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TERRE FOGGIANE


Questo volume contiene una serigrafia originale, numerata e firmata,<br />

di Rolando Greco


edizione fuori commercio<br />

copia numero


TERRE FOGGIANE<br />

LANFRANCO TAVASCI MARCO SQUARCINI<br />

CITTÀ<br />

DIMENTICATE<br />

EDIZIONI GEMA


Ad eccezione della serigrafia di Rolando Greco e della riproduzione<br />

della Tabula Peutingeriana, tutte le illustrazioni nel testo sono opera<br />

di Maria Checchia. Le schede biografiche degli artisti sono collocate<br />

alla fine del volume.<br />

Il progetto grafico è delle Edizioni d’Arte Severgnini<br />

© Copyright MIVAL s.r.l.


Rolando Greco<br />

Città dimenticate


INDICE<br />

PREMESSA pag. 9<br />

LA DAUNIA PEUTINGERIANA pag. 15<br />

HERDONIA pag. 21<br />

Una capitale dell’archeologia<br />

L’anima di Herdonia, forse<br />

Obscura Herdonea<br />

‘Mission’<br />

Un Reale Sito<br />

ARPI pag. 35<br />

Da Arpi a Foggia: due millenni di Marina Mazzei (2002)<br />

Marina Mazzei: un profilo etico-civile di Saverio Russo (2004)<br />

MATINUM pag. 45<br />

La Terra madre<br />

La testimonianza di Antigone<br />

Per passare l’eternità<br />

Archita o il ’ Leonardo’ da Taranto<br />

Archita per i bambini<br />

Naufragio<br />

SALINIS pag. 55<br />

Economia e politica del sale<br />

Salpi, le donne di bastoni<br />

Quelle che rifiutano le nozze<br />

Quelle che si bruciano le navi dietro le spalle


Salapia, capitale di Annibale<br />

Hannibal ad portas!<br />

Storie di ordinario collaborazionismo<br />

L’inganno infelice<br />

Annibale il Foggiano<br />

Un generale prestato alla politica?<br />

Change Management<br />

DEVIA pag. 81<br />

Santa Maria di Devia<br />

Tra Greco e Latino<br />

L’Abbazia di Diomede<br />

Le Porte d’Occidente<br />

Il pericolo slavo<br />

Gli Ebrei di Torre Mileto<br />

La Grotta dell’Angelo<br />

MONTECORVINO pag. 99<br />

Un ‘landmark’: la sedia del diavolo<br />

Prima di Montecorvino<br />

‘Lega longobarda’ o nazionalismo murgiano?<br />

La battaglia di Canne, 1018<br />

Gli anni brevi di Montecorvino<br />

Alberto vescovo, ‘santo subito’<br />

TIATI pag. 111<br />

Civitate, 18 giugno 1053<br />

Com’è il fatto<br />

I racconti dei testimoni<br />

Ma il peggio deve ancora venire<br />

FIORENTINO pag. 127<br />

“E l’ora tardi mi pare che sia”<br />

“Che nulla medicina me non vale”<br />

“Poi tanta caunoscenza”<br />

“E son lontano da li miei paesi”<br />

“Rimembranza mi serra in suo domìno”


“Lo meo coraggio non diparto mai”<br />

“Pur aspettando bon tempo e stagione”<br />

“Penitenza non aggio fatta niente”<br />

“Ca, ss’io fossi oltramare”<br />

“In vostra spera vivo, donna mia”<br />

“Ed esser la mia morte e non vedere!”<br />

I racconti dei testimoni<br />

TERTIVERI pag. 149<br />

Tertiveri e il suo mondo<br />

La Crociata contro i Saraceni di Puglia<br />

Chi è ‘abd el-Aziz, il signore moro di Tertiveri<br />

Eudes, l’Arcinemico<br />

Châteauroux vs/ Tertiveri<br />

SIPONTO pag. 169<br />

La koinè diomedea<br />

Un punto di osmosi<br />

Il Monte come destino<br />

La morte di Siponto<br />

Biondo, bello, e di gentile aspetto<br />

La Fille ainée de l’Église<br />

De pulcritudine civitatis Manfredonie<br />

La parola al nemico<br />

LA MAGNA CAPITANA pag. 184<br />

GLI ARTISTI pag. 187<br />

GRAZIE pag. 191


PREMESSA<br />

di Lanfranco Tavasci<br />

Riprendiamo ancora una volta – è l’undecima – le strade della<br />

Capitanata alla ricerca di ciò che non si vede. Ciò che nella trama dei<br />

secoli ha costituito l’incanto di questa terra. Gli ‘asset non contabilizzabili’,<br />

si direbbe nella teoria d’azienda.<br />

Incominciammo assieme ad Aldo Chiappe, nel secolo scorso, a studiare<br />

le diverse identità delle ‘Terre Foggiane’. La prima ricerca fu sugli<br />

stendardi dei Comuni, la seconda sui Santi patroni. L’identità laica e<br />

religiosa di ciascuna comunità. Poi abbiamo preso a interrogare lo spirito<br />

dei luoghi. Nel 2001 fu il millenario dell’Incoronata, la grande<br />

icona della cristianità daunia assieme a Michele Arcangelo e a Pio da<br />

Pietrelcina.<br />

Per due anni consecutivi abbiamo chiesto ai Dauni stessi di raccontarci<br />

la loro terra: sia a quelli rimasti in Capitanata che a quelli che<br />

hanno sviluppato altrove la loro vocazione – da Renzo Arbore a Lucio<br />

Stanca. Una incursione nel sottoterra di Arpi ci ha portati al volume<br />

sulla Medusa: icona, lei, dell’inconscio collettivo, enigmatica vestale<br />

della morte e spettacolare figura del Museo Civico.<br />

I tre volumi più recenti documentano la nostra passione progressiva<br />

per le fonti: storiche, letterarie, documentarie, folcloriche, paesaggistiche,<br />

monumentali. Ecco quindi Federico II, il creatore di Foggia; le<br />

Tremiti, incredibile microcosmo attraversato spesso dalla ‘grande’ storia;<br />

la civiltà della transumanza còlta nelle ultime possibili testimonianze.<br />

E adesso queste ‘Città dimenticate’.<br />

Il punto di partenza è stato la Tabula Peutingeriana. Una stupefacente<br />

carta stradale dell’Impero romano riprodotta nel tredicesimo secolo,<br />

conservata a Vienna. Prende il nome dall’umanista che la ebbe in possesso,<br />

e si scarica da Internet.<br />

Mentre ci si interrogava sui toponimi osci e romani di questo territorio<br />

9


ci si è presentata pian piano l’immagine di un’altra Capitanata: quella<br />

che non si è riprodotta attraverso i secoli come la maggior parte<br />

delle località che conosciamo. Furfane diventa Cerignola, Aecas dà<br />

origine a Troia, l’Aufidus adesso è l’Ofanto. Quella che, semplicemente,<br />

si è eclissata lasciando di sé qualche segno in superficie: le traccie<br />

affascinanti dell’assenza. Noi abbiamo scelto dieci luoghi e trovato chi<br />

assieme a noi provasse ad evocare anche visivamente questa ricchezza<br />

dimenticata.<br />

Così procede il nostro cammino: leggendo le fonti, ascoltando i luoghi,<br />

evitando di fare il verso alle discipline che si occupano seriamente di<br />

queste cose. Non archeologia, niente storia né letterature, ma soltanto<br />

un invito a frequentare questi luoghi con fantasia, affondando lo sguardo<br />

nell’invisibile.<br />

10


Tabula Peutingeriana<br />

sectio V<br />

11


LA DAUNIA PEUTINGERIANA<br />

Chi non ha visto lungo i Fori imperiali i grandi tabelloni di marmo che<br />

raffigurano l’espansione dell’Impero romano? Astutamente essi si fermano<br />

al punto di massimo splendore: lealtà vorrebbe che in altre cinque<br />

o sei videate si capisse come siamo arrivati all’estensione di oggi.<br />

Questo per ammonire che la rappresentazione cartografica può essere<br />

un racconto ma raramente è pura da presupposti ideologici.<br />

È sempre una sfida affascinante riprodurre la sfera terrestre su una<br />

superficie piatta. Come pelare un’arancia e stendere la buccia per farla<br />

aderire alla tavola. Chiunque converrà che la maniera migliore è tagliare<br />

la buccia in sezioni triangolari. Più o meno così l’architetto americano<br />

Buckminster Fuller concepì il suo Planisfero Dymaxion, in cui la<br />

sfera terrestre si riflette su un solido a otto facce, l’ottaedro, oppure a<br />

venti facce, l’icosaedro. Ambedue i solidi hanno solo facce triangolari;<br />

vengono detti ‘platonici’ perché il Filosofo dice nel Timeo che la realtà<br />

è composta da triangoli.<br />

Altrimenti ci si arrende a riprodurre la sfera terrestre su una superficie<br />

sferica, e abbiamo il mappamondo girevole delle scuole elementari,<br />

anche illuminato dall’interno come lampada da notte. O quello di<br />

Coronelli per il Re Sole. O quello appoggiato da Hans Holbein su un<br />

tappeto anatolico (detto da allora ‘tappeto Holbein’) nella tela ‘gli<br />

Ambasciatori’. E’ quel doppio ritratto che contiene in primo piano il<br />

teschio anamorfico che pare un sigaro sgretolato, e che è per la<br />

National Gallery come la Gioconda per il Louvre o la Nascita di Venere<br />

per gli Uffizi.<br />

Fra i tabelloni imperiali di Roma, cioè il vertice dell’ideologia, e un<br />

15


mappamondo, cioè la miglior rappresentazione della realtà, si dispone<br />

un ventaglio illimitato di modalità e tecnologie per raffigurare la Terra.<br />

Le carte che abbiamo più familiari derivano dal Planisfero di<br />

Mercatore, che fa sembrare enormi il Canada, la Groenlandia e la<br />

Siberia settentrionale, e lunghissimo il Cile, e non può rappresentare i<br />

poli perché, rispetto al punto di vista, si trovano all’infinito. Conviene<br />

fare due passi su Wikipedia alla voce ‘Proiezioni cartografiche’.<br />

Quello che ci colpisce è che mentre tutta l’antichità si è data un gran<br />

daffare per raggiungere figurazioni il più possibile realistiche – e infatti<br />

il Planisfero di Tolomeo, quello a forma di ventaglio rovesciato, è<br />

assai credibile _ , inoltrandosi nel Medioevo ci si allontana dalla rappresentazione<br />

del vero e si impongono le mappe simboliche. Non<br />

hanno nulla a che vedere con l’uso pratico: sono delle icone per illustrare<br />

una visione teologica del mondo. La forma più comune è una T<br />

inscritta in un cerchio, che dà origine a tre campi: l’Europa, l’Africa e<br />

l’Asia (l’Asia è in alto); al centro spesso c’è Gerusalemme; a volte si<br />

rappresentano il corso del Nilo o del Don, il Mediterraneo o il Mar<br />

Nero. Secondariamente, le mappe sono disegnate per rispondere al<br />

bisogno di meraviglie: ed ecco comparire il Paese di Gog e Magog, il<br />

Regno di Prete Gianni, i cieli danteschi, il Paradiso terrestre, le Isole di<br />

San Brandano, con animali strani e mostri assortiti secondo le varie<br />

regioni di pertinenza.<br />

Naturalmente la T che dà ordine e significato alla Terra è il segno della<br />

croce. A volte con appeso il serpente che salva chi lo guarda dal morso<br />

dell’altro serpente, l’antico ingannatore. A volte nella nudità cantata da<br />

Venanzio Fortunato con l’inno Vexilla regis prodeunt:<br />

“splende il mistero della croce<br />

per la quale la Vita patì la morte,<br />

e per mezzo della morte restituì la vita”.<br />

L’oggetto della raffigurazione, in queste mappe, è un manifesto cosmico<br />

e non ha nulla a che vedere con le valigie, gli orari dei treni o i last<br />

minute per il Mar Rosso. Eccetto forse l’universo a forma di baule<br />

immaginato dal folle bizantino Cosmas Indicopleustes; ma non saran-<br />

16


no certo più savi, in pieno Novecento, i credenti nella terra concava, nel<br />

regno di Agartha, nei deliri dell’esoterismo nazista.<br />

La cartografia scientifica dell’antichità riprende con le Repubbliche<br />

marinare e con le ‘carte da navigar’. In particolare è la Sicilia normanna<br />

all’avanguardia di questa disciplina sotto Ruggero II, il nonno di<br />

Federico II, che fa tradurre le opere geografiche e le guide di viaggio<br />

dell’antichità e mette il dotto al-Idrisi a capo di una vera e propria<br />

impresa di conoscenza. Output famosi di questo ambiente sono il<br />

‘Libro di Re Ruggero’ del 1154, in arabo, adesso alla Bodleian Library<br />

di Oxford, e la Carta geografica che venne riprodotta anche su un disco<br />

d’argento del diametro di due metri e del peso di 150 chili: troppi per<br />

essere immune da furti.<br />

I portolani più antichi, in pergamena, conservano la forma della pelle<br />

di agnello. Per uno che va a piedi il loro disegno è sconcertante: sono<br />

delle mappe del mare, non della terraferma. La costa è un confine e<br />

viene descritto minuziosamente; ma di ciò che è oltre la costa, nell’interno,<br />

nihil constat. Se ne trovano, a Posta Farano, di ‘carte da navigar’:<br />

moderne, naturalmente. La maggior parte è focalizzata su un’area<br />

dell’Anatolia meridionale fra Alicarnasso e Attalia. Quest’area comprende<br />

sia la città subacquea di Simena, sia il porto di Mira, e cioè le<br />

tombe licie e la cattedrale in cui San Nicola, vescovo, presumeva di<br />

riposare per sempre.<br />

Sulle carte antiche e medievali pende un malinteso secolare: che i loro<br />

autori ritenessero la terra piatta, così come la rappresentano.<br />

Ovviamente non è vero. D’altra parte la terra rotonda, che contrasta l’esperienza<br />

immediata della piattezza, non può che avere un’origine speculativa.<br />

La sfericità era acquisita già dai Pitagorici. Platone nel Timeo<br />

spiega, parlando dell’intero universo: “Al vivente che comprende in sé<br />

tutti i viventi conviene quella forma che comprende in sé tutte le altre<br />

forme. Perciò (il demiurgo) lo plasmò arrotondato, in forma di sfera<br />

che si stende dal centro alla superficie in maniera uguale da ogni parte:<br />

la più perfetta fra tutte le forme, la più uguale a se stessa: il simile infatti<br />

è più bello del dissimile”.<br />

17


Raffigurazioni della terra, del mare, e poi anche del cielo: una storia<br />

lunghissima di cui ci restano documenti più o meno comprensibili:<br />

dalle tavole dei Maya al Globo celeste di Magonza, romano, e a tutte le<br />

configurazioni zodiacali legate all’astrologia e alla poesia. Questa, tra<br />

l’altro, è una delle strutture implicite della ‘Divina Commedia’: ma è<br />

una componente della poetica dantesca da cui rifuggono tutti gli studenti<br />

e probabilmente la maggior parte dei professori.<br />

Oggi siamo passati alla cartografia computer aided e a Google Earth.<br />

Ci siamo arrivati in pochi anni, bruciando monumenti geografici come<br />

l’Ortelius, il Blaeu, Isaac Tyrion, lo Zatta e tanti altri geni della cartografia.<br />

D’altra parte chi vorrebbe sfogliare le grandi pagine della<br />

‘Corografia’ di Zuccagni-Orlandini quando è sufficiente diteggiare un<br />

toponimo su Google Maps?<br />

Tutto questo per dare un contesto alla Tabula Peutingeriana di Vienna.<br />

Prima di tutto, pur raffigurando un’area che va dalla Spagna (mancante)<br />

alle soglie della Cina, la Peutingeriana non è affatto un planisfero.<br />

Lo dicono le dimensioni: quasi 7 metri di lunghezza divisi in 11 pergamene,<br />

33 centimetri di altezza. E’ una mappa stradale. Prendiamo gli<br />

‘itinerari’ del Touring Club e affianchiamoli in maniera passabilmente<br />

coerente per coprire tutta l’Europa, metà dell’Asia, Ceylon e l’Africa<br />

settentrionale. Una follia.<br />

Eppure la Tabula Peutingeriana è proprio questo. Si capisce che sia un<br />

unicum, e che dalla sua riscoperta, nel Quattrocento, divenga oggetto di<br />

sempre nuove ricerche. Si ritiene che il manufatto viennese, passato per<br />

le mani dell’umanista Konrad Peutinger, sia la copia prodotta nel XIII<br />

secolo di un originale del IV secolo della nostra era. O anche di prima:<br />

la fonte potrebbe essere una carta dell’Impero fatta incidere su marmo<br />

per cura di Augusto e collocata lungo la Via Flaminia. La fortuna della<br />

Tabula Peutingeriana è legata al diffondersi della stampa: infatti essa<br />

venne riprodotta nel 1591 ad Anversa dalla tipografia d’arte Plantin<br />

Moretus, famosa tra gli ammalati di stampe antiche per la pompa funebre<br />

di Carlo V d’Asburgo. Da allora non cessa di risolvere problemi e<br />

aprirne di nuovi.<br />

18


Che cosa sarà quell’edificio complesso che si chiama Pretorium<br />

Lauerianum, dalle parti di Nucerie Apule, cioè Lucera? E il tempio di<br />

Hercul Rani in posizione vicina ad Accadia? E l’Aufidus perché sembra<br />

scorrere di qua da Aecas, Troia, invece che passare sotto Canosa,<br />

che peraltro non è segnata? Tra Barletta e Trani c’è un fiume,<br />

l’Aveldium? Ma soprattutto: dov’è il Gargano? C’è Teano Appulo con<br />

il Fortore, c’è Siponto con il Cervaro o il Candelaro, e nel mezzo?<br />

Niente. Il mare. Isole della Dalmazia di fronte, Traù che pare una aerofotografia,<br />

l’estuario della Narenta, Spalato.<br />

Ancora una volta: si tratta di una mappa del Métro, non di una carta<br />

geografica. E il Gargano non faceva parte del sistema viario. Ciò che si<br />

riporta sono i percorsi schematizzati con un rigo rosso sempre diritto<br />

fin quando forma uno scalino: lì è il punto di sosta. Sono designate le<br />

città e soprattutto, con precisione quasi assoluta, le distanze espresse in<br />

miglia romane (1,477 Km circa) tra una località e la successiva. Le<br />

poste sono segnate con delle doppie torri che sembrano cabine da<br />

spiaggia; le città hanno dei simboli più figurativi. Non sono nemmeno<br />

proporzionati i tratti di strada rispetto alla lunghezza indicata in cifre.<br />

Quello che conta sono le distanze e i servizi al viaggiatore. Vogliamo<br />

percorrere il tratto Benevento – Siponto? A dieci miglia da Benevento,<br />

Foro Novo; a dodici miglia, Aequo Tutico; a diciotto miglia, Aecas: c’è<br />

da scollinare il Subappennino; Pretorium Laverianum e Nucerie Apule,<br />

sembra cancellata l’indicazione della distanza; nove miglia ad Arpos, e<br />

da qui ventuno a Siponto. Sei giorni? Dipende dal mezzo di trasporto.<br />

Alcune di queste località le abbiamo prese a cuore, come Siponto,<br />

Salinis, Teanum Apulum, Erdonia, Arpi: quelle che non ci sono più,<br />

anche se i cittadini ne hanno portato via il nome e lo hanno piantato da<br />

un’altra parte. Altre, come Tertiveri o Fiorentino o Montecorvino o<br />

Devia o Matinum, non sono raffigurate dalla Tabula Peutingeriana. Ma<br />

l’impulso che abbiamo avuto da questo monumento venerando come<br />

pochi altri è stato la ricerca, sotto la patina del tempo, dei luoghi che<br />

non sono più luoghi.<br />

19


HERDONIA<br />

La grand cité sera bien desolée<br />

Des habitans un seul ny demeurra:<br />

Mur, sexe, temple, & vierge violée<br />

Par fer, feu, peste, canon peuple mourra (III, 84)<br />

Così com’è, il territorio di Ordona è cosparso di strutture di pietra<br />

intente a guadagnarsi la luce, come per una volontà sotterranea di<br />

manifestarsi. Di rivendicare un’esistenza che è stata negata: infatti<br />

dicono che per sette volte, proprio come Troia – quella vera –,<br />

Herdonia sia stata schiacciata al suolo, incendiata, interrata.<br />

Dimenticata no. Le tracce delle sue vite successive fioriscono dal prato<br />

e affondano radici ancora da liberare. Gli oggetti che le sono stati strappati<br />

popolano musei vicini e lontani e collezioni private anche lontanissime.<br />

Chissà che un giorno, rotolando da una generazione all’altra,<br />

non ritornino qui dove mani esperte li hanno formati, accarezzati, adoperati.<br />

Soprattutto il vasellame.<br />

Normalmente le persone si annoiano a vedere le teche dei musei affollate<br />

da oggetti d’uso. Muoversi da casa per ‘Guernica’ o per la ‘Ronda<br />

di notte’ va bene; ma per una piattaia di vasellame? E in effetti la produzione<br />

ceramica è fonte di godimento per specialisti. Con una eccezione:<br />

la ceramica daunia. A Ordona, come a Canosa, i Dauni sono<br />

riusciti a rendere simpatici gli oggetti quotidiani; a trasferirvi uno spirito,<br />

a farli sorridere. Il postmoderno tremila anni fa, più o meno: scuola<br />

di Ettore Sottsass il Giovine. Già la forma di un askos ricorda un<br />

bipede surreale con due teste. C’è anche qualche cratere che al posto<br />

dei manici ha delle manine.<br />

Ma la stoviglia più rammentata di Ordona è un attingitoio, il kyathos;<br />

anzi un modello particolare che viene chiamato ‘coppa cornuta’. E’ raf-<br />

21


figurato sulla copertina del libro che il professor Mertens ha curato per<br />

la divulgazione. Il manico del kyathos riproduce una persona con le<br />

braccia alzate, con gli occhi spalancati al posto della testa, a volte un<br />

altro paio di occhi sui fianchi perché la sfortuna è sempre in agguato.<br />

Il petto è decorato geometricamente, e a guardarlo bene ricorda una<br />

microscopica stele daunia, di quelle chi si scolpivano più vicino al<br />

mare. Oppure, per i più esagitati, può richiamare anche l’ ‘uomo vitruviano’<br />

di Leonardo o il ‘modulor’ di Le Corbusier. Nell’interno della<br />

coppa un disegno triangolare con le zampe sembra un uccello dei<br />

fumetti, con un segno solare al posto della testa. Marina Mazzei lo<br />

accosta al simbolo nordico della nave solare.<br />

Dev’essere fantastico tenere in mano questo kyathos. Forse si entra in<br />

contatto con altre mani antiche che lo hanno plasmato, e che dopo la<br />

cottura lo hanno ornato: due righe appena sul labbro della coppa. E con<br />

quelle che lo hanno usato per attingere, o per mescere il vino ‘alla<br />

greca’ ena kai dyo: un askos di vino e due di acqua. Al nuovo Museo<br />

di Ascoli Satriano si intuiscono queste emozioni; e se il vasellame ha<br />

un’anima – come ha quattro occhi o due manine per farsi tirare sù –<br />

probabilmente aspetta con inquietudine il ritorno dei Grifoni policromi<br />

dal Getty Museum: assorbiranno su di sé tutta l’attenzione?<br />

Una capitale dell’archeologia<br />

Si capisce che Herdonia sia un’isola felice dell’archeologia: scavo,<br />

teoria, ricerca, pubblicazione. formazione dei giovani studiosi. Da<br />

Joseph Mertens di Lovanio a Giuliano Volpe di Foggia, il meglio della<br />

scienza dell’antico si è prodigato per Herdonia. Gli undici volumi di<br />

‘Ordona’ che rendono accessibili i risultati di questa spesa enorme di<br />

intelligenza sono un monumento al territorio foggiano. Anche se a<br />

vederli lì tutti in fila si avverte lo stesso senso di inadeguatezza della<br />

‘Summa Theologica’ o della ‘Recherche’, o perfino dei temibili MGH,<br />

i ‘Monumenta Germaniae Historica’. Accanto agli strumenti da scavo,<br />

gli spettacoli di Michele Placido hanno aiutato lo spirito del luogo a<br />

venire alla luce.<br />

22


Il professor Volpe scrive nel 2007: “Herdonia … costituisce uno straordinario<br />

contesto nel quale si è stratificata nel corso di alcuni millenni la<br />

storia delle civiltà succedutesi in Daunia dalla Preistoria al Medioevo.<br />

Grazie alle ricerche sistematiche avviate nell’ormai lontano 1962, la<br />

storia di Herdonia è ormai ben nota, almeno agli archeologi e agli specialisti…<br />

Nonostante questa felice situazione degli studi, Herdonia è<br />

però ancora ignota ai più, a partire dagli stessi abitanti della<br />

Capitanata”.<br />

Herdonia non è Efeso, per il momento, né Segesta. E non saremo nemmeno<br />

noi, a parole, a farla diventare una piccola Pompei di Capitanata.<br />

Però c’è la villa Faragola vicina, e comunque la parte ancora da scavare<br />

è sterminata, a giudicare dalla cinta muraria. Lo si vede bene nelle<br />

aerofotografie, ma anche da raso terra. Una capitale dell’archeologia<br />

che ha ancora molto da dare.<br />

L’anima di Herdonia, forse<br />

Italo Calvino ci ha insegnato che le città possono anche non esistere,<br />

però hanno sempre un nome, una personalità. Forse si doveva chiedere<br />

al professor Mertens quale sia l’anima di Herdonia, oppure al rettore<br />

Volpe. Essi hanno aspirato l’odore della terra scavata, hanno conteso<br />

con le mani e con i ferri i frammenti di pietra e il loro significato.<br />

Noi scriventi siamo solo dei visitatori antelucani: grazie alla Pro Loco<br />

abbiamo passato una mattinata che neppure il sole a picco riuscirà a<br />

rendere meno eccitante.<br />

Insomma, due luoghi ci sono rimasti impressi sopra tutti: la via Traiana<br />

che entra dal nulla e con un angolo retto esce nel nulla, e il macellum,<br />

l’evoluto mercato alimentare a un angolo del Foro. Sommando queste<br />

due suggestioni – la strada e il fast food – ci viene in mente un luogo<br />

di ristoro per viaggiatori. Insomma, un autogrill. Forse l’anima di<br />

Herdonia è il viaggio, il servizio ai viandanti.<br />

Un grande centro viario. L’antica via Minucia, poi modernizzata come<br />

Traiana, canalizza il flusso della via Appia verso destinazioni locali o<br />

23


anche lungo un percorso alternativo: da Benevento prende per Ariano,<br />

Troia, Herdonia, Canosa; ma volendo da Troia indirizza verso Lucera,<br />

Arpi, Siponto, il mare. Attorno a Canosa la via Traiana si immette sulla<br />

Litoranea che viene giù da Buca in Molise per Teanum Apulum (la<br />

nostra Tiati, poi Civitate), Arpi, Siponto, Salapia fin oltre l’Ofanto e il<br />

porto di Canosa. Territori familiari, o che lo diverranno a chi avrà la<br />

pazienza di leggere questo libro.<br />

In più, da Herdonia verso Ascoli e oltre il Subappennino si stacca una<br />

bretella, la via Aeclanensis, che collega l’Appia con la Traiana, e una<br />

seconda bretella che termina a Venusia. Di queste informazioni, oltre<br />

agli archeologhi, possono godere gli appassionati di trekking. A noi<br />

rimane, oltre a un po’ di confusione di secoli e di luoghi, la certezza che<br />

Herdonia nasce e rinasce attraverso distruzioni e abbandoni proprio<br />

perché si trova in quella posizione lì. Ha la missione di raccogliere e di<br />

smistare, e naturalmente di vendere servizi, sia a livello di grande viabilità<br />

internazionale che di raccordo con gli spostamenti di raggio locale,<br />

e sicuramente di interscambio con il sistema di strade commestibili:<br />

i tratturi.<br />

Questa vocazione al viaggiatore ci richiama altre ‘città dimenticate’ per<br />

le vie della seta, del sale, delle spezie. Non vediamo il Tetrapylon di<br />

Palmira, o il ponte di accesso alla Commagene, o le colonne ritorte di<br />

Apamea. Però l’essenza è la stessa. C’è la strata. L’orgoglio delle pietre<br />

allineate con cura dove i carri, con i secoli, scavano un binario che<br />

porta dovunque, fin dove è grande l’Impero. Abbiamo visto la prosecuzione<br />

di questa via: alle porte di Kars, al passo del Giogo, a Cordoba,<br />

a Birmingham. La strata che entra da una porta di Herdonia e subito<br />

trova un ninfeo, cioè un monumento all’acqua, perché l’acqua è la<br />

prima cosa necessaria a chi arriva, è una metonimia della città. Ma<br />

anche una metafora: Herdonia è quello. E’ il viaggio.<br />

Si lascia la via Traiana, ci si inoltra per la città verso il Foro dove il<br />

viaggiatore poteva soddisfare i bisogni di socialità: templi, porticati,<br />

botteghe, le terme, il teatro. Nella valle scavata emergono i basamenti<br />

e i capitelli in pietra della Basilica, il palazzo di giustizia: non ci sono<br />

più le colonne, che erano di mattoni stuccati. Si vedono bene invece le<br />

24


otteghe, che sono tante per tanti clienti. Le terme sono un po’ più a<br />

nord, lungo il tracciato della via Traiana che non si vede. L’anfiteatro<br />

invece è incassato nel perimetro delle difese della città daunia, da una<br />

parte. La forma leggibile sotto il manto d’erba che in questo momento<br />

è secca ci ricorda altri edifici che hanno finto di scomparire e occhieggiano<br />

sotto forma vegetale, come il Circo Massimo quando era un<br />

bosco di oleandri. Forse una anticipazione del ‘bosco verticale’, moderno<br />

ripensamento del grattacielo.<br />

Di fronte alla Basilica l’edificio che ci impressiona di più: il macellum.<br />

Fantasmi di decorazione sull’intonaco, come uno spiritello ormai<br />

monocromo sulla destra, e si capisce che sta per smaterializzarsi.<br />

Angela, abituata a fare la spesa in ogni genere di esercizio commerciale,<br />

è colpita dal concept della costruzione. Ricorda, come spaccio alimentare,<br />

un mercato coperto tipo la Boquería di Barcellona. Di certo<br />

il macellum è un progetto architettonico raffinato nella divisione dello<br />

spazio quadrato in quattordici corner rispettando la zona di accesso circolare.<br />

Forse era un mercato di lusso, se viene da lì il Nettuno marmoreo<br />

conservato al Museo Civico di Foggia. Raffigura il dio del mare<br />

con un musetto di delfino sul braccio, la parte inferiore di una gamba,<br />

il ginocchio dell’altra; manca tutto il corpo, e sembra un’opera di<br />

Mitoraj.<br />

D’un colpo, come le pietre della via Traiana ci suggeriscono mete favolose,<br />

il macellum ci immette nell’animazione di una comunità che offre<br />

ai viaggiatori il viaticum per il cammino. Da quando il suo nome era<br />

forse Serdonia. La Tabula Peutingeriana la chiama semplicemente<br />

Erdonia, su una strada che non si capisce bene da dove parta e dove<br />

arrivi. L’Itinerarium antonino la chiama Erdonias; il pellegrino di<br />

Bordeaux, Serdonis; Livio anche Ardunas e Nicolò Iamsilla, Dordona.<br />

Insomma, il gioco è sull’aspirazione iniziale, la H di Herdonia, che<br />

nasconde la caduta del ‘sigma bergamasco’, cioè la sibilante aspirata<br />

(come in hura, hota: sopra, sotto). Alla fine cade anche la traccia di<br />

aspirazione. Testimone il nome attuale, Ordona; testimone più antico il<br />

‘Libro di Re Ruggero’, che nel ’bilad ankabarda, il Paese dei<br />

Longobardi, segnala Atrunam: ecco un altro modo di nominare<br />

Ordona. Atrunam come Lujarah.<br />

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Obscura Herdonea<br />

Sette volte distrutta. Di uno di questi eventi traumatici abbiamo la testimonianza<br />

di Tito Livio. Accampamento presso Herdonea, 212 a.C. Si<br />

tiene d’occhio la città che notoriamente, tenendo famiglia, sta dalla<br />

parte del più forte Cartaginese. “Le legioni romane e il pretore Fulvio<br />

erano presso Herdonea. Come giunse la notizia che Annibale si avvicinava,<br />

poco mancò che non si levassero le insegne e non si uscisse spontaneamente<br />

fuori dal campo, senza attendere l’ordine del pretore. Si<br />

trattennero solo perché erano certi di poter sferrare l’attacco in qualunque<br />

altro momento.<br />

Annibale era stato informato dell’insurrezione spontanea nel campo<br />

romano. Sapeva che la maggior parte dei soldati era pronta all’armi ed<br />

aveva fatto violenta pressione sul comandante perché desse il segnale<br />

d’attacco. Si convinse quindi che c’erano condizioni da sfruttare per<br />

una vittoria. Nella notte dispose circa tremila soldati leggeri tutt’intorno<br />

ad Herdonia, per i casolari, le macchie e le selve. L’ordine era di balzare<br />

allo scoperto a un determinato segnale. Poi a Magone ordina di<br />

occupare con circa duemila cavalieri tutti i passi che potessero convenire<br />

alla la fuga.<br />

Fatti durante la notte questi movimenti, all’alba schierò le truppe per la<br />

battaglia. E Fulvio non indugiò, trascinato dall’impeto irresistibile dei<br />

soldati più che dalla speranza di vittoria. Così, con la stessa avventatezza<br />

con la quale si erano precipitati fuori dal campo, le schiere si disposero<br />

secondo il capriccio dei soldati: tutti cercavano di arrivare in<br />

prima fila, e poi magari si fermavano o si mettevano dietro”.<br />

Bisogna dire, a giustificazione dei soldati, che a questo punto della<br />

guerriglia annibalica le truppe romane sono composte di ragazzi giovani<br />

e motivati ma non adusi ai comportamenti organizzativi. I veterani<br />

non avrebbero tentato di forzare la mano ai capi, e soprattutto non<br />

avrebbero mai fatto l’errore adolescenziale che adesso Livio racconta.<br />

“Con questa confusione la prima legione e l’ala sinistra si disposero<br />

tutte in prima linea, formando uno schieramento esteso solo in senso<br />

orizzontale. I tribuni invano gridavano che così nelle linee posteriori<br />

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mancavano le forze, e che i nemici potevano attaccare e sfondare concentrandosi<br />

in qualunque punto. Le truppe, nonché con l’animo, neppure<br />

con le orecchie ascoltavano questi consigli di salvezza”.<br />

E di fronte chi c’era? Annibale stesso, ben altro generale che Fulvio e<br />

con un esercito ben altrimenti ordinato. Perciò i Romani non ne sostennero<br />

nemmeno il primo grido di guerra e il primo urto. Il comandante<br />

Fulvio, quando vide che le cose volgevano al peggio e che i suoi cedevano,<br />

prese il cavallo e con circa duecento cavalieri si diede alla fuga.<br />

Del resto dell’esercito, respinto sul fronte e poi accerchiato di spalle e<br />

sui fianchi, fu fatta strage: di diciottomila uomini che erano, non più di<br />

duemila tornarono a casa. Annibale occupò il campo”.<br />

Per adesso si accontenta dell’accampamento romano, perché Herdonia<br />

gli è alleata.<br />

Stesso luogo, due anni dopo. C’è un altro Fulvio a comandare le truppe<br />

all’assedio di Herdonia ribelle ai Romani. Ma la professionalità non<br />

è migliorata. Annibale piomba improvviso precedendo gli informatori;<br />

Fulvio chiama a battaglia ma è tardi. Non fa nemmeno in tempo a fuggire<br />

come il suo omonimo del 212. “Lo stesso Cneo Fulvio cadde con<br />

undici tribuni militari. Quante migliaia di soldati sono stati trucidati in<br />

quella battaglia? Non si può dire con certezza: alcuni storici parlano di<br />

tredicimila, altri di settemila. Il vincitore si impadronì degli accampamenti<br />

e del bottino. Poi Annibale diede alle fiamme la città (e Silio<br />

Italico la chiamerà obscura Herdonea) e trasferì la massa dei suoi abitanti<br />

a Metaponto e a Turii. Infatti era venuto a conoscenza che<br />

Herdonea sarebbe passata ai Romani appena egli si fosse allontanato.<br />

Ne uccise i capi; si sapeva con certezza che avevano avuto incontri<br />

segreti con Fulvio”.<br />

Insomma, Herdonia oscurata per diffidenza nel 210. Rinascerà come<br />

città romana. Faticosamente. Sarà lei quel villaggio dove l’acqua, figuràtevi,<br />

bisogna pagarla, ed ha un nome che nell’esametro non c’entra<br />

proprio anche se lo si può esprimere a gesti – chissà quali? Ci passa<br />

Orazio nel 37 a.C. viaggiando da Roma a Brindisi, di pessimo umore<br />

per il bidone appena ricevuto dalla ‘ragazza bugiarda’ alla locanda di<br />

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Trevico. Di buono almeno c’è il pane, e il viaggiatore accorto se ne<br />

carica la schiena perché a Canosa lo fanno lapidosus, sembra un sasso,<br />

e anche quanto ad acqua non stanno meglio.<br />

Comunque l’archeologia ci racconta di una città influente e ben dotata,<br />

centro di un territorio ricco, all’inizio del IV secolo d.C., quando vi<br />

sosta il pellegrino di Bordeaux di ritorno dalla Terrasanta. Ma nel 346<br />

il rovinoso terremoto abbatte o danneggia edifici pubblici come il tempio,<br />

la basilica, le terme, il macellum. A quanto pare manca a Herdonia<br />

l’energia, o le condizioni esterne, per ricostruirsi e recuperare il primato<br />

territoriale. In coincidenza con questa debolezza sale invece la stella<br />

di Canosa, che concentra servizi pubblici come l’amministrazione<br />

della giustizia, opifici tessili, e soprattutto diviene la sede episcopale<br />

più gâtée. Ricorda il professor Volpe, in una relazione da leggere assolutamente<br />

on line, che il vescovo di Herdonia, Saturnino, partecipa sì<br />

al Concilio di papa Simmaco del 499, ma la sua firma appare all’ultimo<br />

posto, mentre quella di Rufino, vescovo di Canosa, è al quinto.<br />

Dalla fine del V secolo il declino di Herdonia è inarrestabile. L’uso dei<br />

grandi edifici rimasti in piedi viene scordato: nelle terme si alloggiano<br />

stalle e povere capanne. Passa la guerra greco-gotica nel VI secolo;<br />

Costante II aggredisce i Longobardi nel 663. Herdonia subisce e si raggomitola<br />

sempre più. Sappiamo che nel IX secolo è composta da 89<br />

famiglie, e poco dopo la sede vescovile migrerà a Ascoli Satriano, in<br />

posizione meglio difendibile. I Saraceni da Bari faranno in tempo a<br />

completare la distruzione di Atrunam. Col toponimo Dordona, invece,<br />

lo storico Nicolò Jamsilla ne attribuisce la ricostruzione a Federico II;<br />

si tratta di un castello, pare, più che altro, alla punta nord della città.<br />

‘Mission’<br />

Ma Ordona ha una voglia di vivere che non si estingue facilmente. Se<br />

passiamo per l’attuale paese che eredita il nome, forse non ci accorgiamo<br />

di essere coinvolti in una delle affaire più singolari della storia della<br />

Chiesa. Ma il fatto – la soppressione dell’ordine dei Gesuiti – potrebbe<br />

essere letto meglio nella filiera del confronto tra potere spirituale e tem-<br />

28


porale. Esso nasce forse con le invasioni barbariche ed è uno dei temi<br />

portanti della storia europea fino ad oggi stesso.<br />

Ordona e il suo territorio vengono acquistati dalla Compagnia di Gesù<br />

per instaurare una rete di imprese agricole. C’è da dire che nel Regno<br />

di Napoli i possedimenti della Compagnia, verso la metà del<br />

Settecento, coprono una superficie enorme. C’è anche da dire che l’esperienza<br />

nell’agricoltura i Gesuiti se la sono fatta in maniera assolutamente<br />

innovativa e socialmente qualificata nell’America meridionale.<br />

Le reducciones del Paraguay, che abbiamo visto sullo schermo nel film<br />

‘Mission’ con Robert De Niro e Jeremy Irons, sono una sponda geniale<br />

e cristiana rispetto all’orrenda colonizzazione iberica del continente.<br />

Non abbiamo elementi per capire se la Ordona gesuitica avesse uno<br />

spessore storico paragonabile. Quello che sappiamo è che dall’America<br />

latina si avvia una pulsazione sociale, politica, religiosa, culturale che<br />

avrà, tra le sue conseguenze marginali, l’allontanamento dei Gesuiti da<br />

Ordona e un tentativo borbonico, intelligente ma non abbastanza, per<br />

assicurare il transito da una produzione ‘collettivista’ a una ‘liberista’.<br />

Ma che cosa succede alle spalle di Ordona?<br />

All’origine vi sono gli encomenderos, i proprietari terrieri spagnoli e<br />

portoghesi che non si sono mai rassegnati all’idea che i Guaranì e gli<br />

altri nativi del Cono Sur siano considerati come esseri umani. Tanto che<br />

il mitico vescovo degli Indios, Bartolomé de las Casas, viene costretto<br />

nel 1547 a rientrare in Spagna e ivi difendersi dalle accuse del padre<br />

Ginés de Sepúlveda sostenitore della schiavitù naturale degli indigeni.<br />

Ovviamente tutta la disputa teologica altro non era che una lotta sferrata<br />

dagli encomenderos per aver mano libera nello sfruttamento<br />

bestiale ma, insieme, la coscienza pulita: con la benedizione del potere<br />

spirituale e l’approvazione di quello temporale. Cosa che otterranno<br />

alla grande quando, in pieno Settecento, le istanze del latifondismo<br />

retrogrado si sposeranno con il progressismo illuministico nel combattere<br />

la manomorta ecclesiastica. Eterogenesi dei fini in una fase di<br />

‘ricorso’ della storia, professor Vico?<br />

I Gesuiti caddero nella stessa rete in cui erano caduti i Templari quat-<br />

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tro secoli prima: forse è vero che i ‘poteri forti’ sono delle tigri di carta,<br />

presidente Mao. La fama della loro potenza economica; le innovazioni<br />

efficacissime nell’educazione e nella propagazione del cristianesimo –<br />

i successi altrui non garbano nemmeno ai compagni di fede –; la cosiddetta<br />

‘superbia gesuitica’, cioè una certa consapevolezza di superiorità<br />

che forse lasciavano trasparire; il ruolo di influenzatori presso alcune<br />

corti, come quella prussiana, polacca e russa (si ascolti nel ‘Boris<br />

Godunov’ di Mussorgskij la parte odiosa del gesuita Rangoni); infine<br />

l’accusa di lassismo morale lanciata dai Giansenisti e ribattuta con eco<br />

immensa da Pascal nelle Lettres Provinciales. Questa volta non ci furono<br />

processi, torture e roghi: siamo nell’epoca dei lumi! Ma per la pressione<br />

delle corti cattolicissime dei Borboni, dal Portogallo alla Spagna<br />

alla Francia fino a Parma, il papa Clemente XIV, firmerà la bolla<br />

‘Dominus ac Redemptor’ che sopprime la Compagnia di Ignazio di<br />

Loyola. E’ il 21 luglio 1773.<br />

Data storica per Ordona. Napoli infatti era in prima fila tra le corti<br />

avverse alla Compagnia di Gesù. Intanto il re Ferdinando IV era praticamente<br />

sotto tutela del suo Ministro, Bernardo Tanucci, che a sua<br />

volta rispondeva di lui al padre diventato Carlo III di Spagna. Per la<br />

verità re Ferdinando non è del parere di cacciare i Gesuiti; in fondo la<br />

Santa Sede non si era ancora espressa, in quel 1767. Ma questo è l’ordine<br />

che da Madrid filtra attraverso il marchese Tanucci. Il Ministro<br />

toscano riesce a far breccia nella coscienza del giovane re attraverso il<br />

suo confessore, fino a che i Gesuiti non vengono espulsi anche dal<br />

Regno di Napoli. Per la cronaca Bernardo Tanucci, nato contadino in<br />

Pratomagno, finì i suoi giorni in disparte quando la moglie di<br />

Ferdinando IV, Carolina d’Asburgo, riuscì ad emarginarlo dal<br />

Consiglio di Stato.<br />

Un Reale Sito<br />

Liberati dalla ‘manomorta’ ecclesiastica, quale sarà la sorte dei contadini<br />

di Ordona? Leggiamo qualche passo di un documento<br />

dell’Archivio di Foggia pubblicato da Lucia Lopriore in Internet.<br />

“Le terre del Tavoliere di Puglia che vengono denominate i cinque<br />

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Reali Siti, e che sono assegnate in censuazione a’ naturali de’ comuni<br />

di Orta, Ordona, Carapelle, Stornara, e Stornarella, appartenevano altra<br />

volta in feudo a’ PP. Gesuiti. Coloro che le coltivavano, vi avevano<br />

costituito de’ meschini villaggi. Allorché nella soppressione dell’ordine<br />

gesuitico nel Regno di Napoli esse divennero delle proprietà fiscali,<br />

volle il Governo accorresse al bisogno degl’infelici agricoltori che fin<br />

allora le aveano utilizzate, aderendo alle loro dimande, e distribuendole<br />

ad essi. Quindi fu che nell’anno 1774 si diedero in censuazione agli<br />

abitanti de’ Siti indicati, assegnandosene a ciascuno dieci versure ad<br />

uso di semina, una casa rurale, ed un pascolo sulla mezzana delle terre<br />

stesse pel nutrimento degli animali necessarj alla coltivazione. Ebbero<br />

altresì i nuovi coloni un proporzionato assegnamento di istrumenti<br />

rurali di animali e di vettovaglie, a patto di pagarne il prezzo per cinque<br />

anni”.<br />

Il trattamento pare illuminato, ma non tiene conto di quello che per i<br />

Gesuiti era l’asset principale: la conoscenza, il management, la supply<br />

chain, la rete commerciale e finanziaria. Gli agricoltori da soli non<br />

saranno in grado di ‘fare impresa’. Per un motivo o per un altro molti<br />

non riescono a pagare le tasse, e il fisco si riappropria dei terreni mettendoli<br />

in vendita sul libero mercato, dove i pescecani locali si gettano<br />

per riaffittarli poi a chi li vorrà ma a prezzi assai più elevati. Devono<br />

uscire di scena i Borboni, portati via dal ciclone napoleonico, perché si<br />

trovi per Ordona una soluzione socialmente compatibile. E’ nel giugno<br />

1806, quindi da poco insediato, che Giuseppe Buonaparte elabora una<br />

soluzione.<br />

“Il grido della desolazione e della miseria concordemente elevato dalle<br />

avvilite popolazioni di Orta, di Ordona, Carapelle, Stornarella, e<br />

Stornara, produsse che all’epoca della censuazione generale del<br />

Tavoliere di Puglia si risolvesse di richiamare al Reg[io] Erario il dominio<br />

diretto delle terre altra volta vendute, e ch’erano state di principio<br />

assegnate a quegli sventurati coloni. Quindi con Decreto de’ 14 Giugno<br />

1806 fu ordinato alla Giunta del Tavoliere di compensare i particolari<br />

che le avevano acquistate coll’assegnamento di altre terre fiscali e di<br />

concederle in censuazione agli abitanti de’ Siti Reali. E poiché magraldo<br />

le vessazioni e le sciagure sofferte quelle popolazioni eransi aumen-<br />

31


tate, ed era in conseguenza seguito il bisogno di avere delle terre a coltivare;<br />

fu stabilito che se ne assegnassero anche delle altre, prendendole<br />

da quelle che nel 1774 furono concedute per pascolo a’ Locati di Orta<br />

e di Ordona”.<br />

Chissà per quale anamorfosi della memoria, questi fatti tutto sommato<br />

recenti sembrano anche più remoti della via Traiana e del macellum.<br />

Forse perché non vediamo niente che ce li renda vivi. Non siamo più in<br />

grado di interpretare i segni di una superficie di terra se non vengono<br />

enfatizzati da una casa, da una strada, da un fosso o almeno da un filare<br />

di alberi. La lettura del paesaggio è un’arte ancora di élite.<br />

32


ARPI<br />

Combien de foys prinse cité solaire<br />

Seras, changeant les loys barbares & vaines.<br />

Ton mal s’aproche: Plus tu seras tributaire<br />

La grand Hadrie reovrira tes veines (I, VIII)<br />

Arpi, ‘città dimenticata’? Non vediamo le mura e gli archi e le colonne<br />

e i simulacri e l’erme torri. È più facile incontrare sottoterra delle<br />

costruzioni certe, come i villaggi neolitici tra la Villa Comunale e il<br />

Galoppatoio, e poi verso l’esterno, in direzione degli accampamenti<br />

lunati di Passo di Corvo.<br />

La nostra sosta sulla pianura di Arpi è dedicata per intero a Marina<br />

Mazzei. Una vita breve che ha segnato per sempre la conoscenza e il<br />

godimento del patrimonio archeologico della Daunia.<br />

Marina Mazzei riunisce in sé le figure del civil servant, dello studioso,<br />

del ricercatore sul campo e del narratore. La Daunia antica non avrebbe<br />

parola, per le persone come noi, senza le sue opere; quelle sui siti<br />

scavati da lei come Bovino, Arpi, Siponto, e quelle comprensive come<br />

‘L’Oro della Daunia’ e le postume ‘Passeggiate archeologiche nella<br />

Daunia’.<br />

Emblema della Arpi sotterranea è il volto di Medusa che adesso è conservato<br />

nel Museo Civico. Nel 2002 per il volume che dedicammo a<br />

Medusa e ad altri mostri fu Marina Mazzei a raccontare la storia rocambolesca<br />

e la scoperta vissuta in prima persona. Come omaggio alla<br />

grande studiosa e all’amica gentile riproponiamo qui la sua prosa limpida<br />

e appassionata.<br />

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Da Arpi a Foggia: due millenni<br />

di Marina Mazzei (2002)<br />

Ricordo bene quando arrivò da noi. Quel giorno, era il 1984, Medusa<br />

non veniva dalla terra della vicina Arpi, ma da un viaggio più lungo. Da<br />

Taranto il furgone della Soprintendenza era partito alla volta di un<br />

paese del Napoletano presso la cui stazione dei Carabinieri Medusa<br />

giaceva insieme a una coppia di capitelli. Medusa era stata rubata. Il<br />

suo trasferimento dalla campagna di Arpi in una destinazione rimasta<br />

ignota (Svizzera, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone?) si<br />

era concluso proprio lì: i malcapitati che la trasportavano erano andati<br />

fuori strada con il loro automezzo. Solo così, dunque per un caso,<br />

Medusa tornò a casa.<br />

Ricordo bene quando Medusa arrivò. Ancora sporca di terra: la sua bellezza<br />

diveniva sempre più intensa e struggente man mano che la pulivamo.<br />

In quei momenti ci chiedevamo non solo dove e come fosse stata<br />

trafugata, ma anche chi e quando nell’antichità l’avesse fatta realizzare<br />

per la sua tomba.<br />

Sapevamo che nelle campagne di Arpi, a pochi chilometri da Foggia,<br />

vi era un grande ipogeo il cui saccheggio si era svolto ripetutamente in<br />

quegli anni. Presto venne la conferma della provenienza di Medusa. Ad<br />

Arpi individuammo il luogo della grande tomba e, piuttosto che cercare<br />

al suo interno, ne esplorammo la facciata per avere la conferma che<br />

il frontone su cui Medusa era raffigurata venisse da lì. Presto verificammo<br />

che la sua fronte era stata smontata ricorrendo addirittura all’uso<br />

di una ruspa: il frontone con la Medusa e i capitelli così erano partiti<br />

forse per diventare la quinta scenografica di qualche ricco giardino in<br />

un paese europeo.<br />

Ma Medusa era con noi e dovevamo, anche per un obbligo morale, non<br />

lasciarla sola in magazzino, ma capire il più possibile del monumento<br />

per il quale era stata scolpita e del signore che l’aveva voluta sulla<br />

tomba di famiglia. Presto trovammo i blocchi rimossi e fra questi alcuni<br />

con le tracce dei denti di una ruspa, segni di una devastazione senza<br />

pari, e un acroterio a palmetta in pietra del quale, proprio al vertice del<br />

36


nostro frontone con la Medusa, si conservava la traccia dell’imposta.<br />

Fu grande il cantiere organizzato per la sua costruzione: la pietra, forse<br />

già lavorata, fu estratta dalle cave di Santa Lucia e trasportata ad Arpi<br />

risalendo il corso del Candelaro; si reimpiegarono i blocchi di una<br />

grande tomba a camera, da noi chiamata ‘il Ganimede’, già crollata in<br />

antico; le tante vaschette all’interno della tomba testimoniavano la<br />

grande attività per realizzare gli intonaci e i dipinti della tomba.<br />

Un corridoio lungo 9,30 metri conduceva all’ipogeo; in antico era percorribile<br />

solo durante i giorni dei funerali dopo i quali veniva buttata la<br />

terra a sigillare l’accesso della grande tomba. Solo in quella occasione,<br />

dunque, era visibile a pieno il suo grandioso prospetto con quattro<br />

colonne ciascuna sormontata da un capitello figurato con teste di divinità,<br />

il frontone con la Medusa e sul suo vertice l’acroterio a palmetta.<br />

La porta in pietra di chiusura della tomba faceva da quinta scenografica,<br />

arricchendo con le sue cromie le vivaci tonalità del complesso.<br />

Infatti, il corridoio d’accesso, la fronte e il vestibolo erano accuratamente<br />

dipinti con una sinfonia di colori rosso, azzurro e nero stagliati<br />

sul bianco della pietra.<br />

Il vestibolo, stretto spazio rettangolare compreso fra il colonnato e l’ingresso<br />

alla tomba, racchiudeva una sorta di pinacoteca. Un fregio complesso<br />

doveva svolgersi sull’architrave, ma purtroppo anche questi<br />

blocchi erano stati asportati da clandestini e solo alcuni, sulle pareti<br />

laterali, conservavano resti delle raffigurazioni, con un Hermes accompagnatore<br />

delle anime ed un grande Cerbero di colore nero. Su un lato,<br />

quello sinistro, su un fondo rosso della parete era dipinto un quadretto<br />

(pinax) con un personaggio togato seguito da un cavallo condotto a un<br />

palafreniere con un grande scudo tondo: in alto un’iscrizione a caratteri<br />

greci, forse la firma del pittore, Artos.<br />

Se, dunque, l’esterno della tomba era stato concepito per essere visto al<br />

momento della cerimonia funebre, e, pertanto, arricchito anche di soggetti<br />

dipinti evocanti l’aldilà come il mostruoso Cerbero, quello interno<br />

era uno spazio decisamente privato, tanto da essere costruito riproducendo<br />

la stanza da banchetto delle case aristocratiche. Tre le stanze,<br />

37


tutte con la volta a botte, quella d’accesso, finemente pavimentata con<br />

il quadretto al centro (emblema), con pistrici e delfini, aveva le pareti<br />

dipinte e decorate con un fregio a dentelli di stucco sul quale correva<br />

uno splendido fregio dipinto con girali. Il mosaico, con la sua lieve<br />

pendenza verso l’ingresso, al momento del funerale era ben visibile<br />

dall’esterno prima che la grande, bella porta di pietra dipinta venisse<br />

collocata a sigillare l’ingresso.<br />

Questi effetti iniziali si persero con l’uso eccessivo del monumento. La<br />

sua riapertura, per effettuare altre deposizioni, richiedeva operazioni di<br />

manutenzione che si ottenevano dando mani di calce bianca sulla facciata:<br />

quegli stessi strati di bianco che, più d’uno, avevano ricoperto il<br />

volto di Medusa e che il nostro restauratore aveva pazientemente asportato<br />

restituendole la sua originaria bellezza.<br />

L’ambiente centrale della tomba, forse quello destinato ad ospitare i<br />

materiali usati nel corso del funerale, era una sorta di miniatura del<br />

salone nel quale, nelle case, i signori ricevevano gli ospiti per il banchetto,<br />

disponendo i letti intorno ad un mosaico centrale. Su ciascun<br />

lato si aprivano due stanze, decisamente molto sobrie, ciascuna con un<br />

grande letto su cui venivano adagiati i corpi dei defunti con un cuscino<br />

di pietra e un basso sgabello alla base.<br />

La famiglia proprietaria, dunque, non solo voleva lasciare memoria<br />

della propria ricchezza, ma che affermare il proprio modo di pensare<br />

‘alla greca’. Con le volte a botte, i pavimenti composti da piccoli ciottoli<br />

di fiume, la struttura architettonica dell’ipogeo della Medusa duplicava,<br />

anche se con forti varianti, le tombe a camera che nello stesso<br />

periodo erano in voga fra i principi della Macedonia e nei paesi culturalmente<br />

influenzati da questa regione.<br />

Il monumento era stato costruito durante il III secolo a.C. Arpi, già<br />

importante nei secoli precedenti, dal IV aveva consolidato la propria<br />

ricchezza divenendo una città-stato con un territorio ricchissimo. Il<br />

grano, da sempre risorsa di queste terre, segnò la svolta. Ne fu incrementata<br />

la produzione su vaste estensioni anche per soddisfare le<br />

necessità di approvvigionamento degli eserciti impegnati nelle guerre<br />

38


che Sanniti e Romani combattevano in quei decenni. Il controllo della<br />

produzione e del commercio dei cereali era detenuto da poche famiglie<br />

che governarono la città almeno fino alla fine del III secolo.<br />

Dunque, i prìncipi di Arpi erano dotati di ricchezze enormi. Non solo è<br />

l’archeologia a provarlo, ma ne parlano autori antichi, anzi, proprio per<br />

Arpi, trasmettono il nome di uno di loro, forse il più ricco e potente,<br />

Dasius Altinius. Dopo la disfatta dei Romani a Canne nel 216 a.C. ,<br />

Dasius fece la scelta di passare, e con lui la città di Arpi, dalla parte dei<br />

Cartaginesi. Ma, quando la guerra volse a favore di Roma, Dasius, prigioniero<br />

a Calvi ma ancora in possesso di ricchezze e schiavi, tentò di<br />

tornare nuovamente dalla parte romana. Non è nota la sua sorte, ma<br />

sappiamo che la famiglia, rimasta ad Arpi dopo la sua fuga, fu sterminata<br />

su ordine di Annibale prima della riconquista della città da parte<br />

romana.<br />

E’ questo il livello sociale e di ricchezza al quale dobbiamo riferire l’ipogeo<br />

della Medusa e i pochi materiali sopravvissuti al saccheggio dei<br />

tombaroli ne danno un’idea sufficiente: bicchieri, coperchi, spilloni,<br />

specchi in argento, vasellame in marmo greco, un bracciale in oro, una<br />

tazza ed uno splendido anello in vetro, forse provenienti da Alessandria<br />

d’Egitto.<br />

Non a caso il periodo durante il quale l’ipogeo fu costruito è l’ellenismo,<br />

che alla celebrazione della morte assegnava uno dei momenti più<br />

importanti della vita con una grande visibilità sociale. In una società<br />

poco aperta alla grecità come quella della Daunia antica venne edificato<br />

un monumento che sigillava un rapporto stretto fra le aristocrazie<br />

locali e la Grecia del tempo.<br />

Certamente, il rapporto fu fatto di migrazioni di maestranze e di circolazione<br />

di modelli, di trasmissioni di abilità e sapienze tecniche. Ma<br />

ricordiamo che, intorno al 333 a.C., le fonti narrano il passaggio nei territori<br />

della Daunia di Alessandro il Molosso, re d’Epiro, e pochi decenni<br />

dopo quello di un altro condottiero epirota, Pirro, che presso Ascoli<br />

Satriano si scontrò con i romani e con un contingente arpano composto<br />

da 4000 fanti e 400 cavalieri che depredò l’accampamento epirota.<br />

39


L’ipogeo continuò ad essere usato ancora per un lungo periodo.<br />

Membri della famiglia proprietaria vi furono seppelliti per un centinaio<br />

di anni sotto lo sguardo e la protezione di Medusa, il cui viso bello,<br />

dolce, non aveva niente di spaventoso, salvo i riccioli serpentiformi che<br />

si annodavano con un effetto puramente decorativo per concludersi con<br />

un ‘nodo di Ercole’ alla base del collo.<br />

Nessuno mai avrebbe immaginato che Medusa fosse proprio lì, ad Arpi,<br />

lasciata dopo un importante funerale da circa 2100 anni, coperta da<br />

strati di terra secolari, solleticata da aratri e trattori. Sino a quando sottili<br />

sonde di ferro, manovrate da saccheggiatori ignoti, iniziarono a perforare<br />

le volte della tomba alla ricerca di tesori nascosti, forando le sue<br />

prestigiose volte, calandosi nel buio della morte, aggredendone la facciata<br />

con le ruspe. Per cercare tesori nascosti, poi trovati, rubati, portati<br />

via verso una destinazione che non ancora conosciamo. Salvo<br />

Medusa che è tornata a casa e alla quale, in fondo, ora vogliamo bene<br />

come ad uno di famiglia.<br />

Argos Hippion è il nome esteso di Arpi che la riconnette con le sue<br />

fonti micenee. Il mito di fondazione attribuisce a Diomede, il conquistatore<br />

di Troia che al rientro in patria trova ad Argo una situazione<br />

familiare da cui è meglio fuggire. Egli trova così una posizione alle<br />

soglie della storia come ‘padre nobile’ dell’espansione greca lungo le<br />

coste dell’Adriatico. Alla futura Foggia riserva il nome della sua stessa<br />

patria, Argo, e della sua passione predominante, i cavalli.<br />

Marina Mazzei: un profilo etico-civile<br />

di Saverio Russo (2004)<br />

Per la cortesia del professor Saverio Russo riproduciamo alcuni<br />

momenti del suo intervento in presentazione dell’opera postuma di<br />

Marina Mazzei, ‘Passeggiate archeologiche nella Daunia’.<br />

Marina aveva un’alta considerazione del suo essere funzionaria di un<br />

organo prestigioso dello Stato, che non è soltanto un ufficio burocratico,<br />

ma strumento di tutela e struttura di ricerca, istituzione culturale per<br />

40


eccellenza che richiede buoni studi preliminari e continuo aggiornamento.<br />

Faceva in modo che qualsiasi cosa scrivesse o facesse, nel più<br />

piccolo comune o nella sede più prestigiosa, si avesse della<br />

Soprintendenza un’alta considerazione.<br />

Non amava il sensazionalismo nella ricerca archeologica, i cercatori<br />

dell’eccezionale, i cacciatori di reliquie: sapeva bene quanti danni ha<br />

fatto all’indagine archeologica la ricerca di qualcosa in particolare, che<br />

ha portato a distruggere quanto non serviva.<br />

Non amava la pubblicità a tutti i costi, l’annuncio intempestivo, prima<br />

che lo scavo fosse chiuso e messo in sicurezza e se ne fosse garantita<br />

la custodia. Si meravigliava però anche dello spazio che le agenzie di<br />

stampa e i giornali, senza alcun vaglio critico, davano ad ogni annuncio<br />

– fanfaluche o ipotesi bizzarre, purtroppo spesso avanzate da chi<br />

aveva il dovere della prudenza.<br />

Era un po’ preoccupata per l’eccessiva attenzione mediatica per l’archeologia<br />

e preoccupata come me che nel nostro Mezzogiorno il passato<br />

non sia solo archeologia. E spesso, come sappiamo, l’archeologia<br />

del vaso, del reperto non contestualizzato, in una spirale perversa che<br />

rende gli oggetti feticci e favorisce il mercato clandestino.<br />

Riteneva indispensabile il lavoro oscuro, quello di cui non si parla, ma<br />

che costituisce la condizione della tutela: i vincoli, gli espropri, oltre<br />

che le buone leggi (di recente aveva più volte inviato al Ministero sue<br />

considerazioni sui vari provvedimenti legislativi che tanto hanno allarmato<br />

il mondo della cultura). Aveva un grande senso della misura che<br />

non la spingeva a sgomitare per stare dappertutto, attenta a che nella<br />

sua vita il lavoro non prevaricasse sul mondo degli affetti e che la routine<br />

dell’ufficio non le impedisse di studiare.<br />

L’unica trasgressione “familista” consentita riguardava il lavoro di<br />

ricerca: ci si scambiava schede e documenti e ci ripromettevamo di<br />

scrivere un lavoro a quattro mani sul collezionismo tra Sette e<br />

Ottocento. Ma non c’è stato tempo e le brevi mie note che compaiono<br />

in questo volume, sull’onda dei ricordi dei paesaggi che avevamo visto<br />

41


insieme – il Gargano che a volte sembra un’isola da Margherita, le colline<br />

allineate l’una dietro l’altra che si scorgono dal bosco di San<br />

Cristoforo – sono quanto resta di questa collaborazione.<br />

Ha cercato di far crescere e valorizzare il lavoro dei giovani, non come<br />

talvolta si fa in relazioni asimmetriche, tra chi ha potere e chi no, pubblicando<br />

a nome del “più importante” la ricerca del più giovane,<br />

costretto ad “abbozzare” con la speranza di ottenere un giorno qualcosa.<br />

Potrei fare un lungo elenco di laureandi abbandonati a se stessi dai<br />

loro professori o di giovani che aveva incoraggiato e aiutato a pubblicare<br />

le ricerche a lei sottoposte in lettura.<br />

Nel rapporto necessario con Enti e istituzioni stava attenta tuttavia a<br />

non farsi spogliare delle sue prerogative, a non cedere sul piano della<br />

distinzione dei ruoli. Dava fiducia non sulla base del colore politico,<br />

ma della credibilità personale e della coerenza, oltre che dello stile,<br />

sempre comunque attenta alla tutela dell’interesse pubblico.<br />

Ma, come nel suo stile, su questo e su altri temi, non faceva proclami<br />

o dichiarazioni ideologiche. Sarebbe difficile cercare tra i suoi scritti,<br />

editi o inediti, qualcosa che riassuma la sua filosofia di vita, un diario<br />

più o meno privato, pieno di massime. Faceva, operava e basta.<br />

Sperava - forse si illudeva - nell’efficacia dell’esempio.<br />

Potremmo dire, come sostengono gli economisti, che purtroppo la<br />

moneta cattiva scaccia quella buona. Speriamo - e non abbiamo altra<br />

risorsa che la speranza - che il suo seme possa ancora continuare a dare<br />

frutti, che la sua testimonianza, così poco ostentata, non sia stata vana.<br />

42


MATINUM<br />

Entre deux mers dressera promontoire<br />

Que puis mourra par le mords du cheval:<br />

Le sien Neptune pliera voyle noire,<br />

Par Calpre & classe auprès de Rocheual (I, 77)<br />

Inoltriamoci sul Monte Saraceno non per la strada comoda e panoramica<br />

ma attraverso il bosco fitto e a volte scosceso. Sappiamo di calpestare<br />

le orme di infiniti altri uomini, che si sono mossi su questo terreno<br />

per epoche indefinite. Un milione e mezzo di anni – tanto sembra<br />

vecchio l’Homo di Apricena? E’ vero che non se ne conosce il volto ma<br />

solo le selci scheggiate. Però è affascinante pensare che il primo Homo<br />

europeo è venuto qui sul Gargano dall’Africa, madre dell’umanità.<br />

Oppure che è passato dal Caucaso prima di arrivare qua sopra, magari<br />

nel trasferimento verso Apricena, verso Paglicci, e poi verso l’alta<br />

Castiglia spagnola.<br />

L’abbiamo vista la sua abitazione precedente in Georgia, a sud-ovest di<br />

Tbilisi. Il fiume Mashavera si attraversava su un ponte Bailey, e poi si<br />

camminava in salita verso un sito non molto diverso da questo. La differenza<br />

principale è che l’Homo georgicus di Dmanisi è presidiato da<br />

una chiesa paleocristiana che porta il nome di Sioni, come per controllare<br />

eventuali spiriti smarriti nei recessi del tempo, delle abitazioni e<br />

delle tombe.<br />

La Terra madre<br />

Carl Gustav Jung diceva qualcosa sull’energia che si trasmette mediante<br />

il suolo tra generazioni distanti di secoli. Andando per Monte Saraceno<br />

incontriamo orme cancellate e assorbiamo, certamente, dei messaggi.<br />

45


Saltiamo i resti di mura daunie e scendiamo fino al bunker del promontorio.<br />

Da soli è meglio, perché lungo il cammino ci aspetta una<br />

sfinge che sussurra a ciascuno enigmi distinti. Non ha la forma del<br />

mostro alato che si manifestà a Edipo. Ha l’aspetto di una quantità<br />

indefinibile di buche scavate nella roccia morbida del terreno. Ognuna<br />

di esse è la tomba di una persona. E quindi è una domanda. Piccoli<br />

pozzi bianchi, con la forma di bozzoli da seta. Si sa che il defunto veniva<br />

composto in posizione fetale e con lo sguardo verso l’Oriente, come<br />

è naturale per chi aspetta di essere richiamato in vita da un raggio di<br />

sole: ex Oriente lux. Perché questo è il destino di ciò che si pianta nella<br />

terra.<br />

Lo sfregio imperdonabile infatti è lasciare insepolta la salma. I Greci,<br />

maestri definitivi di tutto, hanno sancito questa verità: è contro il volere<br />

degli dèi, perché una vita ulteriore può sorgere solo dalla terra.<br />

Ettore, racconta Omero, scivola nella morte con il terrore di essere<br />

abbandonato ai morsi delle cagne (‘da un figlio di dea come te non mi<br />

aspettavo niente di meglio’, mormora ad Achille). Solo dopo i giochi<br />

che stilizzano il lutto per la morte di Patroclo, davanti ai doni e alle preghiere<br />

di Priamo (‘pensa che cosa direbbe il tuo babbo’), il funesto<br />

Achille acconsente a restituire il corpo perché sia onorato sulla pira e<br />

le ossa finalmente sepolte.<br />

La testimonianza di Antigone<br />

Ma sarà poi Antigone a spiegare. La sepoltura è un imperativo assoluto<br />

perché “le leggi non scritte e incrollabili degli dei / non sono di oggi<br />

o di ieri, ma sempre vivono, / e nessuno sa da quando sono apparse”. E<br />

quindi lei accetta la morte pur di seppellire Polinice, il fratello perdente<br />

che il re-zio Creonte aveva ordinato di abbandonare ai cani. E per<br />

rendere pedagogicamente ancora più impressive questo insegnamento,<br />

il mito fa sì che Antigone, murata viva, si impicchi, dando l’avvio a un<br />

domino perverso che si porta via il fidanzato-cugino Emone, quindi la<br />

zia-regina Euridice per finire con il colpevole di tutto: il re Creonte.<br />

Il tema che ai Greci stava a cuore stabilire con tanto pathos è la supe-<br />

46


iorità della legge divina, o del dovere, sulle leggi umane. E un argomento<br />

senza tempo. Per questo Antigone transita attraverso le scritture<br />

e i palcoscenici e gli schermi fino ad oggi: da Eschilo (‘I sette contro<br />

Tebe’) a Sofocle e Euripide, a Vittorio Alfieri, Bertold Brecht, a Jean<br />

Anouilh e infiniti altri, fino ai ‘Cannibali’ di Liliana Cavani, dove Britt<br />

Ekland e Pierre Clementi facevano una bella coppia di seppellitori.<br />

Carl Orff, dopo i ‘Carmina Burana’, scrive anche la severa ‘Antigonae’<br />

mettendo in musica il testo di Sofocle nella traduzione di Hölderlin.<br />

Senza scendere a esperienze così impegnative, questa socializzazione<br />

della morte si percepisce in maniera viva, fresca, qui a Monte<br />

Saraceno. Forse è una vocazione del luogo. L’hanno sentita i Dauni, i<br />

Greci e, fino ai Turchi, tutte le comunità che hanno vissuto il Gargano.<br />

Sarà lo sfolgorio del mare, la dolcezza della baia di Mattinata: da queste<br />

uova svuotate nel terreno la vita fiorisce ancora. Con che animo<br />

negheremmo a un defunto di diecimila anni fa la gioia di essere questo<br />

cappero dai fiori sontuosi, o l’albero di fico che cresce spontaneo dalla<br />

sepoltura?<br />

Per passare l’eternità<br />

Non era usanza, nella maggior parte delle comunità antiche, lasciare il<br />

defunto senza indicazioni o auspici per il cammino. Ogni tanto magari<br />

mettevano in scena contesti di ricchezza esagerata, come i Faraoni, o<br />

rappresentazioni della vita quotidiana come gli Etruschi. La natura del<br />

décor si allineava alle credenze su ‘che cosa’ il defunto avesse da fare<br />

nel tempo futuro.<br />

L’abbondanza di vasellame nelle sepolture daunie – a meno che i cocci<br />

non fossero così costosi da configurare un lusso – impressiona per i<br />

simbolismi che ci pare di leggervi segnati o graffiti: triangoli, reti,<br />

meandri (l’acqua, l’umidità?), l’antichissimo chevron, losanghe con<br />

uno o più punti al centro – proiezione bidimensionale di una dea gravida<br />

forse? –; spire, uncini, svastiche, vortici, che a noi parlano di energia,<br />

di divenire; e quindi di vita, fertilità, rigenerazione. Ma per loro,<br />

magari, si trattava appena di una provvista di oggetti di vita quotidiana<br />

47


per attenuare lo stress del viaggio nell’oltretomba. Non dobbiamo<br />

lasciarci influenzare dal fiorire di tombe vuote. E’ la ‘Sindrome etrusca’.<br />

Ma Monte Saraceno è terra di viventi. Persone e comunità che si<br />

sono sentite bene qui, fin dal Neolitico di certo, ma forse da prima.<br />

Hanno costruito abitazioni e difese. Hanno tenuto accanto a sé i loro<br />

morti per non dissipare la coerenza del gruppo e rafforzare l’energia<br />

dello stare accanto. Questo ci sembra di sentire mentre la luce, piegando<br />

al tramonto, non illumina più il fondo delle tombe.<br />

Non ci riconosciamo invece nella folle cavalcata che Massimo<br />

D’Azeglio attribuisce (dubitativamente, è vero) a Ettore Fieramosca, il<br />

capuano eroe della Disfida di Barletta. Distrutto per la perdita dell’amata<br />

Ginevra, avrebbe incitato l’altrettanto amato cavallo fino al precipizio<br />

sul mare. E oltre.<br />

Archita o il ’ Leonardo’ da Taranto<br />

E’ certa invece l’accoglienza che la spiaggia di Matinum, tra le due braccia<br />

montuose, offre a uno dei sommi personaggi dell’antichità: Archita<br />

di Taranto, il matematico, ingegnere, scienziato, astronomo, condottiero,<br />

filosofo, poeta, uomo poltico. Hanno dato il suo nome al cratere<br />

lunare nel Mare Frigoris. Da sé invece ha dato il nome a una sua scoperta,<br />

la ‘Curva di Archita’, che a una persona normale fa impressione<br />

solo a vederne la formula; serve a raddoppiare il volume di un cubo.<br />

Di questa salma che i marosi accompagnano da Salona ci parla Orazio.<br />

Egli era di Venosa, tre secoli più giovane di Archita, e poteva conoscere<br />

sia le cose di Taranto che i segreti dell’Adriatico vicino.<br />

Te maris et terrae numeroque carentis harenae<br />

Mensorem cohibent, Archytas,<br />

Pulueris exigui prope latum parua Matinum<br />

Munera nec quicquam tibi prodest<br />

Aerias temptasse domos animoque rotundum<br />

Percurrisse polum morituro.<br />

48


Tu misuravi il mare, la terra / contavi gli infiniti grani di sabbia,<br />

Archita. / Ora sei appena ricoperto dalla cortesia di una manciata di<br />

polvere, / presso il fianco di Matinum. Non ti serve a niente / aver ricercato<br />

le dimore celesti e percorso le ricurve strade del cielo: / l’animo<br />

infatti è destinato alla morte.<br />

Archita (Taranto 428. – Matinum 347 a.C.) è sicuramente l’ospite illustre<br />

di uno dei sepolcri che costellano il monte Saraceno. Chissà che<br />

cosa ha in mente Orazio: temptare le dimore dell’etere (bussare? scuotere?<br />

o soltanto immaginare?) e percorrere le vie celesti in cerca di<br />

immortalità? Archita sarà una specie di Ulisse che ha tentato l’esperienza<br />

“diretro al sol, del mondo sanza gente”? Indubbiamente era un<br />

personaggio più avanti del suo tempo, e un paragone con Leonardo da<br />

Vinci non sembra affatto mal placé. O anche con Gerberto di Aurillac,<br />

il papa dell’anno Mille, divulgatore del numero zero.<br />

In ogni modo Archita è la piena fioritura della Magna Grecia. Taranto<br />

e Siracusa sono le città leader, unite dalla stessa governance la ‘tirannia<br />

democratica’. Aristotele, nei ‘Politikà’., ne esalta l’efficacia: “E’<br />

degno di imitazione anche il governo di Taranto. Qui, facendo partecipi<br />

i non abbienti del reddito delle proprietà, si è acquisito il consenso<br />

popolare. Inoltre si sono create due carriere di magistratura: una elettiva,<br />

l’altra a sorteggio; con questa si governa efficacemente, con quella<br />

si garantisce la partecipazione”. Archita capisce che la supremazia sul<br />

territorio e la sicurezza passano attraverso la disponibilità di una flotta<br />

potente, e per sette volte viene eletto stratego della città mentre la costituzione<br />

consentiva al massimo per un anno il conferimento del potere<br />

militare supremo. Strabone commenta: proprio alla democrazia e alla<br />

costanza del potere si deve la prosperità di Taranto.<br />

Si dice che Archita fosse lo ‘statista pitagorico’ per definizione, perseguendo<br />

gli ideali di armonia e di proporzione all’interno del corpo<br />

sociale. Forse è riuscito a integrare nel sistema metafisico, matematico,<br />

astronomico del Maestro di Samo (che peraltro un secolo prima era vissuto<br />

a Crotone) anche la politica internazionale e la strategia militare,<br />

oltre a diverse scienze come la meccanica razionale, la geometria, l’acustica,<br />

e a tecnologie di cui abbiamo informazioni a volte vaghe, e che<br />

49


vanno dall’artiglieria all’agricoltura. Le sue ricerche furono sviluppate<br />

dall’amico Platone per la teoria del suono, e più tardi da Euclide per la<br />

teoria delle proporzioni, e soprattutto da Archimede, nella Siracusa<br />

assediata dai Romani al tempo delle guerre puniche, per gli accorgimenti<br />

bellici da usare contro il console Marcello.<br />

Archita per i bambini<br />

Ma di tutte queste relazioni, compimenti, pensieri, successi, due sono<br />

meglio attestati dalle fonti. Il primo è la colomba lignea ad aria compressa:<br />

di certo ne dipende la colombina a razzo che ogni mattino di<br />

Pasqua attraversa fiammeggiando il duomo di Firenze e si pianta all’esterno<br />

sul carro di fuochi artificiali dando l’avvio al più rumoroso spettacolo<br />

pirotecnico del mondo (ha infatti come cassa di risonanza la cattedrale<br />

intera con la cupola del Brunelleschi, che ogni volta sembra<br />

schizzare per l’aria).<br />

Noi abbiamo di questa colomba a reazione una testimonianza de relato,<br />

come usa dire nei tribunali. Aulo Gellio, nelle ‘Notti Attiche’., cita<br />

un testimone. “Un modello di colomba di legno, costruito da Archita<br />

secondo certi princìpi di meccanica, riuscì a volare. Essa si sosteneva<br />

per mezzo di contrappesi e si muoveva mediante la pressione dell’aria<br />

rinchiusa e nascosta nel suo interno. Ma a dire il vero la cosa è così<br />

poco credibile che voglio riportare le parole precise di Fervorino”.<br />

Questi aggiunge solo che la colomba una volta posata non volava più;<br />

poi la citazione è interrotta e non sapremo mai ciò che Fervorino intendeva<br />

raccontare.<br />

La seconda invenzione memorabile è la raganella. Sì, quel giocattolo<br />

che, girando, produce il gracidio della rana facendo scattare una lamina<br />

di metallo contro la ruota dentata. Noi ci abbiamo giocato da piccini:<br />

ci garbava quel suono secco unito al movimento che, con il polso,<br />

si imprimeva al giocattolo. Ma ci saremmo mai immaginati che era<br />

stato un genio a crearla per noi? E che un altro genio ancora più grande<br />

avesse speso parole di lode per questo strumento? Aristotele, nei<br />

‘Politikà’: ”Consideriamo una invenzione felice la raganella di Archita<br />

50


che si dà ai bambini per tenerli occupati; così si evita che rompano<br />

delle cose in casa, visto che non riescono a star fermi”. Nessuna pietà<br />

per gli orecchi dei genitori: ‘rumore assicurato!’ promette una pubblicità<br />

on line per una raganella a due ruote dentate.<br />

Ma questo è solo l’inizio. Intanto la raganella è uno strumento che,<br />

debitamente ingrandito, può produrre un volume di suono molto forte:<br />

ed è ciò che succedeva fino a pochi anni fa il Venerdì Santo quando le<br />

campane tacevano e la scansione religiosa del tempo era affidata,<br />

appunto, alla ‘traccola’ che i ragazzi, divertendosi un mare, facevano<br />

gracidare sul campanile e attorno alla chiesa.<br />

E non basta: i compositori del Novecento non si lasciano scappare questa<br />

modalità di produrre suono. Richard Strauss usa la raganella nel<br />

poema sinfonico ‘I tiri burloni di Till Eulenspiegel’, e Krzysztof<br />

Pendereckij nella Sinfonia per due orchestre discordi (se ne ricorda una<br />

esecuzione col giovane Riccardo Muti a Firenze, mille anni fa). E, last<br />

but not least, una raganella di nome Simone (Simon Rattle) è direttore<br />

stabile della più importante orchestra sinfonica del mondo, i Berliner<br />

Philarmoniker.<br />

Naufragio<br />

Questa salma di un Grande abbandonata sulla sabbia fa venire in mente<br />

altri personaggi, diverse circostanze. Non tanto Ulisse naufragato sull’isola<br />

dei Feaci, che se la cava benissimo con Nausicaa, quanto piuttosto<br />

Percy Bysshe Shelley, il poeta romantico inglese trovato sulla<br />

spiaggia di Viareggio nel luglio 1822.<br />

Per lui la predica sulle caducità delle terrestri cose la compone, invece<br />

di Orazio, Giosuè Carducci:<br />

“L’ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge;<br />

sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero”<br />

Per quanto non eccelsi, questi versi possono costituire l’epigrafe per<br />

51


una serata a Matinum affollata di millenarie pazienze in attesa di una<br />

rinascita, o almeno di una fioritura di capperi e di rosmarino selvatico.<br />

52


SALINIS<br />

Armée Celtique en Italie vexée<br />

De toutes pars conflis & grande perte:<br />

Romains fuits, ô Gaule repoulsée,<br />

Près du Thesin, Rubicon pugne incerte (II, 71)<br />

La Tabula Peutingeriana è precisa. Da Salinis a Anxanum, volgendo le<br />

spalle all’Aufidus, dodici miglia romane; nove da Anxanum a Siponto.<br />

Sulla riva illirica di fronte, oltre alcune isole tra cui Brazza, è in evidenza<br />

una città portuale. Il nome non si legge ma è sulla strada tra<br />

Spalato e Inaronia, oggi Makarska, e vi convergono un fiume e un percorso<br />

viario dall’interno. Insomma potrebbe essere Almissa –<br />

Dalmasium, Oeneum, Alminium – oggi Omisˇ, famoso nido di pirati nel<br />

canyon del fiume Cettina. Gli stessi che scorgeremo, spingendo lo<br />

sguardo da Devia, prendere con astuzia e saccheggiare l’abbazia di<br />

Tremiti.<br />

Salinis non esiste. Non è una città determinabile. E’ un territorio che<br />

nei millenni ha dato spazio a diversi luoghi: Salpi, Salapia, Casale della<br />

Trinità, Margherita di Savoia; ognuno di essi ha avuto i suoi perché e il<br />

suo destino.<br />

Mettere dei puntini sulle i della toponomastica è impresa disperante.<br />

Salpi sarà il lago e Salapia la sua città di riferimento? I nomi dei luoghi<br />

si sono mossi assieme agli abitanti, agli ondeggiamenti del suolo,<br />

all’impaludamento e all’infusione delle acque. Uno di questi spostamenti<br />

lo conosciamo perché ne parla Vitruvio. I Salapini, ossessionati<br />

dalle zanzare e dai miasmi della palude, pregano il governatore romano<br />

Marco Ostilio di farli traslocare. “Allora Marco Ostilio, osservato<br />

con attenzione tutto il territorio, comperò una possessione in un luogo<br />

molto salubre vicino al mare; ottenuto il consenso dal Senato e dal<br />

55


Popolo romano edificò la nuova città, vi trasportò il popolo, rizzò le<br />

mura, aprì i fori, e diede a ciascuno dei cittadini un sesterzio. Compiuta<br />

questa parte dell’impresa, scavò un canale tra il lago e il mare per aprirgli<br />

un varco e alla bocca vi formò un porto”.<br />

Laghi, paludi e vie d’acqua dal tratto mutevole. Noi ci troviamo di<br />

fronte a un terreno umido che si è mosso e stratificato nei millenni; ci<br />

poniamo delle domande guardando appena l’epidermide. Sono gli<br />

archeologi che sanno entrare nella carne viva del tempo.<br />

Economia e politica del sale<br />

Il sale è tra i beni più urgenti per la vita, dopo l’acqua e il fuoco.<br />

Preserva qualunque cosa dalla putrefazione, e anche solo per questo<br />

diventa un medicamento dell’anima. E siccome i simboli hanno un<br />

valore monetario, si pagano i soldati con il salarium. Ma prima ancora<br />

si offre sale agli dei e lo si divide in compagnia, come oggi ci si passerebbe<br />

uno spinello.<br />

Attorno a Salinis una cosa sola è certa: il sale. Ciò che rimane costante<br />

fin dalle prime mandrie svernanti è il sale. E l’acquitrino. Quando<br />

sopravvengono gli umani, per loro il mare attraverso le bocche degli<br />

stagni apre i cammini dell’indefinito. Del sale si parla lungo la costa;<br />

nell’interno fino a tutto l’Appennino. Se ne parla a Venezia e in Illiria,<br />

che è confinante, e lo apprenderanno gli Slavi che appena arrivati non<br />

hanno l’esperienza del mare e delle sue risorse. Di sale si parla a Roma,<br />

che con i poli produttivi di Anco Marzio a Ostia è una concorrente<br />

commerciale, apre la via Salaria per l’esportazione; una colonia dedotta<br />

in Salapinorum plenis pestilentiae finibus, parola di Cicerone, agevolerà<br />

il controllo del mercato.<br />

La facies attuale di Salinis, se si va per zone umide, per scavi e per<br />

musei, forse è acquisita con l’età del bronzo medio, a metà del XVIII<br />

secolo a.C. Il ‘popolo degli ipogei’ esercita la pastorizia e la caccia in<br />

una cornice agricola consolidata. Vale la pena entrare nell’ipogeo e<br />

chiudere gli occhi per ascoltare il suono del silenzio, il lieve pulsare del<br />

56


proprio sangue, come nelle camere sotterranee di Micene. Nel seno<br />

della terra, allora, per celebrare riti, per risvegliare la primavera ostaggio<br />

dell’abisso; poi in tempi più evoluti gli ipogei custodiranno il riposo<br />

senza risveglio delle élite locali.<br />

Certamente viene dalla costa albanese, l’Illiria, la prima civiltà strutturata<br />

dell’area salapina. La popolazione dei Dauni portatrice – per contatto<br />

o per espansione diretta – di tutto quello che di nuovo si crea nella<br />

incredibile fucina del Vicino Oriente, tra l’Egitto e la Mesopotamia.<br />

Anche qui, la storia ha il suo sense of humor nel configurare oggi in ben<br />

altra maniera l’afflusso di Illirici da Valona.<br />

Ai Dauni si sovrappongono i Greci, la civiltà cretese-micenea, tra il<br />

sedicesimo e l’undicesimo secolo. Qualche traccia ne rimane, ma<br />

soprattutto si crea allora il mito collettivo di fondazione di tutte le città<br />

argive della Daunia, da Siponto a Troia, da Arpi a Lucera: le imprese<br />

dell’eroe omerico Diomede. Il subentro dei nuovi colonizzatori si<br />

adombra nelle nozze di Diomede con la figlia del re illirico Dauno,<br />

eponimo del territorio foggiano.<br />

Una nuova ondata di Illiri, dalle pianure danubiane, giunge nel decimo<br />

secolo, ma avrà un respiro sommesso: duecento anni dopo incomincia<br />

la Grecia classica ad allargare il suo Lebensraum a tutta l’Italia meridionale.<br />

E’ la Magna Grecia. E i Romani? Virgilio racconta di un contatto<br />

degli Italici laziali con Diomede per contrastare il passo al nemico<br />

comune: Enea il troiano, antenato dei Cesari. Ma l’odio fra Greci e<br />

Troiani si è già scaricato con la distruzione della illustre città. L’eroe<br />

di Argo, ormai addomesticato, non riprenderà in mano le armi dopo<br />

tanti decenni di pacifiche edificazioni. I discendenti di Enea, quindi, si<br />

prenderanno le città diomedee e le coltivazioni di sale, qualche secolo<br />

più tardi. C’est l’Histoire.<br />

La salina, naturalmente, è un bene demaniale (‘Costituzioni Melfitane’,<br />

1231) o comunque legato a soggetti istituzionali. A novembre del 1064<br />

l’arcivescovo Gerardo di Siponto cede all’abate di Tremiti un terzo di<br />

salina in cambio di una piccola icona e di uno skaramanghion, il prestigioso<br />

abito di corte in seta che, a peso, vale quanto l’oro. Quattro<br />

57


anni dopo, per un altro terzo di salina, l’abate paga al vescovo una<br />

icona della Vergine ornata d’oro e un altro skaramanghion di seta e filo<br />

d’oro del valore di oltre 20 nomismata. La seta era certamente tessuta<br />

nei possedimenti tremitesi di terraferma; la Capitanata fino al 1071 è<br />

stata la fonte principale per i lussi di Bisanzio.<br />

Capitale dell’immagine ante litteram, la città imperiale annetteva ai<br />

vestiti di seta, soprattutto tinti in porpora, un valore ostensivo da fashion<br />

victims. Liutprando di Cremona, nel 971, racconta come gli furono<br />

sequestrate le vesti liturgiche che si era comprato, trovandosi in missione<br />

diplomatica per conto di Ottone I di Sassonia. Ne nasce un battibecco<br />

(‘da noi queste vesti le portano le sgualdrine’, e ‘allora perché le<br />

compri tu che sei un vescovo?’, eccetera). Ma lo shopping turistico non<br />

poteva comprendere la porpora, riservata agli imperatori e ai massimi<br />

livelli della Corte. Esiste nella liturgia orientale una formula di benedizione<br />

per i bachi da seta in cui si chiede all’Onnipotente di allontanare<br />

da essi il freddo, il maltempo, gli incantesimi, il malocchio, le malattie;<br />

nulla si dice a proposito dell’acqua bollente, invece, nella quale verranno<br />

immersi.<br />

Salpi, le donne di bastoni<br />

E’ sul tramonto che bisogna vagare presso le acque di Salpi, per assorbire<br />

i brividi della notte incipiente. Il porto festoso di Argyrippa non si<br />

indovina più; e invece si fanno avanti le ombre inquiete delle devote di<br />

Cassandra, dal viso tinto e armate di bastoni, e l’implacata donna di<br />

Annibale, l’Alma dannata.<br />

Se avvertite l’inquietudine, c’è chi può aiutarci a capire. Licofrone,<br />

poeta in lingua greca, che scrive ‘Alessandra’ nello stesso ritmo metrico<br />

delle tragedie classiche. Una fiammata scura di poesia.<br />

Non si sa bene chi fosse Licofrone. Ne esisteva uno ben conosciuto alla<br />

corte dei faraoni greci di Alessandria, nel III secolo avanti Cristo. Ma<br />

non è lui. Il nostro Licofrone vive parecchi anni dopo; assiste al trionfo<br />

di Roma sull’orbe ellenistico e descrive i luoghi dell’Italia meridio-<br />

58


nale, l’Ausonia, come se li avesse visti.<br />

Alessandra altri non è che Cassandra, l’indovina per antonomasia.<br />

Nella sua casa di pietra profetizza la catastrofe di Troia. Come si sa,<br />

non viene creduta: è la vendetta di Apollo a cui non ha voluto cedere il<br />

proprio corpo. Oltre alla caduta e alle stragi nella sua città, Cassandra<br />

vede in anticipo i cupi avvenimenti del ritorno degli eroi greci: le regge<br />

achee ormai hanno imparato a fare senza di loro, e la fedeltà di<br />

Penelope diventa proverbiale proprio perché è un’eccezione tra le<br />

‘vedove bianche’. Se Menelao riporta la moglie a Sparta, Agamennone,<br />

suo fratello, è scannato da Clitennestra mentre gli sta servendo un<br />

bagno caldo; e Cassandra, incolpevole bottino di guerra, ha la medesima<br />

accoglienza. Diomede, nella sua Argo, rischia la stessa fine con la<br />

consorte Egialea e deve rifugiarsi in Ausonia a casa di Dauno, e poi un<br />

po’ per tutto l’Adriatico a fondare città.<br />

Formalmente ‘Alessandra’ è una specie di monologo tragico e aveva di<br />

certo un accompagnamento musicale. In tempi più recenti potrebbe<br />

essere ‘Erwartung’, l’attesa, di Arnold Schoenberg: la donna smarrita<br />

nella foresta che al buio riconosce il cadavere del suo amante.<br />

Licofrone compone un testo affascinante e oscuro, fatto di allusioni ad<br />

eventi ignoti, con sintassi da slalom e grande sfoggio di parole rare.<br />

Potrebbe sembrare uno scrittore del Siglo de Oro, fra Góngora e San<br />

Giovanni della Croce, però con una componente noir molto accentuata.<br />

Eppure, per sentire Salpi, bisogna leggere ‘Alessandra’; non si può<br />

farlo senza una traduzione a fronte e un apparato cospicuo di note, che<br />

per fortuna esistono. Un esempio (i versi 1127-1141):<br />

“Ma neppure il mio culto, scolorito dal buio dell’oblio,<br />

tra gli uomini sarà privo di fama.<br />

I capi dei Dauni costruiranno un tempio per me<br />

presso alle rive del Salpe,<br />

e quelli che abitano la città dardania<br />

vicino alle rive del lago.<br />

Le fanciulle quando vorranno fuggire il giogo nuziale<br />

rifiutando i pretendenti<br />

59


fieri dei capelli alla foggia di Ettore,<br />

ma scarsi di aspetto e di stirpe meschina,<br />

stringeranno tra le braccia la mia immagine,<br />

vestite da Erinni, con le guance spalmate di erbe magiche,<br />

ed avranno una difesa molto potente contro le nozze.<br />

Da costoro, dalle donne che portano il bastone (rabdofòrai),<br />

sarò chiamata per lungo tempo dea inestinguibile”.<br />

Non è una profezia semplice da sciogliere. Rileggiamo qualche passaggio.<br />

Quelle che rifiutano le nozze<br />

Il tempio: Cassandra parla di un tempio costruito in sua memoria.<br />

Poteva esser dedicato ad Atena Acaia, come quello in cui lei fu violata<br />

da Aiace Oileo nell’immane saccheggio? Il sedicente Aristotele dei<br />

‘Racconti fantastici’, De mirabilibus, afferma che in una città imprecisata<br />

della Daunia vi è un tempio di questa divinità, che conservava<br />

anche le scuri di bronzo e le armi di Diomede e dei suoi compagni. Si<br />

deve ammettere però che a parere di Strabone questi cimeli si trovano<br />

a Lucera.<br />

‘Aristotele’ continua: lì intorno ci sono dei cani che scodinzolano ai<br />

Greci ‘come se fossero familiari per loro’. Ci sentiamo di collegare i<br />

selettivi quadrupedi con le Diomedee delle Tremiti: i compagni dell’eroe<br />

trasformati da Venere in uccelli, che fanno buonissima cera ai<br />

Greci e maltrattano i Barbari, e nelle notti di luna piena si lamentano<br />

come bambini impauriti. In realtà è un richiamo amoroso.<br />

E la ‘città dardania’? Su ben lontane rive, Dardano è il fondatore di<br />

Troia. Forse Licofrone, giocando sull’aggettivo, accosta la tragica<br />

patria di Cassandra alla città daunia chiamata Dardi di cui sappiamo<br />

l’esistenza da Plinio: Diomedes ibi delevit gentes Monadorum<br />

Dardorumque et urbes duas, quae in proverbium ludicrum vertere,<br />

Arpinam et Tricam. Diomede azzerò le popolazioni dei Monadi e dei<br />

60


Dardi e le due città, Arpina e Trica. Fa sorridere perché ‘abitare in<br />

Arpina e Trica’ era come dire ‘stare in un luogo che non esiste’, ‘vivere<br />

in Utopia’.<br />

Ma ecco il punto delicato. Le donne che si rifiutano alle nozze. Chi<br />

saranno questi sgraditi pretendenti? Essi esibiscono tagli di capelli ‘alla<br />

Ettore’, cioè corti sulla fronte e lunghi sulle spalle; però sono squallidi<br />

di etnia e di carattere, ed è giusto che le ragazze li respingano.<br />

Probabilmente sono i Dauni e i Peucezi che portano questo taglio di<br />

capelli. Cioè tutta la popolazione locale. Rifiutare questi rozzi indigeni<br />

equivale a scartare del tutto l’idea del matrimonio. Posizione irricevibile<br />

nell’antica Grecia, come oggi nella gran parte del mondo. E infatti<br />

pochi versi più avanti Cassandra dice che ne farà piangere parecchie<br />

di madri, al vedere le figlie allontanarsi senza marito.<br />

Ma come tener lontani i rozzi pretendenti?<br />

La divina Cassandra farà la sua parte soprannaturale. Ma le ragazze<br />

hanno da mostrarsi in condizioni ributtanti. Vestite di stracci paurosi,<br />

tanto da assomigliare alle Erinni che certamente non erano un sex<br />

symbol ad Atene. Le tre cagne arrabbiate, le vespe pungenti, le furie<br />

secondo i romani, le mosche secondo Sartre, insomma le dee del rimorso<br />

e della vendetta. Le Eumenidi secondo Eschilo. Le Benevole secondo<br />

Jonathan Littel.<br />

Le Erinni fanno parte degli strati primordiali della mitologia greca:<br />

nascono dal sangue di Urano, il dio del cielo, evirato dal figlio Crono<br />

con un falcetto. Esteticamente, se si può dir così, hanno le ali, e chiome<br />

di serpenti. Sotto il Partenone si vede ancora l’accesso della loro<br />

spelonca, ed è un tratto di genio. Alla superficie il logos: la bellezza, la<br />

sapienza costruttiva, la purezza delle forme; al fondamento il kaos: l’oscuro<br />

richiamo dell’irrazionale morboso e mortifero.<br />

Insomma, più le ragazze del tempio di Salpi si acconciano da Erinni,<br />

più stanno al riparo dalle proposte di matrimonio. Non bastando l’abbigliamento<br />

inquietante, la faccia si deve bruttare con l’aiuto di bacche<br />

ed erbacce. Forse Dante può aiutarci a immaginare l’accoglienza che<br />

61


uno spasimante si sarebbe trovato di fronte:<br />

“… in un punto furon dritte ratto<br />

tre furïe infernal di sangue tinte,<br />

che membra feminine avieno e atto,<br />

e con idre verdissime eran cinte;<br />

serpentelli e ceraste avien per crine,<br />

onde le fiere tempie erano avvinte.<br />

L’amico Virgilio tenta le presentazioni:<br />

“Guarda’, mi disse, ‘le feroci Erine.<br />

Quest’è Megera dal sinistro canto;<br />

quella che piange dal destro è Aletto;<br />

Tesifón è nel mezzo’; e tacque a tanto”.<br />

Ma non sembra che l’accoglienza migliori granché:<br />

“Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;<br />

batteansi a palme e gridavan sì alto,<br />

ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto”.<br />

Vero è che Dante ci porta alla città infernale di Dite, e non al dolce stagno<br />

salato di Salpi. Ma le Erinni sono queste.<br />

Sarebbe interessante capire qualcosa di più della comunità di femmine<br />

integraliste aggressive e armate di bastoni. Ma teniamo presente che il<br />

tutto potrebbe essere anche uno psicodramma collettivo. Un rito nuziale<br />

per esempio: quattro passi fra le opere di Margaret Mead o addirittura<br />

di Vladimir Propp potrebbero aiutarci a inquadrare questa inquietante<br />

consorteria.<br />

Lasciamo Licofrone leggendo il finale di ‘Alessandra’.<br />

“Ma perché abbaio così a lungo<br />

alle pietre che non ascoltano, all’onda muta,<br />

grido alle foreste nelle valli spaventose,<br />

62


facendo risuonare un vuoto strepito?<br />

Apollo, il dio di Lepsia, mi tolse la fiducia della gente<br />

ed immise un sentore di falsità nelle mie parole,<br />

nella sapienza profetica dei miei responsi.<br />

Lo fece perché rifiutai il suo perverso desiderio per il mio letto.<br />

Ma poi le mie profezie saranno avverate.<br />

Nella tragedia qualcuno le verrà a conoscere,<br />

quando sarà troppo tardi per giovare alla patria,<br />

e apprezzerà la rondine ispirata da Febo Apollo”.<br />

Quelle che si bruciano le navi dietro le spalle<br />

Non bastano le Erinni di Salpi a caratterizzare l’universo femminile<br />

delle saline. Ancora il finto Aristotele del ‘De mirabilibus’: “Tutti i<br />

Dauni e i loro vicini si vestono di nero, sia uomini che donne”.<br />

La causa sarebbe questa. Le Troiane preda dei guerrieri greci non ne<br />

volevano sapere di diventare le schiave delle mogli, a casa. Temevano<br />

di essere trattate malissimo dalle vedove bianche. Allora, approfittando<br />

di una sosta su queste spiagge, dettero fuoco alle loro navi: così in un<br />

colpo solo sfuggivano alla schiavitù incombente e costringevano gli<br />

uomini a maritarsi con loro. “Con questo espediente, dice ‘Aristotele’,<br />

li obbligarono a restare. Ha scritto giusto, su di loro, il Poeta: ‘trascinano<br />

il peplo ed hanno seni profondi’. E’ proprio così, pare, che si possono<br />

vedere ancora oggi.”<br />

Tra le ragazze che si sporcano la faccia per non sposarsi e quelle che<br />

bruciano le navi per farsi sposare, bisogna dire che il rapporto tra i<br />

generi è assai problematico nella Daunia d’antan. Adesso, passeggiando<br />

per Foggia prima di cena, si ha l’impressione che i fantasmi siano<br />

definitivamente fugati.<br />

63


Salapia, capitale di Annibale<br />

Scagliare una pietra contro la superficie dello stagno per allontanare la<br />

malasorte. E se invece rispondesse un grido di dolore? Dicono che si<br />

faccia così…<br />

Il sito di Salapia è abitato da mille spiriti antichi che ogni tanto, come<br />

nella piscina di Bethesda, frusciano sulle acque per segnalare una presenza<br />

altrimenti spenta. Annibale e la sua infelice amante, Iride, sfiorano<br />

talvolta la superficie dello stagno che si chiama ‘l’Alma dannata’.<br />

La vicenda è nota e non è nemmeno eccezionale. Straordinari sono i<br />

personaggi nei quali si è incarnato questa volta l’archetipo dell’amore<br />

incontenibile, quello che sconvolge le regole. “Come un vento che in<br />

cima ai monti si abbatte sulle querce” aveva detto Saffo.<br />

Le fonti antiche non soddisfano il bisogno di particolari glamour.<br />

Plinio (il Vecchio, quello che muore nell’eruzione del Vesuvio) appena<br />

viene a dire della Daunia rammenta l’oppidum Salapia Hannibalis<br />

meretricio amore ìnclutum. E di questo ci dobbiamo accontentare,<br />

anche se non è poco. Del resto tutti i resoconti dell’epoca sono abbottonatissimi<br />

sulla vita privata di Annibale. Non abbiamo trovato informazioni<br />

utili né in Tito Livio che è il narratore più analitico, né in<br />

Polibio, né in Appiano Alessandrino, né in Cornelio Nepote già noiosissimo<br />

alle scuole medie, né in Silio Italico che sulle Guerre Puniche<br />

scrive addirittura un poema à la manière de Virgilio. Ma queste sei<br />

parole di Plinio sono un piccolo tesoro informativo.<br />

Oppidum: Salapia, quanto meno al tempo di Plinio (I sec. d.C.), è un<br />

oppidum, una città di rilievo; forse cinta da mura trovandosi in piano.<br />

L’amore meretricio di Annibale ne fa un sito ìnclutum: che in latino ha<br />

una accezione positiva e tende a significare illustre, nobile (è anche uno<br />

degli appellativi di Giove); famoso, non famigerato. Plinio scrive a<br />

distanza di due secoli, e si contenta di lanciare una allusione: quindi il<br />

‘fatto’ doveva essere memorabile, e comunque ancora ben presente a<br />

chiunque leggesse la ‘Naturalis Historia’.<br />

64


Sappiamo che Annibale era crudele quanto doveva, ma rigoroso in<br />

materia di etica guerresca. Ad esempio non permetteva gli stupri collettivi,<br />

che sono fino a ieri mattina l’inevitabile corteggio delle conquiste<br />

belliche. Sapeva infatti che i nemici possono rassegnarsi a qualunque<br />

spoliazione, ma lo sfregio sessuale li accanisce per sempre. Nulla<br />

risulta a carico della sua fedeltà alla moglie Imilke sposata a Castulo fra<br />

i Celtiberi, sulla strada tra Cartagine e Roma. E poi i Barca erano austeri<br />

di famiglia, tanto che le cricche avversarie spargevano la voce che<br />

fossero inclini a tenerezze maschili. Questa è la ragione per cui Salapia<br />

è resa ‘inclita’ dagli amplessi extramatrimoniali di Annibale.<br />

Nessun’altra città può vantare lo stesso pregio. E’ un grande vantaggio<br />

competitivo. Con un po’ di cinismo forse a Trinitapoli potrebbe essere<br />

‘venduto’ turisticamente assieme agli Ipogei e ai programmi naturalistici<br />

della Casa di Ramsar.<br />

Quanto alla natura di questo intercorso di Annibale con la ‘Dama di<br />

Salapia’, Plinio parla di amore sì, ma a pagamento: meretricium. Ora,<br />

delle due parole la più impegnativa è certamente amor. Che la Dama<br />

fosse una fille de petite vertu può davvero essere la malignità del<br />

Romano che in un colpo sfigura due nemici: il Cartaginese e la città di<br />

Salapia che, traditrice, gli ha aperto le porte delle mura e della camera<br />

da letto.<br />

Fin qui è il testo che parla. D’ora in avanti è leggenda. Iride è la figlia<br />

del principe di Salapia. Convince i concittadini a schierarsi con<br />

Annibale. I Romani per vendetta, rientrando da Canne, distruggono la<br />

città. Gli abitanti aggrediscono Iride, che viene spinta nel pantano e<br />

lapidata, o sepolta viva – come le Vestali che tradivano il voto, o che<br />

venivano buone come capri espiatori di errori maschili. Per questo lo<br />

specchio d’acqua si chiamerebbe ‘Alma dannata’: è l’anima condannata<br />

di Iride che ancora fa sentire il grido della sua disperazione. Sarà<br />

forse il richiamo di un uccello? Una sosta attorno a quello specchio<br />

d’acqua, per chi sa ascoltare il luogo, lascia aperta ogni possibilità.<br />

65


Hannibal ad portas!<br />

Adesso dobbiamo fare un discorso serio su Annibale, in italiano<br />

Teodoro (‘grazia del dio Baal’), apolide domiciliato in Daunia a più<br />

riprese durante tredici anni di guerriglia; a Salapia nell’inverno 214 a.C.<br />

Il punto è questo: sono passati duemiladuecento anni. Eppure troviamo<br />

ancora le tracce fresche del suo passaggio. Il grande Cartaginese ha<br />

veramente scalfito la coscienza collettiva degli Italici. Non si contano i<br />

letti in cui ha dormito Garibaldi né i palazzi abitati da Napoleone; ma<br />

assai più numerosi sono i toponimi come ponte di Annibale (solo sulla<br />

Sieve ce ne sono due), castello di Annibale, campo di Annibale, sella di<br />

Annibale, fonte di Annibale, monte Annibale. E Quinto Fabio<br />

Massimo? gli Scipioni? Catone il Censore? Nulla.<br />

Una ragione c’è, ed è la grande legge della comunicazione di massa:<br />

demonizzare l’avversario vuol dire regalargli la vita eterna. Le urgenze<br />

propagandistiche dei Romani hanno trasformato Annibale Barca, ‘il<br />

Saetta’, in un barbaro grottesco e crudele. Con questa immagine egli ha<br />

continuato a rotolare per la storia, fin sulla spiaggia dei nostri banchi<br />

alle elementari. Il babbo che gli fa giurare odio eterno a Roma nel tempio<br />

di Baal; il virtuosismo di attraversare le Alpi con quaranta elefanti<br />

che diventano sempre meno fino a ridursi a uno, il fido Saurus; il mistero<br />

su quale autostrada abbia preso per cadere proprio sopra ai celti torinesi<br />

(da cui l’opera Annibale in Torino di Giovanni Paisiello, 1779); la<br />

gestione della prima vera guerra mondiale, tra Africa, Europa e Asia;<br />

l’invenzione della guerriglia; le sanguinose (e vittoriose) battaglie della<br />

Trebbia, del Trasimeno, di Canne, e quella (perduta) di Zama; i santini<br />

dei suoi antagonisti, Fabio Massimo che, prudente, ‘temporeggiava’, e<br />

Scipio del cui elmo l’Italia si è cinta la testa. Questo è il minimo comun<br />

denominatore della vicenda annibalica, e si allaccia nelle menti italiche<br />

con Brenno che getta la spada sulla bilancia, con Muzio Scevola che si<br />

brucia la mano davanti a Porsenna, con Giulio Cesare, le idi di Marzo,<br />

33 pugnalate e tu quoque Brute fili mi.<br />

Annibale sul podio dei massimi condottieri di tutti i tempi: ne convengono<br />

tutti gli esperti, dai polemologi ai collezionisti di soldatini di<br />

66


piombo e agli smanettatori di videogiochi. Ma precisano: il più grande<br />

condottiero di truppe mercenarie. Con un vago sapore di biasimo. A noi<br />

pare invece la massima virtù quella di condurre verso un unico obiettivo<br />

comunità umane distanti per etnia, lingua, cultura, motivazione,<br />

valore, animosità, modalità di retribuzione, distanza fisica dalla patria.<br />

L’osservazione non è nostra ma di Polibio.<br />

L’attenzione al fattore umano è una delle risorse strategiche del<br />

‘Saetta’. Un esempio solo. Alla Trebbia aspetta ad attaccare la battaglia<br />

il giorno in cui il console Scipione senior è di riposo, mentre il comando<br />

è in mano a Sempronio Longo. Annibale lo conosce: omnia ei<br />

hostium haud secus quam sua nota erant, conosceva le cose del nemico<br />

come le proprie tasche. Sa che Sempronio è uno che si impressiona<br />

e che reagisce d’impulso: e allora lo sorprende con una ‘passerella’<br />

mattutina di cavalleria cartaginese che finge di attaccare. E’ una fredda<br />

mattina di dicembre, e il console Sempronio ci casca: sveglia l’esercito<br />

di fretta e lo lancia all’inseguimento, digiuno e semisvestito, attraverso<br />

il corso d’acqua. Ma di là ci sono i Cartaginesi asciutti, vestiti<br />

con cura e già rifocillati. La vittoria arride facilmente a loro.<br />

Per quanto riguarda lo ‘specifico professionale’ del condottiero, i polemologi<br />

riconoscono ad Annibale il genio dell’innovazione. Di colpo,<br />

con lui, diventa vecchia la scienza strategica greca e romana. Le quattro<br />

specialità – fanteria e cavalleria rispettivamente pesante e leggera –<br />

lui non le considera come entità contraddistinte da mission immobili e<br />

distintive. Lui concepisce tutto l’esercito come una comunità multitask,<br />

flessibile, che in momenti diversi può spartirsi in maniera inusuale una<br />

funzione, o subentrare e sopperire. Una ‘protesi’ a disposizione del<br />

condottiero.<br />

Ma anche questo apprezzamento a noi pare limitativo. Aiuta a capire la<br />

battaglia della Trebbia e quella del Trasimeno, ma non quella di Canne.<br />

Annibale vince a Canne perché gestisce come un sistema unico non<br />

solo il proprio esercito, ma anche quello romano – e, verrebbe da dire,<br />

l’intero contesto della battaglia, compresa la componente ambientale.<br />

Plutarco racconta. “In quella battaglia Annibale si servì di due accorgi-<br />

67


menti strategici. Il primo fu di scegliere il luogo dello scontro facendo<br />

in modo che i suoi soldati avessero alle spalle il vento, che si era scatenato<br />

simile a un turbine infocato. Il vento sollevava dalla pianura<br />

piatta e sabbiosa un acre polverone al di sopra dello schieramento cartaginese,<br />

lo spingeva contro i Romani e li colpiva in pieno viso costringendoli<br />

a voltarsi altrove e a scompaginare le loro file. Il secondo<br />

accorgimento riguardò il modo di disporre le truppe: infatti Annibale<br />

schierò alle ali estreme quelle più forti e combattive, mentre formò il<br />

centro dello schieramento le truppe più fragili, che erano i Celti lombardi.<br />

Appena il centro ebbe ceduto e fatto posto ai Romani incalzanti,<br />

lo schieramento di Annibale mutò forma e da rettilineo che era si trasformò<br />

in una mezzaluna. I comandanti delle punte estreme fanno convergere<br />

i loro uomini da destra e da sinistra; le truppe scelte stringono<br />

i Romani lungo i fianchi; li chiudono nel cerchio e li massacrano tutti<br />

quanti”.<br />

Annibale è come un giocatore di scacchi che muova i bianchi e i neri<br />

contemporaneamente. E’ solo alla playstation e non può che vincere.<br />

Polibio aveva avuto la stessa intuizione prima di noi: “Degli eventi che<br />

accadevano agli uni e agli altri, cioè ai Romani e ai Cartaginesi, la<br />

causa era un solo uomo e una sola mente: quella di Annibale”.<br />

Ancora Polibio, che peraltro vive a Roma nell’entourage degli<br />

Scipioni, i nemici mortali di Annibale, formula un giudizio lapidario.<br />

“Annibale è una meraviglia della natura. Ci riempie di stupore quando<br />

incontriamo una persona il cui intelletto si accorda alla perfezione, per<br />

innato schema mentale, con qualunque opera umana decida di intraprendere”.<br />

A proposito di Canne vogliamo concederci, con Tito Livio, una sequenza<br />

da Quentin Tarantino. Teniamo conto che le vittime furono sessantamila:<br />

diecimila meno che a Hiroshima. Colonna sonora: Prokofiev,<br />

‘Alexandr Nevskij’, Il campo dei caduti, con la melopea del contralto.<br />

“Il giorno dopo, all’alba, i Cartaginesi attesero a raccogliere le spoglie<br />

e a contemplare la strage, terribile anche all’occhio di un nemico.<br />

Giacevano tante migliaia di Romani, alla rinfusa fanti e cavalieri, così<br />

68


come il caso o la battaglia o la fuga li avevano l’un l’altro mescolati<br />

insieme. Alcuni che, coperti di sangue, tentavano di alzarsi in mezzo<br />

alla strage, risvegliati dal freddo che aveva a loro contratto le ferite,<br />

vennero finiti dal nemico. Si trovarono poi altri che giacevano vivi con<br />

i femori e i garretti tagliati e che, denudando il collo e la gola, scongiuravano<br />

che se ne traesse fuori il sangue che ancora li teneva in vita.<br />

Altri furono trovati con le teste affondate in una buca: appariva chiaro<br />

che essi stessi l’avevano scavata e che sotterrandosi il capo sotto la<br />

terra erano morti soffocati. Attirò gli sguardi di tutti un Numida tratto<br />

ancor vivo con il naso e le orecchie lacerate, di sotto ad un Romano<br />

morto, che non avendo più nelle mani la forza di afferrare un’arma, dall’ira<br />

passato alla rabbia era spirato dilaniando coi denti il nemico”.<br />

Storie di ordinario collaborazionismo<br />

Non c’è dubbio che un esercito estraneo che per quindici anni si muove<br />

avanti e indietro per l’Italia meridionale va a creare dei problemi difficilmente<br />

immaginabili. Forse l’esempio che ci è più familiare sono le<br />

FARC in Colombia o, nel mito, il Vietcong. Razzie di beni alimentari,<br />

prima di tutto; pressioni sul territorio per ottenere appoggio, informazioni,<br />

supporto logistico di ogni natura, e anche risorse umane quando<br />

necessario. Ritorsioni selvagge ed esemplari. Le due distruzioni di<br />

Herdonia, gli inutili assedi contro Troia. E’ naturale che l’opinione pubblica<br />

si divida secondo linee di faglia che non sono semplicemente opinioni<br />

geopolitiche ma risentimenti personali, vendette da compiere,<br />

interessi da difendere, limiti invalicabili della ‘capacità contributiva’<br />

del territorio nei confronti della guerriglia.<br />

Anche a prescindere dalla ‘Dama di Salapia’ e dall’inverno del 214,<br />

Annibale ebbe a che fare con le inquietudini della città daunia che gli<br />

era favorevole. Ma naturalmente vi era una corrente filoromana.<br />

Bisogna dire che Annibale ha in genere gestito con oculatezza queste<br />

sensibilità a lui avverse, consapevole del fatto che i Romani erano per<br />

i Salapini tanto estranei quanto i Cartaginesi. E forse altrettanto temuti.<br />

Questo contesto va tenuto presente per leggere una storia di collaborazionismo<br />

che deve essere stata clamorosa, se ne parla non solo Tito<br />

69


Livio, il cronista ufficiale, ma anche il remoto Appiano di Alessandria<br />

nel II secolo, nei suoi ‘Romanikà’. E’ la storia di Dasio e Blazio.<br />

A Salapia, mentre era soggetta a Cartagine, vi erano due principes,<br />

uguali per nascita, ricchezza e potere ma da lungo tempo nemici l’uno<br />

dell’altro. Uno di questi, Dasio, era dalla parte dei Cartaginesi. L’altro,<br />

Blazio, teneva per i Romani, ma ovviamente finché i Cartaginesi erano<br />

in città doveva tenersi in disparte. A un certo punto però la fortuna incomincia<br />

a girare in direzione meno favorevole per Annibale, e si presenta<br />

il rischio: che cosa farebbero i Romani se riuscissero ad impadronirsi<br />

di Salapia? Necessita una soluzione bipartisan. Blazio, che<br />

naturalmente per Tito Livio è il buono, mosso dall’amore per la propria<br />

città, cerca di incontrare Dasio e di elaborare con lui un piano per assicurare<br />

un atterraggio morbido nel caso che i Romani prendano il<br />

sopravvento. Dasio, che evidentemente è il vilain del racconto, finge di<br />

aderire al piano di Blazio. Il piano consisteva nel rivolgersi a un<br />

comandante amico, acquartierato molto distante su per l’Italia, e farsi<br />

assegnare una piccola guarnigione: una forza di interposizione, si<br />

direbbe.<br />

Ma, come spesso succede, appena siglato l’accordo ognuno dei due<br />

contraenti cerca di ingannare l’altro, giocando sul tempo. Il perfido<br />

Dasio con tutta calma va ad avvisare Annibale del tradimento che<br />

Blazio sta tessendo e chiede i mezzi militari per fare una carneficina dei<br />

pochi soldati romani che, chissà quando, arriveranno a Salapia. Quanto<br />

a Blazio, egli si guarda bene dall’andare lontano a rastrellare una piccola<br />

milizia, ma si presenta nella vicina Roma e ‘vende’ Salapia in<br />

cambio di una truppa ben addestrata di mille cavalieri. In men che non<br />

si dica li ottiene e rientra a casa come niente fosse.<br />

Dasio invece, salutato Annibale, torna con calma a Salapia sapendo che<br />

Blazio è a raccogliere soldati chissà dove. Infatti le porte della città<br />

sono sguarnite. Felice di essere in largo anticipo sul nemico e di aver<br />

tutto il tempo per preparargli una sanguinosa accoglienza, Dasio entra.<br />

Ma appena varcata la porta Blazio fa chiudere la saracinesca e lo assale<br />

con i suoi mille cavalieri, uccidendo facilmente sia lui e che tutta la<br />

guarnigione prestata da Annibale. In pochissimi riusciranno fuggire<br />

70


saltando dalle mura.<br />

A proposito di questi due principi contendenti, il Romanelli (‘Antica<br />

topografia istorica del Regno di Napoli’) racconta una evidenza numismatica.<br />

Le monete di Salapia hanno al diritto un cavallo andante con<br />

la leggenda Salpinôn, e al verso un delfino con il nome del magistrato<br />

garante della zecca. Ce ne sono rimaste alcune con il nome ‘Daxiou’ e<br />

altre con il nome ‘Plotiou’, al genitivo. Quindi Daxio e Plotio sono i<br />

veri nomi dei nostri due gentiluomini.<br />

L’inganno infelice<br />

Ancora dalla lettura di Tito Livio. Col passare del tempo l’astuzia luciferina<br />

di Annibale comincia a mostrare le corde. O almeno i nemici<br />

imparano a guardarsene. Siamo nel 208 a.C. I Salapini, bon gré mal<br />

gré, sono stati transitati da Blazio sotto il potere romano offrendosi al<br />

console Marco Claudio Marcello. Forse in questi due anni potrebbe<br />

essere avvenuta la vendetta su Iride. Per recuperare la città Annibale<br />

tenta un colpo magistrale. Ancora basato sulla padronanza del tempo.<br />

Marcello, per marcare stretti i Cartaginesi, aveva posto l’accampamento<br />

troppo vicino a loro. Così cade in un’imboscata e perde la vita. La<br />

salma viene portata nel campo di Annibale, mentre l’esercito romano<br />

resta in mano all’altro console, Crispino. Annibale intuisce subito l’opportunità:<br />

il corpo di Marcello ha ancora addosso i sigilli consolari, e<br />

lui può adoperarli per architettare qualche inganno: basta che si creda<br />

che Marcello è ancora vivo. Ma anche Crispino ha ben presente questo<br />

fatto dei sigilli e subodora l’utilizzo che Annibale potrebbe farne.<br />

Allora manda, rapido, a tutte le città vicine dei messaggeri ad avvertire<br />

che Marcello è stato ucciso e che il nemico ha in mano il suo anello<br />

col sigillo consolare. Che non si presti alcuna fede a messaggi che giungessero<br />

siglati a nome di Marcello.<br />

Il messo di Crispino era appena arrivato a Salapia che, puntuale, viene<br />

recapitata una lettera – firmata appunto col sigillo di Marcello – con cui<br />

il console annuncia il suo arrivo a Salapia: la notte seguente. L’inganno<br />

71


è manifesto, e i Salapini sanno bene che Annibale ha delle buone ragioni<br />

per volersi vendicare di loro. Il messaggero – che era un disertore<br />

romano – viene rispedito ’mbressa ’mbressa con ogni assicurazione, e<br />

così senza testimoni i Salapini possono organizzare la contromossa.<br />

Scavano delle buche, dispongono i cittadini sulle mura e in luoghi<br />

opportuni della città formando corpi di guardia; provvedono per quella<br />

notte a un sistema di avvistamento di emergenza e concentrano il nerbo<br />

delle loro forze intorno alla porta dalla quale il nemico sarebbe probabilmente<br />

venuto.<br />

Annibale infatti prima dell’alba si avvicina alla città. La sua avanguardia<br />

è formata da disertori romani con armature romane. Costoro arrivano<br />

alla porta e, parlando ad alta voce in latino, richiamano l’attenzione<br />

delle guardie e ordinano di aprire la porta perché il console<br />

Marcello sta arrivando. Le sentinelle, come se fossero destate alle loro<br />

grida, cominciano a darsi da fare, a correre confusamente, cercano di<br />

aprire la porta. Questa era chiusa e con la saracinesca calata; allora i cittadini<br />

di Salapia la sollevano fino ad altezza d’uomo, non oltre. Si era<br />

aperto uno spazio appena sufficiente al passaggio quando i disertori si<br />

precipitano sgomitando attraverso la porta. Ne lasciano entrare circa<br />

seicento, poi rilasciano la fune che tiene sù la saracinesca e questa cade<br />

con un gran fracasso. Degli abitanti di Salapia alcuni assalgono i disertori<br />

che con nonchalance, come tra amici che arrivano da una marcia,<br />

portavano le armi sospese sulle spalle; altri, dalla torre di quella porta<br />

e da quelle mura, con sassi, pali e giavellotti respingono il nemico. E’<br />

fatta. Annibale, vittima della sua stessa frode, si allontana e si avvia in<br />

direzione di Locri per liberarla dall’assedio”. Ma Polibio aggiunge un<br />

particolare: “quelli che furono catturati, i Salapini li impalarono, aneskolòpisan,<br />

davanti alle mura”.<br />

Annibale il Foggiano<br />

Questo è Annibale, e non facciamo nessuna fatica ad iscriverlo tra i<br />

Grandi delle Terre Foggiane. E’ un immigrato, residente un po’ saltuario<br />

per una decina d’anni, tra il 217 e il 207 a.C., i migliori e i più continui<br />

della sua vita<br />

72


E’ un primario cliente della produzione agro-alimentare e lattierocasearia<br />

locale, anche se ha la tendenza a cuocere il grano quando è<br />

ancora nei campi. Mantiene una relazione nota con una Dama di<br />

Salapia, nel 214. Consegue il massimo riconoscimento professionale<br />

proprio qui a Canne, sulla riva dell’Ofanto. E Foggia lo riconosce: nel<br />

216 Arpi è con Annibale, e per questa scelta Quinto Fabio Massimo<br />

non temporeggia nel punirla. Annibale è di valore congruo con gli altri<br />

Spiriti magni della Capitanata, Federico II per l’amore della conoscenza<br />

e lo spirito laico, Diomede per il genio bifronte dell’edificare e del<br />

distruggere.<br />

E proprio sotto il profilo manageriale Polibio ne fa l’esaltazione. “Chi<br />

non loderebbe in quest’uomo il modo di esercitare il potere di comando?<br />

Come un buon pilota preservò masse così grandi di uomini da ogni<br />

contrasto sia con lui che fra loro, benché si valesse di soldati che non<br />

solo non appartenevano allo stesso popolo, ma nemmeno alla stessa<br />

razza? Disponeva infatti di Libici, Iberi, Liguri, Celti, Fenici, Italici,<br />

Greci, che per natura non avevano in comune tra loro né leggi né costumi<br />

né lingua né altro.<br />

Eppure l’intelligenza del capo faceva sì che uomini divisi da tali e tante<br />

differenze ascoltassero un solo comando e obbedissero a un solo volere,<br />

benché le circostanze fossero tutt’altro che semplici, e anzi complesse,<br />

e il vento della fortuna, spesso brillantemente a loro favore, soffiasse<br />

a volte contrario”. Testo che può essere tenuto d’occhio nelle<br />

redazioni giornalistiche come ‘coccodrillo’ per la morte di qualunque<br />

grande capitano d’impresa multinazionale.<br />

A questo concittadino dobbiamo riconoscere delle virtù meno note ma<br />

assolutamente più costruttive che non quelle belliche. Ce ne parla ancora,<br />

per esteso, Polibio, e per transennam Plutarco che però non dedica<br />

una delle sue (noiosissime) ‘Vite parallele’ – e così dimostra la mancanza<br />

di fantasia – ad Annibale e Scipione: che sono stati lo specchio<br />

l’uno dell’altro, tanto che sono morti nello stesso anno, il 183 a.C., e<br />

tutti e due in condizioni meschine.<br />

73


Un generale prestato alla politica?<br />

Del 216 è la vittoria di Canne, del 202 la sconfitta in casa, a Zama:<br />

opera di Scipione il giovane. Zama ci mette sotto gli occhi un aspetto<br />

che forse Annibale non aveva considerato: si può essere il più creativo,<br />

il più imprevedibile dei combattenti, ma alla fine il repertorio di mosse<br />

non è illimitato. Quindi un avversario intelligente può apprendere dalle<br />

proprie sconfitte e, un giorno, rovesciare il tavolo.<br />

E’ quello che succede a Zama, proprio in casa dei Cartaginesi. A Zama<br />

gli elefanti hanno il loro ruolo strategico, con le torri di arcieri e lancieri<br />

(howdah) sul dorso. Ma i Romani hanno imparato che i bestioni<br />

hanno in gran fastidio il rumore. Perciò gli vanno incontro con grida<br />

acute e con clangori di trombe: gli elefanti si imbizzarriscono e si rivoltano<br />

a sinistra contro la cavalleria numida. Plinio poi spiega che sarebbero<br />

bastato mandargli contro dei maialini terrorizzati che grugnissero<br />

acutamente.<br />

La sconfitta di Zama non tronca la carriera pubblica di Annibale. Anzi<br />

sarà un grand commis, un civil servant. Salazar? Badoglio? De Gaulle?<br />

Pinochet, quod Deus avertat? C’è in Senato una corrente favorevole ad<br />

utilizzare l’immenso ingegno dell’uomo anche al di fuori del contesto<br />

guerresco. Gli affidano il Ministero delle Finanze: infatti le sue campagne<br />

avevano sempre pompato risorse nelle casse dello Stato cartaginese.<br />

Diventa in qualche modo il garante degli accordi con Roma.<br />

Ma fa sul serio le riforme e i controlli; e questo non era previsto né dai<br />

Punici traffichini né dall’oligarchia agraria che aveva sempre avversato,<br />

fino al sabotaggio, le strategie mediterranee della famiglia Barca.<br />

Annibale capisce quindi che non c’è profeta in patria e torna in Oriente,<br />

tra Creta, Libano e Siria. Cartagine si avvierà da sola, lentamente, verso<br />

la catastrofe del 146 quando sarà distrutta e ‘salata’ dall’orrendo<br />

Catone in pieno conflitto di interessi: difendeva dalla concorrenza<br />

punica le proprie reti commerciali. Anche allora l’etica d’impresa abitava<br />

in Arpina e Trica.<br />

74


Change Management<br />

Annibale dunque, come un Kissinger di allora, fa il consulente top<br />

level. Lavora come Professional Advisor per Antioco III di Siria,<br />

discendente da Seleuco compagno di Alessandro Magno. Anche lì si<br />

tratta di una guerra contro Roma, ma la situazione non è più quella<br />

della Seconda Punica: deve convincere, mediare, subire comandi da<br />

parte di persone saccenti. Il suo animo creativo, brillante, cinico non<br />

trova aggancio con la realtà ipocrita e maligna della corte siriana. Per<br />

di più deve incassare anche un incarico e un rovescio navale, lui così<br />

terragno nel vivere il conflitto. Infine i Romani si fanno sentire e presto<br />

ne chiederanno la testa. E’ meglio dimenticare Antiochia. Dove<br />

però lascia un ricordo di integrità morale. Luciano, nei ‘Dialoghi dei<br />

morti’, gli fa dire di se stesso: “Io ebbi il comando in una patria dove<br />

tutti avevano gli stessi diritti. Quando questa mi richiamò perché i<br />

nemici avevano fatto vela per l’Africa con una grande flotta, io ubbidii<br />

immediatamente; feci di me un privato cittadino e, condannato, accettai<br />

la cosa con rassegnazione”. Quasi un discepolo di Socrate.<br />

Il meglio della sua maturità intellettuale Annibale lo dà al Caucaso. In<br />

Armenia sviluppa l’innovativo ruolo di Consulente globale del re<br />

Artaxa, il quale intuisce che il grande distruttore di città poteva essere<br />

anche un geniale costruttore. Come affidare agli hacker il sistema<br />

informatico di un’azienda. Plutarco racconta come il re Artaxa incarica<br />

Annibale del master plan, della edificazione e poi del city management<br />

di una nuova capitale: Artaxata. Il sito che viene prescelto manterrà il<br />

ruolo direzionale per oltre sei secoli; era stato probabilmente un insediamento<br />

urarteo, e ancora si chiama Artasˇat.<br />

La posizione oggi è sul confine, nel punto in cui dalla madrepatria si<br />

vede più vicina la montagna sacra degli Armeni: l’Ararat ‘esiliata’ in<br />

Turchia. E’ il monte su cui si depositò l’Arca dell’Alleanza, che ci si<br />

trova sulla destra – ma bisogna farsi assegnare il posto giusto – volando<br />

da Teheran verso Istanbul: dall’oblò i due coni vulcanici, il Grande<br />

e il Piccolo Ararat, si godono in tutta la loro solennità. E d’istinto si<br />

condividono le credenze religiose legate a certe montagne perfette: dal<br />

Fuji al Cervino, dal’Ararat al Damavand e all’Annapurna. E’ come se<br />

75


la natura stessa dicesse: venite, adoremus.<br />

A dispetto dei musulmani confinanti Artasˇat è un mare di vigneti: zona<br />

di produzione di un bianco secco, l’Araks,‘giovane, fragrante e di gran<br />

carattere’, e patria di un grande brandy, l’Artavazd. Al pari della vicina<br />

Georgia, l’Armenia aveva sviluppato in epoche remote la cultura del<br />

vino. Quante cattedrali caucasiche, tra il V e il XIII secolo, presentano<br />

come decorazione dominante il tralcio di vite: e si capisce che il tema<br />

della vitis mystica è accostato alla coppa, alla danza e all’ebbrezza.<br />

Sacre, simboliche, per carità. Siamo all’altezza dell’Italia meridionale:<br />

vini e frutta fresca erano, ai tempi dell’Unione Sovietica, sentitamente<br />

richiesti a Mosca, e gli Armeni e Georgiani accorti potevano imbarcarsi<br />

sul primo volo del mattino per Vnùkovo con una valigiata di frutta e<br />

di vino, sostare a fianco dei grandi magazzini Gum e rientrare la sera<br />

con un adeguato profitto netto.<br />

Oggi l’attrattiva del sito di Artasˇat è il monastero di Kor Virap, costruito<br />

nel Medioevo sull’acropoli della città di Annibale. Per la precisione,<br />

sulla cella in cui il re pagano Tiridate seppellì per diversi anni l’apostolo<br />

degli Armeni, Gregorio l’Illuminatore. Si entra ancora nella cella,<br />

scendendo dal soffitto, e se ne esce volentieri.<br />

Dell’opera di Annibale si indovina qualcosa di più con Google Earth.<br />

Ma anche in mancanza di tecnologie avanzate ci pensa la Fama a<br />

echeggiare le lodi della sapienza urbanistica di Annibale fin sul Mar di<br />

Marmara. Lì c’è Prusia II, re di Bitinia, in cerca della sua capitale.<br />

Annibale identifica il sito sul fianco del monte Olimpo, studia i venti e<br />

l’esposizione al sole, esamina la compattezza del suolo, e infine crea la<br />

città di Prusa e la mette in grado di funzionare.<br />

Tanto bene lavora Annibale che la sua città esiste ancora: è Bursa, deliziosa<br />

per la sua collocazione sulle falde del monte, per i bagni termali,<br />

per la Moschea Blu decorata di mattonelle inequivocabimente verdi.<br />

Fino al 1453 fu la capitale dell’Impero ottomano. Ma prima assai che<br />

dagli Ottomani la città di Annibale fu resa illustre dagli amori – forse<br />

altrettanto meretricii quanto quelli di Salapia – tra il bisnipote di Prusia,<br />

Nicomede IV, e il legato romano Giulio Cesare. Gallias Caesar sub-<br />

76


egit, Nicomedes Caesarem era la canzoncina che girava affettuosamente<br />

fra le truppe.<br />

Per onestà intellettuale bisogna dire che non tutti condividono la nostra<br />

opinione sulla personalità di Annibale. Tito Livio, che è la fonte principale,<br />

sferra un attacco assoluto sul piano morale: “… nessun senso<br />

del vero e del sacro, nessun timore degli dèi, nessun rispetto per i giuramenti,<br />

nessuno scrupolo di coscienza”. Giovenale, nella X satira, esibisce<br />

il suo spirito di Romano meschino. “Qual’è dunque la fine? Oh<br />

gloria! Viene sconfitto, naturalmente, e scappa in esilio a gambe levate.<br />

Lì siede, cliens nobile e speciale, davanti alla tenda pretoria del re.<br />

Aspetta che il tiranno di Bitinia si degni di aprire gli occhi. E a quella<br />

vita che mise sottosopra l’universo, non metteranno fine né pietre, né<br />

frecce, ma quel famoso anello, vindice di Canne e punitore di tante<br />

stragi”.<br />

L’anello famoso con veleno. Un giorno lo vince la stanchezza di fuggire,<br />

di vivere. E’ l’anno 183 avanti Cristo. “I Romani non hanno tempo<br />

di aspettare la morte di un vecchio. Liberiamoli dunque da questa lunga<br />

angustia”. E ‘maledicendo la vita’ – dice Livio – beve in una coppa il<br />

veleno che aveva sempre celato nel famoso anello. Hic vitae exitus fuit<br />

Hannibalis: così esce di scena il grande mattatore. Sulla spiaggia di<br />

casa sua, in vista del Mar di Marmara.<br />

A Libyssa che adesso si chiama Gebze ed è famosa non tanto per la<br />

tomba quanto per la bellezza del luogo e per il ponte costruito nel<br />

Cinquecento dal grande architetto Sinan. Forse c’era anche bisogno di<br />

compliance con il destino: “Una zolla libyssa, libica, coprirà le tue<br />

ossa”, gli era stato predetto. Come a Federico II: morirai sub flore.<br />

Come a papa Gerberto: finirai la vita a Gerusalemme. A tutto si può<br />

sfuggire ma non alle leggende sulle profezie.<br />

E questa è la parte maschile della coppia ‘maledetta’ che trasmette un<br />

brivido alle acque dello stagno davanti a Salapia distrutta.<br />

77


DEVIA<br />

L’embassadeur envoyé par biremes<br />

A mi chemin d’incogneuz repoulies:<br />

De sel renfort viendront quatre triremes<br />

Cordes & chaines en Negrepont troussés.<br />

La terra che non c’è. Almeno sulla Tabula Peutingeriana: il Gargano è<br />

raso via e tra le foci del Fortore e dell’Ofanto vi sono appena le isole<br />

della costa dalmata. Abrasione che rende omaggio all’antichità romana<br />

della fonte. Nel IV secolo il Gargano si poteva infatti ignorare: Eteria,<br />

la Elsa Maxwell dei pellegrinaggi, non ne fa cenno.<br />

All’imbocco del Medioevo, invece, una via di grande comunicazione si<br />

inerpica sul Gargano. E’ la Via Francesca. Essa accompagna i pellegrini<br />

dal Monte San Michele di Normandia fino a Roma e alla Grotta<br />

dell’Angelo in Puglia; in tempi recenti il marketing turistico religioso<br />

le ha attribuito il nome suggestivo di Via Sacra Langobardorum.<br />

Certamente i dinasti longobardi di Benevento hanno considerato quel<br />

tragitto come cosa propria: esso garantiva l’accesso al protettore angelico<br />

Michele, così somigliante a Wotan con il martello magico. Di più:<br />

in tempi di confini ondivaghi tra l’Impero romano di Costantinopoli, il<br />

Patrimonio terriero del papa e lo Stato italiano dei Longobardi, questi<br />

ultimi hanno distolto la diocesi di Siponto da Roma e da Bisanzio per<br />

legarla alla loro metropolìa di Benevento. Ciò è per costituire un continuum<br />

giurisdizionale fino al Gargano e governare il flusso dei turisti.<br />

Dall’XI secolo, proprio per uno scivolone longobardo, il pio incarico<br />

verrà assunto dai Normanni.<br />

E infatti Devia, come la maggiore Lesina, è stata una contea normanna,<br />

oltre che una comunità di Slavi con i suoi zupani – si conoscono<br />

81


anche due nomi: Andrea nel 1043, Slubizzo nel 1050. Il Monte d’Elio<br />

su cui la città si appoggia scende in mezzo ai due specchi d’acqua garganici.<br />

Sulla costa abbiamo davanti la Torre Mileto, difesa aragonese<br />

che era in antico il più vicino approdo in terraferma per l’Abbazia di<br />

Tremiti.<br />

Santa Maria di Devia<br />

Le magiche isole si vedono leggermente spostate a ovest. La chiesa di<br />

Devia iuxta litus maris, Santa Maria, era stata ceduta all’abate di<br />

Tremiti dal vescovo Giovanni di Lucera nel 1032. Quindi adesso siamo<br />

sulla principale testa di ponte della potente istituzione monastica che,<br />

nel periodo di maggior splendore, rivaleggiava con Montecassino. Il<br />

carisma storico e religioso non era paragonabile, ma la nobiltà normanna,<br />

interculturale e pan-mediterranea, si identificava volentieri con<br />

quegli isolotti diomedei dai quali prima o poi passava tutto il mondo.<br />

D’impatto la spianata di Devia sembra essere solo un enorme sagrato<br />

per la chiesa di Santa Maria. Ma riusciamo a sentire la città intera sotto<br />

i nostri piedi: merito di Matteo che per noi dà senso alle pietre sparse,<br />

alle buche, ai resti di fondamenta che appena un occhio esperto può<br />

scoprire. Certo, i volumi solidamente tangibili della chiesa hanno tendenza<br />

a dilatarsi nella percezione del sito. E’ un edificio grande, e lo<br />

sembra ancora di più per il dilagare del bellissimo paramento murario.<br />

E’ vero, dice Angela, che ricorda le Pievi toscane: quelle ricche, a pianta<br />

basilicale, che si concedevano tre absidi decorate alla lombarda con<br />

archetti e lesene.<br />

La poesia del calcare aveva ispirato Rodolfo il Glabro intorno al Mille:<br />

egli vedeva come un mantello di pietre bianche ricoprire l’Europa nell’uscire<br />

da periodi tormentosi. Questa è una, probabilmente. Un muro<br />

perimetrale si può guardare per ore, ammirando la connessione perfetta<br />

del filaretto; oppure si può leggere come righi di un libro il cui ormai<br />

ci sfugge il contenuto ma non l’armonia della composizione. E le ricercatezze<br />

concentrate sulle absidi hanno un po’ la funzione di un titolo,<br />

di un richiamo, di un frontespizio: poi il resto sarà solo scrittura. Anche<br />

82


se rimane un filo di sospetto: non sarà una nostra costruzione culturale<br />

questa estetica della nuda pietra, questo sospetto davanti all’intonaco<br />

pur venerando?<br />

Ma se l’esterno potrebbe essere in vari altri posti, l’interno di Santa<br />

Maria di Devia non si può pensare altrove. Non tanto per il colore di<br />

carne delle muraglie, per le colonne a conci di pietra che risentono del<br />

tempo e delle integrazioni conservative, per l’evidenza plastica delle<br />

tre absidi ognuna delle quali ha una propria vita, per il pavimento che<br />

racconta la storia. E nemmeno per i capitelli cubici di austero sapore<br />

dorico o per la ricercatezza della ghiera che alleggerisce la vista degli<br />

archi. No: la cosa che non potrebbe essere altrove sono gli affreschi,<br />

soprattutto in due catini di abside e nel fianco destro. Per qualcuno che<br />

non ha ancora fatto l’abitudine alla multiculturalità delle Terre<br />

Foggiane, questi affreschi sono fonte di sorpresa.<br />

Prima di tutto bisogna dire: grazie di resistere. La città di Devia si spopola<br />

assai presto, e lo stato degli edifici segue le alterne fortune della<br />

Abbazia madre di Tremiti. Più tardi cercheremo di guardarla con il<br />

binocolo e ci racconteremo qualche storia. Ma sappiamo che, senza<br />

patire gli oltraggi recenti di Montecassino, la sua lunghissima vita è<br />

stata assai contrastata. Lo stesso è successo evidentemente alla filiazione<br />

di Devia, che a presidio della chiesa e a supporto gestionale degli<br />

affari in terraferma aveva certamente un monastero di cui solo la fantasia<br />

può dirci qualcosa. Si sa dalla memoria del luogo che nel tempo<br />

degli eremiti hanno custodito le sacre mura e il loro silenzio. Che l’edificio<br />

è stato adattato ad utilizzi rurali. Ma dalla documentazione fotografica<br />

sappiamo anche che per decenni il tetto è rimasto sfondato, e<br />

neppure per gli attrezzi agricoli si poteva ricorrere a questo riparo. I<br />

cambiamenti di clima, la pioggia, l’aria marina, i visitatori vandalici<br />

potrebbero aver ridotto gli affreschi a fantasmi muti, a mura dilavate.<br />

E invece no. Evidentemente i restauri sono stati fatti a regola d’arte.<br />

Chiaramente i venti asciutti hanno impedito di marcire o il fiorire di<br />

salnitro. Sicuramente gli artisti decoratori hanno usato arriccio e pigmenti<br />

di prima qualità e tecniche pittoriche magistrali. Il committente,<br />

infine, è stato esigente e non ha lesinato sui pagamenti. Certo non pen-<br />

83


sava a noi che sette secoli dopo ci incantiamo di questa bellezza. Forse,<br />

come poi Giovanni Sebastiano, tutti pensavano al Fine: soli Deo gloria.<br />

Tra Greco e Latino<br />

Ma qual’è l’evidenza che sorprende i visitatori da fuori? La testimonianza<br />

di uno stato culturale in cui la visualità – e quindi la visione del<br />

mondo – greco-bizantina e quella romana sono tranquillamente compatibili<br />

e coesistenti. Eppure c’era stato lo Scisma: anzi, lo Scisma era<br />

passato proprio di qui. La Chiesa una sancta era un ricordo, dal 1054,<br />

e ancora peggio dopo il saccheggio crociato del 1204. Ma qui, in questa<br />

terrazza sul mare, i monaci di obbedienza tremitese si fanno proteggere<br />

da Santi vescovi greci e latini, insieme, vestiti con il pallio<br />

tondo o triangolare, benedicenti sia alla greca che alla latina. Vale la<br />

pena ricordare che un atteggiamento del genere è stato recuperato nella<br />

Chiesa cattolica non prima di quarant’anni fa; nelle comunità ortodosse<br />

ancora non se ne parla, e a tutt’oggi nessuno potrebbe farsi comunicare<br />

da un prete appartenente all’altra confessione.<br />

Entrando, le immagini che colpiscono sono naturalmente i catini absidali,<br />

anche perché ti inquadrano subito e stabiliscono il tono del rapporto.<br />

Quello centrale è grande e raffigura il Cristo giovane<br />

dell’Apocalisse. La sua veste campeggia: una tunica rossa e un manto<br />

del colore che noi chiamiamo verde, genericamente, ma si trova tra il<br />

blu e il verde, come spesso in Oriente. Insoma è una classica ‘Deesis’<br />

dipinta nel Trecento che avvolge il credente all’interno della scena.<br />

Personaggi familiari come la Madonna che vistosamente porge le<br />

mammelle (oggi non la farebbero passare) e San Giovanni Battista,<br />

angeli, e comunque la colonna sonora: sette trombe che nella grotta di<br />

Patmo sente rimbombare il visionario Giovanni, ’o theòlogos come lo<br />

chiamano i venditori di Apocalissi tradotte in Greco moderno da<br />

Odisseo Elitis, con un filo di retorica, e da Giorgio Seferis, più asciutto<br />

e poco più lungo dell’originale. Non credono che tu cerchi di capire<br />

Seferis con l’ausilio del testo del Theòlogos: casomai, dicono, il contrario.<br />

84


E’ più antico il ‘Pantocrator’ nel catino dell’abside destra. La faccia<br />

incidentata non compromette i grandissimi occhi a mandorla, la barba<br />

di pochi giorni e l’acconciatura davvero strepitosa, con un ciuffo che<br />

parte di mezzo alla fronte aggrottata e tutti i capelli che ricadono sulle<br />

spalle contornando il volto lungo. Seguendo le rughe della fronte, le<br />

arcate occipitali sono enormemente allargate, e dentro nuotano questi<br />

occhi bellissimi che attraggono i tuoi e devi fare uno sforzo per uscire<br />

dal cerchio magico. Ti benedice alla latina appoggiando il pollice sull’anulare.<br />

Segue poi sulla parete destra una specie di porticato dipinto i cui archi<br />

sono occupati da santi e da sante, anche loro appartenenti alla prima<br />

decorazione della chiesa nel XII secolo o poco dopo. Sono questi che<br />

benedicono i credenti alla greca o alla latina. Si tratta di due gruppi da<br />

tre santi ciascuno: quelli più lontani dall’abside stanno sotto una trabeazione<br />

realistica, che si sforza di essere prospettiva. Vi è una<br />

Madonna Odighitria che divide con il bambino l’inversione al negativo<br />

del colore della faccia – forse il piombo di una biacca, come<br />

Cimabue ad Assisi? Le sono accanto due sante martiri, non per questo<br />

meno eleganti, con una croce preziosa in mano e qualche ricciolo che<br />

sfugge alla severa cuffia; gli abiti sono in seta tinta in filo con disegni<br />

molto raffinati e originali.<br />

Questa zona degli affreschi è un po’ sacrificata da interventi posteriori,<br />

e comunque l’occhio corre subito all’angolo dopo la porta, verso la facciata:<br />

lì si staglia glorioso, allegro, vincitore un bellissimo sant’Ippolito<br />

a cavallo con lo stendardo segnato con la croce e un gran refolo di<br />

vento che gli gonfia il mantello. Suggestioni subliminari per promuovere<br />

la Crociata? O forse messa in guardia per gli inconvenienti possibili?<br />

Ippolito infatti nasce come custode carcerario di San Lorenzo;<br />

assiste probabilente al suo tormento sulla grata; trasferito in Sardegna<br />

evidentemente ha un ripensamento che spinge l’imperatore Decio – è il<br />

256 – a legarlo a dei cavalli indomiti fino a lasciare la vita. Certo, nella<br />

raffigurazione è lui che doma il cavallo.<br />

Anche la parete sinistra ha il suo parato di affreschi che certo sarebbero<br />

più apprezzati se non avessero di fronte questi così suggestivi che<br />

85


abbiamo cercato di raccontare. Ma poi alla fine ciò che attrae i visitatori<br />

è il mare, Torre Mileto vicinissima e viva ben prima degli<br />

Aragonesi, le Tremiti che evaporano nel calore d’estate o si disegnano<br />

minuziosamente nella luce invernale.<br />

L’Abbazia di Diomede<br />

Le isole diomedee fanno parte di Devia anche geograficamente, perché<br />

Torre Mileto è l’approdo più vicino. Ma ci suggestiona il pensiero che<br />

Devia quanto Peschici, comunità slave dall’VIII secolo, siano lì proprio<br />

come interfaccia immediata della comunità benedettina che si sta consolidando<br />

e che diverrà nel tempo un player delle diverse partite che si<br />

giocano tra Venezia, Roma, le genti illiriche, le orde slave arrivate fresche<br />

al mare di Dalmazia, la Terrasanta e naturalmente la sede episcopale<br />

e imperiale di Costantinopoli e poi la Sublime Porta.<br />

Di questo gioco rischioso ci raccontiamo un paio di episodi.<br />

“Vicino alla costa pugliese sono un gruppo di cinque isole. Su una vi è<br />

un prospero monastero. I nobili miscredenti dei dintorni vengono qui<br />

per divenire monaci. Il monastero è stato fortificato con cannoni e armi<br />

tanto che sembra una fortezza. C’è un buon porto. Tre di queste isole si<br />

possono paragonare a un treppiede. Le navi non possono entrare nella<br />

bocca che dà verso scirocco perché è luogo basso e scoglioso. Ma la<br />

bocca di libeccio è profonda e le barche possono entrare e uscire”.<br />

Questo dice il ‘Libro del Mare’ di Piri Reis, l’ammiraglio ottomano<br />

decapitato a Bassora nel 1554 perché, novantenne, non se la sentiva più<br />

di guidare la flotta.<br />

Occhio di marinaio. Ma lo sguardo dei poeti si è sempre posato sull’aura<br />

mitica di queste isole, cui dà il nome uno degli eroi dell’Iliade,<br />

delle Metamorfosi, della ‘Alessandra’ di Licofrone, della Divina<br />

Commedia e di molte altre opere poetiche. “Nell’isola di Diomede che<br />

giace in Adriatico dicono vi sia un santuario meraviglioso e santo dedicato<br />

a Diomede. Tutt’intorno ad esso stanno appollaiati in cerchio<br />

uccelli di grandi dimensioni, provvisti di becchi grandi e duri. Di que-<br />

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sti uccelli raccontano che stanno tranquilli se sono dei greci che si avvicinano<br />

a quel luogo ma, se si avvicinano i barbari dei dintorni, si levano<br />

in formazione e svolazzando prendono di mira le loro teste, li feriscono<br />

e li uccidono”. Questa è la testimonianza dei ‘Racconti fantastici’<br />

attribuiti a torto ad Aristotele.<br />

Questa leggenda dei compagni di Diomede trasformati in uccelli dalla<br />

divina stizza di Venere ha veramente bucato le distanze e i tempi e perfino<br />

le rivoluzioni culturali. In pieno cristianesimo trionfante, poco<br />

dopo il Mille, la Diomedea è raffigurata nel mosaico pavimentale della<br />

chiesa di Tremiti, oltre che qua e là per il monastero. E, per la verità,<br />

non risulta che al volatile siano stati annessi significati religiosi come<br />

al pellicano o alla colomba. E’ lì, anche se non distingue più tra civilizzati<br />

e barbari: è il fossile vivente di un mito.<br />

Abbiamo facilità di verificare qualche tratto della leggenda: da Rodi<br />

Garganico partono i traghetti per le Tremiti. Si superano le fortificazioni<br />

di San Nicola (per gli affaticati c’è anche un ascensore) e tutti gli<br />

edifici possenti dell’Abbazia, fino alla spianata degli asini dove c’è la<br />

tomba di Diomede o, a scelta, della scandalosa Giulia nipote di<br />

Augusto. Lì, se gli uccelli sono in cova e ci avviciniamo alla scogliera,<br />

saremo l’oggetto di strepitosissime incursioni di volatili che non cesseranno<br />

di minacciarci fino a quando non ci ritiriamo. L’accoglienza sarà<br />

più deferente quando i visitatori sono greci? Non ne abbiamo avuto evidenza.<br />

Le Porte dell’Occidente<br />

Via via che Venezia consolida il controllo del ‘suo’ golfo, le Tremiti ne<br />

segnano l’accesso almeno fino a quando i porti pugliesi non saranno in<br />

mani amichevoli per la Serenissima. Lungo la Dalmazia, infatti, superata<br />

Ragusa il percorso è a rischio. Premute dall’interno, si insediano<br />

sulla costa e sulle isole ondate di slavi che tra l’impegnarsi nella pesca<br />

o nella pirateria non hanno mai avuto esitazione. Tremiti è un avamposto<br />

verso gli slavi cristiani e musulmani, verso i pirati uscocchi, e poi<br />

lo sarà verso i turchi, quando la flotta di Solimano il Magnifico nel<br />

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1567 assedierà invano l’abbazia. E infatti filiazioni ‘missionarie’ di<br />

Santa Maria di Tremiti si impiantano a Ragusa di Dalmazia, sull’isola<br />

di Lacroma. Rimane avvolto nella nebbia il rapporto tra i benedettini di<br />

Tremiti e i corsari slavi; all’epoca circolavano voci su favori reciproci<br />

e su una certa extraterritorialità concordata sous table.<br />

Sarà l’agosto del 1054. Giunge una nave da Costantinopoli. Passeggeri<br />

eccellenti: uno dei prelati più in vista della Chiesa romana, il cardinale<br />

Federico di Lorena, accompagnato da Umberto di Silvacandida e dal<br />

vescovo Pietro d’Amalfi. La sosta viene giustificata come un omaggio<br />

a Santa Maria del Mare; ma c’è ben altro. Assieme ai suoi compagni di<br />

vela, il cardinal Federico in fuga da Costantinopoli aveva appena consumato<br />

il grande Scisma d’Oriente tra la Chiesa romana e quella bizantina:<br />

opera millenaria a tutt’oggi pienamente vigente.<br />

Ma qual è il fatto?<br />

Dal 1042 la cattedra patriarcale di Costantinopoli è affidata a Michele<br />

Cerulario, personaggio assai versato nel guerrilla marketing contro la<br />

Chiesa di Roma. Casus belli è il trattato di Argyros che formalizza la<br />

giurisdizione di Roma sulle diocesi, anche di rito greco, dell’Italia<br />

meridionale: fin allora erano dipendenti da Costantinopoli.<br />

Michele pretende in cambio il riconoscimento della parità tra le due<br />

sedi, e innesca un ordigno esplosivo alla bizantina. Ecco come. Chiede<br />

pubblicamente a papa Leone IX di rispondere a quattro quesiti fra cui<br />

il più scottante è il ‘Filioque’, l’appassionante dilemma se lo Spirito<br />

santo discenda dal Padre e dal Figlio, come afferma Roma, o dal Padre<br />

attraverso il Figlio, come giurano a Costantinopoli, con abbondante<br />

effusione di ingiurie e sangue da ambo le parti.<br />

Il papa, che aveva il suo daffare a districarsi dalle filiali spire dei capi<br />

normanni, manda a trattare un brain trust: Silvacandida, Lorena,<br />

Amalfi. Succede di tutto. L’imperatore Costantino Monòmaco cerca di<br />

trattenere il suo bollente patriarca che agisce attraverso vari manutengoli<br />

ma si espone poco; il 19 aprile 1054 muore il papa, il che farebbe<br />

decadere il mandato della commissione. Ma ormai infuria una battaglia<br />

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mediatica in Bisanzio, fatta di lettere rivelate, di dichiarazioni manomesse,<br />

di predicazioni interminabili e di insulti che coinvolge tutta la<br />

popolazione. Michele Cerulario gioca bene le carte: lascia che il trio di<br />

negoziatori travolga i limiti della cortesia oltre che dell’ortodossia, finché<br />

il vecchio e stanco Costantino Monòmaco perde la pazienza. A<br />

questo punto, siamo al 15 luglio, i tre negoziatori in pompa magna<br />

depongono sull’altare di Santa Sofia la bolla di scomunica per il<br />

Cerulario.<br />

Le motivazioni addette sono, almeno ai nostri occhi di un millennio più<br />

vecchi, lievemente confuse o completamente demenziali. In primis<br />

viene attaccata la persona e la legittimità patriarcale del Cerulario,<br />

accusato di simonia; di conseguenza chiunque gli presti obbedienza si<br />

rende complice dello stesso peccato – e sull’argomento avrebbero fatto<br />

meglio a passar sopra. Poi viene imputata una sequenza di pratiche che<br />

in realtà o non sono in atto a Costantinopoli o sono condivise dalla<br />

Chiesa di Roma: l’evirazione – dei cantori, si suppone –; il matrimonio<br />

dei preti (falso: si potevano ordinare preti uomini sposati); il battesimo<br />

delle donne in partu anche se in stato agonico; il ribattesimo dei fedeli<br />

provenienti dal rito romano (falso); l’annullamento della legge mosaica;<br />

il rifiuto della comunione agli uomini con la barba rasata; l’inquinamento<br />

del Credo con la formula ‘per Filium’.<br />

La commissione esce da Santa Sofia scuotendosi la polvere dei calzari,<br />

gesto di nobile simbologia biblica; poi opportunamente prende il<br />

largo. Il 24 luglio il Cerulario scomunica il papa che peraltro non c’è<br />

più. Uno si può domandare: ma ce n’è abbastanza per rompere in due<br />

la Chiesa? Forse tutti credevano di agire in uno psicodramma o in un<br />

videogioco; le scomuniche del resto si potevano sempre togliere. E<br />

infatti la vicendevole scomunica sarà ritirata nel 1965 da Paolo VI e dal<br />

patriarca Atenagora. Nient’altro. Per il 2054 si prevede una celebrazione<br />

millenaria con programmi di penitenze e proponimenti altrettanto<br />

inefficaci.<br />

Prendono il largo e approdano a Tremiti. L’isola dei famosi.<br />

Silvacandida era un monaco borgognone molto apprezzato da Leone<br />

IX, che lo aveva nominato arcivescovo di Sicilia sotto dominazione<br />

89


saracena. Federico, altro francese, era fratello del Duca di Lorena e, in<br />

quel momento, bibliotecario di Leone IX. In seguito Federico di Lorena<br />

sarebbe diventato abate di Montecassino, poi papa Stefano IX; avrebbe<br />

lottato molto per la moralizzazione del clero, per l’alleggerimento<br />

della pressione normanna e per il conferimento del titolo imperiale a<br />

suo fratello; senza grandi successi, sarebbe morto a Firenze nel 1058.<br />

Pietro arcivescovo di Amalfi infine sarà cannibalizzato dall’omonimo<br />

successore Pietro Capuano, che porterà via le spoglie di Sant’Andrea<br />

approfittando del sacco di Costantinopoli e meritando il monumento<br />

funebre che si ammira nella cattedrale della gloriosa repubblica marinara.<br />

Guardiamo le Tremiti nella luce sfolgorante del mezzogiorno e commentiamo<br />

che la grande storia è passata da qui, e chissà quante volte.<br />

Il pericolo slavo<br />

Abbiamo già commentato il gossip. Non sarà mica che i benedettini<br />

negoziassero con gli Slavi della costa dalmatica, e poi di quella garganica<br />

a Devia e Peschici, dei gentlemen agreement sulla base del not in<br />

my backyard?<br />

Non lo sapremo mai. Qui a Devia ovviamente gli Slavi erano di casa e<br />

vivevano in una dipendenza dell’Abbazia isolana. Quello di cui siamo<br />

certi, invece, è che i successivi abitatori di Tremiti, i Cistercensi riformati<br />

da San Bernardo, non avranno vita facile con gli inquieti vicini:<br />

soprattutto con i dirimpettai pirati cristiani del porto di Almissa, città<br />

già illirica e romana che sotto il nome di Oeneum potrebbe leggersi<br />

sulla Tabula Peutingeriana. La cupa notte dei pirati – data imprecisata<br />

del 1334 – è raccontata in un manoscritto di settant’anni posteriore, la<br />

‘Accuratissima Descriptio’ del canonico Benedicto Cochorella.<br />

Bisogna premettere che l’abbazia è molto curata dai regnanti angioini<br />

di Napoli e serve da base per la loro flotta dell’Adriatico. Quindi le<br />

difese dell’isola di San Nicola, dove si trovano gli edifici sacri, sono –<br />

e lo si vede anche oggi – impenetrabili. Rimarranno inaccessibili per-<br />

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fino alla flotta di Solimano il Magnifico. Ma i pirati ne sanno una più<br />

del Sultano e giocano la carta della pietà cattolica per superare lo sbarramento<br />

di pietra.<br />

Se si guarda il porto di Tremiti ci si figura perfettamente comm’è juto<br />

’o fatto. Una piccola nave, una bireme, e pochi uomini piangenti: uno<br />

dei loro è morto in mezzo al mare, durante la pesca, e bisogna dargli<br />

sepoltura cristiana. “Lo compongono in una specie di cassa da morto e<br />

stendono sul fondo pugnali e spade. Preparata la trappola, due di loro<br />

salgono dai frati e, fingendo la massima devozione, insistono per celebrare<br />

le esequie e seppellire il defunto nel cimitero dell’isola. I religiosi,<br />

convinti facilmente che così stessero le cose, scendono alla riva<br />

dove si trova il corpo senza vita e in processione, preceduti dalla croce<br />

e in fila per due, sollevano il feretro e lo portano dentro la chiesa.<br />

Dietro di loro venivano gli empi macchinatori di sacrilegio, con l’espressione<br />

di chi sta per commettere una strage, a capo chino e traendo<br />

dal petto i più alti sospiri per il compagno defunto”.<br />

Al momento opportuno si danno un cenno con gli occhi, il morto salta<br />

fuori, distribuisce pugnali e spade e comincia la mattanza. “Trucidati<br />

quasi tutti, tanto i frati quanto i servi, tingono del rosso sangue di<br />

monaci il pavimento di tutto il convento. Quindi si volgono alla predazione<br />

degli oggetti sacri; fatto a pezzi tutto quanto era destinato al culto<br />

di Dio o all’ornamento del tempio, portano via il mobilio rimanente,<br />

distruggono, strascicano e dilagano per tutto il complesso monastico.<br />

Avidi di preda lo spogliano e niente rimane dietro di loro se non la terra<br />

nuda. Gli oggetti pesanti che non si portavano via facilmente li distruggono<br />

a ferro e fuoco”. Soltanto l’altar maggiore non si tocca, attesta il<br />

Cochorella, e quindi la chiesa non ne viene sconsacrata: pirati e assassini<br />

sì, ma pur sempre cattolici!<br />

Tornano a casa baldanzosi e consegnano anche qualche ex–voto alla<br />

parrocchia in ringraziamento del bottino accumulato. Ma la vendetta<br />

divina è immediata. “Dal giorno in cui dall’isola rientrarono alle loro<br />

case mai più terreno, mai più vigna, mai più oliveto, mai più campo<br />

raggiunse la sua fertilità. Da allora la grandine violenta distrugge i loro<br />

poderi, o la canicola estiva li brucia, o per la mancanza d’acqua si sbri-<br />

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ciolano come brina sciolta. Nessun frutto giunge a maturazione sugli<br />

alberi: cadono tutti ancora acerbi; le spighe non si riempiono di semi,<br />

né germina erba sufficiente per le pecore. Le loro donne subiscono<br />

aborti, o partoriscono figli storpi e deformi, o gobbi, o muti, o ciechi”.<br />

Che fare? Vada a Roma il parroco e supplichi il papa di togliere la scomunica<br />

in cambio di una penitenza collettiva. Il prete va, contratta e<br />

ritorna con la benedizione apostolica e il conto delle spese. “Ingrati e<br />

indegni di tanto beneficio, non solo non lo rimborsano ma lo spintonano,<br />

lo percuotono violentemente, lo feriscono e alla fine lo uccidono”.<br />

Così rimangono scomunicati almeno per settant’anni, fino a quando<br />

Cochorella scrive.<br />

Una sola, piccola chiosa: a tutt’oggi nella parrocchiale di Omisˇ pare si<br />

veneri un crocifisso d’argento incastonato di pietre preziose. E’ un exvoto<br />

offerto dai corsari, secoli fa.<br />

Gli Ebrei di Torre Mileto<br />

Si chiamava in verità Torre Maletta: nome del cognato di Federico,<br />

Manfredi Maletta di Mineo, fratello di Bianca Lancia. Zio, quindi, di re<br />

Manfredi e proprietario dei terreni su cui, a sue spese, si costruirà la<br />

città di Manfredonia. Forse (un sussurro) eponimo della stessa città. O<br />

forse solo protagonista di una colossale speculazione edilizia.<br />

Dobbiamo pensare Torre Mileto come una componente del sistema di<br />

comunicazione costiero in funzione antiturca. I fusti di cannone di una<br />

marsiliana di Venezia affondata al largo nel 1607 – la Poma Santa<br />

Maria – ci ricordano che la zona dal punto di vista geopolitico non ha<br />

mai cessato di essere molto calda. Lo stato di allerta era continuo: a<br />

volte con successo, a volte no, come sappiamo. Matteo ci apre una dietro<br />

l’altra le porte e le finestre di questo edificio sorprendente, restauro<br />

da antologia che avrà un riuso importante per la comunità. Guardando<br />

dalla terrazza più alta si ha la sensazione precisa di un ingranaggio che<br />

si estende sia a filo della costa, sia all’interno del Gargano alle isole<br />

Tremiti.<br />

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Il terreno attorno alla torre è tutto da scavo, e si capisce che le manifatture<br />

neolitiche di San Domino dovevano avere qui un approdo per<br />

esportare strumenti finiti e importare quella quota di materia prima<br />

necessaria per diversificare la produzione, come l’ossidiana dalle Eolie<br />

(ne abbiamo visti dei giacimenti importanti in Anatolia, tra la<br />

Cappadocia e la Cilicia, ma probabilmente non riuscivano a esportarlo<br />

fino a qua). Del resto niente ci impedisce di fantasticare su un tempo in<br />

cui il Gargano e le Tremiti emergevano dal mare, mentre il Tavoliere<br />

era un fondale marino. E comunque qualcuno di simile a noi si è accomodato<br />

molto prima nella Foresta Umbra che a Cala Matano.<br />

Uno scavo molto sbrigativo nella memoria ci ricorda una delle magiche<br />

storie del Gargano. Se in fondo a San Nicola di Tremiti c’è il cimitero<br />

islamico dei cittadini deportati a più riprese dalla Libia, qui a Torre<br />

Mileto avvenne la circoncisione e l’immersione rituale (temilah) di tredici<br />

persone convertite all’ebraismo. Era il 1946 e i nuovi israeliti<br />

accettati dalla Sinagoga di Roma seguivano la predicazione del profeta<br />

Donato Manduzio. Successivamente gran parte di essi passò in<br />

Terrasanta per una nuova crociata, e sarà nell’esercito israeliano, lo<br />

Tsahal. I loro discendenti abitano vicino alla città di Safed, piccolo e<br />

famoso centro intellettuale attorno a una sinagoga suggestiva.<br />

Donato Manduzio da Sannicandro Garganico è uno di quelli che la<br />

prima guerra mondiale ha rimandato a casa senza salute e senza lavoro.<br />

Vive per le sue doti di guaritore e le sue declamazioni pubbliche dei<br />

romanzi cavallereschi. Finché nel 1930 non riceve l’illuminazione: una<br />

visione gli rivela l’unicità di Dio e la necessità di ritornare alla lettera<br />

della Bibbia.<br />

L’aspetto singolare è che egli non sa che gli ebrei esistono ancora: lo<br />

scoprirà per caso, e cercherà di mettersi in contatto con la Sinagoga<br />

proprio mentre sta per scoppiare la persecuzione razziale. Per nulla turbato<br />

dalla circostanze infauste seguite al 1938, avrà nel 1943 il primo<br />

incontro ravvicinato con una comunità israelitica costituita da perplessi<br />

soldati alleati. Le prime impressioni non sono favorevoli, perché<br />

Manduzio si è fatto ebreo da solo, non conosce il Talmud, nulla sa di<br />

ortodossie e di liturgie. In definitiva sarà qui, a Torre Mileto, che le dif-<br />

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fidenze reciproche saranno superate e che la circoncisione dei tredici<br />

convertiti segnerà l’accoglienza del singolare profeta nel seno di<br />

Abramo.<br />

Chissà se nel tempo vi saranno stati contatti, o conoscenza, o messaggi,<br />

tra il profeta Manduzio e l’altro visionario del Gargano, Pio da<br />

Pietrelcina? Forse è blasfemia porre la questione. Ma non possiamo<br />

scordare che il Gargano è prodigo di visioni. A partire da quelle concesse<br />

ai fedeli avvolti nel vello del caprone appena sacrificato nel tempio<br />

di Podalirio, durante il rito notturno dell’incubatio.<br />

La Grotta dell’Angelo<br />

Matteo ancora, fresca incarnazione dello spirito dei luoghi, guida l’annosa<br />

cordata di visitatori sù per il bosco fino alla Grotta dell’Angelo.<br />

Franco chiede di fare il punto. Dunque: la Torre Mileto, Devia e la<br />

Grotta sono allineati lungo una direttrice nord-sud: invece le tre Grotte<br />

garganiche di San Michele – Devia, Cagnano Varano e Monte S.<br />

Angelo – sono in linea da nord-ovest a sud-est. Alle suggestive proiezioni<br />

cosmiche mancano purtroppo le Tremiti, troppo spostate ad ovest<br />

per partecipare a questa configurazione mistica. Pazienza.<br />

Da soli non arriveremmo mai all’imboccatura della grotta dell’Angelo.<br />

Ma eccola qui. Avvicinandoci tra gli alberi del bosco il primo sguardo<br />

viene attratto, in alto rispetto all’ingresso, da una cavità di aspetto inequivocabile:<br />

un organo femminile. Guardando meglio ce ne sono altre<br />

due intorno, e forse l’imboccatura stessa della grotta, prima di essere<br />

addomesticata, aveva questo disegno. Istintivamente tornano in mente<br />

situazioni simili. La grande fenditura al centro delle tombe dei re achemenidi,<br />

a Naqsh-e Rustam. O anche, più vicina a noi, la spaccatura del<br />

monte di Sulmona che fa da asse al tempio di Ercole Curino, sacro alla<br />

transumanza.<br />

L’ingresso ricorda una gola umana. Avanzando, più che altro sembra di<br />

essere Pinocchio nel ventre della balena. Dal Paleolitico al Medioevo<br />

l’uomo ha lasciato tracce sicure per gli archeologhi, ma ha pure confi-<br />

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gurato questo ambiente in modo rassicurante, per esperienze comunitarie<br />

che si immaginano serene. L’opposto, per dire, della Grotta di<br />

Cagnano Varano, che sembra plasmata da un turbine violento e in qualche<br />

misura malevolo, come se Michele si fosse dovuto conquistare lo<br />

spazio in lotta contro gli spiriti d’inferno; e per questo vi lascia qua<br />

un’ala, là un’orma. Ed è la sua prima abitazione sul Gargano.<br />

Avanziamo nell’umidità con qualche domanda in mente. Che cosa attira<br />

noi uomini antichi nelle grotte? A parte il naturale riparo, sembrano<br />

risucchiati perso l’interno buio e inabitabile. E che cosa scatta in noi<br />

quando vi avvertiamo la presenza di acqua, sotto forma di pozza o di<br />

sgocciolio o di fiume o di fonte? E le emozioni che proviamo nel procedere<br />

nella caverna: il repentino silenzio, l’ascolto interno delle proprie<br />

pulsazioni, l’umidità; la protezione. Più sottile di tutto: la sensazione<br />

di procedere verso un punto finale, cioè iniziale. Là dove la generazione<br />

avviene di nuovo. E l’acqua? Se la grotta è un utero di Gaia, è<br />

naturale che vi sia l’umidità. Ne avrebbe convenuto anche Talete: l’acqua<br />

principio di tutte le cose è giusto che sia là dove la vita prende l’avvio.<br />

A un certo punto si profila una specie di velopendulo, e poi tre diramazioni.<br />

Ma a un muretto di sassi Michele ci blocca: non expedit inoltrarsi.<br />

Dal soffitto pendono finissime stalattiti umide, come fanoni di una<br />

piccola balena. Ci sono dei graffiti anche, delle tracce rosse, delle pietre<br />

verdi di lichene.<br />

Quale divinità verrà incontro a noi pellegrini di caverne senza inizio?<br />

Ad Apuleio è stata fatta la rivelazione: “Lucio, sono qua, richiamata<br />

dalle tue preghiere. Sono la Natura madre di tutte le cose, signora di<br />

tutti gli elementi, principio e generazione dei secoli, la più grande dei<br />

Numi, la regina dei Mani, la prima fra i Celesti, forma tipica degli Dei<br />

e delle Dee, che governano al mio cenno le luminose vette del cielo, le<br />

salutari brezze marine, i piangenti silenzi degli inferi. Il mio nome è<br />

oggetto di culto in tutto il mondo, seppure sotto diverse forme, con<br />

vario rito e con diverse denominazioni. I Frigi primi abitatori della terra<br />

mi chiamano la Madre degli Dei di Pessinunte (cioè Cibele); gli abitanti<br />

indigeni dell’Attica , Minerva Cecropia. Il mio nome è Afrodite di<br />

Pafo presso gli abitanti dell’isola di Cipro; Diana Dittina presso i<br />

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Cretesi, noti arcieri. Proserpina mi chiamano i Siciliani in tre lingue.<br />

Vetusta Cerere fra gli Eleusini; altri mi chiamano Giunone, altri<br />

Bellona; alcuni Ecate e altri Ramnusia. Ma solamente coloro che sono<br />

illuminati dai primi raggi del sole nascente, gli uni e gli altri Etiopi, e<br />

gli Egiziani ammirevoli per la loro dottrina, mi onorano con un culto di<br />

adeguate cerimonie e mi invocano con il mio vero nome: Iside<br />

Regina”.<br />

Iside che nelle statuette ellenistiche tiene in braccio il figlio. Horus.<br />

Guardando verso l’esterno non si vede Santa Maria ma, in lontananza,<br />

il mare.<br />

96


MONTECORVINO<br />

La Grand Bretagne comprise l’Angleterre<br />

Viendra par eaux si hault à inunder<br />

Las ligue neusue d’Ausonie fera guerre,<br />

Que contre eux-mêmes il se viendront bander (III, 70)<br />

Di tutte le ‘città dimenticate’ delle Terre Foggiane, Montecorvino è una<br />

delle meglio ricordate. Anzi ha una vita presente che non è animata soltanto<br />

dagli archeologi dell’Università di Foggia con le loro campagne<br />

di scavo. Il ‘riuso’ del sito deserto si deve al Santo patrono: Alberto,<br />

secondo vescovo della città bizantina. Il fatto? Nel 1889 una siccità<br />

persistente devasta il territorio. Invocato ardentemente, Alberto appare<br />

in sogno ad alcune persone di Pietra Montecorvino e consiglia di effettuare<br />

un pellegrinaggio di penitenza alla sua cattedrale, rudere tra i<br />

ruderi della città abbandonata sette chilometri più in basso. E’ il 16<br />

maggio: i cittadini si mettono in cammino portando la statua del santo,<br />

il quale sarà stato felicissimo di ritrovarsi in quel luogo di cui aveva<br />

amato la bellezza. E quindi la pioggia non si fa attendere: più acqua che<br />

grano.<br />

Da questa apparizione Montecorvino è tornata ad essere un luogo. Ogni<br />

anno da Terravecchia muove la processione in onore di Sant’Alberto e,<br />

portando dei palii di legno festosi e multicolori, raggiunge la spianata<br />

della città segnata dal maestoso landmark della torre diruta. E qui si<br />

celebra ancora il rito propiziatorio nella parte scavata e perfettamente<br />

leggibile della cattedrale che Alberto aveva preteso dignitosa, e che in<br />

epoca angioina è stata abbellita da due campanili in facciata. Pare anzi<br />

che una volta, in anni recentissimi, S. Alberto abbia risposto alla<br />

domanda di pioggia in maniera tanto tempestiva e abbondante da<br />

avvolgere i pellegrini in un uragano da cui non sapevano riparare né la<br />

statua né se stessi.<br />

99


Un ‘landmark’: la sedia del diavolo<br />

Per una visita normale forse il momento più suggestivo è il tardo agosto,<br />

quando – come dice Lucano nella ‘Pharsalia’ – il contadino apulo<br />

brucia le stoppie dei campi esausti e con questo calore prepara la terra<br />

per seminare le erbe invernali: renovare parans hibernas Apulus herbas<br />

igne fovet terras. Però, dice Saverio sindaco di Pietra<br />

Montecorvino mentre guida il fuoristrada, tra non molto tempo sarà<br />

proibito dar fuoco alle stoppie. Approfittiamo quindi per interiorizzare<br />

qualche piccola sciara di fuoco, questo colore grigio intenso dei campi<br />

ondulati, dopo l’oro scintillante del grano mietuto. E’ anche il momento<br />

di raccogliere il grano arso, eventualmente, per fare i cavatelli.<br />

Da quassù – e meglio ancora dal torrione di Terravecchia – il<br />

Subappennino, il Tavoliere, il Gargano e qualche volta l’Adriatico<br />

appaiono come un territorio omogeneo dalla morfologia composita. Ma<br />

la violenza delle intenzioni umane si sovrappone spesso alla chiarezza<br />

della natura, e questo panorama è stato squassato nei secoli da diverse<br />

faglie geopolitiche. La fondazione stessa di Montecorvino, all’inizio<br />

del Mille, si deve al bisogno di colmare una di queste faglie. Si voleva<br />

dare certezza a un confine – tra il mondo bizantino e quello longobardo<br />

– che si sarebbe dissolto proprio nel niente, pochi anni dopo.<br />

Strano destino. Ricorda la capitale armena di Ani, ad oriente<br />

dell’Anatolia. Rovine sontuose esposte a un sole carezzevole che invitava<br />

a scattare foto. Ed era mortalmente proibito trent’anni fa, perché<br />

la costa del monte accanto era già Unione Sovietica. Lì, in Turchia,<br />

vigeva il Patto Atlantico. Una delle frontiere roventi del pianeta, trent’anni<br />

fa. Adesso non fanno più storie: il confine si è raffreddato a<br />

beneficio di fotocamere analogiche e digitali, reflex, videocamere, telefonini<br />

e qualunque sistema di riproduzione dell’immagine.<br />

Le opere umane hanno talvolta una loro indispettita volontà di resistenza.<br />

Siamo ai piedi della torre di Montecorvino: quella che dopo tre<br />

assedi e un terremoto ha perso una facciata intera, e pertanto sembra un<br />

seggiolone enorme in mezzo alle ondate di campi di grano. Il nome di<br />

‘sedia del diavolo’ se lo è meritato perché non si capisce chi altro la ter-<br />

100


ebbe in piedi, ora che un terzo spigolo pare esposto alle lusinghe della<br />

forza di gravità.<br />

Prima di Montecorvino<br />

Questa torre ha una data di nascita, uno scopo e una persona che l’ha<br />

voluta. Si chiama Basilio Boioannes e governò il Catapanato d’Italia<br />

dal 1017 al 1027. In pochi anni, con un attivismo invincibile, riuscì a<br />

tamponare la frana del potere bizantino d’Italia, mentre il suo dante<br />

causa, l’imperatore Basilio II, non si sottraeva a una bisogna ancora più<br />

drammatica: il blocco dell’espansione bulgara che mirava al cuore<br />

dell’Impero sotto la guida di re Samuele. Quindi il Catapano d’Italia<br />

poteva contare appena sulle proprie forze per tenere sotto controllo la<br />

fronda irredentista filolongobarda tra Bari e Salerno, e insieme l’attrazione<br />

fatale verso le bande opportuniste di predoni normanni. Le incursioni<br />

dei pirati arabi, intense, e l’affacciarsi degli slavi in Dalmazia<br />

coloravano la situazione di una certa drammaticità.<br />

Questa è la lettura politica della Capitanata alla nascita di<br />

Montecorvino. La lettura culturale è più stimolante. Come terra di confine<br />

tra diverse realtà istituzionali, tra storie distinte, etnie allogene,<br />

sistemi giuridici di varia origine, tra lingue, credenze, costumi, sensibilità<br />

civili e religiose anche contrastanti, il territorio tra l’Ofanto e il<br />

Fortore, e fino al Biferno, doveva essere molto vario e complesso. Ciò<br />

appare, ad esempio, nelle raccolte di documenti d’archivio: molti<br />

riguardano lasciti, donazioni, transazioni attorno all’XI secolo. In ogni<br />

documento c’è una data, che a volte è l’anno di regno dell’imperatore<br />

tedesco, a volte del basileus di Bisanzio, a volte del principe longobardo<br />

di Benevento. Di solito, gli atti stipulati nelle contee di Termoli e<br />

Chieuti portano la data tedesca; quelli della contea di Larino hanno la<br />

data longobarda; quelle del Gargano, la data dell’imperatore bizantino.<br />

Lo stesso vale per i titoli e le funzioni dei personaggi che compaiono<br />

nei documenti: una volta si trova anche, a Castellum Pesclizo<br />

(Peschici), la citazione del juppanus Glubizo: questo era il titolo dei<br />

capi delle comunità slave di Dalmazia.<br />

101


E’ chiaro il disegno di Basilio Boiannes e dell’altro Basilio, l’imperatore<br />

‘romano’ di Bisanzio: riaffermare la potestà sulla Daunia; strutturare<br />

una nuova linea di confine; creare una catena di città fortificate per<br />

difendere la frontiera da incursioni, razzie e ribellioni. Ovviamente tra<br />

la vecchia linea di difesa, poco sopra l’Ofanto, e la nuova all’altezza<br />

del Fortore c’era il Tavoliere da ripopolare e da rendere appetibile come<br />

luogo di insediamento sicuro per le famiglie.<br />

‘Lega longobarda’ o nazionalismo murgiano?<br />

Sede del Catapanato bizantino d’Italia è Bari, dal 976, dopo la liquidazione<br />

dell’effimero Emirato arabo. Città di borghesia cosmopolita<br />

come la start-up Venezia, a capo di linee commerciali importanti. Le<br />

condizioni competitive ci sarebbero, ma vengono soffocate dal governo<br />

bizantino e soprattutto dalla fiscalità esosa destinata a finanziare<br />

imprese militari estranee oppure il lusso parassita della corte – dove il<br />

Catapano d’Italia occupa tra i dignitari il 39° posto. Il malcontento è<br />

diffuso in Terra di Bari e trova echi compiacenti nel mondo longobardo<br />

che si sviluppa dal Subappennino a Salerno includendo la capitale,<br />

Benevento, e il principato di Capua. Perché la fiamma s’accenda servono<br />

due condizioni: un motivo di esasperazione e un condottiero che<br />

sappia prendere in mano la lotta.<br />

Il leader della situazione si chiama Melo, che forse è un nomignolo per<br />

Ismaelo; suo braccio destro è Datto, il cognato. Più che i loro nomi ci<br />

dice qualcosa il sistema di parentela. Il figlio di Melo si chiama<br />

Argyrio, che avrà una vita politica lunga e contraddittoria; dunque<br />

siamo in una famiglia di classe benestante bizantina, e non necessariamente<br />

di nazionalità greca. La moglie, che si chiama Maralda, è longobarda.<br />

Melo, come dimostreranno poi i fatti, ha accesso ai grandi<br />

centri di potere in Occidente: la Santa Sede papale e la Sacra Corte<br />

imperiale della dinastia Salica. Qual era il suo programma? Forse la<br />

creazione di un soggetto politico regionale. La strategia? Una devoluzione<br />

di poteri da parte di Bisanzio? Uno ‘strappo’ verso gli Stati longobardi?<br />

O addirittura verso il Papato, o verso l’Impero germanico?<br />

Come di tutti i perdenti, nessuno ha cantato la sua storia.<br />

102


La ribellione contro Bisanzio si innesca nel 1009 in concomitanza con<br />

una carestia disastrosa, e sale da Bari verso nord, fino a Bitetto, Bitonto<br />

e Trani. Da segnalare l’appoggio papale. Ma da Bisanzio arriva un<br />

nuovo Catapano, Basilio Mesardonite: uomo di pochi complimenti,<br />

assedia duramente la città, la espugna l’11 giugno 1011, e riesce a ottenere<br />

formale atto di vassallaggio dai principi longobardi e dall’abate di<br />

Montecassino.<br />

Il sogno di Melo sembra spento. In realtà esso attraversava dei disegni<br />

più grandi: il nuovo papa, Benedetto VIII, non vuol disperdere questa<br />

energia antibizantina che Melo ha saputo evocare, e lo raccomanda<br />

all’imperatore germanico, Enrico II il Santo. Melo ne ottiene un platonico<br />

investimento del ducato di Puglia, che però non era nelle disponibilità<br />

del Sacro Romano Impero. In questo confuso daffare dei grandi<br />

e dei piccoli personaggi, il filo rosso della storia passa silenziosamente<br />

da un’altra parte e la diplomazia non se ne accorge.<br />

Siamo nella grotta dell’Angelo sul Gargano. Melo è lì a impetrare una<br />

protezione di cui ha davvero bisogno, e S. Michele gli risponde a modo<br />

suo. Sono lì in preghiera dei devoti inconsueti: un gruppo di giovani<br />

normanni di ritorno dal Santo Sepolcro. Prima di ripartire verso casa<br />

sono già d’accordo con Melo: torneranno tra un anno con una nutrita<br />

schiera di cavalieri. Questo cambierà la storia d’Italia. Benedetti dal<br />

papa, nella primavera del 1017 muovono tutti verso la Capitanata e<br />

sconfiggono i bizantini a Civitate e a Vaccarizza presso Troia: così arrivano<br />

a Trani.<br />

La battaglia di Canne, 1018<br />

Ma Bisanzio aveva carte da giocare: il nuovo Catapano, Basilio<br />

Boioannes, e un drappello della Guardia variaga.<br />

I Variaghi sono guerrieri scandinavi chiamati dagli Slavi dell’area<br />

commerciale di Novgorod per sedare i propri dissensi. Fondano il<br />

primo Stato russo, il Rus’. Compaiono sulla scena internazionale nel<br />

998: il gran Principe di Kiev, Vladimir I, sposa Anna, la sorella di<br />

103


Basilio II; il dono di nozze, o meglio il ‘prezzo della sposa’, è un drappello<br />

di 6000 guerrieri variaghi armati di ascia a due impugnature,<br />

spade e archi. Erano personaggi altolocati: il loro capo, Hardrada,<br />

diventerà poi il re Harald III di Norvegia.<br />

“Il popolo dei Winnili, cioè dei Longobardi, che poi regnò felicemente<br />

in Italia, mosse dalla (pen)isola chiamata Scania”. Cioè dalla<br />

Scandinavia: lo attesta Paolo Diacono, il loro storico. Hanno tracciato<br />

uno ‘Stato’ italiano, a macchia di leopardo; a sud la capitale amministrativa<br />

e religiosa è Benevento, ma Capua e Salerno sono centri importanti<br />

e inquieti, e anche l’Abbazia di Montecassino non sarà estranea a<br />

questa configurazione del potere.<br />

I Vikinghi, chiamati ‘normanni’ dai francesi, vengono dalla<br />

Scandinavia, predano la Gran Bretagna, arrivano in America. A un<br />

certo punto si posano in Normandia dove nel 911 vengono legittimati<br />

dai Carolingi. Al loro capo Hrolfr (che i francesi non riescono a pronunciare<br />

se non Rollon) viene assegnato il ducato di Rouen. Da lì in<br />

Italia meridionale e Sicilia, poi Oltremare; e nel 1066 in Inghilterra:<br />

battaglia di Hastings, Guglielmo il Conquistatore, l’arazzo della regina<br />

Matilde a Bayeux.<br />

Questa è ironia della storia. A Canne, luogo privilegiato di battaglie, il<br />

1° ottobre 1018 vengono allo scontro tre eserciti di scandinavi: Variaghi<br />

contro Longobardi alleati coi Normanni.<br />

Chissà se si saranno riconosciuti, in qualche modo? Qualche tipo di<br />

arma, qualche grido di guerra, qualche insulto nel corpo a corpo? Non<br />

lo sapremo mai. Però nella seconda battaglia di Canne prevalgono i<br />

Variaghi di Boioannes, probabilmente per la migliore disciplina e per<br />

l’abitudine al lavoro di gruppo nell’ordinato esercito bizantino.<br />

I vincitori di lungo periodo saranno invece i Normanni. Rainulfo<br />

Drengot, a quanto dice Rodolfo il Glabro, chiama i suoi a una migrazione<br />

di massa: famiglie intere con donne e bambini dalla Normandia<br />

prendono la via del Sud. Per il Gran San Bernardo travolgono i blocchi<br />

e i gabellieri istituiti dai signorotti dei valichi alpini, e vanno ad ingros-<br />

104


sare le avanguardie normanne combattenti a Benevento e in Puglia. Ma<br />

questo appartiene ad un’altra ‘città dimenticata’: Tiati, cioè Civitate.<br />

Gli anni brevi di Montecorvino<br />

Boioannes, il padre di Montecorvino, vince la battaglia e anche la guerra.<br />

La Puglia ritorna sotto i Bizantini e finalmente Basilio ha modo di<br />

realizzare il suo disegno per bloccare eventuali rigurgiti di fratellanza<br />

longobarda tra Bari, Capua e Salerno e piantare dei ‘picchetti’ di confine<br />

verso il Fortore: Devia, Fiorentino, Montecorvino, Civitate,<br />

Dragonara, Tertiveri, Biccari, Troia.<br />

Non è un disegno puramente militare: il Bugiano, come lo chiamano<br />

qui, si muove a tutto campo, anche sul piano civile ed ecclesiastico.<br />

Anzitutto separa la diocesi di Siponto da quella di Benevento. E questo<br />

è un buon colpo per la città portuale daunia, che viene sciolta non solo<br />

dal potere longobardo ma anche da quello papale: infatti la capitale<br />

sannita aveva il privilegio di dipendere direttamente dalla Santa Sede.<br />

Però c’è un problema. Forse Basilio non aveva letto la Vita Barbati,<br />

opuscolo in lode del primo vescovo di Benevento. San Barbato era già<br />

pago di aver convertito i Longobardi e annientato i culti etnici, da quello<br />

banale per il dio-albero a quello molto più intrigante della vipera<br />

d’oro (astutamente se la fa portare dalla regina e poi la fonde per farne<br />

un calice). Ma il duca Romualdo come tutti i neofiti ha la smania di fare<br />

qualcosa di troppo. Allora il santo vescovo parla: “Se ti urge offrire un<br />

dono per la tua salvezza, c’è una cosa sola che puoi fare. Sul Gargano<br />

c’è la casa del beato Michele arcangelo. Tu la sottrai alla giurisdizione<br />

del vescovo di Siponto e la sottometti in tutto e per tutto alla Sede della<br />

quale indegnamente io sono il titolare”. Detto fatto, e anche di più: la<br />

diocesi di Siponto viene accorpata a quella di Benevento. E il testo soggiunge:<br />

“Così risuona attraverso il futuro: sono colpiti da anatema coloro<br />

che agissero contro questa concessione rendendola vana”. Questo<br />

anatema spiega molte cose che verranno, e soprattutto l’improvvida<br />

destituzione di Boioannes che avrà conseguenze fatali.<br />

105


Per intanto il papa frena le impazienze dell’arcivescovo di Benevento<br />

e lascia spazio alle nuove diocesi–piazzeforti della Capitanata.<br />

Infatti le città di Boioannes sono comunità vere, non pure macchine da<br />

guerra. In ciascuna di esse, eccetto Devia, viene insediato un vescovo.<br />

Attorno al presule si aggrega un clero, si innalzano edifici, si strutturano<br />

servizi in rete con la sede metropolitana di riferimento, e anche con<br />

la Santa Sede, e quindi si disegna un tessuto cittadino. Si chiama ‘effetto<br />

poleopoietico’ del vescovato. A Montecorvino questo effetto è affidato<br />

al vescovo Beatus. Il modulo dell’abitato è costante in tutte le<br />

piazzeforti: su siti difensivi, come alture o speroni circondati da strapiombi,<br />

il tessuto urbano nasce allungato; le contrade che partono dalla<br />

platea magna sono strette; ovviamente le mura difendono la città e culminano<br />

con il castrum nei cui paraggi, a seconda delle opportunità<br />

offerte dal suolo, sorge la cattedrale.<br />

Un famoso libro chiama il XX ‘il secolo breve’. Ma forse fu più breve<br />

il Mille, almeno per Montecorvino: appena fondata vide squagliarsi<br />

l’Impero bizantino che l’aveva voluta e imporsi una nuova potenza,<br />

quella normanna, capace di tenere in scacco entità come il Papato e<br />

l’Impero germanico. E breve fu la vita della città: per diverse vicende<br />

– due assedii, 1137 e 1332, e un terremoto, 1452 – Montecorvino resta<br />

desolata. Dopo il 1452 la popolazione si esilia in tre borghi a portata di<br />

mano sulla più stabile falda del Subappennino: Volturino, Motta e<br />

Pietra Montecorvino. Tutte e tre sono orientate verso il ‘luogo assente’<br />

della loro origine comune: quella città che Boioannes edificò prima di<br />

essere richiamato alla Corte di Bisanzio. Il nuovo imperatore,<br />

Costantino VIII, non sapeva che cosa farsene di lui né di<br />

Montecorvino. E da lì in avanti il declino dell’Impero fu inarrestabile,<br />

in terra di Puglia.<br />

I decenni seguenti avrebbero visto rovesciamenti di alleanze, fino ad<br />

una effimera trilateral tra i due imperatori terreni e quello spirituale.<br />

Ma a prevalere fu sempre il ‘patto scandinavo’ tra Longobardi e Normanni,<br />

fino all’esclusione dei Bizantini da Bari nel 1071. Annus horribilis<br />

sul Bosforo: in Cilicia i Selgiuchidi sfondano l’armata imperiale e<br />

106


dilagano per l’Anatolia. Nel frattempo, è il 1054, la caratterialità e<br />

l’improfessionalità di quattro prelati – tre latini, uno greco – fanno saltare<br />

all’aria l’unità della chiesa, e fino ad oggi non se ne vede riparazione.<br />

Davvero un secolo breve, questo Mille.<br />

Alberto vescovo, ‘santo subito’<br />

Il protoepiscopo Beatus avrà saputo allestire una schola episcopale<br />

nella sua città? Si capirebbe perché il piccolo Alberto dell’età di cinque<br />

anni, rampollo di famiglia normanna dei dintorni, si trasferisca per<br />

ragioni di studio a Montecorvino. E’ il 1037. Il ragazzo cresce in<br />

sapienza e santità sotto gli occhi di Beatus e di tutta la gente; non si fa<br />

mancare preghiere e digiuni. Alla morte di Beatus si forma su di lui,<br />

che non aveva ancora trent’anni, un consenso caloroso da parte del<br />

popolo, del clero e del conte di Civitate: Alberto sarà il nuovo vescovo.<br />

Molto a malincuore Alberto accetta la responsabilità, ma mette una<br />

condizione: prima di essere consacrato vuol vedere la cattedrale più<br />

grande e più bella. La cura pastorale non lo farà deflettere dall’austero<br />

ascetismo: anzi la fama di santità richiama a Montecorvino anche i vip<br />

dell’epoca per consigli e confessioni. Non solo: il territorio diocesano,<br />

e poi tutta la Puglia, passa dai bizantini ai normanni, e di conseguenza<br />

si accresce il bacino d’utenza per il cammino di Montecorvino. Non<br />

sarà stato molto diverso, mutatis mutandis, da San Giovanni Rotondo<br />

molti secoli dopo.<br />

E infatti anche qui c’è chi cerca di lucrare sulla santità altrui, a quanto<br />

riporta la letteratura tradizionale. I digiuni e le privazioni hanno indebolito<br />

la fibra di Alberto fino a renderlo cieco, e gli viene assegnato un<br />

coadiutore: Costanzo. Questo sacerdote, si dice, fiutando aria di successione,<br />

fa di tutto per abbreviare la dolorosa vita del vescovo Alberto.<br />

Comunque sia, è vero che erediterà la cattedra episcopale; ma non così<br />

in fretta. Infatti nel 1082 Alberto, cinquantenne, partecipa alla sceneggiata<br />

con cui l’abate di Montecassino, il grande Desiderio, rinuncia<br />

107


pubblicamente alle pretese della sua abbazia montana su quella marina<br />

di Santa Maria di Tremiti. Poi sarà eletto papa: ciò che esce dalla porta<br />

rientra per la finestra.<br />

Si sa che Alberto muore il 5 aprile di un anno imprecisato attorno alla<br />

fine del Mille e viene proclamato ‘santo subito’, come si vorrebbe oggi<br />

a ogni morte di papa.<br />

Fa un effetto strano entrare nella pianta della sua cattedrale. A terra e<br />

nei bassi muri laterali, fino alla traccia di abside, abbiamo tutto quanto<br />

ci serve per immaginare la chiesa eretta. L’Università di Foggia anno<br />

dopo anno arricchisce la vista e la conoscenza. Le due torri angioine di<br />

facciata, che al sindaco Saverio richiamano quelle di Acerenza. Le<br />

arcate di cui si vedono i basamenti dei pilastri. Una cappella sulla sinistra,<br />

e poi vicino all’abside alcune aperture non ancora comprensibili.<br />

Sulla testa però abbiamo il sole della tarda estate.<br />

Sant’Alberto fuit hic, è chiaro.<br />

108


109


TIATI<br />

La cité obsesse aux murs hommes & femmes<br />

Ennemis hors le chef prestz à foy rendres<br />

Vent sera encontre les gens-darmes<br />

Chassés seront par chaux, poussiere et cendre (IV, 52)<br />

L’ETR 450 è uno dei modi più esaltanti di addentrarsi nelle Terre<br />

Foggiane attraverso lo spessore del tempo. Forse perché fra tutti i treni<br />

addetti alle velocità sostenute, non diciamo alte, è il più antico e il più<br />

affidabile: lo vedevamo quarant’anni fa asserpentarsi tra Roma,<br />

l’Umbria e le Marche torcendosi sulle curve. Toccava l’Adriatico in<br />

meno di tre ore. Adesso un po’ imbellettato, e quindi meno sincero, perfino<br />

rallentato dalla sfiducia nel giunto cardanico che gli dette il nome<br />

‘pendolino’, lo troviamo a fare il servizio Eurostar tra Roma e Foggia.<br />

Un avvicinamento al capoluogo daunio che è come sfogliare la sua storia.<br />

Aversa è una stazione insapore, e in teoria non dovremmo fermarci; ma<br />

giustamente lo facciamo quasi sempre. Forse come riconoscimento al<br />

primo Stato normanno in Italia? E’ il 1030 e il duca bizantino di Napoli,<br />

Sergio IV, investe della Contea di Aversa il ‘padrino’ di una delle famiglie<br />

avventuriere calate dalla Normandia: Rainulfo Drengot Quarrel.<br />

Aversa, anche vista dai binari, è una collocazione troppo vicina a tutte<br />

le ‘centrali’ politiche del Mille: vicina ai Longobardi del principato di<br />

Capua, della capitale Benevento, della ‘capitale morale’ Salerno che si<br />

estendeva a tutta la Lucania; vicina alla frangia bizantina di Napoli,<br />

confinante; e a Roma pontificale, che è sulla strada. Il duca Sergio ha<br />

le sue ragioni per avviare la sedentarizzazione delle bande venute dalla<br />

Normandia: ragazzi di grande bravura, pochi scrupoli, senso familiare<br />

e forte istinto predatorio. Sapranno loro come colonizzare tutta l’Italia<br />

meridionale e la Sicilia. E comunque è qui a Aversa che ha inizio que-<br />

111


sta storia. Il punto d’arrivo sarà Tiati, o Civitate, dove il quinto signore<br />

di Aversa, Riccardo, darà nel giugno 1053 il colpo decisivo alla ‘vecchia’<br />

Italia centro-meridionale e insulare.<br />

A Caserta ci raggiunge la ferrovia da Roma via Frosinone, che connette<br />

gli ozi annibalici di Capua con l’operosità benedettina di Cassino:<br />

laboriosità innescata con la preghiera, e capace di fiorire in santità, in<br />

sapienza e in potere. Ai nostri tempi – cioè a quelli di cui parliamo<br />

adesso: gli anni dell’abate Desiderio – è soprattutto potere. Stazione di<br />

Telese Cerreto: a volte i treni si fermano. Alessandro di Telese, abate di<br />

San Salvatore, è la fonte principale per la storia di Ruggero II. Solopaca<br />

è un piacere pensarla come allegra terra di vino prima di arrivare a<br />

Benevento. La capitale longobarda, saldamente legata a Roma chiunque<br />

vi incarnasse il potere, dalla stazione non si vede. Ugualmente ci si<br />

fanno incontro storie e personaggi di epoca sannitica, romana, longobarda,<br />

papalina. Le janare, streghe eponime del famoso liquore. E poi<br />

una serie di battaglie che per istinto leggiamo come sconfitte: nelle<br />

guerre sannitiche, nel tentativo di espansione di Pirro re dell’Epiro,<br />

nelle guerre puniche con Annibale, per finire con l’uccisione di re<br />

Manfredi biondo, bello e di gentile aspetto. Chi ha letto qualche libro<br />

in più fa memoria della scrittura beneventana, dei codici liturgici<br />

miniati, della musica sacra un po’ cruda tra il gregoriano e il canto ortodosso<br />

(ma sarebbe più interessante cercarvi una eco germanica o scandinava<br />

che i Longobardi vi hanno sicuramente immesso).<br />

Da Benevento in avanti siamo in mano a un monumento di archeologia<br />

ferroviaria: la prima linea elettrificata a corrente continua. Non si fa in<br />

tempo a salire l’Appennino che ecco un altro colpo della storia: Ariano<br />

degli Hirpi, popolazione sannitica; nodo stradale dal Neolitico fino ad<br />

oggi, e per questo motivo oggetto di concupiscenza da parte di chiunque<br />

abbia avuto in potere il Meridione: dai Romani ai Goti ai<br />

Longobardi ai Normanni agli Svevi agli Angioini agli Aragonesi, per<br />

non parlare dei Saraceni a cui nessun luogo praticamente è sfuggito.<br />

Ora scendiamo in Capitanata imbucando gallerie che sembrano restringersi,<br />

ogni tanto sarà effetto ottico o terreno argilloso? L’ETR 450 ci ha<br />

fornito mille suggestioni e qualche comprensione nuova; ed ecco<br />

112


Orsara con la sua Grotta, sorella minore di Monte sant’Angelo, e subito<br />

dopo Bovino, nella cui cattedrale una facciata asimmetrica fa velo<br />

all’interno dalle delicate proporzioni greco-normanne.<br />

Troia, peraltro del tutto virtuale come stazione, è la dama bella, superba.<br />

E fedele: prima a Roma poi ai Bizantini, che le tolgono il nome storico,<br />

Aecae, per farle indossare questa denominazione gloriosa. E<br />

ormai corriamo nella bassa valle del Cervaro, già illuminata dai fuochi<br />

della prima apparizione mariana del millennio passato. Ci raggiunge<br />

sulla destra la ferrovia da Ordona e Ascoli Satriano e da Melfi, nel 1042<br />

capitale dei Normanni di Puglia. Poco dopo, dalla stessa parte, ci<br />

affianca la linea dorsale adriatica che ha appena scavalcato l’ ‘Ofanto<br />

tauriforme’ di Orazio, e ha superato Canne della Battaglia (ma sappiamo<br />

che ne ha ospitata più di una: ci sono dei siti nati per battaglie) e la<br />

terra delle Saline.<br />

Subito arriviamo a Foggia con la voglia di diramarci, sempre in treno,<br />

o verso Siponto e Manfredonia, o verso San Severo e il Gargano, o<br />

verso Lucera con la ferrovia in costruzione. Oppure a nord, fino al<br />

Fortore. Sulle sue sponde ci aspetta una meta fatale per tutto il<br />

Meridione: Teanum Apulum sulla Peutingeriana, poi Civitate, o<br />

Civitella sul Fortore, ora San Paolo Civitate. Insomma Tiati, se parliamo<br />

osco come ogni buon Sannita. La città che porta questi nomi migra<br />

leggermente, nei millenni, per il territorio che si affaccia da sud sul<br />

Fortore. Il Museo di San Paolo Civitate raccoglie documentazione assai<br />

interessante sulle fasi della comunità tiatina.<br />

Civitate, per chi perlustra un po’ faticosamente il sito, offre ancora<br />

qualche muraglia forse romana, forse medievale, oltre a una fattoria in<br />

piena attività. Però scendendo abbasso con un largo giro si incontra in<br />

riva al fiume un’area attrezzata – alberi, panche, una chiesetta, un edificio<br />

diruto più antico – che è il luogo preciso della battaglia che ha<br />

dato luogo a una svolta decisiva nella storia d’Italia. Un cippo ben visibile<br />

ci assicura: è proprio quello il posto della battaglia di Civitate, 18<br />

giugno 1053.<br />

113


Civitate, 18 giugno 1053<br />

Qui sulla riva del Fortore vengono ad annodarsi diverse storie che troveranno<br />

uno scioglimento inatteso e gravido di futuro. Grandi personaggi<br />

si trovano di fronte, sotto il colle da cui gli abitanti di Civitate<br />

traggono auspici sulla loro sorte. C’è il grande e rosso alsaziano Leone<br />

IX. C’è Roberto il Guiscardo ancora giovane. C’è una massa di gente.<br />

Per Dante è addirittura un benchmark di qualunque adunata oceanica<br />

(Inf. XXVIII):<br />

S’el s’adunasse ancor tutta la gente<br />

che già in su la fortunata terra<br />

di Puglia fu del suo sangue dolente…<br />

per contrastare a Ruberto Guiscardo...<br />

L’esito della battaglia rappresenta un punto di svolta repentino e perfettamente<br />

inteso da tutti nei suoi significati simbolici e politici. Le<br />

fonti storiche principali sono tre. Uno è Geoffroi Malaterra, benedettino<br />

normanno cresciuto in Sant’Eufemia e morto in Sant’Agata a<br />

Catania. Scrive il ‘De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae<br />

Comitis’. Il secondo è Amato di Montecassino, che non è un normanno<br />

ed esprime il punto di vista della grande abbazia rispetto ai fatti in<br />

oggetto. Aveva scritto in latino, ma per nostro divertimento la sua opera<br />

ci è giunta in una traduzione franco-italiana, ‘L’Ystoire de li Normant’:<br />

sembra di sentire una signora parigina che si sforza di chiedere indicazioni<br />

a un vigile di Napoli. Il terzo è il più esposto politicamente:<br />

Guglielmo di Puglia con le ‘Gesta Roberti Wiscardi’.<br />

Di questo Guglielmo non si sa molto, ma fa capire che odia gli ‘effeminati<br />

greci’ e quindi potrebbe essere longobardo. Lasciamo per ultima<br />

la Signora, la principessa della storia medioevale: Anna Comnena, che<br />

a lode del padre scrive il poema ‘Alexiade’. Quando lei era piccola,<br />

Alessio I Comneno aveva combattuto e sconfitto Roberto il Guiscardo<br />

nei Balcani; quindi ci aiuta a capire la personalità del vincitore morale<br />

della battaglia di Civitate (o meglio, di quello che riuscì a spendersi<br />

mediaticamente la vittoria).<br />

114


Cercheremo di capire che cosa è veramente successo, seduti sotto i pini<br />

che allietano il sito di tanta strage.<br />

Com’è il fatto<br />

Il massimo player e promotore della battaglia è il papa Leone IX, già<br />

Brunone vescovo di Toul. Egli era asceso al soglio di Pietro con estrema<br />

riluttanza, giacché i predecessori erano stati metodicamente eliminati<br />

da fazioni del Sacro Collegio. Suo sponsor è il cugino, l’imperatore<br />

Enrico III di Franconia. La situazione dell’Italia, specie nel Sud, è<br />

funestata dal dilagare delle bande normanne: non dal 1016, come cerca<br />

di far credere Guglielmo di Puglia per tagliar via la parte peggiore, ma<br />

anche da prima.<br />

Il Meridione è da decenni più o meno in stallo tra l’autorità legittima<br />

dell’imperatore ‘romano’ di Bisanzio e gli Stati longobardi mai veramente<br />

diventati grandi: Benevento, Salerno, Capua (si ricorda, anni fa,<br />

una mostra a Brescia sui Longobardi del Sud, senza niente che attirasse<br />

l’attenzione). L’arrivo e la percolazione delle bande normanne mette<br />

in agitazione lo status quo. La ragione politica, e probabilmente la vicinanza<br />

etnica (sono tutti Germani di Scandinavia), fanno sì che il nazionalismo<br />

longobardo imbelle veda in questi mercenari bravi un possibile<br />

strumento di riscatto. Abbiamo così le due rivolte ‘separatiste’ a Bari<br />

guidate da Melo, e abbiamo il figlio Argyrio che invece viene educato<br />

a Bisanzio prima come ostaggio, poi come consigliere degli imperatori<br />

sulle questioni riguardanti il Catapanato d’Italia.<br />

Se Bisanzio fibrilla per i Normanni, Roma ancora di più: teme per la<br />

sicurezza e l’integrità dello Stato pontificio e dei suoi ormai naturali<br />

alleati, i Longobardi. Poi c’è un pianto e una protesta continua che arrivano<br />

in alto loco dalle popolazioni pugliesi malversate e dai pellegrini<br />

che, per raggiungere il Gargano, devono mettere in palio insieme la<br />

borsa e la vita. Papa Brunone compie diversi sopralluoghi e si rende<br />

conto che la situazione creata dai Normanni è intollerabile. Ne scrive<br />

all’imperatore di Bisanzio, ne parla vis-à-vis a quello di Germania nel<br />

1051. Dalla Germania nulla, ma con Bisanzio arrangia un accordo il<br />

115


giovane Argyrio. La tela incomincia a essere tessuta. Il papa sollecita<br />

anche Guaimario, il principe longobardo di Salerno, ma egli era in<br />

parola con Roberto il Guiscardo per dargli in moglie la sorella<br />

Sichelgaita, famosa virago guerriera, quindi si schiera contro la coalizione;<br />

e male gliene incoglierà: quando ci sono di mezzo i Bizantini, si<br />

sa, i confini tra il lecito e l’illecito sono sempre discutibili, e soprattutto<br />

superabili.<br />

Intanto comincia la campagna di preparazione morale. Amato di<br />

Montecassino enumera i prodigi che in varie parti del territorio annunciano<br />

sciagure. Nasce un bimbo con un occhio solo in mezzo alla fronte,<br />

gli zoccoli e la coda. Un altro con due teste. A Montecassino stessa<br />

l’olio di una lampada da chiesa si muta in latte. Chiaro segno della<br />

prossima morte di Guaimario. Infatti. Saranno i Normanni a riportare<br />

sul trono l’orfano Gisulfo.<br />

Il rullo dei tamburi s’appressa. Papa Leone ritorna in Germania, ma<br />

tutto quello che ottiene è di arruolare a sue spese settecento fanti svevi.<br />

Attorno a questo nucleo si aggrega, via via che Leone scende lungo<br />

l’Italia, della soldataglia minore. Giunti a Benevento, centro logistico<br />

delle operazioni, l’esercito è numeroso davvero. Ma assolutamente<br />

scombinato, come si vedrà. Accedono anche diversi prìncipi dell’Italia<br />

meridionale: Gaeta, Aquino, Teano, Amalfi; e poi dalla Marca di<br />

Ancona, da Spoleto, dalla Puglia stessa.<br />

La strategia concordata con i Bizantini di Argyrio è la seguente: attanagliare<br />

i Normanni che presumibilmente saranno disposti a difesa dei<br />

simboli della nazione: la fresca capitale Melfi e il duca Umfredo.<br />

L’appuntamento è a Siponto: Argyrio viene sù dal Salento, Leone scende<br />

da Roma. I Normanni possono soltanto impedire che avvenga il congiungimento<br />

tra i due temibili eserciti. Così Umfredo impegna e sconfigge<br />

Argyrio sotto Siponto; a Crotone, nel salire, il calabro Guiscardo<br />

batte il protospatario Sicone. Leone, da Benevento, occupa Civitate.<br />

Messi normanni chiedono un ripensamento, hanno fame, sono disposti<br />

a riconoscere l’autorità feudale del papa. Ma non se ne fa di nulla. Gli<br />

Svevi pensano: siamo venuti fin qua soltanto per fare conversazione?<br />

E così decolla la battaglia di Civitate del 18 giugno 1053.<br />

116


Primo assalto: il conte normanno Riccardo d’Aversa contro gli Italiani<br />

e Longobardi. Sembravano lì per caso, per passione ma senza alcuna<br />

preparazione bellica. Vengono messi in fuga in un momento. Secondo<br />

assalto: Umfredo contro la falange sveva. Con loro, che sono dei professionisti,<br />

è molto più dura. Presi in una tenaglia pene omnes occubuerunt:<br />

muoiono quasi tutti. Pare che scavando nel luogo siano stati<br />

trovati molti scheletri di persone alte più di un metro e ottanta. Leone<br />

si rinchiude in Civitate, ma gli abitanti trovano più conveniente indicargli<br />

l’uscita. A questo punto il gran coup de théâtre: Roberto il<br />

Guiscardo si inginocchia davanti al Santo Padre, gli bacia la pantofola,<br />

chiede perdono per la sofferenza inflitta e gli promette che d’ora in<br />

avanti saranno loro, i Normanni, a occuparsi della sua sicurezza.<br />

Questo è puro genio politico. Sottomettendosi al papa, i Normanni sottometteranno<br />

senza discussioni tutta l’Italia meridionale. Nel 1059 al<br />

Sinodo di Melfi il papa Nicolò II investirà Roberto conte di Puglia,<br />

Calabria e Sicilia (quest’ultima però ancora da riscattare dagli Arabi).<br />

I racconti dei testimoni<br />

Adesso che sappiamo com’è andata, seduti all’ombra dei pini sul sito<br />

della battaglia, ascoltiamo i particolari dai testimoni dell’epoca.<br />

Le premonizioni (Amato di Montecassino, in franco-napoletano).<br />

“Puiz que fu seu par publica fame que li Pape venoit, molt en<br />

estoient alegre”. C’era chi godeva dell’avvicinarsi del papa. Ma<br />

Giovanni, vescovo di Salerno, era stato tormentato da una visione.<br />

Afflitto dalla malattia che aveva (non si sa quale) decide di compiere<br />

un rito paganissimo: la incubatio. Si fa stendere accanto alla tomba<br />

di San Mattia apostolo, si sfoga con lui, e tra il dolore e il parlare si<br />

addormenta. Quindi San Mattia gli appare e gli dice: “Je te promet<br />

que tu es guari de ton infermeté. Més je te prophetize que la mort non<br />

est trop long”. Per adesso ti guarisco ma la morte ti si avvicina. E<br />

aggiunge: “Li Pape vient avec vilz chavaliers pour chacier; més li<br />

sien seront destruit, et espars, et en prison, et mort. Et puiz ceste<br />

117


cose, retornera à Rome et sera mort”. Muore anche il Papa, ma<br />

prima, con un esercito da poco, si prenderà una bella sconfitta. E<br />

adesso viene il meglio. “Quar c’est ordené devant la presence de<br />

Dieu, quar quicunques sera contre li Normant, pour les chacier, ou<br />

tost morira, ou grant affliction aura. Quar ceste terre de Dieu est<br />

donnée à li Normant”. Chiaro? E’ Dio che ha dato questa terra ai<br />

Normanni, e chi si mette contro di loro ne avrà morte immediata o<br />

afflizione grande. “Et puiz lo evesque se resveilla tot sain et salve. Et<br />

ensi comme lui fu dit en avision, ensi fu fait”.<br />

I tentativi diplomatici dei Normanni (Guglielmo di Puglia).<br />

“I Normanni, sebbene si distinguessero per armi sfolgoranti, temendo<br />

di non resistere alla vista di tante schiere, mandarono ambasciatori<br />

per chiedere un trattato di pace e per pregare il papa di accogliere<br />

con benevolenza il loro omaggio.<br />

I Teutonici, che si distinguevano particolarmente per capigliatura,<br />

bellezza fisica e statura, deridevano i Normanni, che apparivano fisicamente<br />

più bassi, e non prendevano in considerazione i loro messaggi,<br />

considerando quel popolo inferiore per numero e per forze. Si<br />

rivolsero al papa con parole superbe ed animo ostile: ‘Ordina ai<br />

Normanni di gettare le armi, di abbandonare l’Italia e di ritornare nel<br />

loro territorio. Se si rifiutano, noi vogliamo che tu respinga le loro<br />

proposte di pace e non tenga conto dei loro messaggi. Essi non hanno<br />

ancora sperimentato le spade teutoniche. Muoiano colpiti dalle nostre<br />

spade o siano costretti ad andarsene e ad abbandonare a malincuore<br />

questo suolo che non vogliono abbandonare volontariamente’. Il<br />

papa, anche se per diversi motivi non era d’accordo con quei facinorosi,<br />

non riuscì a calmare gli animi: gente superba era!”<br />

Appartengono a loro gli altissimi scheletri scavati sotto Civitate.<br />

I guerrieri normanni (Guglielmo di Puglia, Anna Comnena).<br />

“Tra i capi normanni i più prestigiosi erano ritenuti Umfredo, sopravvissuto<br />

alla morte del fratello Drogone, e Riccardo, poco prima<br />

nominato conte nella città di Aversa. Un po’ più giovane, Roberto<br />

superava i fratelli maggiori per il suo straordinario valore: costui<br />

prese parte a quella guerra. Era soprannominato Guiscardo, poiché<br />

superava in astuzia Cicerone e lo scaltro Ulisse”.<br />

118


“Roberto apparteneva a una famiglia minore tra i Normanni. Di temperamento<br />

tirannico, astuto di pensiero e coraggioso nell’azione,<br />

estremamente ingegnoso nel pianificare attacchi alle ricchezze di<br />

facoltosi possidenti e ancor più ostinato nel metterli in pratica: non<br />

tollerava alcun ostacolo alla realizzazione dei propri disegni. Era di<br />

statura notevole, tale da superare anche i più alti fra gli individui;<br />

aveva una carnagione rubiconda, capelli di un biondo chiaro, spalle<br />

larghe, occhi come scintille di fuoco, e nel complesso era di bell’aspetto.<br />

Si racconta che il grido di quest’uomo avesse messo in fuga<br />

intere moltitudini. Con queste doti di fortuna, di fisico e di carattere,<br />

egli era per natura indomabile, mai subordinato ad alcuno”. Questa è<br />

Anna Comnena, si capisce il tocco femminile.<br />

I guerrieri Teutonici con il papa (Guglielmo di Puglia).<br />

“In una battaglia la vittoria non dipende né dal numero dei cavalli né<br />

dai soldati né dalle armi, perché è il Signore dei cieli che la concede.<br />

Tra i Teutonici e le truppe normanne s’ergeva in mezzo un colle. In<br />

aiuto dei Teutonici erano giunte folte schiere di Puglia, Valva,<br />

Campania, Marsica, Chieti. Guarniero e Alberto, capi dei Teutonici,<br />

avevano con sé non più di 700 Svevi, uomini coraggiosi e di animo<br />

feroce ma incapaci di combattere a cavallo. Essi colpiscono più efficacemente<br />

con la spada che con la lancia. Le loro spade sono particolarmente<br />

lunghe e assai taglienti; spesso colpiscono il corpo dalla<br />

testa e lo spaccano in due e se disarcionati restano fermi sui piedi.<br />

Preferiscono morire combattendo piuttosto che fuggire”.<br />

Gli schieramenti per la battaglia (Guglielmo di Puglia).<br />

“Non è il caso di citare nei miei versi la massa dei nemici venuta per<br />

cancellare il nome del popolo normanno. Tutti costoro si erano<br />

accampati insieme ai Teutonici presso la riva del fiume Fortore, nei<br />

pressi della città che prende il nome dai suoi cittadini. I Normanni si<br />

armano e sull’ala destra dello schieramento pongono Riccardo conte<br />

d’Aversa, col compito di attaccare i Longobardi. Lo accompagna il<br />

primo valoroso squadrone di cavalieri, mentre Umfredo viene scelto<br />

come comandante della schiera centrale che deve opporsi ai forti<br />

Svevi. Riceve l’ordine di difendere l’ala sinistra, insieme ai Calabri,<br />

119


suo fratello Roberto, col compito di intervenire tempestivamente in<br />

aiuto degli alleati in caso di necessità e per ristorarne le forze. I<br />

Teutonici avevano collocato la loro ala destra contro le due ali, mentre<br />

sull’ala opposta stavano gli Italici ammassati tutti insieme, perché<br />

in caso di scontro non sapevano disporre in giusto ordine le loro<br />

schiere”.<br />

I Normanni attaccano gli Italiani e gli Svevi (Guglielmo di Puglia).<br />

“Contro di essi incomincia ad attaccar battaglia per primo Riccardo,<br />

che li assale con coraggio. Gli Italiani non resistono all’assalto: le<br />

loro forze vengono scompigliate, tutti vengono assaliti dal terrore e,<br />

volti in fuga, corrono disordinatamente per valli e per monti; molti<br />

l’impeto stesso della fuga travolge e getta a terra. Vengono uccisi così<br />

da frecce e da spade. Fuggono gli Italiani, ma per quelli catturati da<br />

lui e dai suoi compagni non c’è alcuna possibilità di fuga. Lì muoiono<br />

in battaglia moltissimi Italiani, la maggior parte fugge.<br />

Gli Svevi ingaggiano un combattimento contro le truppe del prode<br />

Umfredo; dapprima Umfredo li attacca da lontanto con le frecce e a<br />

sua volta si espone alle frecce dei nemici; infine entrambe le schiere<br />

ricorrono alle spade, con le quali vengono vibrati da entrambe le parti<br />

colpi incredibili; là si sarebbero potuti vedere corpi umani decapitati<br />

e cavalli abbattuti insieme ai cavalieri”.<br />

Ma non dovevano esserci i Longobardi a spalleggiare le truppe tedesche?<br />

(Amato di Montecassino)<br />

“Et li Thodeschi se reguardent derriere pour veoir lor compaingnie;<br />

més nul Longobart venoit aprés eauz, quar tuit s’en estoient foui.<br />

Cestui Todeschi qui iluec se troverent furent tuit mort: nul non<br />

eschappa, se non aucun à qui li Normant vouloient pour pitié pardoner.<br />

Et secuterent ceus qui fuyoient, et les prenoient et occioient”<br />

Esordio di Roberto il Guiscardo (Guglielmo di Puglia)<br />

“Roberto, visto il fratello accanitamente incalzato dai nemici per<br />

nulla disposti a dargli respiro si scaglia con foga in mezzo ai nemici.<br />

Alcuni trafigge con la lancia, altri decapita con la spada, e con le<br />

sue mani possenti vibra colpi terribili; combatte con entrambe le<br />

mani e dovunque decida di colpire va a segno sia con la lancia che<br />

120


con la spada. Tre volte disarcionato, tre volte riprende vigore e torna<br />

a combattere con maggiore efficacia, perché è il furore che lo stimola.<br />

Così Roberto non cessa di far strage con diversi tipi di morte degli<br />

Svevi che gli si oppongono; ad alcuni tronca un piede, ad altri le<br />

mani, ad altri sfracella il capo e il corpo; ad alcuni taglia a pezzi il<br />

ventre e il petto, ad altri trafigge le costole dopo aver tagliato il capo,<br />

rendendo i grandi corpi mutilati simili ai piccoli e dimostrando che<br />

non sempre agli uomini più dotati fisicamente tocca il premio alla<br />

bravura, di cui spesso sono dotati i più esili. Come è stato provato al<br />

termine dei combattimenti, in questa battaglia nessuno, vincitore o<br />

vinto, ha vibrato colpi così pesanti”.<br />

Riccardo di Aversa, il colpo decisivo (Guglielmo di Puglia).<br />

“Mentre ritorna dopo aver compiuto ingente strage di Italiani, di cui<br />

una parte fugge, un’altra viene uccisa da spade e da lance, allorché<br />

vede che così i Teutonici resistono ai suoi compagni, esclama:<br />

‘Ahimè, la vittoria che noi credevamo acquisita con la fine del combattimento,<br />

non ha ancora posto fine alla battaglia!’; e senza indugio<br />

si scaglia nel mezzo dei nemici. Costoro, persa ogni speranza di fuga<br />

e di salvezza, resistono con maggior violenza, ma a nulla giova la<br />

loro resistenza, perché vengono circondati dalla moltitudine dei<br />

nemici. La gloriosa armata del vittorioso Riccardo è causa di grave<br />

rovina per i nemici che, miseri, vengono annientati con diversi tipi di<br />

uccisione, e di tanta moltitudine non sopravvive nessuno”.<br />

Il dramma di Leone IX (Goffredo Malaterra, Guglielmo di Puglia,<br />

Amato di Montecassino).<br />

“Apostolicus, fuga vitae asylum expetens, intra urbem provinciae<br />

Capitanatae, quae Civitata dicitur, sese profugus recepit. Il Padre<br />

apostolico cerca rifugio in Civitate. Quem hostes insequentes, armato<br />

milite obsident: aggeres portant, machinamenta ad urbem capiendam<br />

parant, incolas minis terrent, ut apostolicum reddant. I<br />

Normanni lo incalzano, pongono assedio con soldati armati, allestiscono<br />

dei terrapieni, preparano macchine per sferrare l’assalto,<br />

minacciano gli abitanti perché consegnino il papa. Si tratta, ma solo<br />

a tutela della città; quanto al papa, eum per portas eiciunt: lo sbattono<br />

fuori dalle porte”.<br />

121


“La popolazione normanna lo venera e gli chiede perdono in ginocchio.<br />

Il papa accoglie benevolmente i supplicanti, che tutti insieme<br />

gli baciano i piedi. Egli li ammonisce con parole benigne e li benedice,<br />

si lamenta molto per avere essi disdegnato le proposte di pace<br />

(era vero l’esatto contrario, ma in certi momenti è più elegante tacere)<br />

e prega piangendo per i fratelli defunti”.<br />

“Et quant ce fu fait, li Normant s’en alerent à lor Terre. Li Pape avoit<br />

paour, et li clerc trembloient. Et li Normant vinceor lui donnerent<br />

sperance, et proierent que securement venist lo Pape. Liquel menerent,<br />

o tout sa gent, jusque à Bonivent; et lui aministroient continuelment<br />

pain et vin et toute choze neccessaire”. Umfredo accompagna<br />

il papa a Benevento, che è città appartenente alla Santa Sede, e<br />

in viaggio gli offre continuamente pane e vino. Aveva bisogno di<br />

tirarsi su di morale, povero Brunone! Tant’è che sempre scortato dai<br />

Normanni rientra a Roma, dove muore dieci mesi più tardi “et fist<br />

molt miracle”.<br />

Ma avevamo incominciato con la profezia di San Mattia<br />

all’Arcivescovo di Salerno, Giovanni. E infatti “lo Archevesque de<br />

Salerne, loquel avoit veue celle avision, à li .v. mois et .VI. yde de<br />

septembre, fu mort”. E per finire, “a li Conte de Puille vindrent autre<br />

frere de la contrée de Normendie, c’est assavoir Malgere, Gofrede,<br />

Guillerme et Rogier”. Siamo al Sud e c’è sempre una famiglia numerosa<br />

da sistemare.<br />

Conclusione.<br />

“Cresce a dismisura il coraggio dei Normanni vincitori, ai quali<br />

ormai non si ribella più alcuna città di Puglia. Crescit Normannis animus<br />

victoribus ingens, iamque rebellis eis urbs appula nulla remansit.<br />

Guglielmo di Puglia dixit.<br />

Profezia e morte di Roberto il Guiscardo (Anna Comnena).<br />

“Roberto non si fermò nemmeno dopo questa sconfitta (nei Balcani<br />

contro suo padre Alessio I) e avendo già inviato una nave con suo<br />

figlio a Cefalonia e il resto della flotta e dell’esercito a Boditza, egli<br />

122


stesso, in viaggio per ricongiungersi col figlio, fece ancorare la sua<br />

galea a Cefalonia nei pressi del capo Atheras dove fu preso da una<br />

febbre molto alta. L’arsura lo spinse a chiedere acqua freschissima,<br />

tutti i suoi uomini ne andarono in traccia. Uno del luogo mostrò loro<br />

l’isola di Itaca dirimpetto, dicendo che un tempo sull’isola c’era una<br />

città chiamata Gerusalemme, ora caduta in rovina, e tra le rovine c’è<br />

una fonte di acque gelide. Roberto si spaventò al sentire che era in<br />

prossimità di Gerusalemme perché tempo addietro degli indovini gli<br />

avevano profetizzato che quando sarebbe stato ad Atheras avrebbe<br />

riunito tutti i popoli sotto il suo dominio, ma da lì sarebbe partito per<br />

Gerusalemme e là avrebbe pagato il suo debito alla Natura.<br />

Infatti se morì di febbre o di pleurite non saprei dire con certezza ma<br />

fatto sta che in sei giorni fu spacciato. Sua moglie Sichelgaita arrivò<br />

giusto in tempo per vederlo prima che spirasse e vide anche il figlio<br />

chino su di lui e in lacrime. Quindi con tutti loro partì per la Puglia.<br />

Durante la traversata scoppiò una terribile tempesta nonostante si<br />

fosse d’estate. Molte navi fecero naufragio e le più fortunate furono<br />

sbattute a riva e andarono in pezzi. Anche la nave con il cadavere del<br />

padre fece naufragio ma i marinai riuscirono a costo della vita a salvare<br />

la bara che fu traslata a Venosa. Roberto fu sepolto nell’antico<br />

monastero dedicato alla SS.ma Trinità dove i suoi fratelli erano stati<br />

sepolti prima di lui. Roberto era morto dopo 25 anni di regno, il suo<br />

titolo era di Duca e aveva 70 anni.<br />

Un matematico di nome Seth (che, detto così, suona un po’ come il<br />

Mago di Arcella), molto esperto anche di astrologia, aveva predetto<br />

il destino di Roberto dopo il suo passaggio in Illiria; aveva scritto la<br />

sua predizione su un foglio, l’aveva sigillato e inviato agli intimi del<br />

duca pregandoli di non leggerlo prima di una data stabilita. Dopo la<br />

morte di Roberto, questi dissuggellarono la lettera e lessero la predizione<br />

che era: ‘Un grande nemico proveniente da ovest cadrà<br />

improvvisamente dopo aver generato grande confusione’. Ciò creò<br />

enorme meraviglia per la sapienza del profeta – infatti costui aveva<br />

approfondito moltissimo questa scienza che, mi si consenta una divagazione,<br />

ha fatto grandi progressi in questi ultimi tempi…“.<br />

123


Ma il peggio deve ancora venire<br />

Papa Leone continua a sentirsi a disagio per la protezione esibita dai<br />

Normanni. Cerca di raccattare i cocci con Bisanzio e manda la famosa<br />

ambasceria al fratello patriarca di Costantinopoli (la Chiesa è ancora<br />

una, fino a quel momento) e all’imperatore d’Oriente, che solo poteva<br />

contrappesare i Normanni del Sud. Ma se cercava da parte bizantina<br />

flessibilità e disponibilità, Leone manda giù, inspiegabilmente, le tre<br />

persone più rigide e meno aperte all’ascolto che avrebbe potuto trovare<br />

nella sua Curia: Umberto di Silvacandida, Federico di Lorena e<br />

Pietro arcivescovo di Amalfi.<br />

Tra un imperatore malaticcio, un patriarca Cerulario livoroso e isterico,<br />

un papa stanco, due cardinali convinti di essere la Verità e un arcivescovo<br />

della stessa opinione, il dramma corre veloce verso la catastrofe.<br />

Leone IX fa il massimo per evitare l’inevitabile: muore. E’ una soluzione<br />

brillante: la morte del papa delegittima gli ambasciatori, che<br />

dovrebbero solo rientrare in sede. Ma i tre prelati, in delirio di onnipotenza,<br />

compiono il gesto irreparabile che abbiamo sentito raccontare a<br />

Devia.<br />

E’ il 1054. Rotta l’unità della Chiesa, è perduto per sempre l’appoggio<br />

dell’imperatore d’Oriente, mentre con quello d’Occidente si sta aprendo<br />

la secolare quérelle sui poteri rispettivi delle due Istituzioni. Ma con<br />

grande prontezza la Sede apostolica fa di necessità virtù. E’ vero che<br />

non le mancherà, fino al 1870, qualche legione sul cui numero Stalin si<br />

interrogava con sarcasmo caucasico. Però di un protettore terreno c’è<br />

sempre bisogno. E allora, messi da parte gli imperatori lontani, chi<br />

meglio dei Normanni, volenterosi e piano piano anche un po’ evoluti,<br />

può reggere la staffa alla pantofola pontificia?<br />

E così ha inizio un racconto lungo diversi secoli, che passa per i re normanni<br />

di Sicilia e la loro civiltà raffinatissima e interamente ‘mediterranea’;<br />

poi per Federico II e Manfredi, assai mal visti; poi per gli<br />

Angoini, gli Iberici, i Borboni, i Savoia, la Repubblica. Fino a oggi.<br />

E comunque molto di questo passa per le Terre Foggiane.<br />

124


125


FIORENTINO<br />

Le Sol & l ’Aigle au victeur paraîtront:<br />

responce vaine au vaincu on asseure,<br />

par cor me crys harnoys n’arresteront<br />

vindicte, paix par mort si acheue à l’heure (I, 38)<br />

13 dicembre 1250<br />

Hosara! Questa smania di falconeria, non riesco a resisterle. Non mi è<br />

bastata la caccia sul greto del Taro, due anni fa. Sembra ieri. Seguivo<br />

la picchiata del Shahin su un airone quando ho visto alzarsi le colonne<br />

di fumo… La mia effimera capitale data alle fiamme – l’avevo chiamata<br />

Victoria, figuriamoci! I Parmigiani trionfanti hanno saccheggiato<br />

e fatto festa a uno sciancato che inalberava la corona imperiale. Il segno<br />

del Sacro Romano Impero. Per non dire della camera imperiale. Le reliquie.<br />

Le sete preziose. I manoscritti. I miei soldati arabi, pugliesi, tedeschi<br />

trucidati con rabbia. E le mie suonatrici arabe, le danzatrici, i compositori<br />

di musiche, i poeti. Se Cremona non mi avesse aperto le porte,<br />

adesso non sarei qui nemmeno io. Da allora ho dovuto imparare a proteggere<br />

la mia vita.<br />

E anche il mio sangue. Tra figli e figlie, legittimi o nati da amori di<br />

fuoco, la mia discendenza è come quella di Abramo. Occupa tutta la<br />

terra. Prima di partire per questa maledetta caccia oltre il Fortore ho<br />

scritto una lettera in greco a mio genero, l’imperatore di Nicea. Per evitare<br />

malintesi è meglio scrivere nella lingua degli altri. Costanza ha i<br />

suoi problemi, povera figlia mia, con quella marchesa Fricka che le<br />

ruba il letto e la confidenza di suo marito. Ma in fondo non è importante.<br />

Basta che la marchesa non dia un figlio all’imperatore Giovanni.<br />

Ne so qualcosa delle dame di compagnia delle mie mogli. Un giorno<br />

mi dovrò pentire, credo.<br />

127


Il punto è che Giovanni sta tessendo rapporti per riprendersi<br />

Costantinopoli. Ma si muove male, è ingenuo e prende iniziative<br />

avventate. Non ha idea delle persone né dei rapporti di forza. Ho dovuto<br />

bloccare la sua ambasceria al pontefice. Gli ho scritto, come un<br />

padre al figliolo, anche se ha la mia età. Io nelle questioni d’Oriente<br />

non prenderei iniziative senza il suo consiglio. Faccia lo stesso lui in<br />

Occidente. Chi conosce meglio di me i Paesi e i regnanti? A partire dai<br />

papi. Ho dovuto essere duro con lui: gli ho anche detto che i papi non<br />

sono arcivescovi di Cristo ma lupi rapaci, belve inferocite che divorano<br />

il gregge di Cristo. “Ouk archiereis allà lykoi àrpaghes, theres agrioi<br />

kathestìontes ton laòn tou Christou”.<br />

Ma non c’è da farsi illusioni: i Selgiuchidi di Rum ormai controllano<br />

l’Anatolia, e piano piano travolgeranno tutto. Il sultano di Konia ha<br />

dietro di sé, dai monti dell’Altai fino alla pianura di Nicea, tutta una<br />

marea che preme verso la Città, come la chiamano loro: Sten polin,<br />

Stan bul. Gli avidi crociati e i papi fanatici hanno distrutto la forza di<br />

Bisanzio, e prima o poi Costantinopoli sarà la capitale dei Turchi. E<br />

credo proprio che non si fermeranno lì. Avrei proprio soddisfazione se<br />

un giorno che non vedrò arrivassero alle mura degli Asburgo.<br />

“E l’ora tardi mi pare che sia”<br />

Già mi sento poco tranquillo in questo castelletto. Due stanze lunghe al<br />

piano terreno. Non mi sembra di esserci mai stato. Volevo ritornare a<br />

Lucera dai miei medici arabi. Ma Pietro Ruffo non ha voluto.<br />

Nemmeno Giovanni da Procida. Ero prosciugato, e il fuoco stava prendendo<br />

il sopravvento sugli altri temperamenti corporali. Adesso mi<br />

pare che la febbre stia tornando. Questo dolore di ventre che non mi<br />

lascia. Almeno ci fosse ancora Michele Scoto, mago naturale. Mi dava<br />

energia con i suoi filtri. Mi chiamava malleus orbis, il martello del<br />

mondo! Ma nella sua Salerno dicono contra vim mortis non est remedium<br />

in hortis. Non c’è la pianta che vinca la morte. Morirai sub flore,<br />

la profezia di Michele. E tutta la mia vita è stata un gioco nell’evitare<br />

le città denominate con un fiore, in Italia e in Germania. Firenze,<br />

Fiorenzuola, Rosenheim, Blumenthal, Montefiore; anche l’abbazia di<br />

128


San Giovanni in Fiore del buon abate Gioachino… che non mi ama<br />

molto, dicono. Peccato, eravamo fatti per intenderci.<br />

Dai vetri delle finestre vedo Lucera verso sud. Anzi tutta la Capitanata.<br />

Siamo su un monte? Io mi ricordo una strada in salita, ieri; mi sentivo<br />

scivolare dalla lettiga. Riccardo di Montenegro mi teneva. Siamo entrati<br />

per una grande porta. Tutta la gente nella platea magna, anche se era<br />

notte. Bertoldo di Hohenburg faceva largo. Davanti alla chiesa di San<br />

Michele un vescovo mi ha benedetto. Aveva una pisside incastonata di<br />

venturine azzurre. Forse orientale. Magari è stato un sogno. Adesso<br />

sono qui, e non vedo l’ora di andarmene. Appena recupero le forze, a<br />

Lucera dai miei. O magari al Pantano di Foggia, per rimettermi in salute<br />

con le acque fresche dei giardini e con qualche partita di caccia.<br />

Saranno arrivati i leopardi da Malta?<br />

“Che nulla medicina me non vale”<br />

Mi sento perdere, ogni tanto. Non era mai successo. La testa è come si<br />

svuotasse di pensieri. Un medico non c’è? A Salerno ho la scuola<br />

migliore del mondo, e nessuno dei professori è qui per curare<br />

l’Imperatore. Eppure ho fatto molto per loro. Gli ho creato un mercato<br />

captivus: chi esercita la medicina nel Regno senza essere laureato a<br />

Salerno perde tutti i suoi averi e un anno di vita.<br />

Ma Salerno non è il massimo della medicina moderna, devo ammetterlo.<br />

Esisteva prima di me. La mia università è quella di Napoli. Greci,<br />

Arabi, Ebrei, Tedeschi, Italiani, le migliori intelligenze riunite per creare<br />

il mio Studium. Da un quarto di secolo è il più importante del mondo.<br />

Mi piacerebbe che portasse il mio nome nei secoli a venire. Ho creato<br />

tutte le condizioni per attrarre i maestri e gli scolari. Ho proibito di<br />

andare a studiare all’estero: non amo la fuga dei cervelli. Napoli poi è<br />

bella e dolce di suo: me lo diceva anche il figlio di Landolfo d’Aquino,<br />

quel giovane frate Tomaso predicatore che ha studiato lì filosofia prima<br />

di trasferirsi a Parigi per la teologia. Chissà se è sempre così grasso? A<br />

Napoli gli hanno incavato un tavolo perché non arrivava a leggere bene<br />

i libri.<br />

129


Mentre Bologna erige mausolei ai suoi professori di diritto, Napoli e<br />

Salerno studiano la natura.<br />

E la Sorbona, dove passano la vita in dibattiti senza senso? No, un<br />

senso ce l’hanno, ma è sempre diverso da quello che appare. E’ politica,<br />

soprattutto. Quel cancelliere dell’Università, Eudes di Châteauroux,<br />

è riuscito a bruciare il Talmud perché contiene falsità filosofiche.<br />

Bruciare un libro sacro è sempre blasfemìa! O quel chierico che hanno<br />

evirato perché amava una scolara. Ha scritto una confessione, ‘Historia<br />

calamitatum’. Ma Abelardo è un un intellettuale, un arrivista, un uomo<br />

freddo. C’è più calore nelle canzonette di mio padre. “Wol hoeher dannez<br />

rîche / bin ich al die zît: ero così ricco al tempo / contento come se<br />

fossi guidato da Dio / lei era vicina al mio cuore…”. E non parlava<br />

certo della mamma.<br />

Anche io ho composto qualche poesia. Misura, providenzia e meritanza<br />

/ fanno esser l’uomo sagio e conoscente. Più che altro per giocare<br />

con Giacomo da Lentini. Non passerò alla storia per i miei versi:<br />

Giacomo è molto più poeta di me. Che belle le riunioni nella sala ottagonale<br />

di Enna. Ognuno declamava le sue poesie più recenti. Guido<br />

delle Colonne, Odo, Giacomino Pugliese. Piero della Vigna cantava<br />

spesso un presentimento di morte. Si sentiva braccato. Cielo d’Alcamo<br />

era divertente con i suoi doppi sensi. Scriveva in siciliano e toscano.<br />

“Donna mi so’ di pèrperi/ d’auro massamotino”… Nessuno di loro<br />

sapeva leggere l’arabo, nemmeno Manfredi Maletta, il fratello di<br />

Bianca, altrimenti si sarebbero cantati i vecchi poeti siciliani come ibn<br />

Hamdis.<br />

“Poi tanta caunoscenza”<br />

Dicono che io abbia l’ossessione dell’ottagono. Tra la perfezione del<br />

cerchio e la rigidità del quadrato, è l’unica forma di spazio in cui io mi<br />

senta sicuro. L’ho capito a Aquisgrana durante la mia incoronazione<br />

nella Cappella Palatina. A Gerusalemme, nella Moschea della Roccia,<br />

ho avuto la stessa sensazione. Anche nel palazzo di Lucera, dove ho<br />

cercato di circoscrivere il cortile ottagonale con la base quadrata del-<br />

130


l’edificio. A Castel del Monte ho superato me stesso, e forse mi sono<br />

liberato dal fantasma ottagonale. Ora vorrei discutere con Leonardo da<br />

Pisa sulle virtù magiche del pentagono, del numero d’oro, della proporzione<br />

divina. La grande architettura algebrica del cosmo. La lettera<br />

greca pi, la phi. Ma quel Fibonacci è sempre da qualche altra parte,<br />

generalmente in Ifriqiya. Fa bene. O forse è andato a contemplare le<br />

geometrie celesti. E’ parecchio tempo che non sento parlare di lui.<br />

A volte li capisco, gli intellettuali. Sono avari, ma il sapere è la loro ricchezza:<br />

più ne distribuisci meno ha valore. Michele Scoto recitava il<br />

giuramento di Ippocrate: non rivelare ai profani i segreti della medicina.<br />

La Santa Inquisizione gli potrebbe far confessare un’eresia ma non<br />

una ricetta. E invece la sapienza si accresce soltanto con lo scambio.<br />

Perfino il sommo Aristotele scrive delle sciocchezze sul volo degli<br />

uccelli. Bastava che ne parlasse con un cacciatore, le avrebbe evitate.<br />

La gente si diverte quando sfila il mio zoo. Applaude gli elefanti, i<br />

leoni, le scimmie, e soprattutto la giraffa che mi ha regalato al-Malik<br />

al-Khamil. Io preferisco i leopardi per cacciare, e i dromedari per i<br />

viaggi e i trasporti. Mi hanno detto che in Asia centrale ci sono dromedari<br />

con due gobbe. Sarà una delle solite leggende sui luoghi fantastici.<br />

Ma soprattutto io mi occupo degli uccelli predatori; ho scoperto<br />

come accoppiarli per migliorare le loro virtù. Shahin è stato il mio<br />

capolavoro nel creare falconi. Una pazienza da agostiniano di Brünn mi<br />

ci è voluta! Mi viene da sorridere quando leggo Pietro da Eboli, che<br />

profetizza alla mia nascita la pace tra i rapaci, i predatori e il resto del<br />

mondo animale. Un biografo di papa Gregorio mi ha descritto così: non<br />

armis decoratus et legibus, sed canibus et avium garrulitate munitus,<br />

in capturam avium sollicitabat aquilas triumphales. I cani e gli uccelli<br />

al posto delle armi e delle leggi, cacciatore più che regnante, e le aquile<br />

dello stemma imperiale usate per catturare gli uccelli. Non è generoso,<br />

ma nemmeno del tutto falso.<br />

Studiare è un’esperienza estetica, per me: come aspirare un profumo.<br />

Anche adesso, quel poco tempo che riesco a strappare al lavoro non<br />

sopporto di sprecarlo nell’ozio. L’ho fatto scrivere nella prefazione al<br />

‘De arte venandi cum avibus’ che regalerò a Manfredi: “L’Autore è vir<br />

131


inquisitor et sapientiae amator, il divo augusto Federico eccetera”. La<br />

conoscenza ringiovanisce la mente e ci rende liberi. Un frate di quel<br />

nuovo tribunale mi ha detto che gli uomini hanno bisogno di essere<br />

tenuti schiavi per essere felici. Lasciarli liberi, sostiene l’Inquisitore, è<br />

pura crudeltà.<br />

“E son lontano da li miei paesi”<br />

Le stelle mi cadono addosso tutte insieme. Una febbre così non l’ho<br />

avuta nemmeno quando partii per Oltremare. Sento la memoria come<br />

una tela stracciata. Non ho niente da opporre al nulla se non i miei<br />

ricordi. Cinquantasei anni ho vissuto finora. Mia madre mi raccontava<br />

che sono nato sotto una tenda, nella piazza di Iesi. Tra due settimane è<br />

Natale, il mio compleanno. Tutti hanno assistito all’evento, diceva. E<br />

non è bastato, povera Costanza, partorirmi all’aperto in pieno inverno.<br />

E’ corsa voce che fosse troppo vecchia per concepire, aveva quarantadue<br />

anni e mio padre poco più di trenta. Dicono che mi avessero comprato<br />

da un macellaio. L’ho scritto a papa Gregorio: io e mia madre<br />

fummo come Maria e Gesù a Betlemme, poveri, minacciati e congelati.<br />

Adesso a Gerusalemme sono il re perché ho sposato la regina,<br />

Jolanda di Brienne, e ho generato il mio successore, Corrado.<br />

Gerusalemme, città dalle mille meraviglie! Walther von der<br />

Vogelweide, già molto anziano, ci incitava da Würzburg con le sue canzoni:<br />

Owe war sint verswunden alliu miniu jar!<br />

“Attenti, cavalieri, meditate; questo è il vostro onere:<br />

indossare l’elmo scintillante e la cotta di maglia pesante.<br />

A voi il resistente scudo lungo, la spada consacrata.<br />

Vorrei esser degno di una ricompensa benedetta di tal genere!<br />

Che ricchezze allora, io povero, potrei accumulare<br />

(non intendo oro o argento o qualche vasto possedimento)!<br />

Ma una eterna corona di gloria potrebbe brillare sulla mia fronte.<br />

Qualunque soldato semplice potrà vincerla con la sua lancia.<br />

132


E potessi attraversare il mare, se ciò potesse avverarsi,<br />

il mio canto sarebbe di gioia, mai più di dolore”.<br />

Il Tempio di Salomone, la Cupola della Roccia, i luoghi santi della vita<br />

del Nazareno e della sua passione. Non dimentico mai al-Malik al-<br />

Khamil, il re di Babilonia. Uomo illuminato ma ospite esagerato! Io<br />

sognavo di minareti, di muezzin ciechi, e la prima stella del vespero, e<br />

la falce di luna… Ma lui, per non disturbarmi, ha spento per una notte<br />

il richiamo alla preghiera. Mi ha rubato un’emozione. Gliel’ho dovuto<br />

dire, la mattina. “Sentire l’adhan era uno dei miei scopi. Avete fatto<br />

male ad alterare il vostro rito e la vostra legge. Se voi foste presso di<br />

me, nel mio paese, sospenderei forse il suono delle campane per causa<br />

vostra?”<br />

Davvero, penso che nel futuro i pellegrini di Gerusalemme saranno<br />

emozionati anche dall’appello che viene dai minareti della santa città.<br />

E quelli di Costantinopoli?<br />

Abbiamo firmato il trattato di pace, e chiuso con queste folli spedizioni<br />

oltremare! Così credevo. Ho ottenuto tutto quello per cui ci si stava<br />

battendo da quando Bernardo di Chiaravalle e quel folle Pietro<br />

l’Eremita avevano montato l’opinione pubblica. Come nascono dal<br />

nulla le idee perverse! Un manigoldo comincia a gridare, e la gente si<br />

lascia prendere dall’emozione, si arrende al delirio, muore la ragione.<br />

Qualche volta ho pensato che l’estremismo sia una malattia infantile: si<br />

propaga come la peste, e ancora non hanno trovato rimedio.<br />

“Rimembranza mi serra in suo domìno”<br />

Il Santo Sepolcro è stato onorato dai saraceni e profanato dai cristiani.<br />

Questa è la verità. Abbiamo finto di credere che la liberazione fosse un<br />

obbligo per ciascun credente. E a maggior ragione per un regnante.<br />

Bernardo di Chiaravalle, Pietro l’Eremita, papa Urbano, e ora questo<br />

fanatico Eudes di Châteauroux che è stato creato cardinale di Frascati.<br />

Dicono che abbia scritto centinaia di sermoni per incitare a prendere la<br />

croce. Anche a Gerusalemme ha fatto i capricci. Li ha costretti a fon-<br />

133


dere le monete d’oro e d’argento battute con l’iscrizione in alfabeto<br />

cufico. Egli credeva che portassero il nome del Profeta o qualche eulogia<br />

islamica. Invece, me le ricordo bene, oltre alla croce con il fiordaliso<br />

c’era scritto ‘al-Ab, al-Bin wa al-Rukh al-Quds’: il segno della<br />

croce. Hanno distrutto il segno della croce solo perché era scritto in<br />

arabo! Quello sciocco re Luigi si è preso la peste per seguire nel delta<br />

del Nilo i fantasmi di Eudes e dei suoi papi contorti.<br />

Io invece ho vinto al gioco della trasparenza. Ero solo e scomunicato.<br />

Non avevo una force de frappe per imporre condizioni. Nell’aprire i<br />

negoziati ho detto: ‘Non ho alcuna mira effettiva su Gerusalemme né<br />

su altra terra. Devo solo tutelare il mio onore presso la Cristianità’. Al-<br />

Malik al-Khamil fu ragionevole, e concludemmo presto l’accordo.<br />

Credo che avesse avuto qualche influenza su di lui l’incontro con il<br />

frate di Assisi, anni prima.<br />

Ho raccontato ad al-Malik che io e il frate siamo stati battezzati nello<br />

stesso fonte ad Assisi, e lui è parso impressionato. Ma Francesco aveva<br />

osato sfidare i teologi dell’Islam a una ordalia del fuoco. Una proposta<br />

un po’ barbarica, bisogna ammettere. Non so se frate Elia fosse d’accordo,<br />

glielo chiederò. Ora è scomunicato come me per l’affetto che ci<br />

lega. Il saggio al-Farasi per primo si era eclissato. Non per paura, se lo<br />

conosco bene, ma per educazione.<br />

Scrissi subito a mio cognato Enrico, in Inghilterra: “E’ un miracolo!<br />

Senza ricorrere alle armi ho portato a compimento un’impresa che nel<br />

passato tutti i capi e governanti del mondo non erano stati in grado di<br />

compiere. Né con la forza, per quanti eserciti venissero coalizzati, né<br />

per minaccia”. La città di Gerusalemme con il titolo regale. Betlemme,<br />

Nazareth, difesa per i pellegrini e garanzie per i governanti europei: il<br />

re, il principe di Antiochia, i conti di Edessa e di Tripoli. Là dove regnava<br />

Melisenda, amata dal sire di Blaia, Jaufré Rudel.<br />

Il Santo Sepolcro di nuovo in mani cristiane. Come al tempo di<br />

Goffredo di Buglione, prima della riconquista di Salah ed-Din il curdo.<br />

Ho attraversato la piazza quadrata di fronte alla basilica con le vesti<br />

imperiali. Mi sono inginocchiato davanti alla pietra unta. L’ho baciata.<br />

134


Che effetto quel passaggio freddo viscido sulle labbra. Il luogo della<br />

Santa Croce, proprio come avevo letto nel diario di quella antica viaggiatrice<br />

spagnola, Eteria.<br />

E il mausoleo circolare dell’imperatrice Elena madre di Costantino: l’anello<br />

di pietra che incastona la gemma più preziosa della cristianità. Il<br />

Sepolcro di Cristo, ombelico della terra, esplosione di luce della resurrezione.<br />

Ero circondato di soldati con le aquile imperiali nere sugli<br />

scudi e da cavalieri teutonici con le vesti bianche e le croci nere. Il Gran<br />

Maestro Hermann von Salza era con me. Ho preso la corona con le mie<br />

mani e me la sono posta sul capo. Un pensiero mi ha traversato rapido<br />

la mente: è Dio che me l’ha data; guai a chi la minaccia. Cristo stesso<br />

mi ha incoronato, e verso di Lui ho la responsabilità di guidare il popolo<br />

cristiano. Credo che il nonno Ruggero abbia avuto la stessa esperienza<br />

interiore. Altri forse l’avranno. A Monreale il nonno si è fatto<br />

raffigurare incoronato da Gesù Cristo, che peraltro ha la sua stessa faccia.<br />

Il Sepolcro in mani cristiane. Subito il patriarca Geroldo ha levato gli<br />

scudi. Razza di vipera, sepolcro imbiancato. Come il suo papa. Hanno<br />

fatto una campagna diffamatoria. Una circolare velenosa a tutte le cancellerie<br />

cristiane. Hanno detto che il Sepolcro era stato acquisito con un<br />

tratto d’inchiostro invece che con un fiume di sangue. Il mio sangue,<br />

preferibilmente. La crociata degli scomunicati, l’hanno chiamata; finta<br />

pacificazione. Io avevo risolto il problema e loro, il papa e la chiesa, ne<br />

erano crucciosi a morte.<br />

L’ho scritto: ‘Quando l’Impero romano, destinato a difesa della<br />

Cristianità, è assalito da nemici e da infedeli, l’imperatore brandisce la<br />

spada, conoscendo i doveri che il suo ufficio e il suo onore gli impongono.<br />

Ma che c’è più da fare e da sperare se è proprio il padre di tutti i<br />

Cristiani, il successore dell’Apostolo Pietro, il vicario di Cristo, quegli<br />

che spinge i nemici contro di noi?”.<br />

E adesso quell’altro folle francese, re Luigi, si è impantanano nel delta<br />

del Nilo. Con il Legato papale, Eudes di Châteauroux, che passa la vita<br />

a proclamare crociate. L’avevo messo in guardia re Luigi, ma la follia<br />

135


eligiosa gli porterà via il trono, la vita. Poi lo faranno santo.<br />

A loro non interessa il Santo Sepolcro. Io lo avevo liberato, loro non<br />

l’hanno voluto. Hanno bisogno che rimanga in mano degli infedeli per<br />

ricattare la cristianità.<br />

“Lo meo coraggio non diparto mai”<br />

Papa Innocenzo, anche lui. Giovane, longobardo, non ho mai capito se,<br />

oltre a servirsi di me, mi fosse anche affezionato in qualche modo. Era<br />

il mio tutore. Anzi il padre adottivo, secondo la mia mamma. Ben retribuito,<br />

del resto, in denaro e in feudi. Il nostro è stato un rapporto tutto<br />

epistolare: ci siamo visti una volta sola, nel 1212, mentre da Messina<br />

andavo a reclamare la corona di Germania. Una volta mi ha scritto una<br />

lettera molto bella: anche se ero un orfano infelice, nutrito di latte e<br />

assenzio, avevo come padre spirituale lo stesso papa, e come madre la<br />

Chiesa. Innocenzo è stato bravo a difendermi dai baroni e dai grandi<br />

dell’Impero. Da Ottone di Brunswick, che pure ha incoronato imperatore<br />

prima di me. Da quell’orribile Markwald, che non per niente era<br />

amico di mio padre, complice delle sue crudeltà.<br />

Io ero felice quando riuscivo a scappare dal Palazzo e a vagabondare<br />

per le strade di Palermo. C’era sempre qualche mamma pietosa che mi<br />

dava da mangiare. A volte potevo star fuori anche delle settimane.<br />

Almeno così dicono: io ho rimosso molti ricordi della mia infanzia.<br />

Innocenzo mi ha incoronato re di Sicilia, duca di Apulia, principe di<br />

Capua. Mi ha dato una famiglia facendomi sposare Costanza. Solo<br />

dieci anni più anziana di me.<br />

Il nome Costanza è un’ossessione di famiglia. Madre, moglie, sorella.<br />

Anche mia figlia piccola. A Nicea però è stata ribattezzata Anna. Mi<br />

hanno mandato il testo della canzone di nozze. L’edera si avvinghia al<br />

bel cipresso / l’edera è il mio sovrano / cipresso l’imperatrice. E’ di un<br />

certo Nicola. Non mi pare un granché. L’imperatore Giovanni la saprà<br />

amare quanto io ho amato la sua mamma, l’imperatrice Bianca Lancia<br />

di Agliano? Almeno ha con sé i nonni e gli zii a Nicea. La aiuteranno a<br />

sopportare che la sua ancella Fricka indossi addirittura i calzari di porpora.<br />

136


Forse è mia moglie Jolanda che si vendica. Aveva la stessa età, tredici<br />

anni, quando la sposai e m’innamorai della sua accompagnatrice.<br />

Anais. Spero che Costanza, anzi Anna, sappia evitare lo scontro.<br />

Diventerà una buona diplomatica come me? No, non riesco a seguire il<br />

filo dei ricordi. Il dolore di ventre mi sale sù a ondate e mi stringe le<br />

tempie. Sarà dura uscire da questa affezione. Dovrei anche mangiare<br />

qualcosa, ma non ci posso nemmeno pensare. Forse qualche frutto.<br />

Delle pere.<br />

Sì, Costanza è un nome fausto per me. Anche la città di Costanza, sul<br />

lago: è stata la chiave della mia vita. Era il 1212. Arrivammo di notte,<br />

come un piccolo gruppo di avventurieri meridionali. In palio c’era la<br />

corona di Germania. Ottone di Brunswick era già stato incoronato<br />

imperatore da Innocenzo. Non voleva che la corona imperiale si congiungesse<br />

con quella di Sicilia. In un certo senso aveva ragione Walther<br />

von der Vogelweide: il papa aveva messo due tedeschi sotto la stessa<br />

corona. Bisogna aver rispetto per i poeti. Ho offerto a Walther un feudo,<br />

non a Bolzano ma a Würzburg. Così i suoi ultimi canti saranno più<br />

sereni.<br />

Gli Elettori erano riuniti lì, aspettando Ottone per offrirgli il trono di<br />

Germania. Ma non avevano fatto i conti con noi meridionali. Io avevo<br />

creato re di Sicilia mio figlio Enrico appena nato, quindi Innocenzo non<br />

aveva più paura. Poi c’era Berardo Castacca, l’arcivescovo di Palermo.<br />

Ah, forse è un sogno, ma mi è sembrato di vederlo qui, ieri notte.<br />

Povero vecchio. Aveva una brutta cera, sembrava portare notizie sconvolgenti.<br />

Mi ha rammentato anche Piero della Vigna, ma non ho capito.<br />

Credevo che fosse a San Miniato in Toscana. Mi viene in mente la<br />

canzone che scrisse quando morì l’imperatrice Isabella: Ingressa m’è la<br />

morte / per afretosa sorte/ non aspettando fine naturale…<br />

“Pur aspettando bon tempo e stagione”<br />

Grande arcivescovo Castacca! Si fece aprire le porte di Costanza di<br />

notte, presentandosi come legato pontificio. Giurò che re Ottone era<br />

stato scomunicato da papa Innocenzo. E la città di Costanza mi accla-<br />

137


mò re! Ottone arrivò più tardi… troppo tardi! Poi a Worms, dove hanno<br />

appena finito di abbellire la loro fantastica cattedrale. E a Francoforte<br />

– anche allora era dicembre – fui eletto ‘Re dei Romani’ nel Römer,<br />

come in antico. Ottone non cedeva le insegne imperiali, erano in mano<br />

sua. Non lo amavano gli Elettori perché era avido e gretto e contendeva<br />

loro i privilegi e i territori. Io invece lasciai nelle loro mani anche il<br />

demanio imperiale: che m’importava dei feudatari, la mia vita era altrove.<br />

Mi bastava che eleggessero mio figlio Enrico Re dei Romani al<br />

posto mio. Così l’Impero sarebbe stato di nuovo dal Mare del Nord al<br />

Mediterraneo, fino alla Terrasanta.<br />

Ci volle la domenica di Bouvines per strappare a Ottone almeno le<br />

aquile imperiali dorate. Era il luglio 1214. Ero io con Filippo Augusto<br />

di Francia contro Ottone con Ferrante di Fiandra. Chi ci aveva portati<br />

a darci battaglia in quel posto delle Fiandre? Papa Innocenzo, naturalmente.<br />

Io e Filippo Augusto, con la sua orifiamma al vento e lo stendardo<br />

con l’aquila imperiale, avemmo vittoria. Ottone fu deposto dal<br />

papa. Onestamente non è che io abbia fatto molto, in quella giornata.<br />

però credo che sarà riconosciuta come una data importante, nel futuro.<br />

E’ da allora che in Germania mi chiamano l’imperatore dei preti. Rex<br />

presbyterorum, un insulto che Ottone ha lasciato dietro di sé, da perdente.<br />

Così come ha tenuto in ostaggio le insegne imperiali sper, kriuz<br />

und krone – la lancia, la croce, la corona – fin dopo la morte.<br />

E poi, sempre con Berardo Castacca, ad Aquisgrana, sulla tomba di<br />

Carlo Magno: finalmente l’incoronazione. Chissà se Berardo ha mai<br />

saputo di me e di Manna, la sua bella nipote? Mi ricordo bene la cappella<br />

imperiale, altissima, circolare, piena di reliquiari d’oro e di smalti<br />

mosani e limosini. I battenti di bronzo a forma di leone.<br />

Quell’immenso lampadario che scendeva dalla cupola e raffigurava le<br />

mura di Gerusalemme celeste. Grande quanto il perimetro della chiesa.<br />

Lo guardavo fisso mentre giuravo di spendere la mia vita per riconquistare<br />

la Gerusalemme terrena, il Sepolcro. E sognavo davvero le porte<br />

immortali e la moschea ottagonale costruita da Omar, il secondo dei<br />

Califfi ben guidati. Un ottagono perfetto. Nel punto in cui Abramo<br />

stava sacrificando Isacco. Sulla roccia da cui il Profeta spiccò il volo<br />

sul buraq. Un ottagono!<br />

138


“Penitenza non aggio fatta niente”<br />

Mi gira la testa, è tremendo, anche stando qui fermo. Tutto il mondo mi<br />

ruota davanti agli occhi. Ho voglia di vomitare in continuazione. Sento<br />

il sudore scorrere. Avvolgetemi asciugamani freddi attorno alla fronte.<br />

Un grande vantaggio dell’Islam è che le comunità sono guidate dai<br />

discendenti del Profeta. Si avvolgono il turbante verde. Nessuno contesta<br />

la loro autorità. I nostri papi si scelgono per rapporti di forza tra<br />

le nazioni. Per questo poi rosicchiano i poteri dei regnanti. Scatenano<br />

contro di loro l’angoscia dei credenti. Tre volte sono stato scomunicato.<br />

Perfino papa Gregorio mi ha ricomunicato appena ha avuto bisogno<br />

di me. Il popolo romano gli si era ribellato e lo assediava in Castel<br />

Sant’Angelo. Adesso sono scomunicato di nuovo. Quindi, se dovessi<br />

morire… Che pensiero! Non mi trovo sub flore. Già, chissà come si<br />

chiama questo castello? Non riconosco nessuna delle mie case. Ho solo<br />

intravisto una grande tavola di pietra mentre mi portavano qui ieri<br />

notte. O era il giorno prima? Sembrava una mensa da altare.<br />

Il peggiore dei miei papi è stato Gregorio nono. Era nipote di Papa<br />

Innocenzo, quindi un mio cugino spirituale. Innocenzo lo usava per<br />

fare i lavori sporchi. La sale besogne, diceva Filippo Augusto. Dirty<br />

job, secondo re Giovanni in Inghilterra. Ora si è messo in proprio a cercare<br />

il bene attraverso il male, come dice lui. Potrebbe essere il motto<br />

del suo Tribunale della Santa Inquisizione.<br />

Portare il purgatorio sulla terra, ecco il sogno demente di Gregorio. Era<br />

perfino patetico con la sua ossessione della scomunica. Non capiva che<br />

l’arma spirituale funziona se non la si adopera. Oppure con la certezza<br />

del risultato. Così aveva fatto un secolo fa l’altro Gregorio, Ildebrando<br />

di Soana, contro Enrico il Salico. L’aveva obbligato a Canossa, a supplicare<br />

perdono, in ginocchio nella neve. Vorrei avere anche io un mucchio<br />

di neve per rotolarmi sopra. Per spegnere questo fuoco nel ventre.<br />

Mi attacco a ogni pensiero per non lasciarmi andare al dolore, all’assopimento<br />

mortale che sento sopra di me.<br />

Non rinfaccio a Gregorio la stupidità, la limitatezza di vedute. E’ la sua<br />

139


malafede che non posso perdonare. Neanche fossi sul punto di morte.<br />

O forse si deve perdonare ed essere perdonati per accedere alla salvezza?<br />

Ne parlerò a Berardo Castacca, quando sarò guarito. Andremo<br />

insieme a Palermo. Ho voglia di rivedere i miei giardini, gli aranceti.<br />

Le fontane della Zisa. La cattedrale di Monreale.<br />

“Ca, ss’io fossi oltramare”<br />

Gregorio voleva che andassi Oltremare e che morissi là. Non si accontentava<br />

di niente di meno: mano libera per impadronirsi del mio regno<br />

con quei suoi finti crociati, i clavigeri. Era il 1228. A Brindisi ci toccò<br />

imbarcarci. C’era una pestilenza fra le truppe, e anche io ne fui colpito.<br />

Ma Gregorio incitava, ricattava. Sciogliemmo le vele, e la situazione<br />

a bordo divenne subito drammatica. Sarà stato l’effetto della scomunica?<br />

Decisi di riprendere terra a Otranto, e fu un diluvio di maledizioni<br />

feroci dal Padre dei credenti. In estate, come Dio volle, si riuscì a<br />

partire. Mi ero curato a Pozzuoli con le acque che sgorgano dal cuore<br />

caldo della terra. Oppure dall’inferno, diceva Piero della Vigna, il mio<br />

alter ego sarcastico.<br />

Avrei bisogno adesso di farmi massaggiare, con l’odore dello zolfo così<br />

acuto che ti sembra di non respirare. Mi ha sempre angosciato la sensazione<br />

del respiro che manca. La parte ufficiale del mio passaggio<br />

oltremare la conoscono tutti. Ma naturalmente non si può andare in una<br />

terra di tanta magia soltanto per ragioni politiche. Ero curioso delle<br />

architetture dei Selgiuchidi, che hanno vissuto nel centro dell’Asia. Gli<br />

atabeg di Mosul, che ci avevano tolto Edessa con la spettacolosa vasca<br />

dei pesci biblici. Il cavalleresco Zengi. I loro castelli, i mausolei, i<br />

minareti, gli spazi per la preghiera.<br />

E soprattutto i castelli di delizia nel deserto oltre il Giordano. Li avevano<br />

costruiti i primi governanti islamici di Damasco, gli Omayadi.<br />

Adesso i loro discendenti regnano a Cordoba. Che meraviglie di giardini,<br />

di hammam, di condotte d’acqua, di padiglioni per la caccia col<br />

falcone. Gioia pura per ogni senso, e contemplazione di bellezza per<br />

l’intelletto: l’intimo disegno delle cose. Avrei voluto vivere lì per sem-<br />

140


pre. Al ritorno ho cercato di ricreare quelle atmosfere. Il mio palatium<br />

di Foggia: ut sit Fogia regalis civitas inclita imperialis. Castel del<br />

Monte, Lucera, Ordona, Deliceto. Anche a Fiorentino ho fatto costruire<br />

un castello, ma non ci sono mai voluto andare. Troppo sub flore, ha<br />

sempre detto Michele Scoto.<br />

Dicono che in Oltremare abbia conosciuto gli Assassini, forse il Grande<br />

Vecchio in persona, ad Alamut. O addirittura il Prete Gianni; Gog e<br />

Magog i mostri della Bibbia; i Magi persiani; i popoli deformi e misteriosi.<br />

Lo dicono con cattiveria, e non sanno quanto mi sarebbe piaciuto<br />

davvero inoltrarmi verso il sorgere del sole, e magari perdermi lì.<br />

Come il grande Alessandro. Quando penso a quei tempi mi sento come<br />

un espatriato che hanno costretto a tornare in patria. Certo che sono<br />

rientrato, mentre papa Gregorio stava invadendo il mio regno e seduceva<br />

le città perché mi impedissero l’accesso. Perfino Foggia! Ma lo<br />

sapevo, e deviando per Gerba ho imbarcato molti guerrieri saraceni.<br />

Assieme a quelli di Lucera, adesso l’ordine regna nella Giudicatura di<br />

Capitanata.<br />

“In vostra spera vivo, donna mia”<br />

Ma guarda, Manfredi! E’ lui, vero? E’ venuto il mio ragazzo. Bello<br />

come la sua mamma. Forte come me. I suoi capelli… L’andamento<br />

fiero… Sì, a Gioia del Colle aveva ragione Berardo Castacca: se non<br />

sposi Bianca lei morirà come amante di Federico, madre di figli senza<br />

diritti. E così lei è stata per qualche giorno, Bianca Lancia di Agliano,<br />

imperatrice del Sacro Romano Impero. La sola donna amata da<br />

Federico. La vedo ancora nel castello delle Lanze, quando per averla<br />

finsi di essere vedovo di Isabella d’Inghilterra. E in un certo senso lo<br />

ero: solo per rispetto a papa Gregorio l’avevo sposata; era il 1235 e re<br />

Haakon mi aveva mandato dalla Norvegia un grande orso bianco come<br />

la neve. Spero che a Palermo non abbia sofferto il clima. Ho fatto dipingere<br />

il ritratto di Isabella in una chiesa vicino a Melfi, sulla roccia,<br />

quando è morta. È successo pochi anni fa, a Foggia, nel Palazzo.<br />

E prima di lei, per obbedienza a papa Onorio, mi ero fatto genero del<br />

141


e di Gerusalemme. Jolanda, una bambina! Aveva 13 anni, e poi era<br />

impacciata, bruttina, buona solo per la corona regale che portava con<br />

sé. Sua cugina Anais la accompagnava alla cerimonia. Poteva bastare il<br />

nome per accendere la fantasia; e lei assomigliava al suo nome. Anais<br />

senza pudore, pronta a lasciar cadere ogni velo. Scrissi una canzone per<br />

lei. Il Fiore di Siria, quella c’à in pregione lo mio core! Non fu una cosa<br />

onorevole lasciare il letto nuziale di Jolanda e passare la prima notte<br />

con Anais. Re Giovanni mi chiamò ‘fis d’un bechè’, figlio di macellaio,<br />

e protestò ufficialmente presso il papa. Ne ebbe in cambio dei benefici<br />

alla corte romana. Qualche volta riuscii comunque ad avvicinarmi a<br />

Jolanda. Nacque Corrado, erede al trono di Gerusalemme. Anche<br />

Margherita. Poi mi lasciò vedovo per la seconda volta. Aveva 16 anni.<br />

Non resse alle sofferenze di un altro parto.<br />

Vieni, Manfredi, avvicinati a tuo padre. Hanno ragione, mi assomiglia<br />

ma è più bello di me. Un vedovo recidivo sono. La prima volta era proprio<br />

scritto nella natura: io avevo 15 anni e mia moglie forse trenta di<br />

più. Il mio padre adottivo, papa Innocenzo, pensò di domare i miei spiriti<br />

inquieti mettendomi accanto una donna matura, autorevole, religiosa.<br />

Un’altra mamma, ho spesso pensato. Con lo stesso nome: Costanza<br />

d’Aragona! Sono trent’anni ormai che non c’è più.<br />

La ricordo quando indossava il camaleuco nelle cerimonie pubbliche.<br />

La corona intessuta con gemme, perle, bellissime corniole incise, e i<br />

pendenti laterali che le conferivano un aspetto davvero imperiale.<br />

Assomigliava al faldistorio che porto sempre con me, per ogni esigenza<br />

di mostrarmi sul trono imperiale. Stessi ricami di oro e perle; io ho<br />

fatto aggiungere gli smalti con le miniature dei miei antenati.<br />

Avevo quasi timore, o meglio un certo imbarazzo ad avvicinarmi a<br />

Costanza. Mi sentivo Edipo nel letto di Giocasta, come raccontano le<br />

favole dei Greci. Il nostro primo figlio lo chiamammo come mio padre,<br />

Enrico. Non era un gran buon augurio, e difatti Enrico è stato fra tutti<br />

quello che mi ha capito meno. Mi sfidava, tesseva alleanze dementi con<br />

i feudatari germanici. Non aveva capito il disegno di mio padre: un<br />

potere moderno, ereditario, al posto della consuetudine elettiva che<br />

indebolisce l’Impero e rafforza il Papato. Ho dovuto chiuderlo in car-<br />

142


cere. Non c’è più. Forse si è dato la morte da solo?<br />

Mi hanno detto qualcosa di Piero della Vigna, ma non riesco a ricordare.<br />

Parlano spesso di lui, lo accusano di tradimenti. Mi torna a mente<br />

una canzone sua: Son menato per forza /ed eo medesmo mi meno al<br />

morire, / ed esser la mia morte e non vedere!<br />

“Ed esser la mia morte e non vedere!”<br />

Mi sembra che siano venuti tutti a visitarmi qui, a Fiorentino. Ecco il<br />

nome di questo castello! Che cosa avrebbe detto Michele Scoto? Lo<br />

stavo nascondendo a me stesso, ma sono ricoverato sub flore. Devo<br />

andare a Lucera, subito. Manfredi mi accompagnerà nel viaggio. Vorrei<br />

affacciarmi alla finestra. Non so più distinguere, è la febbre. Oppure sto<br />

sognando.<br />

Ma questo non è un sogno: è mio figlio. Manfredi, principe legittimo<br />

di Taranto. La sua presenza mi rende più tranquillo. E’ incredibile come<br />

Bianca sia riuscita a riprodurre un altro me stesso. Lo dicono tutti. E’<br />

un uomo del Sud anche lui. L’ho fatto studiare a Parigi, a Bologna, e<br />

con tutti gli scienziati della Magna Curia di Palermo. Anche io gli ho<br />

insegnato qualcosa. L’ultima volta che ci siamo incontrati mi ha detto<br />

che sta traducendo in latino, dall’arabo o forse dall’ebraico, il De pomo<br />

di Aristotele. Sarebbe stato uno stupor mundi come me, se fosse nato<br />

prima di Corrado, e da una moglie legittima.<br />

E invece il mio successore sarà Corrado, e poi suo figlio, il Corradino.<br />

Enzo è ancora in prigione a Bologna: non hanno accettato nessun<br />

riscatto per lui. Forse si pregiano di avere un re in città, e non lo trattano<br />

male. Mi hanno detto che ha avuto dei figli.<br />

Vedi come’è premuroso Manfredi. Mi bacia la mano. Mi aggiusta il<br />

pimaccio dietro la nuca. No, lo sfila via. Me lo appoggia sul viso.<br />

Preme forte con tutto il corpo. Non respiro, non vedo<br />

143


I racconti dei testimoni<br />

Mattheo di Giovinazzo<br />

Alli 29, si è saputa la novella, che lo imperatore stà malato.<br />

Alli 5 de Decembre quilli, che passaro per Iovenazzo, dissero, che<br />

l’imperatore steva malissimo.<br />

Alli 9, si sparse fama, che era fora de pericolo.<br />

Alli 13, lo dì si santa Lucia, si trovao morto. Et la sera innante avea<br />

magnato certe pere cotte cò lo zucchero, et disse, che la matina<br />

venendo si voleva levare. Et questo anno ei lo 1250.<br />

Alli 16 di Decembre ale 21 hore ei venuta la lettera de principe di<br />

Taranto (Manfredi), che va avvisando le terre de passo in passo dela<br />

morte de lo patre.<br />

Alli 29 passao lo corpo dell’imperatore, che lo portaro a Taranto; et<br />

io fui a Bitonto per vederlo, et andao in una lettica coperta de velluto<br />

carmesino con la sua guardia de Sarraceni à pede et sei compagnie<br />

de cavalli armati, che, come entravano per le terre, andavano chiangendo<br />

ad nome l’imperatore; et poi venevano alcuni baroni vestuti<br />

negri et li sindaci dele terre.<br />

(Gli diurnali di messer Mattheo di Giovenazzo, MGH XVIII, 472-<br />

473)<br />

Giovanni Villani<br />

Come lo ‘mperadore Federigo morì a Firenzuola in Puglia.<br />

Avenne che agravando de la detta malatia, essendo co·llui uno suo<br />

figliuolo bastardo ch’avea nome Manfredi, disiderando d’avere il<br />

tesoro di Federigo suo padre, e la signoria del Regno e di Cicilia, e<br />

temendo che Federigo di quella malatia non iscampasse o facesse<br />

testamento, concordandosi col suo segreto ciamberlano, promettendoli<br />

molti doni e signoria, con uno pimaccio che a Federigo puose il<br />

detto Manfredi in su la bocca, sì·ll’afogò; e per lo detto modo morì il<br />

detto Federigo disposto dello ‘mperio e scomunicato da santa Chiesa,<br />

sanza penitenzia, o nullo sagramento di santa Chiesa. E per questo<br />

potemo notare la parola che Cristo disse nel Vangelio: «Voi morrete<br />

nelle peccata vostre»; che così avenne a Federigo, il quale fu così<br />

nimico di santa Chiesa, ch’egli fece morire la moglie e Arrigo re suo<br />

figliuolo, e videsi sconfitto e preso Enzo suo figliuolo, e egli dal suo<br />

144


figliuolo Manfredi vilmente morto e sanza penitenza; e ciò fu il dì di<br />

santa Lucia di dicembre, gli anni detti MCCL.<br />

E lui morto, Manfredi detto prese la guardia del reame e tutto il tesoro,<br />

e ’l corpo di Federigo fece portare e soppellire nobilemente alla<br />

chiesa di Monreale di sopra a la città di Palermo in Cicilia, e a la sua<br />

sepultura volendo scrivere molte parole di sua grandezza e podere, e<br />

grandi cose fatte per lui, uno cherico Trottano fece questi brievi versi,<br />

i quali piacquero molto a Manfredi e agli altri baroni, e fecegli intagliare<br />

nella detta sepultura, gli quali diceano:<br />

Si probitas, sensus, virtutum gratia, census,<br />

Nobilitas orti possint resistere morti,<br />

Non foret extintus Federicus qui iacet intus<br />

(Giovanni Villani, Nova Cronica, VII, 41)<br />

Piero della Vigna secondo Dante<br />

Io son colui che tenni ambo le chiavi<br />

del cor di Federigo, e che le volsi,<br />

serrando e diserrando, sì soavi, 60<br />

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;<br />

fede portai al glorïoso offizio,<br />

tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi. 63<br />

La meretrice che mai da l’ospizio<br />

di Cesare non torse li occhi putti,<br />

morte comune e de le corti vizio, 66<br />

infiammò contra me li animi tutti;<br />

e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,<br />

ch’ e’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 69<br />

L’animo mio, per disdegnoso gusto,<br />

credendo col morir fuggir disdegno,<br />

ingiusto fece me contra me giusto. 72<br />

Per le nove radici d’esto legno<br />

vi giuro che già mai non ruppi fede<br />

al mio segnor, che fu d’onor sì degno. 75<br />

E se di voi alcun nel mondo riede,<br />

conforti la memoria mia, che giace<br />

ancor del colpo che ’nvidia le diede 78<br />

(Dante Alighieri, Inferno, XIII)<br />

145


147


TERTIVERI<br />

Pour les contrées du grand fleuve Bethique<br />

Loing d’Ibere, au regne de Granade,<br />

Croix repoussées par gens Mahumetiques<br />

Un de Cordube trahira la contrade (III, 20)<br />

Tertibulum. Bisogna essere proprio affamati di ruderi per affrontare,<br />

col sole di luglio, la salita verso i resti del castello. Ma il viaggio incomincia<br />

lontano da qui, alla Posta Farano sopra Siponto, mentre siamo<br />

a tavola sotto il papaglione. Su una porta è raffigurato un paesaggio<br />

campestre con i resti imponenti di un castello. La veduta è a volo d’uccello<br />

e, per quanto non appaiano strade per raggiungere il monumento,<br />

pare facile arrivarci di mezzo ai campi. Ma è un inganno percettivo:<br />

quando siamo vicini, dalla strada per Biccari che corre in piano un’onda<br />

immensa si solleva, e proprio sulla cresta, come un surfer, domina<br />

la torre di Tertiveri. L’onda è dorata per il grano appena tagliato e le<br />

muraglie prendono un aspetto diverso via via che gli si gira attorno. Il<br />

primo aspetto, venendo da Lucera, è una mano di pietra con l’anulare<br />

mozzato. Forse ricorda le Torri del Vajolet, ma è incredibile che una<br />

costruzione umana si regga nonostante queste fenditure. Dalla parte<br />

opposta invece, dal centro abitato di Tertiveri, le mura appaiono più in<br />

ordine; la facciata del torrione si riconosce con le sue finestre. Il rudere<br />

ritorna castello.<br />

Però bisogna arrivare fin lassù. Fendere l’onda immobile di stoppie che<br />

azzanna le calcagna. Un ricordo lampeggia: Gassman – l’indimenticabile<br />

Brancaleone da Norcia – e Gian Maria Volonté – il dissoluto<br />

Teofilatto de’ Leonzi – che si affrontano nel campo di grano maturo e<br />

lo mietono a colpi di spada. E non è insensato: un cavaliere crociato<br />

contro un guerriero bizantino può aver combattuto benissimo su questa<br />

proda. Tertiveri infatti è nata come avamposto dell’Impero d’Oriente<br />

149


verso i principi longobardi di Benevento. Sarà magari il Deserto dei<br />

Tartari? Sì, forse nell’avvicinarsi alla mano mozzata si può pensare a<br />

Giovanni Drogo.<br />

Nemici non se ne vedono, ma ce ne sono stati, eccome. Per finire con<br />

l’ultimo, accanito, il più disperato: Carlo II d’Angiò, figlio del primo<br />

Carlo. Quindi nipote di San Luigi di Francia e padre di San Ludovico<br />

di Tolosa, la cui figura ascetica è resa da Simone Martini in una famosa<br />

tavola di Capodimonte. Il santo è raffigurato nell’atto di incoronare<br />

il fratello minore Roberto, al quale facendosi frate ha aperto la strada<br />

al trono e a se stesso la gloria degli altari. En passant l’opera piacque a<br />

re Roberto, che nominò Cavaliere l’artista senese con un appannaggio<br />

annuo di 50 once d’oro.<br />

La guerra di Carlo II non è direttamente contro il signore del castello,<br />

‘abd el-Aziz. Anzi, è proprio lui che gli ha concesso il feudo di<br />

Tertiveri. Adelasisius, come è denominato nei documenti ufficiali, è<br />

l’esponente più in vista della comunità saracena di Lucera, ricco e<br />

potente di famiglia e riconosciuto dalla inquieta comunità come un personaggio<br />

politico di riferimento. Non a caso, forse, ‘abd el-Aziz non si<br />

trova a Lucera nella notte di San Bartolomeo, quando Giovanni Pipino<br />

da Barletta la desertifica con l’inganno. E’ il 24 agosto del 1300.<br />

Nota. Il 24 agosto se uno è protestante o musulmano farebbe meglio a<br />

stare alla larga dai francesi. Quella notte scatta la loro licantropia, a<br />

volte. A Parigi avverrà nel 1572 contro gli Ugonotti, e ancora ci corre<br />

un brivido quando, davanti al Louvre, si sente la campana di Saint-<br />

Germain l’Auxerrois. A Lucera e nel territorio avvenne prima, e non ci<br />

fu rintocco di campana. Fu una carneficina strisciante.<br />

Ma la storia è lunga. Ci sono diversi protagonisti, eventi epocali, battaglie<br />

decisive. Arrancando tra le stoppie abbiamo tutto il tempo di andare<br />

avanti e indietro per un paio di secoli.<br />

150


Tertiveri e il suo mondo<br />

Partiamo da una nottata d’agosto del 1264. Gli abitanti di Tertiveri, un<br />

po’ cristiani un po’ musulmani, stanno all’aperto per respirare un refolo<br />

di vento e per contare le stelle cadenti a cui appendere qualche desiderio.<br />

Qualcuno, a un tratto, comincia a indicare una stella speciale:<br />

non una sfera cadente ma una cometa vera e propria dalla coda fiammeggiante!<br />

Come quella dei Re Magi? No. Aveva anzi qualcosa di<br />

inquietante. Intanto si piazzò nel cielo fino a novembre. Poi emanava<br />

una luce esagerata, transitando da Oriente verso Occidente. Abbiamo<br />

un testimone: Giovanni Villani, manager fiorentino esperto in finanza<br />

internazionale.<br />

Si sa che, in genere, “queste stelle comate significano mutazioni di<br />

regni”. Infatti si disse che annunciava la venuta del re Carlo dalla<br />

Francia, e il cambiamento che ne sarebbe derivato al regno di Sicilia e<br />

di Puglia: e cioè, con la sconfitta e morte del re Manfredi, “il passaggio<br />

della signoria de’ Tedeschi a quella de’ Franceschi”. Dunque l’energia<br />

maligna della stella chiomata si esercita proprio contro Tertiveri.<br />

Ma non è tutto qui; anzi “intra l’altre significazioni fu evidente e aperta,<br />

che come la detta stella apparve, papa Urbano amalò d’infermità, e<br />

la notte che la detta comata venne meno si passò il detto papa di questa<br />

vita nella città di Perugia”. Sorella Morte ritarda la discesa di Carlo<br />

d’Angiò. “Manfredi e’ suoi seguaci furono molto allegri, avisando che<br />

morto il detto papa Urbano ch’era Francese, s’impedisse la detta impresa<br />

di Carlo”. Allegria di naufraghi, direbbe Ungaretti tanto innamorato<br />

della terra pugliese. Infatti la Sede di Pietro rimane vacante per cinque<br />

mesi; però poi viene eletto un altro papa francese. E’ Clemente IV<br />

“della città di San Gilio in Proenza, il quale fu buono uomo e di santa<br />

vita per orazioni, e digiuni, e limosine, tutto che prima fosse suto laico,<br />

e avesse avuto moglie e figliuoli, cavaliere e grande avogado in ogni<br />

consiglio del re di Francia. Regnò presso di IIII anni, e molto fu favorevole<br />

alla venuta del detto Carlo, e rimise santa Chiesa in buono<br />

stato”. Siamo nel 1265; il Francese siede sul Soglio di Pietro per quattro<br />

anni. Ma il successore, eletto in circostanze davvero singolari, sarà<br />

ancora una volta un Francese: Urbano IV.<br />

151


Pessima stella per Manfredi, dunque, e anche per Tertiveri, valvola di<br />

sicurezza per le tensioni della vicina metropoli saracena di Lucera. Già<br />

una quota dei deportati islamici dalla Sicilia era stata collocata lì da<br />

Federico II, oltre che a Stornara e Acerenza. Questa ‘miniaturizzazione’<br />

del confronto tra la Mezzaluna e la Croce ha attratto l’interesse<br />

dell’Istituto Storico Germanico che nel 2006, nell’ambito di una ricerca<br />

sull’insediamento islamico in terra cristiana, ha sviluppato a<br />

Tertiveri delle analisi geofisiche.<br />

Tertiveri aveva già una sua storia, come gli altri avamposti della ‘linea<br />

Maginot’ di Basilio Boioannes, Catapano d’Italia ai primi del Mille.<br />

Sede vescovile, nel 1058 risulta suffraganea di Benevento, ed è un po’<br />

strano perché Tertiveri è in territorio bizantino e Benevento è la capitale<br />

longobarda. Magari è per sparigliare queste carte che Alessandro II<br />

nel 1067 depone per simonia il vescovo di Tertiveri, Landolfo (quindi<br />

un longobardo) e lo stesso trattamento riserva al vescovo di Biccari,<br />

Benedetto. Ma il fatto è che il Catapanato d’Italia è ormai un territorio<br />

di precario confine. In più le apostasie fioccano anche in campo cristiano.<br />

Le identità politiche e religiose continuano a trascolorare ben<br />

oltre il 1071, data fatale per Bisanzio: perdita di Bari e del Catapanato<br />

d’Italia, e sconfitta di Manzicerta che apre l’Anatolia ai turchi ed è premessa<br />

necessaria e sufficiente per il fatale 1453 di Mohamed Fatih, il<br />

Conquistatore.<br />

La Crociata contro i Saraceni di Puglia<br />

Lucera saracena è un gesto politico geniale di Federico II. La gloriosa<br />

città già colonia romana vivacchia, ed è un peccato perché la<br />

Capitanata sta diventando il cuore dell’Impero da Amburgo a Capo<br />

Passero. I Saraceni di Sicilia si sentono ovviamente a casa loro e<br />

oppongono resistenza sorda, quando va bene, agli organi dello Stato<br />

cristiano. Rivolte – come quella famosa di Mirabetto, Emir Abbad, e di<br />

sua figlia nella rocca trapanese di Entella – creano imbarazzo e preoccupazione.<br />

In più, chi dimentica gli anni dell’incerta giovinezza di<br />

Federico a Palermo, quando l’élite saracena trescava con i baroni germanici,<br />

con l’orrendo Markwald, contro di lui? Una ‘soluzione finale’<br />

152


non è ragionevole, o forse è prematura? Assurdo gettare al vento un<br />

patrimonio di energia e di bravura che, opportunamente sfruttato, sarà<br />

una risorsa per lo Stato. Quindi si tratta semplicemente di travasare da<br />

un recipiente siciliano troppo pieno a un recipiente pugliese quasi<br />

vuoto. Sub debita servitute, precisa Nicolò Jamsilla. Deportazione?<br />

Beh, sì. Comunque sia, nel centro della Capitanata si instaura un motore<br />

propulsivo sotto il segno della Mezzaluna: arti e mestieri, uomini<br />

d’arme, un Istituto di formazione, tutte le bellezze e dolcezze di cui il<br />

Mediterraneo tiene il segreto. Libertà di culto. Almeno due moschee; in<br />

basso la più grande, che poggia su undici colonne di breccia verde recuperate<br />

da un tempio romano. Il palatium sull’acropoli, a base di piramide<br />

tronca come Termoli, e cortile ottagonale come Castel del Monte.<br />

L’esile comunità cristiana lucerina, assieme al suo Pastore, viene molto<br />

scrollata. Dapprima il vescovo si dà da fare per imparare l’arabo: ed è<br />

giusto contrappasso per la predicazione in volgare che i Domenicani<br />

avevano inflitto ai miscredenti su mandato papale (e da questo ascolto<br />

negato ai Domenicani il teologo della Crociata, Eudes de Châteauroux,<br />

trarrà uno dei suoi sermoni più velenosi). Poi, sfiduciato, trasferisce la<br />

sede a Tertiveri; sarà piccola e appartata ma è cristiana. Almeno in<br />

parte, per il momento.<br />

Nessuno tocca Lucera finché vive Federico. E anche mentre regna<br />

Manfredi l’enclave saracena con le sue pertinenze continua a prosperare,<br />

a dispetto della propaganda scatenata dai Guelfi e dal Papato. Il fatto<br />

è che re Manfredi è intoccabile. Meglio: non c’è chi gli si possa opporre.<br />

Ci prova nel 1255 il papa Alessandro IV a indire la Crociata contro<br />

lo Hohenstaufen colpevole di disobbedienza. La bolla Pia Matris<br />

punta il dito proprio su Lucera. Siamo a un confronto escatologico tra<br />

la verità e l’errore: Cristianesimo e Islam. la Fallaci contro Bin Laden.<br />

Oppure, più semplicemente: perché attraversare il mare per andare a<br />

caccia di musulmani, quando ne abbiamo trentamila proprio qui a due<br />

passi? La Crux Cismarina vale tante indulgenze quanto la Crux<br />

Transmarina. Ed è molto meno spigolosa.<br />

La Crociata di Alessandro VI viene proclamata però non decolla. Anzi:<br />

la sconfitta dei Guelfi a Montaperti – “che fece l’Arbia colorata in<br />

153


osso” nel 1260 - inorgoglisce l’Italia ghibellina e fa abbassare le penne<br />

a quella fedele alla Sede papale. Per di più il papa muore, e i cardinali<br />

non riescono a mettersi d’accordo per un successore. Cinque mesi di<br />

sede vacante. Un regalo per Manfredi. Poi, a Viterbo, il caso strano.<br />

Riparati in qualche modo dal sole ai piedi del palazzo di Tertiveri,<br />

ascoltiamo Giovanni Villani con il suo accento fiorentino.<br />

“Poi elessono papa Urbano il IIII, della città di Tresi di Campagna in<br />

Francia, il quale fue di vile nazione, siccome figliuolo d’uno ciabattiere,<br />

ma valente uomo fu, e savio. Ma la sua elezione fu in questo modo:<br />

egli era in corte di Roma povero cherico, e piativa una sua chiesa che<br />

gli era tolta, di libbre XX di tornesi l’anno; i cardinali per loro discordia<br />

serrarono con chiavi ov’erano rinchiusi, e feciono tra·lloro dicreto<br />

segreto che ’l primo cherico che picchiasse la porta fosse papa. Come<br />

piacque a·Dio, questo Urbano fu il primo, e dove piativa la povera chiesa<br />

di libbre XX di tornesi, ebbe l’universale Chiesa”.<br />

Questo avviene nel 1261.<br />

Il papa ciabattino ha, ovviamente, cervello fino. Non sopporta “la forza<br />

di Manfredi, il quale occupava quasi tutta Italia”; anzi con le truppe<br />

saracene invade terre del Patrimonium Petri. “Così predicò croce contro<br />

a·lloro, onde molta gente fedeli si crucciaro, e andarono ad oste contra<br />

loro; per la qual cosa i detti Saraceni si fuggirono in Puglia”. Ma<br />

anche questa non è una crociata di successo: “Non lasciava Manfredi<br />

di continuo fare perseguitare il papa e la Chiesa a’ suoi fedeli e masnade;<br />

e egli stava quando in Cicilia e quando in Puglia a grande delizia e<br />

in grandi diletti, seguendo vita mondana e epicurea, ad ogni suo piacere,<br />

tenendo più concubine, vivendo lussuriosamente, e non parea che<br />

curasse né Dio né santi. Ma Idio giusto signore tosto mandò la sua<br />

maladizione e ruina a Manfredi”.<br />

La ‘maladizione’ si chiama Carlo d’Angiò e di Provenza, fratello di re<br />

Luigi IX di Francia, finanziato con fideiussioni della Santa Sede presso<br />

i banchieri toscani. E’ un personaggio di tutt’altro genere rispetto<br />

all’epucureo Manfredi. “Amico e protettore e difenditore di santa<br />

Chiesa e della nostra città di Firenze. Questo Carlo fu savio, di sano<br />

154


consiglio, e prode in arme, e aspro, e molto temuto da tutti i re del<br />

mondo, magnanimo e d’alti intendimenti, in fare ogni grande impresa<br />

sicuro, in ogni aversità fermo, e veritiere d’ogni sua promessa, poco<br />

parlante, e molto adoperante (il tormentone della cultura del fare,<br />

anche allora!), e quasi non ridea se non poco, onesto com’uno religioso,<br />

e cattolico; aspro in giustizia, e di feroce riguardo; grande di persona<br />

e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso, e parea bene maestà<br />

reale più ch’altro signore. Molto vegghiava e poco dormiva, e usava<br />

di dire che dormendo tanto tempo si perdea”.<br />

Inquietante, vero, questo re in pectore? Aggiungiamo che ha 46 anni e<br />

due figli: uno si chiama come lui “e fu sciancato alquanto”. Sarà il sinistro<br />

successore Carlo II. L’altro, Filippo, sposa la figlia del Despota di<br />

Morea “ma morì giovane, e sanza figliuoli, però che si guastò a tendere<br />

uno balestro”. Era forse maldestro? Ma non abbiamo tempo per le<br />

affabulazioni di Giovanni Villani: la ‘Nuova Cronica’ si può scaricare<br />

facilmente da Internet, assieme all’altrettanto saporita ‘Chronica’ di<br />

Salimbene de Adam nel suo latino già rotondamente parmigiano.<br />

Carlo d’Angiò ha ricevuto dal papa un cadeau avvelenato: deve guadagnarsi<br />

il regno di Sicilia e Apulia, e il possesso non è per nulla scontato.<br />

Anzi: Manfredi, che a spregio lo chiamava Carlotto, era prevalente<br />

per mare per terra e per buone relazioni politiche. Ciò nonostante la<br />

maligna stella chiomata dell’agosto 1264 porta i suoi frutti avvelenati<br />

a Tertiveri. Carlotto infliggerà a Manfredi la sconfitta e la morte:<br />

Benevento, febbraio 1266. Prima di morire Manfredi ha tempo di pentirsi<br />

dei suoi peccati, e questo basta a dribblare l’odio del papa<br />

Clemente e della Chiesa tutta. Sconfitto nella vita terrena, trionfa nella<br />

vita eterna. Chi lo dice? Dante. Che drammatizza raccontando come le<br />

ossa del defunto siano state tratte dalla cattedrale di Benevento, o da<br />

una sepoltura accanto al fiume, e sparse di notte per la campagna<br />

accanto al fiume Liri. “Or le bagna la pioggia e muove il vento”, gli<br />

dice Manfredi in salvo davanti al Purgatorio. François Villon avrebbe<br />

dato ai cadaveri questa voce:<br />

La pluie nous a lessivés et lavés<br />

et le soleil nous a séchés et noircis;<br />

155


pies, corbeaux nous ont creusé les yeux,<br />

et arraché la barbe et les sourcils.<br />

Dante invece idealizza anche fisicamente questa salma sciagurata:<br />

“biondo era, e bello, e di gentile aspetto<br />

ma l’un dei cigli un colpo avea diviso”.<br />

A Lucera la sconfitta di Benevento procurerà un nuovo signore e toglierà<br />

il benessere, la libertà, l’autonomia relativa, il ruolo di ‘vetrina<br />

dell’Islam’ verso l’Occidente. Ma ancora non tutto è perduto, in questo<br />

oscuro 1266. E nemmeno nel 1268, quando a Tagliacozzo il fratello<br />

Corradino viene sbaragliato e a Napoli perderà la testa. L’altro fratello,<br />

Enzo, passerà la vita a Bologna, in prigione. Il peggio tocca all’ultimo<br />

fratellino, Enrico, che vegeta per trent’anni in una segreta di Castel<br />

dell’Ovo, e non rivedrà la luce.<br />

Sarà nel 1300 che il combinato disposto del Giubileo di Bonifacio VIII<br />

e del bisogno di soldi di Carlo II, lo ‘sciancato alquanto’, avvicinerà la<br />

distruzione non solo della città ma della comunità islamica nel territorio<br />

di Lucera. Le sue mura abbattute segneranno il piccolo transito di<br />

un’epoca: la fine di un sogno illuministico, realistico e anche un po’<br />

cinico – e quindi pienamente politico – di Federico. E di Manfredi, il<br />

figlio illegittimo in cui egli si rispecchiava. Lo dice a chiare note il presunto<br />

Nicolò de Jamsilla. Il nome Manfredi infatti è Manens<br />

Fredericus (l’Imperatore è vivo e lotta con noi), Manus Frederici (a me<br />

lo scettro!), Mens Frederici (la sua memoria ci accompagna), Minor<br />

Fredericus (ma crescerà), Mons Frederici (la fortezza che difende la<br />

gloria del babbo).<br />

Chi è ‘abd el-Aziz, il signore moro di Tertiveri<br />

Tertiveri multiculturale aveva accolto il vescovo di Lucera con il clero<br />

e una parte dei cristiani, dal 1246 al 1255: non parlavano arabo, si dice,<br />

e quindi non riuscivano a comunicare con la città saracena. Forse è un<br />

pretesto. Nel frattempo lontano da Tertiveri e anche da Lucera la comu-<br />

156


nità saracena solidarizza senza esitazione con la casata sveva nelle sue<br />

ultime sventure: Benevento e Tagliacozzo.<br />

Questa compattezza e lealtà della truppa moresca deve impressionare<br />

gli Angiò: magari in un futuro potrebbero orientarle a proprio favore.<br />

Così come non vorrebbero gettare al vento il patrimonio di abilità guerriere,<br />

di competenze artigianali e, last but not least, la capacità contributiva<br />

di una comunità ricca. Così Carlo II, impoverito dalla Guerra del<br />

Vespro in Sicilia, cerca ogni modo per trarre risorse da Lucera, ribattezzata<br />

Città di Santa Maria. E solo quando le uova d’oro saranno tutte<br />

raccolte, Carlo si deciderà a strozzare la gallina. Con il pretesto di un<br />

favore fatto al mai abbastanza schiaffeggiato Bonifacio VIII: la ‘bonifica’<br />

del territorio cristiano nel 1300 in omaggio al Giubileo.<br />

Ed ecco ‘abd el-Aziz come signore feudale, investito da Carlo II in persona<br />

per i suoi meriti nel servizio al potere e per la sua influenza nella<br />

comunità lucerina. ‘abd vuol dire servo, schiavo, e el-Aziz è l’Amato.<br />

Nel senso più ampio. Allah stesso può essere el-Aziz, ma ugualmente<br />

qualcuno che Allah segna con la sua predilezione. Anche il Re, o<br />

l’Imperatore. Il bello di questi nomi ad ampio spettro è che possono,<br />

nel corso del tempo, esser vissuti con significati diversi da chi li porta.<br />

Una specie di amuleto polivalente.<br />

Sotto il sole di mezzogiorno il castello di Tertiveri è una specie di gnomone<br />

che non segna a terra nessuna ora con nessuna ombra. Tertiveri<br />

possedimento saraceno. Ma dov’è la moschea? Risulta che c’è: forse al<br />

posto della cattedrale normanna. Il terreno intorno, però, non parla.<br />

Adelasisius dicebamus, signore di Tertiborum, o Tortibulum, ricopre un<br />

ruolo di spicco nella comunità saracena di Lucera. Non quanto lo sciancato<br />

Giovanni Moro, uomo di fiducia già di Federico. Fiducia mal riposta<br />

se a un certo punto il Moro si converte e cerca di vendere Lucera al<br />

papa: saranno i ‘suoi’ di Acerenza a sopprimerlo e a inviare la testa in<br />

città, dove sarà appesa a Porta Foggia in spectaculum suae nefandae<br />

proditionis: lo attesta Jamsilla. ‘abd el-Aziz non è nemmeno un capo<br />

carismatico come ‘abu Abdallah, al secolo Riccardo da Lucera, che<br />

addirittura appartiene alla tribù dei Quraysh, i discendenti del Profeta<br />

che si avvolgono il turbante verde.<br />

157


No, ‘abd el-Aziz è un grande artigiano, maestro argentiere, imprenditore<br />

ed influente moral suasor ovviamente in favore del potente di<br />

turno. Tanto che Carlo II, nell’ambito della ‘soluzione finale’, affida a<br />

lui la selezione dei concittadini da cui si può ancora spremere del valore.<br />

Un piccolo Quisling di Tertiveri? Di certo Francesco da Eboli,<br />

Giustiziere di Bari, riceve un minuzioso ordine di rastrellamento da<br />

Carlo II. Si diano al miles Niccolò de Civitate Sanctae Marie – cioè ad<br />

‘abd el-Aziz battezzato – cinque suoi familiari; con il loro aiuto vogliamo<br />

che tutti i Saraceni artistae che egli vi mostrerà, o di cui vi darà l’elenco,<br />

siano trasferiti a Napoli e integrati nei nostri piani di sviluppo del<br />

Terziario. Gli artistae, per esser chiari, sono i fabbricatori di armi, balestre,<br />

archi, tende da campo, oggetti in cuoio rosso e cuscini (pouf);<br />

maestri muratori, bardatori, carpentieri. Il novello cristiano ‘abd el-<br />

Aziz deve accertarsi che il viaggio avvenga sub tuta custodia. Infatti le<br />

povere colonne di deportati sulla strada della vita grama venivano<br />

anche aggredite dai virtuosi credenti; ma questi Saraceni erano portatori<br />

di un valore economico, la sapienza artigiana, e quindi non si potevano<br />

massacrare: né a Serracapriola e Larino, né a Candela e neppure<br />

ad Ascoli Satriano, come era capitato ad altri gruppi di rifugiati.<br />

E ancora a dispetto di questa trentennale e violenta repressione rimangono<br />

nell’agro lucerino, autorizzate, diverse centinaia di famiglie saracene:<br />

purché non costruiscano moschee. E non facciano proseliti come<br />

succedeva prima. Tanto che nel 1294 era venuto da Napoli il Grande<br />

Inquisitore del Regno in persona, fra’ Giovanni da San Martino, per<br />

riconciliare bon gré mal gré i cristiani convertiti all’Islam.<br />

‘abd el-Aziz – Nicola da Lucera, o Nicolò da Santa Maria – era stato<br />

toccato dalla Grazia due anni dopo la caduta di Lucera. E il figlio? E’<br />

battezzato Giovanni, ed eredita la concessione di alcune case a San<br />

Severo da parte di re Carlo. Il quale scrive, l’11 luglio del 1301: le case<br />

erano per il babbo, ma purtroppo Adelasisius non ha saputo aspettare<br />

ed ha pagato il debito di natura prius quam predicta nostra gratia potiretur:<br />

è morto prima di poter godere della nostra benevolenza.<br />

Ma c’è un altro erede per ‘abd el-Aziz. A Tertiveri.<br />

158


Il feudo di Tertiveri alla morte di Adelasisius viene assegnato a<br />

Johannes Pipinus de Barolo, il risolutore finale di Lucera nominato<br />

Connestabile di Santa Maria. Giovanni Pipino era tutt’altro che un<br />

uomo di guerra. Era un notaio, un politico casomai. Questo ci dice<br />

come la presa di Lucera sia avvenuta per astuzia diplomatica, tra<br />

l’Assunta e San Bartolomeo del 1300, prima che per violenta estinzione<br />

degli abitanti. Non c’è da dubitare che il Barlettano avrà omogeneizzato<br />

la facies cristiana di questa fantastica ondata di terra d’oro su<br />

cui la torre, cavaliere affaticato ma instancabile, continua a raccontare<br />

la storia esemplare del Signore moro e cristiano e del materiale genetico<br />

che dal suo popolo – disperso, venduto, sterminato – ha fecondato<br />

tutte le Puglie.<br />

Eudes, l’Arcinemico<br />

Della eliminazione di Lucheria Sarracenorum e del suo feudo di<br />

Tertiveri abbiamo raccontato le modalità e i motivi. L’odio per la Casa<br />

imperiale Sveva: la diffidenza per il diverso; il bisogno di soldi per<br />

combattere gli Aragonesi in Sicilia (Pietro III poi era un rampollo degli<br />

Hohenstaufen, nipote di Federico); la pretesa di far valere i diritti feudali<br />

del Papato sull’Italia meridionale; i santi e implacabili rancori per<br />

mille questioni politiche, dalla Crociata inconclusa alla lotta per le<br />

investiture dei grandi feudi ecclesiastici; la decisione di puntare sulla<br />

cristianissima stirpe reale francese. Ma queste motivazioni di vario<br />

ordine e grado trovano il punto di fusione in un crogiolo che non può<br />

che essere ideologico. E la dottrina della delenda Lucheria è formulata,<br />

incarnata e perseguita da un personaggio religioso tra i più rilevanti<br />

del secolo. Eudes di Châteauroux.<br />

Ha più nomi di Arsenio Lupin: Ottone di Tuscolo, Ottone di<br />

Châteauroux, Odo de Castroradulpho, Odo Gallus. Ma è sempre lui:<br />

frate Eudes, cistercense francese, nato attorno al 1190, Cancelliere<br />

dell’Università di Parigi, Cardinale di Tivoli e poi di Tuscolo, Legato<br />

papale in Terrasanta, morto a Perugia nel 1273 e sepolto con adeguata<br />

magnificenza a Orvieto in San Domenico. Il suo monumento funebre<br />

non ci è rimasto; certo non raggiungeva i vertici del suo vicino di sepol-<br />

159


tura, il Cardinale di Braye, premiato da Arnolfo di Cambio con un’opera<br />

che diventerà il must to have per l’architettura funeraria fino al<br />

pieno Rinascimento.<br />

Eudes è un grande intellettuale con due o tre ossessioni. La più angosciosa<br />

è l’ortodossia cristiana. L’ortodossia patologica eterna che dal<br />

campo della fede straripa nelle altre forme di conoscenza – la filosofia,<br />

le scienze, la tecnologia – travolgendo assieme Galileo con i suoi<br />

canocchiali e la procreazione assistita con le staminali. Al tempo di<br />

Eudes non si vedono ancora gli atei devoti che difendono le istituzioni<br />

ecclesiastiche dai credenti critici. Nel suo dispiegamento di energie<br />

Eudes è perlomeno equanime: tanto si impegna contro l’Islam quanto<br />

contro l’Ebraismo. Riesce a far bruciare per due volte il Talmud come<br />

libro eretico, a Parigi, nonostante le appassionate perorazioni dei rabbini<br />

che in fondo erano gli unici interessati alla questione.<br />

La seconda ossessione di Eudes è l’archivistica, o almeno la catalogazione<br />

delle proprie opere. Il corpus autentificato e poligrafato raggiunge<br />

l’imponente cifra di 1100 sermoni, e qualcuno gli è pure sfuggito:<br />

infatti noi leggeremo i tre ‘Sermones de Rebellione Sarracenorum<br />

Lucherie in Apulia’ in un solo manoscritto della Biblioteca Municipale<br />

di Arras, in Piccardia (137 (876) ff. 108 2b III vb). Forse bisogna<br />

aggiungere che queste opere d’ingegno non venivano soltanto pronunciate<br />

dall’Autore in varie circostanze e con differenti accentuazioni<br />

secondo che si parlasse a crociati in armi, a possibili leve, a sponsor o<br />

a opinion leader. I testi, o le scalette, venivano diffusi quanto più possibile<br />

in modo da raggiungere un ‘effetto televisione’: che tutti i fedeli<br />

fossero imprinted con le medesime idee e con identiche verbalizzazioni<br />

e raffigurazioni mentali delle stesse.<br />

La terza e devastante ossessione di Eudes è la Crociata.<br />

Al servizio di questa follia egli dispone le sue eccellenti capacità intellettuali.<br />

Le campagne di opinione lanciate da lui sono paragonabili a<br />

qualunque organizzazione del consenso di oggi. La disciplina dei<br />

comunicatori dice che due sono gli obiettivi immancabili di una campagna:<br />

membership increasing e fund rising. E da questi obiettivi<br />

160


Eudes non si discosta mai. Con eleganza, certo: non ci aspetteremmo<br />

da lui l’infelice frase con cui si raccoglieva l’obolo per la costruzione<br />

di San Pietro: ‘quando la moneta tintinna nel barattolo l’anima sale in<br />

Paradiso’.<br />

La Crociata! Il Pellegrinaggio armato, il Passaggio oltremare. Le spinte<br />

intrecciate della fede, della competizione razziale, della crescita<br />

demografica, della povertà endemica, della cavalleria, della governance<br />

feudale. Il tutto amalgamato e portato a temperatura di fusione dall’asset<br />

esclusivo del potere papale: le chiavi della vita eterna, che possono<br />

aprire l’indulgenza o chiudere sulla scomunica e la dannazione<br />

eterna.<br />

La prima Crociata, quella di Pier l’Eremita e di San Bernardo, era stata<br />

un successo: nel 1099 uno Stato europeo si insedia in Siria e Palestina,<br />

per un secolo. Fino a quando le armate di Saladino il Curdo non cacciano<br />

i cavalieri cristiani dal Sepolcro di Cristo. Ma per tre secoli ancora<br />

il brand Crociata viene riempito di valore: indizioni, concili, poemi,<br />

solenni partenze, predicazioni, teste coronate maschili e femminili,<br />

donazioni, lasciti, prestiti, questue, tassazioni e ingegnerie finanziarie,<br />

animazione delle potenze marinare, movimentazione globale della cristianità.<br />

Insomma un invasamento mondiale che ha avuto pochi paragoni,<br />

fino a ieri. Forse è invincibile la tentazione di far passare sotto<br />

questo brand name anche delle iniziative, imprese, intenzioni che<br />

avrebbero in realtà ben poco a che vedere con gli scopi di San<br />

Bernardo, di Pier l’Eremita e di Goffredo di Buglione. Ed ecco la<br />

Crociata contro i Mongoli, la Crociata contro i Pagani baltici, la<br />

Crociata contro gli Albigesi, la Crociata contro i pauperisti in<br />

Germania, in Italia e nei Balcani, la Crociata contro la Casa di<br />

Hohenstaufen e i suoi manutengoli, e infine quella che interessa noi: la<br />

Crociata contro i Saraceni di Puglia.<br />

Questa predicazione di Eudes su Lucera e quindi contro Tertiveri è il<br />

canto del cigno di una vita sempre eccellente: nella politica, nella<br />

diplomazia, nel pensiero speculativo, nell’arte polemica della parola.<br />

Sarà il capolavoro di una vita. Think global, act local, e questa volta la<br />

Crociata raggiungerà l’effetto.<br />

161


Châteauroux vs/ Tertiveri<br />

Seduti ai piedi di questa torre tormentata ascoltiamo un silenzio che<br />

porta in sé mille anni di suoni. Campane e inviti alla preghiera; grida e<br />

richiami in lingue germaniche, greche, italiche, semitiche e altre ancora.<br />

Ma, affinando la percezione del silenzio, fantastichiamo sulle parole<br />

fatali che hanno segnato il crollo di queste mura. Come il rimbombo<br />

dello shofar aveva sbriciolato le difese di Gerico: il paragone non dispiace<br />

di certo a Eudes di Châteauroux. Sentiamo infatti alcuni passi<br />

dei suoi tre ‘Sermo de rebellione Sarracenorum Lucherie in Apulia’<br />

scritti, diffusi, pronunciati per la Crociata indetta da papa Clamente IV.<br />

Siamo nel 1268 e Corradino si affaccia in Italia: la strategia papale è di<br />

sciogliere il nodo Lucera prima che possa costituire la testa di ponte per<br />

il ritorno del Sud nelle mani degli Svevi.<br />

Alla lettura ci pare che Eudes faccia della Parola divina un uso brutalmente<br />

mistificatorio. Bisogna avere in mente quello che Dante dice nel<br />

Convivio sui quattro livelli di interpretazione applicabili alle scritture.<br />

Il senso letterale, puramente descrittivo; il senso allegorico, che cela<br />

delle affermazioni di carattere generale; il senso morale, che indirizza<br />

verso i comportamenti guidati dalla fede; il livello anagogico, che svela<br />

i significati attinenti alle ‘superne cose de l’etternal gloria’. Eudes si<br />

muove agevolmente tra i quattro registri ma insiste naturalmente sull’ultimo:<br />

quello assoluto e indiscutibile della Volontà divina.<br />

Lucera 1, ‘Pietà l’è morta’. Il primo sermone potrebbe essere stato pronunciato<br />

a Viterbo per la Pasqua 1268, quando Carlo I e il suo esercito<br />

prendono la Croce dalle mani del papa e si avviano contro Corradino.<br />

Il messaggio infatti è da Terminator. Lucera è la Terra Promessa da conquistare<br />

alle condizioni dettate da Dio al popolo di Israele (Num.<br />

XXXIV). Quid terribilius quam quod in terra ecclesie lex Mahometa<br />

proclametur et observetur! Se vi rifiuterete di sterminare tutti gli abitanti,<br />

i sopravvissuti saranno per voi come chiodi negli occhi e lance<br />

nei fianchi e vi renderanno la vita difficile nella vostra terra. E quel<br />

ch’è più tremendo, Dio minaccia: “io farò a voi tutto quello che avevo<br />

deciso contro di loro”.<br />

Ma le anime belle si appelleranno al quinto comandamento ‘non<br />

162


ammazzare’? Peggio per loro! Se i Saraceni vincono, distruggono i<br />

Cristiani. Se invece soccombono ma li si lasciano in vita, è anche peggio:<br />

“con il loro denaro acquisiranno il favore dei principi della terra e<br />

si faranno nominare esattori del fisco, in modo da poter meglio gravare<br />

i Cristiani e conculcarli”. Dobbiamo registrare su questa profezia un<br />

moto di contrarietà da parte di Lanfranco Tavasci.<br />

Un grande finale. “O Cristo, ti spinga alla vendetta la voce del sangue<br />

dei tuoi figli – voglio dire i Cristiani – sparso dagli empi Saraceni e dai<br />

loro padri come ancor oggi son pronti a fare, e anzi introdurranno altri<br />

Saraceni d’Oltremare. Sommuovi non solo la terra ma anche il cielo.<br />

Espelli e distruggi, Domine Deus noster. Amen”.<br />

Lucera 2, ‘Oh Jericho’. Come Gerico (Giosuè VII), le cui mura crollarono<br />

al suono delle trombe, e il sole arrestò il suo corso per consentire<br />

un lavoro rifinito. Haec ystoria parabola est instantis temporis. La<br />

terra promessa è questa, l’Apulia, e Dio l’ha assegnata al nostro<br />

Giosuè, cioè il signore Carlo. Anche questa terra promessa ha la sua<br />

Gerico che sarebbe Lucheria, habitatio et refugium Sarracenorum. Essi<br />

l’hanno fortificata e armata contro tutti i Cristiani: non solo quelli di<br />

Puglia ma di tutto il Regno di Sicilia. Ecco però che Dio ha ordinato ai<br />

sacerdoti di suonare la tromba contro questa Gerico di Lucera. “Che il<br />

popolo cristiano sorga dunque contro di loro con un animo solo e li elimini<br />

dal Regno; che ciò sia bastante a placare Iddio e ad evitare tutti i<br />

pericoli auxiliante Domino nostri Ihesu Christo qui vivit in saecula<br />

saeculorum. Amen.”.<br />

Lucera 3, ‘Il sentiero dei nidi di aspide’. Il terzo sermone è il più bello.<br />

Qualcosa ci fa pensare che sia rivolto a un pubblico di ecclesiastici. Il<br />

linguaggio è quasi espressionista, anche perché si appoggia a un visionario<br />

testo di Isaia: “Ova aspidum ruperunt et telas aranee texerunt.<br />

Qui comedit de ovis eorum morietur”. Hanno spaccato le uova dell’aspide<br />

/ e tessuto la tela del ragno. / Chi mangia le loro uova morrà”. Le<br />

aspidi ovipare sono – chi ne dubita? – i Saraceni di Lucera. Più precisamente,<br />

secondo il Salmista, “aspidi sorde / che occludono i propri<br />

orecchi / per non sentire la voce dell’incantatore”. Vennero infatti più<br />

volte i predicatori domenicani fino a Lucera; ma gli empi che fanno?<br />

“Appoggiano un orecchio a terra e l’altro lo tappano con la coda” (chis-<br />

163


sà dove sono gli orecchi dell’aspide). Così si sono negati alla verità cristiana;<br />

e, se anche parlano di paradiso, pensano a un luogo dove “ciascuno<br />

ha cento donne da soddisfare ogni giorno” (programma un po’<br />

stressante, in verità).<br />

Ma forse un giorno potrebbero ravvedersi? Eh no: Gesù ha detto che<br />

non può essere suo discepolo chi non rinunzia a tutti i beni terreni; ma<br />

questi qui, e i loro genitori, semper intenti fuerunt divitia divitiis aggregare<br />

per mercimonia, per depredationes et furta: chiaro quindi che non<br />

potrebbero mai diventare discepoli di Cristo. Che poi il programma di<br />

‘aggiungere ricchezze alle ricchezze’ potesse essere tranquillamente<br />

sottoscritto da qualunque cristiano, è un’idea che non sfiora Eudes<br />

neanche da lontano. La prassi dell’autocritica si sarebbe imposta diversi<br />

secoli dopo.<br />

E’ vero dunque che questi Saraceni sono simili alle aspidi e non si<br />

lasciano trarre fuori dalle tane dei loro peccati, o in subordine cacciar<br />

via dal Regno. E le uova? “Sono i disegni astuti e velenosi coi quali non<br />

solo una volta o all’improvviso, ma dai tempi antichi e in più riprese<br />

tramarono per spezzare il giogo dei Cristiani e sottoporli al proprio<br />

dominio. Oggi poi (con la ribellione contro Carlo in favore di<br />

Corradino) i loro disegni si sono chiaramente manifestati”.<br />

Magari è stato un moto spontaneo, improvviso? No: è malizia premeditata.<br />

E’ un complotto tessuto. C’è la prova? Eccola qua. “Le uova di<br />

aspide non si rompono in un colpo, come quelle dei polli quando<br />

nascono i pulcini. Esse devono essere incubate per più giorni, in modo<br />

che i serpentelli vedano la luce”. E i ragni? Ecco: questo gran lavorìo<br />

dei Saraceni è del tutto inutile. “Essi hanno intrecciato una tela di<br />

ragno: la tela si realizza con artificio e non senza impegno e fatica; e<br />

benché il ragno si finisca le viscere con la tessitura è facile rompere la<br />

tela e farla scomparire. Così i saraceni hanno tessuto tela di ragno con<br />

grandi veglie e fatiche e con grande astuzia; e tuttavia la loro opera sarà<br />

dissipata facilmente”.<br />

E che gli dobbiamo fare? Basta la parola: morietur. “La morte porta a<br />

compimento ogni genere di castigo. Infatti le pene sono di per sé ordinate<br />

alla morte, anzi sono temute soprattutto a causa della morte: nes-<br />

164


sun castigo è più atroce del morire. Per questo ai peccatori viene comminata<br />

proprio quella cosa da cui si vorrebbe massimamente fuggire.<br />

Ai trasgressori della parola del Signore ‘chi fa questo, morrà’ giustamente<br />

viene data morte”.<br />

Ma Corradino? Ha solo sedici anni. “Tutto ciò che i Saraceni fecero<br />

aveva un obiettivo, ed è questo: che venisse alla luce il regulus, il basiliskos<br />

(reuccio in italiano, ma anche serpentello), cioè Corradino, il re<br />

dei serpenti. Il re degli uomini malevoli. Per le loro trame il clero e i<br />

religiosi saranno cacciati e privati delle dignità e dalle libertà; proprio<br />

come i nostri progenitori un dì furono cacciati dal paradiso, sedotti<br />

dalla malizia - appunto - del serpente”.<br />

Alla demonizzazione della gente di Lucera e del re Corradino manca un<br />

tassello solo: la beatificazione di Carlo d’Angiò e, magari, della sua<br />

santa Mamma, la regina Blanche. Lo sapete che Carlo, da piccino, si<br />

astenne spontaneamente dal seno della madre? E sapete che lei si addolorò<br />

tanto quando lui partì militare in Terrasanta? Là, però, si batté<br />

virilmente contro i Saraceni. E adesso, vi pare che non faccia tutto il<br />

possibile per cacciar via i Saraceni da Lucera e da tutto il Regno di<br />

Sicilia? Anche per far piacere alla Mamma.<br />

Oremus. “Che questo regulus non prevalga, ma la sua contumacia<br />

venga schiacciata da Cristo Signore; anzi meglio: dal Sommo Pontefice<br />

che, come Carlo, si è staccato dal seno materno, cioè si è allontanato<br />

volontariamente da ogni godimento carnale”.<br />

Questa preghiera – che sia il merito di Isaia, sia la lungimiranza del<br />

Salmista, sia l’impulso di Eudes de Châteauroux, siano le mammelle<br />

della regina Blanche, siano quelle simboliche del papa, sia la bravura<br />

di Carlo, siano i soldi dei banchieri toscani garantiti dalla Santa Sede –<br />

insomma alla fine viene esaudita.<br />

Napoli, piazza del Mercato, 29 ottobre 1268. Il regulus perde la corona<br />

e la testa.<br />

165


167


SIPONTO<br />

Le divin verbe donrra à la sustance<br />

Compris ciel terre, or occult au fait mystique<br />

Corps, ame, esprit aiant toute puissance,<br />

Tant sous ses pieds, comme au siège celique (III, 2 )<br />

Quale potrebbe essere l’incipit di un capitolo su Siponto? Come appoggiare<br />

anche una sola parola lì, dove gli archeologi hanno segnato ogni<br />

pietra con la traccia della loro sapienza? Forse prendendo un’altra strada:<br />

quella dell’immaginazione poetica.<br />

“Poi dalla solitudine si sprigiona una colonnetta, e le fanno seguito a<br />

pochi passi, su leoni, le colonne che, fra le scure sopracciglia di archi<br />

ciechi, reggono in una facciata deserta il ricco portale di Santa Maria<br />

Maggiore di Siponto. Non me ne intendo, ma non mi stupirei se questa<br />

cattedrale in mezzo al prato fosse davvero il primo esempio del costruire<br />

monastico e guerriero nel quale il Medioevo si provò a fondere le<br />

esperienze del suo rincorrere la visione del mondo, dall’innocente<br />

epica dei Mari del Nord alle erudite voluttà della svelta Persia. La<br />

nascita d’una architettura significa il principio d’una chiarezza spirituale<br />

e d’una volontà vittoriosa. Perché nell’era cristiana non dovrebbe<br />

essere stata per prima questa terra, questo ponte dei Crociati, a immaginare<br />

saldamente, nella pietra murata e ornata, un’unità fra Occidente<br />

e Oriente?”.<br />

Segue, Giuseppe Ungaretti, col segnalare come la cattedrale sipontina<br />

sia costruita, cubica, su una iterazione del numero quattro: espediente<br />

espressivo dei pitori cubisti del suo tempo. Dalla disposizione delle<br />

colonne al disegno delle losanghe che decorano la facciata, forse un<br />

tempo abbellite con specchiature di marmi colorati. Piacevolezze pisano-lucchesi?<br />

Sì, come dalla campagna toscana la ‘pieve’ di Santa Maria<br />

169


sembra planare sulla città scomparsa di Devia. Chissà per quali mode e<br />

con quali strumenti le forme decorative e i disegni degli edifici potevano<br />

trasferirsi attraverso lo spazio? E’ classica, e ormai datata, la questione<br />

sulla dipendenza delle piramidi maya da quelle egiziane. Jurgis<br />

Baltrusˇaitis aveva affascinato la nostra giovinezza con i suoi collegamenti<br />

tra bizzarrie gotiche e disegni dell’Asia centrale e della Cina.<br />

Marija Gimbutas, lituana anche lei, nelle grotte della piana di Siponto<br />

aveva dato colpi di luce sui motivi decoranti gli oggetti d’uso. Ma c’era<br />

anche Carl Gustav Jung che rapportava certe immagini complesse al<br />

vocabolario dell’inconscio collettivo, mentre Rudolf Arnheim collega<br />

le forme essenziali alla memoria ram del nostro processore cerebrale.<br />

Di Santa Maria fanno parte anche i ritratti, per così dire, della Titolare:<br />

una icona bellissima e una statua in legno di cedro dipinto della fine del<br />

Mille, detta la ‘Sipontina’ o anche la ‘Madonna dagli occhi sbarrati’.<br />

L’immagine appunto esercita questa magia di attrarre lo sguardo verso<br />

il suo, meravigliato e addolorato. Non era nata così. Però, mentre si trovava<br />

nella sua chiesa originaria che adesso funge da cripta, fu sconvolta<br />

dallo stupro che subì Catella, figlia del diacono Evangelio, da parte<br />

del nipote del vescovo Felice. Non poté far niente per impedirlo: era<br />

solo una statua di legno; però le è rimasta questa espressione di dolente<br />

stupore. Il fatto è avvenuto davvero, alla fine del VI secolo: lo sappiamo<br />

dalle lettere che il papa, San Gregorio Magno, scrisse al vescovo,<br />

al suddiacono Pietro e al notaio Pantaleone perché venisse resa giustizia<br />

a Catella. Un risarcimento pecuniario? Un matrimonio riparatore?<br />

Questo non lo sappiamo. In ogni modo Catella sarà stata trattata<br />

meglio che Medusa, alla quale per un fatto simile la titolare del<br />

Partenone, Atena, inflisse quella capigliatura di serpenti e quello sguardo<br />

assassino. C’è da precisare che sia l’icona che la statua sono conservate<br />

nella infelice cattedrale di Manfredonia.<br />

Ungaretti legge Santa Maria di Siponto come una sintesi originale, e<br />

quindi significativa di una nuova visione del mondo, tra le costruzioni<br />

severe della Scandinavia e quelle vivaci dell’Oriente. In effetti, comparando<br />

piante di edifici sacri nei secoli stretti attorno al Mille, una<br />

somiglianza con Siponto si trova nell’architettura armena; e, più che<br />

nelle chiese, nel gavit, lo spazio di servizio che accoglieva i visitatori e<br />

170


consentiva adunanze e predicazioni; manca solo un’apertura centrale<br />

sul soffitto. Quello che per Siponto riteniamo come certo dalla prosa<br />

ungarettiana è il ruolo di ‘ponte’. Non solo per il tempo e gli scopi dei<br />

Crociati che andavano in Outremer, ma soprattutto per ciò che veniva<br />

in senso opposto: ex Oriente lux.<br />

La koinè diomedea<br />

Siponto partecipa alla comunità dei centri urbani che devono a<br />

Diomede, eroe omerico e dantesco, la loro esistenza. Egli pour cause si<br />

dice abbia sposato la figlia del re illirico Dauno, eponimo del territorio<br />

foggiano.<br />

Questo mito di fondazione ‘in rete’, che comprende tra il XVI e l’XI<br />

secolo a.C.una costellazione di città ‘micenee’ lungo tutta la costa occidentale<br />

dell’Adriatico e anche nell’interno, come Aecae/Troia,<br />

Herdonia e Lucera, è dettagliatamente riportato da Strabone verso la<br />

fine del sesto libro della ‘Gegrafia’. “Si dice che Canosa e Arpi tutte e<br />

due siano fondate da Diomede, e si mostrano in questi luoghi come<br />

segni della signoria di Diomede la pianura (nel Tavoliere dovevano<br />

esserci dei Campi Diomedei o qualcosa di simile) e molte altre cose.<br />

Nel tempio di Atena a Lucera ci sono antichi doni votivi – anche questa<br />

città fu importante per i Dauni, pur essendosi ora un po’ immiserita<br />

–, e nel mare vicino due isole vengono chiamate ‘Diomedee’, delle<br />

quali una è abitata, l’altra dicono sia deserta.<br />

In quella deserta alcuni tramandano il mito secondo cui Diomede<br />

scomparve (il testo greco dice aphanisthénai, che in realtà significa<br />

‘non essere più visto’, non proprio ‘morire’), mentre i compagni furono<br />

trasformati in uccelli e ancora rimangono domestici e conducono<br />

una vita in qualche modo umana, avvicinandosi agli uomini perbene e<br />

fuggendo i malfattori. Si è già parlato delle tradizioni diffuse tra i<br />

Veneti a proposito di Diomede e degli onori che vengono tributati a<br />

questo eroe. E’ ritenuta fondazione di Diomede anche la città di Sipous,<br />

che dista da Salapia circa 140 stadi ed era chiamata, con nome greco,<br />

Zepious a causa delle seppie spiaggiate qui dalle onde. Fra Salapia e<br />

171


Sipous c’è un fiume navigabile e una grande laguna: attraverso queste<br />

vie d’acqua vengono trasportate le merci provenienti da Sipous, e<br />

soprattutto il grano”.<br />

Ma, di fatto, che cosa è successo a Diomede? Strabone ci offre quattro<br />

opzioni. O è stato richiamato in patria, ad Argo, e lì sorpreso dalla<br />

morte. O è rimasto qui dove è morto naturalmente. O è stato assunto in<br />

qualche modo al cielo, come avevamo detto sopra, nell’isola disabitata<br />

delle Tremiti. O, simile a questa, “la versione narrata dai Veneti: essi<br />

favoleggiano che la scomparsa di Diomede sia avvenuta presso di loro,<br />

e la chiamano ‘apoteosi’, deificazione”.<br />

Ora, che cosa significa rivendicare la fondazione da parte di Diomede,<br />

cioè innestare il mito di fondazione in un mito di colonizzazione? Il<br />

senso sembra essere un riscatto dell’alterità etnica; la proiezione di una<br />

matrice greca sulla dimensione illirica della prima civiltà daunia; l’attribuzione<br />

alla volontà divina dell’atto di colonizzazione: la ventilata<br />

assunzione in cielo e la ‘deificazione’ dell’eroe ne sono una garanzia.<br />

E se cerchiamo le radici comuni dell’Europa non possiamo fermarci<br />

che a Troia, madre del Mediterraneo: ogni civiltà locale, sia che si<br />

richiami a Micene come Foggia, sia che si scopra discendente da Troia<br />

come Roma, nasce da quella conflagrazione di culture che l’ ‘Iliade’ è<br />

lì a testimoniare.<br />

Un punto di osmosi<br />

Nella rete di città daunie fecondate dalla grecità micenea, Siponto riceve<br />

dal mare, oltre alle sue seppie, la cultura materiale e il mondo di idee che<br />

per diverse vie procede dal crogiolo della civiltà: la terra fra i due fiumi.<br />

Siponto, quindi, come Stargate. Non l’unico, non il primo, non il più<br />

importante. Ma reale.<br />

A un certo punto le seppie portano il sussurro di una visione del mondo<br />

nuova, che procede dall’ecumene greco e viene a far guerra a quello romano.<br />

Il cristianesimo. A Siponto si attribuisce un primo vescovo, Giustino,<br />

consacrato da San Pietro di passaggio verso il martirio, nel 64 d.C.<br />

172


Di certo questo è uno dei porti attraverso i quali filtra il cristianesimo,<br />

assieme a Brindisi, Egnazia, Otranto. Gli storici oppongono che la<br />

prima figura certa della chiesa sipontina è il vescovo Felice che partecipa<br />

al Concilio del 465 a Roma. Morto Felice, nel 491 i Sipontini chiedono<br />

un successore al loro patriarca naturale, quello di Costantinopoli.<br />

L’imperatore Zenone gli assegna un suo parente: Lorenzo. Il quale<br />

viene a Roma, si fa consacrare da papa Gelasio e si insedia a Siponto<br />

consegnando come dono ai fedeli le reliquie di Santo Stefano e di<br />

Sant’Agata.<br />

Ma la fortuna sua e della diocesi sarebbe dipesa da un altro soggetto<br />

sacro, sempre collegato a culti di origine orientale: l’arcangelo<br />

Michele. Il quale, in quel lasso di tempo, stava dedicandosi a bonificare<br />

grotte e montagne di mezza Europa dai culti pagani. Sua mira principale<br />

i misteri persiani di Mitra, con il toro sgozzato che piovendo sangue<br />

sui fedeli li faceva sentire rigenerati. Per questo il culto furoreggiava<br />

tra gli eserciti della tarda romanità.<br />

Ma bisogna anche ammettere che vi era una qualche tenerezza reciproca<br />

tra il mitraismo e il cristianesimo: assai spesso i mitrei, luoghi di<br />

culto sotterranei attrezzati appositamente per i riti e per il pasto sacro,<br />

l’agape, davano origine a chiese cristiane, come a Roma nel rione<br />

Monti la basilica di San Clemente. Questo dolce subentrare del culto<br />

cristiano a quello orientale, mediato dall’angelo Michele, era la restituzione<br />

di una cortesia: la visita dei Magi zoroastriani alla culla di Gesù,<br />

sempre avendo l’angelo come guida.<br />

Il Monte come destino<br />

Mons Garganus inminens Sipontinae civitati, dice Servio nel commento<br />

alla ’Eneide’. Subdita Sipus montibus, aggiunge Lucano nella<br />

‘Farsaglia’. Dunque il Gargano incombe e condiziona l’immagine di<br />

Siponto. Le vicende del vescovo della costa, Lorenzo, e di Michele,<br />

angelo del monte, sono note per tradizione, per un paio di Vite tardive<br />

e per un testo del X secolo chiamato ’Apparitio’. Il clou del racconto è<br />

la difesa da parte di Michele di un toro rifugiatosi nella sua grotta, forse<br />

173


per alludere ai culti di Mitra.<br />

La parte più divertente è l’intemerata dell’iroso arcangelo al vescovo<br />

Lorenzo che solo dopo ripetute apparizioni e miracoli anche militareschi<br />

(come la salvezza dai Goti di Odoacre) si era deciso a salire sul<br />

Gargano per consacrare la grotta. ‘La mia casa me la sono consacrata<br />

da solo, sibila; voi dovete soltanto celebrarvi i sacri riti’. Iniziative<br />

simili, per la cronaca, l’arcangelo assumerà poi a Mont Saint-Michel,<br />

nel mare dei Normanni, e alla Sacra di San Michele in val di Susa,<br />

come racconta Rodolfo il Glabro, il cronista dell’Anno Mille. Nel 1188<br />

Monte Sant’Angelo era già una meta turistica di massa. Testimonia un<br />

bestseller dell’epoca, il ‘Florimont’ di Aimon de Varennes:<br />

Un signore ebbe terre sul monte<br />

Gargano. Era nativo di Siponto.<br />

Egli portava lo stesso nome del monte: Gargano,<br />

A causa dei possedimenti che vi teneva.<br />

Attraverso un torello che egli aveva<br />

Dio gli mostrò una tale forza<br />

Che egli fece un monastero sotterraneo:<br />

Uno più bello non se ne potrebbe vedere.<br />

San Michele vi è adorato.<br />

Adesso è un sito di gente affollato.<br />

Le folle sul Gargano si erano viste anche prima dell’insediamento di<br />

Michele. Sempre per ragioni sacre e lievemente sulfuree. Strabone,<br />

sesto libro della ‘Geografia’: “Su un’altura di nome Drion si vedono<br />

due templi. Sulla cima quello di Calcante: i fedeli che consultano l’oracolo<br />

gli sacrificano un montone nero, si avvolgono nella pelle e dormono.<br />

Più in basso, ai piedi, c’è il tempio di Podalirio, che dista dal<br />

mare circa 100 stadi (meno di due chilometri). Dal monte Drion scende<br />

un ruscello che guarisce le malattie degli animali”.<br />

Siamo in piena Iliade: Calcante sarebbe il profeta che auspicò il sacrificio<br />

di Ifigenia in Aulide per avere vento favorevole alla flotta greca;<br />

ma c’è chi dice che sia un omonimo re-sacerdote daunio, cioè illirico.<br />

174


Quel che è certo, nel tempio in cima al monte si pratica l’antichissimo<br />

rito dell’incubatio. Calcante appare ai dormienti nel vello nero del<br />

caprone sacrificato e svela gli arcani esistenziali. Anche Fauno, presso<br />

Tivoli, offre lo stesso servizio: lo descrive Virgilio nel settimo libro<br />

dell’Eneide. Bisogna dire che, all’origine, i riti di incubatio e in genere<br />

le interpellanze degli oracoli si facevano volentieri nelle grotte, vicini<br />

al grembo della Terra. Forse è lì che Michele…<br />

Podalirio è invece il grecissimo figlio di Esculapio e fratello dell’ ‘ufficiale<br />

medico’ Macaone; i due guariscono Filottete dalla purulenta ferita<br />

causata dal morso di un serpente; si rilegga l’omonima tragedia di<br />

Sofocle, mentre si dà per scontato che l’Iliade sia il livre de chevet di<br />

ogni buon Occidentale.<br />

Il cristianesimo, in qualche secolo, nel passare da religione urbana a<br />

credenza rurale, fa tabula rasa di queste pratiche. Ma i bisogni restano.<br />

E ci rimane un dubbio: Michele avrà saputo rispondere in qualche<br />

modo ai bisogni di divinazione delle popolazioni del Tavoliere? E<br />

come avrà fatto?<br />

La morte di Siponto<br />

La vittoriosa e in parte enigmatica cattedrale di Santa Maria, consacrata<br />

da Pasquale II nel 1117 con la traslazione del corpo del vescovo San<br />

Lorenzo, domina un territorio vasto che gli scavi ci consentono di<br />

immaginare, in parte. C’è anche il pavimento della cattedrale precedente,<br />

ortogonale a questa. Ci sono gli ipogei in vista del mare. Se ci<br />

facciamo suggerire una lettura del luogo da un poeta ionio, sentiremo<br />

che questi muri di calcare dorato<br />

siedon custodi dei sepolcri, e quando<br />

il Tempo con sue fredde ali vi spazza<br />

fin le rovine, le Pimplee fan lieti<br />

di lor canti i deserti, e l’armonia<br />

vince di mille secoli il silenzio.<br />

Il silenzio di Siponto si chiama acqua, sabbia, malaria e terremoto. A<br />

175


Manfredi, il figlio e successore di Federico, toccherà prendere atto che<br />

la città non è più viva. Dice Giovanni Villani, il consulente finanziario<br />

fiorentino prestato alla storiografia dopo un infortunio con la Giustizia<br />

fiscale: ”Questo Manfredi fece disfare la città di Sipanto in Puglia, perché<br />

per gli paduli che l’erano intorno non era sana, e non avea porto; e<br />

di quelli cittadini ivi presso a due miglia, in su la roccia e in luogo d’avere<br />

buono porto, fece fondare una terra, la quale per suo nome la fece<br />

chiamare Manfredonia, la quale ha oggi il migliore porto che sia da<br />

Vinegia a Brandizio”.<br />

Siponto viene aggredita dall’acqua che si allontana, dai pirati, dai terremoti:<br />

uno disastroso nel 1223 e quello definitivo nel 1255. Il disfacimento<br />

dell’ecosistema trasferirà nella popolazione l’idea che bisogna<br />

allontanarsi di lì. Con prontezza e spirito costruttivo sarà il re Manfredi<br />

ad affrontare la situazione: fondiamo una nuova città. Otto anni dopo è<br />

già tracciata Manfredonia. In parallelo scompare Siponto, le cui pietre<br />

sono disponibili a disegnare la nuova forma-città. Fortunatamente<br />

Santa Maria resterà come segnacolo di una comunità vivente per secoli<br />

e aperta ad accogliere idee, curiosa di forme nuove, appassionata<br />

della mediazione culturale.<br />

Chissà se avrà avuto sentore di questi valori l’Arcivescovo che governò<br />

Siponto tra il 1447 e il 1449? Purtroppo era un prelato commendatario,<br />

quindi semplicemente percepiva le rendite, e di sicuro non vi si<br />

fece mai vedere. Ma sarebbe stato in grado di portare a compimento la<br />

missione storica di Siponto. Il cardinale Bessarione, già patriarca<br />

Vissarion di Trebisonda, umanista, attore al Concilio di Firenze della<br />

effimera riconciliazione tra le due chiese e poi animatore della vita culturale<br />

romana: abitò sulla via Appia in un palazzetto (il ‘casino’) che<br />

sarebbe diventato un modello di architettura rinascimentale.<br />

All’arcivescovo commendatario di Siponto si deve, dopo la caduta di<br />

Costantinopoli nel 1453, l’accoglienza dei dotti bizantini in fuga dagli<br />

Ottomani, e soprattutto la raccolta dei codici di autori greci che lascerà<br />

a Venezia come nucleo della Biblioteca Marciana.<br />

176


Biondo, bello, e di gentile aspetto<br />

L’ultimo Hohenstaufen a cingere la corona è Manfredi, che regna in<br />

pratica, come reggente, dal 1250, quando muore Federico, fino al 1266,<br />

quando a Benevento viene sconfitto e profanato da Carlotto d’Angiò,<br />

come lo chiamava lui. Tranne il breve intermezzo in cui scese di<br />

Germania il titolare della corona di Puglia e Sicilia, suo fratello<br />

Corrado. Dopo qualche tensione Corrado, che non aveva molta salute,<br />

venne meno lasciando il figlio Corradino sotto la tutela dello zio.<br />

Naturalmente le malelingue, amplificate al solito dagli scrittori guelfi,<br />

vollero che la dipartita di re Corrado nel 1254 fosse dovuta ad un clistere<br />

avvelenato, così come vollero che Federico fosse stato aiutato a<br />

morire, sempre da Manfredi, con un cuscino premuto sulla faccia.<br />

Leggiamo, passeggiando con Franco e Angela sugli spalti angioini del<br />

castello di Manfredonia, questa descrizione di Manfredi che si deve a<br />

Giovanni Villani, espressione dei papa-boys, “Il detto re Manfredi fue<br />

nato per madre d’una bella donna de’ marchesi Lancia di Lombardia,<br />

con cui lo ’mperadore ebbe affare; e fu bello del corpo, e come il padre,<br />

e più, dissoluto in ogni lussuria; sonatore e cantatore era, volentieri si<br />

vedea intorno giocolari e uomini di corte, e belle concubine, e sempre<br />

si vestìo di drappi verdi; molto fue largo e cortese e di buon’aire, sì<br />

ch’egli era molto amato e grazioso; ma tutta sua vita fue epicuria, non<br />

curando quasi Idio né santi, se non al diletto del corpo.<br />

Nimico fu di santa Chiesa, e di cherici e de’ religiosi, occupando le<br />

chiese, come il suo padre e più; ricco signore fu, sì del tesoro che gli<br />

rimase dello ’mperadore e del re Currado suo fratello, e per lo suo<br />

regno ch’era largo e fruttuoso. E egli, mentre che vivette, con tutte le<br />

guerre ch’ebbe colla Chiesa, il tenne in buono stato, sì che ’l montò<br />

molto di ricchezze e in podere per mare e per terra. Per moglie ebbe la<br />

figliuola del dispoto di Romania, ond’ebbe figliuoli e figliuole. L’arme<br />

che prese e portò fue quella dello ’mperio, salvo ove lo ’mperadore suo<br />

padre portò il campo ad oro e l’aguglia nera, egli portò il campo d’argento<br />

e l’aguglia nera”. In effetti il vessillo nero e argento non è considerato<br />

di buon augurio, ai nostri tempi; forse a Benevento non ci si<br />

sarebbe presentati con questi colori.<br />

177


La Fille ainée de l’Église.<br />

Non sappiamo se la liquidazione degli Hohenstaufen rientri in qualche<br />

modo tra gli archetipi della questione franco-tedesca. Sedan e<br />

Dunkerque contro Benevento e Tagliacozzo? Certo è che gli Svevi vengono<br />

atterrati da una filiera di papi francesi che vogliono insediare il<br />

sang royal capetingio nel Sud Italia considerato come proprietà feudale.<br />

La tensione tra la Sede di Pietro e le successive case imperiali germaniche,<br />

dopo l’idillio tra Gerberto d’Aurillac e Ottone III di Sassonia,<br />

è un’asse portante dell’alba del Millennio. Chi non ricorda Enrico IV<br />

in ginocchio nella neve davanti al castello di Canossa? E la lotta per le<br />

investiture, monumento al conflitto di interessi per due secoli (se un<br />

vescovo è anche signore feudale, chi ha il diritto di nominarlo: il capo<br />

della piramide feudale o il capo della piramide ecclesiastica)? Però fino<br />

alla morte di Federico il dissenso non si era mai intrecciato con le<br />

nascenti nazionalità.<br />

Apre le ostilità papa Urbano IV; Jacques Pantaléon, il figlio del ciabattino<br />

di Troyes innalzato nel 1261 al soglio pontificio per manifesta<br />

volontà divina: per sbaglio bussò alla porta del Conclave, gli aprirono<br />

e lo incoronarono. Manfredi offre tempestivamente l’omaggio feudale<br />

e una somma di denaro per le opere di carità del nuovo papa. Ma<br />

Urbano apre il fuoco su tutta la linea: la Crociata; la richiesta a Luigi<br />

IX poi santo di prestargli il fratello, l’inquietante ed insonne Carlo<br />

d’Angiò; la citazione di Manfredi in giudizio; le pressioni sul re<br />

Giacomo d’Aragona per impedire le nozze tra il figlio Pietro e la figlia<br />

di Manfredi, Costanza. Ma quello che ci fa intravedere un disegno<br />

nazionalistico nella lotta contro gli Hohenstaufen è che Urbano rafforza<br />

nel Sacro Collegio la presenza di cardinali francesi: anche dopo la<br />

sua morte è assicurata l’entente cordiale tra la Sede apostolica e la<br />

nazione definita, al battesimo di Clodoveo, la Fille ainée de l’Église.<br />

E infatti nel 1265 il nuovo papa è Guy Foulques da Saint-Gilles du<br />

Gard, la cui abbazia è oggi reputata per la facciata mai completata e per<br />

la grazia della fecondità che viene concessa alle signore che venerano<br />

le reliquie del santo; la grazia opposta a questa non risulta che sia elargita<br />

in alcun santuario. Clemente IV è meno assatanato del predeces-<br />

178


sore, più uomo di mondo, ma al cambio di suonatore la musica è la<br />

stessa. La conclusione, si sa, è a Benevento il 26 dicembre 1266.<br />

De pulcritudine civitatis Manfredonie<br />

Questo titolo è preso nientemeno che dall’arcinemico padano degli<br />

Hohenstaufen, Salimbene da Parma. Poi leggeremo i suoi commenti.<br />

Ma intanto Manfredi, per fortuna della Capitanata e con l’ottimismo<br />

della ragione, va avanti a risolvere il problema di Siponto. Nel 1263 il<br />

progetto urbanistico viene approvato, con attenzione alla bio-architettura<br />

che abbiamo visto Annibale applicare a Prusa. Viene tempestivamente<br />

trasferita la sede episcopale nel nuovo centro abitato,<br />

riconoscendo la funzione poleopoietica del vescovo.<br />

Manfredi ha una strategia: vuole che Manfredonia diventi il capoluogo<br />

amministrativo della Puglia, il massimo centro commerciale; stabilisce<br />

lì una zecca che, dal 1263 al ’66, conia i denari di biglione con la grande<br />

M gotica o romana al diritto e la croce al rovescio, e i tarì d’oro con<br />

l’aquila ad ali spiegate e la croce. Naturalmente Carlotto chiude la<br />

zecca e fonde le monete con il marchio dell’odiato predecessore. I collezionisti<br />

oggi gli sono grati perché le ha rese una rarità.<br />

Ma la nuova città ha bisogno anche di un suono che le sia proprio e<br />

riconoscibile in un raggio vastissimo. Manfredi, per la salvezza dell’anima<br />

sua e per chiamare a soccorso se Manfredonia fosse attaccata dai<br />

nemici mentre è ancora in costruzione, ordina una campana enorme, la<br />

più bella che ci sia. Quanto Hohenstaufen c’è in questa volontà! Ma<br />

quando la sente, gli pare debole: la fa rifare con nuovo metallo, racconta<br />

Matteo Spinelli da Giovinazzo. Avrà vita breve questa campana.<br />

Carlotto la fa trasportare a San Nicola di Bari; poi lì viene fusa per<br />

farne monete.<br />

Ma siccome noi troviamo molta più verità nelle leggende che nelle cronache,<br />

diciamo che la campana fu trascinata via dai Turchi durante un<br />

saccheggio – forse quello del 1620, assieme a Giacometta Beccarino<br />

che divenne moglie del sultano? Di fatto, in mezzo al mare una tempe-<br />

179


sta affonda la nave sacrilega. Ma per la festa di San Lorenzo Maiorano,<br />

il patrono di Siponto, proviene dalle profondità degli abissi il suono<br />

cupo e solenne della campana. E anche in seguito la si potrà ascoltare.<br />

Chissà se si crea l’effetto emerso-sommerso che Debussy riesce a dare<br />

nel magico preludio ‘La Cathédrale engloutie’…<br />

In realtà sono due i Manfredi che affrontano felicemente il dramma di<br />

Siponto: il figlio di Federico e lo zio ricco e potente, Manfredi Maletta<br />

signore di Monte Sant’Angelo, fratello di Bianca Lancia d’Agliano.<br />

Giovanni Villani riporta che “di quella terra fue Manfredi Bonetta,<br />

conte camerlingo del detto re Manfredi, uomo di gran diletto, sonatore<br />

e cantatore, il quale per sua memoria fece fare la grande campana di<br />

Manfredonia, la qual è la più grande che si truovi di larghezza, e per la<br />

sua grandezza non può sonare”. Del resto il terreno su cui sorge<br />

Manfredonia era di sua proprietà, e giustamente egli sarà nominato dal<br />

nipote signore della città che porta il proprio nome. O forse il nome di<br />

ambedue?<br />

La parola al nemico<br />

Sulla fine di Siponto e la sua rinascita come Manfredonia lasciamo<br />

all’opposizione la parola finale. Salimbene ci testimonia lo stato di<br />

Manfredonia proprio mentre sta in corso d’opera.<br />

Si vixisset princeps per paucos annos amplius, fuisset Manfredonia una<br />

de pulcrioribus civitatibus de mundo. Bastava che Manfredi non fosse<br />

morto a Benevento: pochi anni ancora e Manfredonia sarebbe tra le più<br />

belle città al mondo. “Il circuito delle mura è lungo quattro miglia,<br />

dicono. Ha un porto ottimo, ed è ubicata alle radici del monte Gargano.<br />

La strada principale è già tutta costruita, e tutte le fondamenta delle<br />

altre abitazioni sono pronte. Ha delle vie molto ampie, il che conferisce<br />

molto alla bellezza di una città. Sed rex Karolus habet eam exosam, in<br />

tantum quod eam audire nominari non potest, immo vult quod appelletur<br />

Sipontus nova. Il re Carlo ce l’ha in uggia, non sopporta nemmeno<br />

di sentire il nome: per questo vuole che sia chiamata Siponto Nuova.<br />

Però bisogna ammettere che il principe Manfredi ha fatto anche qual-<br />

180


cosa di buono: ne ho scritto a sufficienza nel mio libro su papa<br />

Gergorio X. Lo storico infatti deve essere una persona di buon senso:<br />

non deve scrivere solo le cose negative di qualcuno tacendo tutte quelle<br />

positive”.<br />

Noi non siamo per niente degli storici, ma crediamo di aver seguito il<br />

buonsenso di fra’ Salimbene. La cui opera raccomandiamo di leggere:<br />

è molto folle, assai divertente, e facilmente comprensibile in un latino<br />

parmigiano ormai vicino – senza volere – al maccheronico mantovano<br />

che sarà inventato da Merlin Cocai. E si scarica on line.<br />

181


183


LA MAGNA CAPITANA<br />

Un vademecum per luoghi pieni di riserbo e non sempre offerti con<br />

facilità. Questo era l’obiettivo del testo e delle ricerche che lo hanno<br />

accompagnato. Per forza abbiamo attraversato, da viaggiatori curiosi, i<br />

terreni dell’archeologia, della storia, delle letterature classiche.<br />

L’abbiamo fatto in punta di piedi e sempre con un filo di autoironia: i<br />

testi specialistici sono ben altri, e quelli divulgativi richiedono un possesso<br />

delle materie che noi non ci sogniamo. Per accentuare il disimpegno<br />

dalle scienze, le citazioni non hanno quasi mai referenze bibliografiche<br />

e, peggio, alcune sono lasciate senza indizi sull’autore. Una<br />

piccola civetteria.<br />

Alla fine, ci bastava evocare delle atmosfere e suscitare delle curiosità;<br />

ricordare, delle Terre Foggiane, spessori e orizzonti che non sono<br />

più evidenti. Per ciò il titolo ‘Città dimenticate’.<br />

Il nostro ideale narrativo resta sempre l’Aleph di Borges: “il luogo<br />

dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da<br />

tutti gli angoli”; ma nemmeno la Biblioteca di Babele sarebbe sufficiente<br />

a contenere il nostro testo. Quindi, umilmente, abbiamo distribuito<br />

il racconto tra le dieci stazioni del percorso mirando a una certa<br />

consequenza storica. Abbiamo insistito sui Dauni tra Herdonia e<br />

Matinum; sui Greci a Arpi e a Salinis; sui Romani a Herdonia e a<br />

Salinis; sui Bizantini a Montecorvino; sui Longobardi tra<br />

Montecorvino e Tiati; sui Normanni a Tiati; sui Saraceni a Tertiveri;<br />

sugli Svevi a Fiorentino e a Siponto; sugli Angioini a Tertiveri.<br />

E’ inevitabile che una terra parli con più convinzione di chi l’ha amata<br />

maggiormente. Questo spiega perché nei successivi volumi di ‘Terre<br />

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Foggiane’ aleggia volentieri lo spirito della famiglia sveva.<br />

Consapevoli di questa preferenza, affidiamo la conclusione di ‘Città<br />

dimenticate’ a chi invece ne ha coltivato il ricordo e la nostalgia: Enzo<br />

re di Sardegna, figlio giovanile di Federico e di Alayta di Urslingen.<br />

Come il padre e il fratello Manfredi egli era seduttivo, valente, amante<br />

della poesia e della falconeria.<br />

Dalla prigionia in Bologna scrisse una canzone:<br />

“e vanne in Puglia piana,<br />

la magna Capitana,<br />

là dov’è lo mio core nott’e dia”.<br />

185


ROLANDO GRECO<br />

La litografia che apre ‘Le Città dimenticate’ è un’opera originale di<br />

Rolando Greco.<br />

Rolando Greco nasce il 18-12-1966 a Cosenza (Montalto Uffugo).<br />

Si trasferisce nel 1986, a 20 anni, a Stradella (PV) dove ha modo di<br />

approfondire le sue qualità artistiche grazie alla conoscenza di diversi<br />

maestri.<br />

Nel 1992 entra a far parte del gruppo artistico “en-plain-air” storico<br />

gruppo nato nel 1930, fondato dal Maestro Walter Visioli e seguito da<br />

molti critici d’arte, tra cui Umberto Zaccaria, Umberto Tessari, storico<br />

d’arte, Luciano Bertacchini, Dino Pasquali, Gianni Ingoglia, Presidente<br />

annuario Comet Milano, e di cui fece parte Renato Guttuso nel 1966.<br />

La partecipazione a questo gruppo ha dato a Rolando Greco la possibilità<br />

di girare l’Italia ed esporre le proprie opere nelle varie rassegne.<br />

Nel 1997 gli viene conferito a Nardò in Puglia il diploma di “Maestro<br />

del pennello”. Partecipa a numerosi concorsi nazionali, conseguendo<br />

lusinghieri consensi di critica e pubblico e ottenendo significativi<br />

premi, fra i quali si ricordano: Medaglia d’Argento del Presidente della<br />

Repubblica; Medaglia d’Argento del Comune di Milano; Medaglia<br />

della Regione Lombardia; Medaglia della Città di Bergamo; Oscar dell’arte<br />

2001 – Targa D’Oro Regione Lombardia.<br />

Opere di Rolando Greco si trovano quasi in tutti i Paesi del mondo, sia<br />

nei Musei e Collezioni pubbliche, sia nelle collezioni private di persone<br />

che apprezzano il suo linguaggio molto personale.<br />

187


MARIA CHECCHIA<br />

Le dieci illustrazioni che esprimono il concetto di ciascuna delle ‘città<br />

dimenticate’ sono opera originale dell’artista foggiana Maria Checchia.<br />

Maria Checchia inizia il suo percorso artistico nella città nativa frequentando<br />

tra il ’91 e il ’95 l’Accademia di Belle Arti e proseguendo<br />

con una serie di mostre e concorsi nell’ambito della pittura e dell’illustrazione.<br />

Il processo creativo delle sue opere si manifesta attraverso un’auto-sensibilizzazione<br />

dei soggetti da lei rappresentati in contesti in cui il regno<br />

animale ed umano vivono un rapporto simbiotico.<br />

Da qui nasce per l’artista l’esigenza di dipingere una serie di opere<br />

dedicate ad argomenti come i 7 peccati capitali e numerose illustrazioni<br />

su ibridi e il regno fantastico.<br />

Gran parte delle suggestioni figurative hanno uno stretto legame con i<br />

temi e le contaminazioni musicali, con una predilezione particolare per<br />

la musica dei grandi cantautori come Paolo Conte, Vinicio Capossela,<br />

Giorgio Gaber o Tom Waits.<br />

Il suo metodo di lavoro si lega al foto-realismo, ma senza rinchiudersi<br />

nella banalità della cruda rappresentazione iperrealistica di un soggetto,<br />

lascia alle immagini che realizza un tratto più illustrativo ma con<br />

una ricerca del dettaglio davvero incredibile.<br />

A partire dal ’99 approfondisce il suo percorso creativo attraverso<br />

l’Aerosol Art ed ispirata da questo movimento realizza innumerevoli<br />

lavori in tutta la penisola, partecipando a molte tra le più prestigiose<br />

Convention di writing, mantenendo sempre la sua forte impronta figurativa.<br />

Partecipa al progetto per la campagna di sensibilizzazione delle problematiche<br />

femminili all’interno del “Progetto Dominae” (2001) a<br />

188


cura dell’assessorato alle Politiche Femminili e Pari Opportunità della<br />

Regione Lombardia.<br />

Realizza una rivisitazione in chiave contemporanea de “L’ultima<br />

cena”, 2003 (Opera sita nella chiesa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo di<br />

Rodi Garganico).<br />

Elabora alcuni interventi pittorici sulle palizzate del cantiere del canale<br />

Molassi (“Balôn”) presso il Comune di Torino (2004).<br />

Realizza il dipinto murale della facciata d’ingresso dell’Auditorium del<br />

“Villaggio Don Bosco”, a Lucera (2006).<br />

E’ ospite per la realizzazione di numerosi dipinti murali durante le<br />

diverse rassegne internazionali di writing come i“Meeting of<br />

Styles”(Padova ’05-’06; Anversa, Belgio ’06; Eindhoven, Olanda<br />

’06;Wiesbaden, Germania ’07).<br />

Vince il Primo Premio della 3° Edizione del Concorso Nazionale<br />

“Lanciano nel Fumetto”, Settore Illustrazioni (Lanciano, CH), 2006.<br />

Espone alcune opere presso i locali espositivi dei cantieri navali dell’<br />

“Inside”, con una relativa performance tematica in memoria del 30°<br />

anniversario degli incidenti presso gli stabilimenti dell’ex-Enichem di<br />

Manfredonia (FG).<br />

Si esibisce in “live painting” all’evento “Art de Mar”insieme a 60 artisti<br />

internazionali presso il perimetro delle pareti dell’Università della<br />

scienza e della tecnica di Matarò (Barcellona,2007).<br />

Espone alla Provincia di Foggia in una mostra titolata “Tracce dei<br />

segni” con un testo critico di Gaetano Cristino e la presentazione di<br />

Vito Capone (Foggia,2008).<br />

Partecipa alla collettiva presso il Centro Poliedro di Pontedera con<br />

interventi in live painting sui muri perimetrali degli stabilimenti<br />

Piaggio (Pontedera, 2008).<br />

In quest’ultimo anno vince il primo premio al concorso “Le strade del<br />

paesaggio” tenutosi ad Arcavacata (CS) e viene scelta per illustrare con<br />

dieci tavole i capitoli de ‘Le Città dimenticate’, Edizioni GEMA<br />

189


GRAZIE<br />

Ai maestri dell’Archeologia in Daunia: a Marina Mazzei, non dimenticata,<br />

e ai suoi collaboratori; a Giuliano Volpe e alla sua scuola.<br />

Agli amici che hanno reso facile la ricerca delle città dimenticate;<br />

Angela Bruno, Saverio Lamarucciola, Francesco Paolo Marucci,<br />

Matteo Vocale, tra i primi.<br />

A Franco Iadarola, compagno di sopralluoghi e di scrittura.<br />

All’inventore di ‘Terre Foggiane’, Aldo Chiappe bonae memoriae.<br />

A tutti gli uomini del passato che ci hanno consentito di giocare con<br />

loro: Dante Alighieri, Amato di Montecassino, Eudes de Châteauroux,<br />

Benedicto Cochorella, Anna Comnena, Guglielmo de Apulia, Nicolò<br />

Jamsilla, Licofrone, Liutprando di Cremona, Tito Livio, Goffredo<br />

Malaterra, Mattheo di Giovinazzo, Michel de Notre-Dame, Omero,<br />

Orazio Flacco, Plutarco, Piero della Vigna, Salimbene da Parma,<br />

Strabone, Giovanni Villani, Giuseppe Ungaretti, Walther von der<br />

Vogelweide.<br />

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Finito di stampare<br />

nel giorno di Virgilio<br />

dell’anno duemilaotto<br />

da Edizioni d’Arte Severgnini<br />

in Cernusco sul Naviglio<br />

in settecento esemplari di cui<br />

i primi duecentosettanta numerati in confezione.

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