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Qualcuno potrebbe osservare con ragione che i risultati di una politica<br />
coloniale dipendono in gran parte dalle condizioni della società<br />
locale nel momento in cui la potenza imperiale s’ impadronisce<br />
del Paese. Fra lo «scatolone di sabbia», popolato da più di cento<br />
tribù, in cui noi ci installammo nel 1911, e gli altri Paesi del<br />
Mediterraneo meridionale controllati da Francia e Gran Bretagna,<br />
esisteva una differenza abissale. Ma la grande colpa del colonialismo<br />
italiano fu la politica razzista adottata dal regime alla fine degli<br />
anni Trenta. Quella politica ebbe l’effetto di escludere a priori la<br />
creazione di una classe dirigente locale. Oggi il quadro è molto<br />
vario. Accanto ad alcuni esempi incoraggianti (India, Indonesia,<br />
Filippine, qualche Paese africano), esistono i malati cronici (Congo,<br />
Somalia) e una lunga sequenza di dittature, colpi di Stato, elezioni<br />
truccate, guerre civili. Sono comunque d’accordo con lei, caro<br />
Taliani, quando osserva che le accuse reciproche e i rimpianti sono<br />
inutili e controproducenti. L’era coloniale è terminata quasi settant’<br />
anni fa, tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fallita spedizione<br />
anglo-francese a Suez nel 1956. Il bilancio delle cose fatte<br />
e da fare deve cominciare da allora, non da cent’ anni prima. E<br />
l’esame di coscienza devono farlo anzitutto i «decolonizzati», non i<br />
colonizzatori.<br />
Sergio Romano<br />
Corriere della Sera (24 marzo 2011)<br />
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