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Straub/Huillet. Cineasti italiani

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STRAUB/HUILLET<br />

CINEASTI ITALIANI<br />

Piero Spila<br />

FALSOPIANO


VIAGGIO<br />

IN ITALIA<br />

una collana diretta da Fabio Francione


Sono soprattutto due i motivi che hanno spinto alla realizzazione di questo<br />

libro. Il primo riguarda la bella notizia giunta da Locarno, con la consegna<br />

del Pardo d’onore alla carriera per Jean-Marie <strong>Straub</strong>. Un<br />

riconoscimento che giunge dopo le recenti rassegne internazionali di<br />

New York, Madrid e Parigi, a segnalare la vitalità e la potenza di un’idea<br />

di cinema che fortunatamente non viene meno. Il secondo nasce invece<br />

dal sentimento di un risarcimento dovuto a Jean-Marie <strong>Straub</strong> e Danièle<br />

<strong>Huillet</strong> cineasti <strong>italiani</strong>. Hanno vissuto nel nostro paese per più di trent’anni,<br />

metà dei loro film sono stati girati in Italia o parlavano italiano,<br />

eppure hanno continuato a sentirsi esclusi, stranieri. Difficoltà, impedimenti,<br />

ostracismi. Posso testimoniare il loro scandalo quando il film dedicato<br />

al “siciliano più prestigioso di ogni tempo” (Empedocle) venne<br />

rifiutato al Festival di Taormina perché parlato in tedesco (i versi di Hölderlin).<br />

Ma le cose non devono essere cambiate, se in questi giorni è capitato<br />

ancora di leggere una solerte dileggiatrice del miglior cinema<br />

italiano (il dileggio è una categoria critica molto in auge in questi tempi)<br />

che si divertiva a irridere la scelta fatta dal direttore di Locarno, Carlo<br />

Chatrian, e un cinema definito una “fustigazione per lo spettatore”.<br />

Niente di nuovo sotto il sole se non la constatazione di una persistente,<br />

non minoritaria, separatezza nei confronti di un cinema alto e fondante<br />

come quello di <strong>Straub</strong> e <strong>Huillet</strong> (un “abbecedario”), che è un onore poter<br />

considerare anche italiano. (p.s.)


Sommario<br />

Un totale equilibrio incarnato: una biografia p. 11<br />

<strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> e lo stupore del cinema p. 15<br />

<strong>Straub</strong> su <strong>Straub</strong>, il cinema e altro<br />

Sullo stile p. 35<br />

Una lettera p. 39<br />

Il Bachfilm p. 43<br />

Presentazione di Othon p. 49<br />

Contro il Sistema e lo Stato p. 53<br />

Il doppiaggio è un assassinio p. 55<br />

Consigli per registi p. 59<br />

<strong>Straub</strong> e l’Italia: due interviste<br />

Il metodo <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> (1989) p. 61


<strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> cineasti <strong>italiani</strong> (2001) p. 79<br />

Post-it (Due o tre cose su quegli incontri) p. 99<br />

Sui film “<strong>italiani</strong>” di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong><br />

Roma non è una città operaia (Lezioni di storia) p. 103<br />

Pavese, Brecht e i contadini<br />

(Dalla nuvola alla resistenza) p. 104<br />

Una sera al Labirinto di Roma (Rapporti di classe) p. 106<br />

Il verde della terra di nuovo vi illuminerà<br />

(La morte di Empedocle) p. 109<br />

“Troppo male offendere il mondo” (Sicilia!) p. 111<br />

Le storie non possono essere illustrate<br />

(Operai, contadini) p. 113<br />

Il terrorista sono io (Quei loro incontri) p. 113<br />

Una serata al Filmstudio<br />

La realtà ha una ricchezza irraggiungibile p. 115


Post-it (Una festa romana) p. 125<br />

Sugli ultimi film di Jean-Marie <strong>Straub</strong><br />

Il congedo e i fantasmi p. 129<br />

Filmografia p. 141<br />

Bibliografia essenziale p. 152<br />

Nota editoriale<br />

di Fabio Francione p. 155


Piero Spila<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

UN TOTALE EQUILIBRIO INCARNATO: UNA BIOGRAFIA<br />

È nato a Metz, la città di Paul Verlaine, sotto il segno del<br />

Capricorno, nell’anno dell’avvento al potere di Hitler; gli è stato<br />

imposto il nome di uno dei primi obiettori di coscienza (Jean-<br />

Marie Vianney, parroco di Ars); fino al 1940 sentì e studiò solo il<br />

francese, all’improvviso fu costretto a parlare in tedesco. La vita<br />

di Jean-Marie <strong>Straub</strong>, così come la racconta lui stesso, è sempre<br />

stata segnata da rotture violente e faticose ricomposizioni, che<br />

dal dopoguerra in poi hanno avuto il cinema come protagonista.<br />

Nel 1954 Jean-Marie si trasferisce a Parigi, dove è stato<br />

assistente di Gance, Rivette, Renoir, Bresson. Allo scoppio della<br />

guerra d’Algeria emigra in Germania dove, nel 1962, realizza il<br />

suo primo film, Machorka-Muff (un pamphlet antimilitarista), e,<br />

nel 1965, Non riconciliati, sulla Germania ancora prigioniera del<br />

suo passato. Nel 1967 gira il suo capolavoro, Cronaca di Anna<br />

Maddalena Bach (sulla vita e l’opera del grande musicista viste e<br />

raccontate dalla moglie) e il cortometraggio Il fidanzato, l’attrice<br />

e il ruffiano (riduzione di un testo teatrale di Ferdinand Brückner).<br />

Una vertenza con l’editore di Brückner (che pretende la<br />

distruzione di tutte le copie e del negativo del film) e le feroci<br />

critiche subite nell’occasione (Filmtelegram scrisse: «è tempo di<br />

tirare un duro tratto finale... questo nuovo film, lungo 23 minuti, è<br />

di fatto 24 minuti troppo lungo!») convincono <strong>Straub</strong> a lasciare la<br />

11


Piero Spila<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

Germania per Roma, dove sul Palatino, nel 1969, gira insieme a<br />

Danièle <strong>Huillet</strong> (Parigi, 1936 – Cholet, 2006) il suo primo film<br />

“italiano”, Othon, dalla tragedia di Corneille. Una proficua<br />

stagione italiana, durata quasi trent’anni, fatta di incontri (la<br />

storia, la cultura, la “luce tragica e crudele” del paese), occasioni,<br />

nuove idee e progetti.<br />

Un «totale equilibrio incarnato», quello di <strong>Straub</strong> e del suo<br />

cinema (la definizione è sua, detta a proposito di Bach e la sua<br />

musica), ma anche un’assoluta fiducia nel valore espressivo dello<br />

schermo, l’immagine, il suono. Una fiducia che non ammette<br />

dubbi. <strong>Straub</strong>, dapprima da solo, poi con l’assidua e preziosa<br />

collaborazione della moglie Danièle <strong>Huillet</strong>, ha fatto con il suo<br />

cinema tabula rasa di molte stratificazioni preesistenti (stilistiche,<br />

linguistiche, drammaturgiche, figurative, sonore) mettendo in<br />

atto una continua provocazione intellettuale e pretendendo di<br />

smuovere lo spettatore dalla sua condizione di passività. A un<br />

intervistatore che gli chiedeva come mai i suoi film erano sempre<br />

«senza sorrisi e senza emozioni», ha risposto: «Se lei non ha<br />

emozioni non è colpa mia. Io non sono responsabile dell’assenza<br />

di emozioni da parte degli spettatori». (In Reporter, 10 aprile<br />

1985). Il risultato è che le sue opere formano da sempre una<br />

straordinaria filmografia “fuori norma” e semisommersa.<br />

<strong>Straub</strong> non è un uomo facile, come dimostrano le interviste, le<br />

dichiarazioni, le infuocate conferenze stampa tenute a Cannes,<br />

Venezia, Berlino, Locarno, Pesaro, e, da ultimo, per restare<br />

all’Italia, anche un combattivo incontro col pubblico avvenuto<br />

anni fa all’Arena Sacher di Roma, moderato da Nanni Moretti,<br />

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Piero Spila<br />

dopo la proiezione di Sicilia! Assoluto e assertorio come il suo<br />

cinema («l’arte del cinematografo non è altro che l’applicazione<br />

dello spazio al tempo»), nemico giurato dei direttori dei festival,<br />

dei critici cinematografici («non sopporto le puttane e la maggior<br />

parte delle volte, ahimé, sono pubbliciste»), dei montatori («il<br />

95% delle volte sono i fornai dei produttori»), del doppiaggio («è<br />

la camera a gas dei film stranieri»), Jean-Marie <strong>Straub</strong> si è<br />

conquistato un posto nella storia e nella leggenda del cinema.<br />

Per le sue innovazioni, per il suo rigore (mai un cedimento in più<br />

di cinquant’anni di carriera), per la cura maniacale con cui<br />

costruisce i film (mesi di preparazione prima di iniziare le riprese,<br />

sceneggiature di ferro in cui sono previsti gli obiettivi da usare e<br />

persino, quando ancora si lavorava con la pellicola, i momenti dei<br />

cambi rullo in proiezione). Ma anche per certe sue affermazioni<br />

solo in apparenza paradossali («un film non deve significare nulla,<br />

se significa qualcosa finisce per confermare le persone nei loro<br />

clichés»). La sfida di <strong>Straub</strong> e <strong>Huillet</strong> è sempre stata di tradurre<br />

l’infinitamente grande delle ideologie e dei passaggi decisivi<br />

della storia con l’infinitamente piccolo, ma perfetto, del loro<br />

lavoro. Appunto un totale equilibrio incarnato, in cui un modo di<br />

intendere e fare cinema prova a fondersi semplicemente,<br />

armoniosamente, con la vita.<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

STRAUB-HUILLET E LO STUPORE DEL CINEMA<br />

Tornare a riflettere sul lavoro e sui film di Jean-Marie <strong>Straub</strong> e<br />

Danièle <strong>Huillet</strong> vuol dire per prima cosa riflettere su un modo di<br />

vivere e fare cinema davvero unico, orgogliosamente minoritario<br />

e tenacemente contrapposto rispetto ai modelli di produzione<br />

vincenti e ai parametri estetici che ne derivano. Nella stagione<br />

delle tecnologie digitali sempre più sofisticate, delle realtà<br />

virtuali sempre più avvolgenti, del sistema di reti in cui la merce e<br />

il mercato si sono travestiti con le forme della comunicazione, di<br />

fronte all’inflazione audiovisiva dove a contare sono per prima<br />

cosa l’eccesso, la velocità, la serializzazione delle immagini, è<br />

ancora più preziosa la presenza di un modello espressivo basato<br />

invece sull’irripetibilità dell’evento cinematografico, sull’unicità e<br />

la qualità estetica dell’inquadratura che puntando solo su se<br />

stessa riesce comunque a stupire, a contare, ad essere. Quello di<br />

<strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> è un cinema altro, innanzitutto perché non ha mai<br />

cercato la competizione con gli altri modelli di cinema, ma<br />

semmai una sincerità assoluta nel rapporto col pubblico, perché<br />

non considera lo spettatore un interlocutore da adescare o<br />

stordire, ma semmai un soggetto complice, capace<br />

(potenzialmente) di mettersi in gioco, di riappropriarsi del suo<br />

ruolo, delle sue ragioni e delle sue (eventuali) emozioni; un<br />

cinema dunque non compiacente in nulla (e infatti il mercato lo<br />

ha rifiutato e rifiuta), libero da ogni cliché estetico, ricco nella sua<br />

estrema povertà di mezzi (il capitalismo, l’industria non ci<br />

possono mettere mano), condizionato semmai solo dalla realtà<br />

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Piero Spila<br />

fattuale in cui agisce, dalla difficoltà e dalla fatica del suo farsi.<br />

Dunque un cinema che sin dall’inizio, Machorka-Muff (1962) da<br />

Heinrich Böll, fino a Operai, contadini (2001) da Elio Vittorini, a<br />

Kommunisten, work in progress presentato al Festival di Locarno<br />

del 2014, coerentemente fa tabula rasa di tutte le stratificazioni<br />

preesistenti (stilistiche, linguistiche, sonore, figurative, narrative)<br />

per mettere in atto una provocazione rivolta prima di tutto allo<br />

spettatore, sollecitato a compiere uno scarto decisivo che lo<br />

liberi dalla posizione di subalternità rispetto allo schermo e lo<br />

metta nelle condizioni ideali per esercitare il suo sguardo. Non<br />

narratività («il cinema - dice <strong>Straub</strong> - non deve perdere tempo a<br />

raccontare storie con le immagini»), non emozioni facili e a colpo<br />

sicuro («non siamo responsabili delle emozioni del pubblico»),<br />

fuori da ogni star system, nessun tornaconto del dare e<br />

dell’avere, «le immagini e i film non sono monete di scambio».<br />

Semmai le immagini sono un viatico da mettere a frutto e<br />

valorizzare. Se si vuole. È un bel punto fermo da cui partire.<br />

Mentre il cinema internazionale di consumo, opulento di risorse e<br />

senza più desiderio, ipertrofizzato dalla pubblicità,<br />

autoreferenziale nel linguaggio, si avvia in tutt’altra direzione,<br />

assomigliando sempre più a se stesso e dunque annunciando<br />

ogni volta la sua fine, mentre il Sistema dell’audiovisivo isola,<br />

assorbe e metabolizza anche le eccezioni e le ipotesi di<br />

marginalità, <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> prima, e <strong>Straub</strong> poi da solo, hanno<br />

continuato a percorrere la loro strada di autori, isolati e irriducibili<br />

(un termine che solo le cronache giudiziarie hanno reso<br />

negativo), senza inseguire gli eventi, le mode, le consuetudini,<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

Sicilia! (1988)<br />

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Piero Spila<br />

ma puntando sul rigore (totale) del loro lavoro e sull’impatto<br />

(provocatorio e spesso scandaloso) delle loro opere. E con i loro<br />

film si continua a fare i conti.<br />

Cinema troppo semplice, si direbbe, per essere accettato da un<br />

pubblico ormai abituato a ben altro, un cinema che torna alle<br />

origini (l’importanza dell’inquadratura, il valore del fotogramma e<br />

della percezione) e, partendo di lì, rifiuta i travestimenti e gli<br />

orpelli per andare sempre al cuore dei problemi, per affrontare in<br />

termini estremi e radicali i temi del presente e del futuro che ci<br />

attende (anche quando si indugia sul passato). In questa ricerca e<br />

in questa pratica, il cinema di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> trova la sua<br />

dimensione più importante: sia dal punto di vista linguistico,<br />

perché non concede nulla alla spettacolarizzazione della realtà (la<br />

«pornografia» secondo <strong>Straub</strong>) ma partendo da essa punta ad un<br />

suo radicale superamento, alla totalità di un equilibrio estetico,<br />

raggiunto solo nei confini determinati dal fotogramma; sia da un<br />

punto di vista politico, perché propone ogni volta riflessioni<br />

necessarie e centrali sulla condizione degli uomini e sul rapporto<br />

degli uomini con il mondo. Con la loro scelta, linguistica ed<br />

estetica, di far vedere (e sentire) ciò che al cinema in genere non<br />

è detto o è diventato inusuale, <strong>Straub</strong> e <strong>Huillet</strong> sono gli autori<br />

che sembrano percorrere con maggiore coerenza la strada,<br />

semplice e terribile, invocata da Buñuel: fare dei film capaci di<br />

ricordare che non viviamo nel migliore dei mondi possibili.<br />

Parlando di volta in volta di storia, letteratura, musica, pittura, di<br />

razzismo e lotta di classe, di invincibili giochi di potere e<br />

rivoluzioni sempre intempestive, passando da Corneille a Kafka,<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

da Bach a Schoenberg, da Hölderlin a Vittorini, a contare nei film<br />

di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> è tutto quello che non si consuma in un facile<br />

riconoscimento. Si parte da un testo, sempre, per arrivare<br />

comunque a un altro testo, che è quello del cinema, fatto di<br />

inquadrature e découpage, dove a contare non sono più solo la<br />

musica di Bach o la pittura di Cézanne o i versi di Hölderlin e<br />

Corneille, bensì quella musica, quella pittura, quei versi, con in<br />

più la riscoperta di una luce, di un suono, del giusto peso dato a<br />

una parola (mai detta con la tecnica insegnata dalle scuole di<br />

recitazione, e invece sempre “citata”, fatta propria dall’attore) o<br />

di una pausa improvvisa che spezza il discorso, o, più<br />

semplicemente, della forza evocativa della memoria. Movimenti<br />

di macchina limitati al massimo, comunque sempre essenziali, o,<br />

anche lunghe, insistite, sconcertate panoramiche, profondità di<br />

campo misurata dagli attori e dalle cose inquadrate, un controllo<br />

assoluto del set. Una recitazione classica ma non perfetta,<br />

scolpita, priva di emozioni che non siano quelle dell’attore che<br />

agisce senza rete, impegnato in lunghi monologhi, detti restando<br />

immobile e spesso guardando obliquamente rispetto<br />

all’obiettivo, verso un fuori campo che, così, elegge o rifiuta,<br />

dialetticamente, lo sguardo dello spettatore come privilegiato<br />

interlocutore. È “il fuori” dell’inquadratura che non viene mai del<br />

tutto escluso, che esiste e si annuncia (il fruscio del vento<br />

sull’erba, l’ombra delle nuvole, il rumore della città o della<br />

campagna), che arricchisce e smargina “il dentro”.<br />

Con <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> il cinema mette in atto ogni volta la prova più<br />

ardita: coniugare la densità e il valore del testo con la misura<br />

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Piero Spila<br />

Sicilia! (1988)<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

necessaria, quasi fisica, incontrollabile a dispetto di qualunque<br />

rigore, dell’adattamento visivo. Nel cinema di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong>, il<br />

testo è certamente presente e fondamentale ma vale solo come<br />

punto di partenza e ritorno del processo cinematografico. Il<br />

«ritorno al testo» è una negoziazione che implica sempre uno<br />

scambio (Seguin). Ma a vincere sarà comunque il cinema perché<br />

si tratta alla fine di un commercio paradossale, dato che <strong>Straub</strong>-<br />

<strong>Huillet</strong> non si aspettano nulla né sollecitano nessuno. La loro<br />

posizione rispetto al testo originario, per quanto importante e<br />

complesso esso sia, è sempre di mettersi alla giusta distanza, per<br />

meglio vederlo e, con Brecht, per meglio giudicarlo.<br />

Dunque un metodo, un rituale volutamente scostante, che<br />

naturalmente si è attirato le solite accuse. Stile teatrale, cinema<br />

saggistico, letterario, cinema da laboratorio. Niente di più falso<br />

perché quello di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> è cinema-cinema al massimo della<br />

sua potenzialità espressiva: a contare nei loro film è tutto quello<br />

che si vede e si sente: ogni centimetro quadrato del fotogramma,<br />

ogni suono rubato dal microfono (il formato e l’apparecchio di<br />

registrazione sonora sono le uniche tecniche a cui <strong>Straub</strong> e<br />

<strong>Huillet</strong> prestano attenzione). In teatro l’occhio dello spettatore<br />

seduto in platea si sposta, sceglie, privilegia, si distrae. Nel<br />

cinema di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong>, lo sguardo e l’attenzione dello<br />

spettatore non hanno scelta e sono costretti a non perdere nulla<br />

di un’ inquadratura enucleata, reiterata. Il risultato è che il campo<br />

visivo delimitato dalla focale - all’interno della quale tutto avviene<br />

e tutto il resto (visivamente) è escluso - moltiplica e dilata il senso<br />

espressivo ed emotivo dell’immagine nel suo insieme (il “dentro”<br />

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Piero Spila<br />

e il “fuori”). Da Othon a La morte di Empedocle, da Cézanne a<br />

Operai contadini, centrale è sempre e solo la ricerca del migliore<br />

equilibrio possibile dell’inquadratura e, all’interno di questa<br />

ricerca, il rapporto tra l’inquadratura e il suo spettatore,<br />

l’inquadratura e il mondo circostante. Appunto, puro cinema e<br />

null’altro.<br />

Il récit: sulla «triviale banalità dell’immediato»<br />

Dei film si può e si deve dubitare, dei film di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> mai.<br />

Per il cinema più tradizionale il dato di partenza non è altro che il<br />

linguaggio stesso del cinema, la sua possibilità infinita di<br />

articolazione, la naturale capacità evocativa. Se il cinema<br />

generalmente è condannato alle dimensioni univoche e<br />

irreversibili del tempo e dello spazio, alla necessità di “ordinare”,<br />

“enumerare”, l’infinito e caotico materiale narrativo messo a<br />

disposizione dalla realtà nelle coordinate obbligate (logiche e<br />

cronologiche) del racconto, il cinema di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> parte<br />

sempre da un gradino oltre e si muove in quella zona franca del<br />

cinema in cui, a dispetto di ogni pur rigoroso “controllo”, nulla<br />

viene dato per scontato e dunque tutto può accadere. I film di<br />

<strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> non vogliono “comunicare” niente a nessuno («un<br />

film non deve significare nulla - dice <strong>Straub</strong> - perché se<br />

significasse qualcosa confermerebbe le persone nei loro clichés»)<br />

e quindi non devono mostrare il continuum narrativo della<br />

metonimia, ma semmai far scattare l’immediato dell’idea<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

Cronaca di Anna Maddalena Bach (1967)<br />

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Piero Spila<br />

(l’intuizione, la visione, il riconoscimento, lo stupore). È solo in<br />

questo ambito che i film di cui parliamo giocano il proprio ruolo.<br />

Sembra poco ed è invece moltissimo.<br />

«L’immediato non ha valore, è la più vana e la più triviale<br />

banalità» (Hegel). Eppure il cinema, questa «bassa pratica»<br />

produttiva e commerciale, parte proprio dalla banale trivialità del<br />

materiale disponibile per tentare di innescare un’attesa e una<br />

sorpresa. Il cinema di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> va oltre questa banalità e<br />

questo tentativo perché disloca altrove il terreno della sua<br />

possibile comunicazione e della sua estetica. Realizza, nei fatti, la<br />

disgiunzione tra immagine e contesto, dove una è autonoma<br />

rispetto all’altro, e immagine e contesto insieme non ripetono<br />

«banali trivialità» ma parlano (o tentano di parlare) al cuore e alla<br />

ragione di chi guarda.<br />

Come dice <strong>Straub</strong>, importante è non correre dietro alle storie (di<br />

certo intraducibili e inenarrabili con supporti inaffidabili come le<br />

immagini), ma invece abolire il rapporto narrativo tradizionale<br />

spostandolo sul fronte del cinema dell’istante, dello scacco,<br />

dell’occasione, dove ogni parola, ogni immagine, ogni suono,<br />

siano autonomi, unilaterali, sorprendenti e dunque inimitabili,<br />

irripetibili. Meglio che il niente e l’ovvio, il cinema di <strong>Straub</strong>-<br />

<strong>Huillet</strong> offre l’impalpabilità dell’evento possibile, l’inconsistenza<br />

di un rapporto comunicativo che poggia su nessuna garanzia. Il<br />

racconto (il passaggio di un’esperienza o un’emozione da una<br />

fonte ad un’altra) esiste comunque, solo che è una pratica del<br />

raccontare devitalizzata, che non concede nulla al sentimento<br />

estorto e compiaciuto, all’appiglio collaudato dello stile, alla<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

struttura precostituita della forma. In un modello espressivo<br />

esclusivamente basato sulla visibilità (certo sempre apparente,<br />

mille volte ingannevole) <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> portano alle estreme<br />

conseguenze questo presupposto teorico liberandolo da ogni<br />

alibi. Visibilità data da un piano costruito e reinventato come se<br />

fosse sempre la prima volta del cinema, da una colonna sonora in<br />

cui parole e rumori sembrano scoperti soltanto in quel momento<br />

nel loro peso e valore. Parole, gesti, sguardi, silenzi, che<br />

costituiscono alla fine le tracce di una comunicazione possibile, il<br />

progetto di una ricostituzione del tempo e dello spazio messi in<br />

campo grazie al cinema, che ci appartengono e di cui (basta<br />

volerlo) possiamo riappropriarci. Sta qui gran parte dell’unicità e<br />

irripetibilità di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong>. Il cinema, almeno nella sua<br />

accezione più alta, è una terra di nessuno in cui c’è sempre la<br />

possibilità di incontrarsi, confrontarsi, scoprire qualcosa che<br />

valga, prima di rientrare nei confini. In questa direzione, il cinema<br />

di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> è davvero esemplare. Sembra fatto apposta,<br />

infatti, per mettere in imbarazzo chi ci si misura, ma solo perché<br />

fa capire e mette in campo con chiarezza quello che in genere è<br />

sottinteso, sottaciuto, negato. Con i loro film <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong><br />

costruiscono e delimitano (non a caso sono stati definiti<br />

geometri, geografi, topografi, esploratori) quel terreno che di<br />

volta in volta può essere punto di rottura e di svolta. Cinema<br />

come sfida, ma senza arroganza. Cinema non noioso e, a ben<br />

vedere, neppure difficile, solo esigente. Di fronte a questi film, a<br />

questo cinema, si può anche rimanere chiusi in se stessi, opporre<br />

un rifiuto, tornare sui propri passi, a mani vuote. Cinema però<br />

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Piero Spila<br />

sempre prezioso, perché consente di misurarsi con le forme del<br />

racconto più autentiche che possa fornire un film: le esperienze<br />

di chi ci ha preceduto e che ci riguardano ancora, le<br />

contraddizioni, le prevaricazioni, le ambiguità, le occasioni<br />

perdute, le utopie e le sconfitte degli uomini, gli atti di ribellione,<br />

gli equilibri perduti e ripristinati. Sempre parlando di noi stessi,<br />

dei padri e dei figli, degli operai e dei padroni, pur dando l’idea<br />

di parlare d’altro: Bach alle prese con i suoi committenti, Kafka in<br />

lotta con i suoi incubi, Fortini e le contraddizioni della storia,<br />

Vittorini e i suoi astratti furori. La vecchia Johanna Fähmel,<br />

protagonista di Non riconciliati, riconosce nei nuovi potenti che<br />

sfilano in strada le fisionomie e i vizi dei vecchi despoti («Ho<br />

paura, vecchio mio. Nemmeno nel 1935, né nel 1942, mi sono<br />

sentita tanto estranea tra la gente»). I protagonisti di Operai,<br />

contadini sono sempre alle prese con vecchie e nuove<br />

contraddizioni di classe, con la mancanza di solidarietà, il<br />

tradimento, la sconfitta. Karl Rossmann in Lotte di classe va in<br />

America per sfuggire a se stesso, mentre il Viaggiatore di Sicilia!<br />

fa ritorno alla sua terra natale perché non può fare a meno di<br />

recuperare radici mai spezzate. Chi va e chi viene, chi si muove e<br />

chi resta, prima che sia tardi, col rischio di bruciare i tempi.<br />

Dunque, cinema di grandi temi (altro che minimalismo), cinema<br />

alla ricerca delle tracce perdute, dei segni che rischiano di essere<br />

sommersi, cinema che ricongiunge le separazioni e colma le<br />

tante lacune della storia. Il récit nei film di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> sta nel<br />

loro essere sempre perfettamente omogenei all’oggetto di cui<br />

parlano, alla materialità, all’essenzialità della visione. È lì, e solo lì,<br />

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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

il loro dire, il loro esprimere: le assenze, i vuoti, i silenzi, perché<br />

tutto può ancora essere detto, ed è questo che vale.<br />

L’immagine e il trauma<br />

L’immagine straubiana costruita così meticolosamente e con<br />

un’adesione che è stata giustamente definita «morale», è ricca<br />

innanzitutto perché conta sulla sua fisicità, perché ha in sé un<br />

patrimonio di elementi iconici e sonori dove a valere è tutto,<br />

senza graduatorie o sottolineature: il centro dell’inquadratura è<br />

prezioso quanto il margine, la parola pronunciata da un testo ha<br />

lo stesso peso del suono o del rimbombo o del fruscio regalati<br />

dalla natura, l’ombra che improvvisamente si annuncia è<br />

importante quanto lo spazio di cielo che incorona la testa del<br />

personaggio in primo piano e che occupa la parte superiore del<br />

fotogramma. Confini dell’inquadratura che delimitano l’universo<br />

visivo che «conta», in quel momento, qui e ora, soprattutto per<br />

ciò che essi escludono e quindi inevitabilmente evidenziano<br />

ancora di più. È la dialettica, ricordata da Bazin, tra la forza<br />

centripeta del piano cinematografico e la spinta contraria verso<br />

l’esterno, che con <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> trova ogni volta la sua più chiara<br />

riproposizione.<br />

Allo spazio delimitato e vulnerabile dell’inquadratura si<br />

aggiunge, con effetto moltiplicatore, il tempo, la durata della<br />

ripresa che amplifica, dilata e trasforma l’immagine in maniera<br />

inusuale, rendendola diversa da quello che è o dovrebbe essere<br />

27


Piero Spila<br />

(naturalisticamente) e dunque portandola ad essere riconoscibile<br />

ad un altro livello, decontestualizzata e più ricca di espressività.<br />

Ecco dunque che la realtà così rappresentata - lì, in quel<br />

momento/qui, ora, nella visione - non riesce a proporre nessuna<br />

verità in più, viceversa sembra svuotarsi e liberarsi di tutto ciò che<br />

è abitudine, quotidianità, distrazione. L’immagine si riferisce a<br />

nessun altra realtà se non a se stessa, e in questa<br />

autoreferenzialità acquista la sua autonomia linguistica rispetto al<br />

corpus del film, diventando corpus essa stessa.<br />

Il tempo del film, si sa, è sempre limitato; ma all’interno del suo<br />

uso espressivo l’autore ha generalmente infinite possibilità di<br />

intervento. Ad esempio, può scomporre e ricomporre il flusso<br />

narrativo, utilizzando le varie forme di montaggio, sintetizzando<br />

o dilatando i momenti del racconto, dando una dimensione<br />

temporale realistica e insieme illusoria.<br />

<strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> partono da una concezione diametralmente<br />

opposta, perché non fanno ricorso alle forme consuete del<br />

racconto o della rappresentazione, e in particolare moltiplicano<br />

la dimensione del tempo e dello spazio lavorando sulla<br />

profondità e fissità dell’immagine. Nell’inquadratura straubiana,<br />

non essendoci punti di riferimento narrativi certi, ma avendo a<br />

disposizione «il tempo a una dimensione», scatta una specie di<br />

vertigine immobile, un evento espressivo, direbbe Blanchot, che<br />

ignora «la linea retta» e cresce e si avvita su se stesso. All’interno<br />

di questo processo, niente si sposta da un punto ad un altro, e<br />

non si verifica nessuno “scambio” apparente: è solo il cinema<br />

che, al di fuori delle esemplificazioni visive più ricorrenti e dei<br />

28


<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

tradizionali punti di forza, afferma la sua alterità, il suo traumatico<br />

scostamento dall’uso corrente (e corrivo, direbbe <strong>Straub</strong>) della<br />

cinematografia e delle sue consuete «monete di scambio»<br />

(metafora, polivalenza, allusione, enigma, suspense,<br />

autobiografia).<br />

In sintesi, è quanto più volte sostenuto da <strong>Straub</strong>, secondo cui<br />

l’immagine cinematografica non serve a contrattare un<br />

tornaconto o a instaurare un terreno di confronto, è invece un<br />

dono che, a determinate condizioni, può essere messo<br />

convenientemente a frutto grazie alla sua natura “destrutturata”<br />

e al trauma operato in uno dei processi più radicali della visione:<br />

per poter avere qualcosa di più o anche di meno, certamente di<br />

diverso, da ciò che la piatta rappresentatività della realtà può<br />

offrire (il saldo narrativo, il dato realistico, a cui lo spettatore del<br />

cinema è condannato). Non è cosa da poco. Sta qui, infatti, il<br />

sentimento non so se del miglior cinema possibile, certamente di<br />

quello destinato a sopravvivere a qualsiasi celebrazione.<br />

I personaggi/gli spettatori<br />

I personaggi dei film di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> non si fanno illusioni, non<br />

credono alle promesse di nuovi mondi né alle prospettive incerte<br />

della democrazia borghese, hanno invece il sentimento<br />

incombente di un’ennesima sconfitta a cui ci si può opporre solo<br />

resistendo: alle minacce della storia, alle infamie del tempo, alle<br />

strade mille volte percorse dell’esilio. Cinema non-riconciliato,<br />

29


Piero Spila<br />

irriducibile, perché parla a nome di questa sconfitta ed<br />

emarginazione, perché dà voce a «esseri umani con pochi averi»<br />

e a chi ha in sé, e coltiva con il cuore e la ragione, un’indomita<br />

volontà di opposizione.<br />

Con <strong>Straub</strong> e <strong>Huillet</strong> è utile partire sempre dalle loro parole,<br />

tenere presenti le chiavi di lettura che propongono per i loro film<br />

(in questo senso sono tra gli autori cinematografici più lucidi che<br />

sia possibile incontrare) e, più in generale, per il loro cinema visto<br />

come un unicum dove i vari elementi si sviluppano o<br />

interrompono con una interna imprescindibile coerenza. C’è un<br />

filo ininterrotto che lega tutta la loro opera a dispetto degli scarti<br />

inattesi, dei zig zag ripetuti nei meandri della storia, dei viaggi<br />

senza sosta dal passato al presente, da autori classici ad autori<br />

contemporanei. Un filo rosso che lega il giovane Othon, alle<br />

prese con gli eterni intrighi del potere (mentre dal colle Palatino<br />

si sente distintamente il traffico della Roma contemporanea) a<br />

Giulio Cesare, visto e commentato dalla parte dei contadini e dei<br />

legionari (Lezioni di storia), alle persone-personaggi di Operai,<br />

contadini che si mettono in scena senza ideologismi e<br />

sentimentalismi con le parole di Vittorini. Personaggi che si<br />

passano il testimone come in un’ideale staffetta, in un<br />

eccezionale inimitabile discorso d’autore che, fra temi, fughe e<br />

variazioni, ripropone di film in film la stessa sfida, lo stesso<br />

progetto. I contadini di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> - come scrive Fortini a<br />

proposito di Dalla nube alla resistenza - non costituiscono<br />

un’ennesima arcadia; come gli operai diseredati non<br />

costituiscono una mitologia di classe. Ed è il punto da cui parte,<br />

30


<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

Cronaca di Anna Maddalena Bach (1967)<br />

31


Piero Spila<br />

ad esempio, un film come Operai, contadini. Gli uni e gli altri<br />

sono proposti nel momento dell’ansia e del dubbio, della ricerca<br />

in se stessi dell’antica ferita, nella messa a confronto dei reciproci<br />

desideri, delle attese insoddisfatte che si fanno impazienti e del<br />

sentimento di sconfitta che incombe. È un confronto inevitabile<br />

per chi fa e intende il cinema a certe condizioni, tra il progetto<br />

ambizioso e la realtà disarmante che si è chiamati a<br />

rappresentare. Una realtà inadeguata che sa sempre di<br />

paradosso, come paradossale è lo stato dell’Italia dell’immediato<br />

dopoguerra come dell’Italia post-industriale e dei nostri anni<br />

desolanti. Il cinema di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong>, dal loro film d’esordio parla<br />

- come sempre - di operai e contadini, come già di politici o<br />

borghesi o imperatori, parla di ieri e di oggi, e delle sconfitte che<br />

preparano altre sconfitte. Con consapevolezza, ma mai<br />

rassegnazione. Come l’arrotino di Sicilia!, che nella luce<br />

abbagliante della terra siciliana, e davanti alla porta di una chiesa<br />

monumentale, chiede alla vita nient’altro che «forbici e coltelli da<br />

arrotare, spade e cannoni». Sempre contro Golia, dalla parte di<br />

David.<br />

Presente/futuro<br />

Se come scriveva Serge Daney il cinema, per vocazione e<br />

impronta di nascita, appartiene soprattutto alla città (la fabbrica<br />

di Lumière, gli inseguimenti di Charlot, la metropoli di Sunrise ),<br />

nessuno prima di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> ha mai saputo fare con tanta<br />

32


<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

forza e lucidità un «cinema contadino», un cinema che non<br />

respira l’aria del teatro di posa ma fa respirare l’aria aperta dei<br />

sentieri scoscesi (sempre più faticosi da raggiungere: dalle<br />

pendici dell’Etna alle selve intorno a Buti), delle pareti a<br />

strapiombo e delle forre, dove siano sempre meno presenti le<br />

tracce dell’attività umana e dove regnino invece il mormorio del<br />

torrente e il suono continuo degli uccelli, dove la semplice ombra<br />

di una nuvola che passa, oscurando per un attimo il fotogramma,<br />

o il respiro inedito del silenzio, acquistano il peso di un evento. Il<br />

cinema di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> è tutt’altro che povero, può forse<br />

apparire disadorno e ostico perché propone la semplicità<br />

dell’Inizio (del cinema, della vita), perché sottopone la regia e la<br />

creatività dell’immaginario alle costrizioni di una severità<br />

desueta: limitate posizioni della macchina da presa, tempo reale<br />

delle riprese, suono rigorosamente in presa diretta, luce naturale,<br />

location sempre più estreme, prove estenuanti. Limitazioni che,<br />

beninteso, possono diventare anche autentiche ricchezze. In<br />

questo senso, è giusta l’osservazione di Aprà sul fatto che il<br />

cinema di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> è una specie di «abbecedario», ovvero<br />

un’esemplificazione incarnata delle basi elementari di quest’arte,<br />

inventata dagli scienziati e sublimata dai visionari, resa però<br />

possibile dall’alto magistero degli artigiani. Contro la routine<br />

dell’uso (o abuso) comune della strumentazione tecnica, <strong>Straub</strong>-<br />

<strong>Huillet</strong> sfidano anche l’accusa di primitivismo (o, al contrario, di<br />

formalismo) per ribellarsi a un’industria volgare che appiattisce le<br />

differenze e, peggio, azzera le potenzialità più autentiche della<br />

visione cinematografica. Il cinema a cui essi ambiscono è<br />

33


Piero Spila<br />

semplice e insieme ogni volta sorprendente, una terra in trance<br />

dove viene messo in scena lo scontro-incontro di alcuni visionari<br />

(o «fantasmi», come in Operai, contadini o in Kommunisten),<br />

dove il cinema stesso, arricchito della sua essenzialità ritrovata e<br />

della messa a bando di ogni residuo privilegio, riesce a riportare<br />

alla luce immagini vere ed emozioni dimenticate.<br />

Un cinema che ci ricorda anche alcune verità inevitabili. L’uomo<br />

non è, non sarà mai, il centro dell’universo. È invece una parte del<br />

tutto, marginale e insieme eccezionale. In lui, nel suo<br />

manifestarsi, non c’è mai nessuna verità, eppure è da lui (fosse il<br />

più umile degli uomini) che bisogna sempre partire ed è a lui che<br />

bisogna fare ritorno. Rosa Luxemburg scrisse che la sorte di un<br />

insetto non è meno importante della sorte di una rivoluzione.<br />

Con il loro cinema solo apparentemente assertivo, che si limita a<br />

«suggerire» e mai a «mostrare», che lascia vedere o capire senza<br />

però guidare lo sguardo o attirare l’attenzione, <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong><br />

ripetono e confermano quella fondamentale verità, non<br />

stancandosi di tradurre l’infinitamente grande delle ideologie e<br />

dei passaggi decisivi della Storia con l’infinitamente piccolo di<br />

una loro inquadratura.<br />

In Il cinema di Jean-Marie <strong>Straub</strong> e Danièle <strong>Huillet</strong>: “Quando il<br />

verde della terra di nuovo brillerà” - Bulzoni Editore, Roma 2001,<br />

qui riproposto con lievi aggiornamenti.<br />

34


<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

STRAUB SU STRAUB, IL CINEMA E ALTRO<br />

Sullo stile<br />

Ho sempre avuto orrore – anche in Bresson, che pure mi piace<br />

molto – dei campi/controcampi fatti in maniera da vedere prima<br />

un personaggio di faccia e quindi, nel controcampo, la nuca dello<br />

stesso personaggio. Per me questa nuca non appartiene allo<br />

stesso personaggio, diventa come un tronco d’albero; dimentico<br />

che la nuca che c’è sullo schermo è quella del personaggio<br />

ripreso di faccia nell’inquadratura precedente. Credo che in<br />

questo modo di fare il cinema ci sia una mancanza di rivolta nei<br />

confronti di procedimenti fotografici superati: ai fotografi piace<br />

molto avere dei primi piani. Per me un’inquadratura (plan) è<br />

un’inquadratura, è cioè una realtà oggettiva che costituisce un<br />

tutto, che non ha alcuna funzione: narrativa, psicologica o altro.<br />

Non bisogna credere per questo che io arrivi automaticamente a<br />

raccontare un massimo di cose con un minimo di inquadrature. Si<br />

tratta soltanto del risultato di una lunga pazienza, senza che vi sia<br />

da parte mia, all’inizio, una qualche volontà anticonvenzionale.<br />

Prendiamo, come esempio di quanto voglio dire, la sequenza del<br />

balcone, in Nicht Versöhnt, da cui la vecchia Johanna spara.<br />

Dapprima ho avuto l’idea di girarla in tre, quattro o cinque<br />

inquadrature. Si trattava, molto semplicemente, di fare un primo<br />

piano di lei che estrae la pistola dalla borsa, un’inquadratura a<br />

favore di lui e un’inquadratura a favore di lei durante il dialogo,<br />

35


Piero Spila<br />

ecc. Solo a forza di lavorare e di riflettere sull’idea di questa<br />

sequenza sono giunto a girare la sequenza con una sola<br />

inquadratura: Johanna sul balcone, inquadrata un po’ da<br />

lontano, tanto che si vede anche la balaustra; arriva quindi il<br />

vecchio Heinrich e, seguendo il suo movimento, la macchina da<br />

presa avanza verso il balcone, fino ad escludere la balaustra; si<br />

svolge quindi il dialogo. Sul fatto che questa piccola sequenza sia<br />

girata con un’unica inquadratura si basa il rapporto fra i due<br />

personaggi. Proprio per questo essa diventa anche toccante,<br />

perché si ha l’impressione che i personaggi siano liberi. Se ci<br />

fossero stati dei tagli, com’era possibile farne, non si avrebbe<br />

avuto l’impressione che la vecchia sia libera di tirare, che il suo sia<br />

veramente un atto libero; lo stesso si può dire del vecchio. Questi<br />

la distoglie dallo sparare su un personaggio del passato – Vacano<br />

– e la spinge a sparare prima su uno del presente – Nettlinger – e<br />

poi, per così dire, su uno dell’avvenire – M –; infatti quest’ultimo<br />

personaggio, questa sorta di opportunista contemporaneo, non<br />

è affatto un personaggio del passato. Il vecchio le dice «Guarda<br />

là, il nostro vecchio amico Nettlinger. Già che ci siamo, preferirei<br />

piuttosto sparare a lui»: è la prima idea, dato che Nettlinger è<br />

giovane e fa ancora parte dell’attività politica contemporanea;<br />

quindi Heinrich ha una seconda idea: «Ma forse ci ripenserei:<br />

l’assassino di tuo nipote sta nel balcone accanto». La maggior<br />

parte dei critici tedeschi non ha fatto attenzione alla frase<br />

«L’assassino di tuo nipote», che fa capire – dato che sappiamo<br />

bene che Joseph, nipote di Johanna, è vivo – come il<br />

personaggio sul quale Johanna alla fine spara, e che abbiamo<br />

36


<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />

Mosè e Aronne (1974)<br />

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