosofia della scienza,<br />

analisi del linguaggio, ecc. Al di fuori di questi settori, la filosofia è solo metafisica, cioè un<br />

insieme di asserti privi di senso, degni di essere bruciati in un unico rogo come già suggeriva<br />

Hume.<br />

“Se qualcuno asserisse ‘c’è un Dio’… noi non gli diciamo ‘quel che dici è falso’, ma gli<br />

chiediamo ? cosa vuoi dire con le tue frasi ?’. Diverrà allora chiaro che c’è una netta<br />

divisione tra due tipi di asserti. Un tipo comprende proposizioni come quelle della scienza<br />

empirica… Gli altri asserti… mostrano da sé di essere completamente privi di significato, se<br />

li prendiamo come li intende il metafisico. Naturalmente spesso li possiamo reinterpretare<br />

come proposizioni empiriche; ma allora esse perdono quel contenuto emotivo che per il<br />

metafisico è essenziale… Metafisici e teologi…credono che esse asseriscano qualcosa,<br />

rappresentino qualche stato di fatto. Tuttavia l’analisi mostra che questi asserti non dicono<br />

nulla, ma sono soltanto l’espressione di qualche atteggiamento emotivo… Non si può porre<br />

alcuna obiezione a un mistico che asserisca di avere esperienze trascendenti di ogni<br />

concetto; ma egli non ne può parlare, poiché parlare significa affermare concetti e ridurli a<br />

fatti che possono essere incorporati nella scienza” 252 .<br />

La domanda base che si posero questi filosofi fu: “Quali sono i problemi dotati di senso ?”.,<br />

il che equivale quasi completamente a “quali sono gli asserti dotati di senso ?”. Essi<br />

risposero: gli asserti dotati di senso sono quelli che sono verificabili almeno in linea di<br />

principio, e i problemi dotati di senso sono quelli per la cui soluzione anche parziale sono<br />

disponibili proposizioni di tal fatta. Ne consegue che la maggior parte delle dispute<br />

filosofiche che non possono essere verificate sono puro nonsenso o “metafisica”, cioè tutto<br />

materiale da gettare nel rogo di Hume: un’analisi attenta del linguaggio permetterà di<br />

mostrare che queste proposizioni sono in realtà pseudoproposizioni. Il principio di<br />

verificazione diventa così un gigantesco rasoio di Ockham con il quale noi possiamo<br />

eliminare in un sol colpo non solo enti immaginari ma anche problemi immaginari.<br />

Per i neopositivisti, è chiaro che l’insieme delle proposizioni sensate coincideva con la<br />

scienza e con la matematica, le due categorie di libri che Hume salvava dal suo rogo<br />

purificatore. E’ anche vero che successivamente sono state mosse critiche sia al principio di<br />

verificazione (come abbiamo accennato nell’introduzione), che al suo utilizzo come criterio<br />

di senso. Molti adesso lo ritengono un criterio di demarcazione, tra ciò che è affrontabile dal<br />

metodo scientifico e ciò che non lo è, più che un criterio di senso. In questo modo, non si<br />

nega a priori che la metafisica possa aver un senso, ma ce se ne libera comunque dicendo<br />

che non fa parte della conoscenza empirica. Questa conclusione ha un po’ il sapore di una<br />

pace armata in cui i contendenti dicono che per il momento è meglio sospendere le ostilità<br />

perché il tributo di sangue pagato da entrambe le parti è già troppo alto.<br />

252 H. Hahn et al. Wissenschaftliche Weltaunffassung: Der Wiener Kreis. p. 16 –17. Citato in J.<br />

Joergensen: Neopositivismo e unità della scienza. Bompiani, Torino, 1973; p. 95-96.<br />

137


D’altro canto è innegabile che l’empirismo logico, con tutte le sue modificazioni operate da<br />

filosofi della scienza più recenti, abbia rappresentato il più delle volte e sia stata sentita<br />

come l’ideologia ufficiale della scienza. Il termine di verificazione o di falsificazione sono<br />

entrati nella testa di tutti gli scienziati oltre che dei filosofi della scienza, anche se alcuni di<br />

questi rifiuterebbero la dizione di neopositivista (Popper ad esempio, pur essendo “nato” nel<br />

Circolo di Vienna, non si ritiene un neopositivista, anzi sostiene di essere stato lui ad<br />

uccidere il neopositivismo 253 ). Pertanto, a torto o a ragione, le critiche dei neopositivisti<br />

sono state sentite come critiche che provenivano dal mondo della scienza stesso, anche se è<br />

chiaro che il neopositivismo non è la scienza moderna, bensì in qualche modo una<br />

riflessione (filosofica) su di essa, secondo quanto riportato dallo stesso Wittgenstein, quando<br />

nella proposizione 6.54, con tono quasi messianico, afferma che la sua analisi esaurisce la<br />

funzione della filosofia stessa:<br />

“Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su di esse –<br />

oltre esse”.<br />

Inoltre, negli stessi anni il fossato tra scienza e filosofia ha continuato ad allargarsi anche per<br />

banali problemi pratici, e cioè l’enorme ampliamento delle conoscenze in tutti i settori, che<br />

hanno acuito la tendenza di ciascuno a interessarsi solo di un campo assai ristretto.<br />

Cosa dire a questo punto della maledizione di Hume ? Vi potrebbe essere un libro di<br />

filosofia che non debba essere bruciato sul rogo?<br />

Proposizioni rilevanti per la vita<br />

La classificazione è una parte importante dell’attività scientifica. Si possono classificare tutti<br />

i tipi di fatti, compresi quel particolare tipo di fatti che sono gli enunciati o proposizioni. I<br />

criteri di classificazioni, come ben sanno gli zoologi che devono riunire le varie specie in<br />

gruppi, possono essere in notevole misura arbitrari, dipendendo dal punto di vista in cui ci si<br />

pone. Classificando non si fa altro che definire certi insiemi ed eventualmente sottoinsiemi.<br />

La proposizione caratteristica dell’insieme può essere la più varia.<br />

Immaginiamo di inserire nella memoria di un computer tutte le proposizioni ritenute vere o<br />

probabili ottenute secondo le regole del metodo sperimentale. Possiamo divertirci a far<br />

selezionare alla macchina tutti gli insiemi che vogliamo; per esempio l’insieme delle<br />

proposizioni fatte da dieci parole, o quelle che hanno attinenza con il diabete o quelle che<br />

riguardano Giuseppina Beauharnais, prima moglie di Napoleone Bonaparte, e così via.<br />

Oppure se sono assetato in un deserto, posso selezionare tutte le proposizioni concernenti la<br />

distribuzione delle oasi in quella zona geografica: qui la motivazione sarà evidentemente<br />

egocentrica, ma non per questo meno lecita: avrò selezionato un tipo di proposizioni in base<br />

ad una mia esigenza personale, per giunta contingente, ma ciò non toglie che esse saranno<br />

tanto sensate quanto lo erano prima della mia operazione.<br />

Oppure posso ancora selezionare tutte quelle proposizioni che ritengo in grado di modificare<br />

il mio comportamento. Certamente a questo punto comincerei ad avere delle difficoltà circa<br />

le istruzioni da dare al computer, ad esempio per il fatto che in linea teorica qualsiasi<br />

proposizione, nel momento in cui la leggo o l’ascolto modifica le mie cellule recettoriali e<br />

nervose, il che, se si prende il termine comportamento in senso lato, può rappresentare una<br />

modifica del mio comportamento, rilevabile elettrofisiologicamente o con tecniche<br />

d’immagine. Limitando l’accezione a qualche modifica più specifica, incontrerò ancora delle<br />

253 K. Popper: Unended quest. William Collins Sons & Co., Glasgow, 1976; p. 87-90<br />

138


difficoltà non trascurabili. Infatti, ad esempio, l’enunciato “il giorno tale, all’ora tale nel<br />

posto talaltro la squadra del Manchester ha battuto per 2 a 1 la squadra del Liverpool” può<br />

lasciare molti assolutamente indifferenti, ma può scatenare modificazioni comportamentali<br />

nei tifosi, facilmente rilevabili, quali cortei in centro, risse tra hooligans, aumento del<br />

numero di ricoverati al pronto soccorso, rumori sgradevoli e altro, senza tuttavia rientrare<br />

nell’insieme di proposizioni che sto cercando di definire. Posso andare più in là e cercare di<br />

selezionare proposizioni che hanno per oggetto un comportamento in senso universale; con<br />

questo non sarebbero ancora superate tutte le difficoltà, in quanto la proposizione “oggi alle<br />

12.34 gli americani hanno lanciato una bomba atomica su Mosca” difficilmente lascerebbe<br />

qualcuno impassibile, senza tuttavia essere esattamente quello che intendo. Nessuno di<br />

questi processi è tuttavia illecito, e si potrebbe anche pensare di selezionare un abbondante<br />

numero di proposizioni che possono poi venire controllate visivamente una ad una per la<br />

loro pertinenza, come capita a volte di dover fare nella ricerca con parole chiave.<br />

Adesso poi vorrei isolare un particolare sottoinsieme di proposizioni tra quelle che<br />

provocano una modificazione del comportamento, anch’esse di non facile definizione. Dire<br />

che ci sono difficoltà di esatta definizione dell’insieme di queste proposizioni che chiamerò<br />

“rilevanti per la vita” o per brevità “vitali”, non toglie nulla ovviamente alla sensatezza e alla<br />

verità di questi enunciati. Del resto nella scienza come nella attività di ogni giorno, numerosi<br />

insiemi estremamente importanti sono altrettanto sfumati: nella classificazione dei viventi,<br />

ad esempio, tutti gli insiemi che definiscono raggruppamenti superiori a quello della specie<br />

sono spesso mal definiti. D’altro canto, malgrado che ci siano numerose definizioni di<br />

matematica, nessuno potrebbe negare che la proposizione “2 + 2 fa quattro” faccia parte di<br />

essa. In fondo la difficoltà di porre un limite tra un insieme ed un altro è presente ovunque:<br />

chi può separare con un taglio netto l’insieme dei sani da quello dei malati ? Se ben si<br />

guarda, distinguere tra le varie scienze particolari non è altro che incasellare ogni<br />

proposizione in un insieme piuttosto che in un altro. Ma dove finisce la chimica e comincia<br />

la biologia, dove termina la neurofisiologia e inizia la psicologia ? Per farlo dovremmo avere<br />

una definizione esatta di tali insiemi, cosa che non è possibile, almeno per il momento.<br />

Ritengo quindi di poter concludere che sia assolutamente lecito isolare un sottoinsieme<br />

dell’insieme di tutte le proposizioni ritenute vere di cui facciano parte le proposizioni<br />

rilevanti per la vita in senso universale; ritengo che la difficoltà di definizione di questo<br />

termine non sia maggiore di quelle che si riscontrano quando si cerca di isolare altri<br />

sottoinsiemi che vanno sotto il nome di chimica, fisica, ecc.; e chiamo questo insieme come<br />

filosofia.<br />

Sono convinto che questa definizione scontenterà molti, alcuni che vi vedranno una<br />

reintroduzione della metafisica, altri che non potranno ammettere che la filosofia sia un<br />

sottoinsieme della scienza. Ovviamente la preoccupazione dei primi è completamente<br />

immotivata, perché abbiamo selezionato solo proposizioni ottenute nell’ambito del processo<br />

scientifico. A proposito delle preoccupazione dei secondi, va tenuto conto che in tal caso il<br />

termine scienza va inteso nel senso latino del termine, che significa semplicemente<br />

conoscenza. In fondo, se il metodo di conoscenza è uno solo, esiste solo un tipo conoscenza,<br />

esiste solo una “scientia rei per ultimas rationes”, che si raggiunge, per quel che si può, in<br />

una sola maniera.<br />

Vorrei comunque motivare ulteriormente questa mia argomentazione. Premesso che ognuno<br />

può definire degli insiemi nella maniera che più gli aggrada, si ammette in genere che per<br />

evitare confusioni sia meglio definire degli insiemi diversi con nomi diversi. Ora, oltre alle<br />

definizioni classiche di filosofia, negli ultimi 50 anni ce ne sono state numerose altre, anche<br />

139


nell’ambito del neopositivismo. Definizioni tutte lecite, ma che a mio parere non hanno<br />

toccato il nucleo centrale di quella che è stata la filosofia prima ancora dei Greci. E’ mia<br />

profonda convinzione che la filosofia nel corso dei millenni sia stata soprattutto una serie di<br />

tentativi di rispondere ad alcune domande che possono essere riassunte per chiarezza e<br />

semplicità con questa: “Chi sono, quali sono le mie origini e qual è il mio destino ?”,<br />

domande che da molti sono ritenute metafisiche e da evitare se non si vuole tornare a “tentar<br />

l’essenza”.<br />

Ma chi, fosse anche il più accanito avversario della metafisica, potrebbe negare validità alla<br />

domanda “Esistono resti fossili attribuibili ad antenati comuni delle scimmie moderne e<br />

dell’uomo” ? Risposte di questo tipo sono senza dubbio scientifiche e sono precisamente<br />

quel tipo di proposizioni che ho definito filosofiche in quanto rilevanti per la vita.<br />

Ci sarà chi obietterà circa l’opportunità di privilegiare questa accezione del termine dal<br />

momento che la filosofia è stata anche altro: essa è stata logica, etica, religione, cosmologia<br />

e cosmogonia, psicologia, epistemologia, politica e in parte notevole anche metafisica nel<br />

senso deteriore del termine. Ma fatta eccezione per la metafisica deteriore, è proprio questa<br />

varietà di aspetti a suggerire che chi ha fatto filosofia lo ha fatto mosso non dal desiderio di<br />

conoscere uno qualsiasi dei vari aspetti della realtà, bensì dalla speranza di trarre da essi<br />

proposizioni utili per cercare di rispondere alla domanda “cos’è l’uomo?”. E’ del resto<br />

chiaro che quando indago sul calore mediante il metodo sperimentale, anche se rifiuto a<br />

priori di pormi domande sulla sua natura, finisco pur sempre per dire qualcosa che la<br />

concerne, per esempio che il calore non è un fluido bensì una proprietà che risulta dal moto<br />

delle molecole che compongono un corpo. Quindi non è tanto la domanda o meglio la forma<br />

della domanda che si pone lo sperimentatore a fungere da garanzia della scientificità della<br />

risposta, quanto il metodo che viene seguito per rispondervi. Il rifiuto galileiano pertanto va<br />

valutato in considerazione della metafisica del suo tempo come ha ben sottolineato Evandro<br />

Agazzi 254 . Questa domanda (τι εστι) va svuotata del preteso noumeno che gli sta dietro,<br />

dopo di che diventa lecita a patto che si seguano certe regole per rispondervi.<br />

La storia della filosofia comincia ben prima di quello che ufficialmente si ritiene e si insegna<br />

nelle scuole: la troviamo per la prima volta nei resti delle tombe dell’uomo di Neanderthal<br />

255 e la ritroviamo nelle credenze di popoli ancora isolati dalla civiltà moderna; la troviamo<br />

in quegli antichi documenti la cui origine risale a tempi imprecisati attraverso la tradizione<br />

orale, che sono la Bibbia, l’epopea di Gilgamesh e il libro dei Morti in Occidente e i Veda in<br />

Oriente. Gilgamesh è mosso dallo stesso problema che tormenta Ivan Karamazov. E la<br />

troviamo più avanti nei poemi omerici che precedono di qualche secolo quelli che sono i<br />

primi scritti filosofici ufficiali dell’Occidente che ci sono pervenuti nella loro interezza, i<br />

dialoghi di Platone.<br />

Tutti questi documenti, che sono anche delle vere e proprie opere d’arte, sono pieni di<br />

filosofia, cioè di risposte a domande che l’uomo si poneva su se stesso, anche se tali risposte<br />

non venivano spesso ottenute nel metodo corretto; né c’è da vergognarsi di queste origini,<br />

perché altrettanto nebulose e oscure sono le origini della scienza moderna, se è vero che<br />

l’alchimia ha partorito la chimica e la medicina sperimentale si è liberata della magia solo<br />

col trattato del Laennec nel 1819 256 .<br />

254 E. Agazzi: Temi e problemi di filosofia della fisica. Manfredi, Milano, 1969; p.10-14<br />

255 Anche nel caso che alle sepolture dei Neanderthal non si volesse attribuire un significato rituale,<br />

questo è certamente presente in quelle dei Cromagnon che risalgono ad almeno 30.000 anni prima<br />

di Cristo.<br />

256 R.T.H. Laennec: De l’auscultation médiate. Parigi, 1819<br />

140


Con la figura di Socrate possiamo dire che la filosofia si stacca dalla poesia, pur se i loro<br />

rapporti sono per loro natura così stretti che non sempre si può facilmente distinguere l’una<br />

dall’altra. La discussione sull’uomo assume un carattere di estrema sistematicità, per nulla<br />

diversa da quella presente in un moderno trattato di zoologia o di medicina, nell’esposizione<br />

di Aristotele e attraverso gli epicurei e gli stoici giunge a dominare incontrastata quindici<br />

secoli di Cristianesimo. Ma anche dopo la fine del Medioevo, e questo è importante, ne<br />

discute il dualista Cartesio e il materialista Lamettrie, se ne interessa Newton e se ne<br />

interessa Darwin; chi sia l’uomo se lo chiedono Skinner, Schroedinger, Einstein,<br />

Dobzhansky, Monod e Jacob. E se lo chiedono Kierkegaard, Sartre, Camus, Heidegger,<br />

Maritain e mille altri, così come se lo chiedono migliaia (miliardi?) di uomini di diverse<br />

religioni. C’è chi risponde in maniera giusta e chi in maniera sbagliata o peggio insensata,<br />

ma indipendentemente da questo, penso non si sia troppo lontani dal vero se si sostiene che<br />

la storia della filosofia è soprattutto la storia degli asserti ritenuti dai vari autori rilevanti per<br />

la vita.<br />

Penso quindi che la definizione di filosofia come insieme delle proposizioni rilevanti per la<br />

vita non solo sia lecita, ma sia anche lo specchio di ciò che realmente è stata la filosofia. Ma,<br />

si potrebbe obiettare, in tal modo la filosofia non finisce per essere troppo simile alla<br />

religione? In fondo, la religione non si occupa delle stesse questioni?<br />

In effetti è così: l’insieme delle proposizioni (si potrebbe qui usare il termine asserti 257 )<br />

della filosofia e quelle della religione sono in effetti overlappanti, anche se, ovviamente, non<br />

coincidenti. Questo è riconosciuto da tempo. Ma la religione contiene anche una serie di<br />

asserti di altra natura, rituali, etici, normativi, e in certi casi anche di difficile definizione.<br />

Anche il tipo di risposta alle stesse questioni filosofiche può essere diverso. Tuttavia, per<br />

quanto riguarda quello che la religione ha da dire sul mondo, essa deve seguire le stesse<br />

regole che abbiamo qui citato per la filosofia, pena il rischio di incappare nelle ire di Hume.<br />

E comunque, da un punto di vista razionale non ha senso passare all’analisi della religione se<br />

non si è prima chiarito che le questioni filosofiche sono lecite e aggredibili basandosi sulla<br />

conoscenza che va sotto il nome di empirica.<br />

La saggezza della filosofia<br />

In un suo libro, “Saggezza e illusioni della filosofia”, ammirevole per chiarezza e per<br />

concetti, Jean Piaget risponde ai positivisti logici con un’argomentazione che ha un suo<br />

fascino 258 . La scienza è essenzialmente ciò che è verificabile, mentre l’oggetto della<br />

filosofia non lo è. Però la scienza non può stabilire ciò che ha senso. In particolare, non si<br />

può dire che la filosofia sia un qualcosa d’inutile, anzi essa risponde assai bene ad alcuni<br />

bisogni profondi dell’uomo. Essa non è esattamente un sapere, ma è una saggezza, “una<br />

presa di posizione ragionata sulla totalità del reale”, che a sua volta non può essere<br />

contemplata dalla scienza. Le filosofie orientali più di quelle occidentali si sono più spesso<br />

qualificate come tali. Non vi sono e non possono esservi attriti tra scienza e filosofia, perché<br />

i due domini di interesse sono completamente diversi. L’impressione, ricavata da discussioni<br />

informali e da episodi aneddotici, è che questo approccio abbia oggi molti seguaci, specie tra<br />

coloro che praticano l’attività di ricerca e/o riflettono sulla scienza 259 .<br />

257 Si potrebbe fare riferimento alla convenzione per cui per asserti o enunciati si intende qualsiasi<br />

sequenza di parole costruite secondo le regole della grammatica e della sintassi, mentre per<br />

proposizioni si intende qualsiasi enunciato testabile, cioè qualsiasi enunciato ancorato ai fatti.<br />

258 J. Piaget: Saggezza e illusioni della filosofia”. Einaudi, Torino, 1969<br />

259 Ad esempio questa pare essere la posizione di S.J.Gould nel suo recente libro: Rocks of age:<br />

science and religion in the fullness of life. Ballantine, New York, 1999. Gould è un grande nemico<br />

141


Questo approccio non costituisce una brutta soluzione e risolve molti problemi. In primo<br />

luogo, risana le ferite inferte dal violento attacco del positivismo logico contro la metafisica.<br />

Vi è per così dire un ritorno alla fase pre-carnappiana di guerra fredda, quando scienza e<br />

filosofia si guardavano con sospetto, ma con il vantaggio di aver firmato un armistizio che<br />

potreva contentare tutti. Dopo una guerra che ha seminato disastri la gente è generalmente<br />

più conscia dei benefici della pace e spesso si rende conto che ha litigato senza un vero<br />

motivo. In fondo, la scienza non perde nulla del suo, il suo territorio è garantito per un<br />

tempo indefinito, mentre alla filosofia viene riconosciuto dall’aggressore una sua ragion<br />

d’essere. Il fatto che in questo modo viene riconosciuto che è saggio parlare anche di<br />

argomenti non oggetto della scienza potrebbe per certi aspetti rassicurare anche le correnti<br />

più sensibili ad un certo spiritualismo.<br />

Per alcuni versi, la definizione di Piaget ha delle similitudini con la quella disegnata nel<br />

presente libro. Entrambe le definizioni si rifanno ad una Weltanschauung, ad una visione del<br />

mondo. Entrambe le definizioni fanno riferimento alle domande classiche della filosofia o<br />

della metafisica, chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, e alla tradizione secondo cui<br />

tutto il nostro desiderio di conoscere è legato a definire il ruolo dell’uomo nell’universo.<br />

Entrambe le definizioni potrebbero sembrare eccessivamente antropocentriche, ma in fondo<br />

la specie umana è l’unica che è interessata alla filosofia. Le pietre non fanno filosofia.<br />

Tuttavia, la definizione scelta in questo libro mi sembra avere alcuni vantaggi sull’approccio<br />

di Piaget. In primo luogo, come per l’interpretazione di Piaget, ma questa volta direi per<br />

definizione, non è attaccabile dalla critica principale del positivismo logico. Se le<br />

proposizioni in questione sono state derivate tramite il metodo usato dalla scienza, non si<br />

capisce bene perché dovrebbero diventare illegittime se estratte e immesse in un unico<br />

insieme, cui viene dato una denominazione particolare o viene definita una proposizione<br />

caratteristica. Si tratta più che di un armistizio, di una pace duratura. In secondo luogo, ci<br />

consente di parlare di argomenti che stanno a cuore senza sentirci dire che se ne può parlare<br />

solo ai party ma non nei laboratori o nelle corsie.<br />

Il terzo vantaggio è quello che, secondo me, elimina una debolezza della versione di Piaget.<br />

Con la sua interpretazione non è ben chiaro il grado di saggezza della filosofia o se si<br />

preferisce, non è chiaro quale sia la base per definirla saggia. La filosofia di Piaget potrebbe<br />

essere saggia, ma corre il rischio di essere arbitraria, non dico oggettiva, ma neanche<br />

intersoggettiva. La caratteristica di saggezza non è motivata. Viceversa, nella presente<br />

accezione, la base intersoggettiva è garantita dall’origine stessa delle proposizioni che<br />

formano la filosofia.<br />

Di ciò di cui si può parlare non è lecito tacere.<br />

Pertanto la filosofia diviene un sottoinsieme della scienza, a patto di considerare questo<br />

termine nel significato ampio di “conoscenza” e non nel senso ristretto in cui viene<br />

generalmente usato. Abbiamo cercato di mostrare come in realtà con lo stesso metodo si<br />

debbano affrontare problemi e proposizioni che forse non tutti i positivisti logici<br />

includerebbero nella scienza, e pertanto nel nostro senso ciò che viene ottenuto con il<br />

metodo scientifico è un insieme più vasto di quello generalmente considerato come scienza.<br />

dell’idea di progresso nell’evoluzione (vedi sezione sull’evoluzione) ma evidentemente questo non<br />

gli impedisce di parlare di filosofia.<br />

142


In pratica vi è una sola conoscenza che si basa sul metodo di confronto con l’ambiente e a<br />

seconda della necessità si può parlare di fisica, biologia, di arte della motocicletta o di<br />

filosofia.<br />

Consideriamo ora le seguenti proposizioni:<br />

- qui in questo giorno all’ora tale (coordinate spaziotemporali) è stato trovato un cranio<br />

con le seguenti caratteristiche: w, x, y, z …….<br />

- qui in questo giorno (coordinate spaziotemporali) è stato trovato un cranio simile ma non<br />

uguale a quello umano<br />

- il cranio trovato non è di nessuna specie conosciuta<br />

- il cranio trovato è di un ominide ora estinto che aveva caratteristiche intermedie tra<br />

l’uomo moderno e altre scimmie<br />

- numerosi crani di ominidi estinti fanno supporre che l’uomo si sia evoluto a partire da un<br />

antenato comune a lui e ad altre scimmie antropomorfe.<br />

- L’evoluzione degli ultimi 10 milioni di anni può essere descritta utilizzando solamente<br />

leggi della materia<br />

- L’evoluzione dell’Homo sapiens può essere spiegata con le leggi della materia<br />

- L’evoluzione dell’Homo sapiens non può essere spiegata con le leggi della materia.<br />

Cosa hanno di diverso queste proposizioni ? A parte la prima, che potrebbe essere<br />

considerata una proposizione protocollare, le altre sono tutte frutto di un’interpretazione e di<br />

un confronto tra varie proposizioni. Esse sembrano anche di complessità crescente e<br />

sembrano formulate in modo tale da considerare aspetti successivi di analisi. Sembra anche<br />

che le ultime ci dicano di più di quanto ci dicono le prime. La penultima è una grande<br />

generalizzazione che coinvolge non solo dati sperimentali ma anche una concezione della<br />

materia e dello status delle leggi che si ritiene la governino. Tutte queste sono generalmente<br />

ritenute di pertinenza della scienza, anche la penultima, sulla verità della quale pure non c’è<br />

consensus generale.<br />

E l’ultima? Essa è la negazione della precedente. La precedente ha cittadinanza riconosciuta<br />

nel dominio della scienza. Perché l’ultima invece non dovrebbe averla ? Se la penultima fa<br />

parte delle proposizioni della scienza, significa che essa è considerata testabile. Ne consegue<br />

che anche la sua negazione dovrebbe essere considerata testabile e quindi far parte della<br />

scienza. Tuttavia l’ultima viene sovente guardata con occhio sospetto, si ha quasi la<br />

sensazione che affermandola ci si ponga automaticamente fuori dal dominio della scienza.<br />

In realtà, secondo le nostre definizioni tutte queste affermazioni fanno parte della scienza e<br />

della filosofia, anche se per questioni di parsimonia, nell’insieme filosofia potrebbero venir<br />

inserite anche solo le ultime tre o quattro.<br />

Non è chiaro ed automatico dove ci si debba fermare nelle nostre affermazioni scientifiche.<br />

Malgrado ciò, sembrerebbe che basandosi su proposizioni scientifiche sia possibile<br />

effettuare considerazioni e ragionamenti che si estendano anche ai domini che sono più<br />

squisitamente filosofici. Dato un certo numero di eventi descritti da proposizioni, è possibile<br />

formulare ipotesi di un livello più elevato che overlappano quelle della filosofia classica: la<br />

penultima proposizione può essere ritenuta abbastanza simile a quelle del De Rerum Natura<br />

di Tito Lucrezio Caro, poeta e divulgatore dell’atomismo di Democrito ed Epicuro. L’ultima<br />

non è così diversa dall’argomentazione della causa incausata e della contingenza di<br />

Aristotele e Tommaso d’Aquino.<br />

Per quanto è stato possibile e con tutte le limitazioni insite in un lavoro così vasto, abbiamo<br />

cercato di elencare nei precedenti capitoli un certo numero di dati che riteniamo interessanti<br />

143


per il tema del libro, che cioè vi sia un gran numero di proposizioni scientifiche di interesse<br />

filosofico, una volta scelta l’accezione del termine filosofico secondo quanto accennato qui<br />

sopra.<br />

Una volta pertanto compiuto un lungo, seppur parziale, elenco di dati, possiamo pertanto<br />

chiederci se sia possibile una qualche loro elaborazione che sia compiuta in maniera<br />

razionale. E’ possibile che in questa elaborazione alcuni introducano concetti non facilmente<br />

definibili e apparentemente vaghi, come del resto abbiamo visto introdurre sovente nella<br />

scienza, specialmente ma non solo quando un settore della scienza era ed è talora in grande<br />

movimento. Basti pensare al principio di complementarietà di Bohr o al principio di<br />

indeterminazione di Heisenberg, che sono stati adottati malgrado l’opposizione di un certo<br />

numero di scienziati del calibro di Einstein e il cui vero status è tuttora incerto.<br />

Sembrerebbe ad alcuni che principi di natura non materiale non possano neanche essere<br />

discussi. Molti scienziati asseriscono che neanche si mettono a parlare con persone che<br />

invocano sostanze immateriali come rilevanti per la descrizione ad esempio della coscienza<br />

umana. E’ chiaro che un atteggiamento del genere preclude qualsiasi dialogo con qualche<br />

miliardo di uomini, e, pur riconoscendo che gran parte di questi siano poco colti, c’è da<br />

chiedersi se tutto è spiegabile con una scarsa conoscenza della biologia moderna.<br />

Praticamente il ragionamento che fanno costoro è del tipo: se non mi dai ragione in anticipo<br />

neanche mi metto a discutere con te.<br />

In realtà, è estremamente chiaro che la formulazione dell’esistenza di sostanze spirituali è<br />

stata nel corso dei millenni un’acquisizione conoscitiva di importanza notevole. Essa è senza<br />

dubbio derivata dalla presa di coscienza della causalità. Il bisogno di una sostanza spirituale<br />

dimostra che l’uomo era già diventato sofisticato nella conoscenza dei rapporti causa/effetto,<br />

tale da comprendere che alcuni fenomeni erano spiegabili nei termini che lui conosceva<br />

mentre altri erano assai più complessi e necessitavano una spiegazione di complessità<br />

adeguata, che proprio per questo non era spiegabile con la materia. Alla luce della<br />

prospettiva storica e del carattere originariamente empirico della formulazione dell’esistenza<br />

di sostanze spirituali, la loro discussione non può essere eliminata aprioristicamente e direi<br />

unilateralmente.<br />

40% degli scienziati sono francamente dualisti (inchiesta)<br />

Al di là delle affermazioni eclatanti di numerosi scienziati, c’è da chiedersi se in generale<br />

essi siano tutti materialisti. Sembrerebbe che non sia così. All’inizio del secolo, molti<br />

presumibilmente si ponevano la stessa domanda, se cioè la scienza provochi una certa<br />

avversione al sovrannaturale. Nel 1914, James H. Leuba, psicologo americano, inviò un<br />

breve questionario ad un certo numero di scienziati, con due semplici domande. Gli<br />

scienziati dovevano rispondere: a) se credevano in un Dio personale, che può essere<br />

influenzato dall’interazione con l’uomo, e b) se credevano in una vita dopo la morte. Alle<br />

due domande era possibile rispondere si, no, o non so. Leuba pubblicò i suoi dati nel 1916<br />

260 . Ottant’anni dopo, Edwrad J. Larson e Larry Witham ripeterono la stessa inchiesta,<br />

mantenendo le stesse domande 261 . L’inaspettata conclusione fu che, malgrado l’enorme<br />

diffusione della scienza e della tecnologia che ha avuto luogo dopo la seconda guerra<br />

260 J.H. Leuba: The belief in God and Immortality: a psychological, anthropological and statistical<br />

study. Sherman, French & Co., Boston, 1916<br />

261 E.J Larson & L. Witham: Scientists are still keeping their faith. Nature 386:435-436, 1997<br />

144


mondiale e malgrado gli enormi cambiamenti avvenuti nei costumi sociali, la percentuale di<br />

scienziati che rispose sì alle due domande non era essenzialmente mutata. Per la prima<br />

domanda, la percentuale rimase sempre intorno al 40% un valore simile a quello ottenuto<br />

nell’inchiesta di Leuba, mentre per la seconda domanda si ebbe un leggero calo, dal 50 al<br />

40% circa.<br />

Queste percentuali tuttavia calano notevolmente se in qualche modo si selezionano gli<br />

scienziati più bravi. Se già nel 1916 la percentuale dei “credenti” tra i super scienziati era<br />

intorno al 30%, nel 1933 si era scesi verso il 20% (con un’ulteriore ricerca di Leuba) mentre<br />

oggi siamo intorno al 10%, con punte del 5% per i biologi 262 . Vi era anche una postilla alla<br />

seconda domanda di Leuba, che chiedeva a coloro che non credevano nell’immortalità<br />

personale, se comunque ne sentissero il bisogno. In questo caso si può rivelare una notevole<br />

differenza tra il 1916 e il 1996, in quanto la percentuale di persone non interessate<br />

all’immortalità è salita dal 27 al 64%. E questo sembra essere il cambiamento più evidente.<br />

Naturalmente, quello che si può trarre da questi risultati sono solo conclusioni di tipo<br />

sociologico. Il fatto che gli uomini di scienza più eccelsi abbiano risposto negativamente ai<br />

quesiti non ci dice nulla sulla validità delle loro risposte, ma solo su quello che pensano gli<br />

scienziati. Non vi sono motivi per pensare che gli scienziati abbiano una statura morale più<br />

elevata di quella dell’uomo comune, e neanche che il loro giudizio sia più fondato di quello<br />

degli altri perché (si potrebbe ipotizzare) essi sono più intelligenti della media. Se così fosse,<br />

si dovrebbe affidar loro il governo dei nostri paesi o la conduzione delle imprese: ma su<br />

questo punto pochi sarebbero d’accordo. Se si vanno a considerare le posizioni politiche<br />

degli scienziati, penso che ce ne sia per tutti i gusti e molti scienziati si sono assai sovente<br />

adeguati ai regimi più duri 263 . Le notevoli eccezioni non sono probabilmente in numero<br />

maggiore di quanto si trovi nella popolazione generale.<br />

Infine bisogna notare come le domande fossero molto limitative. Nella prima domanda ad<br />

esempio si doveva rispondere se si credeva o no in un Dio che interagiva colle persone. Chi<br />

credeva in un principio spirituale di tipo diverso, veniva catalogato come “non credente”. E’<br />

presumibile pertanto che il numero di coloro che potrebbe essere catalogato come<br />

materialista sia ancora inferiore al 60%. Infine anche le ragioni dei risultati ottenuti è<br />

argomento di dibattito: dal momento che in molti circoli scientifici è senz’altro fuori moda<br />

essere “credenti”, è stata sollevata la possibilità che vi sia una selezione contro persone<br />

“credenti” e che queste rimangano fuori dal club o che per lo meno non abbiano grande<br />

interesse a manifestare il loro pensiero. Vista la grande adattabilità degli scienziati<br />

all’ambiente circostante questa ipotesi non può essere completamente esclusa.<br />

262 E.J Larson & L. Witham: Scientists and religion in America. Sci Am, settembre 1999, pp 88-93<br />

263 Di esempi a questo riguardo ce ne sono a non finire, ognuno ne può elencare una serie. Basti<br />

pensare, nel passato recente, alle vicende legate al giuramento di fedeltà al fascismo richiesto a tutti<br />

i professori universitari italiani, che fu rifiutato da un numero assolutamente minimo di scienziati,<br />

tra cui mi piace ricordare il matematico Vito Volterra, e successivamente alle leggi razziali che<br />

espulsero gli ebrei dai posti di lavoro, contro cui solo pochi scienziati si ribellarono. I loro colleghi<br />

“umanisti” non si comportarono meglio. Anche in Francia successe lo stesso, perché solo pochi<br />

rinunciarono al loro lavoro in seguito all’occupazione nazista. Interessante a questo proposito il<br />

commento di Francois Jacob, che nella sua autobiografia “The statue within” (Unwin Hyman,<br />

Londra, 1988), notava come al ritorno dalla guerra, chi si era battuto si trovava col sedere per terra,<br />

e gli toccava essere giudicato da coloro che erano tranquillamente rimasti.<br />

145


In realtà cosa pensino gli scienziati può far colpo sull’opinione pubblica non preparata ma ha<br />

poco da vedere con la verità o la giustizia. Quello che in realtà conta è la forza delle<br />

argomentazioni che escono non dal soggettivismo degli scienziati bensì dalla solida,<br />

ancorché parziale, oggettività del procedimento scientifico.<br />

Gli scienziati fanno filosofia?<br />

Ma è comunque vero che gli scienziati hanno paura di parlare di filosofia ? Sembrerebbe<br />

proprio di no. Da un lato c’è come un dogma che bandisce dalle riviste scientifiche le<br />

speculazioni sulle questioni filosofiche, e si ritiene generalmente che queste al massimo<br />

vadano bene per le conversazioni ai ricevimenti, magari dopo che si sono bevute tre o<br />

quattro birre o quando ci si trova con persone che si annoierebbero terribilmente a sentir<br />

parlare di argomenti tecnici. Ma dall’altro, vi è un enorme numero di libri in cui gli<br />

scienziati affermati espongono la propria Weltanschauung. Anzi, sembra quasi che una volta<br />

ottenuto qualche risultato di rilievo, gli scienziati si ritengano in dovere di esporre il proprio<br />

punto di vista sulle questioni filosofiche. Questo forse è per un motivo assai pratico: a chi<br />

interessano le idee sul mondo di uno sconosciuto ? se uno invece ha avuto delle buone<br />

intuizioni in qualche campo, la gente è più disposta ad ascoltarlo: sembra quasi che il<br />

successo nelle questioni scientifiche diventi un lasciapassare alla filosofia. Non si può però<br />

escludere che tra le motivazioni che spingono i giovani ad interessarsi di scienza non vi sia<br />

quel senso di meraviglia che sta alla base anche del far filosofia e che pertanto si senta il<br />

bisogno di riprendere questo genere di tematiche. Prendiamo ad esempio i grandi fisici che<br />

nei primi decenni del Novecento cambiarono la nostra visione del mondo, sia per quanto<br />

riguarda la costituzione del mondo microscopico che di quello che è l’infinità dell’universo<br />

che ci circonda. Tutti costoro avevano delle loro idee filosofiche e religiose e nessuno ha<br />

sostenuto che non se ne potesse parlare. Vero è tuttavia che le loro visioni non coincidono,<br />

che spesso non sono esposte in modo sistematico e che talora sono apparentemente<br />

contradditorie. Ma dalle loro affermazioni si rivela che le problematiche filosofiche erano<br />

comunque al centro dei loro interessi. Ne possiamo elencare alcune, non perché ci<br />

interessino le conclusioni cui giungono, almeno per il momento, ma solo per indicare come<br />

essi comunque hanno ritenuto che la scienza avesse a che fare con la filosofia.<br />

Max Planck, padre della meccanica quantistica, scrive:<br />

“Religione e scienza si incontrano sulla questione dell’esistenza e della natura di un potere<br />

supremo, che regge il mondo, e qui almeno fino ad un certo grado possono essere<br />

paragonate tra loro le risposte, che ambedue danno…….In qualunque direzione e per<br />

quanto lontano noi possiamo vedere, non possiamo trovare da nessuna parte una<br />

contraddizione tra religione e scienza, ma piuttosto un pieno accordo proprio nei punti<br />

decisivi. Religione e scienza non si escludono, come alcuni oggi credono o temono, ma si<br />

completano e si condizionano a vicenda” 264 .<br />

Erwin Schroedinger, fisico austriaco, autore delle celebri equazioni, è noto per aver<br />

coltivato, dopo essersi rifugiato a Dublino in seguito all’Anschluss, anche un certo interesse<br />

264 M. Planck: Scienza, filosofia e religione. Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1965; p. 254 e p. 255.<br />

Tuttavia poche pagine prima (p. 247) leggiamo che invece “il problema di Dio mai e poi mai si<br />

lascia risolvere per via scientifica, cioè per argomentazioni logiche, fondate sui fatti. Piuttosto la<br />

risposta a questa domanda è unicamente ed eslusivamente affare della fede, della fede religiosa”.<br />

Questo è un esempio del fatto che non sempre le affermazioni sono congruenti tra loro.<br />

146


per la biologia, giungendo a postulare come substrato dell’ereditarietà un “cristallo<br />

aperiodico”, in cui molti videro una prefigurazione del DNA. Nel suo libro “Che cos’è la<br />

vita ?”, egli esamina la biologia dal punto di vista della fisica quantistica. Il problema che<br />

indaga maggiormente è quello della riproduzione e della conservazione di una struttura<br />

complessa quale è quella del vivente, che mostra delle caratteristiche per lui assai<br />

sorprendenti:<br />

“Le caratteristiche più sorprendenti sono: primo, la curiosa distribuzione degli ingranaggi<br />

in un organismo pluricellulare…; e secondo, il fatto che ogni singolo ingranaggio non è<br />

ovviamente opera umana, ma è il più bel capolavoro mai compiuto da Dio, secondo le linee<br />

della meccanica quantica” 265<br />

Nella conclusione del suo libro, Schroedinger rivela chiaramente le sue preferenze per<br />

un’anima singola che finisce per confondersi con Dio stesso, secondo quanto da millenni si<br />

afferma nella cultura indiana, estranea purtroppo, secondo lui, al mondo occidentale.<br />

Albert Einstein, secondo la testimonianza di Infeld, si riteneva più un filosofo che un fisico.<br />

266 . E in effetti ancora una volta siamo di fronte ad un tipo di proposizioni, quelle<br />

concernenti la teoria della relatività, senza dubbio scientifiche, ma che hanno avuto un<br />

grande impatto sulla nostra visione del mondo. Einstein si riteneva anche un uomo<br />

profondamente religioso, pur se pensava che la sua religione non fosse quella dell’uomo<br />

comune. La sua celebre espressione “Dio non gioca a dadi” manifesta una fede smisurata<br />

non solo in Dio, che è acuto ma mai malizioso, ma anche nella regolarità della natura.<br />

Einstein ha esposto le sue idee filosofiche in un libro e in altri scritti, come pure hanno fatto<br />

numerosi altri fisici dell’epoca, come Jordan, Eisenberg e Bohr 267 .<br />

Interessante anche vedere la posizione di Bertrand Russell, filosofo di difficile<br />

classificazione ma generalmente ritenuto nemico di ogni religione, tanto da aver sostenuto<br />

nel 1948, quasi cent’anni dopo quello tra Huxley e Wilbeforce, un famoso dibattito con<br />

padre Copleston, che venne trasmesso dalla BBC 268 . Russell non ha mai sostenuto che<br />

anima e Dio fossero problemi senza senso, e anzi ne parla diffusamente nei suoi scritti.<br />

Importante è la sua affermazione di metodo:<br />

“In base a ricerche fisiche, taluni scienziati dichiarano di possedere reali prove scientifiche<br />

di sopravvivenza, e il loro procedimento è in via di massima, scientificamente corretto.<br />

Evidenze di questo genere potrebbero essere così determinanti da dover essere accettate da<br />

qualsiasi mente scientifica…Da parte mia considero l’evidenza fin qui fornita dalla ricerca<br />

fisica in favore della sopravvivenza, molto più debole dell’evidenza fisiologica. Riconosco<br />

265 E. Schroedinger: Che cos’è la vita? Sansoni, Firenze, 1978; p.197. La prima edizione è del 1944<br />

266 L. Infeld: Albert Einstein. Einaudi, Torino, XXX; p. 134<br />

267 A. Einstein: Come io vedo il mondo. Newton Compton, Roma, 1975; P. Jordan: L’immagine<br />

della fisica moderna, Feltrinelli, Milano, XXX; N. Bohr: I quanti e la vita. Boringhieri, Torino,<br />

1965; W. Heisenberg: Fisica e filosofia. Il Saggiatore, Milano, 1961.<br />

268 A differenza di quello tra Huxley e Wilbeforce, questo dibattito fu estremamente civile. Inoltre, a<br />

differenza dell’altro, i cui resoconti furono così di parte da rendere difficile capire quello che<br />

veramente accadde, questo tra Russell e Copleston fu registrato e lo si può leggere nell’opera citata<br />

alla nota seguente da p. 137 a p. 161.<br />

147


però, senza riserve, che in ogni momento potrebbe divenire più forte e in tal caso sarebbe<br />

non scientifico non ammettere la sopravvivenza” 269<br />

In fondo forse neanche i neopositivisti hanno preso sul serio la loro dottrina del “senso”.<br />

Alfred Ayer è uno dei neopositivisti che sono sopravvissuti più a lungo. Il suo piccolo libro<br />

“Language, truth and logic” è stato spesso considerato un classico riassunto delle posizioni<br />

dell’empirismo logico 270 . Tuttavia in un suo libro più recente, “The central questions of<br />

philosophy”, edito nel 1973, egli viene meno ai suoi suggerimenti. Il libro riassume alcune<br />

conferenze, le Gifford Lectures, da lui tenute all’Università di St Andrews, che erano state<br />

istituite con un lascito da Lord Gifford, per stimolare le riflessioni sulla Teologia Naturale.<br />

Forse in omaggio agli organizzatori e allo scopo delle lectures, egli ne dedica una non a<br />

dimostrare che Dio sia un concetto di cui bisogna tacere, bensì a sostenere che non abbiamo<br />

alcuna ragione per pensare che Dio esista. Dopo aver discusso l’argomento ontologico di<br />

Sant’Anselmo ed averlo rigettato, egli passa ad esaminare gli argomenti della causa e<br />

dell’ordine. La sua conclusione è che i due argomenti non sono validi, ma è interessante<br />

vedere che egli fa alcune ammissioni che riportano il problema di Dio nell’ambito dei<br />

problemi relativi a fatti:<br />

“Se la postulazione di una divinità deve essere giustificata con il suo valore esplicativo,<br />

allora la spiegazione va fornita sul serio, in modo concreto: E’ un tale argomento possibile?<br />

Soltanto, parrebbe, se riusciamo a scorgere nel corso degli eventi uno schema tale da<br />

suffragare l’ipotesi che essi eventi siano stati pianificati. Potremo allora sviluppare una<br />

teoria sulle intenzioni del pianificatore suscettibile di venir messa alla prova<br />

empiricamente” 271<br />

Forse quindi, sul neopositivismo, dobbiamo dar ragione a Popper, che sostiene di averlo<br />

ucciso da tempo. Nella prefazione ad una successiva edizione della sua “Logik der<br />

Forschung”, Popper afferma:<br />

“Gli analisti del linguaggio credono che non ci siano problemi filosofici genuini, o che i<br />

problemi della filosofia – ammesso che ce ne siano – siano problemi concernenti l’uso<br />

linguistico, o il significato delle parole. Invece io sono convinto che esiste almeno un<br />

problema al quale sono interessati tutti gli uomini dediti al pensiero. E’ il problema della<br />

cosmologia: il problema di comprendere il mondo, compresi noi stessi e la nostra<br />

conoscenza, in quanto parte del mondo. Sono convinto che tutta la scienza sia cosmologia, e<br />

per me l’interesse così della filosofia come della scienza risiede nei contributi che queste<br />

due discipline hanno portato a questo problema. In ogni caso scienza e filosofia<br />

cesserebbero di esercitare su di me qualsiasi attrazione se dovessero rinunciare a<br />

proporselo”….” Per parte mia, provo interesse per la scienza e la filosofia soltanto perché<br />

voglio imparare qualcosa sull’enigma della conoscenza del mondo in cui viviamo e<br />

sull’enigma della conoscenza che l’uomo ha di questo mondo” 272<br />

269 B. Russell: Il mio credo. In: Perché non sono cristiano. Longanesi, Milano, 1972; p. 38-39. Lo<br />

scitto da cui è presa la citazione è del 1925. Ignoro a quali esperienze fisiche Russell possa riferirsi,<br />

sembrerebbe trattarsi di esperienze di parapsicologia sperimentale o forse a fenomeni medianici.<br />

Curiosamente, viene da ricordare che anche Turing considera questa possibilità nel suo articolo<br />

sulle macchine pensanti (vedi). Queste esperienze presumibilmente non hanno alcuna base reale.<br />

270 A.J. Ayer. Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano, 1961. L’edizione inglese è del 1946.<br />

271 A.J. Ayer: Bilancio filosofico. Laterza, Bari, 1976; p. 289. L’edizione inglese è del 1973.<br />

272 K.R. Popper: Logica della scoperta scientifica. Einaudi, Torino, 1970. Le citazioni fanno parte<br />

della prefazione alla prima edizione inglese del 1959 e si trovano a p. XXI e p. XXX.<br />

148


Questo è vero per scienziati dei secoli scorsi ma lo è anche oggi, e lo è stato anche nel<br />

periodo in cui il neopositivismo dominava, e quasi sembrava la teoria ufficiale della scienza.<br />

Ma chi esattamente cade sotto la maledizione di Hume?<br />

Potremmo chiederci inoltre: ma chi esattamente oggi cade sotto gli strali di Hume ? Ai tempi<br />

di Hume poteva essere abbastanza chiaro cosa si intendesse per libri di “teologia o<br />

metafisica scolastica”, e ci si affidava al buon senso: Hume e i suoi contemporanei capivano<br />

benissimo di chi si parlava e i nemici di Hume sapevano perfettamente di essere il bersaglio<br />

delle sue invettive. Ma vi era comunque un’accusa da affrontare, quella secondo cui ogni<br />

critico della metafisica è in realtà un fratello metafisico che vuole portare avanti una sua<br />

nuova metafisica. Gli empiristi logici ovviamente pensarono di aver dato una soluzione<br />

chiara e definitiva al problema col loro principio di verificabilità. Esso tuttavia esaurisce<br />

realmente tutti i problemi dotati di senso ? Sì, per i neopositivisti, per loro stessa definizione.<br />

Abbiamo anche visto che altri, tra cui Popper, usano il criterio della testabilità (nel suo caso<br />

falsificabilità) come un criterio non di senso ma di demarcazione tra scienza e non scienza.<br />

Nel capitolo introduttivo abbiamo visto come la scienza proceda per interpretazione dei<br />

risultati sperimentali, che spinge a formulare ipotesi e a verificarle. Si tratta di un ciclo<br />

continuo. E abbiamo anche visto come, affinché questo criterio di verifica sia accettabile, si<br />

deve trattare di una verifica in linea di principio. Senza l’introduzione di questo concetto,<br />

tutte le proposizioni che non possiamo verificare perché la nostra tecnologia attuale non lo<br />

consente, verrebbero escluse dalla scienza. Questa precauzione tuttavia è buona ma<br />

insufficiente, perché almeno in un certo numero di casi, la verificabilità di principio è<br />

comunque un giudizio umano e pertanto per certi aspetti è una funzione del tempo e dello<br />

spazio, nonché dell’essere che conosce.<br />

Infatti, la verifica può essere momentaneamente impossibile per ragioni tecniche o per<br />

ragioni teoriche. Le ragioni tecniche si spera e si ammette che saranno in un ragionevole<br />

futuro superate. Oppure una verifica può non essere neanche pensabile per ragioni cosiddette<br />

teoriche, perché il problema si muove in un orizzonte che noi neanche comprendiamo in<br />

quanto le nostre teorie non lo prevedono. Ad un greco antico sembrerebbe non verificabile il<br />

problema dell’identificazione delle ossa di un suo antenato, che invece a noi oggi appare<br />

perfettamente testabile tramite l’analisi del DNA. Proviamo a convincere David Hume della<br />

validità di questo problema: esiste nelle ossa di ciascuno una traccia (essenza, umore,<br />

fattore, homunculus…) univoca di noi stessi, che dovrebbe essere possibile rilevare appena i<br />

nostri colleghi alchimisti avranno affinato le loro tecniche; poiché questo fattore viene<br />

parzialmente trasmesso dai nostri genitori a noi durante la procreazione, gli alchimisti<br />

potrebbero effettuare delle comparazioni per vedere se tale fattore presenta delle<br />

caratteristiche simili a quelle riscontrate nelle ossa in questione. Oppure possiamo provare a<br />

convincere un astronomo del XVIII secolo che le Galassie si allontanano da noi a velocità<br />

impressionante: ci dirà che stiamo cavalcando sulle ali della fantasia, e noi non saremmo<br />

neanche in grado di pensare una verifica di principio perché non avremmo le teorie fisiche in<br />

cui inserirla.<br />

Non solo, ma uno scimpanzé può ipotizzare e verificare che sotto un vaso ci sono due<br />

banane invece di quattro, o potrebbe comportarsi come se comprendesse che un lato di un<br />

particolare triangolo è più breve della somma degli altri due. Ma la lista di quello che supera<br />

le sue capacità è infinita. Quali erano le capacità intellettuali dell’H. erectus o dello stesso H.<br />

149


sapiens neanderthalensis? Questo pone un accento di cautela, in quanto nessuno può dire<br />

che il nostro cervello non sia un sistema ulteriormente perfettibile. Un problema non perde<br />

né acquista il suo senso (nell’accezione neopositivista) a seconda se esiste o no un cervello<br />

in grado di pensare ad una verifica di principio. Le galassie si allontanano anche se non c’è<br />

nessun astronomo che ne misura il red shift.<br />

Ma c’è di più. Ci sono argomentazioni la cui forza è notevole, anche se la loro<br />

corroborazione sembra difficile. Prendiamo ad esempio il ragionamento che fa Aristotele e<br />

altri dopo di lui a proposito della dimostrazione del Motore Immobile. Confrontiamola con<br />

l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta e chiediamoci: sono uguali? La risposta è<br />

chiaramente no. Oggi veramente non si riesce neanche a comprendere che nesso ci sia tra le<br />

varie frasi che costituiscono l’argomento di Anselmo. L’argomentazione di Aristotele al<br />

contrario è comprensibile e rimane perfettamente in piedi anche se noi non usiamo più i<br />

termini sostanza e accidente, materia prima e forma sostanziale, essere in atto e essere in<br />

potenza, o, al massimo, li usiamo con un altro significato 273 . Qual è pertanto la differenza<br />

tra i due argomenti?<br />

Oggi, vi è in giro il tacito consenso che la ricerca scientifica comincia al momento del Big<br />

Bang. Se uno chiede cosa c’era prima, si sente dire che non ha senso chiedersi cosa ci fosse<br />

prima. Perché comunque si aggiunge, il tempo è nato col Big Bang. Che lo spazio e il tempo<br />

siano nati con il Big Bang lo ha detto già Agostino d’Ippona, oltre 1500 anni fa. Faceva alla<br />

sua epoca Agostino della metafisica nel senso humiano del termine ? La fanno ora i fisici del<br />

Big Bang ? La risposta è di nuovo no. Anche ammesso che questa interpretazione della<br />

nascita dello spazio-tempo sia vera, cosa ci spinge a considerare improvvisamente vuote<br />

delle domande la cui validità esiste un 10/-50esimo prima ? E come facciamo a provare che<br />

l’affermazione “lo spazio e il tempo sono nati con il Big Bang” ?<br />

L’impressione che si ha qui è che il criterio di definizione di scientifico non sia quello della<br />

testabilità, bensì dell’eliminazione di aporie, paradossi o comunque semplicemente di<br />

problemi estremamente difficili. Se la domanda è troppo difficile o ci crea delle difficoltà,<br />

possiamo sempre etichettarla come nonsenso e difendere così il nostro orticello.<br />

Il problema che racchiudono questi esempi è secondo me quello delle proposizione che<br />

potremmo chiamare “statiche” o “abortive”. Un’ipotesi, come abbiamo visto, deve sempre<br />

partire da dati di fatto, dati sperimentali, che possono essere osservazioni su avvenimenti<br />

naturali o su eventi artificiali (questi ultimi nel senso, in quest’ultima accezione, che li<br />

abbiamo provocati noi nei nostri laboratori, i cui limiti possono essere così vasti da<br />

coincidere con i confini dell’universo). Come abbiamo visto, non vi sono limiti alla<br />

273 Leggiamolo nella formulazione di Tommaso d’Aquino, e vedremo come sia comprensibile<br />

anche oggi, in quanto il suo nocciolo è il principio di causalità: “La seconda via parte dalla nozione<br />

di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non<br />

si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; ché altrimenti sarebbe<br />

prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è assurdo.<br />

Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è la causa dell’intermedia, e l’intermedia è<br />

la causa dell’ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa è tolto anche<br />

l’effetto: se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe<br />

neppure l’ultima, né l’intermedia. Ma procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale ad<br />

eliminare la prima causa efficiente; e così non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause<br />

intermedie: ciò che è evidentemente falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente,<br />

che tutti chiamano Dio”. Tommaso, Summa Theologiae I, q.2, a.3<br />

150


posizione delle ipotesi a patto che esse debbano essere agganciate alla realtà empirica.<br />

L’aggancio è in genere sia in senso anteriore che posteriore, cioè l’ipotesi spiega alcuni dati<br />

noti e ne predice degli altri: potremmo dire che l’ipotesi è in grado di fare affermazioni su<br />

ciò che è noto (postdizioni) e su ciò che è ignoto (predizioni).<br />

La domanda da porsi è: un’ipotesi che sia abbia solo postdizioni è da considerare insensata o<br />

metafisica? La risposta sembrerebbe essere in entrambi i casi, no. Perché? Per un motivo<br />

formale e uno sostanziale. Se vi è qualche fatto che l’ipotesi spiega, significa che, se per un<br />

colpo di genio, l’ipotesi fosse stata fatta prima di venir a conoscenza dei dati che spiega, le<br />

postdizioni sarebbero state predizioni. Inoltre, dal momento che è un’ipotesi su fatti, essa ha<br />

comunque un potenziale esplicativo che collega alcuni fatti tra loro e ne invoca altri.<br />

In altre parole, se un’ipotesi spiega alcuni fatti e poi si spinge più in là ad invocare fatti che<br />

per ora non sembrano verificabili, l’ipotesi è metafisica ? E’ chiaro che in questo caso vi<br />

sono grossi rischi di cadere nella metafisica, ma non è detto che debba essere assolutamente<br />

così. La psicanalisi, ad esempio, sembra essere un’ipotesi abortiva: mette insieme alcuni dati<br />

di psicopatologia e fa delle enormi ipotesi che predicono assai poco o al limite niente. In<br />

altre parole fa delle postdizioni e non delle predizioni (questa naturalmente è una mia<br />

interpretazione del metodo psicoanalitico, forse troppo semplificata: in teoria, nella misura<br />

in cui prescrive della terapie e ne valuta l’effetto, essa fa anche delle predizioni. Certamente<br />

quello che inferisce avvenga nel nostro subconscio è vari ordini di grandezza oltre a quello<br />

che può essere verificato: è come pretendere di conoscere la forma di un poligono partendo<br />

da tre punti su un piano).<br />

Al limite, vi potrebbe essere un’ipotesi che spieghi tutto, proprio tutto, e che non vi sia più<br />

nulla da predire: quest’ipotesi sarebbe non scientifica? Il demone di Laplace avrebbe una<br />

conoscenza non scientifica ?<br />

Naturalmente, non si può costruire una piramide a testa in giù. Un’ipotesi abortiva che,<br />

partendo da uno o pochi fatti, basi una complicatissima teoria non ulteriormente verificabile,<br />

non verrebbe accettata da nessuno. Ma perché una solida base di fatti non potrebbe<br />

giustificare un’ipotesi abortiva prudentemente proposta ?<br />

Alcune ipotesi importanti probabilmente cadono in questa categoria. Prendiamo ad esempio<br />

l’argomento della causa efficiente di Tommaso d’Aquino Ho sostenuto che quello di<br />

causalità non è un principio bensì la prima delle leggi empiriche. Il ragionamento di<br />

Tommaso si basa sulla legge che ogni effetto deve avere una causa. Con questo si è giunti a<br />

considerare un’aporia, che non sembra risolvibile: o “regressio ad infinitum” o “causa<br />

incausata”. Oltretutto, una delle due soluzioni deve essere vera: cosa c’è di non scientifico?<br />

E’ le argomentazioni di Zenone di Elea sull’impossibilità del moto sono metafisiche o non<br />

piuttosto scientifiche? Anche se la loro formulazione è imbarazzante, non sarebbe sleale<br />

qualificarle come metafisiche ? Alla fine di tutta questa discussione si ha il sospetto che<br />

l’aggettivo metafisico a volte svolga nella scienza la funzione che aveva il termine<br />

“revisionista” nei paesi comunisti o “eretico” all’epoca dell’Inquisizione: un sistema per far<br />

fuori, anche fisicamente, le tesi non gradite.<br />

Consideriamo infine l’argomento dell’ordine di Paley. Esso fa una serie enorme di<br />

postdizioni (e anche predizioni), poi arriva a formulare l’ipotesi che ci debba essere un<br />

ordinatore. A questo punto, quella dell’ordinatore diventa un’ipotesi tratta da una serie<br />

notevole di osservazioni. Potrebbe risultare difficile o impossibile provare questo, ma<br />

l’argomento si basa pur sempre su un certo numero di fatti di biologia e di cosmologia. Può<br />

151


la tesi di Paley essere licenziata come metafisica? E l’affermazione opposta che invece<br />

l’ordinatore non esiste ?<br />

152


Capitolo 10.<br />

L’ARGOMENTAZIONE DI PALEY<br />

“In crossing a heath, suppose I pitched my foot against a stone, and were asked how the stone<br />

came to be there; I might possibly answer, that, for anything I knew to the contrary, it had<br />

lain there for ever: nor would it perhaps be very easy to show the absurdity of this answer.<br />

But suppose I had found a watch upon the ground, and it should be inquired how the watch<br />

happened to be in that place; I should hardly think of the answer which I had before given,<br />

that for anything I knew, the watch might have always been there….(noi siamo costretti a<br />

concludere che) …the watch must have had a maker….(e che) every manifestation of design,<br />

which existed in the watch, exists in the works of nature; with the difference, on the side of<br />

nature, of being greater or more, and that in a degree which exceeds all computation” 274<br />

L’argomento dell’ordine è di antica data, ma la scienza di Darwin l’aveva di fronte nella<br />

formulazione di Paley. Tutte le varianti si basano comunque essenzialmente sul fatto che<br />

intorno a noi vi sono cose bellissime, tali che la loro esistenza presuppone un disegno. Kant<br />

stesso riprese la metafora dell’orologio. Questo disegno, è un “progetto intelligente”, per<br />

definizione richiede un disegnatore, un progettista. Tanto più grande è il disegno, tanto più<br />

maestoso è il disegnatore. La biologia è tuttavia centrale all’opera di Paley, la teoria<br />

dell’evoluzione si affermò in Inghilterra e la formulazione di Paley era particolarmente nota a<br />

Darwin.<br />

L’opinione prevalente all’epoca di Darwin era la seguente: in principio era il caos e da questo<br />

caos Dio estrasse l’ordine, la bellezza del creato, le leggi della meccanica celeste e la<br />

moltitudine dei viventi. Il creato è il suo fingerprinting, le impronte che ha lasciato nel<br />

mondo. Come del resto spiegare l’origine dell’ordine? Certo è vero, nel mondo c’è anche il<br />

disordine, c’è il male, ma questo è stato causato dall’uomo. Tutto il creato canta le lodi del<br />

Signore.<br />

Oggi non tutti o forse pochi sottoscriverebbero questa visione del mondo. Questo mutamento<br />

di prospettiva non è stata una cosa improvvisa ma ha visto un lungo percorso dipanarsi lungo<br />

oltre due secoli di scienza e filosofia.<br />

L’ordinatore cosmologico<br />

In campo cosmologico, la ricerca delle cause (o causa) dell’universo e delle modalità della sua<br />

formazione fece nascere le varie cosmogonie che troviamo già compiutamente espresse sia<br />

nel libro del Genesi che in Talete. Malgrado le affinità tra la cultura ebraica e quella<br />

mesopotamica, e malgrado che i presocratici siano stati in contatto con le culture del vicino<br />

Oriente, noi troviamo grandi differenze tra il maturo pensiero greco e la cosmogonia ebraica.<br />

Il Demiurgo che nasce piano piano nella filosofia greca non ha né le caratteristiche del Dio<br />

ebraico né quelle dei vari dei omerici, ma si modella secondo le regole della più stretta<br />

razionalità. All’inizio il demiurgo è semplicemente una spiegazione dell’ordine del cosmo,<br />

senza essere causa della sua esistenza, in quanto la materia esiste di per sé da un’eternità: egli<br />

274 W. Paley: Natural Theology, or Evidence of the existence and attributes of Deity collected from<br />

the appearance of nature. Londra, 1802. L’argomentazione di Paley era così diffusa all’epoca che in<br />

una recensione al suo libro un suo contemporaneo si chiedeva se veramente fosse necessario un<br />

altro lavoro sull’argomento. Citato in K.S. Thomson: In retrospect. Nature 386:35, 1997.<br />

153


si limita a plasmarla. Ma in nome della razionalità del pensiero greco e dello “status” che il<br />

Principio di Causalità rivestiva, era inevitabile applicare il problema della causa agli stessi<br />

materia e demiurgo. Chiedersi quale fosse la causa del demiurgo e della materia apriva al<br />

pensiero un baratro senza fondo, quello della regressio ad infinitum, al quale fu immolato per<br />

un istante lo stesso principio di causalità, con la formulazione del concetto di causa incausata,<br />

con la velata ammissione cioè della non-validità di un principio del pensiero.<br />

Nasce così il Motore Immobile, la “rota ch’igualmente è mossa” e “che muove il sole e le<br />

altre stelle” 275 ; discutere se Aristotele l’abbia identificato o meno col demiurgo sarebbe qui<br />

fuori luogo. Ne è comunque in discendenza logica, perché se si doveva negare anche per un<br />

solo momento il Principio di Causalità, tanto valeva farlo per qualcosa che non avesse le<br />

caratteristiche della corruttibilità e della temporaneità che mostravano ogni momento tutti gli<br />

oggetti materiali. Questa particolarità della materia (contingenza) verrà poi espressamente<br />

sottolineata da Tommaso d’Aquino.<br />

Qualunque cosa si possa sostenere circa l’esistenza di una causa incausata e circa le sue<br />

caratteristiche, mi sembra troppo facile ed in ultima analisi sintomo di miopia intellettuale,<br />

etichettare questa argomentazione come metafisica, cioè non scientifica. In primo luogo<br />

perché si basa sulle conoscenze (scientifiche) dell’epoca, cioè su una scienza-reale che è tanto<br />

relativa quanto la nostra di uomini moderni; in secondo luogo perché il problema che esso<br />

tentava di risolvere è un problema concernente fatti, come appunto l’ordine che<br />

sperimentiamo ogni giorno; in terzo luogo perché tale argomentazione era suscettibile di<br />

modificazione in base alla scoperta di nuovi fatti non descritti dalla scienza greca, cioè poteva<br />

essere testata, tanto che molte delle asserzioni in proposito sono state falsificate, o per lo<br />

meno, molto indebolite.<br />

Ora, qual è e come si articola l’obiezione cosmologica alla nozione di ordinatore ? Essa<br />

consiste nel mostrare come molti dei fenomeni che componevano l’ordine e la meravigliosità<br />

del cosmo e che erano ritenuti non spiegabili in termini puramente materiali, si siano invece<br />

rivelati descrivibili in tali termini. Per inferenza induttiva si fa poi l’ipotesi che tutti i<br />

fenomeni, anche quelli che attualmente parrebbero non poter essere spiegati in termini<br />

materiali, lo possono essere. Ne discende che qualsiasi fenomeno che passi dalla categoria dei<br />

“non-descrivibili” a quella dei “descrivibili”, tende a verificare questa ipotesi e a falsificare<br />

l’ipotesi (alternativa) dell’esistenza di fatti non spiegabili in termini puramente materiali (e<br />

che quindi richiedono di postulare “forze” o “enti” extramateriali).<br />

Se esaminiamo solamente l’Occidente, che è stato di gran lunga la culla della scienza come<br />

noi oggi la pratichiamo, si può dire che a partire dal quarto secolo dopo Cristo, quando il<br />

Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero romano, a seguito dell’incontro tra la<br />

teologia giudeo-cristiana e la filosofia greca, il problema dell’origine del cosmo e del suo<br />

ordine veniva abitualmente risolto mediante l’intervento di un Dio personale che aveva creato<br />

dal nulla la materia e l’aveva ordinata secondo un piano razionale. L’unica eccezione a questo<br />

modo di pensare era rappresentata dal ricorrere periodico di spiegazione panteiste, presenti già<br />

nell’antichità greca. Tommaso d’Aquino cercò di dare rigore logico alla dimostrazione<br />

dell’esistenza del “trascendente” ed in particolare di Dio. Dopo di lui, ancora per gli Umanisti,<br />

l’uomo è un microcosmo, è il re di un creato ben ordinato; il mondo è buono ed è stato fatto<br />

da una mente razionale per il bene dell’uomo. Questa visione si inserisce perfettamente in un<br />

universo tolemaico che era un universo a misura d’uomo, in cui era quasi inevitabile pensare<br />

ad un ordinatore, se non proprio ad un creatore, come dimostra appunto il fatto che la stessa<br />

275 D. Alighieri: La Divina Commedia. III cantica, canto XXXIII, vv. 144-145<br />

154


cultura greca era giunta a conclusioni che potevano pari pari essere incorporate nella Summa<br />

di Tommaso. Quanti atei moderni lo sarebbero stati in un universo tolemaico ? A parte<br />

Democrito e Leucippo, non si ricordano altri pensatori materialisti nella storia antica<br />

dell’Occidente. Anche coloro che vennero condannati per le loro convinzioni eretiche, che<br />

cioè avevano sufficiente indipendenza intellettuale dalla religione ufficiale per poterla<br />

criticare e abbastanza coraggio da poterne sopportare le conseguenze, non furono atei, perché<br />

non potevano rigettare l’idea di un ordinatore e di un artefice. Questa non venne messa in<br />

dubbio, se non molto recentemente nella storia del pensiero, e neppure Voltaire o Lamettrie<br />

furono atei (per Lamettrie la cosa poi è in effetti paradossale). Come ha mostrato Cornelio<br />

Fabro, fino all’età dell’Illuminismo, gli atei furono delle vere rarità 276 .<br />

Variarono tuttavia i confini tra spiegabile e non spiegabile, fino ad un momento in cui si<br />

cominciò a pensare che tutto fosse spiegabile. Quest’ultimo livello venne ottenuto a gradini.<br />

Già a livello dei greci la filosofia rappresentò un superamento degli dei, il cui intervento<br />

spiegava fenomeni naturali come i lampi e i tuoni o fenomeni psicologici quali<br />

l’innamoramento (le frecce di Cupido).<br />

Anche la rivoluzione di Copernico passò senza che l’ordinatore venisse rimosso. Anzi, a dire<br />

la verità, si assistette ad un duplice fenomeno. Da una parte, il moto della Terra e la sua<br />

dipendenza dal Sole venivano a scuotere l’idea di un uomo al centro dell’universo e il crollo<br />

dei sette cieli trascinava con sé anche la convinzione di vivere costantemente sotto gli occhi di<br />

un Dio. Questa sensazione fu espressa mirabilmente da Pascal:<br />

“Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la<br />

segue, il piccolo spazio che occupo e financo che vedo, inabissato nell’infinita immensità<br />

degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e stupisco di trovarmi qui piuttosto<br />

che là, non essendoci nessuna ragione perché sia qui piuttosto che là, oggi piuttosto che<br />

domani. Chi mi ha messo? …Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi sgomenta” 277 .<br />

Dall’altro lato, la rivoluzione copernicana provocò un effetto che viene raramente considerato<br />

dalla storia del pensiero interpretata in chiave monista materialista. Se esaminiamo ad<br />

esempio gli scritti di Newton e di molti scienziati specialmente inglesi della sua epoca 278 ,<br />

possiamo convincerci che il concetto di ordinatore non solo non scomparve, ma anzi trasse<br />

giovamento dalle scoperte di Copernico, Keplero, Newton e gli altri astronomi e fisici<br />

dell’epoca. Newton, tanto per fare un esempio, argomentò proprio che l’enorme complessità e<br />

l’incredibile esattezza che compariva nel moto degli astri non faceva altro che richiamare<br />

ancora più strettamente la necessità di un ordinatore, il quale anzi doveva essere molto<br />

addentro alla meccanica e alla geometria. Questa idea di Newton è così diffusa in tutte le sue<br />

opere che è difficile scegliere il passo più significativo. Ecco ad esempio una brevissima<br />

citazione:<br />

“I answer that the motions, which the planets now have, could not spring from any natural<br />

cause alone, but were impressed by an intelligent agent …(segue un breve elenco di corpi<br />

celesti sistemati alla perfezione)…and to compare and adjust all these things together in so<br />

276 C. Fabro: Genesi storica dell’Ateismo contemporaneo. In AAVV: L’ateismo contemporaneo, vol<br />

II, p. 3-54, SEI, Torino, 1968<br />

277 B. Pascal: Pensieri, XXX; pensieri 220 e 222.<br />

278 Che queste idee fiorissero in Inghilterra non deve stupirci. Esse naturalmente erano diffuse anche<br />

nel continente, ma il fatto che Enrico VIII si fosse staccato da Roma faceva sì che nessuno dovesse<br />

temere gli strali dell’Inquisizione e che il dibattito fosse più aperto.<br />

155


great variety of bodies, argues that cause to be not blind or fortuitous, but very well skilled in<br />

mechanics and geometry” 279 .<br />

La legittimità di queste argomentazioni era così ovvia che all’epoca gli scienziati si<br />

muovevano l’un l’altro obiezioni teologiche su argomenti scientifici oltre che viceversa. Così,<br />

ad esempio, Leibniz e Newton riuscirono a litigare non solo sulla priorità nella scoperta del<br />

calcolo infinitesimale, ma anche sull’intervento diretto dell’artefice nel cosmo. A Newton che<br />

sosteneva l’idea della necessità di un intervento diretto di Dio in certi (rari) momenti della<br />

storia dell’universo per correggere alcune imperfezioni che man mano si accumulavano,<br />

Leibniz obiettò che questo era concepire un artefice imperfetto, che avesse bisogno di<br />

correggere la sua opera perché non era stato capace di farla bene fin dall’inizio 280 . E<br />

l’obiezione non venne affatto rifiutata da Newton, il quale rispose, magari non molto<br />

garbatamente, ma mai sostenendo che si trattasse di un’argomentazione assurda.<br />

Nei due secoli che separano Newton da Einstein la meccanica newtoniana ha conosciuto<br />

brillanti successi, come la predizione dell’esistenza dei pianeti, la previsione di eclissi e<br />

comete, il lancio di sonde su pianeti lontani fino all’uomo sulla luna. Tuttavia è cambiata la<br />

prospettiva in cui il firmamento viene guardato. Per Kant poteva ancora qualcosa che gli<br />

riempiva l’animo di commozione, anche se non gli provava cogentemente l’esistenza di un<br />

ordinatore supremo. Per ora noi ora è qualcosa di immenso, uno spazio enorme di cui<br />

ignoriamo i confini, anzi, ignoriamo persino se tali confini esistano, un universo costituito di<br />

un numero infinito di mondi che si allontanano da noi a velocità vertiginosa, in cui gli stessi<br />

“sintetici a priori” di Kant, il tempo e lo spazio, si sono rivelati concetti tutt’altro che intuitivi;<br />

e dall’altro un mondo di particelle incredibilmente piccole la cui esistenza è spesso brevissima<br />

per non dire virtuale e che sono, a seconda dei momenti, particelle, onde o energia in una<br />

maniera e per ragioni non perfettamente compresi. Se Kant poteva commuoversi, noi<br />

possiamo solo smarrirci.<br />

L’astronomia del secolo XX ha visto i lavori di Huggins il quale, basandosi sui lavori di<br />

Doppler, Fizeau e altri, per primo dimostrò lo spostamento verso il rosso (red shift) dello<br />

spettro di Sirio, correttamente interpretandolo come segno di un suo allontanamento dalla<br />

Terra. In seguito Hubble ed altri, mostrando che le galassie erano disperse su distanze<br />

inimmaginabili e che per giunta si allontanavano dalla Terra a velocità incredibili, hanno<br />

portato a concludere che l’Universo è in espansione. L’età, le dimensioni, le origini e il<br />

destino dell’Universo sono diventate spaventose e misteriose. Questo riconoscimento non ha<br />

tuttavia impedito ad alcuni di ritenere che l’universo e la sua storia siano intelleggibili e opera<br />

di un disegno ordinato. Mosso dalla convinzione che qualcosa avesse comunque dovuto aver<br />

causato l’espansione dell’universo, e avendo chiaramente in mente un principio causale<br />

cosmico non molto differente dal Motore Immobile di Aristotele, l’abate Georges Lémaitre<br />

giungeva intorno al 1930 a formulare una teoria cosmogonica che richiama talmente un atto<br />

creativo, che essa fu entusiasticamente accettata o malignamente ridicolizzata sulla base delle<br />

proprie convinzioni personali del tipo di quelle che furono attive nel 1860 in seguito alla<br />

pubblicazioni del libro di Darwin. Ancor oggi, la teoria del Big Bang, cui la scoperta della<br />

radiazione cosmica di fondo, confermata una decina di anni fa dagli esperimenti effettuati<br />

tramite il Cosmic Background Explorer (COBE), resta la migliore sul mercato.<br />

279 I. Newton. Citato in E.A. Burtt: The metaphysics of Newton. In “Science and religious belief.<br />

The Open University Press, Londra, 1973; p. 136<br />

280 D. Kubrin: Newton and the cyclical cosmos: providence and the mechanical philosophy. In<br />

“Science and religious belief. The Open University Press, Londra, 1973; p. 147-169<br />

156


E’ possibile asserire che l’ordine non è scomparso dai cieli ? Ma che ne è dell’ordinatore<br />

biologico, di quel principio che per tutto il Settecento ha dominato lo studio della natura ?<br />

L’ordinatore biologico<br />

Darwin, volente o nolente, è una pietra miliare per chi obietta a questo quadro idilliaco. La<br />

pubblicazione di Darwin scatenò una serie incredibile di critiche, la maggior parte delle quali<br />

erano di tipo viscerale e non razionale, cui spesso si diede risposta in maniera altrettanto<br />

polemica. La diatriba distrusse antiche amicizie e turbò, sembra, anche l’ambiente familiare:<br />

Emma la moglie di Darwin, spirito assai devoto, non era affatto soddisfatta delle pieghe che<br />

prendeva il dibattito. Tra le moltissime opinioni possiamo prendere quella di Adam Sedgwick,<br />

che aveva sempre incoraggiato Darwin nei suoi studi e che lo aveva introdotto nella<br />

Geological Society di Londra:<br />

“If I did not think you a good tempered & truth loving man I should not tell you that. . . I have<br />

read your book with more pain than pleasure. Parts of it I admired greatly; parts I laughed at<br />

till my sides were almost sore; other parts I read with absolute sorrow; because I think them<br />

utterly false & grievously mischievous-- You have deserted-- after a start in that tram-road of<br />

all solid physical truth-- the true method of induction. ……This view of nature you have stated<br />

admirably; tho' admitted by all naturalists & denied by no one of common sense. We all admit<br />

development as a fact of history; but how came it about? Here, in language, & still more in<br />

logic, we are point blank at issue… There is a moral or metaphysical part of nature as well as<br />

a physical. A man who denies this is deep in the mire of folly. Tis the crown & glory of<br />

organic science that it does thro' final cause, link material to moral. . . You have ignored this<br />

link; &, if I do not mistake your meaning, you have done your best in one or two pregnant<br />

cases to break it. Were it possible (which thank God it is not) to break it, humanity in my<br />

mind, would suffer a damage that might brutalize it - & sink the human race into a lower<br />

grade of degradation than any into which it has fallen since its written records tell us of its<br />

history” 281 .<br />

Con Darwin prende piede e per la prima volta acquista consistenza quella che si può<br />

considerare l’obiezione biologica alla teoria dell’ordinatore. Essa consiste nel mostrare come<br />

gran parte dei fenomeni del mondo vivente, che un tempo non erano riconducibili a leggi<br />

materiali, siano ora in effetti descrivibili in questi termini. Dai fenomeni che sono stati<br />

“ridotti” si inferisce poi che tutti i fenomeni, anche quelli che attualmente non lo sono, lo<br />

saranno in futuro.<br />

Il mondo greco ci presenta una cultura che ha già meditato sulle caratteristiche del vivente e<br />

in particolare sull’unicità dell’uomo. La materia viene ritenuta qualcosa di assolutamente<br />

insufficiente a spiegare la complessità dei fenomeni vitali; nell’ambito di questi è già<br />

codificata la differenza tra mondo vegetale, animale ed umano, ed essa è chiaramente<br />

rispecchiata nella tripartizione dell’anima platonica. Il principio spirituale, cioè non materiale,<br />

viene invocato non solo per spiegare le funzioni più alte dell’intelletto, ma anche per spiegare<br />

fenomeni meno complessi su cui oggi non insistono neanche i vitalisti più accesi. Bisogna<br />

notare come queste concezioni erano assolutamente distinte dalle comuni concezioni religiose<br />

dell’epoca, rispecchiando invece il meglio dell’approfondimento scientifico e filosofico<br />

dell’antica Grecia.<br />

281 A. Sedgwick: lettera a Darwin del 14 novembre 1959, subito dopo la pubblicazione del libro di<br />

Darwin. Citata in: http://www.esc.cam.ac.uk/SedgwickClub/sedgwick.htm<br />

157


E’ pertanto enormemente sottovalutata dai moderni questa codificazione dei Greci di un<br />

principio spirituale, che oggi viene spesso derisa come infantile e puerile. Due considerazioni<br />

vanno qui sottolineate. La prima, assai semplice da comprendere, era che la razionalità si<br />

affermava contro le superstizioni e le irrazionalità. Socrate venne condannato a bere la cicuta<br />

per empietà, in quanto non era soddisfatto dello status dei principi non-materiali dei suoi<br />

concittadini, che gli apparivano puerili. La seconda ed estremamente rilevante è che non si<br />

considera quanto difficile sia stata la derivazione da quel magma profondo che è stata<br />

l’evoluzione umana di concetti quali causa, spirito e materia. In realtà, come abbiamo<br />

sostenuto, la definizione di questi concetti è il primo grande risultato scientifico che è stato<br />

ottenuto e le cui origini sono avvolte nel mistero più fitto. Non si apprezza sufficientemente<br />

quanto enorme sia stata la nascita di questi concetti. Oggi la gente classifica le prove<br />

dell’esistenza di Dio di Aristotele come discorsi filosofici se non addirittura metafisici, ma<br />

non si rende conto che essi sono invece prettamente scientifici perché denotano l’esistenza di<br />

concetti quale causa, causa finale, serie infinita, ordine, caos, legge, per non parlare della<br />

nascita della logica, secondo la quale da premesse generali si possono trarre conclusioni<br />

particolari. Tutti questi concetti hanno ovviamente un’origine empirica, anche se la riflessione<br />

su di essi li ha trasformati in principi astratti. Essi oggi vengono bevuti col latte materno, e<br />

pertanto sembrano a noi delle acquisizioni semplici e banali.<br />

Come abbiamo visto, il bisogno teorico di un principio extramateriale nella spiegazione dei<br />

fenomeni umani e biologici è stata una scoperta antichissima, risalente forse all’uomo di<br />

Neanderthal e sicuramente all’uomo di Cromagnon, oltre 30.000 anni fa, dal momento che<br />

sembra logico concludere che la pratica della sepoltura e i riti ad essi connessi siano sinonimi<br />

di una certa qual credenza nell’aldilà. Coi Greci, assume la formulazione che rimarrà invariata<br />

per oltre duemila anni. Il Fedone di Platone è una espressione completa di questo<br />

raggiungimento, tanto che i cristiani che vollero coniugare tra loro cristianesimo e filosofia<br />

greca non ebbero alcun problema a riconoscere nell’anima socratica un principio spirituale<br />

cristiano che anelava verso il suo principio. Deve pertanto essere chiaro che la definizione e la<br />

purificazione di un principio extra-materiale è stato un concetto basato sui fatti e un passaggio<br />

indispensabile nella storia della conoscenza<br />

Due sono gli aspetti che lo studio della biologia affronta: il problema del vivente in generale e<br />

quello di quel particolare vivente che è l’uomo. Lungo oltre due millenni, la storia della<br />

biologia può essere letta come un progressivo riconoscimento che le leggi del vivente non<br />

sono di tipo diverso da quelle del non vivente. Penso che si possa trovare in Ippocrate,<br />

fondatore della medicina clinica, una considerazione straordinaria per l’epoca in cui<br />

formulata:<br />

“Sulla malattia cosiddetta sacra i fatti stanno così. Essa non è, a mio parere, per nulla più<br />

divina o più sacra delle altre malattie, ma essa ha la stessa natura da cui provengono anche<br />

le altre. Ma gli uomini credettero che la sua natura e la sua causa fossero alcunché di divino<br />

per inesperienza e per la sua natura straordinaria, perché non somiglia affatto alle altre<br />

malattie” 282 .<br />

282 Ippocrate: La malattia sacra. In Opere, Boringhieri, Torino, 1961; p. 37. E’ importante notare<br />

come già Ippocrate, che scrive tra il quinto e il quarto secolo prima di Cristo, consideri la sua<br />

visione scientifica della malattia sacra come un passo verso la liberazione dagli antropomorfismi.<br />

Poco più avanti, riferendosi a coloro che speculano su questa malattia, afferma: “..e la maggior<br />

parte dei loro discorsi va a finire nel divino e nel demoniaco. Eppure a me personalmente sembra<br />

che i loro discorsi non abbiano nulla a che vedere con la pietà, come essi credono, ma piuttosto<br />

158


Il passo è di enorme importanza, perché la “malattia sacra”, l’epilessia, coinvolgeva anche<br />

credenze quali quelle degli Oracoli, tra cui famosissimo quello di Delfo, in cui le sacerdotesse<br />

profetizzavano durante la crisi (tuttavia esse probabilmente non erano epilettiche bensì<br />

isteriche). Malgrado questa conclusione di Ippocrate, quasi nessuno nei successivi due<br />

millenni pensò di abolire l’ipotesi di un’anima non-materiale.<br />

Quasi due millenni dopo, René Descartes, contemporaneo di Galileo e scienziato lui stesso, si<br />

mosse in un contesto che era ormai maturo per una ripresa del dibattito sui rapporti tra vivente<br />

e non vivente. Cartesio visse in un periodo in cui il bisogno di separare la scienza dalla<br />

filosofia era molto sentito, non solo per questione teoriche ma anche per questioni pratiche.<br />

Da un lato i fenomeni reclamavano la loro importanza e il diritto di essere indagati<br />

separatamente; dall’altro per i troppo intraprendenti c’era il rischio di rimanere scottati, nel<br />

senso letterale del termine. Nello stesso tempo tuttavia si faceva largo sempre più la necessità<br />

di purificare l’anima da tutto ciò che le era superfluo. Cartesio tentò una soluzione con la<br />

dottrina che prese il nome di dualismo e che ne fa anche oggi il bersaglio degli strali degli<br />

scienziati cognitivi, anche se è chiaro a tutti che il dualismo non l’ha inventato lui. Perché<br />

allora Cartesio è passato alla storia come il dualista per eccellenza? Perché ha avuto la<br />

sfortuna di localizzare l’anima nella ghiandola pineale o perché ha purificato l’anima da tutte<br />

le più strane incombenze quali quella della digestione, della respirazione e così via?<br />

Secondo Cartesio il mondo intero è un colossale macchinario che si muove secondo leggi<br />

materiali ben definite e il vivente fa parte di esso, è un automa; unica eccezione, l’uomo, di<br />

cui i soli movimenti volontari sono da ritenersi non legati a leggi materiali, in quanto causati<br />

direttamente dalla sua anima immateriale. La novità di Cartesio tuttavia non sta nell’aver<br />

sostenuto l’esistenza dell’anima, che appunto era fondamentalmente identica a quella<br />

platonica, aristotelica o cristiana, quanto nell’averne limitato le funzioni, liberando così<br />

moltissime prerogative del vivente dalle pastoie della fantasia e permettendone uno studio<br />

scientifico: la sua teoria metteva d’accordo scienziati, filosofi e religiosi, perché salvava il<br />

principio spirituale consentendo tuttavia di indagare altre caratteristiche del vivente.<br />

Purtroppo, avendo avuto la sconsideratezza di localizzare l’anima nella ghiandola pineale, che<br />

per così dire si trovava al posto giusto, nel bel mezzo della scatola cranica, oggi viene deriso<br />

per questo, senza che vengano considerati i suoi meriti più generali.<br />

Nasce con Cartesio il meccanicismo biologico, che fu rapidamente accettato da un mondo<br />

scientifico che aveva nella meccanica il suo modello dopo i successi di Newton in astronomia<br />

e l’ampio uso di leve, pulegge e fulcri in ingegneria, architettura e nella scienza bellica. Il<br />

meccanicismo di Cartesio comunque apre la via alla purificazione del concetto di anima. Chi<br />

oggi accetterebbe un’anima che controlla i nostri succhi gastrici? D’altro canto se le abbiamo<br />

tolto la digestione e la respirazione, perché non possiamo toglierle anche la memoria,<br />

l’intelligenza e via via la bontà, la volontà, la libertà ?<br />

Questa è appunto l’obiezione biologica: tutte le attività del vivente, compreso l’uomo sono<br />

descrivibili senza ordinatori né globali (Dio) né individuali (anima). Tutto è spiegabile in<br />

termini materiali, anche i fenomeni che sembrano oggetti di disegno. Essa si è venuta<br />

sviluppando negli ultimi due secoli seguendo vari filoni di ricerca, che talora si sono<br />

intersecati. Tre sono i tipi di argomentazioni: che il vivente non è fondamentalmente diverso<br />

con l’empietà, sottintendendo che gli dei non esistono; e la loro pietà e religiosità è piuttosto<br />

miscredenza ed empietà, come io dimostrerò”.<br />

159


dal non-vivente; che il vivente sta in derivazione storica dal non-vivente; che ogni attività<br />

umana, anche la più elevata, è dovuta a processi materiali.<br />

L’unità di tutti i viventi e l’unità del vivente col non-vivente<br />

Fare la storia di questa obiezione biologica equivale a ripercorrere la diatriba che da Cartesio<br />

in poi ha opposto meccanicisti e vitalisti lungo tre secoli. Qui ne coglieremo solo alcuni<br />

elementi essenziali. Nel secolo XIX, la teoria cellulare unificava tutti i viventi e quando nel<br />

1858 Wirchow formula il suo famoso aforisma, “omnis cellula e cellula”, la teoria è un fatto<br />

compiuto, e Pasteur ha pubblicato il suo famoso lavoro sulla fermentazione alcoolica (1857),<br />

scoprendo così il mondo dei microrganismi, che vengono riconosciuti come elementi<br />

unicellulari.<br />

Il mondo del non vivente appariva tuttavia sempre molto lontano, e se è vero che nel 1825<br />

Wolher sintetizzando l’urea 283 pone una pietra miliare in questo percorso, dimostrando che<br />

era possibile ottenere in laboratorio una sostanza organica, precedentemente ritenuta di<br />

esclusiva produzione da parte dei viventi, Redi, Spallanzani e Pasteur, sferrano un duro colpo<br />

ai meccanicisti, dimostrando che la generazione spontanea è una chimera. “Omne vivo e<br />

vivo”. La batosta fu tale che dovettero passare oltre settant’anni perchè Haldane e Oparin<br />

potessero ardire di riprendere questo tema, sostenendo che almeno una volta nella storia della<br />

Terra qualcosa di simile alla generazione spontanea doveva essere avvenuta. Ma in condizioni<br />

normali la barriera tra vivente e non vivente era insormontabile.<br />

La scuola di Liebig, che ottenne la prima fermentazione senza l’intervento del vivente, e il<br />

contributo di mille altri hanno progressivamente dimostrato come reazioni come la<br />

respirazione, la digestione, l’escrezione erano tutti spiegabili con meccanismi chimici. La<br />

biochimica mostrava come i processi biologici potessero essere interpretati come processi<br />

chimici tout court. Il meccanicismo nel frattempo aveva abbandonato gli stretti assunti<br />

derivati dalla meccanica, che ovviamente non era sufficiente a spiegare da sola la realtà fisica<br />

né tantomeno il comportamento del vivente. La diatriba ora era tra materialisti e vitalisti.<br />

L’embriologia sperimentale fu l’ultimo campo in cui i vitalisti ottennero apparenti successi,<br />

come abbiamo visto con le conclusioni che Driesch trasse dai suoi esperimenti sulla<br />

manipolazione di embrioni di ricci di mare presso la Stazione Zoologica di Napoli.<br />

La storia dell’ereditarietà, che domina, con la nuova disciplina della genetica, la biologia nella<br />

seconda parte del XX secolo, è la storia della progressiva eliminazione delle forze vitali dalla<br />

biologia. Le parole di François Jacob riassumono esemplarmente le conclusioni raggiunte<br />

all’inizio del terzo millennio:<br />

283 Secondo alcuni, che la sintesi di Wolher abbia distrutto il vitalismo è un mito duro a morire. Essi<br />

sotengono che Wolher, che ottenne l’urea a caso, attraverso una reazione tra cianato di potassio e<br />

cloruro di ammonio, non era partito dagli elementi e le reazioni che erano avvenute erano assai<br />

diverse da quelle che avvenivano nel vivente. Inoltre egli aveva ottenuto il suo cianato da materiale<br />

organico e per giunta, come dichiarò Johannes Muller, capofila dei vitalisti dell’epoca, l’urea non<br />

era neppure un vero costituente dei viventi, perché si trovava nei loro escrementi. Wolher stesso era<br />

mezzo vitalista. Tuttavia, vista a posteriori, la sintesi è stata una pietra miliare, anche se il suo<br />

significato va considerato nell’ambito di una diatriba in cui la sintesi dell’urea era solo un elemento<br />

a favore dei riduzionisti, in mezzo ad un mare di dati che non lo erano. La bilancia della spiegabilità<br />

pendeva ancora dalla parte dell’ignoto, ed un solo dato non era in grado di risolvere la questione.<br />

160


“L’eredità viene descritta in termini di informazione, di messaggi, di codici. La riproduzione<br />

di un organismo è ricondotta alla riproduzione delle molecole che lo costituiscono…. Ogni<br />

uovo contiene, dunque, nei cromosomi trasmessigli dai genitori, tutto il proprio avvenire, le<br />

tappe del suo sviluppo, la forma e le proprietà dell’essere cui darà origine… Alla<br />

consapevole intenzione di uno Spirito si è sostituita la traduzione di un messaggio. L’essere<br />

vivente rappresenta, sì, l’esecuzione di un disegno, ma di un disegno che nessuna mente ha<br />

concepito; esso tende verso un fine, ma un fine che nessuna volontà ha scelto. L’unico fine<br />

dell’essere vivente è predisporre un programma identico per la generazione successiva, cioè<br />

riprodursi” 284 .<br />

Nella riproduzione si esaurisce tutto il senso dell’esistenza: “Un batterio, un’ameba, una<br />

felce, quale destino possono sognare se non quello di formare due batteri, due amebe,<br />

moltissime felci” 285 . Questo vale anche per l’uomo: tutto l’ordine che troviamo in natura non<br />

è il frutto della mente di un ingegnere, bensì il risultato dell’opera di un bricoleur, e “il<br />

mondo vivente in generale, compresa la specie umana, costituisce il risultato di una serie di<br />

congiunture sia fisiche, sia climatiche o genetiche, accumulate nel corso della storia della<br />

Terra” 286 .<br />

Questo quindi è lo status della diatriba, basato sui dati di fatto che abbiamo presentato nel<br />

capitoli secondo e terzo. Quando un ricercatore si mette ad indagare un qualsiasi problema del<br />

vivente, lo fa con le leggi della chimica e fisica. Se si eccettua il problema della mente umana,<br />

che esamineremo in seguito, si può dire che su questo c’è semplicemente l’unanimità. Oggi la<br />

biologia e la medicina si spiegano in termini di molecole, e il domani, che è già iniziato, ci<br />

darà una spiegazione a livello atomico e poi subatomico. Non solo, ma l’unificazione dei<br />

viventi tra loro e col non-vivente si è compiuta attraverso la presa di coscienza dell’enorme<br />

potere esplicativo della teoria dell’evoluzione.<br />

La derivazione del vivente dal non vivente<br />

Forse in pochi casi l’influenza che l’atmosfera culturale extrascientifica di una civiltà in un<br />

determinato momento storico risulta così lampante come nella vicenda che culminò nella<br />

teoria dell’evoluzione di Charles Darwin e Alfred Wallace nella seconda metà del XIX secolo<br />

(1859). Si è trattato veramente di un fenomeno simile a quello che si verifica quando ci viene<br />

proposta una figura ambigua, che a seconda di come lo guardiamo, può essere vista come una<br />

vecchietta o come una giovane donna, oppure come un vaso o come due volti che si guardano.<br />

Prima sembrava impossibile vedere il mondo in un modo, subito dopo sembra impossibile che<br />

gli altri vedano ancora l’immagine precedente. Viene spontaneo di chiedersi se le semplici<br />

anomalie in senso kuhniano presenti nella prima metà del XIX secolo siano sufficienti a<br />

spiegare questo improvviso mutamento di prospettiva o se invece questo sia una chiara<br />

dimostrazione del ruolo di credenze sociali o comunque extrascientifiche. La seconda ipotesi<br />

penso sia quella giusta 287 .<br />

Non è facile comprendere come in un clima culturale che aveva partorito un Lamettrie, e che<br />

aveva comunque visto la formulazione di una teoria evolutiva quale quella di Lamarck e del<br />

284 F. Jacob: La logica del vivente. Einaudi, Torino, 1971; p.9-10<br />

285 Ibidem; p. 13<br />

286 F. Jacob: Evoluzione e bricolage. Einaudi, Torino, 1978; p. IX.<br />

287 Si dimostra pertanto che, per quanto forti possano essere i condizionamenti sociali, è possibile<br />

tuttavia che il procedimento scientifico riesca a liberarsene.<br />

161


suo “minuto secondo”, l’idea di un’evoluzione abbia dovuto attendere tanto, per poi essere<br />

tumultuosamente accettata da tutto il mondo scientifico in essenzialmente una generazione o<br />

anche meno. Lamettrie, scacciato da due paesi, scrive nel 1748, oltre un secolo prima<br />

dell’Origine della Specie, e cinquant’anni prima che le teorie di Lamarck sprofondassero nel<br />

ridicolo:<br />

“Dagli animali all’uomo non c’è un passaggio brusco: i veri filosofi ne converranno. Che<br />

cos’era l’uomo prima dell’invenzione delle lingue ? Un animale della sua specie… che si<br />

distingueva dalla scimmia e dagli altri animali soltanto come se ne distingue la scimmia<br />

stessa, voglio dire per una fisionomia che prometteva un maggior discernimento…L’uomo<br />

non è certo impastato di un fango più prezioso: la natura ha usato una sola e medesima<br />

pasta, di cui ha variato soltanto i lieviti” 288 .<br />

Non aveva del resto Lamarck già individuato nel tempo il cardine dell’evoluzione, con<br />

l’argomento che divenne noto ai suoi coetanei come quello del minuto secondo ?<br />

“Se la durata della vita umana non si estendesse che alla durata di un minuto secondo, ed<br />

esistesse una delle nostre pendoli attuali, caricata e messa in moto, ogni individuo che<br />

contemplasse le lancette, non le vedrebbe mai cangiar di posto nel corso della propria vita.<br />

Le osservazioni di trenta generazioni nulla apprenderebbero di ben evidente sullo<br />

spostamento di quelle lancette, inquantoché il movimento essendo quello che opera in mezzo<br />

minuto, sarebbe troppo poca cosa per essere bene afferrato e, qualora osservazioni molto più<br />

antiche insegnassero che quella stessa lancetta ha realmente cangiato di posto, coloro a cui<br />

lo si affermasse non vi crederebbero punto, e supporrebbero esistere qualche errore, avendo<br />

ognuno d’essi sempre veduto quella lancetta allo stesso punto del quadrante”.<br />

Persone come Charles Lyell, che pure avevano fondato la geologia moderna, non erano giunti<br />

alla conclusione di un’evoluzione, pure, dopo Darwin, l’accettarono più o meno<br />

entusiasticamente. Al termine del dibattito tra Huxley e Wilbeforce si alzò, si tramanda,<br />

Joseph Hooker, noto e rispettato botanico, dichiarando:<br />

“Già quindici anni fa conoscevo questa teoria ed ero completamente contrario…ma a partire<br />

da quel momento mi sono dedicato assiduamente alla storia naturale, viaggiando per questo<br />

motivo in tutto il mondo. I fatti di questa scienza che prima mi erano inesplicabili sono<br />

diventati, uno a uno, e grazie a questa teoria, spiegabili; in tal modo la convinzione è stata<br />

gradualmente imposta a un convertito recalcitrante” 289<br />

Il suo intervento, sembra, fece pesare la bilancia dalla parte di Huxley. Ma, con grande<br />

sorpresa di Huxley, Darwin venne sepolto a Westminster: era solo il 1882. La teoria<br />

dell’evoluzione era ormai accettata persino dai suoi più fieri opponenti.<br />

Il ritardo nella piena formulazione dell’idea dell’evoluzione e la sua improvvisa accettazione<br />

possono essere spiegati considerando che esisteva una solida tradizione religiosa che<br />

interpretava la Bibbia in senso letterale. Inoltre non era ancora facile accettare che tutte le<br />

caratteristiche umane fossero spiegabili in termini completamente materiali. Come abbiamo<br />

visto in quegli anni la generazione spontanea, che avrebbe dovuto essere alla base della teoria<br />

evolutiva, riceveva una falsificazione. E’ chiaro d’altra parte che le idee non nascono<br />

288 J. Offroy de Lamettrie: L’uomo macchina e altri scritti. Feltrinelli, Milano, 1973; p. 45 e 56<br />

289 Citato in R.W. Clark: The survival of Charles Darwin: a biography of a man and an idea.<br />

Random House, New York, 1984; p. 144<br />

162


improvvisamente e che esse vengono preparate da un clima di contraddizioni che diventano<br />

via via più evidenti; autori eccellenti possono porre le basi di una nuova disciplina e persino<br />

arrivare ad esprimere ardite anticipazioni in un settore, pur tuttavia osteggiando ferocemente<br />

nuove idee in altri campi della scienza; altri possono arrivare ad un passo dalla soluzione per<br />

fermarsi poi quando essa è a portata di mano (è il caso ad esempio di Cuvier, di Lyell, di<br />

Buffon).<br />

La reazione alla teoria di Darwin fu acuta, sia da parte dei suoi detrattori che dei suoi<br />

estimatori. Se qualcuno dubita della rilevanza che alcune proposizioni scientifiche hanno per<br />

la vita, può leggersi questa struggente considerazione dell’allora Presidente della Columbia<br />

University (1873):<br />

“Se l’esito finale di tutte le vantate scoperte della scienza moderna è quello di rivelare<br />

all’uomo che egli è ancora più evanescente dell’ombra dell’ala di una rondine sul lago…,<br />

non voglio più scienza, vi prego. Voglio continuare a vivere nella mia semplice ignoranza,<br />

come i miei padri prima di me” 290 .<br />

Dalla pubblicazione del libro di Darwin sono passati più di cent’anni e l’idea di<br />

un’evoluzione, malgrado alcuni rigurgiti di creazionismo cui si assiste negli Stati Uniti 291 , ma<br />

stranamente non in Europa, è ormai ampiamente accettata. Anche Giovanni Paolo II ha<br />

recentemente affermato che l’evoluzione è un fatto, superando pertanto non solo Karl Popper,<br />

che, come abbiamo visto aveva grandi riserve sulla falsificabilità della teoria dell’evoluzione,<br />

ma anche i suoi più forti sostenitori, che in fondo la considerano pur sempre una teoria (che<br />

non può essere che temporanea). La ricerca scientifica ha accumulato in questo periodo<br />

un’infinità di argomenti a suo favore e ha indagato il modo con cui essa è avvenuta. Nel 1865<br />

l’abate Gregorio Mendel riferisce alla Società di Brno per lo Studio delle Scienze Naturali su<br />

esperimenti da lui condotti sui piselli: dovrà attendere altri 35 anni perché qualcuno prenda in<br />

considerazione le sue idee, e morirà dopo aver cessato i suoi esperimenti per sfiducia e per<br />

vecchiaia. Mentre le strutture a bastoncelli delle cellule, i cromosomi, furono ben presto<br />

individuati come attori nella commedia dell’ereditarietà, agli acidi nucleici toccò la stessa<br />

sorte che era toccata a Mendel: scoperti nel 1869 rimangono senza funzione fino al 1944, ma<br />

a partire dal 1953, con Watson e Crick, si rifanno ampiamente giungendo a plasmare gli stessi<br />

meccanismi evolutivi. Con essi la mutazione di Darwin non è più una entità metafisica ma un<br />

ben definito scambio di molecole che possiamo visualizzare su una lastra autoradiografica o<br />

più recentemente con un raggio laser in un sequenziatore automatico.<br />

Tutto è spiegabile all’interno del sistema<br />

La scienza per sua natura ammette che tutte le sue proposizioni sono probabili ma non certe<br />

292<br />

. Tuttavia, chiaramente, vi sono quelle più probabili e quelle che lo sono assai meno, anche<br />

se in un particolare istante possono godere di grande diffusione o popolarità. Quali di queste<br />

proposizioni possono e devono essere prese in considerazione e quali possono essere<br />

tralasciate ? Faccio un esempio assai semplice: che l’evoluzione abbia plasmato tutta la vita è<br />

praticamente certo al 100%, ma se sia avvenuta gradualmente o con salti, se la deriva genetica<br />

290 Citato in L. Eiseley: Il secolo di Darwin, Feltrinelli, Milano, XXX; p. 173<br />

291 Vedi ad esempio la legge recentemente passata nel Kansas e la diatriba che ne è seguita.<br />

292 Chi non fosse disposto a continuare una discussione basata su proposizioni non certe, potrebbe<br />

fare a meno di leggere questo libro e peraltro si troverebbe a disagio anche nella vita reale, dove sia<br />

il coniglio che l’Homo technologicus affrontano ogni momento situazioni di incerto esito.<br />

163


abbia giocato un grande ruolo o meno, evidentemente è ancora materia di discussione. Peggio<br />

ancora, se i geni egoisti esistano e se abbiano plasmato l’evoluzione è ancora più discutibile.<br />

Se poi parlare di memi egoisti abbia un qualche significato o utilità, è ancora più dubbio.<br />

Mentre è chiaro che ognuno è libero di inserire nella propria Weltanschauung tutti i dati che<br />

pensa degni di elaborazione, è altrettanto vero che se si cerca un consensus ci si deve attenere<br />

a quanto risulta relativamente certo. E’ chiaro che sarebbe un grave errore per chi cerca di<br />

fabbricare qualcosa con pretese di assoluto farsi fuorviare da dati che si rivelano poi<br />

solamente una moda.<br />

Qual è quindi il quadro sufficientemente certo che deriva dalle scienze biologiche:<br />

1. La vita è un fenomeno descrivibile in termini chimico-fisici, intesi in senso lato.<br />

2. La vita sulla terra si è evoluta in tutta la sua molteplicità a partire da uno o pochi elementi.<br />

3. Mentre sappiamo che questo è sicuramente avvenuto, i dettagli non sono ancora chiari,<br />

anche se è estremamente probabile che questo sia avvenuto per mutazioni casuali che<br />

vengono sottomesse al giudizio implacabile della natura (selezione naturale).<br />

4. In particolare non sappiamo come si sia formato il primo essere vivente<br />

5. Un secondo punto di grande difficoltà è la comparsa della coscienza ed in particolare la<br />

coscienza di sé. E’ presumibile che l’uomo sia la sola specie ad avere coscienza di sé,<br />

mentre la coscienza intesa in senso più ristretto è presumibilmente una cosa graduale<br />

comune a molti mammiferi e altri animali<br />

I buchi neri della teoria<br />

Come si vede, due sono i grossi punti in cui la biologia moderna segna il passo. La<br />

derivazione del vivente dal non vivente e la formazione delle facoltà superiori dell’uomo.<br />

La prima, come abbiamo visto nel capitolo, rappresenta un caso particolare dell’antica<br />

diatriba sulla generazione spontanea. Se la teoria dell’evoluzione vuole essere completa e<br />

spiegare il fenomeno della vita fino in fondo, deve postulare che, malgrado la distruzione<br />

della generazione spontanea da parte degli scienziati dell’Ottocento, almeno una volta deve<br />

essersi verificato che un vivente sia derivato da un non vivente. Quali prove esistono di<br />

questo: nessuna, ovviamente. Da un certo punto di vista la prova è una prova di carattere<br />

storico, che concerne un fatto avvenuto in un lontano passato, che non ha lasciato tracce di sé,<br />

almeno per quanto ci è dato di conoscere, a meno di considerare tutta la vita esistente come la<br />

traccia di questo evento. Ma ad un creazionista convinto, questo sembrerebbe una “petitio<br />

principii”. Certamente vi sono degli indizi, ad esempio l’ordine temporale nella comparsa di<br />

forme più complesse nei primi due-tre miliardi di anni. Ma questi indizi sono, appunto, solo<br />

indizi, nessuna corte li considererebbe al di là di ogni ragionevole dubbio. Purtroppo, le<br />

proposizioni storiche, come abbiamo visto nel primo capitolo, non sempre sono di facile<br />

verificazione. Una prova non definitiva ma quasi richiederebbe l’osservazione della<br />

formazione di un vivente o in laboratorio o in natura, magari su mondi che abbiano<br />

conservato caratteristiche simili a quelle che si reputa ci fossero sulla Terra 4 miliardi di anni<br />

or sono, quando la vita ebbe inizio 293 . Questo per il momento non è stato osservato.<br />

293 Come abbiamo discusso nell’introduzione, lo status scientifico delle proposizioni riguardo il<br />

passato non è chiaro, perché per molte di esse non è ottenibile e neanche pensabile una<br />

dimostrazione diretta. Sono esse metafisica ? Non sembrerebbe proprio. Tutti gli esperimenti in cui<br />

cerchiamo di ripetere la creazione di un vivente dal non vivente non dimostreranno mai che l’evento<br />

sia avvenuto, ma semmai lo renderanno plausibile. Ma cosa dire dell’ipotesi che in un’ora qualsiasi<br />

164


Tuttavia vi sono esperimenti che vanno in questa direzione. Quasi 50 anni fa, i primi<br />

aminoacidi sono stati ottenuti in laboratorio da una miscela di composti che avrebbero potuto<br />

essere presenti sulla Terra qualche miliardo di anni fa 294 . Gli aminoacidi sono i componenti<br />

primari delle proteine, e sono costituenti fondamentali della cellula, e anche dei virus. Oggi si<br />

tende a privilegiare un particolare tipo di acido nucleico, l’RNA, come primo attore nella<br />

nascita del vivente. Tutti questi esperimenti però devono essere considerati come primitivi.<br />

Per questo motivo, e anche perché, ad alcuni, i 4-5 miliardi di anni di età della Terra<br />

sembrano troppo pochi per spiegare la nascita della vita, c’è chi ha suggerito che la vita sia<br />

originata nello spazio e poi diffusa, non solo sulla Terra, da meteoriti o comete, su cui in<br />

particolare secondo Hoyle e Wickramasinghe, ci sarebbero delle condizioni molto favorevoli<br />

alla formazione di molecole organiche o addirittura di viventi (quest’ultima accezione della<br />

teoria si scontrerebbe tuttavia con le eccessive temperature presenti nelle comete).<br />

Anche elencando tutti gli esperimenti effettuati in questo settore e anche citando tutti i<br />

modelli matematici utilizzati per rendere verisimile il fenomeno, tuttavia non si uscirebbe dal<br />

fatto che si deve considerare questo passaggio ancora misterioso. Naturalmente, la stragrande<br />

maggioranza degli scienziati non punterebbe un soldo sull’ipotesi alternativa.<br />

Il secondo problema è la nascita della coscienza e delle funzioni superiori dell’uomo. Di<br />

nuovo, il problema è insoluto al momento. Qui dal punto di vista dei dati relativi al passato<br />

stiamo un po’ meglio. L’ipotesi prevista dalla teoria, che si dovessero trovare resti fossili che<br />

colmassero il buco tra l’H.sapiens e le scimmie antropomorfe ancora viventi è stata<br />

ampiamente corroborata. Ma siamo lungi dal provare ad un osservatore neutrale che questo<br />

non abbia comportato forze sovrannaturali. E’ chiaro che per uno che si muove in un’ottica<br />

riduzionista, la cosa appare logica. Ma è appunto qui il problema, che se sposiamo il<br />

riduzionismo tutto diventa logico. Ma se non lo condividiamo, se di nuovo vediamo la<br />

vicenda in una prospettiva storica, in cui ai riduzionisti rimane l’onere di dimostrare che tutto<br />

è riducibile, soprattutto quello che lo sembra di meno, allora si può tranquillamente<br />

riconoscere che siamo ancora lontani dall’aver risolto il problema della coscienza e delle<br />

funzioni superiori ad essa collegate.<br />

di un giorno qualsiasi del 1722, in un particolare punto delle coordinate spaziali, un uomo si sia<br />

rasato la barba ? come facciamo a verificarlo ? Il verisimile non è il vero, e se io dimostro che nel<br />

1722 il rasoio era già noto all’umanità, non provo ancora l’ipotesi: non saprò mai se quell’uomo in<br />

quel posto a quell’ora si è veramente tagliato la barba. Siamo pertanto di fronte ad una proposizione<br />

fondamentale per la teoria dell’evoluzione, la cui rigorosa dimostrazione non è possibile. Tuttavia,<br />

la scienza, entro certi limiti, è in grado di superare anche questo problema, basta che i suoi<br />

fondamenti teorici siano sufficientemente elastici e non ingabbino il suo avanzare in troppo strette<br />

maglie metodologiche.<br />

294 S. Miller: A production of aminoacids under possible primitive earth conditions. Science<br />

117:528-XXX, 1953<br />

165


Capitolo 11.<br />

IL DILEMMA DI DELGADO<br />

Il secondo grande buco nero del riduzionismo biologico è, appunto quello delle funzioni<br />

superiori dell’uomo. Darwin stesso si rese conto del problema, tanto da non trattare il<br />

problema dell’uomo nel suo primo libro, dedicandovi un libro a parte. E lo vide ovviamente<br />

anche Samuel Wilbeforce, che nella sua recensione all’Origine della Specie pubblicata pochi<br />

giorni dopo il famoso scontro con Huxley attaccò proprio nel punto che Darwin aveva cercato<br />

di evitare: l’origine dell’uomo.<br />

“La supremazia derivata (da Dio) dell’uomo sulla Terra; il potere umano dell’articolazione<br />

della parola; il libero arbitrio e la responsabilità umana; la caduta e la redenzione umana;<br />

l’incarnazione del figlio eterno; la presenza dello spirito eterno – tutto ciò è ugualmente e<br />

completamente inconciliabile con la degradante idea dell’origine bruta di chi è stato creato<br />

ad immagine di Dio” 295 .<br />

Certamente, in fondo, che tutto si sia evoluto, sembra assai ragionevole. Ma la personalità<br />

umana, le sue caratteristiche più elevate non potrebbero dipendere da qualche fattore nonmateriale<br />

? Come considerare e giudicare tutti i risultati che abbiamo mostrato nei capitoli<br />

precedenti (dal quinto all’ottavo): i dati della neuropatologia, la possibilità di replicare le<br />

funzioni superiori in strumenti computerizzati, le considerazioni sul linguaggio ? Non bisogna<br />

credere che vi sia unanimità tra gli scienziati. L’abbiamo visto: il 40% crede in un’anima<br />

immortale.<br />

Monisti, dualisti, panpsichisti, riduzionisti, emergentisti<br />

Vi sono due posizioni principali ed estreme, sulla natura di queste funzioni superiori<br />

dell’uomo che per semplicità possiamo qui raggruppare sotto la denominazione di coscienza<br />

di sé. O esse originano e hanno sede nel cervello. Oppure dipendono da un qualcosa di<br />

immateriale distinto dal cervello. La prima posizione è monista materialista (perché esiste<br />

solo una realtà, che è quella materiale), mentre la seconda viene detta dualista, perché esistono<br />

due realtà, una materiale ed una spirituale delle quali la seconda è responsabile della<br />

coscienza dell’uomo. Esiste anche una terza posizione, anch’essa estrema, di tipo monista<br />

idealista, in cui l’unica realtà che esiste è quella non materiale. Una quarta posizione,<br />

panteista o panpsichista, presuppone che la realtà sia materiale e spirituale nello stesso tempo,<br />

anche se non è facile comprendere come questo sia possibile.<br />

La contrapposizione tra monismo e dualismo è fondamentale per i nostri interessi, e per<br />

meglio comprendere quello che bolle in pentola nelle cucine delle neuroscienze, non si può<br />

prescindere da questo problema, non fosse altro che per ragioni storiche. Essenzialmente si<br />

tratta di sapere se siamo responsabili delle azioni, se possiamo agire talora liberamente, se la<br />

nostra vita è passeggera o se qualcosa di noi rimane. Il resto può essere un problema<br />

appassionante per molte persone o una terribile noia per altre, ma esula in ogni caso dal nostro<br />

scopo, anche se per meglio comprendere la base delle conclusioni si deve conoscere spesso<br />

come esse sono state ottenute.<br />

295 Citato in R.W. Clark. Op cit; p. 145<br />

166


Nello studio della coscienza di sé, è abitudine riferirsi alla posizione dualista come alla<br />

posizione cartesiana, mentre quella monista materialista potrebbe essere anche definita come<br />

lamettriana. Quest’ultima viene spesso definita anche come la posizione riduzionista. Dopo<br />

Lamettrie, il riduzionismo si diffonde a macchia d’olio tra gli scienziati che studiano i<br />

fenomeni naturali, anche alla luce degli stupefacenti successi dei fisici, i quali diventano<br />

capaci di ridurre il moto degli astri e il lancio di un proiettile a poche e chiare leggi di grande<br />

forza predittiva. Nel campo della coscienza, il riduzionismo stretto sostiene che lo studio del<br />

cervello mostrerà che ogni fenomeno che i dualisti attribuiscono ad un principio spirituale<br />

dipende da entità materiali che si comportano secondo le leggi della fisica e della chimica. In<br />

questo modo lo spirito diventa un fantasma (ghost) 296 . Per Gilbert Ryle, che coniò questo<br />

termine in un suo libro fortunato, l’idea dei dualisti che ogni uomo abbia un corpo e una<br />

mente è un “category mistake”, un errore dello stesso tipo di quello che compie uno straniero<br />

quando dopo aver visitato i colleges, le biblioteche e i reparti scientifici di Cambridge, chiede<br />

dove sia l’università. Nel suo libro, Ryle esamina le varie facoltà attribuite alla mente,<br />

giungendo alla conclusione che:<br />

“when we describe people as exercising qualities of mind, we are not referring to occult<br />

episodes of which their overt acts and utterances are effects: we are referring to those overt<br />

acts and utterances themselves” 297<br />

Così oggi non è molto facile trovare scienziati di fama che difendano a spada tratta la<br />

posizione dualista. Tra questi sicuramente vi è il neurofisiologo John Eccles. La sua posizione<br />

e i suoi argomenti sono stati compiutamente esposti più di 20 anni fa in un libro scritto<br />

insieme a Karl Popper, anch’egli chiaramente dualista. Come dice bene il titolo del loro libro,<br />

“The self and its brain”.<br />

Secondo Eccles, anche gli animali hanno la coscienza, ma non la coscienza di sé, che è<br />

esclusiva dell’uomo, forse degli ominidi e ad un grado bassissimo, forse degli scimpanzé. Vi è<br />

un “World 3”, che è specifico delle idee (reminiscenza platonica?) di cui fa parte anche<br />

l’anima. Dove avviene la connessione tra anima e corpo ? In alcuni moduli cerebrali, che<br />

sostituiscono in questo compito la ghiandola pineale che ormai è troppo impegnata nel<br />

produrre melatonina per i superuomini stressati dal jet lag. Siamo unici, gemelli con identico<br />

genoma sono pure unici e non vi è nessuna soluzione materialistica che è in grado di spiegare<br />

questa unicità, che è frutto, per Eccles, di un diretto intervento divino. Il cervello è sì un<br />

computer, ma l’anima è il programmatore del computer che lo sviluppa e lo perfeziona<br />

durante la vita.<br />

L’evoluzione può spiegare la coscienza, ma non certo la coscienza di sé. Secondo Eccles,<br />

Darwin è passato sopra a questo problema con grande non-chalance, e così fan tutti. Ma<br />

296 “The official doctrine, which hails chiefly from Descartes, is something like this. With the<br />

doubtful exceptions of idiots and infants in arms every human being has both a body and a mind. …<br />

His body and his mind are ordinarely harnessed together, but after the death of the body his mind<br />

may continue to exist and function. … Such in outline is the official theory. I shall often speak of it,<br />

with deliberate abusiveness, as the dogma of the Ghost in the Machine. I hope to prove that it is<br />

entirely false, and false not in detail but in principle”. G. Ryle: The concept of mind. Penguin<br />

Books Ltd, Harmondsworth, 1978. p. 13 e 17. La prima edizione è del 1949. Questo libro ebbe una<br />

grande influenza nel mondo anglosassone dell’epoca.<br />

297 G. Ryle, op. cit.; p. 26<br />

167


questo problema del sé, o della coscienza, o delle funzioni superiori, è lo scheletro<br />

nell’armadio dell’evoluzionismo 298 .<br />

Sia Eccles che Popper si definiscono interazionisti. Popper dal canto suo ci tiene a precisare di<br />

non avere intenzione “ of discussing the question of the immortality of the soul” e in tutto il<br />

libro non fa uso del termine inglese ‘soul’ bensì del termine ‘mind’ che è scevro di<br />

implicazioni spiritualistiche. Nel dialogo IX egli affronta “with a certain hesitancy” e<br />

brevemente, dietro sollecitazione di Eccles il problema dela sopravvivenza di questa ‘mind’<br />

dopo la morte. Quello che sembra di poter concludere è che Popper non ritiene che si possa<br />

con ragionevolezza pensare ad una sopravvivenza dopo la morte, e che in ogni caso ritiene<br />

che la maggior parte se non tutte le soluzioni date circa le modalità di questa vita dopo la<br />

morte siano non solo insufficienti ma addirittura terrificanti. Tuttavia, è innegabile che Popper<br />

scrive il suo libro per portar acqua al mulino dell’interazionismo, per convincerci che “there<br />

are mental states, and that these states are real since they interact with our bodies”; per<br />

sostenere la sua teoria dell’esistenza di tre differenti Worlds, ognuno dei quali è ugualmente<br />

reale, in particolare il World 3 che è “the world of the products of the human mind, such as<br />

stories, explanatory myths, tools, scientific theories (whether true or false), scientific<br />

problems, social institutions, and works of art”. Inoltre nel Dialogo IV troviamo questa<br />

sorprendente affermazione:<br />

“We know very well that the self is not a material substance, but, so to speak, the nonmaterial<br />

ghost in the machine is not a bad hypothesis with the aid of which the self may reach<br />

an understanding of the self”.<br />

E più avanti, rivolto a studenti che confondevano la sua posizione con quella di Ryle,<br />

esclama:<br />

“All right, I’ll make a confession, I believe in the ghost in the machine”. 299<br />

Eccles invece è meno riluttante a prendere una posizione di chiaro stampo dualista. Prendendo<br />

in considerazione i vari tipi di “unconsciousness”, Eccles afferma:<br />

“Finally, of course we come to the ultimate picture, what happens in death? Then all cerebral<br />

activity ceases permanently. The self-conscious mind that has had an autonomous existence in<br />

a sense in World 2 now finds the brain that it has scanned and probed and controlled so<br />

efficiently through a long life is no longer giving any message at all. What happens then is the<br />

ultimate question”.<br />

La risposta a questa fondamentale domanda la troviamo nel Dialogo IX, quando appunto<br />

Eccles cerca di far pronunciare Popper su questo problema. Citando un proprio libro, Eccles è<br />

alquanto esplicito:<br />

“I cannot believe that this wonderful gift of a conscious existence has no further future, no<br />

possibility of another existence under some other unimaginable conditions.”<br />

298 J.C. Eccles: Animal consciousness and human self-consciousness. Experientia 38:1384-1391,<br />

1982. “I believe that the emergence of consciousness is a skeleton in the cupboard of orthodox<br />

evolutionism”.<br />

299 K.R Popper & J.C. Eccles: The self and its brain. Springer-Verlag, Berlin, 1977. Le citazioni<br />

sono nell’ordine: p. 1000; p. 556; p. 36; p. 38; p. 464; p. 464.<br />

168


Per Eccles tuttavia il problema rimane aperto; appare comunque evidente che egli trova la sua<br />

posizione interazionistica perfettamente conciliabile con la teoria dei tre Mondi e con la<br />

possibilità che<br />

“there may be some central core, the inmost self, that survives the death of the brain to<br />

achieve some other existence which is quite beyond anything we can imagine.<br />

Secondo Eccles questa tesi è condivisa anche da altri noti neurofisiologi quali Penfield e<br />

Sherrington 300 . Anche Benjamin Libet, che fu il primo a riconoscere che un’attività<br />

cerebrale elettrofisiologicamente rilevabile diretta all’esecuzione di un movimento volontario<br />

precede la presa di coscienza del movimento stesso di qualche centinaio di millesecondi 301 ,<br />

può essere annoverato tra di essi. Anche alla luce di questo suo risultato, Libet ritiene che la<br />

coscienza richiede nuove leggi diverse da quelle note finora, e pertanto egli, per certi aspetti,<br />

potrebbe essere definito un dualista e un sostenitore del libero arbitrio, come risulta da quanto<br />

scrive:<br />

“The volitional process was initiated unconsciously in the brain, about 350 to 400<br />

milliseconds before the subject was aware of his/her intention to act. However, the<br />

appearance of conscious intention 150 milliseconds before the act allowed for the possibility<br />

of a role for the conscious function. That role would appear to be one of potentially blocking<br />

or vetoing the volitional process so that no actual motor action occurs…. Veto or self-control<br />

of the conscious urges or intentions to act is in accord with the ethical doctrines of major<br />

religions” 302 .<br />

Dall’altra parte della barricata, sono in tantissimi, tra cui spicca senza dubbio Francis Crick.<br />

Diversamente da Eccles e Libet, Crick non è un neurofisiologo, presumibilmente non ha mai<br />

eseguito un esperimento nel campo della neurologia. Tuttavia ha dalla sua il fatto di aver<br />

formulato la scoperta biologica del secolo, quella della struttura del DNA. (Vi è una tacita<br />

accettazione del fatto che se uno ha fatto una scoperta del genere, sia doveroso starlo a sentire<br />

anche su altri argomenti, perché potrebbe essere che abbia un’altra intuizione geniale. Questo<br />

ovviamente non sempre si verifica, e dopo i suoi colpi di genio, anche Einstein ha passato il<br />

resto della sua vita misurandosi con un solo problema senza tuttavia risolverlo). Verso la fine<br />

degli anni settanta Crick si è appassionato al problema della coscienza ed è stato uno di coloro<br />

che più si sono dati da fare per sostenere che la coscienza fosse un valido soggetto di studio<br />

della scienza. Nel suo libro “The astonishing hypothesis” Crick sostiene una tesi provocatoria<br />

e stupefacente, che tutte le attività mentali, inclusa la coscienza di sé, è spiegabile in termini<br />

di cervello.<br />

“The astonishing hypothesis is that you, your joys and your sorrows, your memories and your<br />

ambitions, your sense of personal identity and free will, are in fact no more than the behavior<br />

of a vast assembly of nerve cells and their associate molecules. As Lewis Carroll’s Alice<br />

might have phrased it, ‘You’re nothing but a pack of neurons’ ” 303 .<br />

300 Ibidem. Le citazioni nell’ordine sono a p. 372; p. 555; p. 557. Il riferimento a Penfield e<br />

Sherrington è a p. 558.<br />

301 B. Libet et al: Time of conscious intention to act in relation to onset of cerebral activities<br />

(readiness potential): the unconscious initiation of a free voluntary act. Brain 106:623-642, 1983<br />

302 B. Libet: Do the models offer testable proposals of brain functions for conscious experience?<br />

Adv Neurol 77:213-217, 1998<br />

303 F.C. Crick: The astonishing hypothesis. Scribner’s, New York, 1994; p. 3.<br />

169


Per Crick non ci sono homunculi nella nostra testa, non c’è un io, ovviamente non c’è alcuna<br />

anima e quello che di Descartes rimane è solamente la macchina, è scomparso anche il<br />

fantasma. L’ipotesi pertanto non è granché stupefacente, perché circolava da un paio di secoli<br />

almeno. L’unica cosa che c’è sono i miliardi di neuroni e il loro, questa volta sì, stupefacente<br />

numero di connessioni. Non vi è dubbio che Crick sia un classico riduzionista, anche se egli<br />

stesso ammette che al momento la coscienza rimane misteriosa.<br />

Anche per Alexander Luria, neurologo clinico che ha indagato la mente attraverso lo studio<br />

dei deficit funzionali derivanti da lesioni cerebrali traumatiche, non vi è dubbio che le<br />

funzioni corticali superiori siano semplicemente il prodotto dell’organizzazione neuronale.<br />

“Conquista fondamentale della psicologia contemporanea può essere considerato il rifiuto<br />

delle posizioni idealistiche che nelle funzioni psichiche superiori vedevano l’espressione di un<br />

principio spirituale, diverso da ogni altro fenomeno naturale, e il rifiuto dell’approccio<br />

naturalistico che nei processi psichici non vedeva se non proprietà naturali del cervello<br />

umano” 304 .<br />

Sotto l’influenza dell’opera di Pavlov, Luria ritiene che i processi psichici superiori non siano<br />

altro che “una forma complessa di attività riflessa, nella quale si rispecchia la realtà<br />

esterna”; essi “si formano nel processo della vita di relazione e nel corso dell’attività<br />

oggettiva del bambino”.<br />

Daniel Dennett, filosofo, si ascrive chiaramente tra i monisti materialisti. Per Dennett in linea<br />

di principio, il cervello non ha niente di diverso da un computer e un giorno i computer<br />

penseranno come gli uomini. (Il problema della relazione pensiero-computer viene trattato più<br />

avanti). Queste sue idee sono state espresse in saggi che sono diventati dei best seller quali<br />

“Consciousness explained” e “Darwin’s dangerous idea” 305 . Secondo Dennett, la visione<br />

materialista della nostra mente è ormai comunemente accettata. Essa è un fenomeno fisico<br />

come il magnetismo e la fotosintesi. La coscienza non solo si è evoluta durante gli ultimi<br />

milioni di anni, ma qualcosa di competitivo rimane anche nella mente stessa. Per usare una<br />

metafora, la coscienza non è un teatro, dove la gente calca la scena alternandosi secondo un<br />

copione davanti agli spettatori, bensì un’arena, dove diverse sequenze di avvenimenti lottano<br />

l’una con l’altra per avere il dominio. Non c’è una linea precisa di demarcazione tra ciò che è<br />

conscio e ciò che non lo è, ma c’è una competizione tra molti aspetti della attività mentale che<br />

ha luogo nel cervello. Per certi aspetti, la coscienza è un’illusione, nel senso che non esiste un<br />

qualcosa nel cervello che controlli tutte le sensazioni e le altre attività quali la memoria ecc<br />

306 .<br />

Anche Patricia Churchland è una monista materialista e riduzionista estrema. Ella ritiene che<br />

gli stati mentali possano essere ridotti a stati cerebrali, anzi, semplicemente sono stati<br />

cerebrali. La Churchland ha avuto un ruolo importante nel sostenere che la coscienza può<br />

essere studiata scientificamente e nel convincere i suoi colleghi filosofi di questo, coniando il<br />

304 A.R Luria: Le funzioni corticali superiori nell’uomo. Giunti, Firenze, 1967; p.33. Le due brevi<br />

citazioni che seguono sono a p. 33 e 37.<br />

305 D.C. Dennett: Consciousness explained. Little, Brown, XXX, 1991; D.C. Dennett. Darwin’s<br />

dangerous idea: evolution and the meanings of life. Simon & Schuster, New York 1995<br />

306 Oltre ai due libri precedenti, vedi anche: C. Delacampagni: Daniel C Dennett: l’ame et le corps?<br />

No problem. La Recherche, settembre 1999, p 102-104; T. Beardsley: Dennett’s dangerous idea. Sci<br />

Am, febbraio 1996, p 34-35<br />

170


termine “Neurofilosofia” 307 . Questa riduzione della psicologia (in senso lato) alla neurologia<br />

è per la Churchland il problema più importante della filosofia della mente.<br />

Tuttavia il concetto di riduzione, non è del tutto chiaro. E così, tra Crick e Eccles, vi è un<br />

“mare magnum” di posizioni ed opinioni, che rigettano il dualismo ma tendono anche a<br />

rifiutare il riduzionismo estremo. Il problema qui è, innanzitutto, di definizione. Cosa<br />

esattamente vuole dire “riduzione alle leggi fisico-chimiche” ? Vuol dire che tutto è spiegabile<br />

con le leggi fisico-chimiche note (riduzionismo attuale) o anche a quelle che verranno<br />

scoperte i prossimi millenni (riduzionismo di principio) ? Se ci si limita alle leggi note,<br />

sicuramente possiamo dire che vi è un’alta probabilità che questo riduzionismo estremo<br />

fallisca: vi è la sensazione che per studiare la coscienza ci manchi ancora qualcosa. Se si<br />

sceglie la seconda soluzione, ci si espone al rischio di critiche in quanto si scommette<br />

sull’ignoto sostenendo che esso ci darà ragione. Poi naturalmente vi è il problema di cosa<br />

voglia dire spiegabile: se si intende spiegabile come prevedibile o descrivibile, potrebbe<br />

essere che in effetti le leggi siano tutte materiali, ma che la limitatezza della mente umana non<br />

ci consenta di descrivere un processo complicato quale la coscienza: questo non vorrebbe<br />

significare che la realtà sia tutta materiale. Il cervello del topo non è in grado di comprendere<br />

come funziona il movimento dei pianeti del sistema solare, ma ciò non implica che le leggi<br />

che lo descrivono non facciano parte della fisica 308 . Anche il termine spiegabile pertanto è<br />

ingannevole, nel senso che se ridotto significa descrivibile o prevedibile, monismo e<br />

riduzionismo non sono sinonimi, perché una cosa potrebbe non essere riducibile ma essere<br />

tuttavia completamente materiale. D’altro canto, se effettivamente qualcosa non fosse<br />

riducibile, come potremmo noi sapere che tutto è materiale ? In qualche modo, se una cosa<br />

non fosse riducibile, sarebbe una freccia all’arco del dualista.<br />

Ma anche concesso tutto questo, cosa effettivamente significa “descrivibile secondo le leggi<br />

della fisica” ? Ora, se uno ammette un principio spirituale, si può permettere il lusso di non<br />

descriverlo: per definizione non fa parte del mondo materiale e pertanto io non sono obbligato<br />

a doverlo descrivere (il che non vuol dire che io non possa ugualmente tentare di farlo o<br />

pretendere di averlo fatto). Probabilmente in molti campi della fisica ci sentiamo assai<br />

soddisfatti di questa descrizione, anche se in certi casi dobbiamo comunque limitarci a<br />

descrizioni di tipo statistico o addirittura di tipo indeterministico. Ma in biologia, la nostra<br />

soddisfazione con la descrizione è più debole. Conoscere completamente il comportamento di<br />

una singola cellula ci permette di descrivere il comportamento di un insieme di cellule per non<br />

dire di un organismo ? Il comportamento di un neurone ci descrive il comportamento di due<br />

neuroni che stabiliscono una connessione tra loro ? Il comportamento di dieci neuroni ci<br />

permette di prevedere il comportamento dell’area di Broca ? E così via. Cento miliardi di<br />

neuroni ci permettono di descrivere la coscienza ? Forse il cervello dell’elefante ne ha di più,<br />

ma sembra sia necessario anche qualche altra cosa per poter prevedere che daranno origine<br />

alla coscienza. E infine, quel che è pure stupefacente, come può nascere la sensazione di<br />

dolore ? Come può una materia diventare sensibile ? Non si capisce proprio come dovrebbe<br />

fare per sentire dolore o piacere. Il fatto che il dolore possa avere un’utilità per il<br />

307 P.S. Churchland: Neurophilosophy. Toward a unified science of the mind-brain problem. MIT<br />

Press, Cambridge (MA), 1986<br />

308 Questa tesi ad esempio è sostenuta dal filosofo Colin McGinn nel suo “The problem of<br />

consciousness”. Semplicemente, il nostro cervello potrebbe essere così limitato da non essere in<br />

grado di afferrare cosa sia la mente o la coscienza, così come nessuno di noi si stupisce che i ratti<br />

non siano in grado di effettuare il calcolo infinitesimale. In effetti, noto con una certa apprensione<br />

che questa semplice argomentazione non viene seriamente presa in considerazione in questo<br />

periodo di grande euforia nel campo delle neuroscienze.<br />

171


mantenimento dell’omeostasi dell’organismo non ci aiuta affatto a comprendere come questo<br />

è successo.<br />

La risposta dei riduzionisti può essere quella di dire è così, un giorno sapremo come e perché.<br />

Altri invece hanno coniato il concetto di “proprietà emergente”. Con questo termine si vuole<br />

indicare che la proprietà in questione non è prevedibile in base a quanto conosciamo, ma<br />

viene acquisita a causa dell’interazione tra più entità dello stesso genere.<br />

In realtà l’emergenza non è limitata solo alle questioni biologiche. Sembra che nasca<br />

dall’interazione con altre entità. Potrebbe allora essere che l’emergenza sia una proprietà<br />

apparente, perché non abbiamo tenuto conto di tutti gli aspetti della realtà. La domanda<br />

pertanto è: per il demone di Laplace, esistono proprietà emergenti ?<br />

Per il nostro problema della coscienza, cosa vuol dire che la coscienza è emergente ? Vuol<br />

dire che non conosciamo ancora le leggi che regolano i neuroni o vuol dire che c’è<br />

qualcos’altro che li fa funzionare ? Se si invocano leggi di altra natura e di principi<br />

fondamentali, come ad esempio sembra che facciano tra gli altri Penrose e Chalmers, non si<br />

rischia comunque di finire nel dualismo o almeno nel panteismo o panpsichismo ? Cosa sia il<br />

dualismo è ben chiaro, cosa possa essere il panpsichismo lo è meno. Diffuso nelle società<br />

animiste e ad un livello assai più sofisticato nelle società asiatiche, il panteismo in Occidente<br />

ha avuto poca fortuna. Parte di questa scarsa fortuna certamente dalla difficoltà di esprimere<br />

in termini logici e chiari i suoi concetti generali. Non si capisce bene come la materia possa<br />

essere o acquisire proprietà spirituali: derivano queste dalle proprietà della materia, nel qual<br />

caso si ricadrebbe in un monismo materialista o non derivano da esse, nel qual caso<br />

sembrerebbe doversi classificare come dualismo?<br />

La posizione di alcuni filosofi o scienziati pertanto non è sempre chiara a questo proposito.<br />

Spesso poi il dibattito si sposta da quello della neurofisiologia stretta a quello della<br />

neurofisiologia fantastica. Prendiamo questo esempio: per sostenere che la coscienza possa<br />

sorgere in un sistema sintetico (computer), Chalmers presenta questo esperimento mentale:<br />

consideriamo un sistema di chips organizzati come i neuroni in un cervello, in cui ogni chip fa<br />

esattamente quello che fa il neurone. Dopo di che si propone di immaginare che ogni chip<br />

venga man mano scambiato con un neurone. Non si sa bene che vantaggio si possa avere da<br />

questi esperimenti mentali. Alcuni di essi sono stati notoriamente usati in fisica, ma il fatto<br />

che ne nascano paradossi potrebbe far pensare che spesso ci sia qualcosa di sbagliato. E’<br />

presumibile che se un chip si comportasse esattamente come un neurone, dovrebbe essere<br />

costruito con componenti molecolari tali da essere lui stesso un neurone identico all’altro. Vi<br />

è tutta una serie di interessantissime e acutissime variazioni sul tema, molte delle quali sono<br />

veramente piacevoli da leggere, ad esempio quelle raccolte da Hoffstader e Dennett in un loro<br />

libro già menzionato 309 . Ovviamente nessuno di noi può escludere che quanto descritto da<br />

filosofi, narratori e scienziati sul problema della trascrivibilità degli stati cerebrali e mentali in<br />

un software non possa avvenire ma al momento il tutto sembra un po’ troppo vago per<br />

considerarlo un passo avanti nella comprensione della coscienza.<br />

D’altro canto non si capisce bene come Chalmers possa da un lato essere un sostenitore della<br />

possibilità che un computer possa un giorno essere cosciente, ma che la coscienza umana sia<br />

una cosa che non segua le leggi della fisica. In effetti sembra assai difficile stare fuori dal<br />

monismo e dal dualismo insieme. Coloro che non accettano il riduzionismo estremo, devono<br />

spiegare come sia possibile un qualcosa che stia in mezzo tra queste due. Non è detto che una<br />

309 D.R. Hofstadter & D.C. Dennett. L’io della mente. Adelphi, Milano, 1985<br />

172


terza posizione non sia possibile, ma vi sono delle difficoltà da sormontare che finora non lo<br />

sono state.<br />

Il difficile concetto di anima<br />

Se i monisti hanno una certa difficoltà con i concetti di mente e coscienza, e ad ammettere<br />

talora l’esistenza di proprietà che sono materiali ma anche emergenti, e se è alla portata di<br />

tutti constatare che non esiste al momento una spiegazione adeguata dei fenomeni mentali, per<br />

non parlare di quell’eccezionale fenomeno che è la coscienza di sé, i sostenitori del concetto<br />

di anima non stanno molto meglio.<br />

E’ pacifico che un dualista intelligente ha già da tempo accettato di escludere dalle proprietà<br />

dell’anima molte di quelle caratteristiche come memoria, intelligenza e linguaggio, che<br />

seppure particolarmente importanti, non rivestono in realtà alcuna rilevanza per la peculiarità<br />

umana. Ma non si può togliere tutto dall’anima senza svuotarla del suo significato, ed almeno<br />

alcuni comportamenti che potremmo dire morali devono rimanerle peculiari, pena svuotarla<br />

completamente di contenuto. Come scrive Josè Delgado:<br />

“Questo è il dilemma dell’anima: se accettiamo le attività mentali come sue manifestazioni,<br />

allora le modificazioni di queste funzioni mediante agenti fisici come la stimolazione elettrica<br />

del cervello starebbero a significare una manipolazione dell’anima per mezzo dell’elettricità,<br />

e ciò è contrario alla logica in quanto l’anima è immateriale per definizione. Se d’altro canto<br />

priviamo l’anima di tutte le funzioni mentali che si dimostrano dipendenti dalla fisiologia<br />

cerebrale, allora essa si riduce a un’astrazione non solo incorporea, ma che sta alla realtà in<br />

un rapporto simbolico di secondaria importanza” 310<br />

L’autore di questo brano è stato un neurofisiologo alquanto discusso negli anni sessanta, per i<br />

suoi studi eseguiti sulla stimolazione di aree cerebrali specifiche del cervello. Con la<br />

stimolazione di alcune aree si ottenevano cambi comportamentali, riconducibili a sensazioni<br />

quali paura, aggressività, piacere. Qualcuno ipotizzò che questi studi aprivano la via al<br />

controllo elettrofisiologico del comportamento umano, una prospettiva assai lontana secondo<br />

Delgado. Oggi Delgado è completamente dimenticato, anche se non sono sicuro che i suoi<br />

timori non possano avverarsi.<br />

Ma a parte questi esperimenti controversi, quello che sembra incontrovertibile è che la nostra<br />

personalità e alcune manifestazioni di tipo “morale” possono dipendere da lesioni cerebrali<br />

che colpiscono zone specifiche del cervello, quali lesioni traumatiche, vascolari e tumorali. Lo<br />

abbiamo visto nei dettagli nel capitolo sulla neuropatologia. Non solo, ma è esperienza di tutti<br />

i giorni che l’anima sembra influenzabile da molecole chimiche sia naturali, come gli ormoni<br />

e alcune sostanze psichedeliche, sia prodotte dall’uomo, come un notevole numero di farmaci<br />

psicoattivi. Entro certi limiti, che però non sono ancora ben definiti, si può influire sul<br />

comportamento umano con metodi chimici. Come è possibile che ciò avvenga: se l’anima è<br />

spirituale, come può una lesione del lobo frontale togliere la capacità di discernere il bene dal<br />

male.<br />

In realtà, la dipendenza dal corpo è sempre stato un problema per l’anima. Tutti accettiamo<br />

che i bambini non abbiano discernimento, il che è come dire che la loro anima deve ancora<br />

310 J. Delgado: Genesi e libertà della mente. Boringhieri, Torino, 1973. La prima edizione è del<br />

1969<br />

173


maturare. E quando invecchiamo siamo anche disposti a riconoscere che non solo la nostra<br />

forza fisica, ma anche la nostra forza di volontà può diminuire. Come si concilia questo con<br />

un’anima che esiste prima e indipendentemente dal corpo ? Se un’anima deve svilupparsi nel<br />

tempo, vuol dire che essa non è indipendente da queste caratteristiche che sono tipiche della<br />

materia.<br />

E ancora, come può l’anima essere in rapporto col corpo, con la materia. Il problema dei<br />

rapporti corpo anima, per i sostenitori del dualismo, non è affatto nuovo, e le risposte sono<br />

altrettanto vaghe quanto quelle che possono fornire i monisti quando vengono richiesti di dare<br />

una spiegazione alle funzioni superiori dell’uomo. C’è da chiedersi se i moduli corticali<br />

invocati da Eccles siano poi tanto migliori della ghiandola pineale di Cartesio. Da un lato<br />

quindi vi è l’incapacità completa di spiegare come i fenomeni mentali elevati possano<br />

derivare da connessioni neuronali, dall’altro vi è l’assoluta impossibilità a spiegare come<br />

eventi materiali possano alterare una sostanza che dalla materia dovrebbe essere indipendente.<br />

Si deve pertanto ammettere che storicamente parlando, l’attacco alle convinzioni dei dualisti,<br />

portato oggi dai monisti sulla base dell’intelligenza artificiale, della neurologia clinica e delle<br />

neuroscienze non ha avuto lo stesso successo di quello portato dalla biologia molecolare a<br />

proposito della spiegazione degli altri fenomeni viventi. Ovviamente tutte queste difficoltà<br />

non sono dovute a scarso intuito degli studiosi di neuroscienze o di scienze cognitive, ma al<br />

fatto che il problema è difficile, secondo alcuni insuperabile. Nessuno ha la più pallida idea di<br />

come faccia la materia a provare sensazioni. Si tratta, già a questo livello, di una proprietà<br />

emergente stupefacente, superiore per difficoltà di comprensione al passaggio dalla materia<br />

inanimata a quella animata. Ma purtroppo per gli scienziati e (s)fortunatamente per l’uomo, vi<br />

è di peggio. Vi è il libero arbitrio, quella strana sensazione di essere padroni delle proprie<br />

scelte. Che ai nostri fini in realtà è l’unica cosa che ci interessa.<br />

174


Capitolo 12: Il monito di Epicuro<br />

Di tutte le caratteristiche che mai sono state assegnate alla specie umana, quella della libertà è<br />

senz’altro la più alta. A dispetto di tutte le teorie che vedono i rapporti economici come<br />

l’unica molla della storia, la vita e l’azione di molti uomini si è svolta sulla base della<br />

credenza che gli uomini possano e debbano essere liberi. Se gli uomini avessero creduto che<br />

le loro azioni potessero essere costrette non solo da una autorità politica dittatoriale ma anche<br />

dalla dittatura interna all’individuo stesso, non vi è dubbio che la storia sarebbe stata diversa.<br />

Definire come non senso il problema del libero arbitrio sarebbe probabilmente una delle più<br />

grosse corbellerie della filosofia della scienza. Perché ? Innanzitutto perché o il libero arbitrio<br />

esiste, e allora ha senso studiarlo, oppure esso è un’impressione e allora la scienza deve<br />

affrontare il problema di come gli eventi cerebrali determinano le nostre azioni. In secondo<br />

luogo, perché tutte le società, nessuna esclusa, dalle più primitive alle più sofisticate, si<br />

basano sull’assunzione che il libero arbitrio esiste.<br />

Nessuna moderna società può edificare un sistema di valori se nega il libero arbitrio. Se ben si<br />

riflette, le nostre società sono tutte basate su premi e castighi che hanno la loro ragion d’essere<br />

nel concetto di responsabilità personale. Il problema del libero arbitrio è pertanto di<br />

importanza fondamentale non solo per la nostra società ma anche a livello del singolo<br />

individuo. Senza di esso non può sopravvivere il nostro modo di vivere, ma anche la nostra<br />

individualità. Tanto vale quindi cercare di affrontare questo problema in maniera adeguata.<br />

Potrà anche essere che alla fine si concluda che il libero arbitrio non esiste, ma dire che si<br />

tratta di un problema senza senso significa nascondere la testa sotto la sabbia. In pratica, si<br />

adotterebbe l’approccio dello struzzo: quando il problema è difficile, lo si elimina.<br />

Contro la nostra libertà si eleva l’argomentazione deterministica. Secondo questa dottrina, che<br />

ha la sua famosa formulazione nel demone di Laplace, tutto è prevedibile, a condizione di<br />

avere una mente sufficientemente in grado di conoscere tutto lo stato del sistema e le leggi<br />

che lo regolano. Tuttavia, se la formulazione di Laplace è la più citata, la problematica che vi<br />

sta sotto è vecchia quanto la filosofia greca. Ecco cosa scrive Epicuro in suo frammento della<br />

Lettera a Meneceo a noi giunto:<br />

“Era meglio seguire i miti sugli dei piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici: quelli<br />

infatti lasciano almeno la speranza di placare gli dei mediante onori, ma il destino comporta<br />

una necessità implacabile” 311 .<br />

La sentenza di Epicuro è qui rivolta alla fisica di Democrito, al cui atomismo egli è comunque<br />

debitore. Democrito, e prima di lui Leucippo, di cui pochissimo conosciamo, per primi in<br />

Occidente introdussero il monismo materialista. La vera ragione per cui Democrito postulò<br />

l’esistenza di atomi non era di natura chimica o fisica, ma più che altro era di natura logica.<br />

Secondo Democrito, le rette su cui si muovevano il pié veloce Achille e le frecce di Zenone<br />

non potevano essere divisibili all’infinito, malgrado quanto si assumesse nella geometria<br />

“euclidea” che allora nasceva, pena l’accettazione delle argomentazioni del filosofo di Elea,<br />

311 Epicuro: Lettera a Meneceo. “Destiny, which some introduce as sovereign over all things, he<br />

laughs to scorn, affirming rather that some things happen of necessity, others by chance, others<br />

through our own agency. For he sees that necessity destroys responsibility and that chance or<br />

fortune is inconstant; whereas our own actions are free, and it is to them that praise and blame<br />

naturally attach”.<br />

175


discepolo di Parmenide. La realtà non era divisibile all’infinito, i suoi costituenti, per piccoli<br />

che fossero, non erano punti geometrici.<br />

Gli atomi per Democrito sono i costituenti ultimi dell’universo, di numero infinito e dotati di<br />

movimento. Muovendosi questi atomi si aggregano e formano infiniti mondi, differenti tra<br />

loro. Con essi tutto si spiega, dalla cosmogonia alla psicologia. Come dice l’Alighieri,<br />

Democrito “il mondo a caso pone”, non esiste un disegno intelligente nel mondo. L’unica<br />

altra filosofia materialistica dell’epoca è probabilmente la scuola indiana del “carvaka”, che<br />

ha interessanti legami con la fisica di Democrito e con l’etica di Epicuro 312 .<br />

La filosofia di Epicuro viene spesso ritenuta equivalente a quella di Democrito, salvo<br />

enfatizzarne gli aspetti etici, che in effetti costituivano il vero interesse del movimento<br />

epicureo. Alla dottrina fisica di Democrito, tuttavia, Epicuro aggiunge la teoria del<br />

“clinamen”. Per spiegare le collisioni tra atomi, che danno origine ai mondi, Epicuro pensa<br />

necessario introdurre la nozione di “deviazione casuale”, senza la quale gli atomi<br />

continuerebbero a cadere nel vuoto parallelamente senza incontrarsi. Questi infatti, nel vuoto,<br />

in cui non trovano alcuna resistenza, continuerebbero a cadere tutti con la stessa velocità e<br />

non potrebbero mai aggregarsi gli uni sugli altri, come invece postulava Democrito cui era<br />

sfuggito questo aspetto del problema (egli pensava che atomi più pesanti cadessero più<br />

velocemente e che finissero per scontrarsi con quelli più leggeri). Tito Lucrezio Caro,<br />

scrivendo quasi due secoli dopo la nascita di Epicuro, sottolinea questo grave errore di<br />

Democrito:<br />

“Quod si forte aliquis credit graviora potesse<br />

corpora, quo citius rectum per inane feruntur,<br />

incidere ex supero levioribus atque ita plagas<br />

gignere quae possint genitalis reddere motus,<br />

avius a vera longe ratione recedit” 313<br />

Se l’introduzione del clinamen avviene per questa ragione fisico-logica, la vera motivazione<br />

che spinse Epicuro a introdurre il clinamen era di natura etica, e cioè quella di salvare la<br />

libertà umana, messa a rischio dallo stretto determinismo di Democrito. Questo infatti è il<br />

significato del frammento sopra citato: se accettiamo il materialismo di Democrito,<br />

accettiamo anche il suo determinismo. Dove va a finire la nostra libertà ? a questo punto<br />

sarebbe meglio che ci fossero gli dei, che possiamo pur sempre sperare di corrompere,<br />

piuttosto che dover affrontare il freddo determinismo dei “fisici”. E così lo riecheggia<br />

Lucrezio:<br />

“Denique si semper motus conectitur omnis<br />

et vetere exoritur novus ordine certo<br />

nec declinando faciunt primordia motus<br />

principium quoddam quod fati foedera rumpat,<br />

ex infinito ne causam causa sequatur,<br />

312 S. Radhakrishnan (a cura di): Storia della filosofia orientale. Feltrinelli, Milano, 1962; p.155-<br />

162.<br />

313 Lucrezio: De rerum natura. <strong>Libro</strong> II, vv. 225-230. I versi successivi sono sempre dal libro II:<br />

251-262 e 289-293. La traduzione è: “Se infatti qualcuno per caso ritiene che gli atomi più pesanti,<br />

poiché cadono verticalmente nel vuoto con maggiore velocità, possano cadere dall’alto su quelli<br />

più leggeri e così generare gli urti capaci di provocare i moti generatori, ebbene costui, fuori<br />

strada, si stacca molto dalla vera dottrina”.<br />

176


libera per terras unde haec animantibus exstat,<br />

unde est haec, inquam, fatis avulsa voluntas,<br />

per quam progredimur quo ducit quemque voluptas,<br />

declinamus item motus nec tempore certo<br />

nec regione loci certa, sed ubi ipsa tulit mens?<br />

Nam dubio procul his rebus sua cuique voluntas<br />

principium dat et hinc motus per membra rigantur. 314<br />

Lucrezio conclude:<br />

“ Sed ne mens ipsa necessum<br />

intestinum habeat cunctis in rebus agendis<br />

et devicta quasi cogatur ferre patique,<br />

id facit exiguum clinamen principiorum<br />

nec regione loci certa nec tempore certo” 315<br />

Ovviamente, l’introduzione del clinamen avviene ad un prezzo, che sia Lucrezio che Epicuro<br />

sono disposti a pagare pur di salvare il libero arbitrio umano: da dove viene il clinamen? È<br />

esso un principio non materiale? A distanza di qualche secolo, i primi filosofi cristiani<br />

avranno facile gioco a mostrare le difficoltà logiche di questa soluzione di Epicuro al<br />

problema della libertà umana, o meglio a sottolinearne l’incompatibilità con una dottrina<br />

materialistica compiuta.<br />

La schiavitù dei geni.<br />

Oggi alcuni manifestano la preoccupazione che i biologi abbiano sostituito i “fisici” di<br />

Epicuro. Come abbiamo visto nel capitolo dell’altruismo, alcuni biologi sostengono che noi<br />

siamo i nostri geni. Non solo il comportamento individuale ma anche quello sociale è<br />

spiegabile attraverso lo studio dei geni e dei processi evolutivi da cui essi sono risultati e che<br />

essi stessi hanno contribuito a forgiare.<br />

Alcuni di essi, come abbiamo visto nel capitolo 4, vengono racchiusi sotto la denominazione<br />

di sociobiologi, ma vi sono anche psicologi e genetisti, accomunati dal desiderio di riuscire a<br />

comprendere i fenomeni complessi sociali e psicologici sulla base della specifica<br />

conformazione del nostro DNA, sia a livello di comportamenti di specie che a livello<br />

dell’individuo. Nel primo caso, la specifica struttura del DNA dell’H. sapiens sarebbe<br />

responsabile dei nostri comportamenti comuni a tutti gli uomini, mentre le particolari<br />

differenze tra un individuo e l’altro riscontrabili nel DNA, cioè i polimorfismi genetici,<br />

sarebbero responsabili delle differenze tra uomo e uomo.<br />

E’ chiaro che il destino dell’uomo può in certi casi dipendere in maniera evidente dalla nostra<br />

conformazione genetica. Basti pensare che un singolo nucleotide mutato può segnare la vita di<br />

314 “Infine, se ogni moto è sempre connesso (ad altri) e dal movimento vecchio sorge sempre il<br />

nuovo con ordine determinato, e con la deviazione gli atomi non determinano un inizio di<br />

movimento che spezzi le leggi del fato, in modo che da tempo infinito causa non sussegua a causa,<br />

da dove ha origine sulla terra per i viventi questa libera volontà, da dove deriva - dico – questa<br />

volontà indipendente dai fati in virtù della quale andiamo dove il piacere conduce ciascuno”.<br />

315 “Ma che la mente stessa non abbia una necessità interna nel compiere tutte le cose, e non sia<br />

costretta, come sopraffatta, a subire e a patire, questo lo provoca una leggera deviazione degli<br />

atomi, né in un luogo determinato né in un tempo determinato”.<br />

177


una persona condannandola fin dalla nascita, o addirittura nell’utero, ad un destino crudele.<br />

Migliaia di queste malattie sono note e presto i geni responsabili di queste patologie saranno<br />

tutti identificati. Tuttavia anche in questo caso non è possibile dire che ne viene dettato il loro<br />

comportamento. Il destino non è il comportamento, e non sempre le due cose coincidono.<br />

Siamo disposti ad accettare l’eventualità che un crudele tiranno possa condannarci a morte,<br />

ma non sopporteremmo l’idea che egli riesca a muoverci come burattini. Come dimostra la<br />

storia, moltissime persone sono morte per evitare di mutare il loro comportamento 316 .<br />

Al di fuori di queste malattie genetiche dovute all’alterazione di un solo gene, neppure il<br />

destino biologico, del resto, è completamente segnato. Nelle malattie multifattoriali, quali il<br />

diabete, nessuno ha ancora identificato tutti i geni coinvolti, ed è comunque opinione generale<br />

che altri fattori ambientali, quali ad esempio la dieta o le infezioni, possono modificare il<br />

destino dei diabetici, modificandone la gravità o l’età di manifestazione della malattia, se non<br />

addirittura l’insorgenza della malattia stessa. E in certi casi questo è vero anche per alcune<br />

malattie monogeniche. Prendiamo la fenilchetonuria, una malattia metabolica, il cui decorso<br />

può essere completamente mutato se i bambini affetti vengono mantenuti ad una dieta priva di<br />

fenilanalina. E prendiamo un altro caso, il cui gene è stato recentemente modificato, quello<br />

della “Malattia proliferativa legata al cromosoma X”. Questi bambini hanno un difetto in un<br />

gene che regola la proliferazione dei loro linfociti che non sembra provocare nessun effetto<br />

dannoso, a meno che il bambino non incontri un virus particolare, il virus di Epstein Barr:<br />

tuttavia se contraggono questa infezione, la maggior parte di loro viene a morte.<br />

Se neanche la patologia è completamente scritta nei geni, qual è la probabilità che il nostro<br />

comportamento sia scritto nei geni? La risposta alla domanda è di tipo qualitativo, del tipo: in<br />

parte è scritto e in parte no. Se si cerca di quantificare le proporzioni rispettive, si rischia di<br />

risultare per il momento patetici. Semplicemente non vi sono dati. Il caso dell’intelligenza è<br />

forse il più studiato, e talora si cita il 50% come il calcolo dell’ereditabilità dell’intelligenza.<br />

Qualunque valore si attribuisca a questa stima, per altre caratteristiche umane, più<br />

difficilmente studiabili come la bontà, l’altruismo, la volontà ecc, non si sa assolutamente<br />

nulla.<br />

E’ bene motivare qui quanto è stato affermato, riassumendo brevemente le conclusioni<br />

esposte nel capitolo 4. Vi sono due tipi di studi che vertono sull’argomento della<br />

determinazione genica del comportamento. Il primo consiste nello studio delle variabilità<br />

individuali da un punto di vista genetico, così come si fa per lo studio delle malattie. Si<br />

potrebbe associare una particolare variante genetica (polimorfismo) ad una particolare<br />

caratteristica comportamentale: ad esempio, l’omosessualità, l’intraprendenza, l’aggressività<br />

ecc. Se si trovasse un’associazione statisticamente significativa tra un polimorfismo e un<br />

comportamento, si potrebbe dire che in parte i geni determinano i comportamenti. Come si è<br />

detto, non vi sono dati incontrovertibili sinora, ma potrebbero esserci in futuro. Tuttavia<br />

nessuno si aspetta più che una blanda correlazione, e quindi una debole predisposizione.<br />

Il secondo si basa su una prospettiva evoluzionista ed etologica. Studiando i comportamenti di<br />

specie sociali, si nota che alcuni comportamenti, che potrebbero rappresentare “in nuce”<br />

comportamenti umani, sono geneticamente determinati. E’ la tesi appunto dei sociobiologi,<br />

che bisogna ricordarlo, hanno tratto i loro dati soprattutto dagli insetti. Tuttavia, la<br />

trasferibilità a specie più evolute dei risultati ottenuti in specie di complessità tremendamente<br />

inferiore, è tutta da dimostrare. Ora, l’evoluzione ed in particolare l’analisi genetica<br />

dell’evoluzione ha, come abbiamo visto, sottolineato la fondamentale università dei viventi.<br />

316 Dante Alighieri: “ Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.”<br />

178


Ma questa grande verità non può farci dimenticare le differenze che intercorrono tra insetti e<br />

uomini. Senza contare che al di fuori degli insetti, lo studio del comportamento animale “sul<br />

campo” è di una difficoltà estrema e che le tesi della sociobiologia sui meccanismi stessi che<br />

spiegano il comportamento sono al momento al massimo verosimili, ma non provate.<br />

Abbiamo visto ad esempio nella S. suricatta che queste assunzioni che sembrano<br />

comprensibili a livello teorico non vengono poi confermate dai fatti.<br />

E’ poi da notare che molto spesso i comportamenti che vengono studiati come geneticamente<br />

determinati sono tra quelli che lo potrebbero essere al massimo livello. In altre parole, è<br />

probabile che le pulsioni che dirigono gli animali verso l’acquisizione di cibo o la propria<br />

riproduzione siano tra quelli che sono più strettamente legate ai geni, anche nel caso<br />

dell’uomo. Ma quelli che compaiono esclusivamente nei primati potrebbero dipendere assai<br />

meno dai geni. E in fondo sono questi che interessano nel caso del libero arbitrio. Sapere che<br />

sono costretto dai miei geni a respirare, mangiare, bere, ecc non sconvolge nessuno, anche se<br />

in certi casi la necessità di queste azioni può essere noiosa. Ma sapere se un mio gesto sia<br />

realmente altruista mi interessa di più.<br />

Negli studi sull’altruismo c’è anche un po’ di confusione. Cosa hanno a che fare gli scambi di<br />

favori con l’altruismo ? Per altruismo, si intende la capacità di agire senza ricavare un<br />

beneficio o addirittura di rimetterci la pelle per salvare un altro. Esistono atti altruistici ?<br />

anche se qualcuno lo nega, sembra che possano esistere e che siano esistiti. Ci sono anche in<br />

campo animale ? sembrerebbe di sì, perché in certi casi le madri difendono i loro cuccioli o<br />

addirittura i cani difendono i loro padroni. Sono condannati a fare quello che fanno o ne sono<br />

coscienti ? Non vi è dubbio che nel caso dell’uomo la maggior parte di casi di altruismo vero<br />

sono fatti in piena coscienza.<br />

Esistono studi genetici sul vero altruismo ? sulla bontà, la volontà, ecc. ? La risposta è no.<br />

Potrebbero esistere in futuro ? Sì. Si potrebbe ad esempio pensare che studi futuri dimostrino<br />

che alcuni polimorfismi siano legati ad uno specifico carattere comportamentale, e tra questi<br />

si potrebbe studiare anche la propensità all’altruismo. E’ presumibile che si otterranno dati<br />

cogenti per una notevole predisposizione genetica ? nessuno può dirlo, ma, come abbiamo<br />

detto, sembra poco probabile che la componente genetica sia superiore a quella assegnabile ad<br />

altre caratteristiche fisiche o psicologiche.<br />

La conclusione che può essere derivata da tutta la mole dei dati disponibili tuttora sui<br />

problemi di geni e comportamento, con particolare attenzione a quelli generati sull’altruismo,<br />

come indicativi di una tra le più alte caratteristiche umane che chiamano in causa le ragioni<br />

del nostro operare e quindi in ultima analisi il libero arbitrio, è che i geni possono determinare<br />

in parte il nostro comportamento, e che probabilmente alcune sezioni del nostro<br />

comportamento lo sono più che altre. Tuttavia non sembra che siano in grado di determinarlo<br />

completamente, e soprattutto è assai probabile che pressioni e coercizioni non genetiche<br />

possano ottenere modificazione del comportamento di ordini di grandezza superiore a quello<br />

specificato dai nostri geni. La storia delle dittature mostra da un lato che l’uomo non è<br />

coercibile in tutti i casi, dall’altro che l’uomo è veramente adattabile a tutti gli ambienti, non<br />

solo quelli spaziotemporali ma anche quelli ideologici 317 .<br />

317 Confronta il film Zelig di Woody Allen<br />

179


Libertà e cervello<br />

Vi è poi un altro motivo per pensare che i geni non possano determinare completamente la<br />

personalità di un individuo. Quando il cervello si forma durante lo sviluppo embrionario,<br />

alcune sue caratteristiche morfologiche e funzionali sono chiaramente predeterminate, e<br />

questo è il motivo per cui il nostro cervello è diverso da quello poniamo, dello scimpanzé.<br />

Altre invece sono chiaramente in relazione a stimoli che avvengono durante o dopo il parto.<br />

Come abbiamo visto, i neuroni sono ampiamente plastici e in seguito a traumi o a deficit di<br />

varia natura, le aree cerebrali possono assumere valenza diversa, anche se sempre, sembra,<br />

con una certa logica. E’ presumibile quindi che alcune grosse connessioni neuronali<br />

avvengano su base genetica esclusiva. Ad esempio, gli assoni della parte mediale della retina<br />

decussano sempre a livello del chiasma ottico, nell’uomo e nel topo, a meno che qualche gene<br />

sia alterato, il che è ulteriore prova del ruolo dei geni nella decussazione. Lo stesso discorso<br />

può essere fatto per le proiezioni degli assoni della retina sul collicolo superiore nelle aree<br />

della corteccia visiva: si nota una organizzazione simile per tutti gli umani e in generale per<br />

tutti i mammiferi. Questa è una buona prova che i geni che regolano questa distribuzione di<br />

fibre neuronali sono di vecchia data.<br />

Ma è presumibile che non tutte le connessioni tra neuroni siano così determinate. Prendiamo<br />

per esempio tutti i miliardi di neuroni che ci sono nella corteccia e che stabiliscono delle<br />

connessioni tra di loro. E’ chiaro che queste connessioni non saranno identiche in tutti gli<br />

individui, presumibilmente neanche nei gemelli monovulari. Vi saranno ovviamente delle<br />

regole generali ed è probabile che non tutti i neuroni possano connettersi con qualsiasi altro,<br />

anche per questioni topologiche, in un organo quale il cervello in cui lo spazio è molto ben<br />

organizzato. Tuttavia sembrerebbe chiaro che queste variazioni non siano tutte geneticamente<br />

determinate.<br />

Quindi i nostri cervelli non sono completamente determinati dai nostri geni neanche alla<br />

nascita. L’interazione con l’ambiente, traumi, malattie, addestramenti, costumi ecc possono<br />

poi diversificare ancora di più aree e connessioni. Ne sono prova, ad esempio, le<br />

modificazioni dell’homunculus di Penfield dopo amputazioni, i rimaneggiamenti della<br />

corteccia visiva nei ciechi e l’aumento della area responsabile del perfect pitch nei grandi<br />

musicisti.<br />

Determinismo oltre i geni (interazionismo)<br />

L’argomentazione dei deterministi tuttavia non è eliminata da tutte queste considerazioni. Le<br />

argomentazioni sovraesposte eliminano solo la possibilità di un determinismo genetico, ma<br />

permane ugualmente la possibilità di un determinismo alla Laplace.<br />

“In the traditional picture a person perceives the world around him, selects features to be<br />

perceived, discriminates among them, judges them good or bad, changes them to make them<br />

better (or, if he is careless, worse), and may be held responsible for his action and justly<br />

rewarded or punished for its consequences. In the scientific picture a person is a member of a<br />

species shaped by evolutionary contingencies of survival, displaying behavioral processes<br />

which brings him under the control of the environment in which he lives, and largely under<br />

the control of a social environment which he and millions of others like him have constructed<br />

and maintained during the evolution of culture” 318 .<br />

318 B.F. Skinner: Beyond freedom and dignity. Jonathan Cape, Londra, 1972: p. 211<br />

180


In questa versione, scritta da un campione del behaviorismo ben prima del trionfo della<br />

genetica e da essa indipendente, tutte le azioni dell’uomo sono la risultante dell’interazione<br />

del nostro organismo, in particolare del nostro sistema nervoso, con l’ambiente. Laplace<br />

potrebbe concedere che ogni cervello non sia determinato dai geni e quindi che il suo status<br />

non sia spiegabile solo con quello. Ma come interagisca il cervello con gli stimoli esterni è sì<br />

determinato dalle leggi della materia, e gli stimoli con cui andrà ad interagire sono a loro volta<br />

già predeterminati da tutti gli eventi passati. Tale dottrina, che è stata anche chiamata<br />

“interazionismo”, tradotta in linguaggio biologico predica che né i geni da soli né gli eventi<br />

esterni da soli determinano le nostre azioni, bensì l’interazione tra essi. L’interazionismo è un<br />

certamente un determinismo al 100%.<br />

Ma su che base si fonda questo ragionamento, che già Epicuro riconosceva presente nel<br />

materialismo di Democrito ? Ad Epicuro non sfugge che la base del determinismo è il<br />

Principio di causalità. Come abbiamo visto, il Principio di causalità non è un principio, ma è<br />

la prima delle leggi empiriche. Il determinismo in effetti è tutto qui, discende direttamente<br />

dall’enunciazione di questa prima legge empirica e, se vogliamo, dalla nostra fede nella<br />

regolarità del reale. Il problema della infinita catena delle cause era già stato formulato<br />

all’epoca di Democrito, dal momento che Aristotele lo utilizza con la sicurezza di essere<br />

compreso. Se Democrito dice che l’anima è formata da atomi solamente più fini degli altri,<br />

ma comunque soggetti alle stesse leggi, significa che anche per l’uomo e le sue azioni vige il<br />

Principio di causalità. Ma dal momento che ogni evento ha la sua causa, ogni atto umano avrà<br />

la sua spiegazione nella particolare conformazione spaziotemporale degli atomi che lo<br />

compongono e su cui l’uomo stesso non ha alcun controllo. Epicuro, che ha bisogno per la sua<br />

etica della libertà umana, non può accettare il succedersi di eventi causati, che la<br />

annullerebbero: anche se non è detto che la dottrina del clinamen raggiunga il suo scopo e<br />

garantisca la libertà umana, esso è stato introdotto principalmente a questo scopo.<br />

Se il Principio di causalità è vero ed universale, ne segue che la formulazione di Laplace<br />

diventa inevitabile. In duemila anni di storia della filosofia, questo legame tra causalità, leggi<br />

fisiche e negazione della libertà umana ha rappresentato un leit motif del dibattito filosofico.<br />

Opponendosi a Cartesio, Hobbes e Spinoza contestano la libertà umana. Nel passo seguente,<br />

Spinoza giustamente identifica nelle leggi di natura e nel principio di causalità che governano<br />

il mondo la risposta all’illusione del libero arbitrio:<br />

“Ma veniamo alle cose create, le quali sono tutte determinate a esistere e ad operare da<br />

cause esterne, secondo una certa e determinata ragione. E per intendere questo chiaramente,<br />

pensiamo una cosa semplicissima. Per esempio, una pietra riceve una certa quantità di<br />

movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa<br />

esterna che la spinge, continua necessariamente a essere mossa….E ciò che si dice qui della<br />

pietra deve intendersi di qualsiasi cosa particolare…perché ciascuna cosa è necessariamente<br />

determinata a esistere e a operare da una qualche causa esterna, secondo una certa e<br />

determinata ragione. Inoltre poniamo ora, se vogliamo, che la pietra, mentre continua a<br />

muoversi, pensi, e sappia di sforzarsi per quanto può di persistere nel movimento. Davvero<br />

questa pietra, in quanto è consapevole unicamente del suo sforzo, al quale non è affatto<br />

indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun altro<br />

motivo se non perché lo vuole. Proprio questa è quell’umana libertà che tutti si vantano di<br />

possedere e che solo in questo consiste, che gli uomini sono consapevoli del loro istinto e<br />

ignari delle cause da cui sono determinati….E con questo ho spiegato abbastanza, se non<br />

181


erro, quale sia la mia opinione intorno alla necessità libera e coatta e intorno alla finzione<br />

della libertà umana” 319 .<br />

Per rompere il determinismo è necessario che si verifichi una delle due possibilità: o eventi<br />

che non hanno causa o cause identiche che in condizioni identiche danno più di un effetto.<br />

Ovviamente nessuno ha sinora provato l’esistenza di casi di questo genere e sembra<br />

controintuitivo che possano esistere. Tuttavia è curioso come la gente ritenga che questo<br />

possa essere possibile in materia di psicologia. Di fronte alla stessa situazione le persone si<br />

dice rispondono in maniera diversa. In realtà, ovviamente, noi non conosciamo lo stato del<br />

sistema cervello-mente e pertanto è impossibile provare che i due sistemi fossero in partenza<br />

nelle stesse condizioni. Tuttavia già la filosofia classica ha fatto notare che almeno un caso di<br />

causa incausata deve esistere per evitare la regressio ad infinitum. Anche questo sembra<br />

intuitivo, in quanto una catena infinita di eventi causati sembrerebbe impossibile da sostenere.<br />

Vi è anche chi ritiene che il principio di indeterminazione di Heisenberg possa essere contro<br />

al determinismo completo: dal momento che i fenomeni biologici sono spiegabili su una base<br />

molecolare e che lo saranno sempre di più anche a livelli inferiori, è pensabile che anche nei<br />

fenomeni biologici queste indeterminazioni si facciano sentire. La mente ad esempio potrebbe<br />

basarsi su fenomeni di tipo quantico (ad esempio come ipotizza Penrose) e a questo punto<br />

potrebbe entrare un indeterminismo sufficiente ad impedire un determinismo assoluto.<br />

Dubito che una soluzione di questo genere possa essere soddisfacente. Come è stato<br />

ripetutamente fatto notare, la libertà umana è una cosa diversa dal caso. Noi non vogliamo che<br />

le nostre azioni siano non determinate, vogliamo essere noi a determinarle, e non si vede<br />

come la meccanica quantistica, anche se ne fosse confermata l’interpretazione della scuola di<br />

Copenhagen, possa risolvere questo problema.<br />

La paura sociale del determinismo<br />

La stretta correlazione tra monismo materialista e determinismo è stata riconosciuta fin<br />

dall’antichità e lungo oltre due millenni di storia. Se la mente non è altro che il suo cervello,<br />

una struttura biologica che può essere “descritta” in termini fisico-chimici anch’essa, e se tutti<br />

gli eventi con cui essa interagisce sono pure di natura materiale, a loro volta soggetti alle<br />

stesse leggi, anch’essa sarà determinata completamente, ed il libero arbitrio è un’illusione.<br />

Anzi prima o poi si troverà anche la sua esatta localizzazione cerebrale, anzi forse è già stata<br />

trovata:<br />

“I ricercatori del gruppo di Terry Sejnowski, al Salk Institute, prendono insieme il tè quasi<br />

tutti i pomeriggi della settimana, in un’atmosfera molto informale…..Un giorno mi recai a<br />

uno di questi loro tè e annunciai a Pat Churchland e Terry Seinowski che finalmente era stata<br />

scoperta la sede del libero arbitrio! Essa stava proprio nelle vicinanze del cingolato<br />

anteriore, o forse addirittura coincideva con esso. Quando discussi dell’argomento con<br />

Antonio Damasio, scoprii che anche lui era arrivato a formulare la stessa ipotesi” 320 .<br />

Se così è, allora aveva ragione Delgado, e prima o poi qualcuno potrà controllare il nostro<br />

libero arbitrio mediante accorte stimolazioni neuronali, esercitate con impulsi radio:<br />

319 Spinoza: Lettera a Giovanni Ermanno Schuller. Citata in S. Nelli: Determinismo e libero arbitrio<br />

da Cartesio a Kant. Loescher, Torino, 1982; p. 89-90.<br />

320 F. Crick: La scienza e l’anima. Rizzoli, Milano, 1994; p.318.<br />

182


“Tuttavia, le nuove possibilità della tecnica al servizio della neurologia possono vantare<br />

un’efficienza particolarmente sottile. L’individuo resta indifeso di fronte alla manipolazione<br />

diretta del cervello, poiché viene privato degli intimi meccanismi di reattività biologica. Nel<br />

corso degli esperimenti, stimolazioni elettriche d’intensità appropriata hanno prevalso<br />

sempre sul libero arbitrio: per fare un esempio, la flessione della mano, suscitata mediante<br />

stimolazione della corteccia motoria, non può essere evitata con un atto di volontà” 321 .<br />

Le affermazioni di Crick e Delgado sono vere? Per ora sembrano un po’ semplicistiche, ma<br />

non è detto che il futuro non si svolga secondo quanto da loro affermato. Ma anche se non<br />

fossero vere, sono per certi aspetti il logico sviluppo del monismo materialista: così per lo<br />

meno sostengono i moderni seguaci di Epicuro. Se non esiste alcun principio spirituale, come<br />

è possibile che nasca il libero arbitrio ? Le risposte date sinora dai monisti sono alquanto<br />

carenti, perché la maggior parte di essi afferma comunque che non siamo predeterminati nelle<br />

nostre scelte. La logica è la logica, quando piace e quando non piace. Vengono in mente i<br />

Demoni di Dostojevski, quando Kirillov, il nichilista teorico assoluto, incalzato dal suo<br />

interlocutore che gli ricorda le ineluttabili conclusioni che ha sempre professato a livello<br />

teorico, riconosce la loro radicalità e si toglie la vita. Per nostra fortuna, non tutti i monisti<br />

materialisti sono così logici, altrimenti l’umanità sarebbe privata di alcuni dei suoi più bei<br />

cervelli.<br />

E’ veramente curioso come questa obiezione terrorizzi così tanto i sociobiologi che questi si<br />

affannano a negare quanto hanno appena affermato. Dopo avere sostenuto che tutti i nostri<br />

comportamenti sono modellati dal vantaggio selettivo, improvvisamente affermano che non è<br />

così e che non siamo determinati. Questo perché? Da un lato, perché è vero, e non possono se<br />

non modulare le loro affermazioni. Dall’altro perché numerose correnti di pensiero ritengono<br />

politicamente scorretto il pensiero che noi siamo determinati nelle nostre azioni. Se ciò fosse,<br />

agire sulle cause sociali della povertà e del disadattamento sarebbe inutile. In realtà non<br />

sarebbe vero neanche questo, perché un’azione di questo genere sarebbe comunque utile;<br />

solamente sarebbe già determinato se essa verrà fatta a noi. A noi sembrerà di batterci per una<br />

giusta causa, sarà anche vero che lo facciamo, ma la nostra azione sarebbe comunque già<br />

determinata, non ne avremmo alcun merito, e soprattutto non avrebbe nessun demerito chi ad<br />

essa si opponesse.<br />

In realtà, l’obiezione vale per i sociobiologi, che in realtà sono comunque degli interazionisti,<br />

in quanto secondo loro tutto si è evoluto per un’interazione tra i geni e l’ambiente esterno nel<br />

corso di miliardi di anni, ma anche per i monisti materialisti in generale, e non è facile trovare<br />

una buona risposta a questa obiezione. Io per lo meno non sono ancora riuscito a leggerne una<br />

buona. Una delle più raffinate critiche alle teorie della sociobiologia fatta da noti studiosi<br />

risolve il problema in questo modo:<br />

“Quello che caratterizza lo sviluppo e le azioni umane è il fatto di rappresentare la<br />

conseguenza di un immenso apparato di cause che interagiscono e che si intersecano. Le<br />

nostre azioni non sono casuali o indipendenti rispetto alla totalità di queste cause in quanto<br />

sistema di intersecazione, dato che siamo esseri materiali che vivono in un mondo<br />

caratterizzato da rapporti di causalità. Ma le nostre azioni, nella misura in cui siamo libere,<br />

sono indipendenti da ogni singola (e anche minimo sottoinsieme) via multipla di causazione:<br />

questo è il significato preciso di libertà in un mondo causale. Quando, al contrario, le nostre<br />

azioni sono prevalentemente sotto il controllo di una singola causa, come è per il treno sul<br />

321 J. Delgado: Genesi e libertà della mente. Boringhieri, Torino, 1973; p.235<br />

183


inario, il prigioniero nella sua cella, il povero nella sua povertà, allora non siamo più liberi.<br />

Per i biodeterministi noi non siamo più liberi perché le nostre vite sono fortemente<br />

determinate da un piccolo numero di cause interne, cioè dai geni per specifici comportamenti<br />

o per la predisposizione a tali comportamenti. Ma con ciò si perde la sostanza della<br />

differenza tra biologia umana e quella degli altri organismi. I nostri cervelli, le nostre mani e<br />

le nostre lingue ci hanno reso indipendenti dalle singole caratteristiche fondamentali del<br />

mondo esterno. La nostra biologia ci ha trasformato in creature che ricreano costantemente i<br />

nostri ambienti psichici materiali, e le cui vite individuali sono il risultato di una<br />

straordinaria molteplicità di vie causali che si intersecano. In conclusione è proprio la nostra<br />

biologia a renderci liberi” 322 .<br />

Il che, onestamente, fa torto a Laplace e Spinoza, perché il demone del primo e la logica del<br />

secondo sono sufficientemente intelligenti e stringenti da essere in grado di considerare tutto<br />

“l’immenso apparato di cause che interagiscono e si intersecano”. E’ ovvio che chi è<br />

prigioniero ha una causa in più che determina le sue azioni. Ma come faccia la nostra biologia<br />

a renderci liberi 323 , e a superare l’argomentazione del Principio di causalità, gli autori non lo<br />

dicono.<br />

La realtà è che i monisti materialisti hanno qualche difficoltà con il concetto di caso. Se le<br />

leggi fisiche esistono, il caso non esiste. Il caso è solo una parola vuota per indicare la nostra<br />

ignoranza. Qualcuno può pensare che il risultato di un lancio di dadi sia casuale? Ovviamente<br />

no. Data la posizione iniziale del dado, data la spinta ad esso impressa dal nostro braccio, data<br />

la distanza dalla superficie su cui cade, date le caratteristiche di questa superficie e una serie<br />

di altre condizioni che non riusciamo a controllare, se venga due o quattro sta già scritto nel<br />

libro dell’essere in cui il demone può leggere, data la sua enorme intelligenza, e noi no.<br />

Quando si valuta il ruolo del caso nell’evoluzione, in realtà si intende con esso l’insieme delle<br />

condizioni di partenza o se si vuole della particolare situazione di un determinato istante, che<br />

noi non possiamo conoscere e interagendo con le quali una particolare forma di vita prese una<br />

via piuttosto che un’altra. Per un monista materialista il caso non esiste, esiste solo la<br />

necessità.<br />

Un punto a favore dei dualisti<br />

Il punto a favore dei dualisti è che i monisti non possono logicamente costruire società basate<br />

sulla responsabilità: senza di questa dovremmo ripensare completamente tutte le nostre<br />

convivenze sociali. Come abbiamo mostrato nella conclusione del capitolo quarto, premio e<br />

castigo non avrebbero alcuna ragione di essere. Non si tratta tuttavia di una vera<br />

argomentazione conoscitiva, bensì, potremmo dire, di una sensazione di pelle. Se fosse<br />

possibile dimostrare che tutto nel nostro comportamento è determinato, saremmo un po’<br />

imbarazzati, ma questo non potrebbe incidere assolutamente sulla verità o meno della<br />

conclusione.<br />

Oppure è il nostro cervello costruito in maniera tale da consentire la formazione di un’entità,<br />

una mente, una coscienza, che consenta la comparsa di un libero arbitrio ? Quello che a noi<br />

interessa non è che le nostre azioni vengano a casaccio, ma che esse invece siano il risultato di<br />

una nostra scelta consapevole. La soluzione classica è quella di un’essenza spirituale, che<br />

322 S. Rose, R. Lewontin & L. Kamin: Il gene e la sua mente. Mondadori, Milano, 1983; p. 297.<br />

L’edizione inglese è dello stesso anno.<br />

323 Quest’ultima frase richiama la frase di Paolo di Tarso “la verità vi farà liberi” ma anche quella<br />

che stava scritta sull’entrata di Auschwitz: “il lavoro rende liberi”.<br />

184


comanda la nostra mente, e che può di fronte ad una determinata situazione, modificare il<br />

corso degli eventi a suo piacimento. Tale soluzione ha numerosi sostenitori, perché la<br />

sensazione di essere liberi è estremamente forte.<br />

Quanto è sostenibile tale tesi ? Ovviamente non lo so. Molti ci credono. Una cosa è tuttavia<br />

certa, che tale tesi, per lo meno, va drasticamente emendata. Non vi è dubbio che non siamo<br />

completamente liberi, e che questo può essere dimostrato sia dal punto di vista biologico che<br />

dal punto di vista sociale. In campo sociale, vi sono correlazioni statistiche terribilmente forti<br />

tra peculiari comportamenti morali e gruppo sociale o etnico cui si appartiene. E questo non<br />

solo nei paesi cosiddetti meno civili. Il sistema delle caste è solo un esempio, che, come<br />

sostengono gli autori della “Curva di Bell”, tende a diffondersi anche nelle società ricche,<br />

dove i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.<br />

Le esperienze della vita ci segnano sia nel bene che nel male, pertanto la nostra personalità è<br />

soggetta agli eventi che non è in grado di controllare. Il caso dei due bambini studiati da<br />

Damasio in cui la lesione al lobo frontale ebbe luogo da piccoli, hanno mostrato una speciale<br />

difficoltà a riconoscere l’esistenza di comportamenti morali (vedi capitolo settimo). Si<br />

potrebbe pensare che alcuni siano più liberi degli altri ? E’ possibile anche questo. Più si<br />

conosce e più si è liberi, oppure si ampia semplicemente il numero di eventi che il demone<br />

deve conoscere per predire il nostro comportamento ? Forse siamo solo in libertà<br />

condizionata? Non sembra in effetti che possiamo sperare molto di più, almeno per adesso,<br />

perché abbiamo un portato di miliardi di evoluzione da cui non sappiamo se possiamo<br />

liberarci. Ma la situazione non è poi così male come potrebbe sembrare. Come il Faust di<br />

Goethe, ci basterebbe poter dire anche una volta sola “sono stato libero” per sfuggire a<br />

Mefistofele.<br />

185


Parte quarta<br />

Conclusione<br />

“Some say that we shall never know, and that to the gods we are like the flies that the boys kill on a<br />

summer day, and some say, on the contrary, that the very sparrows do not lose a feather that has<br />

not been brushed away by the finger of God..”<br />

Thorton Wilder, The Bridge of Saint Louis Rey<br />

186


Capitolo 13.<br />

L’invettiva di Feyerabend<br />

Scrive Feyerabend:<br />

“Ma – e qui arriviamo a un punto ben più importante – chi ci garantisce la correttezza di queste<br />

idee a cui ‘l’uomo moderno’ è così attaccato da bloccare i progressi ‘nella predicazione e nella<br />

catechesi’ di un prete che non si trova in tutto e per tutto d’accordo con esse? Sono inaccessibili<br />

alla critica? E come si è convinti della loro correttezza? Quale ricerca concreta ha provato, o<br />

anche reso verosimile, l’inesistenza dei demoni? L’ipotesi è certo una componente della scienza<br />

(anche questo non è del tutto sicuro: si vedano i dibattiti sull’interpretazione della teoria dei quanti<br />

e la dottrina junghiana dell’anima), ma la si è mai esaminata direttamente? O non la si accetta,<br />

piuttosto perché altri settori della scienza hanno successo e questo successo viene esteso<br />

acriticamente al resto, senza sentire il bisogno di un ulteriore esame indipendente? E come si può<br />

eseguire un simile controllo diretto? Il metodo scientifico non è forse così strutturato che, anche<br />

qualora i demoni esistessero, gli sfuggirebbero comunque? E poi, non si parte dall’ipotesi stessa,<br />

sviluppandola nei dettagli e inseguendo col suo aiuto l’esperienza? Un simile procedimento esige,<br />

però, che si prendano alla lettera i miti e si rifiuti fin dall’inizio ogni opportunistico tentativo di<br />

castrazione” 324 .<br />

Secondo Feyerabend e molti altri, gli scienziati moderni sono immensamente più ignoranti dei loro<br />

predecessori e terribilmente più ristretti di mente dei pensatori del passato. La loro arroganza<br />

consiste nel pensare che tutti coloro che non accettano la loro impostazione mentale sono dei<br />

marziani, uomini di un altro mondo, con cui non si può dialogare semplicemente perché si parlano<br />

lingue diverse. Penso sia difficile dare torto a Feyerabend, perché l’intelligenza e la saggezza non<br />

vanno necessariamente di pari passo.<br />

Il sospetto che ci insinua Feyerabend è quello di essere così immersi nel mare della scienza da non<br />

accorgerci che c’è qualcosa fuori di essa, o meglio da non prendere in considerazione il problema se<br />

ci sia qualcosa al di là dell’acqua. Può un pesce pensare che esista la terraferma ? Noi sguazziamo<br />

così bene nella pratica dell’impresa scientifica e godiamo così tanto dei benefici della tecnologia<br />

che abbiamo perso la capacità di esprimere un giudizio su di essa.<br />

Rimane tuttavia che se dobbiamo ampliare la nostra visione questa va fatta con gli strumenti<br />

adeguati, e cioè con le argomentazioni razionali. Se un pesce vuole chiedersi se c’è la terraferma,<br />

non deve starsene in profondità a immaginare quello che c’è fuori ma deve arrivare in superficie e<br />

mettere gli occhi fuori dall’acqua. Se facciamo l’ipotesi che siamo in una caverna, invece di<br />

guardare le ombre, dobbiamo cercare di giungere all'uscita, o per lo meno guardare in quella<br />

direzione.<br />

Pertanto non ho intenzione di discutere qui con l’arma della poesia o dell’immaginazione, ma<br />

semplicemente di vedere se la storia della biologia e i fatti da essa portati alla luce hanno<br />

un’univoca interpretazione o se differenti visioni del mondo sono, non certo provate, ma almeno<br />

compatibili con quanto la scienza ci dice.<br />

324 P.K. Feyerabend: Il realismo scientifico e l’autorità della scienza. Il Saggiatore, Milano, 1983.<br />

La prima edizione è del 1978.Il pezzo citato è a pagina 258, contenuto nella nota 15.<br />

187


Una delle domande che vorrei porre è la seguente: Deve la storia della biologia degli ultimi 3-4<br />

secoli venir necessariamente letta come la progressiva scomparsa dell’ordinatore biologico? O<br />

potrebbe essa venir letta come la storia della progressiva purificazione dell’idea di ordinatore?<br />

Un sostenitore della seconda tesi, quali argomentazioni potrebbe levare per sostenere questa<br />

interpretazione ? Egli ha essenzialmente due possibilità logiche. La prima è quella di affondare il<br />

coltello nella piaga della nostra ignoranza e mostrare elencando con minuziosa meticolosità tutte le<br />

cose che non siamo in grado di spiegare, che sono tante, e principalmente il problema della<br />

coscienza di sé e, se vogliamo, quello dell’origine della vita sulla Terra.<br />

L’opinione diffusa tra gli uomini di scienza è che qualsiasi fenomeno cui stiamo di fronte in<br />

biologia è spiegabile con le leggi e le teorie della chimica, della fisica, o come anche si dice, può<br />

essere descritto senza bisogno di postulare enti diversi da quelli che sono regolati da leggi materiali.<br />

Questo è assai vero per qualsiasi argomento che viene studiato, perché, sia che siamo di fronte ad<br />

una malattia, sia che stiamo indagando lo sviluppo embrionario o la regolazione genica, abbiamo<br />

compiuto grandi avanzamenti senza che ci sia bisogno di evocare entelechie o altro. Speriamo di<br />

aver convinto tutti di questo col nostro breve excursus compiuto nei capitoli precedenti.<br />

Tuttavia bisogna capire bene la portata di questa affermazione. Ci sono almeno due punti da<br />

sottolineare. Il primo riguarda la natura inferenziale di questa affermazione. La biologia non ha<br />

ancora descritto esaurientemente tutto in termini chimico-fisici o in termini di teoria<br />

dell’informazione. I buchi neri che ci sono, sono ancora enormi, anzi molte volte si ha l’impressione<br />

di essere di fronte ad un processo senza fine. Come fa notare Jacob nella sua “Logica del vivente”, a<br />

volte la conoscenza sembra essere una serie di bamboline russe: apertane una, se ne trova un’altra.<br />

E’ esperienza di molti, che una volta trovata una spiegazione, questa a sua volta ne richiede altre, in<br />

genere ad un livello di maggior profondità. Bisogna pertanto ammettere che è solo tramite un<br />

processo assolutamente simile a quello dell’induzione che si utilizza per formulare leggi fisiche, che<br />

noi possiamo dire che non abbiamo bisogno di entelechie di vario genere. Se dovessimo pesare,<br />

cioè, tutto quello che abbiamo dimostrato essere spiegabile in termini chimico-fisici contro quello<br />

che non abbiamo ancora spiegato, la bilancia penderebbe ancora a favore di questi ultimi. In fondo,<br />

da una parte abbiamo una serie di dati e teorie che supportano la nostra conclusione, dall’altro una<br />

serie, che potrebbe essere infinita di fenomeni biologici, compresi quelli a carico del sistema<br />

nervoso centrale. Pertanto, questa conclusione non è completamente scevra dall’obiezione di un<br />

entelechista convinto o forse anche del computer dell’Entreprise: “dati insufficienti” potrebbe dire<br />

quest’ultimo; conclusione fideistica potrebbe mormorare l’entelechista.<br />

In realtà quest’obiezione non regge, non per ragioni scientifiche ma per una scelta metodologica<br />

che, in quanto scelta, non può essere motivata all’interno di se stessa. Non c’è molto da dire per<br />

ribattere questa obiezione, essa fa parte di decisioni di natura diversa, un po’ del tipo di quella di<br />

decidere che il mondo esterno esiste e che noi possiamo conoscerlo, che abbiamo discusso nel<br />

primo capitolo. Ogni scienziato la ritiene infondata, ma essenzialmente perché è mutato il quadro di<br />

riferimento rispetto a 200 anni fa. Tuttavia non si può negare a qualcuno di avere una visione<br />

opposta. Semplicemente bisogna ritenere che col tempo nessuno la considererà valida.<br />

La seconda puntualizzazione è più rilevante: cosa succede quando guardiamo il tutto nel suo<br />

insieme ? In passato ebbe grande rinomanza una macchina per giocare a scacchi che era in grado di<br />

vincere numerose partite. Il mistero di questa macchina non è mai stato chiarito. Si diffuse la<br />

supposizione che dentro alla macchina ci fosse un nano assai esperto nel gioco. Oggi ci sono<br />

computer che battono il campione mondiale di scacchi. Quale delle due soluzioni ci dice di più<br />

sull’ingegno umano, quella con dentro un nano che la muove o quella fatta di chips? Non vi è<br />

188


dubbio alcuno, il computer ci dice che l’uomo ha superato se stesso, mentre l’altro viene ritenuto<br />

solo un millantatore.<br />

In altre parole, che cosa ci solleva maggior stupore, la Cappella Sistina o uno scarabocchio sul<br />

muro? Chi ammiriamo di più, un sistema completamente automatizzato o uno strumento che ci<br />

costringe a intervenire ogni momento? La scala dell’essere o la precisione cosmica della legge di<br />

gravitazione erano ritenute prove della bontà dell’orologiaio: la necessità di intervenire ogni<br />

momento per correggere il moto degli astri o per rifare una specie adatta alla sopravvivenza al<br />

contrario fanno pensare che l’artefice sia un po’ imbranato. Su questo, Leibniz aveva ragione e<br />

Newton torto. Quindi, un’automazione spinta dice che non c’è l’ingegnere o che egli è<br />

estremamente acuto ? E’ possibile decidere tra queste due evenienze ?<br />

La Teologia Naturale dominò l’approccio scientifico fino a Darwin, anche se divenne impopolare in<br />

seguito alla teoria dell’evoluzione. Questa argomentazione è in realtà di antichissima data, e fra gli<br />

scienziati dell’epoca di Newton e Darwin era diffusissima (l’opinione di alcuni di essi è stata<br />

precedentemente citata). Ma le sue argomentazioni sono morte ? si potrebbe addirittura sostenere<br />

che i vecchi argomenti prendano nuovo vigore, anche se oggi la sola parola Teologia Naturale fa<br />

arricciare il naso a tutti, scienziati e filosofi ?<br />

Qual è la logica dell’argomentazione ? Si tratta probabilmente di formulare un’ipotesi generale (che<br />

presumibilmente ha uno status simile a quelle che abbiamo chiamato ipotesi abortive) in cui<br />

l’esistenza di un ordinatore è la spiegazione per l’ordine del mondo biologico e del cosmo intero.<br />

Nelle ipotesi abortive, ma ancorate alla realtà, l’ipotesi spiega un certo numero di fatti noti<br />

(postdizioni) ma non è in grado di fare predizioni. L’ipotesi che esista un ordinatore esterno al<br />

mondo si basa sull’esistenza dell’ordine, che non è un dato innato bensì acquisito dall’indagine<br />

scientifica, e sul Principio di causalità, che pure è una legge su dati empirici, e quindi è ancorata alla<br />

realtà, anche se per il momento non è in grado di fare predizioni che la verifichino cogentemente.<br />

E’ quello che fa ad esempio Theodosius Dobzhansky in campo biologico (vedi capit 4), e altri<br />

autori come Paul Davies e John Polkinghorne in campo cosmologico. Dobzhansky intitola l’ultimo<br />

capitolo del suo agile e interessante libretto già citato: “La sintesi di Teilhard”. Qui Dobzhansky<br />

sostiene che l’uomo necessita di una sintesi religiosa, la quale deve includere la scienza. Questa<br />

sintesi ha in comune parecchie caratteristiche con le ipotesi scientifiche, ad esempio è lungi<br />

dall’essere definitiva, altri possono giungere a conclusioni diverse, può essere influenzata dalla<br />

propria cultura:<br />

“La mia educazione e la mia cultura mi hanno spinto ad inquadrare la mia sintesi nel<br />

Cristianesimo. Tuttavia, posso comprendere chi opta per soluzioni diverse…. Una fede che si<br />

ponga in netto contrasto con risultati scientifici comprovati non può essere giusta, ma una fede che<br />

concordi con tali risultati può, ciononostante essere errata” 325 .<br />

E’ la scienza che definisce i confini dell’indagine filosofica<br />

“Per me è chiaro che, se bisogna evitare che quel grande e potente strumento per il bene o per il<br />

male, la Chiesa d’Inghilterra, sia ridotta in mille pezzi dall’onda avanzante della scienza – un<br />

evento a cui mi dispiacerebbe assistere, ma che avrà inevitabilmente luogo se i suoi destini<br />

resteranno nelle mani di uomini come Samuel di Oxford – a ciò si dovrà giungere per mezzo degli<br />

325 T. Dobzhansky: Le domande supreme della biologia. De Donato, Bari, 1969; p. 109. La prima<br />

edizione è del 1967.<br />

189


sforzi di persone come te, che puntano sulla possibilità di combinare la pratica della chiesa con lo<br />

spirito della scienza” 326 .<br />

Così scriveva Thomas Huxley all’amico e collega, il reverendo Charles Kingsley. Quanti si<br />

sarebbero aspettati un tale suggerimento da Huxley ? E’ tuttavia presumibile che il suo consiglio sia<br />

stato recepito dalle gerarchie ufficiali della Chiesa Anglicana, perché Darwin venne sepolto a<br />

Westminster. Il titolo di baronetto invece gli fu negato, a dimostrare che i laici salotti nobiliari<br />

avevano apprezzato Darwin meno delle autorità religiose.<br />

Alcuni pensano che la filosofia e la teologia siano una ricerca dell’assoluto e che l’unico<br />

atteggiamento riguardo la scienza sia quello di opposizione perché la scienza non insegue, per sua<br />

stessa ammissione, i valori assoluti. In realtà questo atteggiamento è ancora più globale, perché<br />

l’opposizione può non riguardare semplicemente la scienza ma tutta la società contemporanea nel<br />

suo complesso.<br />

Tale opposizione può non sembrare del tutto illogica, dal momento che poche società come la<br />

nostra sono assurde, effimere, ingiuste, criminali, egoiste, consumiste, in una parola non sono<br />

umane, e chi ritiene di essere portatore di valori, o che comunque a questi si debba far riferimento,<br />

non vede perché dovrebbe confrontarsi con qualcosa che, non solo non ha alcuna pretesa di<br />

assoluto, ma è semplicemente completamente irrazionale. Il confronto fra coloro che delusi dal<br />

mondo da esso si isolano e coloro che sostengono che esso va affrontato ed eventualmente mutato è<br />

vecchio di migliaia di anni. Nel film di Andrei Tarkovsky, il pittore Andrei Rublev, di fronte al<br />

disastro della Russia del suo tempo, dove i tartari devastano le città e il fratello lotta contro il<br />

fratello, decide semplicemente di non dipingere più e addirittura di non parlare più. Oggi siamo<br />

indubbiamente in una situazione analoga.<br />

Bisogna comprendere le buone ragioni di questa posizione, ma quando questa critica coinvolge non<br />

la tecnologia che dalla scienza deriva, bensì il processo conoscitivo stesso che essa rappresenta, essa<br />

butta via il bambino insieme all’acqua del bagno. Bisogna fare quello che non piace a nessuno, e<br />

cioè entrare nel merito: alcune tendenze della società moderna ci portano indietro, altre ci spingono<br />

avanti e va fatta una cernita. L’accettazione acritica o il rifiuto globale sono entrambi da rigettare.<br />

Certo, le affermazioni della scienza sono spesso temporanee e potranno rivelarsi errate, ma è l’unica<br />

cosa che abbiamo. E sarebbe anche inesatto dire che la scienza non ha un riferimento assoluto,<br />

perché essa si confronta con il problema del vero, anche se con la sua enfasi sulla limitatezza delle<br />

sue conclusioni, può erroneamente sembrare prediligere il relativismo. L’errore dei suoi critici è<br />

quello di credere che vi siano scorciatoie alla verità e che i problemi fondamentali dell’essere siano<br />

di facile soluzione. Nella versione moderna la scienza si misura con la verità, anche se sostiene la<br />

nostra inadeguatezza a raggiungerla.<br />

A chi si misura con le difficoltà che si incontrano ogni giorno a risolvere i quotidiani problemi<br />

scientifici, che constata come le ipotesi più brillanti si rivelino spesso false e quanto difficile sia<br />

spiegare un piccolo fenomeno biologico, l’idea che problemi di tale fatta siano facilmente<br />

affrontabili e solubili sembra pura arroganza. Per questo forse sarebbe preferibile affrontare il<br />

problema con un altro atteggiamento e sotto un’altra prospettiva, nella direzione riassunta in queste<br />

parole di Paul Davies:<br />

326 Citato in R.W. Clark: The survival of Charles Darwin: a biography of a man and an idea.<br />

Random House, New York, 1984; p. 137. La traduzione italiana è presa da H. Hellman: Le dispute<br />

della Scienza. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999<br />

190


“Può sembrar strano, ma ho l’impressione che la scienza ci indichi la strada verso Dio con<br />

maggior sicurezza di quanto non faccia la religione. A torto o a ragione, ciò che è certo è che la<br />

scienza ha raggiunto oggi un punto in cui può affrontare seriamente questioni ritenute un tempo di<br />

ordine esclusivamente religioso….C’è più nel mondo, di quanto non sembri a prima vista” 327<br />

Nella Russia di Rublev, devastata da guerre e pestilenze, era stato perso il segreto della fusione,<br />

perché tutti coloro che lo conoscevano erano morti e nessuno era più capace di dirigere la<br />

fabbricazione di una campana. Ma un ragazzo, figlio di un fabbro, sostenendo di avere appreso il<br />

segreto dal padre, convinse il principe di essere in grado di costruirne una. A rischio della sua vita,<br />

il ragazzo riuscì nel suo intento, anche se non conosceva per niente il segreto della fusione. Nel film<br />

di Tarkovsky, davanti ai rintocchi della campana Rublev riacquista la fiducia nel mondo, torna a<br />

dipingere e rivoluziona la pittura sacra russa.<br />

Sarebbe inesatto pensare che non vi siano teologi che lavorano su questa ipotesi. Al contrario, vi<br />

sono delle voci che si levano in questo senso, anche se troppo spesso vengono ignorate. Gli eredi di<br />

Wilbeforce sono numerosi e chiassosi, mentre quelli di Kinsley, lui stesso assolutamente<br />

sconosciuto, sono spesso ridotti al silenzio. Credo tuttavia che per chi è interessato ad ascoltare<br />

anche altre voci, potrebbe considerare utile l’idea che forse la via giusta è quella di ritenere che le<br />

conoscenze acquisite dalla scienza debbano essere assolutamente incluse in una Weltanschauung<br />

che pretenda di essere tale; anzi, esse devono stabilire i confini entro cui ogni Weltanschauung può<br />

dipanarsi.<br />

Dobzhansky nomina tra questi Paul Tillich e Arnold J. Toynbee. Tra i molti altri vale la pena di<br />

ricordare alcuni aspetti del pensiero di Dietrich Bonhoeffer 328 , che rifiutando energicamente la<br />

visione di un Dio “tappabuchi” (“God of the gaps” nell’espressione inglese), riconosce che l’uomo<br />

ormai vive in un mondo adulto, in cui non ha bisogno di ricorrere continuamente a questa ipotesi.<br />

Per Bonhoeffer, solo il rifiuto del Dio tappabuchi consente all’uomo di avvicinarsi al Dio vero.<br />

L’uomo non può sfuggire il mondo, e per testimoniare questo Boenhoffer venne giustiziato nel<br />

campo di sterminio di Flossenburg nel 1944.<br />

Come ci ricorda John Polkinghorne 329 , vi è una ricca tradizione “apofatica”, cioè negativa, nella<br />

teologia cristiana, che è rimasta maggiormente viva in Oriente che in Occidente. Essa sostiene che<br />

gli attributi di Dio possono essere definiti solo dicendo ciò che egli non è. Questa tradizione può<br />

essere fatta risalire a Paolo di Tarso. In una sua lettera sublime, dopo aver in poche righe dettato i<br />

327 P. Davies: Dio e la nuova fisica. Mondadori, 1984; p. 11. L’edizione inglese è dell’anno<br />

precedente.<br />

328 D. Bonhoeffer: Resistenza e resa. Bompiani, Milano, 1969. Contiene le lettere da lui scritte dal<br />

carcere.<br />

329 J. Polkinghorne: Scienza e fede. Mondadori, Milano, 1987. L’edizione inglese è dello stesso<br />

anno. Tutto il libro citato, come altri da lui scritti, si muove sulla linea del confronto tra scienza,<br />

filosofia e religione. A p. 56 leggiamo: “In teologia c’è una tradizione chiamata ‘apofatica’ che<br />

riconosce l’essenziale ineffabilità di Dio, Colui che si può incontrare solo in maniera nebulosa,<br />

nell’oscuro delle tenebre. Questa tradizione si è rivelata più forte nella contemplativa Chiesa<br />

Ortodossa d’Oriente che nella Chiesa Latina d’Occidente, che ha invece confidato nella<br />

razionalità. L’idea dell’ineffabilità divina è un correttivo essenziale per tutti gli sforzi teologici,<br />

benché, se considerata isolatamente, possa sovvertire ogni tentativo di comprensione….La seconda<br />

cosa da sottolineare è che l’inevitabile mistero della natura di Dio non deve tramutarsi in una<br />

licenza per fare su di Lui asserzioni irrazionali. La ragione ha i suoi limiti, ma non è qualcosa di<br />

cui beffarsi”.<br />

191


principi che devono dirigere le nostre azioni, egli detta anche le regole per quello che dovrebbe<br />

essere l’atteggiamento corretto per la nostra indagine conoscitiva:<br />

“Da bambino parlavo come un bambino, come uno di loro pensavo e ragionavo. Poi diventato<br />

uomo ho smesso di fare così. Ora vediamo Dio in modo confuso come in un antico specchio: ma<br />

quel giorno quando verrà ciò che è perfetto lo vedremo faccia a faccia. Ora lo conosco solo in<br />

parte: ma quel giorno quando verrà lo conoscerò come lui mi conosce” 330 .<br />

La nostra mente è assai limitata ed ha difficoltà ad affrontare problemi estremamente complessi.<br />

L’infinito solleva paradossi a non finire. In effetti le proprietà e l’esistenza stessa di un essere che<br />

va generalmente sotto il nome di Dio sembrano assurde. In effetti, che Dio esista è assurdo. Ma non<br />

si capisce bene come questa assurdità diventi intelleggibile se le sue aporie vengono trasferite alla<br />

realtà materiale. Per incredibile che possa apparire, qualcosa sembra proprio che esista. Che questo<br />

qualcosa sia eterno, illimitato, auto-ordinantesi e coincida con il mondo materiale non è meno<br />

assurdo dell’esistenza di un altro ente con le stesse identiche caratteristiche che lungo la storia della<br />

filosofia ha avuto diversi nomi ma le stesse proprietà del Motore Immobile di Aristotele. Eppure<br />

una delle due interpretazioni sembrerebbe dover essere vera. C’è qualcuno che crede di risolvere<br />

facilmente questo problema?<br />

330 Prima lettera di Paolo ai Corinzi. vv. 10-12<br />

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