Fitainforma - febbraio 2020
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fitainforma
ANNO XXXIII - N. 1
febbraio 2020
TEATRO E POLITICA
Quando il palcoscenico
sceglie di schierarsi
IL NUOVO MODO
DI LEGGERE
FITAINFORMA
Da questo numero di Fitainforma di febbraio 2020
cambia il modo di leggere la rivista di Fita Veneto, con
un formato nuovo che coniuga le riviste di un tempo
con l’attualità e la potenza di Internet. Il giornale
infatti si può sfogliare online quasi come fosse
reale, ma chi volesse potrà anche scaricarne una
copia completa in formato pdf, oppure stamparlo
tutto o solo una parte. Inoltre, questo metodo di
pubblicazione permette anche di usufruire di
comodità pratiche, come ad esempio inserire
link all’interno della rivista (l’indice con un
click può portarvi direttamente all’argomento
che avete scelto di leggere) o anche esterno,
per consultazioni in Rete.
Ma non finisce qui.
All’interno delle pagine “virtuali” sono
infatti stati inseriti anche alcuni video
che si possono guardare direttamente
senza chiudere il giornale. Infine, le
pagine (e gli articoli, ovviamente) si
possono ingrandire o ridurre a
proprio piacimento per meglio
godere della lettura. Il tutto
sia dal pc di casa o dell’ufficio,
sia dal nostro smartphone o
tablet, essendo la rivista
ottimizzata anche
per la lettura su questi
nuovi dispositivi.
Insomma...
Buona lettura!
EDITORIALE
DA OGGI
SI CAMBIA
Apriamo il 33° anno di pubblicazione del
nostro periodico con una nuova veste grafica
che lo rende più accessibile, più leggibile,
ma certamente non snatura l’impostazione
editoriale che da tempo abbiamo voluto dargli:
per farne, cioé, uno strumento di informazione
e diffusione della cultura teatrale attraverso
notizie e contenuti per un pubblico sia di
appassionati che di addetti ai lavori.
A cambiare è la veste grafica, per la quale
abbiamo trovato un punto d’incontro fra
tradizione e innovazione, tra l’impatto visivo di
una rivista nel senso più classico del termine e la
fruibilità di un prodotto online, con l’aggiunta di
una serie di “optional” che ci auguriamo possano
renderne ancora più piacevole la letturanavigazione:
elementi come lo sfogliatore, lo
zoom, il link a pagine d’interesse interne alla
rivista o esterne (a partire dalle voci dell’indice)
o ancora l’inserimento di alcuni video e la
possibilità, per chi lo volesse, di scaricare una
copia completa del numero in formato pdf o di
stamparlo tutto o in parte.
Torniamo, per certi versi, all’impostazione
grafica del periodico stampato, per
accontentare chi era abituato a sfogliarne le
pagine; manteniamo però la distribuzione
gratuita online che negli ultimi anni ci ha
permesso di raggiungere un folto numero
di lettori che supera quello comunque
ragguardevole degli abbonati alla versione
cartacea.
Inauguriamo il nuovo corso del nostro periodico
nel pieno della stagione teatrale 2019-2020, in
concomitanza con inizio del festival nazionale
“Maschera d’Oro” che in questo mese di
febbraio apre la sua 32^ edizione. Spazio
però, come sempre, agli approfondimenti ed
agli interventi di personalità del mondo della
cultura.
Pubblicare Fitainforma è per FITA Veneto un
impegno non da poco, ma anche una precisa
scelta per rendere un servizio, oltre che alla
cultura teatrale, anche ai nostri Associati, che
primi fra gli altri ne sono i destinatari. Pensare
che per molti possa essere uno strumento di
accrescimento personale e culturale ci rende
orgogliosi e anche consapevoli che il ruolo
della nostra Federazione non sia solo di tipo
burocratico o amministrativo. Ci piacerebbe
fossero di più gli Associati che ci parlano
di quanto scritto su Fitainforma, anche
dissentendo magari, ma comunque rinnovando
ed ampliando le proprie conoscenze. Lo
riteniamo importante, se non indispensabile.
Troppi di noi si limitano a fare teatro con il
proprio gruppo, rimanendone evidentemente
appagati; non comprendono, però, quante
possibilità perdono non ampliando la propria
visione e conoscenza. Leggere Fitainforma
non è certo sufficiente, ma questo, affiancato
magari a qualche spettacolo di altri generi e
compagnie, può essere uno stimolo fra gli altri.
Fitainforma vuole essere un punto da cui
partire, non a cui arrivare. Un invito a muoversi
per scoprire, comprendere, imparare. È un
pochino quello che diciamo ai ragazzi che
incrociamo nell’attività teatrale nelle diverse
situazioni che vengono loro proposte, quali i
concorsi per gli studenti o gli stages formativi.
Per loro natura queste iniziative hanno una
durata limitata, ma se possono contribuire ad
allargare la visione personale e la conoscenza
culturale e artistica crediamo siano energie
bene impiegate, anche se spesso non ne
raccogliamo molte soddisfazioni.
Chiudiamo con l’augurio che il contenuto di
questo numero, come per gli altri in passato,
sia di utilità e piacere per i lettori. Siamo certi
di esserci impegnati per questi (forse piccoli)
risultati. Ci piacerebbe capire se le energie sono
bene impiegate.
Buona lettura e buon teatro a tutti.
Mauro Dalla Villa
Presidente FITA Veneto
3
03
05
indice
Editoriale
32ª Maschera d’Oro
Le sette finaliste
fitainforma
Bimestrale
del Comitato Regionale Veneto
della Federazione Italiana
Teatro Amatori
ANNO XXXIII - febbraio 2020
08
10
Il selezionatore del Festival
Roberto Cuppone
Teatro e Politica
Quando il palco si schiera
10
Registrazione Tribunale
di Vicenza n. 570
del 13 novembre 1987
Direttore responsabile
ANDREA MASON
15
18
20
Mauro Dalla Villa
Quattro anni di Fita Veneto
Giovani
Marco Faccin racconta ITAF
FITA Rovigo “Oltre la scena”
Responsabile editoriale
MAURO DALLA VILLA
Redazione
Alessandra Agosti
Stefano Rossi
Virgilio Mattiello
Valerio Dalla Pozza
Germano Nenzi
22
24
Compagnie
La Nogara e il teatro che non c’era
Cultura
Klaus Kinski artista maledetto
15
Direzione e redazione
Stradella delle Barche, 7
36100 VICENZA
tel. 0444 324907
fitaveneto@fitaveneto.org
www.fitaveneto.org
05
08
24
18
FESTIVAL NAZIONALE
MASCHERA D’ORO
APPUNTAMENTO A VICENZA PER LA 32ª EDIZIONE DELLA KERMESSE
DI SCENA A PARTIRE DA SABATO 8 FEBBRAIO
LE PREMIAZIONI SABATO 28 MARZO CON UN INTENSO SPETTACOLO
FESTIVAL
È in partenza
la 32ª edizione
della kermesse
nazionale,
che si svolgerà
al Teatro
S. Marco
di Vicenza
a partire
dall’8 febbraio,
con serata di gala
e premiazioni
il 28 marzo
Sette in lizza per la M
8 febbraio
COMPAGNIA
LO SCRIGNO
Vicenza
15 febbraio
FILODRAMMATICA
DI LAIVES
Bolzano
22 febbraio
TEATRODRAO
E TEATROTRE
Ancona
29 febbraio
IL DIALOGO
Cimitile
(Napoli)
Ad aprire sarà lo spettacolo 7
minuti di Stefano Massini, per
la regia di Amer Sinno. Una
multinazionale è interessata
ad acquisire la Vianello & Rossi,
fabbrica tessile dal grande passato
ma ormai in crisi. Per farlo
chiede però che i dipendenti
accettino una riduzione della
pausa garantita e la decisione,
a nome di tutte le maestranze,
è demandata alle nove rappresentanti
delle lavoratrici. Sulle
prime, il sacrificio chiesto appare
minimo e le donne sembrano
intenzionate ad accettare.
Secondo appuntamento con Il
marito di mio figlio di Daniele
Falleri, per la regia di Roby De
Tomas. Una moderna commedia
degli equivoci sul tema del
matrimonio gay. Ma l’obiettivo
non è una scelta di campo,
quanto la volontà di portare
in primo piano un tentativo di
convivenza di una coppia di ragazzi
che si amano e che non
vogliono farsi condizionare
dalle convenzioni degli adulti.
L’inattesa notizia crea il caos e
tra mogli e mariti capita letteralmente
di tutto.
Terzo spettacolo in gara sarà
Equus di Peter Shaffer, per la
regia di Davide Giovagnetti.
Perché il giovane Alan Strang,
dopo essersi preso amorevole
cura di alcuni cavalli, all’improvviso
li ha accecati? Il magistrato
chiede aiuto a un amico psichiatra
infantile, per comprendere i
motivi dell’atto e riportare Alan
a un equilibrio che gli permetta
di vivere nella società. Nel viaggio
spirituale e sessuale di Alan
nella pazzia, il medico scoprirà
molto anche di se stesso e della
propria vita priva di passioni.
Quarte serata dedicata a Napoli
milionaria di Eduardo De Filippo,
per la regia di Ciro Ruoppo.
La guerra è lo scenario diretto,
ma si va ben oltre, indagando
l’uomo e il suo rapporto con i
valori fondamentali della vita.
Gennaro è una brava persona,
che non vuole piegarsi al compromesso
in fatto di onestà. Sua
moglie Amalia, invece, aiutata
dai figli Amedeo e Rosaria entra
nel vile mercato della borsa
nera. Ritenuto disperso, finita
la guerra torna all’improvviso e
trova una famiglia alla deriva.
6
Un momento della consegna, al teatro
Olimpico, del Premio Faber ai vincitori
della Maschera d’Oro 2019: la compagnia
Soggetti Smarriti di Treviso
È diventato da trentadue anni un appuntamento
imperdibile dell’inizio dell’anno a Vicenza: il Festival
nazionale Maschera d’Oro attira pubblico e
compagnie per la qualità delle proposte e la validità
della formula della kermesse, organizzata
dal Comitato veneto della Federazione Italiana
Teatro Amatori (Fita) d’intesa con Regione del
Veneto, Comune di Vicenza, Il Giornale di Vicenza
e Confartigianato Imprese Vicenza e con il patrocinio,
tra gli altri, di Ministero dei Beni e delle
Attività culturali, Amministrazione Provinciale di
Vicenza e Fita nazionale.
Quest’anno le finaliste provengono da Piemonte,
Trentino-Alto Adige, Campania, Marche, Toscana
e Veneto. Sette le prescelte, fra la settantina
di candidature pervenute da tutta Italia: Lo
Scrigno di Vicenza in 7 minuti di Stefano Massini,
regia di Amer Sinno; Filodrammatica di Laives
(Bolzano) ne Il marito di mio figlio di Daniele
Falleri, regia di Roby De Tomas; Teatrodrao &
TeaTroTre di Ancona, in Equus di Peter Shaffer,
regia di Davide Giovagnetti; Il Dialogo di Cimitile
(Napoli) in Napoli milionaria di Eduardo De Filippo,
regia di Ciro Ruoppo; I Pinguini di Firenze
in La colpa è del giardino di Edward Albee, regia
di Pietro Venè; Compagnia dell’Orso di Lonigo
(Vicenza) in Le Chat Noir, scritto e diretto da Paolo
Marchetto; La Corte dei Folli di Fossano (Cuneo)
in Nel nome del padre di Luigi Lunari, regia di
Stefano Sandroni.
Un gran bel mix di generi, dunque, in questa
nuova edizione che, dopo una prima scelta affidata
ad una commissione di giornalisti di settore,
vede come selezionatore finale Roberto Cuppone,
drammaturgo e docente all’Università degli
Studi di Genova (col quale abbiamo parlato della
Maschera e non solo nel corso di un’intervista
pubblicata nelle pagine a seguire), scelto per questo
delicato incarico dopo la scomparsa, l’estate
scorsa, di Luigi Lunari, a lungo selezionatore del
festival e direttore artistico di Fita Veneto.
Il calendario si snoderà dall’8 febbraio al 21 marzo,
sempre il sabato sera alle 21. La serata di premiazioni
- accompagnata dallo spettacolo fuori
concorso A republica dei mati di Roberto Cuppone,
messo in scena dalla compagnia trevigiana
Il Satiro - si terrà sabato 28 marzo; ai premi per
la compagnia vincitrice e ai riconoscimenti individuali
e collettivi, si affiancheranno quello di
critica La Scuola e il Teatro per gli studenti delle
scuole superiori e il Premio Renato Salvato per la
diffusione della cultura teatrale.
In palio come sempre, da 26 anni a questa parte
grazie alla collaborazione con Confartigianato
Imprese Vicenza, c’è anche il palcoscenico del
Teatro Olimpico di Vicenza: per i vincitori della
Maschera, infatti, ci sarà il Premio Faber Teatro, riconoscimento
che consente alla compagnia che
lo conquista di esibirsi per una sera nel teatro coperto
più antico del mondo.
aschera d’Oro 2020
7 marzo
COMPAGNIA
I PINGUINI
Firenze
14 marzo
COMPAGNIA
DELL’ORSO
Lonigo (Vicenza)
21 marzo
LA CORTE
DEI FOLLI
Fossano (Cuneo)
28 marzo
SERATA DI GALA
E PREMIAZIONI
DEL FESTIVAL
La colpa è del giardino, di
Edward Albee per la regia di Pietro
Venè, è il quinto spettacolo
in programma. Jenny e Richard
potrebbero essere una coppia
felice, ma la congenita mancanza
di denaro non aiuta. Mrs
Toothe, una donna misteriosa
e dai modi aristocratici, propone
a Jenny un modo semplice
e veloce per dare una sterzata
in positivo al bilancio familiare.
Una black comedy animata da
personaggi cinici, superficiali e
crudeli, specchio di una società
che guarda solo all’apparenza.
Paolo Marchetto è autore e
regista de Le Chat Noir, penultima
serata che racconta storie e
personaggi di un bar, attraverso
i quali toccare tutte le corde
dell’anima, allegre o drammatiche,
fra risate e momenti di
riflessione. In quel fitto via via
di vite che è Le Chat Noir ecco
però entrare, all’improvviso, un
personaggio inquietante, che
mette gli avventori con le spalle
al muro, obbligandoli a far
uscire allo scoperto, una volta
per tutte, la propria verità.
Ma sarà davvero così?
Ultimo spettacolo di quest’anno
è Nel nome del padre di Luigi
Lunari, per la regia di Stefano
Sandroni. Un uomo e una donna
si incontrano in una sorta
di limbo. Entrambi hanno un
passato pesante, dal quale devono
liberarsi per poter andare
oltre. In comune hanno avuto
padri ingombranti, uomini politici
schierati su fronti opposti.
Insieme devono trovare una via
d’uscita da quell’esperienza annichilente,
un modo per trovare
se stessi, la propria identità e
la propria strada.
La serata finale di quest’edizione,
oltre alla cerimonia di premiazione,
vedrà anche Il Satiro
Teatro di Paese (Treviso) presentare
il proprio spettacolo A
republica dei mati, testo e regia
di Roberto Cuppone. Nel 1948
l’Italia sceglie di essere una repubblica.
A quello storico voto,
dopo la disperazione della seconda
guerra mondiale, partecipano
tutti, anche le donne.
Ma non Ugo, “mato de guera”
che però, dopo averne viste e
subite tante, nella sua testa ha
le idee molto chiare.
7
INTERVISTA
ROBERTO
CUPPONE
L’amatoriale sia teatro di libertà
FESTIVAL
A colloquio con il nuovo selezionatore finale del festival Maschera d’Oro
di Alessandra Agosti
Roberto Cuppone, classe 1955,
salentino di origine e veneto
di adozione, attore, autore e
regista, docente al Dipartimento
di Italianistica, Romanistica,
Antichistica, Arti e Spettacolo
dell’Università di Genova, è il
nuovo selezionatore finale del
Festival nazionale Maschera
d’Oro.
Un ruolo importante e un’eredità
altrettanto di alto livello,
visto che Cuppone è stato
chiamato a succedere a Luigi
Lunari, drammaturgo, scrittore
e saggista scomparso la scorsa
estate, per molti anni selezionatore
del festival.
Per questo abbiamo voluto
scambiare qualche battuta con
lui all’indomani della sua prima
esperienza alla Maschera,
anche per conoscere meglio il
suo rapporto con il teatro amatoriale,
che peraltro frequenta
da molto tempo.
Come ha accolto la proposta
di Fita Veneto?
Ne sono stato molto contento,
naturalmente. È una responsabilità,
ma una bella responsabilità,
perché la Maschera d’Oro
è senz’altro il più importante
festival di teatro amatoriale
che c’è in Italia e presenta ogni
anno delle novità che fanno
bene al teatro in assoluto, non
solo al teatro amatoriale.
Questa prima selezione
com’è andata?
Prima di me ha agito un
gruppo di quattro selezionatori
che voglio ringraziare,
perché hanno fatto una parte
molto importante del lavoro,
visto che delle oltre settanta
candidature arrivate, per me
ne hanno scelte venti. Il mio
compito è stato decidere,
all’interno di questa rosa, quali
spettacoli potessero ambire ai
sette posti della finale. Il mio,
insomma, non è stato un lavoro
solitario e ne sono felice,
perché mi considero un uomo
di squadra; e non l’ho vissuto
neanche come un lavoro da
“giudice”, quanto semmai da
talent-scout: credo che questo
Cuppone nella duplice veste di attore e autore per Pigafetta. Non si farà più tal viagio
sia un concorso che cerca di
dare spazio a idee, a proposte
nuove, a cose che confortino la
passione di chi fa teatro.
Proposte nuove anche
nell’affrontare un “classico”?
Non ci sono stati e non ci
saranno ostracismi né di autori,
né di epoche, né di repertorio.
Credo che il senso di un buon
festival di teatro amatoriale
non dovrà mai essere quello
di premiare le compagnie che
sentono di dover “assomigliare”
al teatro professionistico
e credo anche che vincolare
l’idea del teatro amatoriale
ad una certa epoca sia nocivo.
Semmai dobbiamo cercare e
valorizzare la specificità del
teatro amatoriale: dobbiamo
chiederci che cosa può fare
questo teatro che non può fare
nessun altro? La risposta penso
sia sperimentare con coraggio,
trovare strade alternative,
scrivere cose proprie, testimoniare
cose nuove... Quindi non
è questione di essere moderni
o essere antichi: è che, a parità
di qualità complessiva, tra
la proposta di un modello di
imitazione, magari fatto bene
(anche benissimo, in certi casi),
e un testo nuovo, o un lavoro
sviluppato con originalità, di
certo preferisco una cosa che
porti in sé l’emozione della
novità.
Su quali criteri si è basato
nella scelta?
Premesso che tutti i lavori che
mi sono stati presentati erano
di notevole qualità, ho cercato
prima di tutto di fare una
valutazione tecnica complessiva
e di base del gruppo. Poi
ho guardato la recitazione,
anche in questo caso cercando
soprattutto l’interazione fra
gli attori e anche l’emozione
trasmessa: non tanto quella
(per carità, assolutamente
legittima) del piacersi narcisistico
del bravo attore, quanto
quella dell’attore che si sente
portatore di una scrittura, di
un’idea nuova. Infine, terzo
criterio (ma primo per me), è
stato il senso globale dell’operazione:
perché si è scelta una
certa idea? perché si è deciso di
scrivere un testo, di recuperarne
uno, di adattarlo?
Lei conosce il teatro amatoriale
da molto tempo. Un
pregio?
Mi riallaccio a quanto ho detto
prima per ribadire che il teatro
amatoriale deve approfittare
della sua libertà. Ci sono stati
episodi nella storia in cui un
teatro fatto non a scopi profes-
sionali è stato un laboratorio
eccezionale: penso alle improvvisazioni
che faceva lo stesso
Goldoni a Bagnoli o a Bologna
con l’Albergati, e credo che
la sua scrittura sarebbe stata
diversa se non avesse vissuto
queste esperienze; oppure, nel
cuore dell’Ottocento, George
Sand e altri romantici che avevano
laboratori privati in case
di campagna; o tanti altri che
nel Novecento hanno portato
avanti la ricerca, magari in
gruppi di lavoro o in “comuni”,
lontano dalla città... Insomma,
la parola amatoriale è un po’
riduttiva nell’accezione comune:
diciamo che la possibilità
di fare un teatro non vincolato
ad una prestazione professionale
è una grandissima risorsa
per tutti, per il teatro e per la
cultura. E poi c’è la lingua...
Vale a dire?
Per il teatro l’italiano è una
lingua morta, difficile da gestire,
mentre tutti i dialetti sono
materia viva e quindi azione;
per questo mi sono sempre
interessato al teatro dialettale.
Importante, quindi, è lo spazio
che il mondo amatoriale ha
sempre dato al teatro nelle
lingue regionali, nel bene e nel
male: nel male, per un certo
compiacimento nostalgico; nel
bene sperimentando contaminazioni
linguistiche e tenendo
viva anche una tradizione
linguistica e lessicale.
Un ricordo di Lunari?
Un personaggio che ha avuto
una grande storia, fin dagli
anni in cui è stato nella stanza
dei bottoni al Piccolo Teatro.
Io l’ho sempre percepito come
una persona di grande indipendenza
intellettuale. Penso che
non si sia adagiato in queste
occasioni che la vita gli ha
offerto proprio per spirito di
indipendenza. Ho apprezzato
molte sue pubblicazioni, sia
come traduttore dei francesi,
sia come divulgatore, e non
ultimo, ovviamente, la sua opera
come autore teatrale: era
uno che scriveva per l’attualità,
con l’attualità e con un grande
senso dell’ironia.
9
FOCUS
Bertolt
Brecht
(Bundesarchiv)
L’antesignana
(dichiaratamente)
politica può essere
la Commedia
dell’Arte del ‘500
TEATRO POL
Quando i
diventa
Gli esempi sono veramente infi
di Filippo Bordignon
“Io mi ribello, dunque esisto” ebbe a dichiarare il filosofo e scrittore
francese Albert Camus parafrasando la più celebre locuzione
cartesiana “Cogito ergo sum”. Che la politica sia una formula non
violenta per operare in seno alla società dei cambiamenti - talvolta
persino delle rivoluzioni - è affare assodato e incontrovertibile.
Così come è inequivocabile che ogni artista, il quale crea a partire
dal proprio pensiero morale ed etico, è volente o nolente il megafono
di un preciso pensiero politico. Ci si può dichiarare apertamente
a-partitici ma il cosiddetto “pensiero a-politico” è una contraddizione
di impossibile applicazione sotto il profilo teorico.
Va da sé che, nella storia del teatro, sono infiniti e infinitamente
diversificati gli esempi di drammaturghi attivamente schierati rispetto
a un’ideologia o più semplicemente a un’idea forte, tanto
che una lista che si professasse esaustiva sarebbe impossibile. Più
ragionevole evidenziare alcuni esempi significativi che hanno contribuito,
con la perspicacia del proprio pensiero, a fare dell’intrattenimento
a forma di propaganda, poggiando sulla buona fede
che un Credo abbracciato per l’interesse collettivo non possa che
fruttificare azioni positive.
L’antesignana del teatro (dichiaratamente) politico potrebbe venire
identificata - per restare nella nostra Penisola - nella cinquecentesca
Commedia dell’Arte, laddove gli spettacoli, parzialmente
emancipatisi dallo svolgimento nei soli luoghi di culto e di corte,
uscivano nelle strade caricandosi di una libertà fino a prima impensabile
e meno soggetta alla sudditanza al potere costituito.
Trattandosi di rappresentazioni rivolte a un pubblico popolare, la
visione di fondo, mascherata in maniera da non attirare alla compagnia
condanne di vario genere, prendeva le difese dei più deboli
mettendo in scena vicende di sopraffazione che si risolvevano con
il riscatto del buono nei confronti del malvagio.
La funzione catartica nel “teatro dell’oppresso” - ben nota nelle più
antiche manifestazioni della tragedia greca già teorizzate da Aristotele
intorno al 330 a.C. - nella prima parte del Novecento cede
invece il passo a una drammaturgia allegorica che, proprio perché
non esplicita nei nomi e nei fatti storici o cronachistici, spesso nega
allo spettatore il sollievo di un riscatto, dipingendo il ritratto di una
società opprimente in cui il debole è schiacciato dagli ingranaggi
dell’apparato statale. Tra i primi e certamente più originali esempi
di teatro politico così teorizzato va riconosciuto quello del tede-
10
ITICO
l palcoscenico
una barricata
niti e infinitamente diversificati
FOCUS
sco naturalizzato austriaco Bertolt Brecht. Poeta e cantautore per
diletto fin dall’adolescenza, egli pervenne a un ibrido di dramma
grottesco, cabaret e teatro musicale percorso da una filosofia nichilista
dell’esistenza. I suoi anti-eroi tentano disperatamente di
ribellarsi al sistema finendo vittime dei propri sogni e aspirazioni.
Seppellendo la figura dell’eroe romantico (si pensi alla fine ingloriosa
del Baal datato 1923) e iniettando nella propria estetica dosi
massicce di socialismo marxista, lo scrittore conferì alla sua drammaturgia
più celebre, L’opera da tre soldi del 1928, uno spietato
attacco alla società capitalista (ancor più oltranzista risultò, sei
anni più tardi, il suo Romanzo da tre soldi che sfruttò lo stesso soggetto
cavalcandone il favore del pubblico). In molti punti del testo,
ambientato nella Londra vittoriana, i personaggi si rivolgono direttamente
al pubblico, concretizzando così uno sfondamento della
“quarta parete” e mettendo in pratica lo straniamento brecthiano
in contrapposizione all’immedesimazione finora richiesta a teatro.
Ciò pone un tassello imprescindibile per tutto il teatro politico a
seguire e per il teatro di narrazione oggi sdoganato da personaggi
noti quali Marco Paolini o Ascanio Celestini. Eppure già al tempo si
palesò una situazione paradossale che tende a manifestarsi anche
ai giorni nostri: L’opera da tre soldi doveva essere un lavoro a preciso
appannaggio del proletariato che si dimostrò invece particolarmente
freddo nell’accoglienzaa differenza della borghesia, che
ne decretò il successo.
Anche nel 2020 della crisi globale la partecipazione culturale a
espressioni artistiche di dichiarata matrice politica non irretisce
grandi numeri appartenenti alle classi disagiate, desiderose piuttosto
di semplice svago e di un intrattenimento disimpegnato.
Sono le classi più elevate, piuttosto, che, possedendo gli strumenti
intellettuali per codificare i linguaggi di denuncia esposti sovente
mediante escamotage e allegorie, possono fruire con maggiore
Albert Camus (foto Robert Edwards)
trasporto le opere di denuncia e critica sociale. A ciò si aggiunga il
disinteresse quando non addirittura il fastidio, da parte del “proletariato”,
nel veder esposta e “artisticizzata” la propria sofferenza.
Con la seconda e terza rivoluzione industriale e l’avvento di fenomeni
quali il sistema di fabbrica post-fordista andarono a modellarsi
nuove maniere di intendere il lavoro. Le rivendicazioni sindacali
innescate già a partire dai primi decenni dell’800 nella forma
embrionale delle trade unions, presero una forma e una consapevolezza
ben più consistente nella seconda metà del Novecento; la
lotta di classe divenne così uno dei temi prediletti di certo teatro
politico, che si propose lo scopo di sensibilizzare il proletariato raccontando
le bassezze dei padroni, si trattasse della classe politica
al governo o di altri depositari del cosiddetto “Potere”. Ogni nazione
sviluppò perciò, facendo i conti con le specificità delle proprie
tradizioni e della propria attualità, esempi di drammaturgia “impegnata”
nell’ambito civile. In Italia una delle massime espressioni
fu il premio Nobel per la Letteratura Dario Fo; in sinergia con
l’attrice Franca Rame, per oltre sessant’anni egli scrisse e interpretò
spettacoli passati alla storia quali Mistero buffo, Coppia aperta,
quasi spalancata e Morte accidentale di un anarchico. Impiegando
la farsa e, saltuariamente, un grammelot di derivazione giullaresca,
la coppia Fo-Rame dipinse un ritratto dell’Italia acuto e mai
accondiscendente, attirandosi le ire di certe fazioni politiche (so-
11
FOCUS
Dario Fo (foto CarassioJoel)
prattutto di destra, quando ancora il mondo si divideva in due fazioni
di pensiero sociale) come anche di quella ecclesiastica. Con
Morte accidentale di un anarchico del 1970, il dito venne puntato
su un ancor oggi irrisolto fatto di cronaca nera che riguardò la
caduta e la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli da una finestra
della Questura di Milano nel 1969. Pinelli era in un momento di
pausa durante l’interrogatorio voluto dal commissario Luigi Calabresi
per accertamenti su un eventuale coinvolgimento nella strage
di Piazza Fontana quando “precipitò” dalla finestra dell’ufficio,
schiantandosi al suolo. A partire da questa vicenda Fo costruì una
narrazione che sposta la storia nella New York degli Anni ’20 con
protagonista l’anarchico Andrea Salsedo. La ricostruzione operata
da Fo non fece che enfatizzare il clima di tensione in un’Italia già
minata da fatti di terrore provenienti da ambo le fasce estreme
del pensiero politico, una tensione culminata nell’uccisione dello
stesso Calabresi nel maggio del ‘72.
Alla luce di questo conclamato omicidio, le pesanti critiche mosse
dall’intellighenzia di destra ai firmatari di una lettera aperta sul
caso Pinelli pubblicata da L’Espresso nel giugno del 1971 (vi figuravano
nomi come quello di Fo ma anche l’architetto Gae Aulenti,
il regista Marco Bellocchio, il giornalista Giorgio Bocca e il critico
d’arte Gillo Dorfles, ben 757 personaggi autorevoli) destarono
nell’opinione pubblica la sensazione che il Paese fosse paralizzato
a causa di una “guerra interna”. Bastarono pochi anni e, con
l’avvento del nuovo decennio, le fabbriche e le scuole occupate,
i prezzi “politici” per i biglietti delle rappresentazioni teatrali e dei
concerti, i dibattiti pubblici e i chilometrici cortei di protesta parvero
ricordi di un’epoca lontanissima. Il boom economico venne cavalcato
al di sopra delle reali possibilità dello Stivale e ben presto
le compagnie indipendenti finirono con lo “stanziare” nei Centri
Sociali autogestiti, sorta di “riserve” culturali, precludendosi così
un dialogo efficace anche con quel pubblico non ancora persuaso
della necessità di una democratizzazione sociale.
Nonostante il clima apparentemente sfavorevole non mancarono
certo la nascita, la crescita e la definitiva consacrazione di talenti di
prim’ordine, come nel caso dell’irriverente e provocatoria comicità
di Paolo Rossi, degno continuatore della blasonata formula artistica
Fo-Rame.
Impossibilitati dal processo di burocratizzazione a rimanere “autogestiti”,
i Centri Sociali andarono man mano mutando la propria
identità in quella di spazi poli-culturale dove tenere concerti di
punk rock o presentazioni di libri di case editrici a bassissimo budget
dichiaratesi astutamente “alternative” e la cassa di risonanza
del teatro politico si ridusse ulteriormente nell’ambito di Feste
dell’Unità e manifestazioni simili. Negli Anni ’90 la satira politica
trovò però un nuovo spazio grazie a una generazione di attori che
seppero bucare il piccolo schermo televisivo e colmare i teatri: i
fratelli Sabina e Corrado Guzzanti sono uno degli esempi illustri di
quel nuovo periodo aureo, azzoppato però, nel corso degli anni,
dalla censura operata da rappresentanti di partito presenti nei
consigli di amministrazione della televisione di Stato. Più recentemente
l’opzione della stand up comedy ha conferito a mordaci
monologhisti in tutto il mondo la possibilità di esprimere opinioni
precise rispetto a questo o quel personaggio politico, corroborando
di risate e sarcasmo al vetriolo spettatori che, ci si augura, anche
grazie all’arte del teatro e dei suoi generi sapranno diventare
elettori consapevoli e avveduti.
TESTIMONI
Le Scoasse
Se il “civile”
sceglie
di far ridere
Le Scoasse in un momento di “Godersela con manco”
A.A. Il primo obiettivo del loro impegno civile
lo portano impresso nel nome: Le Scoasse. La
compagnia di cabaret di San Vito di Leguzzano
(Vicenza) nasce infatti nel 1990 come reazione
ad un problema ambientale che all’epoca
interessava il territorio. Nel 1998, dopo alcuni
spettacoli presentati solo nel paese d’origine,
la formazione decide di aprirsi ad argomenti
più generali e di uscire dai confini locali. Lo
fa con L’Otto Smarso: te la do io la mimosa,
stigmatizzando quelle che, ancora oggi, sono
due delle sue caratteristiche principali: l’essere
un compagine prevalentemente al femminile;
e l’usare il registro (intelligentemente) comico
per parlare di cose serie. Ne abbiamo parlato
con Lavinia Bortoli, co-fondatrice e autrice
di questo gruppo “con un occhio attento
alle incongruenze ed al ridicolo del mondo
contemporaneo e del travagliato nord-est”.
Fare teatro civile e farlo con la risata: da
dove sono nate queste scelte?
Non è che all’inizio pensassimo di fare una
cosa del genere... Poi, però, la continua
frequentazione di certi ambienti, la lettura di
certi testi, l’impegno sociale e quello - breve -
politico che ho avuto mi hanno portato a voler
12
FOCUS
fare qualcosa che potesse scuotere le coscienze:
e siccome, salvo rare eccezioni, la gente
preferisce divertirsi, allora abbiamo sempre
puntato a proporre qualcosa che potesse far
uscire da teatro le persone con un sorriso, ma
anche con un pensiero in più.
Nel tempo il vostro pubblico è cambiato?
Si è alzata la fascia d’età. Per altre realtà magari
sarà diverso, ma i nostri spettatori, in generale,
hanno dai 40-45 anni in su e sono persone che
cercano qualcosa di un po’ alternativo. Giovani
pochi. Certo sarebbe più comodo prendere un
testo, riadattarlo e metterlo in scena: ma mi
annoierei a morte.
Nel tempo avete affrontato diversi
argomenti: dalle problematiche ambientali
alla crisi del modello economico del nordest,
dalla parità alla “decrescita felice”.
Quando sente che è ora di affrontare un
certo argomento?
Quando lo sento mio. Adesso, ad esempio,
stiamo pensando di riprendere Godersela con
manco, rivedendolo in profondità. L’economia
non può andare oltre i limiti a cui è arrivata,
i giovani sono diventati molto attenti
all’emergenza climatica... quindi adesso sarebbe
ora di educare un po’ anche gli adulti.
Un tema a voi molto caro fin dalla nascita del
gruppo...
Il business più grande della mafia e della mala
è quello dei rifiuti. Il Veneto, in materia, ha
grosse problematiche da affrontare, dai terreni
inquinati ai Pfas. Lo spettacolo è nato nel 2013
e l’emergenza è sempre più forte: penso sia
importante battere questo chiodo ma stiamo
pensando anche ad un altro lavoro possibile,
dedicato agli anni democratico-cristiani.
Fra tanti mezzi di comunicazione, il teatro
può ancora essere uno strumento politico e
civile?
È sopravvissuto a guerre e carestie. Penso
potrà sopravvivere anche all’invasione dei
media. Passata questa follia dei social (che pure
sono utili, se usati con misura e buonsenso),
il rapporto personale e il guardarsi in faccia
contano sempre e torneranno a contare sempre
di più, ne sono certa. Le emozioni passano più
sul palco che non in rete e credo ci sarà una
riscoperta di questa dimensione. Basta guardare
quanti corsi di teatro o di lettura espressiva ci
sono, quante attività di gruppo nel territorio...
La gente ha bisogno di ritrovarsi. Ad un certo
punto si tornerà indietro. O almeno lo spero.
Proposta
Teatro
Collettivo
L’impegno
Proposta Teatro Collettivo in “Macbett” di Ionesco
F.B. Un teatro politicamente “impegnato” non
prevede soltanto una forma di drammaturgia
schierata sotto il profilo partitico o etico; si
tratta di una maniera ben precisa di intendere
l’intrattenimento che nel corso della storia si
è appropriata di spazi solitamente estranei
al teatro, quali fabbriche e scuole occupate
o quartieri problematici a causa di tensioni
sociali: un concetto di fare arte che richiede
ai suoi “players” non solo di interpretare un
ruolo ma di abbracciare un’ideologia con forza
e convinzione. Giorgio Libanore, già dal 1975
attore nella compagnia di Arquà Petrarca
Proposta Teatro Collettivo e oggi attivo come
regista per la stessa, racconta la sua esperienza.
Che aria tirava negli Anni Settanta?
In Italia durante gli Anni ’70 si percepiva un
vento speciale che, come artisti, ci indirizzava
in una precisa direzione; la nostra intenzione
era quella di metterci insieme e costruire
testi teatrali di senso compiuto secondo una
logica specifica e, dunque, anche politica.
Abbiamo affrontato le più disparate tematiche
sociali; ricordo in particolare la questione
della liberazione dei manicomi che ci portò a
collaborare con l’istituto psichiatrico di Ferrara.
Tra le opere più significative del tempo va
ricordata la coseddetta Tetralogia del Potere,
FOCUS
sviluppata tra il ’77 e l’81 e che comprendeva
Classici come I due gemelli veneziani di Goldoni
e il Macbett di Ionesco arrivando a lavori quali
Il Bertoldo a corte di Massimo Dursi e Presa di
potere di Antonio Porta.
Pur trattandosi di lavori drammatici e spesso
dolenti non mancava una componente ironica
e divertente, che riusciva a stemperare agli
occhi e orecchie del pubblico gli aspetti più
claustrofobici della “macchina del Potere”.
Negli Anni ’80 approfondimmo il rapporto tra
cittadino e società attraverso un filo conduttore
arrivato ai giorni nostri grazie a lavori come
Donne in guerra della vicentina Sonia Residori.
Esistono però delle differenze innegabili tra
gli Anni ’70 e il secondo decennio del nuovo
millennio: allora ci guidava una speranza
di libertà molto forte e, mediante il teatro,
sentivamo un grande senso di liberazione
rispetto al decennio precedente; attualmente
avverto un’atmosfera di commercializzazione
poiché il teatro, anche l’amatoriale, deve fare
i conti con ferree dinamiche economiche. Il
senso di rivendicazione e di denuncia c’è ancora
in alcune compagnie, in alcuni testi, in alcuni
attori, ma non sento quell’anelito di libertà.
Oggi è senso di denuncia e rivendicazione, ma
non di libertà. Si è perso quel gusto di scovare
nuovi linguaggi e anche gli esperimenti più arditi
in poco tempo si fanno “maniera” venendo
assorbiti dal sistema. Però un teatro politico o
comunque impegnato ha ancora senso: ognuno
di noi può avere una precisa funzione sociale,
attirando a teatro persone diverse tra loro e
lanciando il seme di una riflessione, un dibattito
per rileggere determinati fatti storici del
passato e, così, capire meglio anche il presente.
Toni
Andreetta
Cooperative
importanti
Dall’impegno, il talento e talvolta il genio di
alcuni protagonisti del teatro sono derivati
sottogeneri oggi sdoganati al grande pubblico
che pure tende a ignorarne le classificazioni.
Sviluppando la modalità del monologo, ad
esempio, è nato negli Anni ’80 il Teatro di
Narrazione, formula che prevede, con la
sola parola e rinunciando all’impiego attivo
di scenografie, luci e costumi, il rivolgersi
direttamente agli spettatori raccontando una
storia. Quando la storia è realmente accaduta
e concerne un fatto d’interesse pubblico,
magari dimenticato ma che contiene in nuce
un significato dal quale derivare una precisa
coscienza morale, si parla solitamente di Teatro
Civile. L’elevazione di un teatro eticamente
impegnato ha assurto l’appellativo di Terzo
Teatro, con nomi consegnati alla Storia come
Jerzy Grotowski e Peter Brook. Con il Teatro
Sociale s’intendono invece pratiche teatrali con
metodologie attraverso le quali professionisti
coinvolgono cittadini specifici (carcerati, ragazzi
Toni Andreetta
con famiglie difficili, portatori di handicap ecc.).
Tante modalità per intendere una missione
che non si limiti a intrattenere le persone ma
ad ampliarne la consapevolezza e, con essa, le
relazioni con gli altri esseri umani. E oggi che
accade? Ne abbiamo parlato con Toni Andreetta,
regista, attore e docente universitario padovano
attivo già a partire dalla prima metà degli Anni
’70 con Cooperativa Teatro Ora Zero.
Le figure si sovrapponevano...
Dal punto di vista teatrale il periodo che va dalla
fine degli Anni ’70 a buona parte del decennio
successivo si caratterizzò per un’organizzazione
di tipo cooperativo; magari non c’erano veri
e propri scritturati ma ognuno era allo stesso
tempo capocomico, attore e altro. Attraverso
il distaccamento padovano della compagnia
Cooperativa Teatro Ora Zero, nata in realtà
a Udine per volontà dell’attore friulano Luigi
Candoli, potei sperimentare alcune opere che
ebbero un’ampia eco nazionale come il Sigfrido
a Stalingrado, basato sulla grande recitazione
di Angela Cavo e Luigi Sportelli. Si trattava di
una drammaturgia che, riprendendo l’estetica
dell’assurdo portata ai massimi livelli da
Ionesco, Arrabal come anche dal nostro Achille
Campanile, veniva addirittura premiata anche
a livello istituzionale dal Ministero del Turismo
e della Cultura. La mia seconda esperienza di
quegli anni iniziò nel 1977 a nome Teatro Citet,
altra forma di cooperativa nella quale affrontai
i lavori più entusiasmanti sotto il profilo della
regia e produzione con titoli come Dieci giorni
senza fare niente di Roberto Mazzucco (il padre
della scrittrice Melania Mazzucco).
Recentemente con Il male oscuro della
democrazia lei ha attinto ad alcuni scritti
di Giuseppe Berto nei quali si prevedeva
il crollo della partitocrazia con 30 anni di
anticipo.
Fermo restando che ogni opera teatrale o
letteraria è sempre stata ideata, da Dante a
Shakespeare, tenendo l’impegno civile come
perno centrale, ancora oggi possiamo vantare
in Italia alcuni nomi dirompenti che pure sono
il traslato degli Anni Settanta: basti pensare a
realtà come Societas Raffaello Sanzio, Babilonia
Teatri, Motus e Anagoor, compagnia trevigiana
ormai celebre in tutto il mondo. Eppure non
credo che oggi sia possibile operare una
rivoluzione culturale mediante il teatro poiché
lo spettatore si nutre da altri sportelli, sia per
catarsi che per contenuti. In questo senso il
teatro amatoriale potrebbe incarnare l’idea non
di copiare/scimmiottare i professionisti ma di
fare della sana sperimentazione. Non scordiamo
che gente come Artaud e Stanislavskij erano
dilettanti che divennero professionisti poiché
non avevano la testa ingombrata di accademia
ed espressività manierata.
Consolidare
e progredire
Mauro Dalla Villa, presidente regionale
FITA Veneto, propone un bilancio degli
ultimi quattro anni, fra rappresentanza,
servizi, manifestazioni, giovani e scuola
VITA ASSOCIATIVA
Con l’avvicinarsi delle elezioni
in casa FITA a tutti i livelli, il
presidente regionale Mauro
Dalla Villa traccia un bilancio
dei quattro anni trascorsi,
toccando tematiche quali il
ruolo della rappresentanza,
la relazione con i giovani
e il mondo della scuola,
l’attività artistica di comitati
e compagnie e l’impegno per
la crescita qualitativa delle
proposte spettacolari.
Guardando a questi quattro
anni appena trascorsi, come
sta Fita Veneto?
Il “sistema Veneto” tiene bene
su tutti i fronti, a cominciare
dal numero degli iscritti,
fisso su livelli consistenti, che
portano la nostra regione al
primo posto in Italia nel grande
mondo FITA.
Come nuovo direttivo che
andava a sostituire un comitato
consolidato, ci eravamo
proposti come obiettivo di
riuscire a mantenere la (buona)
situazione esistente. Ci siamo
senz’altro riusciti: abbiamo
confermato tutte le iniziative
storicamente proposte, ma
abbiamo anche cercato di
capire e soddisfare nuove
esigenze e modalità d’azione,
intervenendo nella gestione
complessiva con azioni
magari in apparenza piccole
ma comunque significative:
come esempio, porto il
concorso Teatro dalla Scuola,
di cui abbiamo modificato le
modalità di svolgimento per
poter venire incontro alle
scuole.
Altro fronte su cui abbiamo
agito è stato quello di aprirci
ancora di più a realtà culturali
significative del territorio,
creando collaborazioni e
convenzioni, come quelle con
il Teatro La Fenice di Venezia
e lo Stabile del Veneto, con
agevolazioni a beneficio dei
nostri associati per le stagioni
del “Verdi” di Padova e del
“Goldoni” di Venezia.
Un momento della premiazione del Liceo «Giuseppe Veronese – Guglielmo Marconi» di
Chioggia (Venezia), che con lo spettacolo Rane da Aristofane ha vinto l’edizione 2019 di
“Teatro dalla Scuola”, la 59ª in assoluto e la 27ª a livello regionale
Grande attenzione è stata
riservata anche al dialogo
con gli enti locali, a tutti i
livelli...
Ogni elemento della nostra
Federazione presente
nel territorio ha un ruolo
importante per far sì che FITA e
la sua attività siano conosciute
e riconosciute. Questo
vale a partire dalle singole
compagnie associate, che
interagiscono con le istituzioni
a livello locale, così come
per i Comitati provinciali che
devono rappresentare questo
15
mondo artistico e agevolarne
l’attività e per il Comitato
regionale, che ha lo stesso
ruolo ad un livello ancora più
ampio. La nostra azione di
rappresentanza ha ricadute
pratiche rilevanti, che credo
sia importante sottolineare.
Pensiamo al Registro regionale
dell’associazionismo, ad
esempio: come FITA Veneto
facciamo da sportello di
ricevimento per le domande
e le veicoliamo, nella forma
richiesta dalla Regione,
agli uffici preposti; se
ogni compagnia dovesse
arrangiarsi, invece, certamente
avrebbe un bel po’ di problemi
in più... Ecco, questa è una cosa
che di per sé non sembra così
eclatante, ma in realtà facilita
la vita alle compagnie e questo
è uno dei nostri obiettivi. E
se possiamo farlo è perché
abbiamo creato e coltivato,
negli anni, un rapporto di
dialogo e fiducia con la
Regione.
In effetti, con la Regione del
Veneto il dialogo è aperto da
anni. Su quali basi?
Il rapporto è consolidato
e molto produttivo, ma
questo non significa che
possiamo dormire sugli
allori. Relazionarsi con
l’amministrazione pubblica
richiede una cura continua,
perché le persone e le
situazioni cambiano ed è
fondamentale mantenere
sempre il dialogo aperto. Se
continuiamo da anni ad essere
riconosciuti come partner
affidabili da una Regione
grande e complessa come
il Veneto è perché abbiamo
lavorato e continuiamo a
lavorare bene, con serietà e
concretezza.
Relazionarsi
con l’amministrazione
pubblica richiede
una cura continua.
È fondamentale
mantenere sempre
il dialogo aperto.
in generale, studenti e non.
La risposta potrebbe essere
migliore, e il motivo non
sta certamente nel fatto
che non vengono informati
sulle opportunità a loro
disposizione: tra Facebook,
newsletter, comunicazioni
attraverso i presidenti di
compagnia e altro ancora
le informazioni vengono
date, ma evidentemente,
in mezzo ai tanti input che
ricevono da più parti, finiscono
con non porre sufficiente
attenzione alla sostanza dei
messaggi. Peccato, perché
perdono opportunità davvero
preziose, tra l’altro con tutte le
agevolazioni che assicuriamo
loro (a partire dal costo, dato
che cerchiamo sempre di
rendere gli appuntamenti per i
giovani gratuiti o quasi).
E con il mondo della scuola
come sono i rapporti?
Quando si parla di giovani,
il rapporto con il mondo
della scuola è naturalmente
fondamentale. Guardando ai
soli quattro anni del nostro
mandato, ci sono stati
risultati importanti come
il Programma Operativo
Nazionale (PON) condotto
con l’Istituto Comprensivo
di Villadose (Rovigo) come
capofila, dal titolo Per la scuola
- Competenze e ambienti per
l’apprendimento, finanziato
dal Fondo Sociale Europeo
e volto all’inclusione e alla
lotta al disagio. FITA Veneto è
stata coinvolta come partner,
accanto ai Comuni di Villadose
e San Martino di Venezze e
alla compagnia di FITA Rovigo
Briciole d’Arte. Un bell’esempio
di sinergia tra Federazione,
mondo della scuola ed
enti locali. Ma accanto a
tante situazioni positive,
nel rapporto con il mondo
della scuola non mancano le
difficoltà...
Che genere di difficoltà?
Abbiamo sempre più conferma
A Villadose (Rovigo) FITA Veneto ha collaborato al PON “Per la scuola - Competenze e ambienti per l’apprendimento”
Altro fronte d’azione
importante è quello dei
giovani. Qual è la situazione?
Fita Veneto ha uno sguardo
privilegiato verso i giovani
16
che a fare la differenza,
anche nella scuola, sono le
persone: se in un istituto
c’è un insegnante referente
appassionato di teatro o che
comunque ne riconosce il
fondamentale ruolo nella
crescita dei ragazzi, allora il
teatro in quella scuola entra,
altrimenti le speranze sono
quasi nulle, nonostante i
reiterati tentativi di aprire
un dialogo: o, peggio, di
“riaprirlo”, magari dopo anni
di produttiva collaborazione,
per il semplice fatto che
l’insegnante in questione
si è trasferito o è andato in
pensione. Indubbiamente le
nostre principali proposte per
la scuola - come il concorso
per laboratori Teatro dalla
Scuola o il concorso di critica
La Scuola e il Teatro, legato
al festival Maschera d’Oro -
ottengono un’ottima risposta;
ma questo non fa che rendere
ancora più incomprensibile
l’atteggiamento di chiusura di
certi istituti.
Un progetto di grande
successo nel 2019 è stato
Fondamenta. Com’è andata?
Fondamenta - Una rete di
giovani per il sociale è stato
un progetto eccezionale, nato
dalla Federazione nazionale:
ha coinvolto tutte le realtà
territoriali; ha riguardato la
nostra materia principale,
cioé il teatro, ma non solo
quello, approfondendo il suo
ruolo sociale; è stato rivolto
ai giovani e al volontariato
sociale, di cui facciamo parte.
Insomma, è stato fortemente
costruttivo, e ha portato
risultati significativi. In Veneto
ne abbiamo proposto due
edizioni, una ad Adria, in
provincia di Rovigo, e una
a Monticello Conte Otto,
in provincia di Vicenza, in
collaborazione con le rispettive
Amministrazioni comunali
e con realtà del territorio
attive nel sociale. Siamo
Un momento di Fondamenta a Monticello Conte Otto (Vicenza) e, in alto, ad Adria (Rovigo)
soddisfatti della risposta dei
partecipanti, molto coinvolti
e attivi. E siamo soddisfatti di
come abbiamo organizzato
questi due appuntamenti
residenziali occupandoci di
tutto, dalla ricerca dei partner
alla gestione amministrativa,
fino alla cura prestata
all’accoglienza dei corsisti.
Passiamo al fronte artistico
e di spettacolo e cominciamo
con il festival nazionale
Maschera d’Oro, che
quest’anno compie 32 anni...
La Maschera d’Oro è il festival
che meglio ci rappresenta,
conosciuto e apprezzato
in tutta Italia e da 26 anni
legato al Premio Faber
Teatro di Confartigianato
Imprese Vicenza: un esempio
luminoso di come mondo
imprenditoriale e mondo
dell’arte possano creare grandi
cose, operando in sinergia.
Per il festival mettiamo in
campo un’organizzazione
“millimetrica”, un meccanismo
di assoluta garanzia e certezza
di cui siamo giustamente
orgogliosi come gruppo, visto
che le decisioni, benché ci sia il
coordinamento di una persona
di grande esperienza, sono
condivise dall’intero consiglio
federale regionale.
La Maschera è il fiore
all’occhiello di un’attività
di spettacolo dai numeri
davvero eccezionali. Qualche
dato?
Promuoviamo direttamente
o tramite le compagnie
associate più di un centinaio
di manifestazioni annue. Le
nostre compagnie effettuano
più di 5 mila spettacoli all’anno.
Coinvolgiamo oltre 1 milione
e 600 mila spettatori. Si va
dai festival più blasonati alle
rassegne di paese e ogni
singolo evento ha una sua
valenza nel territorio in cui
si colloca; soprattutto quelli
promossi dalle compagnie
hanno un valore sociale
strabiliante, proprio perché
agiscono profondamente nelle
comunità, anche in quelle più
piccole.
Che posto occupa per FITA
Veneto la crescita della
qualità delle compagnie?
Un posto di primissimo
piano. Soprattutto in questi
ultimi anni, abbiamo cercato
di dare un forte impulso
in questo senso. Abbiamo
cercato di sollecitare le
compagnie ad operare le
proprie scelte di repertorio
con sempre maggiore
cura e consapevolezza,
indipendentemente dal
genere di teatro che scelgono
di praticare.
È servito? Io credo di sì: se
tante nostre compagnie
vengono segnalate o premiate
in occasione di concorsi
e festival e propongono
repertori di tutto rispetto,
forse sarà anche perché
abbiamo detto, scritto,
consigliato a tutte loro di
andare oltre, ricercando un
po’ di più e andando al di
là della superficie. Gli stessi
nostri congressi regionali non
sono solo assemblee delle
associazioni, ma momenti
di autentico scambio e
formazione, nei quali non
abbiamo mai perso l’occasione
di sottolineare l’importanza
della qualità nelle proposte
con le quali le compagnie si
presentano al pubblico.
17
GIOVANI
MARCO
FACCIN
INTERVISTA
A.A. Marco Faccin, vent’anni
ad aprile, con il teatro ha un
rapporto speciale.
Appena diciottenne è stato,
per quanto narrano le
cronache, il più giovane regista
a debuttare sul cinquecentesco
palcoscenico dell’Olimpico
di Vicenza, teatro coperto
più antico del mondo: lo ha
fatto per il Festival Vicenza in
Lirica, con l’adattamento del
testo, la regia drammaturgica
e l’impegno anche tra
le voci recitanti del King
Arthur di Henry Purcell
(1659-1695), eseguito in
forma di concerto a cura del
progetto Crescere in Musica
Baroque del Liceo “Corradini”
di Thiene in collaborazione
con il Conservatorio vicentino
“Arrigo Pedrollo”. Ma
insieme ad alcuni amici ha
anche fondato una propria
compagnia, Il Colore del
Grano, e si è dedicato anche
al teatro di prosa con la
compagnia Teatroinsieme di
Zugliano, guidata da Gabriella
Loss. Anzi, è stata proprio lei
a invitarlo a candidarsi, nel
2019, alla sesta edizione di
ITAF (International Theater
Academy of FITA), il percorso
riservato ad un gruppo di
giovani iscritti alla Federazione,
diretto da Daniele Franci e
articolato in alcune settimane
residenziali da svolgere,
nel corso dell’anno, tra la
sede del Centro nazionale
di formazione FITA a Reggio
Emilia e il Creative College di
Utrecht in Olanda.
Nel 2019, dunque, Marco
Faccin ha vissuto questa
esperienza, che ha avuto anche
una significativa appendice
all’Università di Palermo,
nel novembre scorso, con
la partecipazione ad un
seminario condiviso con una
trentina di studenti del Dams
dell’ateneo siciliano. Di tutto
questo abbiamo parlato un
po’ insieme, per rivivere le
emozioni e il senso di questo
percorso.
Che cosa ti ha dato ITAF?
Mi ha cambiato molto,
migliorandomi come attore e
come persona. Dal punto di
vista teatrale, ti fa lavorare in
profondità sul come metterti
in scena, sull’autenticità del
tuo essere lì. Necessita di un
impegno costante, facendoti
entrare in un teatro che ti
fa mettere in gioco anche
a livello fisico. Se uno deve
trovare risposte, ITAF, con il
lavoro su se stessi che richiede,
Una fase del lavoro di ITAF 6 al Dams di Palermo, dove è stato riallestito lo spettacolo The Walls. A sinistra, Marco Faccin in una scena
ITAF mi ha cambiato
come attore e come
persona. Se uno deve
trovare delle risposte
può servire.
può servire. Anche per chi fa
teatro classico tradizionale;
per quello che mi riguarda,
ho sempre fatto di tutto:
lavori per bambini, teatro
musicale, prosa tradizionale:
perché fermarsi ad un genere?
Insomma ITAF è molto più di
una scuola di teatro: è una
scuola di vita, ti fa scavare
dentro di te. Per me è stato
così, per le persone che ho
incontrato, per le emozioni e
le esperienze che ho vissuto...
e Daniele Franci è un maestro
meraviglioso.
Perché avevi deciso di
partecipare?
Me lo aveva consigliato
Gabriella Loss, la regista di
Teatroinsieme con cui ho
iniziato a collaborare nel
2016: mi ha detto “Perché
no? Provaci”. Ero in quinta
superiore e ho provato:
non avevo aspettative, non
pensavo di passare, ma era
comunque un modo per
vedere come funzionava.
ITAF ti porta a confrontarti
anche con persone di
realtà diverse, come quella
olandese...
Con gli olandesi ho lavorato
qui in Italia, quando sono
venuti a Reggio Emilia,
perché in Olanda non mi
è stato possibile andare
per un problema di salute.
Abbiamo lavorato insieme una
settimana. Con loro si usano
molto il corpo e le immagini,
mentre qui abbiamo più il
parlato e la voce. Anch’io
sto vedendo i vantaggi e gli
svantaggi di tecniche diverse:
mi ha fatto bene osservare
l’interpretazione teatrale
olandese e cerco di inserire
questi spunti anche nei miei
nuovi lavori.
A Palermo com’è andata?
Abbiamo lavorato con la prof.
Anna Sica, docente molto
nota per i suoi studi in ambito
teatrale, e con tanti ragazzi del
Dams, della triennale e della
magistrale. Il nostro ruolo era
quello di essere a disposizione
degli studenti, mettendo a
frutto quello che avevamo
appreso durante il percorso:
questa responsabilità nei
confronti di un gruppo è stata
molto bella, il poter lavorare
con ragazzi che studiano
teatro e far vedere loro come
si sviluppa un lavoro; per noi è
stata un’intensa esperienza di
“insegnamento”.
Il tuo rapporto con ITAF
oggi?
Da dicembre sto seguendo un
corso con Etoile, associazione
di Reggio Emilia che collabora
strettamente con ITAF anche
a livello internazionale,
insieme ad allievi ed ex allievi
anche di altri scuole. Stiamo
sviluppando uno spettacolo
che andrà in scena a Roma
e parteciperà a eventi come
FitaLab.
Pensi che il teatro sarà la
tua vita anche da un punto di
vista professionale?
Non so se sarà come attore –
sono ancora giovane, voglio
vedere - ma sicuramente
mi sto prearando: studio
Gestione delle attività culturali
all’Università di Venezia.
Che tipo di teatro vai a
vedere da spettatore?
Cerco e guardo di tutto, ci
vado spesso, ma sono attratto
soprattutto dalla riscrittura in
generale: il classico puro non
mi interessa molto, preferisco
che sia cucito al nostro tempo.
Qualche nome? Mi piacciono
Marta Cuscunà, Giuliana Musso
e il teatro di narrazione in
genere: se dovessi continuare
come attore, seguirei le loro
orme. Amo molto anche il
teatro-danza che ho iniziato
a conoscere proprio grazie a
ITAF.
19
TERRITORIO
Tra marzo e
maggio cinque
gli spettacoli:
due in carcere,
tre in residenze
per anziani
Con FITA Rovigo il teatro
si spinge “Oltre la scena”
“Oltre la scena - Il teatro amatoriale entra in
carcere e nelle case di riposo” è il titolo del
progetto in corso di realizzazione per iniziativa
di FITA Rovigo e grazie alla collaborazione
dell’associazione L’Età della Saggezza
Onlus Senior.
Cinque gli spettacoli in programma, tra
marzo e maggio: due nella Casa Circondariale
di Rovigo e tre in altrettante residenze
per anziani della provincia (CSA Adria, Casa
Serena di Rovigo e Casa del Sorriso di Badia
Polesine).
“Siamo fortemente convinti - dichiara Rober-
ta Benedetto, presidente di FITA Rovigo - del
valore dello strumento teatrale in contesti
difficili, seppure per motivi molto diversi,
quali le case circondariali e le case di riposo,
nei quali la dimensione dello spettacolo dal
vivo rappresenta un’occasione importante di
condivisione, riflessione e svago: un ‘ponte’
verso il mondo esterno alla struttura che
restituisce, anche se per poco, una ‘normalità’.
Per quanto ci riguarda, il progetto
costituisce un’opportunità unica di mettere
la nostra passione e le competenze acquisite
al servizio del bene comune”.
A.A. Oltre ad essere la direttrice
della Casa Circondariale di
Rovigo, Romina Taiani è un’appassionata
del teatro e una
convinta sostenitrice del ruolo
che esso può rivestire nella
crescita personale di ciascuno.
Tutto questo ha certamente
giocato un ruolo rilevante nella
scelta di aderire al progetto
Oltre la scena - Il teatro amatoriale
entra in carcere e nelle
case di riposo, promosso da
FITA Rovigo.
ROMINA TAIANI direttrice della Casa Circondariale di Rovigo
Il teatro nelle carceri
contro l’appiattimento
Dottoressa Taiani, quale spazio
ha il teatro nelle attività
della Casa Circondariale di
Rovigo?
Quella con il mondo del teatro
è una collaborazione che
continua grazie ai colleghi che
mi hanno preceduto, e che mi
auguro si possa arricchire ulteriormente.
Personalmente, appena
ho saputo che qui c’erano
atttività in questo senso ne
sono stata molto contenta,
perché sono molto aperta verso
tutte le attività che aiutano
ad uscire dal contingente, e
trovo che il teatro sia uno dei
più importanti strumenti per
farlo, per liberarsi dal tempo e
dallo spazio che ci circondano.
Ha avuto esperienze positive
in questo senso?
Ho avuto modo tante volte di
osservare detenuti impegnati
in laboratori di teatro: ha
davvero un effetto catartico,
perché una persona esce dalla
sua dimensione e si confronta
con altro, cerca di immaginarsi
in altro, il che non significa
semplicemente vestire i panni
di un personaggio ma entrare
in un’altra dimensione.
E questo in carcere ha certamente
un significato molto
profondo.
Aiuta molto, agisce sulla
crescita personale. Ho notato
che chi partecipa a progetti
teatrali poi tende ad assumere
un atteggiamento migliore nei
confronti della vita di tutti i
giorni, anche spesa qui dentro.
Viviamo in un’istituzione che
certamente non è più “tota-
le” ma comunque tende ad
appiattire, semplicemente per
un’esigenza organizzativa di
ordine, perché un carcere è
una comunità complessa che
insiste in un’organizzazione
altrettanto complessa: questa
valvola di sfogo, fosse anche
per pochi detenuti, è una
grande cosa.
In questo senso il teatro è
utile sia che lo si viva come
attori che come spettatori...
Certamente, proprio come
avviene nella società civile. E
lo dico da spettatrice io stessa,
La dottoressa Romina Taiani
dirige la casa Circondariale di Rovigo
perché proprio come l’attore
anche lo spettatore entra in
un’altra dimensione: quindi
fare lo spettacolo e godere
dello spettacolo teatrale
sono due facce della stessa
medaglia. In questo senso la
20
collaborazione con FITA aiuterà
certamente a portare un intrattenimento
che vogliamo sia sì
piacevole e in grado di regalare
un momento di leggerezza ma
anche, come fa sempre il teatro,
che lasci dentro allo spettatore
qualcosa per renderlo
migliore: un pensiero critico,
una riflessione, qualche parola
sullo spettacolo scambiata con
i compagni sono tutti risultati
importanti.
Applausi nazionali
COMPAGNIE
per due formazioni
Nella scelta dei titoli, quali
altri elementi state considerando
con FITA Rovigo?
Il target di riferimento, naturalmente.
I nostri detenuti sono
per il 75 per cento extracomunitari,
certamente integrati
e talvolta di seconda generazione;
conoscono l’italiano e
magari vivono nel territorio
da parecchio tempo... ma
ci rivolgiamo comunque a
culture diverse e con un livello
di scolarizzazione in generale
piuttosto basso, per cui è importante
proporre spettacoli
che possano essere compresi
con una certa facilità.
La partecipazione dei detenuti
come è gestita?
È su base volontaria. Si tratta di
proposte che l’amministrazione
fa, ma poi sta al detenuto
decidere a quali partecipare.
L’adesione dipende molto da
quello che si riesce a veicolare:
lo spettacolo, come ogni
attività, va presentato, spiegato,
riempito di contenuto e
reso interessante. Di questa
comunicazione si occupano gli
educatori, perché appartiene
all’area pedagogica, come il
lavoro e la scuola. Certamente
veicolare con efficacia una proposta
teatrale non è mai semplice,
perché si pensa subito
ad un’attività più impegnativa,
piena di contenuti... come nella
società civile, d’altra parte.
Il primo spettacolo si svolgerà
venerdì 27 marzo, Giornata
Mondiale del Teatro, ma
anche del Teatro in Carcere.
Una coincidenza voluta?
Sì, per noi è importante essere
presenti, nel nostro piccolo,
insieme a tanti altri istituti,
alcuni dei quali sono addirittura
realtà teatrali d’avanguardia.
Un progetto per l’attività nel
nostro istituto? Ci auguriamo di
riuscire a dare una configurazione
più teatrale a quella che
attualmente è solo una grande
sala con un palco, perché per
lo spettatore è importante calarsi
in quella scatola nera nella
quale perdersi per entrare in
un altro tempo e in un altro
luogo. Speriamo di farcela già
nel corso di quest’anno.
C’è anche una compagnia veneta
fra le cinque vincitrici
del Premio Fitalia, il concorso
promosso dalla Federazione
Italiana Teatro Amatori (FITA)
che, giunto alla sua 32ª edizione,
si trasforma quest’anno in
una rassegna dal vivo a tutti gli
effetti: la compagnia Soggetti
Smarriti di Treviso è infatti
salita sul gradino più alto nella
categoria Tragedia, convincendo
la giuria con il suo Tramonto,
di Renato Simoni, per la regia
di Franco De Maestri. Una bella
soddisfazione per la formazione
della Marca, che lo scorso
anno aveva già vinto, tra l’altro,
il Festival nazionale Maschera
d’Oro, kermesse promossa da
FITA Veneto, la cui 32ª edizione
è al via dall’8 febbraio al San
Marco di Vicenza.
Le altre formazioni premiate
dal Fitalia sono: l’associazione
CarMa di Reggio Calabria per
1861 La brutale verità (vincitrice
per la categoria Teatro di narrazione);
la compagnia Quanta
brava gente di Taranto, per la
commedia Una volta nella vita
di Gianni Clementi, per la regia
di Carlo Dilonardo (categoria
Comico/Brillante); 70cento di
Bari per Il giorno della tartaruga
di Garinei e Giovannini (categoria
Commedia musicale/
Musical); e il Nuovo Teatro
Stabile Mascalucia di Catania
per Cyrano di Edmond Rostand
(categoria Classico). Grazie alla
vittoria, la compagnia Soggetti
Smarriti parteciperà alla rassegna
dal vivo che, per la prima
volta nella lunga storia del premio
nazionale, ne presenterà al
pubblico i vincitori. A ospitare la
cinquina sarà la Campania, tra
marzo e maggio, coinvolgendo
i Comuni di Pompei, Torre Annunziata,
Ercolano, Boscoreale
e San Vitaliano, con il patrocinio
della Città Metropolitana di Napoli.
Per FITA si tratta di un gradito
ritorno nella regione, dopo
il successo della prima edizione
live di un altro suo storico concorso:
il Gran Premio del Teatro
Amatoriale, che nella primavera
del 2019 si era mosso nel triangolo
archeologico di Napoli, fra
Soggetti Smarriti in una scena di Tramonto, Premio Fitalia
Pompei, Torre Annunziata ed
Ercolano.
In quell’occasione, FITA Veneto
era stata rappresentata dalla
compagnia padovana Teatro
del Corvo (con Tre sull’altalena
di Luigi Lunari), in quanto vincitrice
del Gran Premio regionale
abbinato al concorso nazionale;
nell’edizione attualmente
in corso a Lamezia Terme, in
Calabria, la stessa “responsabilità”
è toccata alla compagnia
La Moscheta, di Colognola ai
Colli (Verona), che con Ben Hur
di Gianni Clementi si è esibita al
Teatro Grandinetti il 28 dicembre
scorso. Il nome dei vincitori
del Gran Premio si conoscerà il
29 marzo.
Selfie dietro le quinte del Teatro Grandinetti di Lamezia Terme
per La Moscheta, portabandiera di Fita Veneto al Gran Premio
21
COMPAGNIE
COMPAGNIE
Cinque anni di lavoro, spinti da
una grande determinazione
e da una passione altrettanto
grande. Tanto ci è voluto alla
compagnia La Nogara di Cogollo
di Tregnago, nel Veronese,
per realizzare il proprio sogno:
un teatro che non c’era e che
ora c’è, costruito recuperando
la palestra della locale scuola
elementare, chiusa circa otto
anni fa.
Con i suoi centocinquanta
posti, attrezzatura tecnica e
camerini, il Teatro “Al Santo” è
pronto ad ospitare, tra qualche
mese, la sua prima rassegna di
spettacolo.
Ne abbiamo parlato con Paolo
Cracco, anima di questo progetto
che testimonia quanto si
possa riuscire a fare mettendo
insieme buona volontà, generosità
e concretezza.
Come è nata questa iniziativa?
L’idea è partita cinque anni fa
dalla compagnia, che sentiva
l’esigenza di avere una sede.
Fino al 2010, infatti, c’era un
teatro, ma quasi inagibile; poi
per dieci anni ci siamo trovati
costretti a fare le prove di tutti
i nostri spettacoli (tra i quali anche
un musical) nella mansarda
di casa mia: per fortuna anche
mia moglie recita nella compagnia,
altrimenti credo che sarei
stato buttato fuori...
Quindi avete pensato di recuperare
questo spazio?
Sette-otto anni fa erano state
chiuse le Scuole elementari
e questo stabile, di proprietà
dell’Opera Pia Santa Teresa,
era rimasto lì, non utilizzato.
Qualche anno fa al primo piano
è stato aperto il Circolo Noi.
Allora abbiamo pensato di
recuperare il piano terra, dove
un tempo c’era la palestra,
trasformandola in una sala
principalmente teatrale. Abbiamo
chiesto all’Opera Pia se
ci concedeva lo spazio, mentre
noi avremmo messo i soldi...
che non avevamo.
Ma poi siete riusciti a recuperare
anche quelli.
Pian piano abbiamo trovato un
paio di ditte disposte ad aiutarci,
altro è arrivato dalla Comunità
Montana e naturalmente
tutte le entrate della nostra
compagnia abbiamo deciso
di investirle nel nuovo teatro.
Infine, all’inizio di quest’anno
nel progetto è entrato anche
Cinque anni di lavoro
e la compagnia
La Nogara
ha realizzato
il proprio sogno
Il Comune, che ha preso in
affitto lo stabile dall’Opera Pia
per dare una sede alle varie
associazioni del territorio.
Qual è stato l’ostacolo maggiore
che avete incontrato?
Le carte che servono per un
intervento di questo tipo. Per
fortuna ci ha dato una grande
mano Chiara Bonamini, che
ha fatto parte della nostra
compagnia ed è architetto.
Ha elaborato gratuitamente
il progetto e si è occupata
della burocrazia. Ci abbiamo
messo cinque anni, perché era
praticamente tutto da fare: il
pavimento, il soffitto, le pareti,
l’insonorizzazione della sala, il
palco, le porte, i bagni, lo scivolo
e i servizi per i disabili...
Cosa avete provato quando i
lavori sono finiti?
Un grande sollievo. Non si
vedeva mai la fine. Ci siamo
riusciti grazie a tanto volontariato,
a tante persone che si
sono date da fare: tutto quello
che potevamo fare da soli lo
abbiamo fatto.
E adesso?
Adesso a maggio proporremo
la prima rassegna: cinque
spettacoli, il sabato sera. A fine
mese ci saremo anche noi, con
il debutto della nostra nuova
commedia Paolo meti la cotola,
da un testo di Loredana Cont
(ormai siamo abbonati al suo
teatro), in dialetto come da
nostro statuto.
Una gioia per voi, ma anche
per l’intera comunità...
Un concerto si potrà fare lì, o il
saggio dei ragazzi, o una serata
culturale... Sì, questa iniziativa
ha sicuramente un senso importante
per la comunità.
CULTURA
KLAUS KINSKI
SUL PALCO
CULTURA
E Gesù sguainò la spada
In Jesus Christus Erloser un condensato della sua arte
di Filippo Bordignon
Se sono ben noti al grande pubblico,
in Italia come all’estero,
molti dei ruoli di “cattivo” interpretati
dall’attore tedesco
Klaus Kinski lungo una carriera
durata quarantacinque anni, la
sua avventura teatrale è meno
nota ma in grado di rivelarci alcuni
aspetti fondamentali del
suo peculiare stile attoriale.
Gli esordi furono, fresco di liberazione
da due anni di prigionia
al termine del secondo conflitto
mondiale, in una piccola
compagnia di Offenburg dove
adottò il nome d’arte “Klaus
Kinski”. Poco tempo dopo venne
ingaggiato dal prestigioso
Schlosspark-Theater di Berlino
ma presto licenziato a causa
del suo carattere instabile e collerico.
Nel 1950 il tentativo di
strangolamento di una donna
gli aprì le porte dell’ospedale
psichiatrico, dove gli fu riscontrata
una seria psicopatia che lo
condusse a un paio di falliti tentativi
di suicidio. Nel ’55 divise
per tre mesi un appartamento
con la famiglia di Werner Herzog,
tra i massimi registi del cinema
tedesco moderno, allora
poco meno che adolescente. I
ricordi delle stranezze di Kinski
verranno riportati da Herzog
nel commovente documentario
biografico del 1999 Kinski - il
mio nemico più caro. L’anno successivo
è a teatro con un ruolo
nel Torquato Tasso di Goethe
ma la sua instabilità gli precluse
la stipula di un contratto, una
costante che si ripeterà spesso
in Germania e che lo porterà
a trasferirsi a Vienna reinventandosi
come monologhista.
In queste vesti egli rileggerà
in monologhi allucinati alcune
opere in prosa e versi di Oscar
Wilde, William Shakespeare e
Francois Villon, imbarcandosi
in turbolente tournée che
toccarono l’Austria, la Svizzera
e lo riportarono in Germania.
La più significativa - oggi finalmente
disponibile con discreti
sottotitoli in italiano anche su
YouTube - è il suo Jesus Christus
Erloser (Gesù Cristo Salvatore)
portato in scena con grande
sdegno dell’opinione pubblica
nel 1971. La pellicola diretta da
Peter Geyer e presentata uffi-
Attore cult dalla fama maledetta
Nato il 18 ottobre 1925 a Sopot, nell’allora Città Libera di
Danzica, Klaus Günter Karl Nakszynski si trasferì nel 1931 a
Berlino insieme ai fratelli e ai genitori, il padre un ex cantante
d’opera divenuto farmacista e la madre un’infermiera figlia
d’un pastore religioso, in cerca d’una migliore condizione
economica. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale
venne ritenuto abile e, diciassettenne, spedito nei Paesi Bassi
dove fu fatto prigioniero nel 1944 dagli inglesi. Rilasciato
nel ’46 tornò a Berlino dove seppe della morte dei genitori.
È in questo periodo che ha inizio la sua carriera teatrale con
il nome d’arte di Klaus Kinski; il suo primo ruolo cinematografico
arriverà due anni più tardi, una piccola parte nella
pellicola Morituri diretta da Eugen York. Da allora in avanti
saranno il grande e piccolo schermo i suoi “palchi” principali,
grazie a una carriera altalenante densa di decine e decine di
ruoli da caratterista in B movie così come in una serie di film
d’autore che lo hanno reso, nel corso dei decenni, attore cult
dalla fama maledetta. Egli compare in titoli oggi consegnati
alla storia quali Il dottor Zivago di David Lean e Per qualche
dollaro in più di Sergio Leone, finendo per partecipare in Italia
a un numero imprecisato di spaghetti western ricoprendo
il ruolo del reietto e dell’antagonista. Di ben altro spessore
fu invece la collaborazione col regista tedesco Werner Herzog,
che volle Kinski protagonista di alcune delle sue opere
più memorabili come Nosferatu (rifacimento della pellicola
omonima diretta cinquantasei anni prima dal genio di Friedrich
Wilhelm Murnau), Woyzeck (dal capolavoro teatrale del
drammaturgo Georg Büchner), Fitzcarraldo e Cobra verde. Il
suo testamento artistico è una controversa pellicola sperimentale
di cui è attore protagonista e regista, il Paganini del
1989. Morì per un arresto cardiaco nel 1991 in California; al
suo funerale prese parte solo uno dei suo tre figli: Nicolai. Le
altre due figlie, Pola e l’attrice Nastassja, ebbero a descriverlo
come un padre tirannico e imprevedibile.
cialmente solo nel 2008, ritrae
un’esibizione berlinese che ben
riassume il disturbante carisma
per cui era conosciuto l’attore.
Il Gesù si svolge in un’imprecisata
struttura coperta colmata
da un variegato pubblico in cui
è possibile distinguere hippy
dell’ultima ora e un discreto
dispiegamento di forze dell’ordine.
Kinski sale sul palco agghindato
secondo la moda del
tempo: pantaloni di velluto blu
aderenti sui fianchi e svolazzante
camicia a pois bianchi e
blu. I lunghi e liscissimi capelli
incorniciano il viso di un quarantaseienne
già scavato da
una vita tormentata; gli occhi
azzurri, pur sgranati e fissati
apparentemente sulla videocamera,
non tradiscono alcuna
emozione o coinvolgimento. Il
volto è rugoso, la pelle stanca è
impietosamente solcata da accentuate
rughe d’espressione.
Il testo attacca definendo Gesù
un “ricercato”, quasi si trattasse
di un pistolero assassino sbucato
da un western di serie B. La
figura del Cristo viene disegnata
come quella di un pericoloso
rivoluzionario, alleatosi con gli
emarginati della società e dunque,
con una scelta drammaturgica
che attualizza la vicenda,
non solo con perseguitati,
prostitute o mendicanti ma anche
zingari, hippy, disoccupati,
tossicodipendenti, comunisti e
renitenti alla leva. Al pari di un
qualsiasi senzatetto, del Cristo
le autorità ignorano nazionalità
e domicilio permanente e viene
identificato dai suoi adepti con
diversi nomi che vanificano il
tentativo di stilarne un’identità
univoca: è conosciuto infatti
come “Figlio dell’uomo”, “Messaggero
di pace”, “Luce del
mondo” e “Salvatore”. L’atmosfera
costruita dall’attore con
una lentezza esasperante getta
l’amo a un pubblico desideroso
di partecipazione attiva e, dopo
una manciata di minuti, cominciano
a piovere le prime grida
di protesta. Il monologo è così
già divenuto happening grazie
a un meccanismo elementare
in cui ogni frase è pronunciata
con una concentrazione assoluta;
la parola (il Verbo?) è la sola
protagonista del Jesus Christus
Erloser. Alle spalle di Kinski nessuna
scenografia, solo un buio
totale che ammanta i gravi
lineamenti dell’attore rendendolo
una maschera grottesca e
paurosa. Egli stringe l’asta del
microfono al pari di un cantante
rock suggerendo la grandiosità
del Cristo come quella di un
manipolatore di masse capace
25
di rivoltarle contro l’ordine costituito.
Un paio di incauti contestatori
ottengono dunque di
salire sul palco per dire la propria,
sottolineando con modi
pacati che il tono minaccioso
adottato dal protagonista mal
si sposa con quello del Figlio di
Dio. A queste parole Kinski reagisce
d’impulso con un guizzo
di genio strappando violentemente
di mano il microfono al
malcapitato e sbraitando come
un folle che il vero Gesù, al suo
posto, non avrebbe esitato a
impugnare la frusta “per spaccare
la faccia” ai suoi detrattori.
Questa uscita apparentemente
blasfema e provocatoria si rifà
in realtà alle stesse parole di
Gesù di Nazareth il quale, nel
Vangelo secondo Matteo (traduzione
approvata dalla Cei)
spiega ai suoi ascoltatori: “Non
crediate che io sia venuto a portare
pace sulla terra; non sono
venuto a portare pace, ma una
spada. Sono venuto infatti a
separare il figlio dal padre, la
figlia dalla madre, la nuora dalla
suocera e i nemici dell’uomo
saranno quelli della sua casa”.
A questo punto Kinski getta
a terra l’asta del microfono e
abbandona il palco in preda
all’ira minacciando il pubblico
di non farvi ritorno a meno che
non siano allontanati i “disturbatori”.
La situazione si fa tesa
ma, dopo alcuni minuti, l’attore
torna e riprende da capo
il monologo, sfoggiando un
tono ancora più lento e basso.
Poi ancora un abbandono e un
nuovo ritorno. Alcuni spettatori
abbandonano la sala. Kinski ha
le lacrime agli occhi ma prosegue
apparentemente animato
da una missione invisibile ai più.
Dalle sue labbra le parole del
Cristo risuonano marziali, caricate
di un’energia travolgente
e distruttiva. Kinski non tollera
il teatro “partecipativo” tipico
di quegli anni, in cui il pubblico
si sentiva in diritto di criticare
sonoramente l’opera in cartellone
allestendo talvolta dibattiti
strampalati. Eppure il malcontento
lo elettrizza, ricarica
una rabbia animale contenuta
appena in quel volto che pare
sul punto di scoppiare. Dopo
quasi due ore di spettacolo (la
versione video taglia naturalmente
i buchi in cui l’attore ha
abbandonato il palco) si esce
estenuati da un’esperienza di
grande attorialità, scottati da
un magnetismo inspiegabile
che vanta pochi altri esempi
nella storia del teatro. Quando
l’arte si fa somma deve rinunciare
spesso alla piacevolezza
e immolarsi sull’altare dell’immortalità
con fiducia e spirito
di sacrificio.
Giornata Mondiale
del Teatro 2020
Un portale internazionale per gli eventi FITA
Il 27 marzo è la Giornata Mondiale
del Teatro, istituita nel
1961 dall’International Theatre
Institute (Iti) dell’Unesco e celebrata
dal 1962, con Jean Cocteau
come primo testimonial.
Obiettivo dell’evento è quello
di sostenere il teatro, soprattutto
tra i giovani e come strumento
di dialogo tra i popoli.
Per incentivare la diffusione di
questo messaggio, l’Association
Internationale du Théâtre
Amateur - International Amateur
Theatre Association (AITA-
IATA), fondata a Bruxelles nel
1952, mette a disposizione di
FITA, come sua aderente, e di
tutti i suoi iscritti un portale dedicato
alla Giornata Mondiale
del Teatro, nel quale i Comitati
e le associazioni artistiche regolarmente
iscritte per il 2020
possono segnalare i propri appuntamenti
in cartellone il 27
marzo o intorno a quella data.
Come inserire i propri eventi
Per registrare un evento è sufficiente
collegarsi al sito www.
aitaiata.net (disponibile in inglese,
oltre che in francese e
spagnolo, ma di facile utilizzo)
e cliccare sulla sezione AITA/
IATA Worls Theatre Day” presente
in alto a destra nella barra
del menu. Si può quindi accedere
all’area Register your event
(Registra il tuo evento) attraverso
due strade: dalla barra
del menu in alto, cliccando su
Events e scegliendo l’opzione
Register an event; oppure cliccando
sull’icona Register your
event visibile al centro della pagina,
facendo scorrere leggermente
il cursore verso il basso.
Entrambe le strade portano ad
un format (Submit your event)
nel quale vengono chiesti,
nell’ordine, il nome dell’evento
e la data e l’ora di inizio e di fine
dello stesso; dopo tre opzioni
speciali (evento che dura un intero
giorno, evento che non ha
un’ora precisa di conclusione
ed evento che si ripete), viene
chiesta una breve descrizione
dell’appuntamento segnalato,
che può essere inserita solo in
italiano o, se lo si desidera, anche
in inglese. A seguire, vanno
indicati il luogo dell’evento (cliccando
sul pulsante Create new,
sotto la voce Event Location
Fields, e indicandone nome e indirizzo
e ancora, ma solo se lo si
desidera, coordinate e link), un
eventuale link per informazioni
e, infine, il proprio nome (quello
dell’associazione artistica) e il
proprio indirizzo email.
Una volta completato il format,
si clicca sul tasto di conferma,
dando così il via alla registrazione
dell’evento che, se tutto è
in ordine, compare nel portale
dopo qualche giorno.
Trattandosi di un servizio reso
alle organizzazioni aderenti, le
associazioni artistiche dovranno
indicare la propria appartenenza
a FITA - ITALIA, anche
semplicemente aggiungendo
“- FITA ITALIA” o “(FITA ITALIA)”
nel titolo, accanto al nome della
propria compagnia e nella
descrizione dell’evento.
Una piccola curiosità
Dal 1962, quando il primo artista a scrivere il
messaggio per la Giornata Mondiale del Teatro
fu Jean Cocteau, solo tre italiani hanno avuto
questo onore: nel 1973 il regista Luchino Visconti
(foto), nel 1995 l’attore Umberto Orsini
(che da Visconti era stato diretto nel 1969 in
La caduta degli dei e nel 1972 in Ludwig) e il
drammaturgo e attore Dario Fo nel 2013, già
premio Nobel per la Letteratura nel 1997.
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COMITATO REGIONALE VENETO
Stradella delle Barche, 7 - 36100 Vicenza
Tel. 0444 324907
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www.fitaveneto.org
Comitato di Padova
Via Gradenigo, 10 - 35121 Padova
c/o Centro Servizi per il Volontariato
Tel. 049 8686849
fitapadova@libero.it
Comitato di Rovigo
Viale Marconi, 5 - 45100 Rovigo
Cell. 349 4297231
fitarovigo@gmail.com
Comitato di Treviso
Sede operativa Via Calmaggiore 10/4
(Palazzo del Podestà) - 31100 Treviso
Cell. 334 7177900
info@fitatreviso.org
www.fitatreviso.org
Comitato di Venezia
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Comitato di Verona
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verona.fita@gmail.com
Comitato di Vicenza
Stradella delle Barche, 7/a - 36100 Vicenza
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I «numeri» di Fita Veneto
Conta al proprio interno:
- 1 Comitato regionale
- 6 Comitati Provinciali
- 235 compagnie
- 4.578 soci
Organizza il Festival Nazionale Maschera d’Oro
Partecipa all’organizzazione del Premio Faber Teatro
Promuove direttamente o tramite le compagnie associate
più di un centinaio di manifestazioni annue
Le compagnie associate effettuano più di 5.000 spettacoli
annui, molti dei quali rivolti al mondo della scuola, alla
solidarietà e in luoghi dove solitamente è esclusa l’attività
professionistica
Coinvolge più di 1.600.000 spettatori
Per gli studenti delle scuole superiori organizza il concorso
di critica “La Scuola e il Teatro” e il premio per laboratori
teatrali “Teatro dalla Scuola”
Organizza stages, seminari, incontri, corsi di formazione
Pubblica il trimestrale online Fitainforma e il volume annuale
Fitainscena con il repertorio delle compagnie
Svolge un servizio di editoria specifica teatrale e gestisce
una biblioteca di testi e una videoteca
Gestisce il sito internet www.fitaveneto.org
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