Jolly Roger_02_02
Jolly Roger Magazine - Anno II Numero II
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EDITORIALE<br />
tornando a casa<br />
Un modo di dire, un modo di ricordare, un modo di essere<br />
di Fabio Gimignani<br />
Era il 1978 quando Jane Fonda<br />
e John Voight interpretavano,<br />
sotto la magistrale direzione di<br />
Hal Ashby, quell’indiscusso capolavoro<br />
di Hollywood che va<br />
sotto al nome di “Tornando a<br />
casa” (Coming home).<br />
Il testa a testa con “Il cacciatore”<br />
(The deer hunter) di Michael<br />
Cimino durante la Notte<br />
degli Oscar fu epico, tant’è che<br />
se l’ambita statuetta per il miglior<br />
film andò al Cacciatore,<br />
Voight e la Fonda si accaparrarono<br />
quelle per miglior attore<br />
e attrice protagonista lasciando<br />
De Niro e la Streep a bocca<br />
asciutta.<br />
Fu una notte nella quale, a parte<br />
qualche sporadico riconoscimento<br />
a capolavori come<br />
“Fuga di mezzanotte” e “Il<br />
paradiso può attendere”, le due<br />
pellicole sul Vietnam giocarono<br />
ad Asso pigliatutto con un<br />
notevole successo.<br />
Ed eccoci alla solita domanda<br />
che a questo punto dell’Editoriale<br />
è doveroso porsi: a che pro<br />
tutto questo sproloquio su una<br />
cosa accaduta quarant’anni fa?<br />
Perché “Tornando a casa” è<br />
un film che racconta la fragilità<br />
umana davanti all’ineluttabilità<br />
del destino, centellinando<br />
emozioni e sentimenti in un<br />
crescendo che passa dalla rassegnazione<br />
alla consapevolezza<br />
di se stessi in quel processo<br />
che oggi va tanto di moda chiamare<br />
resilienza e che da sempre<br />
ha accompagnato l’Uomo nella<br />
sua presunta o reale evoluzione.<br />
Perché quel John Voight (non so<br />
se l’ho amato più in questo film<br />
o in “Urban Cowboy”... ma lì<br />
c’era un Dustin Hoffmann da<br />
lacrime vere, difficile da mettere<br />
in secondo piano) che parte<br />
da capitano della squadra di football<br />
del College e torna come<br />
reduce paralizzato dalla vita in<br />
giù, che alla domanda di lei «...<br />
Questo puoi sentirlo?..» risponde<br />
«Mi basta vederlo», rappresenta<br />
tutto quello che ognuno<br />
di noi ha vissuto mille e mille<br />
volte percorrendo la strada che<br />
il destino ci ha messo davanti.<br />
Sì certo, il film racconta di altre<br />
frustrazioni, di tradimenti; parla<br />
della vita che si piega sotto<br />
al proprio peso fino a diventare<br />
morte... ma non è questo che mi<br />
è rimasto addosso a quarant’anni<br />
di distanza: è l’eterno concetto<br />
del nosce se ipsum abbinato<br />
alla felicità di farlo, quello che<br />
ricordo.<br />
Perché ci sono sogni di gloria<br />
talmente luminosi da abbagliarci,<br />
facendoci perdere di vista le<br />
cose veramente importanti. Sogni<br />
che, quando si infrangono<br />
(se mai sono stati davvero realizzabili),<br />
ci precipitano nella<br />
disperazione più nera, salvo poi<br />
riportarci alla realtà che avevamo<br />
dimenticato, presi come<br />
eravamo a inseguire chimere<br />
irraggiungibili.<br />
E a quel punto l’orizzonte si rischiara<br />
e le nubi, se proprio non<br />
spariscono, almeno si allontanano<br />
di parecchio confermando<br />
che “non può piovere per<br />
sempre”, citando un più recente,<br />
ma non certo meno incisivo<br />
Brandon Lee.<br />
Sono riflessioni, queste, in cui<br />
capita di indulgere quando,<br />
mentre la ciurma dorme sottocoperta,<br />
ci si ritrova da soli con<br />
le mani sul timone e una trapunta<br />
di stelle sopra alla testa.<br />
Riflessioni che ci fanno capire<br />
come non ci sia un nesso tra<br />
grandi obiettivi e grandi uomini,<br />
ma si possa riuscire a essere<br />
grandi anche nel quotidiano.<br />
Anche abbandonando progetti<br />
irrealizzabili, nei quali avevamo<br />
comunque creduto; anche<br />
tornando a casa.<br />
A casa. Magari come il Vaso di<br />
fiori di Jon Van Huysum che sta<br />
rientrando a Firenze dopo cinquant’anni<br />
di assenza.<br />
Che i nostri racconti gli abbiano<br />
portato fortuna?<br />
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