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ORLANDO

FURIOSO

500 ANNI

COSA VEDEVA ARIOSTO

QUANDO CHIUDEVA

GLI OCCHI





ORLANDO FURIOSO 500 ANNI

COSA VEDEVA ARIOSTO QUANDO CHIUDEVA GLI OCCHI

Ferrara, Palazzo dei Diamanti

24 settembre 2016 / 8 gennaio 2017

Mostra organizzata da

Fondazione Ferrara Arte

Ministero dei beni e delle

attività culturali e del turismo

a cura di

Guido Beltramini

Adolfo Tura

Comitato scientifico

Andreas Beyer

Francesca Borgo

Howard Burns

Maria Cristina Cabani

Marco Collareta

Isabelle de Conihout

Daniela Delcorno Branca

Flora Dennis

Vincenzo Farinella

Daniele Ferrara

David Freedberg

Davide Gasparotto

Barbara Guidi

Tina Matarrese

Cristina Montagnani

Bruno Racine

Olivier Renaudeau

Giovanni Sassu

Barbara Maria Savy

Ugo Soragni

Paolo Trovato

Vladimiro Valerio

Alessandra Villa

Ministero dei beni e delle

attività culturali e del turismo

Direzione generale Musei

Direttore generale

Ugo Soragni

Direttore Servizio I

Collezioni museali

Antonio Tarasco

Direttore Servizio II

Gestione e valorizzazione dei

musei e dei luoghi della cultura

Manuel Roberto Guido

Rapporti internazionali

Federica Zalabra

Ufficio Garanzia di Stato

Antonio Piscitelli

Direzione generale

archeologia, belle arti

e paesaggio

Direttore generale

Caterina Bon Valsassina

Direzione generale

biblioteche e istituti

culturali

Direttore generale

Rossana Rummo

Direzione generale archivi

Direttore generale

Gino Famiglietti

Segretariato Regionale del

Ministero dei beni e delle

attività e del turismo

dell’Emilia-Romagna

Direttore

Sabina Magrini

Opificio delle Pietre Dure

Direttore

Marco Ciatti

con la collaborazione di

Francesca Ciani Passeri

Ministero dell’Economia

e delle Finanze

Dipartimento Ragioneria

dello Stato

Ispettorato generale del bilancio

Ufficio XIII

Dirigente

Aldo Lamberti

Collaboratori

Sebastiano Verdesca

Carla Russo

Luisa Gasperini

Corte dei Conti

Ufficio di Controllo sugli atti del

Ministero dell’Istruzione,

dell’Università e della Ricerca,

del Ministero per i Beni e le

Attività Culturali, del Ministero

della Salute e del Ministero del

Lavoro e delle Politiche Sociali

Consigliere

Roberto Benedetti

Collaboratore

Lina Pace

Fondazione Ferrara Arte

Presidente

Tiziano Tagliani

Consiglio di amministrazione

Massimo Maisto

Matteo Ludergnani

Soci fondatori

Comune di Ferrara

Provincia di Ferrara

Direttrice della mostra

e delle Gallerie d’Arte Moderna

e Contemporanea

Maria Luisa Pacelli

Coordinamento scientifico

Barbara Guidi

Conservatori

Chiara Vorrasi (responsabile

servizi educativi)

Giuseppe Di Natale

Registrar

Tiziana Giuberti (responsabile)

Ilaria Mosca

Roberta Colla

Ufficio editoriale

Federica Sani (responsabile)

Francesca Gavioli

Rossella Merighi

Laura Quaggia

Vasilij Gusella

Segreteria di direzione

e rapporti con la stampa

Alessandra Cavallaroni

Comunicazione e marketing

Giulia Bratti

con la collaborazione di

Dino Buffagni

Biblioteca

Laura Schiavina

Inventari e documentazione

dei musei

Paola Janni

Dirigente gestione

e controllo servizi culturali

Lara Sitti

Amministrazione

Barbara Rizzati

Valeria Storari

Gloria Franzoni

Cosetta Rimondi

Bookshop

Daniela Vacchi

con la collaborazione di

Paolo Callegari

Personale

Valeria Giovannini

Patrizia Caselli

Giuseppe Cestari

Sicurezza

Valeria Giovannini

Giuseppe Cestari

Tecnico informatico

Loris Mauro

Informazioni e prenotazioni

mostre e musei

Federica Novelli (responsabile)

Silvia Affaticati

Cristina Lago

Manuela Pereira

Progetto di allestimento

Antonio Ravalli Architetti

Tecnici allestitori

Gianni Marani

Stefano Carraro

Riccardo Catozzi

Amir Scharif Pour

Progetto illuminotecnico

Studio Pasetti Lighting Design

Tecnico luci

Marco Cazzola

con la collaborazione di

Luca Mondin

Infografiche in mostra

Studio Fludd

tuta

Trasporti

Mauro Malossi

Enrico Nigro

Supporto logistico

Paola Finchi

Custode

Rita Berselli

Ufficio stampa

Studio Esseci di Sergio

Campagnolo, Padova

organizzatori

ente promotore

con il patrocinio di

con il sostegno di

partner della mostra e partner

unico del progetto didattico

A cavallo dell’Ippogrifo

sponsor tecnici

si ringraziano



Prestatori

Ringraziamenti

Avignone

Musée du Petit Palais

Bassano del Grappa

Musei Civici

Bergamo

Fondazione Accademia Carrara

Berlino

Staatliche Museen,

Kupferstichkabinett

Staatsbibliothek

Bologna

Biblioteca Universitaria

Brescia

Museo di Santa Giulia

Cambridge

The Fitzwilliam Museum

Città del Vaticano

Biblioteca Apostolica Vaticana

Ferrara

Biblioteca Comunale Ariostea

Museo della Cattedrale

Firenze

Biblioteca Marucelliana

Biblioteca Medicea Laurenziana

Biblioteca Nazionale Centrale

Gabinetto Disegni e Stampe degli

Uffizi

Galleria Palatina

Galleria degli Uffizi

Museo Nazionale del Bargello

Genova

Trust Doria Pamphilj

Londra

The British Library

The British Museum

The National Gallery

Victoria and Albert Museum

Madrid

Museo Arqueológico Nacional

Museo Nacional del Prado

Museo Thyssen-Bornemisza

Milano

Biblioteca Nazionale Braidense

Castello Sforzesco, Civica Raccolta

delle Stampe Achille Bertarelli

Pinacoteca di Brera

Veneranda Biblioteca Ambrosiana

Modena

Archivio di Stato

Biblioteca Estense Universitaria

Galleria Estense

Napoli

Museo Nazionale di Capodimonte

Parigi

Bibliothèque de l’Arsenal

Bibliothèque nationale de France

Musée de l’Armée

Musée du Louvre

Musée Jacquemart-André, Institut

de France

Roma

Biblioteca dell’Accademia

Nazionale dei Lincei e Corsiniana

Galleria Borghese

Musei Capitolini

Tolosa

Musée Paul-Dupuy

Torino

Biblioteca Nazionale Universitaria

Musei Reali, Galleria Sabauda

Palazzo Madama, Museo Civico

d’Arte Antica

Venezia

Biblioteca Nazionale Marciana

Fondazione Giorgio Cini, Galleria

di Palazzo Cini

Fondazione Querini Stampalia

Museo Correr

Vienna

Kunsthistorisches Museum

Österreichische Nationalbibliothek

Windsor

The Royal Collection / Sua Maestà

la regina Elisabetta II

Wolfenbüttel

Herzog August Bibliothek

Bibliothèque Jean Bonna

Un ringraziamento speciale va a Cristina Cabani e Cristina Montagnani per il loro preziosissimo aiuto, come pure

ad Alessandra Villa, che con disponibilità e finezza ha accompagnato sin dall’inizio la riflessione dei curatori.

Il confronto continuo con Marco Collareta è stato incoraggiante e fecondo oltre ogni dire.

Un grazie sincero va a quanti hanno contribuito all’organizzazione dell’esposizione:

Cristina Acidini, Ornella Agrillo, Paolo Airenti, Mauro Alberti, Sébastien Allard, Grace Allwood, Angela Ammirati,

Ebe Antetomaso, Eugenia Antonucci, Marián Aparicio, Jean-Pierre Babelon, Katia Bach, Martina Bagnoli, Simone

Baiocco, Christian Baptiste, Luca Massimo Barbero, Guglielmo Bartoletti, Annalisa Battini, Anna Maria Bava,

Sylvain Bellenger, Gabriella Belli, Luca Bellingeri, Gino Belloni, Marta Bencini, Isabel Bennasar Cabrera, Cristina

Bersani, Yvonne Besser, Mons. Danillo Bisarello, Beatriz Blanco, Lina Bolzoni, Mirna Bonazza, Jean Bonna, Mar

Borobia, Jessica Bourges, Ruth Bowler, James Bradburne, Federica Brivio, Annalisa Bruni, Massimo Bruttomesso,

Marco Buonocore, Peter Burschel, Mons. Franco Buzzi, Caroline Campbell, Francesca Cappelletti, Silvia Cappelletti,

Angela Carbonaro, Giorgio Ettore Careddu, Andrea Carletti, Andrés Carrettero Pérez, Mons. Ivano Casaroli, Diego

Cauzzi, Matteo Ceriana, Marie-Pierre Chaumet-Sarkissian, Alessandro Checchi, Ilaria Ciseri, Lynda Clark, Martin

Clayton, Anna Coliva, Giorgia Corso, Hélène Couot-Echiffre, Patrizia Cremonini, Pierre Curie, Guido Curto,

Emanuela Daffra, Paola D’Agostino, Amalia D’Alascio, Elisabetta Dal Carlo, Brigitte Daprà, Emma Denness, Charlotte

Denoël, Rita de Tata, Luigi Maria Di Corato, Andrea Di Meo, Nathalie Dioh, Rosanna Di Pinto, Federico Disegni,

Daniele Donà, Larence Engel, Marzia Faietti, Miguel Falomir, Anna Rita Fantoni, Daniele Ferrara, Francesco

Ferretti, Gabriele Finaldi, Hartwig Fischer, Federico Fischetti, Marina Francini, Natascia Frasson, Cristina Fregnan,

Silvia Fusco, Natalia Gastelut, Massimo Gabriele Gatti, Marina Geneletti, Flaminia Gennari Sartori, Lucio Ghilardi,

Maria Goffredo, Nickos Gogolos, Marta Golik-Gryglas, Maria Dolores Gómez de Aranda, María Ángeles Granados

Ortega, Marco Guardo, Sergio Guarino, Sabine Haag, Rudolf Hopfner, Ruth Janson, Ilse Jung, Daragh Kenny, Tim

Knox, Diana Korak, Sieglinde Kunst, Marigusta Lazzari, Giovanni Lenzerini, Tomàs Llorens, Michele Losacco,

Véronique Malouin, Marino Marini, Olimpia Marini Clarelli, Rosanna Marozzi, Jonathan Marsed, Jean-Luc

Martinez, Alessandro Martoni, Marie Mayot, Dominique Mazel, Martina Mazzotta Lanza, Neil McGregor, Barry

McLoughlin, Maurizio Messina, Giuliano Mezzadri, Konstanze Mittendorfer, Sara Mittica, Francesca Montanaro,

Francesca Morandini, Giovanna Mori, Alessandro Moro, Patrizia Moscatelli, Begoña Muro Martín-Corral, Mauro

Natale, Antonio Natali, Barbara Nepote, Valentina Oliverio, Eef Overgaauw, David Packer, Enrica Pagella, Chiara

Pagliettini, Roberto Pancheri, Francesco Paparella, Claudio Parisi Presicce, Stephen Parkin, Ombretta Pasetti, Mons.

Cesare Pasini, Milly Passigli, Anna Pegoretti, Nicholas Penny, Patricia Perez, Matthias Pfaffenbichler, Anna Maria

Piccinini, Federica Pietrangeli, Carla Pinzauti, Susi Piovanelli, Patrizia Piscitello, Paolo Plebani, Antonella Poleggi,

Vincent Pomarède, Paolo Pontari, Lauren Porter, Franca Porticelli, Giacomo Maria Prati, Emilie Prud’hom, Cristina

Quattrini, Bruno Racine, Johanna Rachiger, Paulus Rainer, Mauro Ranzani, Ida Rao, Daniele Ravenna, Olivier

Renaudeau, Ingrid Rieck, Sofia Rinaldi, Gianni Roncaglia, Pierre Rosenberg, Elena Rossoni, Martin Roth, Agata

Rutkowska, Francis Saint-Genez, Nicolas Sainte Fare Garnot, Xavier Salomon, Claudio Salsi, Nicola Salvioli, Eike

Schmidt, Birgit Schultschik, Heinrich Schulze Altcappenberg, Pietro Sebastiani, Anna Selleri, Mario Setter, Anna

Sheppard, Guillermo Solana, Eva Soos, Maria Assunta Sorrentino, Vérène de Soultrait, Enrico Spinelli, Alessandra

Tadini, Antonio Tarasco, Francesca Tasso, Dominique Thiébaut, Marcello Toffanello, Gianluca Tormen, Giovanni

Valagussa, Uberto Vanni d’Archirafi, Lorenzo Vatalaro, Dominique Vingtain, Mauro Zobbi, Miguel Zugaza

e a tutti coloro che hanno preferito mantenere l’anonimato.



Cinquecento anni fa veniva data alle stampe a Ferrara, nella bottega tipografica di Giovanni Mazzocchi,

la prima delle tre edizioni dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, ultimo tra i romanzi cavallereschi

e primo tra i moderni. Palazzo dei Diamanti celebra questa ricorrenza con una mostra, organizzata

dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, che restituisce

il clima culturale, artistico e ideale nel quale venne concepito e scritto questo straordinario

capolavoro letterario, al quale Ariosto cominciò a lavorare almeno dal 1507 e che non abbandonò mai

per tutta la vita. Dipinti, sculture, arazzi, libri, incunaboli, manoscritti miniati, strumenti musicali,

armi e oggetti preziosi sono raccolti in un unico percorso che illustra con rigore scientifico e capacità

divulgativa il reale e l’immaginario dell’epoca alla corte estense, fonti di ispirazione per la feconda

vena creativa di un poeta che alle lettere associò costantemente l’impegno politico, amministrativo e

diplomatico per conto del ducato.

Si tratta di una mostra di enorme importanza, che gode di prestiti dai maggiori musei del mondo tra i

quali è doveroso menzionare il Museo del Prado, che ha consentito il ritorno temporaneo in Italia del

capolavoro Il baccanale degli Andrii, dipinto da Tiziano per il Camerino delle pitture di Alfonso d’Este

e passato, dopo la fine del dominio estense su Ferrara nel 1598, prima agli Aldobrandini e poi ai Ludovisi

per essere infine donato a Filippo IV di Spagna. Tutto ciò testimonia quanto fu grande il riverbero

della produzione culturale estense, capace di irradiare per secoli la propria luce, frutto dell’ingegno di

grandi autori che lavorarono in una delle più importanti corti del Rinascimento italiano. Tra questi

Ariosto, tradotto in tutta Europa sin dalla metà del Cinquecento, è uno dei più grandi esponenti.

Dario Franceschini

Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo



Ludovico Ariosto è senza dubbio uno dei padri della letteratura moderna e l’Orlando furioso rappresenta

nell’immaginario comune, insieme alla Divina Commedia dantesca, uno dei poemi più noti di tutti i tempi.

Scritto per celebrare la corte degli Estensi e pubblicato a Ferrara per la prima volta nel 1516, questo capolavoro

della letteratura mondiale, ispirato ai cicli carolingi e bretoni, è la chiave di lettura per comprendere

tutta la cultura del Rinascimento, non solo ferrarese.

Nell’anno del quinto centenario dalla sua pubblicazione per la nostra città è un onore, oltre che un atto

dovuto, celebrare Ludovico Ariosto e il poema che lo ha reso immortale con una grande mostra dal taglio

inedito. La rassegna, infatti, non si focalizza solo sull’apparato documentale, né affronta i temi riguardanti

la fortuna pittorica del poema, ma si pone l’obiettivo ambizioso di proporre una ricostruzione dell’universo

di visioni che popolavano la mente di Ariosto al tempo della scrittura del poema.

Per la città di Ferrara questo anniversario è segnato, inoltre, da un fatto di grande rilevanza: per volontà

testamentaria di Cesare Segre, la raccolta dello studioso di edizioni antiche di opere di Ariosto è andata ad

arricchire il patrimonio librario della Biblioteca Ariostea, ampliando in maniera significativa per numero

e pregio il nutrito fondo librario dedicato al poeta. Nell’accogliere questo lascito con gratitudine ed emozione,

vorremmo che la mostra dedicata al Furioso fosse in primo luogo un omaggio a questo uomo e

questo studioso eccezionale, che ha condotto un lavoro insuperabile per qualità e passione sui testi ariosteschi,

una ricerca senza la quale oggi non saremmo in grado di avvicinarli con la stessa chiarezza e capacità

di intendimento.

In concomitanza con l’apertura della mostra, Ferrara sarà, inoltre, teatro di molte iniziative di approfondimento,

tra cui convegni, letture pubbliche del poema e appuntamenti legati alla storia e alla cultura di quel

periodo. A ciò si aggiungono le manifestazioni che in tutta Italia, durante tutto il 2016, sono state dedicate

al Furioso e al suo cantore. È quindi motivo di grande soddisfazione che questa nostra esposizione costituisca

uno degli eventi di punta delle celebrazioni promosse dal Comitato Nazionale per il V Centenario

dell’Orlando furioso.

Siamo grati a quanti hanno contribuito a rendere possibile un risultato così alto, primi fra tutti i curatori il

cui impegno scientifico ha fatto sì che questa rassegna e il suo catalogo prendessero forma secondo gli

intenti che ne hanno ispirato la nascita. Desideriamo ringraziare il Ministero dei beni e delle attività culturali

e del turismo che ha condiviso con noi l’organizzazione dell’esposizione e che ha permesso l’ottenimento

di prestiti di straordinario valore, anche grazie alla generosità dimostrata dai musei statali. Un ringraziamento

particolare e doveroso va a tutti i musei e le biblioteche prestatori, primi fra tutti Sua Maestà

la regina Elisabetta II che ha eccezionalmente concesso alla rassegna un disegno di Leonardo da Vinci e il

Museo del Prado per aver reso possibile il ritorno in Italia per la prima volta dopo quasi cinquecento anni

del Baccanale degli Andrii di Tiziano, capolavoro realizzato per i Camerini di Alfonso, ma anche, tra gli

altri, il Louvre per lo splendido Mantegna, gli Uffizi, la Galleria Estense di Modena, il Victoria and Albert

Museum di Londra e il Museo di Capodimonte per lo spettacolare arazzo che chiude l’esposizione.

Ciò che ci auspichiamo è che questa mostra e il suo catalogo possano essere due validi strumenti non solo

per la comprensione dell’Orlando furioso e delle fonti che ne hanno ispirato la scrittura, ma che siano

anche in grado di far rivivere nei visitatori e nei lettori i sogni, i desideri e le fantasie di quella società delle

corti italiane del Rinascimento di cui Ariosto fu cantore sensibilissimo.

Tiziano Tagliani

Sindaco di Ferrara



Sommario

14 Prefazione

Maria Luisa Pacelli

DENTRO LA MOSTRA

DENTRO IL FURIOSO

18 Cosa vedeva Ariosto quando

chiudeva gli occhi

Guido Beltramini e Adolfo Tura

Opere in mostra

30 «Continuando la inventione

del conte Matheo Maria Boiardo»

38 La giostra e la battaglia

64 Lo specchio della corte

100 L’immagine del cavaliere

128 Il meraviglioso

150 Orlando in campo

182 Un capolavoro in trasformazione

Approfondimenti

212 Le arti visive negli scritti di

Ariosto: opere, idee, protagonisti

Marco Collareta

222 Ariosto e l’ottava sui pittori

Barbara Maria Savy

230 Ariosto e Mantegna, che nella

pittura «tiene lo impero»

Vincenzo Farinella

236 Ariosto e Tiziano

Miguel Falomir

242 La Musa come amante

Ulrich Pfisterer

250 «Sicuro in su le carte verrò,

più che su legni, volteggiando»

Vladimiro Valerio

256 Il Furioso e l’arte della battaglia:

Ariosto immagina la guerra

Francesca Borgo

266 Ariosto e la tradizione

epico-romanzesca delle armi

incantate

Daniela Delcorno Branca

272 L’illustrazione dei codici

cavallereschi di Bernabò Visconti

Pier Luigi Mulas

280 Il poema e la corte

Alessandra Villa

286 Autore e lettore: la partita

truccata dell’intreccio

Cristina Montagnani

296 1516-1532: le trasformazioni

dell’Orlando furioso

Alberto Casadei

304 Ariosto in cerca della lingua.

Il primo, il secondo e il terzo

Furioso

Paolo Trovato

314 Cosa udiva Ariosto quando

chiudeva gli occhi. Musica e

suono nel Furioso

Flora Dennis

320 Alberti in Ariosto

Lucia Bertolini

326 Vite parallele. Ariosto

e Castiglione

Maria Cristina Cabani

332 Ludovico Ariosto, il poema

e la storia

Marco Dorigatti

342 Bibliografia



Prefazione

Come altri grandi poemi epici della storia della letteratura occidentale, l’Orlando furioso s’inserisce in

una lunga tradizione, prima perlopiù popolare, poi letteraria. Il racconto delle gesta mitiche dei paladini

di Carlo Magno, fiorito in Francia all’epoca delle Crociate, si diffuse in Italia grazie alla narrazione

dei cantori di gesta nel corso dei secoli successivi, per poi «risalire dalle piazze agli ambienti

colti» (Italo Calvino) alle soglie del XVI secolo. Fu tuttavia a Ferrara, in seno a una delle corti più vitali

del Rinascimento, espressione di una società raffinata, elegante e interessata alle arti della guerra, che

l’epica cavalleresca trovò stabile dimora per oltre un secolo, sviluppandosi in senso moderno nei

grandi poemi di Boiardo, Ariosto e Tasso.

Con la mostra Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi ci si è proposti

di indagare la fitta trama di relazioni esistenti tra il poema e il contesto storico e culturale in cui nacque,

rivolgendo particolare attenzione al panorama figurativo ad esso precedente e contemporaneo,

con l’intento di rintracciare le fonti visive che hanno nutrito l’immaginazione del suo autore. Di concerto

con i curatori, Guido Beltramini e Adolfo Tura, e con un autorevole comitato scientifico composto

da studiosi di letteratura e storici dell’arte che ci ha accompagnato in questi anni di lavoro, sono

stati rigorosamente selezionati opere e oggetti preziosi, noti ad Ariosto o coerenti con la tradizione

figurativa a lui familiare: manoscritti miniati, arazzi, libri illustrati, incisioni, ricercati manufatti,

armi, dipinti e sculture.

questo luogo, Il baccanale degli Andrii di Tiziano, che si conclude il racconto della mostra e la sequenza

di opere chiamate a rendere testimonianza del fecondo intreccio tra arte e letteratura che ha caratterizzato

le fasi più alte del nostro Rinascimento. Opera emblematica dello sforzo comune al poeta e

all’artista moderno di forgiare una classicità del tutto nuova, questa tela straordinaria torna oggi a

Ferrara per la prima volta dopo quasi cinquecento anni dalla sua creazione, grazie alla generosità del

Museo del Prado.

Ad accompagnare questa esposizione è, infine, una pubblicazione che mira a dare conto e approfondire

temi ed argomenti salienti legati al poema di Ariosto e alla stagione in cui vide la luce. Per la sua

realizzazione sono stati chiamati a intervenire insigni studiosi del poeta e storici dell’arte, oltre che

specialisti dei numerosi ambiti cui fanno riferimento gli oggetti convocati in mostra.

Se è stato possibile realizzare un progetto così ambizioso lo si deve al lavoro scrupoloso e appassionato

dei curatori, al costante sostegno del comitato scientifico, alla competenza di coloro che hanno contribuito

al catalogo, alla generosità e alla fiducia dei prestatori, agli enti promotori e organizzatori della

rassegna e, non ultima, all’esperienza e alla dedizione dei colleghi della Fondazione Ferrara Arte e

delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara che hanno lavorato instancabilmente a

questa esposizione. A tutti loro va il mio più sincero ringraziamento.

Grazie alla fiducia e alla generosità di musei e istituzioni di tutto il mondo, dal Musée du Louvre al

Prado, dalla Galleria degli Uffizi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, dalla British Library alla

Bibliothèque nationale de France, solo per citarne alcuni, la mostra, voluta dalla Fondazione Ferrara

Arte e realizzata grazie alla fondamentale collaborazione del Ministero dei beni e delle attività culturali

e del turismo, ha ottenuto prestiti di assoluto rilievo e valore. Si tratta di opere d’arte, libri e oggetti

straordinari che, dialogando tra loro negli spazi di Palazzo dei Diamanti, permettono di entrare nel

ricchissimo universo del poema e, al contempo, di raccontare il panorama in cui questo è nato e si è

successivamente trasformato, dalla prima alla terza e ultima edizione del 1532. Un lasso di tempo relativamente

breve che ha tuttavia prodotto cambiamenti profondi nell’assetto politico e sociale italiano

ed europeo, investendo le stesse pagine del Furioso.

Maria Luisa Pacelli

Direttrice delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara

Attraverso un allestimento suggestivo ma rigoroso, studiato con l’intento di restituire la dimensione

fantastica del poema e di valorizzare le opere esposte, la rassegna propone un percorso articolato in

sezioni tematiche. Queste alternano le fonti dell’immaginario ariostesco – dall’eredità del Boiardo, al

ricchissimo repertorio di rappresentazioni della battaglia, fino alle molteplici immagini di cavalieri,

donne guerriere, maghi e principesse diffuse al tempo – all’universo cui fa riferimento il libro, ad

esempio il raffinato ambiente delle corti d’inizio Cinquecento o il nuovo assetto politico che si delinea

tra il secondo e il terzo decennio del secolo. Uno scorcio di anni che, oltre a segnare l’evoluzione del

Furioso, a Ferrara coincide con la realizzazione di una delle imprese figurative più celebri del Rinascimento,

il Camerino delle pitture di Alfonso I d’Este. Ed è proprio con uno dei capolavori creati per



DENTRO

LA MOSTRA



COSA VEDEVA ARIOSTO

QUANDO CHIUDEVA

GLI OCCHI

GUIDO BELTRAMINI

ADOLFO TURA

uesta mostra nasce da un incarico e da

un azzardo: celebrare il quinto centenario

della stampa a Ferrara della

prima edizione dell’Orlando furioso,

grande capolavoro della letteratura rinascimentale.

Nel 1933, in occasione delle celebrazioni

per il IV centenario ariostesco, Nino Barbantini

sfruttò l’occasione per una “Esposizione

della pittura ferrarese del Rinascimento”,

un’operazione oggi non più proponibile dopo

le grandi mostre su Dosso nel 1998, sugli Este

nel 2004, su Tura e Cossa nel 2007.

La nostra scelta di curatori è stata porre l’Orlando

al centro, tenendo sullo sfondo la fortuna

del poema nell’arte, tema compulsato con cura

e scienza in tempi recenti. Ciò ha significato

fare una mostra che lavora sull’immaginario

visivo dell’autore mentre scrive il poema. In

altre parole quello che Ariosto vedeva quando

chiudeva gli occhi, convocando in mostra

opere che egli poté effettivamente conoscere,

ma anche pezzi coerenti con la tradizione che

nutrì il suo immaginario, ricordando che il

Furioso è il sogno divertito di un antico mondo

cavalleresco medievale mai esistito se non nella

letteratura. In particolare abbiamo rivolto la

nostra attenzione a quelle tipologie di oggetti

che, all’epoca di Ariosto, si ponevano come veri

e propri veicoli d’immagini: arazzi, manoscritti

miniati, libri a stampa con illustrazioni silografiche,

bronzetti – per citarne alcune. Del tutto

estranei alla mentalità di Ariosto furono la

smania e il perenne scontento del collezionista,

quali invece trapelano nella corrispondenza di

Pietro Bembo. Ma se il desiderio di possesso

non lo tormentava, possiamo indovinare quale

avidità guidasse i suoi occhi a impadronirsi

d’immagini per trarne poi spunto alle proprie

fantastiche costruzioni. Queste premesse ci

hanno condotto lungo la strada ardua di una

filologia dell’immaginario ariostesco limitatamente

alle fonti visive, cioè a una paziente

ricognizione delle tradizioni figurative familiari

al poeta: filologia dell’immaginazione

che non rischia di diventare fantafilologia

finché si mantenga la consapevolezza che –

tranne rarissimi casi – sarebbe velleitario e

sostanzialmente fuorviante tentare di rintracciare

nel poema di Ariosto una trama di puntuali

citazioni di opere figurative. Anche solo

rimanendo nell’ambito dell’architettura, si è

sempre rivelato fragile ogni tentativo di individuare

modelli e riferimenti in edifici reali

per le immaginifiche invenzioni spaziali ariostesche,

che non si preoccupano di una plausibilità

costruttiva o compositiva e sono spesso

in continuità con tradizioni ecfrastiche precedenti.

Come osserva Marco Collareta nel suo

Fig. 1

Bonifacio Bembo

Il Matto, Tarocchi Visconti,

c. 1450-80

Miniatura su pergamena,

mm 173 x 87

New York, The Morgan

Library & Museum

18



saggio in questo catalogo (p. 216), l’affinità fra

il castello di Soria nel XVII canto ed il palazzo

Ducale di Urbino consiste non tanto in equivalenze

formali – disposizioni planimetriche,

uso di materiali o disegno di dettagli – quanto

sul piano strategico dell’invenzione di una

loggia aperta da cui dominare il paesaggio

circostante.

La mostra si apre con il “salto degli Orlandi”,

per usare il titolo di un bel racconto di Marco

Santagata. Già per Torquato Tasso l’Orlando

innamorato e il Furioso costituivano un unico

poema, con Ariosto che usa gli stessi personaggi

e prosegue le stesse linee narrative del Boiardo

«benché meglio annodate e meglio colorite».

Il percorso ha inizio quindi dalle pagine dell’Inamoramento

de Orlando, esposto in un esemplare

mitico in quanto il più antico esistente,

unico sopravvissuto fra tutte le copie stampate

delle prime due edizioni (Tav. 1). Accanto al

volume, un labirinto e un bivio. Il primo è ricamato

sulla giubba di un giovane cortigiano, che

sarebbe stato a suo agio alla corte di Ferrara al

tempo di Borso e di Ercole, dipinto da Bartolomeo

Veneto (Tav. 2). Il secondo è evocato nella

cornice intagliata di uno specchio di provenienza

estense (Tav. 3), con la lettera pitagorica

Y a separare il settore circolare dominato dal

BONUM da quello dominato dal MALUM. Già

nel 1984 Remo Ceserani aveva proposto questi

due modelli culturali e figurativi concorrenti

nell’intreccio dell’Innamorato e nel Furioso: il

labirinto della selva dove i protagonisti si smarriscono

e i continui bivi, concreti e morali, fra i

quali debbono costantemente scegliere. 1

Con la sezione dedicata alla battaglia entriamo

nel vivo del racconto delle immagini. Va detto

che la cultura della guerra è parte integrante

del mondo delle corti padane fra Quattro e

Cinquecento, ed esperienza personale del

vissuto di ciascuno. Le battaglie di Polesella

(1509) e soprattutto quella di Ravenna (1512)

sono eventi che scuotono profondamente le

coscienze. A Ravenna ciò che impressiona non

è solamente la distesa di morti sul campo di

battaglia, che Ariosto vede così fitta da rendere

impossibile camminare senza calpestare

i corpi, ma anche l’evento cupo della morte

del nipote del re di Francia, Gaston de Foix, il

terribile sacco della città, persino la nascita di

un feto deforme – il mostro di Ravenna (Fig.

2), con ali di pipistrello e lettere misteriose

impresse nella carne – che sembrava aver anticipato

la tragedia. La guerra contemporanea –

che nella Ferrara di Ariosto e Alfonso significa

anche tecnologia delle armi da tiro e degli

ordigni di scoppio – non ha particolare fortuna

nel Furioso. Nel poema, i cui eventi sono

ambientati nell’VIII secolo, Ariosto aveva concesso

estrema libertà alla propria immaginazione.

Gli arazzi stessi (Tav. 4, Fig. 3), veicolo

principe delle immagini dell’epopea carolingia

insieme ai manoscritti illustrati (Tav. 6),

non erano fonti primarie ma sedimentazioni

successive. La fantasia di Ariosto si nutriva di

altre fantasie, un mondo di ipotesi costruito su

ipotesi precedenti. Del resto anche l’olifante

di Orlando (Tav. 5), che pure è ritenuto tale

da molti secoli, non è mai risuonato a Roncisvalle.

Un mondo d’invenzione, dove giganti

combattono contro elefanti fra scoppi di granate,

è anche quello del disegno, conservato

a Windsor (Tav. 11), di mano di Leonardo da

Vinci, il quale si era invece misurato a fondo

Fig. 2

Il Mostro di Ravenna

in François Ynoi,

Les avertissemens es

trois estatz du monde

Valence, Jean Belon, 1513

Forlì, Biblioteca Comunale,

Raccolta Piancastelli

Fig. 3

Arazzo detto del torneo,

XV secolo

Arazzo in lana, seta,

argento e oro, cm 497 x 579

Valenciennes, Musée des

Beaux-Arts

sulla storia nella disfida con Michelangelo per

le pitture murali della battaglia di Anghiari in

Palazzo Vecchio a Firenze. Nel mondo delle

corti padane le immagini di battaglia erano

ovunque, di certo molto diverse fra loro e

sedimentatesi in modi differenti nel secolo

precedente. Nella Ferrara di Leonello d’Este il

fascino era tutto nelle nuove rappresentazioni

dall’antico, fossero i corpi nudi dei sarcofagi

romani (Fig. 4) o le loro riletture nelle opere

degli artisti. Negli anni del suo ducato Borso,

invaghito di cultura cavalleresca, apprezzava

maggiormente le rappresentazioni nordiche,

più sanguinarie e meno intellettualistiche,

incurante che il fratello le definisse «ineptiae».

Sicuramente un’esperienza diretta di Ariosto è

anche la cultura del duello (Fig. 5), una presenza

concretamente percepibile nella città,

con la risonanza data dai cartelli di sfida affissi

sui muri. Mediata dall’esperienza letteraria,

invece, è quella della giostra, fatta rivivere sulla

base dei romanzi arturiani, esperienza “pubblica”

perché, per definizione, è spettacolo che

avviene al cospetto delle dame (Tav. 14).

Nell’ultimo canto, ad accogliere la nave

dell’autore rientrata finalmente in porto c’è la

corte: la prima e privilegiata cerchia dei lettori

(e ascoltatori?), soprattutto della prima

edizione. È la metafora dello specchio a gui-

20 21



dare l’allestimento della sala di questa sezione

della mostra: il lettore di corte ritrova nel

romanzo cavalleresco uno stile di vita basato

sull’eleganza, dalla caccia con lo sparviero al

gioco degli scacchi (Tav. 23). Al tempo stesso il

Furioso è strutturato intorno alle logiche della

vita cortigiana. Come Machiavelli nel Principe

offrirà un’anatomia dei meccanismi del

dominio politico, così nel Furioso, pur su un

registro letterario, non vi è evasione rispetto

alla realtà ma interpretazione delle dinamiche

della vita associata, cioè del mondo della corte

che è luogo di ambizioni e di giochi di potere.

Una commedia umana di cui Ariosto conosce

a fondo tutti gli aspetti e di cui nelle Satire non

esita a mettere alla berlina l’asineria (Tav. 27).

Ma come evocare la corte in un modo che non

sia interscambiabile con qualsiasi altra mostra

sul Rinascimento? Certamente con opere specifiche,

come il ritratto di Leonello d’Este di

Pisanello (Tav. 16), in omaggio all’intento

dinastico della prima edizione del poema,

ma in più concentrandoci sullo specifico del

meccanismo di rispecchiamento, là dove il

Furioso assorbe – anche criticamente – elementi

di quel mondo. Abbiamo così accostato

l’albero in sembianze umane della Minerva

di Mantegna (Tav. 19), appartenuto a Isabella

Gonzaga, ad una lira da braccio antropomorfa

realizzata a Verona negli stessi anni (Tav. 20),

con sullo sfondo il lamento di Astolfo trasformato

in pianta di mirto parlante nel VI canto

del Furioso. Allo stesso modo abbiamo convocato

un dipinto dal camerino di Eleonora

d’Aragona, madre di Isabella, che componeva

un trittico di donne illustri dell’antichità (Tav.

22) e che preannuncia quello del palazzo del

cavaliere del nappo nel XXXVIII canto dell’edizione

del 1532.

Senza scordare ciò che a Ferrara ha una

importanza cruciale: il teatro. La corte è di

per sé un luogo teatrale, vive di una continua

rappresentazione di se stessa, attraverso le

proprie immagini di vita elegante. Quanto al

teatro vero e proprio, se a Roma gli umanisti

come Fedra Inghirami (Tav. 28) si dilettavano

a mettere in scena le commedie antiche recitando

in latino, a Ferrara è percorsa un’altra

strada: nel gennaio 1486 vengono rappresentati

nel cortile di Palazzo ducale i Menechini

e prende il via una stagione di teatro volgare

all’antica che, passando per il Cefalo di Niccolò

da Correggio (Tav. 31), giungerà alle commedie

di Ariosto come I Suppositi (Tav. 33).

Come si presentavano, nella fantasia del poeta,

Orlando e gli altri cavalieri che popolano il

Furioso? Un artista, dovendo rappresentare un

re guerriero medievale, si trovava costretto a

precisarne l’aspetto: è il caso, negli stessi anni

in cui Ariosto elabora la prima stesura del

poema, di Albrecht Dürer che progetta alcune

sculture per il monumento funebre di Massimiliano

I a Innsbruck (Tav. 40). Al contrario,

uno scrittore poteva esimersi da ogni descrizione

ed è questa la via scelta da Ariosto. Noi

Fig. 4

Fronte di sarcofago con

scena di battaglia tra Greci

e Amazzoni

Marmo, cm 228 x 62,5 x 12

Mantova, Palazzo Ducale

Fig. 5

Fiore dei Liberi

Il fior di battaglia,

XV secolo

New York, The Morgan

Library & Museum

però possiamo identificare le tradizioni figurative

che certamente premevano alla porta

della sua immaginazione e, ad un tempo, a

quella dei suoi primi lettori, i quali supplivano

alla vaghezza del testo attingendo alle

proprie fantasie e alla propria cultura visiva.

Come si distinguevano alla vista i cavalieri cristiani

e i pagani che incrociano i loro destini

nelle pagine del Furioso? Così come Ariosto

non scrive nulla che differenzi i paesaggi del

Medio Oriente da quelli di Francia, nulla dice

di distintivo nemmeno delle vesti e dell’equipaggiamento

dei cavalieri giunti dall’Africa.

Ma i lettori potevano fantasticare e noi possiamo

fare ipotesi. Come non pensare alle

innumerevoli e diversissime raffigurazioni

di san Giorgio (Tav. 35), che s’incontravano

ovunque a Ferrara? Parliamo di un mondo

in cui le immagini di cavalieri incombevano

dappertutto, in una eteroclita stratificazione

che abbiamo deciso di sondare attraverso

alcune proposte di altissima qualità formale

e i cui estremi temporali sono rappresentati

in mostra dal Maestro dei Mesi (Tav. 34) e da

Antonio Lombardo (Tav. 42), passando attraverso

profili verrocchieschi dei grandi condottieri

dell’antichità (Tav. 37) o bronzi come

quello di Filarete che raffigura l’eroe troiano

Ettore a cavallo (Tav. 39), quest’ultime oggetto

di bramosa contesa fra i cavalieri del Furioso.

Le donne guerriere sono una delle grandi

invenzioni di Boiardo riprese da Ariosto; e

animate così vivacemente da diventare degli

emblemi del valore femminile, se in pieno Cinquecento

la grande poetessa lionese Louise

Labé si paragonerà a Marfisa e Bradamante:

«Pour Bradamante, ou la haute Marphise, /

seur de Roger, il m’ust, possible, prise» (Per Bradamante

o l’alta Marfisa, / sorella di Ruggiero,

mi avrebbe forse presa).

22 23



Sul versante delle fonti visive Ariosto poteva

certo conoscere alcune rappresentazioni di

Amazzoni, a cominciare dai sarcofagi antichi

(Tav. 7). Di particolare suggestione è il magnifico

disegno di Marco Zoppo, con una testa di

guerriera fantasiosamente all’antica (Tav. 36).

Nella letteratura cavalleresca in cui il Furioso

s’inserisce sono le armi a costituire l’identità di

ogni cavaliere, come quelle esibite dal giovane

guerriero di Giorgione (Tav. 44). C’è almeno

un episodio riferito a queste in cui Ariosto

sembra ispirarsi direttamente alla cultura

figurativa del suo tempo: è quello di Zerbino

che raccoglie pietosamente le armi di Orlando

e le compone come trofeo appese ad un albero:

Quivi Zerbin tutte raguna l’arme,

e ne fa come un bel trofeo su ’n pino;

e volendo vietar che non se n’arme

cavallier paesan né peregrino,

scrive nel verde ceppo in breve carme:

- Armatura d’Orlando paladino;

come volesse dir: nessun la muova,

che star non possa con Orlando a prova. 2

L’immagine della panoplia era certamente

familiare al poeta, più che per la vista di

reperti archeologici, per le riprese antiquarie

di primo Cinquecento, delle quali le lesene del

monumento funebre di Gaston de Foix sono

un esempio di qualità eccelsa (Tav. 43).

La letteratura arturiana è un mondo di maghi,

d’incantesimi, di fate. Le avventure sono collocate

in un passato leggendario, quasi di

sogno, e avvolte in un’atmosfera favolistica

affine a quella che ritroviamo, sapientemente

suscitata, nel san Giorgio parigino di Paolo

Uccello (Tav. 47). Il meraviglioso trovava spazio

nelle illustrazioni delle edizioni a stampa

di romanzi francesi che Ariosto leggeva (Fig.

6): illustrazioni che (in alcuni casi è lecito ipotizzarlo)

sembrano per se stessi aver mosso

la sua fantasia, autonomamente rispetto ai

testi. È il caso, ci pare, almeno della Mélusine

(Tav. 48). Nella fantasia di Ariosto il meraviglioso

si nutre sia delle «cortesie» e delle

«audaci imprese» di quel mondo remoto, sia

delle favole mitologiche antiche, come quella

della liberazione di Andromeda (Tav. 53),

replicata nell’episodio della liberazione di

Angelica e, più tardi, di Olimpia. Ma il meraviglioso

si manifestava anche, ai suoi giorni,

nell’eco delle grandi scoperte geografiche,

da Colombo a Vespucci (Tavv. 54, 55), e nelle

relazioni di viaggi: l’Itinerario di Ludovico

Vartema (Tav. 56), ad esempio, era certamente

ben noto alla corte di Ferrara.

È a questo punto che entra in campo l’Orlando

del 1516. Nel poema il desiderio muove

ogni cosa e la sala si incentra su di esso. La

donna incarna emblematicamente l’oggetto

del desiderio e noi, in linea con l’esaltazione

ariostesca della nudità femminile, la rappresentiamo

con una Venere pudica, il Botticelli

della Galleria Sabauda (Tav. 58). Perché

Botticelli? Perché, come ha proposto Fredi

Chiappelli, 3 la concezione della bellezza

femminile quale si evidenzia nella prima edizione

del Furioso, nelle descrizioni di Alcina

e di Angelica, si risolve in una “cristallizzazione”

della visione mediceo-ficiniana della

bellezza: forse «una cristallizzazione censoria,

in cui non sarebbe nemmeno assente un

filo di disamore» (Alcina sta per l’illusione). 4

Ma oggetto del desiderio non è solo la donna:

può essere una spada, un cavallo o un elmo,

greco come le armi di Ettore contese fra i

paladini (Tav. 59).

Fig. 6

Christine de Pisan

L’Epître d’Othéa,

XV secolo, f. 4v

Parigi, Bibliothèque

nationale de France

A differenza dell’Innamorato, nel Furioso ogni

personaggio è portatore di un desiderio: che lo

lega al proprio destino, lo imprigiona e di fatto

gli toglie il senno. Perché se Orlando impazzisce,

Rinaldo si aggira «con senno non troppo

più saldo» (XXVII, 8, 5) e il poeta stesso non

si vuole esempio di assennatezza: «Voi scusarete,

che per frenesia, / vinto da l’aspra passïon,

vaneggio. [...] Non men son fuor di me,

che fosse Orlando». 5 Come rende esplicito il

richiamo all’Hercules furens cui è fatto luogo

nel titolo stesso del poema ariostesco, la follia

di Ercole nella tragedia senecana (Tav. 60)

si associa nella mente di Ariosto alle figure di

follia individuale della tradizione cavalleresca,

quelle di Lancillotto e Tristano. 6 Ma nel

Furioso la follia «si ritrova nel cuore di ogni

comportamento umano», 7 «abita [...] dentro

tutti i personaggi». 8 Ariosto partecipa della

visione umanistica per la quale ogni individuo

perde il senno al mondo:

Altri in amar lo perde, altri in onori,

altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;

altri ne le speranze de’ signori,

altri dietro alle magiche sciocchezze;

altri in gemme, altri in opere di pittori,

et altri in altro che più d’altro aprezze. 9

Siamo sulla linea dell’intercenale Defunctus di

Leon Battista Alberti:

Politropo – Che novità porti? Cosa succede

tra i mortali?

Neofrono – Ah, ah, ah! Farneticano.

Politropo – Davvero? Ma in che senso?

Neofrono – In infiniti modi: ardono d’amore,

bruciano d’odio, oppure, da pazzi, affrontano

fatiche, ferite e tutti i pericoli più estremi per

un po’ di denaro, per farsi un nome, per assecondare

le loro voglie e per ogni inezia di questo

tipo. 10

È il tema del Moriae Encomium di Erasmo

(capp. XL-XLIV), che affiora anche in Castiglione

(Libro del Cortegiano, I, 8: «E chi è

riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in

amore, chi in danzare, chi in far moresche,

chi in cavalcare, chi in giocar di spada»). È un

tema che nelle corti padane circolava anche in

una veste umoristica nella raccolta di sonetti

di Baldassarre da Fossombrone (Tav. 63), che

veniva intesa come una serie di “pazzie”. Al

folle mondo degli uomini Ariosto oppone la

luna, in tutto simile alla Terra: «Sol la pazzia

non v’è poca né assai» (XXXIV, 81, 7).

L’anziano evangelista Giovanni vi conduce

Astolfo attraverso un viaggio che mima quello

di Dante e Virgilio (Tav. 65). Non è facile rappresentare

in una mostra la luna di Ariosto.

È stato notato che il «metafisico scenario

[lunare] rappresenta l’ideale punto di approdo

del processo di progressiva astrazione intellettualistica

percorso dall’inchiesta». 11 Effettivamente

il testo che narra l’esperienza di

Astolfo è visivamente assai parsimonioso,

giocato piuttosto su un registro allegorico e

ispirato all’intercenale Somnium di Alberti. 12

Ciò che Ariosto dice della luna è che la superficie

del pianeta è lucida e riflettente – quale

si può assimilare alle «palle dorate poste nella

sommità degli alti edifizi»: 13 sono parole di

Leonardo da Vinci, che ci hanno indotto a

esporre il globo di bronzo che Ariosto poteva

vedere in cima all’obelisco vaticano (Tav. 66).

Non abbiamo tuttavia resistito al fascino del

paesaggio “extraterrestre” del san Giovanni di

Tura (Tav. 64), l’evangelista che guida Astolfo.

Il tema variegato e ricchissimo della fortuna

del Furioso è stato oggetto di ottimi studi e

anche di mostre recenti. Per questa ragione

abbiamo pensato di riassumerlo in questa

mostra con due soli testimoni, che ne documentano

l’apprezzamento precoce di Machiavelli

(Tav. 68) e di Dosso Dossi (Tav. 69). La

maga Melissa dipinta da quest’ultimo sembra

uscire dai versi dell’VIII canto, intenta

ad annullare il sortilegio della maga malvagia

Alcina che ha trasformato i cavalieri in

fiori, alberi e animali. In una prima versione

del dipinto, però, Melissa è in realtà con Bradamante

alla tomba di Merlino, dove – nel II

canto del Furioso – sfilano davanti a loro gli

spiriti della progenie estense sino ad arrivare

ad Alfonso e Ippolito d’Este. Guardando di

persona il dipinto, quindi, il duca e suo fratello

idealmente lo completavano, in un rinnovato

gioco di specchi fra finzione letteraria, pittura

e vita della corte.

24 25



Cosa cambia nelle edizioni del Furioso nel

passaggio fra la prima edizione del 1516, che

celebriamo quest’anno, e le successive del

1521 e del 1532? Il Furioso del 1516 è un poema

estense, un’epopea dinastica, quello del 1532

è da tutti i punti di vista, anche linguistico,

un capolavoro italiano. Senza dubbio cambia

anche il mondo intorno ad Ariosto, e – ancor

di più di quanto non fosse successo nella

prima edizione – le trasformazioni entrano

nel poema. Nel febbraio del 1525 la battaglia

di Pavia capovolge la geopolitica europea:

Francesco I è sconfitto e catturato, la sua

spada è trofeo di guerra (Tav. 79), che abbiamo

voluto in mostra di fronte all’arazzo di Capodimonte

che documenta lo scontro (Tav. 78).

Da allora in avanti Carlo V dominerà la politica

italiana, costringendo anche la corte estense ad

un diplomatico riposizionamento. Sul campo

di battaglia gli organizzati plotoni di fucilieri

contribuiscono con i loro archibugi alla sconfitta

francese, dando la dimostrazione di un

cambio radicale nell’arte della guerra iniziato

trent’anni prima nella battaglia di Cerignola.

Nei canti aggiunti all’edizione del 1532 Ariosto

introduce l’episodio della maledizione del “ferrobugio”

che viene gettato nel mare da Orlando,

maledicendone il potere livellante (Tav. 71).

Un altro elemento di novità nella terza edizione

del poema è l’inserimento, nel XXXIII

canto, di un omaggio ai grandi pittori del passato

e del presente, riconoscendo così, da letterato,

il nuovo status conquistato dagli artisti,

che onorano i territori d’origine con la propria

fama. L’elenco disegna un panorama artistico

che va oltre la dimensione municipale, per

divenire compiutamente italiano, costruito

sulla diarchia Raffaello – Michelangelo.

Del resto anche nei gusti del duca Alfonso i

campioni della generazione precedente sono

sopravanzati da Michelangelo (Tav. 80) – di

cui lo stesso Ariosto aveva ammirato la volta

Sistina e il suo Giona – da Tiziano e da Raffaello,

in morte del quale il poeta compone un’elegia

latina (Fig. 7). Di questa nuova stagione,

analizzata nel suo complesso da Barbara Savy

in catalogo, la mostra richiama l’eloquente

episodio del Baccanale degli Andrii (Tav. 81),

una delle opere più significative del Camerino

delle pitture del duca realizzata nel 1522-24.

Nel dipinto la figura femminile addormentata

Polidoro Caldara da

Caravaggio

Rotella da parata

(part. dell’interno di

Tav. 77), c. 1525-27

Olio su legno, diametro

cm 60

Torino, Palazzo Madama,

Museo Civico d’Arte Antica.

Su concessione della

Fondazione Torino Musei

Fig. 7

Ludovico Ariosto

Elegia in morte di Raffaello,

in Carmina, post 1520

Manoscritto cartaceo,

f. 12r

Ferrara, Biblioteca

Comunale Ariostea

1. Ceserani 1984.

2. Of X XIV, 57.

3. Chiappelli 1985.

4. Ibid., p. 337.

5. Of XXX, 3, 3-4; 4, 1; si veda anche IX, 2, 1-4

e XXIV, 3.

6. Segre 1989.

7. Ferroni 1975, p. 82.

8. Ferroni 1996, p. 439.

9. Of XXXIV, 85, 1-6.

10. Alberti 2012, p. 359. Abbiamo mutato con

«in infiniti modi» la locuzione «in svariati

modi» dei traduttori per echeggiare il latino

(«modis quidem infinitis»).

in primo piano unisce la monumentalità di una

statua antica alla fragrante sensualità di una

donna contemporanea, profondamente diversa

dalla bellezza idealizzata del dipinto botticelliano

che abbiamo ammirato accanto alla prima

edizione del 1516. È il grande talento di Tiziano,

capace con le sue donne di far girare la testa a

Giovanni Della Casa, ma qualcuno pensa anche

allo stesso Ariosto, almeno a voler leggere l’insistita

descrizione del morbido corpo nudo di

Olimpia sfuggita all’orca, aggiunto nella edizione

del 1532 (Tav. 70), rispetto alla figura di

Angelica, preziosa e fredda come una scultura

«o d’alabastro o marmori più illustri», in un’analoga

scena nella prima edizione. 14

Abbiamo aperto con un libro, e con un altro la

mostra si chiude: è il Don Chisciotte di Cervantes

(Tav. 82), l’ultimo romanzo di cavalleria. Qui

il salto non riesce, ma proprio qui a sorpresa

troviamo la spia di una comprensione profonda

della qualità sostanziale del Furioso, che va cercata

innanzitutto nella sua scrittura, capace di

assorbire dalle tradizioni le più varie a sperimentazioni

recenti in un tutto armonioso. Uno

dei personaggi, il curato, visitando la biblioteca

di Don Chisciotte sbotta: «Se tra questi libri c’è

il poema di Ariosto e parla una lingua che non

è la sua, non gli porterò nessun rispetto; ma se

è nella sua lingua, me lo porrò sul capo». Come

ogni opera d’arte, intraducibile...

11. Zatti 1990, p. 47.

12. Si veda il saggio di Lucia Bertolini in questo

catalogo pp. 320-325.

13. Richter 1883, vol. II, § 896.

14. Si veda Padoan 1978; Albonico 2012, pp.

21-22.

26 27



OPERE

IN MOSTRA



«CONTI-

NUANDO

LA INVEN-

TIONE DEL

CONTE

MATHEO

MARIA

BOIARDO»



1. Matteo Maria Boiardo

Inamoramento de Orlando (Libri I-II)

Venezia, Piero de’ Piasi, 19 febbraio 1486 [= 1487]. 4°

Privo delle carte a1 e 96

Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Inc. Ven. 671

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività

culturali e del turismo

Bibliografia: Accurti 1936, n. 85; Harris 1986; Harris

1988, I, pp. 18-22, n. 2; Tissoni Benvenuti e Montagnani

1999, pp. xlvi-liii.

Perduta la prima edizione del poema (collocabile

fra l’aprile 1482 e il febbraio 1483), è questa – di cui

si espone l’unico esemplare superstite, appartenuto

a Gaetano Melzi – la stampa più antica giunta fino

a noi, preziosissima anche dal punto di vista filologico

essendo «l’unica priva di riscritture più o meno

sistematiche e di volontari adeguamenti linguistici»

(Tissoni Benvenuti 1998, p. 927). L’articolazione in tre

libri non è peraltro imputabile all’autore perché questa

edizione comprende solo i primi due libri e si deve

probabilmente ricondurre a un’iniziativa dell’editore

(Montagnani 1992, p. 53).

Adolfo Tura

32 33



2. Bartolomeo Veneto

Ritratto di gentiluomo, c. 1510-15

Olio su tavola, cm 72,8 x 54,3

Cambridge, The Fitzwilliam Museum

Inv. 133

Provenienza: Milano, Reale Accademia; Julius Charles

Hare (13 settembre 1795 – 3 gennaio 1855), arcidiacono

di Lewes, Sussex; donato al museo da Mrs Hare nel 1855.

Bibliografia: Crowe e Cavalcaselle 1871 (ed. 1912), I, p.

300; Colvin 1895, p. 12; Venturi 1900, p. 107; Beard 1927,

pp. 232-234; Berenson 1932, p. 51; De Tervarent 1958,

p. 230; Goodison e Robertson 1967, pp. 7-8; Santarcangeli

1967, pp. 277-278; Gilbert 1973, p. 12; Kern 1981, pp.

266-267; C. Bon Valsassina in Roma 1988, pp. 104-106;

Hackenbroch 1996, pp. 101-104; Pagnotta 1997, pp. 72-74,

194; U. Sansoni in Desenzano e altre 1998, p. 156; San

Diego 2002, p. 44.

Nonostante numerosi e dotti tentativi di interpretazione,

rimane a tutt’oggi sconosciuta l’identità di questo gentiluomo,

così come l’intrigante rebus iconografico nascosto

nei decori e negli accessori del suo abbigliamento. Il

labirinto che campeggia sulla veste è certo forma archetipica

che ricorre, quale metafora di un percorso individuale

e di ricerca, anche nel Furioso, sebbene in accezione

diversa. Mentre il Palazzo di Atlante, la selva o, in

un certo senso, la struttura stessa del poema alludono ai

diversi labirinti del desiderio e dell’inganno nei quali i

protagonisti vagano realizzando in negativo il duplice

senso dell’“errare”, il vistoso simbolo qui rappresentato

configura piuttosto un percorso di iniziazione e di conoscenza

interiore (Brion 1952; Santarcangeli 1967; Kern

1981). Concettualmente connessi al labirinto sono infatti

i nodi di Salomone ricamati all’intorno e sul “giupone”

e la piccola pigna verde, scrigno di virtù e simbolo di

resurrezione (Levi d’Ancona 1977, p. 306, n. 8), collocata

alla sommità e circondata da sette perle. A questa divisa

si associa, come complemento e commento figurativo, la

medaglia appuntata con un ciuffo di penne bianche sulla

tesa del cappello, dove è dipinta una scena di naufragio

con il motto “Esperance me guide” inscritto su un cartiglio.

Si tratta di un emblema, già collegato ad un sonetto

di Matteo Maria Boiardo (Amorum Libri Tres, I, 18, ed.

1998, p. 11; si veda Hackenbroch 1996, p. 101), che è però –

va detto – a sua volta esemplato sulle Rime di Petrarca

(R.V.F., 189, 323; si veda Baldassari 2007, pp. 188-191).

Petrarchesca è infatti l’immagine della nave quale metafora

dell’esperienza sentimentale e poetica dell’anima

che trova in Laura/alloro speranza di salvezza. Un

importante precedente iconografico quasi sovrapponibile

al nostro caso va segnalato allora nella miniatura

che introduce il Petrarca effigiato nel 1476 da Francesco

d’Antonio del Chierico per Lorenzo il Magnifico, donato

a Carlo VIII re di Francia nel 1494 ed oggi alla Biblioteca

Nazionale di Parigi (Ms. Ital. 548; Garzelli 1985, I, p. 122;

Laffitte 1992, pp. 161-162). La sola nave in tempesta, inoltre,

è tema di larga fortuna, particolarmente nell’ambito

dell’emblematica e delle imprese ed è illustrata sotto il

motto Spes proxima da Alciato (Emblemata, 1531 e 1534,

ed. 2009, pp. 203-207; più in generale sulla tradizione

visiva della navigatio e del naufragio si veda Malke

2005-06, pp. 197-206; Torre 2012, pp. 246-264, 335-349).

Tra le varie proposte di identificazione si distinguono

quelle in direzione della famiglia Gonzaga dove si

incontra, oltre all’insegna della nave, anche quella del

labirinto, senza che si sia riusciti a stringere però su un

personaggio specifico (per i vari tentativi di interpretazione

si veda Pagnotta 1997, p. 85 nota 55; alla stessa,

pp. 72-74, 194, si rimanda per l’intera vicenda critica e

interpretativa).

Il ritratto è databile agli anni tra primo e secondo decennio

del Cinquecento, tuttavia un certo arcaismo, proprio

del linguaggio dell’artista e qui particolarmente evidente

nella rigidità d’impianto e d’espressione, nonché

l’uso di riferimenti simbolici e letterari, declinati con

gusto allegorico-moraleggiante, ritengono ancora molto

della cultura cortigiana quattrocentesca, richiamando la

stagione dell’Innamorato, piuttosto che i nuovi valori e

mezzi espressivi del Furioso.

Barbara Maria Savy

34 35



3. Intagliatore attivo a Ferrara

Cornice per specchio, c. 1505-10

Legno di noce parzialmente dorato, diametro cm 62

Londra, Victoria and Albert Museum

Inv. 7694-1861

Provenienza: Parigi-Tolosa, collezione Soulages, 1830-

1840; Londra, Victoria and Albert Museum (già South

Kensington Museum), 1861.

Bibliografia: Robinson 1857, pp. 177-178, cat. 670; Pollen

1874, pp. 185-187; Detroit e Fort Worth 1985, pp. 154-155,

cat. 42b; Powell e Allen 2010, pp. 180-184, n. 20; Farinella

2014a, p. 69 e nota 188.

Questa cornice per specchio è un pregevole intaglio

ligneo attribuibile a un artista attivo nel primo decennio

del Cinquecento presso la corte di Alfonso I, verosimilmente

identificabile in Bernardino da Venezia o in Stefano

di Donna Bona (Farinella 2014a, p. 69 e nota 188).

La superficie decorata rappresenta tralci d’acanto

popolati di figure che mettono a fronte Bene e Male

nelle due metà del tondo: a sinistra la parola BONUM

si sviluppa lungo gli elementi vegetali incontrando

esseri positivi, quali la figura femminile che fugge dal

drago, il falcone, l’unicorno, il leone e l’angelo; a destra,

MALUM procede tra entità negative, quali il caprone,

il topo, la scimmia, il lupo e la morte. Le due parti sono

tra loro collegate, e allo stesso tempo disgiunte, dalla Y

pitagorica (collocata in basso), simbolo del bivio, della

scelta tra il Bene e il Male, tra la virtù e il vizio, e dalla

granata svampante (posta in alto), emblema di Alfonso.

Il tema raffigurato nell’intaglio associato allo specchio

può essere ricondotto all’idea dell’immagine riflessa

come rivelatrice dell’anima e all’azione dettata dalla

“Prudenza” (il cui attributo simbolico è, appunto, lo

specchio), che può essere riferita sia al duca sia a sua

moglie Lucrezia Borgia. Questo concetto compare in

un passo dell’Orlando furioso, in cui Ruggiero si rispecchia

nelle mura gemmee della rocca della fata Logistilla,

sede di verità e bellezza, e trasparente allusione

al Palazzo dei Diamanti: «Di tai gemme qua giù non si

favella: / et a chi vuol notizia averne, è d’uopo / che

vada quivi; che non credo altrove, / se non forse su in

ciel, se ne ritruove. / Quel che più fa che lor si inchina e

cede / ogn’altra gemma, è che, mirando in esse, / l’uom

sin in mezzo all’anima si vede; / vede suoi vizii e sue virtudi

espresse, / sí che a lusinghe poi di sé non crede, /

né a chi dar biasmo a torto gli volesse: / fassi, mirando

allo specchio lucente / se stesso, conoscendosi, prudente»

(X, 58-59).

Il riferimento allo specchio quale rivelatore di moralità

fa pensare che il tema fosse familiare alla corte estense,

certamente in grado di cogliere le allusioni a un oggetto

di questo tipo.

Paolo Parmiggiani

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LA GIOSTRA

E LA

BATTAGLIA



4. La battaglia di Roncisvalle, c. 1475-1500

Arazzo in lana e seta, cm 253,5 x 338,5

Londra, Victoria and Albert Museum

Inv. T.95-1962

Provenienza: acquisto da Sotheby & Co. 18 maggio 1962;

collezioni del Victoria and Albert Museum.

Bibliografia: Londra 1921, n. 59; Göbel 1923, I, p. 273, II,

p. 216; Ackerman 1933, pp. 79-80, n. XII; Crick-Kuntziger

1956, pp. 17-19, n. 3, figg. 4-5; Heinz 1963, p. 73, figg. 42-43;

S.P. Asselberghs in Tournai 1967, p. 25, catt. 10-13; Masschelein-Kleiner,

Znamensky-Festraets e Maes 1967-68;

Digby 1980, pp. 18-19, n. 15; Forti Grazzini 1982, pp.

23-24; Cavallo 1993, p. 242; Rapp Buri e Stucky-Schürer

2001, p. 384.

Questo frammento appartiene a un arazzo, probabilmente

tessuto nell’ultimo quarto del XV secolo a

Tournai, che verosimilmente faceva parte di una serie

dedicata alla Storia di Carlo Magno. Gli episodi della

serie erano tratti dalle cronache delle gesta di Carlo

Magno e Orlando redatte nel XII secolo e note come

“Pseudo-Turpino”.

Nel 778, al ritorno dalla guerra contro gli Arabi di Spagna,

la retroguardia dell’esercito di Carlo Magno fu annientata

in un’imboscata tesa dai baschi, alleati dei saraceni,

sui Pirenei, presso Roncisvalle. Nell’arazzo i protagonisti

sono identificabili grazie alle iscrizioni. L’evento principale

è rappresentato sulla destra: Orlando uccide con la

spada Durlindana il re saraceno Marsilio. In questa scena

cruenta egli sembra tagliare l’uomo a metà, mentre nella

Chanson gli amputa solo un braccio, poi gli giustizia il

figlio. Al centro vediamo il compagno di Orlando, Oliviero,

che brandisce la spada sopra un soldato, il quale si

difende con uno scudo incastonato di gemme. Dietro l’albero

è raffigurato un evento precedente, secondo la convenzione

compositiva comune agli arazzi medievali: vi si

scorge Bevon, duca di Beaune, a concilio con i Franchi,

suoi compagni d’armi.

Negli inventari estensi sono menzionate tre serie di

arazzi che erano di proprietà del marchese di Ferrara

nel 1436. Due di esse trattavano di battaglie e, di queste,

una era dedicata alle imprese eroiche del padre di

Carlo Magno, Pipino il Breve. È possibile che tra queste

composizioni ci fosse anche una scena legata alle

vicissitudini di Orlando. Certo gli arazzi estensi di

soggetto guerresco dovevano somigliare a questa Battaglia

di Roncisvalle, con scene di scontri armati sovraffollate

e cruente, secondo la caratteristica iconografia

tardo-medievale.

Zofia Jackson

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5. Italia meridionale (?)

Olifante detto “Corno di Orlando”, circa XI secolo

Avorio, lunghezza cm 50, diametro cm 13

Tolosa, Musée Paul-Dupuy

Provenienza: Tolosa, Tesoro della basilica di San Saturnino;

Tolosa, Musée Paul-Dupuy.

Bibliografia: Tolosa 1989, p. 245, cat. 346; Roma 1994,

pp. 457-458, cat. 217; Caen 1995, p. 16, cat. 53; Shalem

2004; Shalem e Glaser 2014, I, pp. 264-270, II, pp.

70-71; Rosser-Owen 2015, pp. 15-58.

Gli olifanti erano corni d’avorio ricavati da zanne d’elefante,

capaci di produrre un suono potente. Benché

vi sia disaccordo tra gli studiosi, i dati circostanziali

e stilistici suggeriscono che tra la fine dell’XI secolo

e la fine del XII ne furono prodotti molti nell’Italia

meridionale. Il termine “olifante” deriva dall’antico

francese olifant (elefante) e appare per la prima

volta nel poema cavalleresco La Chanson de Roland,

le cui prime versioni scritte risalgono alla metà del

XII secolo. Il poema narra della battaglia di Roncisvalle

del 778, quando la retroguardia dell’esercito

dei Franchi cadde in un’imboscata tesa dai Saraceni

su un valico dei Pirenei. Orlando, ferito a morte, dà

fiato al suo olifante per richiamare Carlo Magno e il

suo soffio produce un suono così forte da spezzare

il corno. Egli usa il suo strumento come arma anche

negli ultimi istanti di vita, danneggiandolo ulteriormente

quando colpisce un soldato saraceno che cerca

di sottrargli la spada.

L’olifante divenne un simbolo del sacrificio di Orlando

e finì per rappresentare, in senso più generale, i trionfi

dei crociati.

Pur essendo stato fabbricato circa tre secoli dopo la

battaglia di Roncisvalle, l’olifante in mostra, a causa del

suo evidente danneggiamento, è per tradizione identificato

con quello di Orlando.

La sua decorazione si snoda su cinque fasce di incisioni

a bassorilievo, con due vani lisci per le cinghie

da trasporto: accanto ad animali reali – come leoni,

cani e uccelli – vi figurano bestie fantastiche come il

grifone, la sfinge e l’unicorno. Si riteneva che l’olifante

di Orlando fosse stato portato nella basilica di San

Severino a Bordeaux da Carlo Magno e posto sull’altare

come sacra reliquia. Questo olifante è documentato

nell’inventario del 1489 del Tesoro della basilica di

San Saturnino, a Tolosa, dove veniva esposto ai fedeli

durante la Settimana Santa.

Agli olifanti si attribuivano proprietà sacre, quasi magiche,

e nel tardo Medioevo i sovrani e gli ecclesiastici

ne facevano dono alle chiese; si dice che un olifante

pendesse sopra l’altare maggiore in San Pietro a Roma.

La rarità dell’avorio – materiale costoso –, le sue connotazioni

esotiche e il simbolismo suggerito dalle sue

caratteristiche (il colore bianco, la naturale luminosità,

la durezza, che lo rendeva difficile da intagliare, e la

durevolezza), insieme alla sua capacità di produrre un

suono potente, contribuirono ad aumentare il prestigio

e la mistica di questo oggetto. Non vi è dubbio che ad

esso si ispirò Ariosto quando introdusse nell’Orlando

furioso il corno magico di Astolfo.

Flora Dennis

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6. Maestro del Lancelot

Galaad viene in soccorso di Perceval

in Gautier Map, Lancelot du Lac, ultimo quarto del XIV secolo

Pergamena, [I] + 113 ff., mm 392 x 274

Parigi, Bibliothèque nationale de France, Fr. 343, ff. 25v-26r

Bibliografia: Toesca 1912 (ed. 1966), pp. 159-162; Pellegrin

1955, p. 274; Salmi 1955, pp. 873-874; R. Cipriani in

Milano 1958, p. 30, cat. 72; Quazza 1965; F. Avril in Parigi

1984, p. 98, cat. 84; Sutton 1991; Castelfranchi Vegas

1993; A. Quazza in Alessandria 1999; F. Moly in Bollati

2004, pp. 542-543; Avril e Gousset 2005, pp. 66-71, n. 30.

Il codice è una compilazione di tre frammenti arturiani,

la Quête du Graal, il Roman de Tristan e La Mort le roi

Artu. Il copista è identificato con Albertolus de Porcelis,

noto per avere sottoscritto nel 1383 un libro d’ore oggi a

Modena (Avril e Gousset 2005, p. 71).

«Quaterni quatuordecim in carta [pergamena] in gallico

historiati…»: così il Lancelot è descritto nel 1426

nella biblioteca viscontea di Pavia, in fascicoli protetti

da una coperta in cuoio. Vi figura ancora nel 1488 e la

nota apposta in fine del volume – Pavye au Roy Loys

XIIe – indica che ne uscì col bottino riunito dai Francesi

nel 1499 alla caduta del ducato (Pellegrin 1955, p. 274;

Albertini Ottolenghi 1991, p. 114).

L’illustrazione del codice non fu mai completata: delle

centoventidue miniature, alcune mostrano solo gli

strati preparatori di colore, altre il disegno a penna. Poiché

sono rimasti vuoti anche i due stemmi al foglio 1r

ignoriamo il nome del committente dell’impresa, che

potrebbe essere Bernabò Visconti. La sua morte nel 1385

fornirebbe allora causa e terminus ante quem dell’interruzione

del lavoro (Sutton 1991).

A partire da Toesca (1912, ed. 1966, pp. 159-162), il Lancelot

e i suoi vari miniatori sono riconosciuti come milanesi.

Benché desuma alla lettera gruppi di figure dal Guiron

(Quazza 1965 e in Alessandria 1999, p. 167), il codice

appartiene per stile ad un gruppo omogeneo più tardo,

ricostruito intorno al libro d’ore-messale di Bertrando

de’ Rossi, funzionario di Bernabò poi di Gian Galeazzo

Visconti (Parigi, BnF, lat. 757; già Salmi 1955, pp. 873-

874). Il gruppo segna l’affermazione dell’ouvraige de

Lombardie e del suo sfavillante linguaggio cortigiano,

nel quale il fascino per la miniatura gotica francese si

fonde a curiosità mondane e a interessi naturalistici che

fanno di questi codici testimonianze iconografiche preziosissime

di moda, interni e costumi contemporanei.

Nella scena esposta, le armi dipinte sugli scudi identificano

i cavalieri: croce rossa in campo bianco per Galaad,

trinciato d’oro e di rosso per Perceval. L’argento delle

armature, steso su una preparazione ocra, è rifinito con

l’inchiostro. Il terreno è segnato dalle orme degli zoccoli

ferrati, come già nel Guiron (Tav. 23).

Pier Luigi Mulas

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7. Lastra di sarcofago con amazzonomachia, 220-230 d.C.

Marmo bianco a grana media con venature grigie, cm 100 x 165 x 15

Brescia, Museo di Santa Giulia

Inv. MR10710

Provenienza: Brescia, basilica di San Salvatore, reimpiegato

capovolto nel pavimento (recupero 1998).

Bibliografia: Morandini 2000a; Morandini 2000b; Morandini

2007; Morandini 2014.

La lastra presenta un intricato rilievo nel quale, in uno

scontro, sette Amazzoni – alcune delle quali in groppa a

destrieri – affrontano sei guerrieri nudi. Le mitiche donne-guerriere,

di origine orientale, sono caratterizzate

dal berretto frigio, dal mantello, dal chitone che scopre

la spalla e il seno destro e da alti calzari con il bordo

risvoltato (embades).

La scena è definita nella parte superiore da un fregio

con ovoli e lancette e, in quella inferiore, da un listello

liscio, sul quale si appoggiano le figure; al di sotto di esso

è scolpita una gola rovescia coperta di foglie d’acanto e

una fila di dentelli capovolti.

Le figure che compongono il rilievo, drammaticamente

intricate e scandite su più piani a suggerire la profondità

del campo in cui si svolge la scena, sembrano avere

un punto focale e gerarchico nella coppia al centro della

lastra, costituita dal guerriero nudo che trattiene per i

capelli la donna inginocchiata ai suoi piedi, mentre con

il braccio destro sta per sferrare il colpo mortale.

Nel rilievo non è possibile identificare un episodio specifico

delle numerose battaglie sostenute dalle Amazzoni

e narrate dal mito; vi si potrebbe ravvisare l’uccisione

di Pentesilea da parte di Achille e l’innamoramento del

guerriero, o un momento della lotta alle pendici dell’acropoli

di Atene tra Amazzoni e ateniesi, quando le

guerriere si recarono ad Atene per liberare Antiope, loro

regina, rapita e sposata da Teseo; o, secondo un’altra versione

del mito, quando Antiope stessa si recò nella città

per vendicarsi di essere stata ripudiata dall’eroe ateniese

a favore di Fedra.

Del resto, scene di lotta simili a questa ricorrono su

numerosi esemplari di sarcofagi prodotti in Attica e,

molto probabilmente, questo schema iconografico, piuttosto

diffuso, può essere considerato uno dei tanti che,

partendo da archetipi scultorei famosi, venivano utilizzati

per scene di battaglia generiche. Queste andarono

a loro volta a costituire un modello per raffigurazioni

analoghe dall’età rinascimentale in poi.

Il tipo di marmo, il solco a trapano corrente che stacca le

figure dal piano di fondo, i calchi iconografici di alcune

di esse, con diverse declinazioni in altri esempi, inducono

a ritenere questo sarcofago un originale di produzione

attica databile tra il 220 e 230 d.C. circa.

Francesca Morandini

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8. Bertoldo di Giovanni

Scena di battaglia, c. 1480

Bronzo, cm 45 x 99

Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. 258 B

Provenienza: Firenze, Palazzo Medici nel 1492; Guardaroba

Medicea, almeno dal 1560; Galleria degli Uffizi, dal

1769; Museo Nazionale del Bargello dal 1873-79.

Bibliografia: Lisner 1980; Bober e Rubinstein 1986; Draper

1992.

L’entusiasmo degli artisti rinascimentali per i sarcofagi

antichi è ben testimoniato dal celebre episodio vasariano

riferito a Brunelleschi, che se ne sarebbe partito

«in zoccoli» da Firenze verso Cortona per ritrarne

uno «bellissimo» che gli era stato decantato dall’amico

Donatello (Vasari 1568, ed. 1971, III, p. 151, e ora F. Paolucci

in Firenze e Parigi 2013, pp. 312-313, cat. III.13). Per

realizzare il suo rilievo in bronzo Bertoldo di Giovanni,

creato di Donato, prese invece spunto da un’altra cassa

marmorea antica, conservata nel Camposanto di Pisa e

anch’essa esistente ancor oggi, che mostra una battaglia

tra soldati romani e guerrieri barbari, a piedi e a cavallo

(inv. n. C 21 est: Arias, Cristiani e Gabba 1977, pp. 151-

152): furono certamente i vistosi danni subiti dall’originale,

forse in epoca medievale, a sollecitare la creatività

dello scultore, che li reintegrò trasformando la generica

scena di combattimento in un’esemplare «storia… di più

cavagli e gnudi», soggetto in gran voga nella Firenze

dell’ultimo trentennio di Quattrocento, che avrebbe

molto impressionato anche il giovane Michelangelo

(Draper 1992, poi M. Collareta in Firenze 1987, pp. 25-27,

cat. 5, e M. Hirst in Firenze 1992b, pp. 52-62, cat. 12).

Bertoldo mantenne la strutturazione con file sovrapposte

di cavalieri tra vittorie alate del rilievo di fine II

secolo d.C., anche se ne dimezzò le misure, per fare del

proprio bronzo – come all’epoca usava – un elemento

d’arredo: eseguito attorno al 1480 per Lorenzo il Magnifico,

nel 1492 figurava infatti nell’appartamento di questi

nel palazzo di famiglia in via Larga ad ornamento di un

camino (ciò spiega l’aumento dell’aggetto delle figure

dei registri superiori, funzionale ad una visione dal

basso). Sostituendo le spade e le lance del prototipo con

primitive clave, l’artista trasferì la scena in una dimensione

atemporale; ridusse inoltre l’abbigliamento delle

figure a sottilissimi panni (quando non l’eliminò tout

court): valorizzando le anatomie, attenuò le distinzioni

individuali tra i combattenti, dando vita ad una superficie

animata da un ininterrotto guizzare di muscoli, indifferentemente

umani e animali, ottenendo effetti plastici

all’antica più che nello stesso modello di partenza.

L’azione ad ogni modo s’impernia al centro: là dove in

origine nel sarcofago aveva trovato spazio l’imperator

vittorioso, un possente cavaliere, barbato e col capo

coperto da un peculiare elmo a doppia ala, carica un

gruppo di avversari. Come ben vide Margrit Lisner,

si tratta di Ercole, mitico protettore dell’ordine civile

contro la tirannia e in quanto tale oggetto, nella Firenze

repubblicana, di una sorta di culto laico di cui i Medici,

com’è noto, si appropriarono prontamente; qui tuttavia

l’eroe è rappresentato a cavallo secondo un’iconografia

di sapore ancora cortese, inconsueta sull’Arno ma frequentata

in ambito estense, in particolare in un famoso

ciclo di arazzi nel castello di Ferrara (Lisner 1980;

Hessert 1991 passim; Caglioti 2000, I, p. 261, e inoltre

Syson 2004 e Campbell 2004): nella produzione di Bertoldo

il singolare soggetto ritorna in un bel bronzetto

oggi nella Galleria Estense di Modena, in origine probabilmente

montato su un basamento cui erano associate

due figure «d’uomini selvatici» reggenti scudi (conservate

una a Vaduz e l’altra a New York: J.D. Draper in

Firenze 1986, pp. 261-262, cat. 109).

Maria Beltramini

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9. Antonio del Pollaiolo

Battaglia di dieci nudi, c. 1465

Incisione su rame, secondo stato, mm 395 x 586, 404 x 607

Firenze, Biblioteca Marucelliana, Stampe vol. I, n. 13

Provenienza: Firenze, Biblioteca Marucelliana.

Bibliografia: Vasari 1550 e 1568 (ed. 1966-87), III, pp.

506-507; Anonimo Magliabechiano ed. 1892, p. 81;

Berenson 1896, pp. 54-55; Cleveland 2002; Landau 2003;

Galli 2005, pp. 18-19, 88; Wright 2005, pp. 152, 170, 176-

181, 506-507 n. 4; G. Marini in Padova 2006, pp. 270-272,

n. 6; Olszewski 2009; P. Refice in Arezzo 2011, pp. 356-

357; Galli 2014-15, pp. 34, 47, 56-58; G. Donati in Milano

2014-15, pp. 178-181, cat. 9 (con bibliografia precedente).

La cosiddetta Battaglia di dieci nudi rappresenta uno dei

capolavori dell’incisione italiana del Quattrocento (e non

solo), tanto da far apparire quasi ovvio che, nella tabula

ansata sulla sinistra, compaia la firma «OPVS / ANTONII

POLLA / IOLI FLORENT / TINI», riconosciuta da tempo

quale la più antica apposta a definire la proprietà intellettuale

e materiale di una stampa. La presenza di una simile

sottoscrizione testimonia dunque di per sé che agli occhi

dell’artista e dei contemporanei la Battaglia di dieci nudi

assumeva il carattere quasi di un manifesto dimostrativo

delle potenzialità tecniche e delle risorse espressive del

maestro, fin nella scelta di rappresentare una lotta senza

quartiere di dieci personaggi ignudi, variamente armati

e non meglio caratterizzati nell’iconografia. Peraltro,

la difficoltà di riconoscere il vero soggetto della Battaglia,

malgrado i tentativi anche recenti (ultimo quello di

Olszewski 2009), non ne ha affatto impedito l’apprezzamento:

già l’Anonimo Magliabechiano (ed. 1892) la

ricordava tout court come «una forma di rame di gnudi di

diverse attitudini e mirabili», mentre poco dopo Giorgio

Vasari (1550 e 1568, ed. 1966-87), osservando che il Pollaiolo

«s’intese degli ignudi più modernamente che fatto

non avevano gli altri maestri inanzi a lui», e che anzi «fu

primo a mostrare il modo di cercare i muscoli, che avessero

forma e ordine nelle figure», passava senza soluzione

di continuità a segnalare – non troppo precisamente –

come «di quegli [ignudi], tutti cinti d’una catena, intagliò

in rame una battaglia». Dunque era stata individuata in

nuce già nel Cinquecento quella combinazione di competenza

anatomica e dinamico vitalismo che diventerà

la sigla della comprensione dell’arte pollaiolesca, proprio

tramite la magistrale lettura della Battaglia fornita da

Bernard Berenson (1896). Quanto più conta, tuttavia, è

che nella sua presentazione esemplare di una gamma di

corpi in azione la stampa poteva evidentemente riuscire

autosufficiente anche ad un pubblico quattrocentesco,

non ancora avvezzo a simili tour de force. Il successo

dell’impresa è assicurato anche dall’esistenza di due copie

xilografiche ancora quattrocentesche, l’una firmata da tal

«Johannes de Francfordia» e l’altra siglata dal fiorentino

Lucantonio degli Uberti (si veda da ultimo S.R. Langdale

in Cleveland 2002, p. 53).

La datazione della Battaglia è ancora discussa, tanto

più legata com’è a doppio filo alla vexata quaestio della

priorità del Pollaiolo o del Mantegna nelle soluzioni

tecniche dell’incisione su rame; ci sono tuttavia buone

ragioni per credere che si tratti di un’opera realizzata

ancora nel settimo decennio del secolo (da ultimo Galli

2014-15). Sappiamo infatti che era appartenuto al pittore

padovano Francesco Squarcione, morto nel 1468,

un «cartonum cum quibusdam nudis Poleyoli» (Lazzarini

e Moschetti 1908, pp. 110-111, 295-296). Anche se

non pare, come è stato proposto, che un pezzo definito

«cartonum» possa identificarsi con la nostra incisione,

rimane invece aperta la possibilità che circolasse un

grande disegno pollaiolesco, verosimilmente il medesimo

da una porzione del quale un anonimo padovano

ricavò la stampa designata – nel suo secondo e ultimo

stato – quale Battaglia di Ercole coi dodici giganti (sulla

quale si veda da ultimo G. Marini in Padova 2006, p. 276,

cat. 62). Come ha dimostrato Lilian Armstrong (2003),

la Gigantomachia – ovvero il disegno alla sua base –

era già nota e sfruttata in Veneto entro il 1470, e sembra

convincente, sul piano stilistico, che tale datazione spinga

verso una cronologia all’incirca coeva anche la nostra Battaglia.

È facile immaginare, in sostanza, che Pollaiolo si

avvicinasse all’incisione proprio in conseguenza di una

prima e dirompente propagazione delle sue idee grafiche,

con l’intento di sfruttare il nuovo medium in risposta ad

una vasta domanda di adattabili invenzioni all’antica.

Gabriele Donati

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10. Ercole de’ Roberti

Scena di battaglia, c. 1490

Matita nera, penna, pennello e inchiostro nero su pergamena, mm 195 x 290

Venezia, Museo Correr

Inv. 21

Provenienza: Venezia, acquistato da Teodoro Correr

(1750-1830); Venezia, Museo Correr.

Bibliografia: Longhi 1934 (ed. 1956), p. 104, n. 89; Salmi

1960, p. 24; Ruhmer 1963, p. 620; T. Pignatti e G. Romanelli

in New York 1985, p. 49, cat. 1; Manca 1992, pp. 141-

142, n. 20; Molteni 1995, pp. 223-224, n. 97 (con bibliografia

precedente).

La concitata scena di battaglia è attribuita ad Ercole

de’ Roberti dalla maggior parte della critica (New York,

1985, p. 89; Manca 1992, pp. 141-142), ad eccezione di

Longhi (1934, ed. 1956, p. 104) e Molteni (1995, pp. 223-

224) che ritengono il disegno non autografo ma opera di

uno suo stretto seguace, che utilizza e rielabora motivi

desunti dalle opere più tarde del maestro. Per spiegare

l’intenso movimento dell’affastellata composizione

dal gusto archeologizzante sono state di volta in volta

richiamate suggestioni mantegnesche (Ruhmer 1963, p.

620), il ricordo delle composizioni affollate del Pollaiolo

(Salmi 1960, p. 24), influssi delle stampe nordiche e di

Schongauer. Il foglio del Correr, tuttavia, sembra spiegarsi

soprattutto con la riflessione del pittore, negli anni

della maturità, sul movimento e, nello stesso tempo,

sulla «necessità di comunicare direttamente coi sentimenti»,

raggiungendo risultati «da non trovare, ai quei

tempi, altro paragone di valore che in Leonardo» (Longhi

1934, ed. 1956, p. 45). La Battaglia presenta numerose

analogie, in particolare, con le predelle con le scene della

Passione di Cristo della Gemäldegalerie di Dresda e con

l’intreccio di cavalieri e cavalli dell’Abramo e Melchisedec,

conservato in origine nelle collezioni estensi, di cui

esisteva in collezione privata una copia antica (Manca

1992, p. 142). L’intensità dei volti dei soldati che si trasmette

ai musi come umanizzati dei cavalli, il viluppo

inestricabile di corpi in piedi o riversi a terra, di zampe

sollevate, di scudi, elmi e vessilli al vento di queste composizioni

di Ercole de’ Roberti appartengono a quel

mondo figurativo quattrocentesco di cui «l’Ariosto si

era certo nutrito» (Gnudi 1994, p. 15) e che sembra suggestionare

il poeta, ancora, in diversi passi del Furioso,

laddove, per esempio, nella battaglia di Parigi Rinaldo

«urta, apre, ruina e mette in volta» la schiera dei nemici

(XVIII, 40, 6), e «Con fanti in mezzo e cavallieri allato, /

re Carlo spinse il suo popul gagliardo», tra «rumor di

timpani e di trombe» (XVIII, 41, 5-8).

Marialucia Menegatti

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11. Leonardo da Vinci

Una battaglia fantastica con cavalli e elefanti, c. 1515-18

Pietra nera, pietra rossa, preparazione in polvere di pietra rossa su carta, mm 148 x 206

Windsor, The Royal Collection / Sua Maestà la Regina Elisabetta II

Inv. RCIN 912332

Provenienza: Pompeo Leoni, c. 1582-90; Thomas Howard,

conte di Arundel, ante 1630; Royal Collection, ante 1690.

Bibliografia: Müntz 1899, p. 532; Seidlitz 1911, p. 273, n. 74;

Venturi 1920, pp. 130-131; Popp 1928, pp. 11-12, 52; Sirén

1928, III, tav. 166; Suida 1930, pp. 145-146; Lessing 1934;

Möller 1934, pp. 89-90; Clark 1935, pp. 25-26; Berenson

1938, n. 1230; Popham 1945, pp. 64-65; Clark 1968, p.

30; Clark 1969, pp. 15-17; Clark in Londra 1969-70, p. 32;

Washington, Houston e San Francisco 1985-86, pp. 71-72,

cat. 46; Pedretti 1987, p. 117; M. Kemp in Londra 2006,

p. 156, cat IV.17; Vecce 2012, 29; Borgo 2015, pp. 231-233;

Brown 2015, p. 162.

In questa veduta di un campo di battaglia uno sciame di

corpi combatte con furia lungo il margine inferiore del

foglio, mescolandosi in una mischia in cui si distinguono

a fatica cavalieri e fanti armati di lunghe aste. La zuffa è

sovrastata dalla massa di sei enormi animali, uno dei quali

porta sul dorso una lettiga carica di soldati e lunghi stendardi

a fiamma che sventolano nella corsa; subito a destra

si intravede una figura che brandisce un’ascia, disegnata

in scala più grande (un tratto a pietra nera ne segnala il

retro del capo). L’avanzare verso sinistra è frenato dall’esplosione

di due bombarde, appena leggibili sullo sfondo

rosso, che mandano i pachidermi gambe all’aria con contorsioni

quasi feline.

La nube di polvere che invade la scena è suggerita dalle

morbide volute che si alzano dal gruppo principale, ed

evocata dalla terra rossa diluita di cui è ricoperto il foglio.

La qualità sfuggente ed elusiva del disegno non è accidentale,

ed è anzi rafforzata dalla tecnica scelta, che riduce il

contrasto tra fondo e figure, così che le forme sembrano

affondare in una spessa caligine. Leonardo torna a definire

alcuni dettagli con una maggiore pressione della

mano, forse inumidendo la punta della pietra rossa, e

infine con pochi brevi tratti di pietra nera.

Il disegno è stato interpretato in vario modo: come uno

studio preparatorio per la Battaglia di Anghiari (Sirén

1928, Suida 1930, Venturi 1920), un combattimento di animali

fantastici (Popp 1928, Berenson 1938), uno scontro

tra l’esercito romano e Pirro (Müntz 1899, Seidlitz 1911),

una caccia di elefanti selvatici (Möller 1934), una battaglia

con elefanti (Popham 1945, Clark 1935, Kemp in Londra

2006, Brown 2015) e un gigante (Pedretti 1987), una zuffa

di uomini e cavalli rappresentati con variazioni di scala

(Lessing 1934, Clark 1969). L’indeterminatezza del soggetto

si è prestata a farne un’allegoria della guerra come

«pazzia bestialissima» (Libro di pittura, § 177), ed è con

questo titolo che ci si riferisce talvolta al disegno, l’unico

di Leonardo tuttora conservato che mostri un campo di

battaglia nella sua interezza, anziché concentrarsi sui singoli

accidenti dell’azione, come negli schizzi per la Battaglia

di Anghiari.

Leonardo possedeva alcuni testi storici e cavallereschi

che avrebbero potuto evocare una scena simile a questa: il

Guerrin Meschino, ad esempio, descrive elefanti messi in

fuga dal fuoco (II, 28-29), mentre il Ciriffo Calvaneo racconta

di uno scontro tra giganti ed elefanti (VI, 20, 3-8).

Nel suo Livio volgarizzato avrebbe poi potuto leggere di

battaglie tra Romani e Cartaginesi in cui elefanti spaventati

travolgono la cavalleria numida; dei danni spesso causati

dagli animali impauriti parla anche Plinio (VIII, 1-10).

Altri testi di arte militare della biblioteca di Leonardo

descrivono l’uso di elefanti in guerra: Valturio (De re militari,

X) nomina lo «scalpro», un ferro usato per ferire gli

animali, che riappare anche tra gli appunti dell’artista

(ms. B, f. 9r), mentre Cornazzano (Dell’arte militare, III,

2) specifica che i tanto temuti elefanti di Pirro sarebbero

bersagli troppo facili per le artiglierie moderne. Nel

marzo del 1516, a Roma, Leonardo aveva poi sicuramente

assistito ai festeggiamenti in onore di Giuliano de’ Medici,

e aveva quindi potuto vedere Hanno, l’elefante donato a

Leone X, imbizzarrirsi e far cadere il palanchino carico

di uomini armati fissato al suo dorso: un incidente che le

cronache contemporanee interpretano come presagio di

cattiva sorte (Bedini 1997, pp. 108-109).

A dispetto di queste possibili letture, non si può ignorare

la natura esplicitamente immaginativa del foglio,

che intrattiene una relazione non normativa con fonti e

modelli, qui liberamente rielaborati. La componente fantastica

è rafforzata dal contrasto di scala tra il brulicare

delle schiere del margine inferiore e il gigantismo delle

figure della parte superiore, indistinte nella nebbia. Leonardo

potrebbe essere partito, al centro del foglio, da uno

studio di cavalli in movimento (si veda il contemporaneo

RL 12331), e poi, con l’aggiunta della torma di guerrieri

lillipuziani, il soggetto sarebbe diventato altro, secondo

un procedimento di riconfigurazione iconografica che di

certo non gli era estraneo (Nagel 2014). Nel denso garbuglio

di linee del groppo di elefanti, ad esempio, sembra

continuamente di poter scorgere delle proboscidi: ma il

disegno disattende puntualmente l’aspettativa dell’occhio,

impegnato nella vana ricerca di segni che indichino univocamente

la natura degli animali. L’identità delle figure

è instabile: avvolti nella nebbia e nel garbuglio di linee,

un cavallo può diventare un elefante, un soldato si trasforma

in un gigante, gli stendardi si dissolvono in volute

di fumo. Leonardo non giunge a determinare un soggetto

preciso, uno scontro chiaramente identificabile: la battaglia,

sospesa nella nebbia, è trattenuta in una fase preiconografica,

di libero dominio della fantasia; i soldati possono

essere arruolati per interpretare personaggi diversi:

romani in battaglia contro Pirro o Annibale, cacciatori di

elefanti, allegorie dell’insensata brutalità della guerra.

Francesca Borgo

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12. Grande elmo con cimiero, metà del XIV secolo

Ferro e cuoio, dorato e argentato, cm 73 x 24,5 x 29

Vienna, Kunsthistorisches Museum, Rüstkammer

Inv. B 74

Provenienza: Abbazia di Seckau, diocesi di Graz; trasferito

all’Armeria imperiale di Vienna nel 1878.

Bibliografia: Thomas e Gamber 1976, I, pp. 37-38.

Il grande elmo della famiglia Von Prankh, che oggi fa

parte della collezione di armi del Kunsthistorisches

Museum di Vienna, risulta essere il più antico ad aver

conservato il proprio cimiero. Esso fu affidato, a titolo di

deposito funerario, all’Abbazia di Seckau, in Stiria, dove

erano inumati due bambini della famiglia Von Prankh,

stirpe aristocratica austriaca originaria della regione.

L’elmo fu creato per essere usato nelle giostre e per

questa ragione la parte che proteggeva il lato sinistro

del volto è particolarmente rinforzata. È sormontato

da un cimiero che riprende lo stemma dei Von Prankh,

a forma di grandi corna di bufalo con l’aggiunta di un

largo bordo frastagliato. Ornamenti spettacolari di questo

genere, inutilizzabili in battaglia, si potevano rimuovere

ed erano fatti con materiali leggeri; in questo caso

cuoio sagomato, dorato e argentato. All’inizio del XVI

secolo cimieri di questo tipo non erano più in uso in

Italia, mentre in area germanica continuavano a essere

assai popolari, soprattutto per la Gestech, un tipo di “giostra

di pace” che prevedeva ancora l’utilizzo del pesante

e soffocante grande elmo. Nelle decorazioni araldiche,

invece, erano ancora diffusi e spesso coronavano le insegne

nobiliari nelle loro diverse raffigurazioni. In particolare

ornavano le riproduzioni di elmi collocate sulle

tombe degli aristocratici ed erano tra gli accessori dei

rituali di sepoltura.

Olivier Renaudeau

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13. Artista dell’Italia settentrionale (Friuli o Tirolo)

Sella da parata con le armi di Ercole I d’Este, dopo il 1474

Legno, osso e cuoio, cm 45 x 58 x 44

Modena, Galleria Estense. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. 2461

Provenienza: Ferrara, collezioni Estensi, post 1474;

Modena, Palazzo Ducale, 1598-prima metà del Seicento;

Modena, Palazzo dei Musei, 1894.

Bibliografia: Ferrari Moreni 1867; Venturi 1882, pp.

47-52; Londra 1984 (ed. 1985), pp. 138-139; Bernardini

2006, pp. 87-88; D. Gasparotto in Casciu 2015, pp. 82-84.

La sella da parata di Ercole I, recante lo stemma del duca

e il motto «Deus fortitudo mea» (rispettivamente collocati

sulla guardia dell’arcione anteriore e sui cartigli di

quello posteriore), è un’importante testimonianza della

presenza dei temi amoroso-guerreschi, e quindi cavallereschi,

presso gli Este anche precedentemente al ducato

di Alfonso I. Giovanni Francesco Ferrari Moreni, nel trattare

(1867) questo notevole manufatto realizzato da un

ignoto artista del Friuli o del Tirolo, ravvisava una continuità

tra le storie intagliate negli elementi d’osso che rivestono

i lati dei due arcioni della sella e i celebri versi che

aprono l’Orlando furioso: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli

amori / le cortesie, l’audaci imprese io canto». Gli episodi

amorosi sono raffigurati sulla parte anteriore: Innamoramento,

Innamoramento corrisposto, Colloquio e Abbraccio;

quelli guerreschi sulla posteriore: Ercole che uccide il

leone, sotto al quale è raffigurato il soggetto venatorio del

falconiere, e San Giorgio che uccide il drago, sotto al quale

è raffigurata una donna che tiene in mano una rosa, forse

allusione a Rovigo (Rhodigium dal greco rhodon, “rosa”),

città insidiata dalla Repubblica di Venezia (che la conquistò

nel 1482). A Rovigo Ariosto dedicò questi versi del

poema: «il cui produr di rose / le diè piacevol nome in greche

voci» (III, 41, 1-2; si veda Ferrari Moreni 1867, pp. 4-5).

Da alcuni passi dell’Orlando si può ricavare come una

sella decorata e preziosa fosse espressione della dignità

del cavaliere, la cui eleganza si accordava con la bellezza e

la fedeltà della donna (qualità che, occorre rilevare, Ariosto

non ritrae secondo le convenzioni cortesi): «Il cavallier

[Pinabello] su ben guernita sella, / di lucide arme e di

bei panni ornato, / verso il fiume venía, da una donzella /

e da un solo scudiero accompagnato. / La donna ch’avea

seco era assai bella, / ma d’altiero sembiante e poco grato, /

tutta d’orgoglio e di fastidio piena, / del cavallier ben

degna che la mena» (XX, 110). In un altro canto Bradamante

prepara assieme ad alcune donne i decori per la

sella di Frontino, il cavallo di Ruggiero: «Ogni sua donna

tosto, ogni donzella / pon seco in opra, e con suttil lavoro /

fa sopra seta candida e morella / tesser ricamo di finissimo

oro; / e di quel cuopre ed orna briglia e sella / del

buon destrier» (XXIII, 28).

Paolo Parmiggiani

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14. Olivier de la Marche

Le Chevalier délibéré

[Gouda, “tipografo del Chevalier délibéré” (Collaciebroeders?),

dopo il 31 ottobre 1489]. 2°

Bibliothèque Jean Bonna

Bibliografia: Picot e Stein 1923, pp. 324-328; Arnim

1984, II, pp. 431-438, n. 205; Norimberga 1987, n. 37;

Speakman Sutch 2004; Le Chevalier... 2006, pp. 29-35;

Parigi 2015a, pp. 20-24, cat. 3.

Esemplare unico di questa edizione (ILC 1403) del

poema allegorico di Olivier de la Marche, illustrato da

legni di una qualità straordinaria che ne fanno uno dei

più insigni monumenti della storia della silografia.

Gli stessi legni furono reimpiegati a Schiedam dallo

“stampatore della Vita Lydwinae” (Otgier Nachtegael?)

in un’edizione del poema databile 1498-1505 (ILC

1404), di cui si conoscono tre esemplari, oltre che in

una stampa del 1503 della traduzione di Jan Pertcheval.

Nel 1973 Lotte e Wytze Hellinga hanno ritenuto

di poter provare, grazie a un argomento di critica

testuale, che la successione delle stampe di Gouda e

Schiedam andasse invertita (Bruxelles 1973, p. 518). Nel

suo recente repertorio delle silografie contenute negli

incunaboli olandesi, Ina Kok si conforma a quest’avviso

(Kok 2013, I, pp. 625, 631). Di fatto l’argomento testuale

addotto dai coniugi Hellinga non è probante, mentre

l’usura dei legni nell’edizione di Schiedam dimostra

irrefragabilmente che questa è successiva alla stampa

di Gouda (Speakman Sutch 2004, p. 137 in nota).

L’esemplare fu colorato a mano conformemente alle

istruzioni dell’autore quali ci sono trasmesse nel manoscritto

fr. 1606 della Bibliothèque nationale de France

(edite da Picot e Stein 1923, pp. 313-319).

Adolfo Tura

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15. Niccolò Silva

Armatura da giostra e da battaglia, c. 1510-15

Ferro forgiato, inciso e dorato, cm 188 x 59 x 50

Parigi, Musée de l’Armée

Inv. G 7

Provenienza: Parigi, antica collezione del Musée

d’Artillerie.

Bibliografia: Boccia e Coelho 1967, pp. 232-236; Pyhrr

1983, pp. 111-121.

Questo pezzo fa parte di una “piccola guarnitura”,

insieme composto da un’armatura da combattimento,

un equipaggiamento da giostra e vari elementi supplementari

che consentivano l’adattamento a diversi tipi

di torneo. È stato concepito per l’uso in battaglia, ma

gli spallacci – deputati alla protezione della parte alta

del braccio –, il lato sinistro della gorgiera e l’elmo, rinforzato

nella parte anteriore e in corrispondenza della

visiera con elementi di notevole spessore, sono piuttosto

destinati all’esercizio sportivo.

Splendidamente forgiata in un metallo accuratamente

polito, questa armatura è decorata con motivi incisi e

dorati che ne sottolineano le bordure, mentre una vivida

scena di battaglia si dipana sulla guardastanca, la parte

rialzata dello spallaccio sinistro che doveva deviare i

colpi di lancia mirati alla gola del combattente. A questa

decorazione guerresca si accosta un’invocazione alla

Vergine, «o mater dei memento mei», ripetuta anche sul

piastrone dello spallaccio.

Il marchio a forma di compasso e le iniziali incise in

due diversi punti permettono di attribuire questa bella

armatura a Niccolò Silva, armiere milanese citato negli

archivi della città lombarda tra il 1511 e il 1549, del quale

si conoscono quattro armature firmate (oltre a quella

esposta in questa mostra, una destinata al combattimento

a piedi e un’altra probabilmente appartenuta al

sovrano portoghese Manuele I detto il Fortunato), tutte

conservate al Musée de l’Armée.

Questo pezzo di Niccolò Silva è rappresentativo dell’eccellenza

raggiunta dagli armieri milanesi all’epoca in cui

Ariosto componeva l’Orlando furioso; la sobrietà delle loro

realizzazioni magistralmente forgiate contrasta con gli

equipaggiamenti cosparsi di raggi di carbonchio e carichi

di ornamenti ed emblemi di cui il poeta dota i suoi eroi.

Olivier Renaudeau

62 63



LO

SPECCHIO

DELLA

CORTE



16. Antonio di Puccio Pisano detto Pisanello

Ritratto di Leonello d’Este, 1441

Tempera su tavola, cm 28 x 19

Iscrizione sul retro della tavola: C·G·B C

Bergamo, Fondazione Accademia Carrara

Inv. 919

Provenienza: Ferrara, collezioni estensi, dal 1441; (?)

Ferrara, Ludovico Carbone, 1460; Ferrara, collezione

Costabili, 1835; Londra, collezione Alexander Barker,

1871; Bergamo, collezione Giovanni Morelli; Bergamo,

Accademia Carrara, dal 1891, con il legato Morelli (Mattaliano

1998, p. 122, n. 406).

Bibliografia: Baxandall 1963, pp. 314-315; C. Badini in

Milano 1991, Catalogo, pp. 162-165, cat. 38; Rosenberg

1991, p. 46, n. 36; Franceschini 1993, p. 209, docc. 461t,

461v; Cordellier 1995, pp. 96-97, doc. 38, pp. 170-171, doc.

78; F. Rossi in Verona 1996, pp. 388-391, cat. 88; L. Syson

e D. Gordon in Londra 2001, pp. 87-93; C. Cavalca in Ferrara

2004a, pp. 252-253, cat. 45; Valagussa 2008; Farinella

2016, pp. 42-43.

Questo dipinto fu eseguito in occasione di una gara tra

Pisanello e Jacopo Bellini, chiamati a realizzare un ritratto

di Leonello d’Este, signore di Ferrara dal dicembre 1441 al

1450 (F. Rossi in Verona 1996, pp. 388-391; L. Syson e D.

Gordon in Londra 2001; C. Cavalca in Ferrara 2004a, pp.

252-253). Il Pro insigni certamine di Ulisse degli Aleotti

racconta che Pisanello, occupato per sei mesi a «cuntender

cum natura» e a «convertir l’immagine in pictura»,

fu sconfitto da Bellini cui Nicolò, padre di Leonello e

arbitro della gara, assegnò il primo premio (Cordellier

1995, pp. 96-97, doc. 38). I versi di Aleotti e i pagamenti

erogati dalla contabilità estense per ricondurre, rispettivamente,

Pisanello a Mantova e Bellini a Venezia il 15

e il 26 agosto 1441 (Franceschini 1993, p. 209, docc. 461t,

461v), permettono dunque di datare la tavoletta entro la

prima metà dell’anno. I due ritratti erano ancora a corte

quando, intorno al 1450, Angelo Decembrio compose il

dialogo De politia litteraria in cui Leonello sentenzia che

Pisanello e Bellini avevano «discordato» nel rappresentare

il suo volto, il primo aggiungendo «alla bianchezza

della mia carnagione una magrezza più intensa, l’altro mi

ha raffigurato più pallido ma non più esile» (Baxandall

1963, pp. 314-315; trad. dal latino in Milano 1991, Catalogo,

p. 165). Il dipinto di Bellini risulta oggi disperso; la

storia del Ritratto bergamasco fino alla sua apparizione

nella galleria Costabili è piuttosto oscura, ma è probabile

un suo passaggio nello studiolo dell’umanista Ludovico

Carbone che nell’Oratio pro nepote Galeotti Assassini, del

1460 circa, sostiene di possedere un’immagine di Leonello

dipinta da Pisanello tanto simile al vero da suscitare

commozione (Cordellier 1995, pp. 170-171, doc. 78).

La tavoletta ritrae il marchese a mezzo busto, di profilo,

a imitazione dei ritratti classici, “all’antica”. Il restauro,

che ha individuato la cresta originaria della pittura lungo

il perimetro del dipinto, ne ha recuperato la raffinatissima

gamma cromatica (Valagussa 2008), dallo sfondo

blu scuro del cielo al roseto registrato con la precisione

di un botanico, dal farsetto finemente ricamato su cui

spiccano i bottoni argentati al niveo volto indagato con

assoluta precisione. L’elaborata acconciatura, resa con

cura lenticolare, ha probabilmente il duplice scopo di

sottolineare la nobiltà di Leonello (Manca 1991, p. 53,

suggerisce che il biondo dei capelli, forse artificiale, vada

inteso come un «mark of nobility») e il suo valore di condottiero,

dal momento che il taglio “a cappelliera”, folto

e all’indietro, era spesso usato dagli uomini d’arme per

ammortizzare i movimenti degli elmi (Rossi in Verona

1996, p. 390). Pisanello restituisce un’immagine del marchese

aderente al vero e nel contempo carica di valori

simbolici, quasi una legittimazione visiva del potere e

del diritto alla successione di Leonello, figlio naturale

di Nicolò, preferito ai figli legittimi. Cavaliere, erudito e

mecenate illuminato, Leonello fu salutato dagli umanisti

di corte come colui che aveva fatto di Ferrara la dimora

delle Muse, «foecunda» di principi giusti e di cittadini

dotati di eloquenza, unica a godere delle pace mentre

altrove regna Marte, dio della guerra (J. Pannonius in

Rosenberg 1991, p. 46, n. 36). Nel Furioso, celebrando la

stirpe estense, Ariosto riconoscerà in Borso, primo duca

di Ferrara, l’ideale compimento della politica pacificatrice

di Leonello: «Vedi Leonello, e vedi il primo duce, /

fama de la sua età, l’inclito Borso, / che siede in pace,

e più trionfo adduce / di quanti in altrui terre abbino

corso. / Chiuderà Marte ove non veggia luce, / e stringerà

al Furor le mani al dorso» (III, 45, 1-6; sull’ottava,

forse allusiva statua bronzea di Borso realizzata da Niccolò

Baroncelli, si veda Farinella 2016, pp. 42-43).

Marialucia Menegatti

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17. Isabella d’Este

Lettera a Ippolito d’Este, Mantova, 3 febbraio 1507

Modena, Archivio di Stato

Inv. Letterati, Ariosto, b.3

Bibliografia: Mosti 1892, p. 171; Luzio e Renier 1900, pp.

228-230, 244-245; Catalano 1930-31, II, pp. 78-79; Güntert

1982, pp. 445-454; Bologna 1993, II, p. 11; Kolsky

1994, pp. 45-69; Calitti 2007, pp. 709-712; Dorigatti 2011,

pp. 6-7.

Prima notizia dell’elaborazione dell’opera, la lettera

della marchesa di Mantova al fratello segna la «data di

nascita ufficiale dell’Orlando furioso» (Dorigatti 2011, p.

6). Isabella ringrazia Ippolito di averle inviato Ariosto

per felicitarsi con lei della nascita del figlio Ferrante.

Ariosto conosce senz’altro Isabella, di cui è coetaneo, dai

tempi della comune giovinezza ferrarese, e le si presenta

quindi come messo di Ippolito ma anche come amico e

soprattutto come poeta. La lettera reca infatti il segno

dell’intervento della marchesa che, al di là delle formule

protocollari di ringraziamento, precisa di aver gradito

la scelta dell’ambasciatore «per che, ultra che ’l me sia

stato acetto, representando la persona di la S. V. R.ma,

luy anche per conto suo mi ha adduta gran satisfactione

havendomi, cum la naratione de l’opera che ’l compone,

facto passar questi dui giorni non solum senza fastidio,

ma cum piacer grandissimo».

Nessun dubbio che l’opera in questione sia il Furioso,

ma nessuna certezza sullo stato della redazione. Il termine

«naratione» potrebbe indicare sia la declamazione

di ottave stese per iscritto, sia il racconto di un progetto

narrativo. La prima ipotesi è più probabile e, insieme ad

altri elementi, attesta che esisteva una fruizione orale

del poema, almeno nella sua fase embrionale, come

indica anche, a Ferrara, la coeva testimonianza di Agostino

Mosti.

Andrebbe anche chiarito quale fosse la natura dei «rasonamenti»

cui Isabella accenna lodando il fratello «ché in

questa, come in tutte le altre actione sue ha havuto buon

judicio ad elegere la persona in lo caso mio. De gli rasonamenti

che ultra la visitacione havemo facti insieme, m.

Ludovico renderà cunto alla S. V. R.ma».

Può trattarsi di affari di Stato o personali tra i due fratelli;

ma non va escluso che il termine indichi un dialogo

intorno all’opera con cui Ariosto ha rallegrato Isabella

per due giorni. Sono note la passione della marchesa

per i romanzi cavallereschi, la sua promozione di traduzioni,

le sue insistite attenzioni per l’Inamoramento de

Orlando. Ma non è necessario immaginare che Ariosto

abbia chiesto a Isabella una qualche consulenza poetica.

È possibile che i «rasonamenti», se davvero riguardarono

il Furioso, abbiano toccato questioni genealogiche,

gli elogi degli Este (ipotesi che potrebbe corroborare il

fatto che il poeta avrebbe riferito a Ippolito i dettagli del

colloquio) o le lodi, notevolissime nel poema, di Isabella.

Dorigatti (2011, pp. 6-7) ipotizza che Ariosto abbia

potuto già leggere alla marchesa la profezia di Melissa

(AB XI, 59-61; C XIII). Altri due elogi di Isabella compaiono

poi in AB XXXVIII, 81-82 (C XLII, 84-85) e in AB

XXXVII, 67 (C XLI, 67); ma l’acme della celebrazione

isabelliana sono la vicenda di Zerbino e Isabella (che

inizia proprio nel canto A XI) e l’esaltazione delle virtù

di quest’ultima, il cui martirio è premiato da Dio con la

promessa che ogni donna che porterà il nome dell’eroina

avrà le sue virtù.

L’omaggio era ancor più marcato nella prima edizione,

dove il clou dell’episodio era collocato in XXVII, 27,

clin d’æil ad una delle imprese favorite di Isabella d’Este.

Né è secondario il fatto che Dio esalti Isabella sopra

quella «la cui morte a Tarquinio il regno tolse»: Lucrezia

romana, paragone della pudicizia femminile, ma anche,

nel gioco di specchi tra exempla e realtà, Lucrezia Borgia,

cognata e rivale di Isabella.

Alessandra Villa

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18. Andrea Mantegna

Tre divinità, c. 1495

Penna e inchiostro bruno, acquerello bruno, carminio e blu, tracce di biacca su carta bianca scurita, mm 363 x 316

Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings

Inv. PD 1861,0810.2

Provenienza: Venezia, poi Londra, collezione John

Strange, dal 1785 al 1798 circa; Londra, Conrad Martin

Metz, dal 1798 al 1801; Londra, vendita della collezione

Metz, 6 maggio 1801; Londra, William Young Ottley, fino

al 1814; Londra, vendita della collezione Ottley, 13 giugno

1814; Londra, collezione John Heywood Hawkins,

fino al 1861; Londra, The British Museum, dal 10 agosto

1861 (A. Mazzotta e V. Romani in Parigi 2008).

Bibliografia: Catalogue... 1801, p. 21; Popham e Pouncey

1950, I, pp. 94-95, n. 156; D. Ekserdjian in Londra e New

York 1992, pp. 449-450, cat. 146; De Nicolò Salmazo

2004, pp. 227, 259; Agosti 2005, p. 81; Ballarin 2007, p.

CXXXIX; A. Mazzotta e V. Romani in Parigi 2008, pp.

346-348, cat. 143 (con bibliografia precedente); V. Farinella

in Mantova 2011, pp. 190-191, cat. 5; Farinella 2014a,

p. 368; Menegatti 2014, pp. 735-739, 745-748.

Lo splendido foglio inglese appartiene al periodo più

tardo dell’attività di Mantegna, databile tra il 1495 e il

1500 (A. Mazzotta e V. Romani in Parigi 2008, pp. 346-

348) o forse più oltre, viste le somiglianze tra le movenze

delle tre divinità e quelle delle figure attorno al dio

Como nel dipinto del Louvre eseguito da Lorenzo Costa

all’indomani della morte di Mantegna, nel 1506, su disegni

del maestro (Ballarin 2007, p. CXXXIX). Da sinistra

a destra, una fanciulla in piedi tiene tra le mani un arco

e una fiaccola con la fiamma rivolta contro la terra; al

centro, seduta, una figura maschile impugna nella destra

una lancia e nella sinistra uno scettro, il piede sinistro

sull’elmo che poggia sulla spada, lo scudo e l’armatura

deposti a terra; una giovane in piedi, avvolta in un drappo

blu, volge lo sguardo verso lo spettatore. Alla vendita

della collezione Metz, il disegno fu dubitativamente

interpretato come un Ercole al bivio (Catalogue... 1801,

p. 21), ma l’ipotesi fu accantonata a favore dell’identificazione

delle tre figure come Diana, Marte e Venere

quando nel 1861 il foglio fu acquisito dal British Museum

(A. Mazzotta e V. Romani in Parigi 2008, p. 346). Alla

proposta, che gode tuttora di ampi consensi, va affiancata

quella secondo cui la donna sulla destra sarebbe

Iride, messaggera degli dèi, riconoscibile dall’arco alle

sue spalle, un arcobaleno, suo convenzionale attributo

(Popham e Pouncey 1950, I, pp. 94-95; De Nicolò Salmazo

2004, pp. 227, 259). La figura di Marte è ripetuta

pressoché fedelmente nella tela riferibile alla bottega

di Mantegna in collezione privata milanese, frammento

di una composizione in origine più ampia (Agosti 2005,

p. 81), il cui significato è illuminato da un volumetto

ottocentesco corredato da un’incisione, dove si legge

tra l’altro che il piede poggiato sullo scudo e sull’elmo

è «indizio non dubbio di fresca pace» (V. Farinella in

Mantova 2011, p. 190). Anche la fiaccola riversa impugnata

da Diana potrebbe alludere alla pace, tema forse

particolarmente caro al destinatario del disegno che,

vista l’accuratissima rifinitura, fu probabilmente concepito

come opera compiuta. Se i colori bianco, cremisi e

blu, oltre che indubbia prova della creatività e dell’abilità

di Mantegna nel campo della grafica (A. Mazzotta e V.

Romani in Parigi 2008, p. 348), fossero davvero un’allusione

araldica (D. Ekserdjian in Londra e New York 1992,

pp. 449-450, che tuttavia erra nel riferirli ai Gonzaga, i

cui colori erano bianco, rosso, verde), la committenza

potrebbe essere ricercata nell’ambito della corte estense

i cui colori araldici erano appunto, il bianco, il rosso e il

blu scelti anche da Ruggiero, progenitore della casata,

quando affronta il rivale Leone Augusto (Of XLIV, 77;

Farinella 2014a, p. 368). Il disegno potrebbe essere associato,

naturalmente, al nome della marchesa Isabella ma

anche a quello del padre, il duca Ercole I, i cui rapporti

con Mantegna sono ben documentati e che era particolarmente

interessato, allo scadere del Quattrocento, a

trasmettere di sé un’immagine di principe giusto e portatore

di quiete. La capacità di garantire la pace al ducato

estense fu infatti uno dei maggiori meriti del duca che, in

occasione della calata dei francesi in Italia nel 1494 e nel

1499, riuscì a mantenere una rigorosa neutralità (Menegatti

2014, pp. 735-739, 745-748), facendo sì che Ferrara

«quando la gallica face / per tutto avrà la bella Italia

accesa, / si starà sola col suo stato in pace, / e dal timore e

dai tributi illesa» (Of III 49, 3-6).

Marialucia Menegatti

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19. Andrea Mantegna

Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù, c. 1497-1502

Tempera su tela, cm 160 x 192

Parigi, Musée du Louvre

Inv. 371

Provenienza: Mantova, studiolo d’Isabella d’Este nel

castello di San Giorgio, quindi in Corte Vecchia (1502-39);

Mantova, collezioni Gonzaga, fino al 1627 circa; Château

de Richelieu, collezione del cardinale Armand Jean du

Plessis, almeno dal 1632 al 1642; Château de Richelieu,

collezione dei duchi Du Plessis; Parigi, Musée central des

arts (poi Musée du Louvre), dal 1801 (Pittadella e Romano

in Parigi 2008, pp. 349-351).

Bibliografia: Rajna 1900 (ed. 1975); Bertoni 1919, p. 115;

Romano 1981, pp. 29, 37-39; Lightbown 1986, pp. 186-209,

440-443, cat. 40; De Nicolò Salmazo 2004, pp. 224-227,

254; Agosti 2005, pp. 56-58, 72; M. Lucco in Mantova

2006, pp. 106-109, cat. 20; Ballarin 2007, pp. XVII-XXIV;

C. Pittadella e G. Romano in Parigi 2008, pp. 349-351; Farinella

2011, pp. 203-215, cat. 145; Lucco 2013, pp. 348-350, n.

55; Farinella 2016, pp. 43-44; Menegatti 2016.

La Minerva, concepita come pendant del Parnaso di

Mantegna oggi al Louvre (Romano 1981, p. 29), fu ultimata

entro l’estate del 1502 e appesa alla parete opposta

al Parnaso anche dopo il trasferimento dello studiolo in

Corte Vecchia (Ballarin 2002-07, V, pp. XVII-XXIV). Il

soggetto dagli intenti moraleggianti e didascalici fu forse

suggerito dall’umanista Paride da Ceresara (Lucco 2013,

pp. 348), ma è possibile che Mantegna, particolarmente

angustiato dal tema dell’ignoranza che domina il mondo,

abbia avuto un qualche ruolo nella sua elaborazione (De

Nicolò Salmazo 2004; Agosti 2005, p. 56). Nel giardino

già abitato dalle Virtù, rifugiatesi nel cielo solcato da nubi

antropomorfe dove sono riconoscibili Giustizia, Fortezza

e Temperanza, irrompe da sinistra Minerva che impugna

lo scudo e una lancia spezzata. Alle sue spalle, una figura

umana trasformata in alloro, identificabile nella Virtus

deserta, alza le braccia al cielo e il cartiglio avvolto al

suo tronco invita i compagni delle Virtù ad allontanare

i Vizi che ora popolano il giardino. L’apparire della dea

provoca scompiglio negli amorini con le ali di farfalla e

negli eroti notturni dai musi di civetta e di barbagianni;

fuggono, spaventate, una satiressa che tiene in braccio

tre piccoli fauni e uno per mano, e due fanciulle, forse

adepte di Venere (Lightbown 1986, pp. 205-206; Ballarin

2007, p. xxxvii). Un centauro parzialmente immerso

nello stagno, un tempo fonte purissima, trasporta un’imperturbabile

e bellissima giovane, personificazione della

Lussuria madre di tutti i Vizi, mentre due donne fanno

capolino tra Lussuria e l’amorino con due fiaccole, simbolo

del fuoco della passione (Farinella 2011, p. 201).

Come nell’incisione della Virtus combusta realizzata da

Giovanni Antonio da Brescia intorno al 1500-05 su invenzioni

del maestro, i Vizi sono riconoscibili grazie a iscrizioni.

Nello stagno, Inerzia trascina il molle Ozio, nudo

e senza braccia; la scimmiesca personificazione di Odio,

Frode e Malizia, Sospetto e Gelosia porta quattro borse

contenenti i semi («Semina»), del male («Mala), del peggio

(«Peiora), del male estremo («Pessima»); il satiro

dalle fattezze forse leonine, probabilmente identificabile

nella Concupiscenza o Lascivia (Lucco in Mantova

2006, p. 108), regge una pelle di animale e un amorino

cui sono state strappate le ali; Avarizia e Ingratitudine

sostengono la pingue e coronata Ignoranza. All’estrema

destra, imprigionata nel muro, la Prudenza madre delle

Virtù (Ballarin 2007, p. XXVII) affida a un cartiglio l’invocazione

di aiuto agli dèi. L’assimilazione di Isabella

con la casta Minerva è rafforzata dal dettaglio della lancia

spezzata, allusione alla lancia spezzata che Francesco

Gonzaga donò alla moglie dopo la battaglia di Fornovo

(Farinella 2011, p. 214), e riecheggia nella lode di Ariosto

alla «saggia e pudica, / liberale e magnanima» marchesa

dall’inviolabile castità (XIII, 59-60). La conoscenza dello

studiolo di Isabella, maturata nel 1507 (Farinella in questo

catalogo, pp. 230-235) o tra il 1504 e il 1505, ancora

vivo Mantegna, in occasione dei prolungati soggiorni a

Mantova del cardinale Ippolito (Menegatti 2016), spiega

i puntuali riferimenti alla Minerva (Rajna 1900, ed. 1975,

p. 650; Farinella 2011) e alla Virtus combusta (Farinella

2016, p. 43) nell’invenzione della «strana torma» di creature

ibride o alate, di centauri e satiri che sbarra il passo

a Ruggiero, diretto all’isola di Logistilla (A VI, 61-63).

Meno utile per spiegare i versi del Furioso è il Quadriregio

di Federico Frezzi, poema didascalico-allegorico

che narra il viaggio dell’autore in compagnia di Minerva

attraverso i regni d’Amore, di Satanasso, dei Vizi e delle

Virtù fino alla visione di Dio. Dell’opera, dalla notevole

fortuna editoriale tra il 1481 e il 1511, esisteva una versione

manoscritta appuntata forse da Ariosto che in corrispondenza

di un passo in cui Frezzi descrive creature a

più teste avrebbe scritto «Questi monstri potranno servire

per lo Palazo d’Alzina nella batt.a di Rug.ro allo mio VI»

(Bertoni 1919, p. 115; Rajna 1900, ed. 1975, pp. 175-176). Il

Quadriregio, tuttavia, potrebbe forse essere incluso tra le

fonti letterarie utilizzate nell’elaborazione della Minerva,

oltre a quelle già individuate quali il dialogo Virtus di Leon

Battista Alberti e il De calamitatibus temporum di Battista

Spagnoli (C. Pittadella e G. Romano in Parigi 2008, p. 350).

Marialucia Menegatti

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20. Giovanni d’Andrea Veronese

Lira da braccio, 1511

Corpo: legno di latifoglia (acero?); tavola armonica: legno di conifera; cordiera: ebano, avorio, osso; 5 corde tastate,

2 corde di bordone, cm 81 x 26 x 7

Etichetta stampata: Johannes . andreae. veronen . / … 1511

Iscrizione su placca d’avorio: ΛYΠHΣ IATPOΣ EΣTIN ANΘPOΠOIΣ ΩΔH (per gli uomini il canto è il medico del

dolore)

Vienna, Kunsthistorisches Museum, Sammlung alter Musikinstrumente

Inv. SAM 89

Provenienza: Padova, collezione Obizzi al Catajo.

Bibliografia: Schlosser 1920, pp. 65-66; Winterniz 1967, pp.

185-201; Winterniz 1982, pp. 265-266; Jones 1995, pp. 56-57;

Cremona e Vienna 2000-01, pp. 143, 147; Canguilhem 2001,

pp. 41-54; Bugini 2004, pp. 43-63; D. Gasparotto in Padova

2013, pp. 205-206 (con bibliografia precedente).

La lira da braccio era lo strumento più usato per accompagnare

la poesia cantata, tra la fine del Quattrocento

e il Cinquecento. In genere aveva sette corde, cinque

tastate, da suonare premendo la tastiera, e due di bordone,

esterne alla tastiera stessa. Poteva essere suonata

pizzicando le corde o usando un archetto, e grazie al

ponticello lievemente arcuato era in grado di produrre

non solo melodie ma anche accordi, e questo la rendeva

adatta ad accompagnare il canto.

Sembra che lo strumento sia stato chiamato “lira” proprio

per evocare quello usato dai poeti dell’antichità.

Esistevano già degli strumenti ad arco di foggia analoga,

ma nella seconda metà del Quattrocento il termine “lira”

finì per indicare specificamente quello che si usava per

accompagnare il canto di poesia per voce sola.

La lira da braccio godeva di un grande favore nelle corti,

dove l’élite intellettuale amava organizzare rappresentazioni

in “stile antico” di poesia cantata. Se è vero che

cantanti e strumentisti professionisti la usavano per

accompagnare il canto di poesie vernacolari contemporanee

o di versi latini per un pubblico aristocratico, il suo

legame con l’antichità ne faceva uno strumento molto

amato dai musici dilettanti dell’élite.

La lira da braccio era usata anche nelle rappresentazioni

teatrali: personaggi come Apollo od Orfeo cantavano il

prologo delle commedie accompagnandosi con questo

strumento ed esso divenne un attributo immediatamente

riconoscibile di queste figure nelle arti visive

contemporanee. Ma era anche uno strumento di strada,

usato da cantimbanchi e cantastorie per accompagnare

il canto di poesie, comprese le varie versioni dell’Orlando

furioso, per un pubblico di passanti che si radunava

al momento.

Oggi restano pochi esemplari della lira da braccio.

Quella qui esposta è decorata con uno straordinario

motivo intagliato, quasi erotico, che allude in modo giocoso

al corpo umano: due volti espressivi sono scolpiti

sulla cavigliera e due morbidi busti su entrambi i lati

dello strumento, con un mascherone sovrimposto a

quello posteriore.

Il primo proprietario dello strumento è sconosciuto, ma

l’iscrizione in greco antico su una placca d’avorio indica

un suo possibile coinvolgimento con la cultura classica,

oltre a ricordarci il potere che il canto esercita sia sul

musicista che sull’ascoltatore.

Flora Dennis

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21. Canzoni, sonetti, strambotti e frottole. Libro IV

Roma, Andrea Antico e Niccolò De Giudici, 15 agosto 1507 [recte 1517]. 8° oblungo

Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Landau-Finaly Mus. 11

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Bibliografia: Cavicchi 2011; Dorigatti 2011, pp. 25-26.

In questa raccolta musicale, di cui si espone l’unico

esemplare conosciuto, è recato uno strambotto a tre voci

del Tromboncino sui versi del lamento di Orlando (Of

AB XXI, 126 = C XXIII, 126). Si è congetturato che l’ottava

sia stata musicata nel periodo in cui il Tromboncino

si trovò assieme ad Ariosto al servizio d’Ippolito d’Este,

tra il novembre 1511 e il giugno 1512 (Prizer 1985, p. 24).

Il testo differisce da quello che si legge nella stampa del

Furioso dell’anno prima ed è testimonianza di una fase

redazionale anteriore, di cui non sopravvivono testimonianze

manoscritte:

Queste non son più lachryme, che fore

spargo per gli ochi con sì larga vena.

Non suppliron le lachryme al dolore:

finîr, che a mezo era el dolor a pena.

Dal foco spinto, hor el vital humore

fugge per questa via che agl’ochi mena;

e se qualche si versa, trarà, insieme

con la doglia, la vita al’hore extreme.

Di sicuro rilievo sono le varianti lessicali (vv. 2, 6-8),

mentre le divergenze grafiche (pur esaminate da Dorigatti

2011, p. 26) non dicono molto, siccome la grafia di

questa stampa non può essere imputata ad Ariosto.

Adolfo Tura

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22. Ercole de’ Roberti e Giovan Francesco Maineri

Lucrezia, Bruto e Collatino, c. 1486-93

Olio su tavola, cm 49 x 38,5

Modena, Galleria Estense. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. GE 50

Provenienza: Ferrara, collezioni estensi, fino al 1598;

Roma, collezione del cardinale Alessandro d’Este, citato

nell’inventario dell’eredità del 1624 senza indicazione

dell’autore: «Un quadro di Lucretia Romana dipinta su

l’assa suttile ma schiappata in due parti con cornice di

noce» (Campori 1870, p. 72); Modena, collezioni ducali

estensi; Modena, Galleria Estense, dal 1854 (Castellani

Tarabini 1854, p. 13, con attribuzione a Mantegna).

Bibliografia: Baruffaldi 1697-1730 (ed. 1844-46), I, p.

140; Venturi 1882, pp. 34-38; Bentini e Curti 1993, p. 90;

Wilkins Sullivan 1994, pp. 610-612; Molteni 1995, pp.

177-178, n. 41 (con bibliografia precedente); Cox 2009,

pp. 61-101; M. Toffanello in Torino 2014, pp. 110-111, cat.

9 (con bibliografia precedente); Cavicchioli 2015, pp.

41-42; Farinella 2016, pp. 53-54.

La tavola pervenne con ogni probabilità a Giulia, figlia

del duca Cesare d’Este, nel 1624 con l’eredità del cardinale

Alessandro e potrebbe avere fatto parte della

decorazione di un camerino con soffitto a lacunari del

palazzo Ducale di Modena, allestito per la stessa Giulia o

per Isabella di Savoia, sposa dal 1608 di Alfonso III d’Este

(Cavicchioli 2015, pp. 41-42). Analogie di soggetto,

dimensioni ed esecuzione pittorica suggeriscono che il

dipinto, il Bruto e Porzia del Kimbell Art Museum di Fort

Worth e la Moglie di Asdrubale della National Gallery

di Washington costituissero originariamente un’unica

serie, forse identificabile nelle «storie romane» di Ercole

Grandi ricordate da Baruffaldi nel palazzo Ducale di

Sassuolo (ed. 1844-46, vol. I, p. 140; Venturi 1882, pp.

35-36). Solitamente respinta vista la genericità dell’indicazione

(Molteni 1995, p. 176), l’ipotesi va riconsiderata

almeno per la Lucrezia, vista la presenza nell’Inventario

della robba del palazzo di Sassuolo, redatto nel 1663, di

«Un quadro con Lucrezia romana cornice dorate e nere»

(Bentini e Curti 1993, p. 90). All’ipotesi che le tre tavole

fossero parte di un cassone, forse realizzato tra il 1489

e il 1490 per le nozze tra Francesco Gonzaga e Isabella

d’Este (Molteni 1995, pp. 176-177), è preferibile quella

che appartenessero a un ciclo di eroine dell’antichità

destinato a un camerino dell’appartamento in Castello

della duchessa Eleonora d’Aragona commissionato al

pittore di corte Ercole de’ Roberti, che ne avrebbe eseguito

il disegno, mentre l’esecuzione spetterebbe a Giovan

Francesco Maineri, allora attivo nella bottega del

maestro (M. Toffanello in Torino 2014, p. 110). La tavola

modenese rappresenta la matrona romana Lucrezia,

moglie di Collatino, nell’atto di suicidarsi alla presenza

del marito e di Lucio Giunio Bruto dopo avere confessato

la violenza subìta da Sesto Tarquinio. Il ciclo, basato

sui Factorum et dictotorum memorabilium libri IX di

Valerio Massimo (Wilkins Sullivan 1994, pp. 610-612) e

certamente elaborato da un umanista di corte, propone

una serie di exempla di donne che hanno preferito il suicidio

al disonore o, secondo una più recente ipotesi, di

eroine antiche dalle marcate virtù, oltre che morali, politiche

e oratorie (Cox 2009), che bene si adatta alla probabile

committente del ciclo, la «splendida», «saggia»,

«pudica» Eleonora d’Aragona (Of XIII, 68, 1-3) figlia del

re di Napoli Ferrante, donna di grande tempra morale

che più volte guidò con successo il ducato estense in

vece del marito Ercole I. Le antiche eroine di Ercole

de’ Roberti e della sua bottega potrebbero avere ispirato

Ariosto nell’invenzione del palazzo del cavaliere del

nappo in riva al Po, adorno di rilievi e dipinti destinati a

esaltare le donne «di virtude amiche» sia del passato che

del mondo contemporaneo (Of A XXXIX, 15, 5-8, e 16;

Farinella 2016, pp. 53-54).

Marialucia Menegatti

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23. Maestro del Guiron

Re Artù e Faramon giocano a scacchi, mentre Bliobéris di Gaunes riceve un messaggio

del re; Bliobéris racconta un’avventura al re Artù e a Faramon

in Guiron le Courtois, c. 1375

Pergamena, 92 ff., mm 380 x 275

Parigi, Bibliothèque nationale de France, Nouv. acq. fr. 5243, ff. 3v-4r

Bibliografia: Toesca 1912 (ed. 1966), pp. 162-163; R. Cipriani

in Milano 1958, p. 28, cat. 69; Volpe 1983, pp. 302-304; F.

Avril in Parigi 1984, pp. 94-95, cat. 82; Sutton 1989; Avril

1990; Sutton 1991; Castelfranchi Vegas 1993; A. Lauby in

Milano 1999, pp. 96-101; F. Moly in Bollati 2004, pp. 515-517;

Molteni e Wahlen 2014.

Acquistato per la Bibliothèque nationale nel 1891, il codice

contiene due frammenti dei tre principali romanzi in prosa

del ciclo Guiron le Courtois. Assenti il Roman de Guiron e la

Suite, vi figurano uno dei sei testimoni italiani del Roman

de Meliadus e l’unica attestazione della Continuation de la

Suite Guiron. Probabilmente trascritti da un antigrafo difettoso,

i testi sono acefali e incompleti, circostanza comune

ai codici arturiani italiani ma priva di conseguenze sulle

ambizioni del ciclo illustrativo richiesto dal committente

(A. Lauby in Milano 1999, pp. 96-101; Molteni e Wahlen

2014). Questi è identificato in Dominus Bernabos (Vicecomes)

dalle iniziali che affiancano la biscia viscontea entro

un’iniziale filigranata al f. 46v (Sutton 1989).

Fu a Milano che il Guiron di Bernabò fu allestito: le iniziali

filigranate e quelle ornate sono infatti attribuite alla

bottega che ornò per Francesco Petrarca l’Iliade che il

poeta dice miniata e rilegata a Milano nel 1369 (BnF, ms.

Lat. 7880/1; Avril 1990; Sutton 1991), bottega che si ritiene

diretta da Magister Benedictus (da Como? Donato 2001).

Nei margini inferiori dei fogli, cento miniature a penna,

velate d’impalpabile camaïeu o tinte d’acquarello, prive di

cornici, si estendono a intercolunni, margini laterali e fin

dietro le colonne del testo, in anticipo di un secolo sull’illusionismo

prospettico del Quattrocento, ma la fantasia

impaginativa di tradizione emiliana è qui retta da un pensiero

«indicibilmente lucido» (Volpe 1983, pp. 302-304).

Maestro nel trasfigurare poeticamente la verità di spazi,

luci, gesti, sguardi, animali, il miniatore rievoca con rara

penetrazione psicologica l’atmosfera di condivisione degli

ideali cavallereschi che informa i protagonisti della storia,

ambientata in una corte contemporanea che allude al

sogno visconteo di rivivere l’epopea romanzesca. Con questo

monumento della pittura tardomedievale, palestra dei

miniatori del Lancelot du Lac (Tav. 6), il Maestro del Guiron,

sodale di Altichiero, spalanca le porte della miniatura

tardogotica lombarda, che raramente ritroverà lo stesso

equilibrio tra poesia dei sentimenti e mondanità cortigiana,

perché presto divenuta «attività un po’ troppo di serra e di

studiolo» (Longhi 1958, p. XXVI).

Pier luigi Mulas

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24. Lancelot du Lac

Parigi, Antoine Vérard, 30 aprile 1494. 2°

Membranaceo

Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Sammlung von Handschriften und alten Drucken, Ink 5.C.11.

Bibliografia: Macfarlane 1900, pp. 17-18, n. 35; Pächt e

Thoss 1977, pp. 170-173, figg. 354-364; Pickford 1980, pp.

277-285; Winn 1997; Conihout 2012; sulla legatura: Gottlieb

1910, n. 48; Conihout 2013.

Questo sontuoso esemplare del più celebre romanzo

cavalleresco del Medioevo, stampato su pergamena e

illustrato con miniature contemporanee all’edizione, contiene

le «storie di Carlo Magno e di Artù, nate in epoca

medievale, cui gli stampatori del Quattro-Cinquecento

diedero una seconda vita» (Nicole Cazauran). Si tratta

della seconda edizione (1494) del Lancelot in prosa

(ovvero il Lancelot vero e proprio, seguito dalla Quête

du Saint-Graal e La Mort le roi Artu), curata dal grande

libraio parigino Antoine Vérard, che dominò l’editoria in

Francia tra il 1485 e il 1512. L’edizione del 1488 del Lancillotto,

probabilmente realizzata a spese di Vérard – benché

il suo nome non vi compaia – era illustrata unicamente da

quattro grandi xilografie. Quella del 1494 invece è corredata

da ben ventinove incisioni.

Non è noto a chi fosse destinato il presente esemplare,

uno dei sei su pergamena di cui si ha conoscenza, con le

sue iniziali dipinte in oro su fondo rosso o bruno, le grandi

incisioni, colorite o ritoccate dal maestro di Jacques di

Besançon nei primi due volumi, dal maestro di Robert

Gaguin nel terzo (per queste attribuzioni sono debitrice

a Caroline Zöhl).

I tre volumi dell’esemplare di Vienna sono stati legati

a Parigi attorno al 1570. Queste straordinarie legature

in marocchino bruno portano decorazioni a grottesca;

i motivi – candelabri, vasi, fogliame, maschere, figure

umane e ibridi animali – sono incardinati su un asse centrale

posato su un personaggio affiancato da due satiri, il

quale sorregge un cesto di frutta da cui fuoriescono due

vistosi viticci a volute terminanti in erme femminili. La

fonte di questa decorazione non è nota (forse una stampa

ornamentale?) ma va senza dubbio sottolineata la sua

straordinaria qualità.

L’uso spettacolare dei motivi a grottesca – teste, maschere,

erme e ghirlande di frutta – è alquanto tardivo. Nella legatura

francese non si conoscono che due rari e preziosi

esempi di tale repertorio della Scuola di Fontainebleau:

quattro legature, che formano due coppie, corrispondendo

quindi a due disegni. Il primo, risalente alla fine

del regno di Enrico II, è un motivo formato da due erme,

una maschile e una femminile, unite in corrispondenza

delle spalle e della guaina a tortiglione, e orna la legatura

di una traduzione di Plutarco di Jacques Amyot del 1559

(Cambridge, Trinity College, Sel. a. 55.4). Più tardi questo

motivo fu ripreso, con esito meno felice, da Grolier (legatura

del “Last Binder”, Biblioteca municipale di Vesoul).

Il secondo, di poco successivo, è questa straordinaria

decorazione sui tre volumi di Lancillotto. Anche di questo

si conosce una replica meno bella, sulla legatura di una

Bibbia parigina incompleta, datata 1566 (BnF, Rés A 2221).

L’uso di maschere ed erme, come l’impiego del pigmento

nero per tracciare i volti, scomparvero in seguito dall’arte

della legatoria parigina, per ricomparire a Ginevra.

Secondo la tradizione, il Lancillotto di Vienna sarebbe

appartenuto a Caterina de’ Medici, ma ciò è dovuto a un

errore in cui incorse Le Roux de Lincy nell’Ottocento

(1858, p. 931); questi, a torto, aveva assegnato a Caterina

un antico inventario della Biblioteca reale, ma il suo

errore fu corretto già da Léopold Delisle (1868, p. 211). L’identità

del committente è tuttora ignota, ma gli appassionati

del genere, che nella Parigi della seconda metà degli

anni Sessanta del Cinquecento avrebbero potuto ordinare

l’opera, non sono molti. Da questa rosa di nomi si può

escludere Nicolas Moreau d’Auteuil (1544-1619), noto per

la sua passione per i romanzi cavallereschi, poiché questi

esibiva abitualmente il suo ex libris o il suo stemma (Hobson

1993). Va escluso altresì Claude Laubespine (si veda

Conihout e Ract-Madoux 2004, pp. 63-88, n. 1). L’ipotesi

più verosimile è che si trattasse di un anonimo appassionato

di legature scoperto di recente, un diplomatico o

dignitario della corte degli Asburgo che attorno al 1570,

probabilmente in occasione del matrimonio di Carlo IX

con Elisabetta d’Austria, fece legare a Parigi alcuni libri di

storia e di viaggi in francese (Conihout 2015, pp. 371-373).

Isabelle de Conihout

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25. Nicola di Maestro Antonio e anonimo coloritore

Tarocchi Sola Busca, 1491

Stampe su carta da incisioni a bulino miniate a colori e oro, mm 144 x 78

Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto dei Disegni

Invv. 7690, 7696, 7706, 7732, 7733

Provenienza: Venezia, Marin Sanudo il Giovane (1466-

1536), dal 1491; Milano, marchesa Busca, almeno dal

1802; Milano, conte Sola, almeno dal 1948; Milano, Pinacoteca

di Brera, dal 2009 (Gnaccolini 2012-13).

Bibliografia: Marsilli 1987, pp. 95-102; M. Faietti in

Milano 1991, Catalogo, pp. 262-277, cat. 71bis; Calvino

1994, p. VII; Sberlati 1994, pp. 86-88; C. Albonico in Ferrara

2004a, p. 350, cat. 112; G. Sassu in Ferrara 2007, pp.

482-485, cat. 159-160; De Marchi 2012-13, pp. 62-63; L.P.

Gnaccolini in Milano 2012-13, pp. 77-78, cat. 1.

Il mazzo di tarocchi è l’unico al mondo risalente al XV

secolo di cui si conservano integralmente le quattordici

carte, numerate, di ciascun seme e le ventidue carte figurate

o “trionfi”. Si è supposto che le carte potessero avere,

oltre che quello del gioco, anche finalità didattica, poiché

Cavalieri, Regine e Re di ogni serie portano i nomi di personaggi

classici o biblici, così come le carte trionfali, ad

eccezione del Matto che ha la tradizionale raffigurazione

(Albonico in Ferrara 2004a, p. 350). Il lungo dibattito critico

sull’autore, per lo più orientato verso l’area ferrarese,

fino a proporre di riconoscervi la mano di Francesco del

Cossa (M. Faietti in Milano 1991, Catalogo, pp. 264-265;

Urbini 2006, pp. 22-36), è stato recentemente sciolto a

favore del pittore anconetano Nicola di Maestro Antonio

(De Marchi 2012-13, pp. 62-63). L’umanista marchigiano

Ludovico Lazzarelli fu probabilmente il responsabile

della complessa iconografia, disseminata di figure allegoriche,

di riferimenti al mondo classico quasi a volere

creare attraverso la raffigurazione dei condottieri antichi

una serie di exempla virtuosi come nei cicli di “Uomini

famosi”, nonché di riferimenti ai temi alchemici ed ermetici

desunti dai trattati di Ermete Trismegisto, mitico

fondatore dell’alchimia, che nel Quattrocento conobbero

grande fortuna. L’ideazione del mazzo ebbe forse una

genesi piuttosto lunga, tra il 1470 e il 1480 (G. Sassu in

Ferrara 2007, p. 484); stampato probabilmente a Ferrara,

fu miniato a Venezia nel 1491, come risulta dalla combinazione

delle iscrizioni presenti su alcune carte. L’iscrizione

del Bocho, assieme ad altre nei Tarocchi III. Mario e

nei Tarocchi XV. Metelo hanno permesso anche di individuare

il possessore del mazzo in Marin Sanudo, lo storico

e diplomatico veneziano autore dei celebri Diari (Gnaccolini

2012-13, anche per lettura iconografica, attribuzione,

datazione e bibliografia precedente). La diffusione e il

successo dei tarocchi presso le corti rinascimentali, compresa

quella estense, sono ampiamente documentati. Alla

corte di Leonello d’Este è legata la prima testimonianza

nota di un mazzo da carte «da trionphi», datata 1442, e

numerosi sono i riferimenti letterari alla fortuna del gioco

in ambito ferrarese, dai Cinque Capituli di Matteo Maria

Boiardo, alla più tarda Invettiva contra il giuoco del tarocco

di Flavio Alberto Lollio, stampata nel 1550, seguita dalla

risposta, in difesa del gioco, di Vincenzo Imperiali (Marsilli

1987, pp. 95-102), oltre che nella Cassaria di Ariosto,

dove Crisobolo si lamenta dei governanti che «perdono /

il tempo a scacchi o sia a tarocco o a tavole» (Ariosto 2007,

I, p. 229, vv. 1917-1918). Le dimensioni ermetico-alchemiche,

magico-divinatorie, erano certo tra gli aspetti del

gioco più graditi alle corti rinascimentali, e riflesso di una

cultura ancora fiduciosa di poter fondere cristianesimo

ed ermetismo, autori classici e cabala, senza sconfinare

dall’ortodossia (Gnaccolini 2012-13, p. 52). La stessa struttura

narrativa del Furioso è fortemente radicata nelle arti

magico-divinatorie, astrologiche e alchemiche (Sberlati

1994, pp. 86-88), così come il fitto intreccio di personaggi

e situazioni del poema sembra ispirarsi, anche, alla portentosa

immaginazione del mondo dei tarocchi. Dalla

fascinazione del gioco, combinata a quella del Furioso,

nasce il Castello dei destini incrociati di Italo Calvino, pubblicato

nel 1969 nel volume Tarocchi. Il mazzo visconteo

di Bergamo e New York, corredato dalle riproduzioni dei

Tarocchi miniati da Bonifacio Bembo custoditi tra l’Accademia

Carrara di Bergamo e la Morgan Library di New

York. Nella successiva edizione del 1973, Calvino spiegando

la genesi del suo lavoro scrisse: «Il riferimento

letterario che mi veniva spontaneo era l’Orlando furioso:

anche se le miniature di Bonifacio Bembo precedevano di

quasi un secolo il poema di Ludovico Ariosto, esse potevano

ben rappresentare il mondo visuale nel quale la fantasia

ariostesca s’era formata» (1994, p. VII).

Marialucia Menegatti

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26. Lorenzo Spirito

Libro della ventura

Milano, Pietro Mantegazza per Giovanni da Legnano, 2 settembre 1500. 2°

Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, Est. 472

Bibliografia: De Marinis 1940, pp. 76-77, n. 5.

Nell’inventario, redatto nel 1502, delle suppellettili possedute

da Lucrezia Borgia da poco giunta sposa a Ferrara,

troviamo «uno libro de ventura vechio» (Bertoni 1903, p.

93). Doveva trattarsi di un manoscritto del tipo di quello

che conserva il codice miscellaneo Naz. II.II.83 della

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ff. 240v-250r. Il

14 agosto 1508 Girolamo Zilioli mandava a Isabella d’Este

«il libro de la ventura» che la marchesa aveva chiesto

«per qualche ricreatione» (Luzio e Renier 1899, p. 35):

forse una recente edizione a stampa dell’opera di Lorenzo

Spirito. Certo è che quest’ultima ebbe, nei primi due

decenni del Cinquecento, una popolarità che nessun altro

libro di sorti rivaleggiò (Urbini 2006). Tali libri, al pari

dei Losbücher tedeschi, richiedevano un tiro di dadi iniziale

grazie al quale si avviava un tortuoso percorso tra le

pagine fino al reperimento di una sentenza predittiva da

applicarsi alla sorte del giocatore. L’intrattenimento era

ampiamente diffuso in area padana già nel Quattrocento

se il Menzoniero di Baldassarre da Fossombrone (Tav. 63),

all’origine semplice raccolta di stramberie in forma di

sonetti, non tardò a prestarsi a un simile uso: lo testimonia

l’inventario dei beni del cardinale Francesco Gonzaga

del 27 ottobre 1483, nel quale l’opera appare come «Bosadrello

in carta de sonetti per la ventura», così come una

lettera del vescovo di Mantova Ludovico Gonzaga del 14

giugno 1484 in cui ancora vien menzionato «lo Bosadrello

da li dati» (Crimi 2010, pp. 16-17).

Caratteristica peculiare del Libro dello Spirito, che

dovette non poco contribuire alla sua fortuna, è la ricchezza

dell’apparato illustrativo. Suggestivo, in riferimento

a un ambiente in cui si leggeva appassionatamente

l’Inamoramento de Orlando, è il fatto che, nella sinossi

di figure di re antichi e leggendarî che occupa le prime

pagine, le immagini di re Carlo e di re Artù stiano fianco a

fianco. La straniante promiscuità di personaggi che popolano

il gioco di sorti non è senza affinità con il mondo del

Furioso, attraversato indifferentemente da paladini carolingi,

da figure della storia sacra (l’Evangelista, l’arcangelo),

da personificazioni di disparata natura (la Discordia,

il Silenzio).

L’incunabolo del 1500, di cui si espone l’unico esemplare

(Pellechet 7124 [7181]), è la più antica edizione milanese

conosciuta. Il tipografo Mantegazza reimpiegò la silografia

di Carlo – alla carta a2v della presente edizione – nella

pagina di titolo della Historia di Alessandro Magno, stampata

nel 1503 (Sandal 1981, p. 35, n. 451).

Adolfo Tura

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27. Albrecht Dürer

La ruota della fortuna

in Sebastian Brant, Das Narrenschiff

Basilea, Johann Bergmann von Olpe, 12 febbraio 1499. 4°

Silografia

Londra, The British Library, IA. 37957, f. 5v

Nella VII Satira, ai versi 46-54, Ariosto descrive con

molta precisione un’iconografia della ruota della fortuna:

Quella ruota dipinta mi sgomenta

ch’ogni mastro di carte a un modo finge;

tanta concordia non credo io che menta.

Quel che le siede in cima si dipinge

uno asinello: ognun lo enigma intende,

senza che chiami a interpretarlo Sfinge.

Vi si vede anco che ciascun che ascende

comincia a inasinir le prime membre,

e resta umano quel che a dietro pende.

Si conoscono effettivamente tarocchi corrispondenti a

tale iconografia, ad esempio la carta del mazzo Visconti

alla Morgan Library di New York. Ad assicurare un’ampia

divulgazione dell’immagine fu il suo inserimento

nell’apparato illustrativo della Nave dei folli di Sebastian

Brant, finita di stampare per la prima volta da Johann

Bergmann von Olpe l’11 febbraio del 1494 (GW 5041): la

maggior parte dei legni di questa edizione, tra cui quello

della ruota della fortuna, sono opera del giovane Dürer

(Winkler 1951). La stampa del 1499 che qui si espone (GW

5047), dovuta allo stesso Bergmann, reimpiega i legni

dell’edizione del 1494.

Nell’esemplare della British Library una mano coeva ha

posto nel margine inferiore della pagina una citazione

tratta dai Prolegomena in canones isagogicos dello Scaligero:

«Simii arbores celsas scandendo sperant ad altiora

eniti posse. Postquam ad cacumen perventum est, nihil

quam glabras nates spectantibus ostendunt», che prosegue

con un epigramma greco dello stesso tenore. L’accostamento

è dovuto a una pura associazione d’immagini

(l’arrampicarsi della scimmia e l’asino assiso sulla cima

della ruota).

Non si può escludere che qualche edizione, forse latina

o francese, della Nave dei folli sia capitata sotto gli occhi

di Ariosto, sebbene sia da osservare, per quanto riguarda

la concezione della follia, che lo scritto di Brant non ha

a che vedere con la corrente umanistica che suggerisce

un’assimilazione della condizione umana tout court alla

pazzia: in Brant la nave dei folli non vuol essere un’immagine

del mondo (Klein 1975, p. 485).

La stessa iconografia della ruota della fortuna si ritrova

in altri libri a stampa che Ariosto avrebbe potuto conoscere,

ad esempio alla pagina di titolo delle edizioni parigine

(Michel Le Noir, 1505 e 1519) dell’Estrif de Fortune

et de Vertu di Martin Le Franc.

Adolfo Tura

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28. Raffaello Sanzio

Ritratto di Tommaso Inghirami detto “Fedra”, c. 1510

Olio su tavola, cm 89,5 x 62,8

Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. Pal. 1912 n. 171

Provenienza: Roma, Fedra Inghirami, fino al 1516; Volterra,

casa Inghirami, fino al 1640 (Batistini 1994-95);

Firenze, collezione del cardinale Leopoldo de’ Medici,

1663-67; Firenze, Tribuna degli Uffizi, dal 1671; Firenze,

Palazzo Pitti, dal 1697.

Bibliografia: Fischel 1948, p. 364; Fischel 1962, p. 84;

Dussler 1971, pp. 28-29; Oberhuber 1982, p. 104; M. Chiarini

in Firenze 1984, pp. 134-143; Shearman 1995, pp. 130-

131; Oberhuber 1999, p. 125; De Vecchi 2002, pp. 231-232;

S. Padovani in Chiarini e Padovani 2003, II, pp. 321, 520;

C.L. Frommel in Roma 2011-12, p. 277, cat. 31; Padovani

2014, pp. 343-350 (con bibliografia precedente).

Tra i numerosi personaggi della società e della cultura

contemporanea menzionati nel Furioso non pochi

ebbero un posto di rilievo nella ritrattistica di Raffaello.

Tra questi è Tommaso Inghirami (Volterra 1470 – Roma

1516), il «Fedro» che Ariosto presenta nell’ultimo canto

del poema (XLVI, 13) come capofila di una compagnia

di letterati, tutti legati alla figura di Alessandro Farnese.

Molti di loro erano già morti all’altezza dell’edizione del

1532, ma i loro nomi furono mantenuti in modo da proiettare

il lettore verso una dimensione temporale passata,

corrispondente alla Roma di Giulio II e di Leone X

(Casadei 1986, pp. 64-65). Qui Inghirami, formatosi alla

scuola di Pomponio Leto, si era affermato come poeta ed

oratore, ricoprendo vari incarichi di prestigio, tra i quali

nel 1510 la nomina a prefetto della Biblioteca Vaticana

(Benedetti 2004 con bibliografia precedente). Il soprannome

“Fedra” gli era derivato, com’è noto, dall’aver ricoperto

tale ruolo nel 1486 in una rappresentazione dell’Ippolito

di Seneca, distinguendosi per le sue doti sceniche

e per essere riuscito a intrattenere il pubblico, durante

un’interruzione dello spettacolo, improvvisando versi

in latino. L’episodio e l’appellativo di Cicerone del suo

secolo sono ricordati in un’epistola di Erasmo (Cruciani

1980, pp. 350-377; sulla questione della polemica

anticiceroniana di Erasmo, invece, si veda Gualdo Rosa

1985 e Bolzoni 2012, pp. 237-238). Divenuto insegnante

di retorica presso l’Accademia (1498), il nostro continuò

ad occuparsi di teatro e di apparati scenici all’antica:

nel 1513, durante le feste romane in onore di Giuliano

de’ Medici, diresse il Poenulus plautino, ideando i «quadri»

dipinti della storia; nel 1514 organizzò una sfilata

di diciotto carri, per ognuno dei quali stabilì il tema e

il pittore che l’avrebbe svolto (sui due episodi e relative

fonti Settis 1981, ed. 2010, pp. 3-13). Come consulente

iconografico, inoltre, il suo nome è tra quelli indiziati

nella stesura del programma per la Stanza della Segnatura,

dove si è proposto di riconoscere un suo ritratto,

molto idealizzato, nell’Epicuro della Scuola d’Atene

(Künzle 1964, p. 499). È da credere che l’attività teatrale,

non meno di quella poetica, e i rapporti con un comune

ambiente artistico e letterario favorirono le occasioni

d’incontro con Ariosto, durante i soggiorni di questi a

Roma (Catalano 1930-31, I, p. 371), ma sono documentati

anche contatti tra Fedra e l’ambiente estense: «bon

servidor et laudatore delle singulari virtù» di Isabella,

secondo la testimonianza di Mario Equicola (Luzio e

Renier 1899, I, p. 8), compose un carme per le nozze tra

Alfonso I e Lucrezia Borgia nel 1501 (in Pescetti 1932, pp.

77-83), e nel 1507 segnalò ad Ippolito un’osservazione di

Archimede sui falconi da aggiungere ad un passo dell’Equicola

in cui si menzionava un falcone del cardinale,

«falconem celebrans tuum» (Bertoni 1919, p. 136). Il riferimento

è evidentemente al De opportunitate pubblicato

a Napoli nello stesso anno, in cui il letterato campano

aveva illustrato l’impresa di Ippolito con il falcone che

regge tra gli artigli i contrappesi di un orologio (su questo

motivo da ultimo Schirg 2015).

La fisicità corpulenta del prelato, ricordata anche in

due epigrammi di Angelo Colocci (Ad Leonem de Phedri

corpulentia e In Phedrum corpulentum), ed il vistoso

strabismo furono abilmente colti da Raffaello in questa

effige come cifra caratterizzante e rafforzativa della

personalità dell’umanista, così da conferire nuova energia

e vitalità interiore all’atto della scrittura e alla resa

dello stato psichico dell’ispirazione, dove l’irregolarità

dello sguardo sporgente e rivolto verso l’alto si trova ad

essere sottolineata e, allo stesso tempo, abilmente dissimulata.

Tale aspetto fu apprezzato già da Burckhardt

(1855, ed. 1952, p. 992) e quindi da Crowe e Cavalcaselle

(1882-85, ed. 1884-91, II, pp. 270-273) che avvertirono in

questa impostazione influenze nordiche e fiamminghe,

nonché rimandi all’iconografia degli evangelisti, più

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volte poi alternativamente invocati negli studi, ma di cui

Shearman (1995, pp. 130-131) ha per primo evidenziato

il nuovo significato in rapporto alla “presenza” dello

spettatore. Dal punto di vista dello stile questi caratteri

orientano verso una datazione dell’opera a cavallo tra la

Stanza della Segnatura e quella di Eliodoro (Oberhuber

1999, p. 125), dove la pienezza plastica e l’animazione

delle figure si legano ad una maggiore ricerca di individuazione

realistica e ad una stesura più ricca del colore,

sebbene non siano mancate anche di recente proposte

di datazione leggermente più avanzate (C.L. Frommel

in Roma 2011-12, p. 277: c. 1513). Nella valutazione del

dipinto, d’altronde e nella lunghissima discussione critica,

che non è possibile ripercorrere in questa sede, ha

interferito a lungo l’esistenza di un’altra versione del

ritratto, pure proveniente da casa Inghirami ed oggi

all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, in rapporto

alla quale ci si è interrogati persino sull’originalità

dell’esemplare Pitti. La qualità del dipinto fiorentino e

le indagini effettuate in occasione degli ultimi restauri

ne hanno però confermato la piena autografia (Padovani

2014, pp. 343-348 cui si rimanda per il riepilogo degli

studi e la bibliografia).

Barbara Maria Savy

29. Tito Maccio Plauto

Comoediae, inizi del XVI secolo

Codice membranaceo

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 36.36

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività

culturali e del turismo

Bibliografia: Questa 1968 (ed. 1985), pp. 223-228; Tontini

2010, pp. 33-34, n. 3.

Il codice, composto da 42 quinioni preceduti da un

bifolio, contiene l’intero corpus delle commedie plautine

ed è vergato dalla mano di Fedra Inghirami. Questi

ha riportato nei margini alcune varianti di collazione

oltreché proprie congetture, alcune delle quali si rivelano

felici (Romano 1985).

Si tratta di un manoscritto calligrafico confezionato

per proprio uso, come attestano le armi dell’Inghirami

poste nel margine inferiore della prima pagina (arricchite

dell’aquila imperiale, di cui Massimiliano I aveva

concesso l’insegna a Fedra nel 1497). La stessa pagina

è miniata con finezza: il titolo dell’Amphitruo iscritto

in una tabella all’antica, il margine interno decorato da

un trofeo, le armi racchiuse da cornucopie e delfini e

affiancate da putti.

Adolfo Tura

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30. Aetheria, fine XV secolo – inizio XVI secolo

Manoscritto cartaceo

Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, A 55 inf.

Bibliografia: Stäuble 1968, pp. 132-139.

Contenuto in una miscellanea eterogenea (ff. 84r-105v),

il manoscritto è l’unico testimone della commedia umanistica

Aetheria, composta – probabilmente sul finire del

Quattrocento – in senari giambici da un ignoto autore. Si

tratta della copia (non autografa) che questi fece avere a

Tommaso Inghirami per riceverne suggerimenti utili a

qualche modifica: la mano di Fedra si riconosce infatti

nelle numerose postille aggiunte al testo (Tura 2005,

pp. 206-207), il cui tenore rivela in più punti l’intento

di prestare consiglio all’autore (sia pure con una certa

svogliataggine).

Adolfo Tura

31. Niccolò da Correggio

Fabula de Cefalo, 1497

Manoscritto membranaceo

Londra, The British Library, Add. 16438

Bibliografia: Tissoni Benvenuti 1970.

È questo – elegantemente copiato da Alberto Maffoni –

il solo manoscritto conosciuto a contenere la Fabula

de Cefalo di Niccolò da Correggio (ff. 1r-21r), cui segue

l’Orfeo del Poliziano terminato di copiare il 18 agosto

1497. Nel 1793 il codice era stato visto nella biblioteca

del conte Briganti a Tivoli da Dionigi Strocchi, il quale

non vi seppe tuttavia identificare l’opera di Niccolò

(Strocchi 1868, p. 39). Il codice fu segnalato come testimone

di questa per la prima volta da Antonia Tissoni

Benvenuti nel 1970.

Il Cefalo venne rappresentato il 21 gennaio 1487 su un

palco allestito nel cortile del Palazzo ducale di Ferrara,

lì dove un anno prima aveva avuto luogo la famosa

messa in scena dei Menechini.

Adolfo Tura

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32. Donato Bramante

Scena prospettica, fine XV secolo – primo quarto del XVI secolo

Incisione a bulino, mm 258 x 380

Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli

Inv. Art. prez. M 275

Bibliografia: Courajod e Geymüller 1874; Malaguzzi

Valeri 1915, II, p. 309; Arrigoni 1942, p. 209, cat. 21;

Baroni 1942, p. 509; Hind 1948, pp. 105-106, n. 2b; Krautheimer

1948, p. 340; Arrigoni 1957, pp. 708-709; Samek

Ludovici 1960, pp. 33-34; Murray 1962, pp. 38-40; Neiiendam

1969, p. 156; Stein 1969, p. 11; Milano 1984, pp.

44-46, cat. 33; Bruschi 1987, p. 326; Pochat 1990, p. 280;

Petrioli Tofani 1994, pp. 530-531, cat. 163.

La stampa in questione, la cui datazione è ascrivibile

al tardo Quattrocento o forse ai primi anni del Cinquecento,

costituisce la più antica raffigurazione di scena

prospettica teatrale rinascimentale pervenutaci.

Di quest’opera sono note più versioni tratte da tre

diverse lastre, due delle quali presentano gli edifici in

posizione speculare e con alcune varianti. La paternità

bramantesca del disegno è indicata nell’iscrizione posta

in alto al centro (BRAMANTI AR / CHITECTI / OPVS),

scritta che, tuttavia, non compare su tutti gli esemplari e

su cui la critica si è espressa in modo discorde, arrivando

ad avanzare i nomi di Cesare Cesariano – alcuni disegni

del quale recano l’attestazione Bramantus f[ecit] –

quale effettivo autore dell’invenzione grafica e di Zoan

Andrea o di Giovanni Antonio da Brescia per la sua trasposizione

su lastra.

Altrettanto dubbia resta la datazione, collocata da Hind

tra il 1475 e il 1500-10 sulla base di considerazioni stilistiche;

il primo termine cronologico troverebbe piena

corrispondenza con la data manoscritta su un esemplare

a stampa della Pinacoteca di Bologna, che tuttavia va

considerata con le dovute cautele.

Per quanto riguarda la composizione della scena, Arrigoni

osserva la stretta analogia della stampa con le tavole

dell’edizione del De Architectura commentata e illustrata

da Cesariano, nonché l’esistenza di reminiscenze

e citazioni più tarde – visibili, ad esempio, nelle due raffigurazioni

di scena comica e scena tragica inserite da

Sebastiano Serlio nel Libro Secondo dell’Architettura o

in un affresco di Giannolo di Paolo nella cappella di San

Giovanni Battista annessa al Collegio del Campo di Perugia

– che denoterebbero una certa fortuna goduta dal

disegno bramantesco nella prima metà del Cinquecento.

Se la scelta del mezzo è esplicativa della volontà di far

circolare tale immagine, resta tuttavia ignota la sua

reale finalità: senza dubbio, come giustamente osserva

Petrioli Tofani, non è da intendersi come un foglio preparatorio

per un determinato allestimento e altrettanto

poco verosimilmente potrebbe trattarsi della memoria

di una scena realmente costruita. Al contrario, l’ipotesi

più ragionevole è che si tratti di una sorta di “capriccio

architettonico” assemblato come esercizio scenico,

come una riflessione su un tema spaziale svincolata da

un’effettiva realizzazione e da una reale committenza.

Ad ogni modo, a prescindere dalla sua finalità, è una

testimonianza significativa dell’interesse di Bramante

per il teatro, già documentata da altre fonti e in particolare

da una lettera datata 15 maggio 1495 – dunque

cronologicamente vicina all’opera in esame – in cui Bartolomeo

Calco informa Ludovico il Moro di aver incaricato

l’architetto di comporre «qualche digna fantasia da

mettere in spectaculo».

Nello spazio relativamente ridotto di un quadrivio (o

forse una piazza da cui si diparte una via che percorre

l’asse prospettico) a cui fa da quinta una porta urbica

si concretizza una specifica concezione architettonica

e urbana pregna di riferimenti alla cultura umanistica

del tempo, indubbiamente tanto legata alla trattatistica

di soggetto architettonico, quale il De re aedificatoria

di Leon Battista Alberti (1485) e l’editio princeps del

De Architectura di Vitruvio (1486) quanto influenzata,

nell’impianto geometrico che norma la planimetria e

nella rigidità della costruzione prospettica, dal De prospectiva

pingendi di Piero della Francesca (c. 1474-82) e

dalle opere a questa successive.

Francesco Marcorin

96 97



33. Raffaello Sanzio

Studio di una quinta prospettica per una scenografia, 1518-19

Penna, inchiostro marrone su preparazione a matita nera, mm 618 x 287

Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. 560 A

Bibliografia: Geymüller 1884, pp. 56-57 nota 22; Ferri 1885,

pp. XXI, 24; Oberhuber 1966, p. 242 nota 34; Marchini

1968, pp. 491-492; Frommel 1974, pp. 183-185; Oberhuber

1983, pp. 637-638; S. Ferino in Firenze 1984, pp. 321-323;

Frommel 1984, pp. 226-228; C.L. Frommel in Mantova

1989, p. 290; Bruschi 1994, pp. 179-180, 182; Petrioli Tofani

1994, pp. 531-532; Jung 1998; R. Sassi in Urbino 2012, p. 268.

Il 6 marzo 1519 vengono messi in scena a Roma I Suppositi

di Ariosto in una sala della residenza vaticana del nipote

del papa, il cardinale Innocenzo Cybo. Leone X in persona

assiste alla commedia e la apprezza tanto da commissionarne

un’altra ad Ariosto per il carnevale dell’anno successivo,

incarico che non andrà a buon fine. Dalle fonti

sappiamo che le scene per I Suppositi sono progettate da

Raffaello e dal racconto di uno spettatore apprendiamo

che vi si riconosceva la città di Ferrara: «fu fento una

Ferara et […] fu fata Ferara precise come la è». (Cruciani

1983, p. 457). Un documento dell’agosto del 1521 fa riferimento

a Raffaello per forniture di legno «per li sedili della

commedia» quasi certamente le gradinate per il pubblico

erette nella residenza Cybo (Shearman 2003, p. 702).

Nel 1964 Oberhuber identificò come scenografia il foglio

qui presentato, attribuendolo a Raffaello. Accettando la

proposta, non essendovi notizia di altri apparati teatrali

progettati da Raffaello, nel 1984 Frommel propose che questo

disegno potesse essere messo in relazione con la rappresentazione

ariostesca del 1519. Osservò che le dimensioni

della scena, ipotizzabili dal disegno della quinta (privo di

scala di misura), sono in linea di massima compatibili con

la grande sala della residenza Cybo. Sottolineò anche come

Vitruvio differenzi la scena comica (adeguata a I Suppositi)

da quella tragica per la presenza di elementi definiti

«mignani» nella traduzione che Fabio Calvo appronta per

Raffaello. Il termine latino corrispondente è tradotto dagli

esegeti vitruviani Philandrier e Baldi come «pergola sporgente»:

un elemento simile a quello che appare nel disegno.

Da allora non sono emersi nuovi elementi che consentano

di andare oltre Frommel, anche dopo i successivi studi di

Jung del 1998 sulla costruzione prospettica del disegno.

Sylvia Ferino e Annamaria Petrioli Tofani hanno ribadito

con decisione l’autografia di Raffaello sul piano dello stile,

tenendo conto dalla singolare storia materiale del foglio.

La notevole estensione in altezza, oltre sessanta centimetri,

è raggiunta infatti incollando insieme due carte (più

una striscia sulla destra ad aumentare la larghezza). Le due

carte sono di grammatura diversa: la superiore è più sottile

e di riciclo. Essa porta sul verso uno studio per il cortile di

palazzo Branconio, certamente uscito dalla bottega di Raffaello,

probabilmente di mano di Giulio Romano (Pagliara

1984, pp. 205-206). Alla differente consistenza del supporto

nella parte superiore e inferiore, si è aggiunta una

diversa storia conservativa, perché il disegno è stato successivamente

tagliato in due lungo una linea spezzata che

segue la cornice che separa i due piani. Verrà ricomposto

nell’Ottocento da Ferri, su indicazione di Geymüller. Tutto

ciò è responsabile di una sensibile differenza di qualità del

disegno nelle due metà del foglio, a scapito di quella superiore,

più deteriorata.

L’invenzione architettonica è finalizzata alle esigenze

della rappresentazione teatrale, talvolta a scapito della

logica costruttiva e compositiva. Come osservato già da

Geymüller, la parte superiore del “meniano” mostra un

linguaggio maturo dove le edicole delle finestre, affiancate

da incassi rettangolari poco profondi e con la loro

trabeazione che continua schiacciata sulle pareti, rimandano

al progetto di Raffaello per il piano nobile di palazzo

Pandolfini a Firenze, concepito fra il 1516 e il 1517. È

possibile che l’omaggio a Giannozzo Pandolfini, vescovo

di Troia e intimo di Leone X, sia legato ad una sua presenza

fra gli spettatori de I Suppositi. La parte sottostante

mostra, invece, una campata con gli archi impostati su

frammenti di trabeazione sostenuti da colonne libere, una

soluzione meno aggiornata e che forse si potrebbe azzardare

collegata alla rappresentazione di una città padana.

Si devono ad Arnaldo Bruschi nel 1994 riflessioni sulla funzione

di questo disegno nel processo di progettazione di

una scenografia prospettica. I due disegni di Peruzzi per

la Cassaria del 1531 (U 268 A e 269 A) mostrano in cosa

consista un primo stadio di studio, con la costruzione di un

alzato scorciato a partire dalla planimetria. Anche nel foglio

di Raffaello i fori che punteggiano una linea posta a metà

del terzo gradino del pianterreno devono essere i registri di

allineamento con una pianta sottostante. Ma in questo caso

ci troviamo in una fase più avanzata del processo di progettazione:

non più studio personale ma disegno di grandi

dimensioni realizzato per guidare l’azione dei realizzatori,

con crocette e cerchi sulle paraste che «sembrano costituire

contrassegni in rapporto a problemi di esecuzione»

(Bruschi). A partire da un disegno come questo, gli artigiani

avrebbero costruito la quinta vera e propria (un

«telero» come scrive Peruzzi sulla pianta per la Cassaria),

sulla quale potevano essere realizzate anche aperture

forando la tela, come potrebbe qui indicare la presenza di

una figura appena abbozzata che si affaccia alla porta.

Guido Beltramini

98 99



L’IMMAGINE

DEL CAVA-

LIERE



34. Maestro dei Mesi

Cavaliere (Maggio), 1225-30

Pietra di Verona, cm 87 x 35 x 62

Ferrara, Museo della Cattedrale

Inv. MC024

Provenienza: Ferrara, Cattedrale, Porta dei Pellegrini

detta anche dei Mesi, fino al 1728; Santa Maria di Bocche,

dal 1736; Palazzo dei Diamanti, atrio; Museo della Cattedrale,

dal 1929.

Bibliografia: Baruffaldi 1697-1722 (ed. 1844-46), I, pp.

13-14; Giovannucci Vigi 2001, p. 30; Tigler 2010, pp. 56-89

(con bibliografia precedente).

«Vedevasi nella parte meridionale di esso Duomo, detta

comunemente la porta de’ mesi, perché nell’architrave

di essa, e nell’arco stavano di tutto rilievo scolpite le faccende

per lo più rusticali, che far si sogliono alla campagna

in ciascun mese dell’anno» (Baruffaldi 1697-1722,

ed. 1844-46, pp. 13-14). I rilievi a cui Baruffaldi fa riferimento

sono le formelle dei Mesi che decoravano l’imbotte

dell’arco inferiore del monumentale protiro della Porta

dei Pellegrini sul fianco meridionale del Duomo ferrarese

e risalente all’epoca di Nicholaus (1135 circa). Secondo

una tendenza che voleva aggiornare anche Ferrara alla

nuova moda antelamica di inserire il ciclo dei mesi nei

sottarchi dei portali o nelle volte dei protiri, furono realizzate

dall’anonimo Maestro dei Mesi a partire dal secondo

decennio del XIII secolo.

Le formelle rimasero in situ sino al 1717 quando il complesso

della Porta dei Mesi verrà a poco a poco demolito.

Da quella data le sculture inizieranno tre diversi percorsi:

alcune verranno sistemate sul fianco meridionale del

Duomo, detto Loggia dei Merciai, altre utilizzate come

pavimentazione dell’atrio, altre ancora – è il caso del

nostro Cavaliere – collocate nel cimitero della chiesa di

Santa Maria di Bocche (passando poi al Lapidario Civico,

quindi a Palazzo dei Diamanti) salvo infine, a partire dal

1929, trovare definitiva sistemazione presso il museo della

Cattedrale (Tigler 2010, pp. 56, 78, n. 8).

Tra le formelle, per raffinatezza e sensibilità di esecuzione,

spicca il Maggio – mese della caccia, dei tornei,

delle guerre ma anche dei pellegrinaggi – che è ricordato

dalla critica come uno dei capolavori della serie (Tigler

2010, pp. 64-73).

La scultura rappresenta un cavaliere a tutto tondo, coperto

da un grande scudo a mandorla con al centro l’umbone

rilevato come una borchia e un mantello che gli ricade

dalla spalla (Giovannucci Vigi 2001, p. 30). L’opera è connotata

da un vibrante naturalismo in cui la fondamentale

lezione di Antelami e della cultura figurativa d’Oltralpe

si fa più cordialmente analitica e descrittiva. Qui l’ignoto

maestro, infatti, si rivela un appassionato indagatore delle

più minute realtà dell’uomo e della natura: i capelli stretti

al capo e raccolti da un caratteristico ricciolo alla nuca del

cavaliere, l’attenzione ai dettagli anatomici del cavallo e

la straordinaria perizia nello scolpire e definire la vegetazione

che vediamo ai piedi dell’animale. L’insieme di questi

elementi danno dunque la misura dell’efficacia e della

forza stilistica e formale del Cavaliere che dovette colpire,

v’è da credere, anche Ludovico Ariosto che «nel passeggiar

fra il Domo e le due statue de’ Marchesi miei» (Satire,

VII, 151) poté ammirare la scultura prendendola magari

come modello iconografico allorché, chiudendo gli occhi,

immaginava gli uomini d’arme del suo Orlando furioso.

Vasilij Gusella

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35. Cosmè Tura

San Giorgio, c. 1460-65

Olio su tavola, cm 21,6 x 13

Iscrizione sul retro della tavola: C·G·B C

Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Galleria di Palazzo Cini

Provenienza: Ferrara, collezione Francesco Rizzoni,

1782; Ferrara, collezione Giovan Battista Costabili, 1838;

Londra, collezione Barker, fino al 1874; Londra, collezione

conte di Rosebery, fino al 1940; New York, collezione

Siegfried Kamarsky, 1946; Firenze, collezione

Gualtiero Volterra fino al 1954; Venezia, collezione Vittorio

Cini, dal 1954 (Mattaliano 1998, p. 19).

Bibliografia: Longhi 1940 (ed. 1956), pp. 126-127; Salmi

1957, pp. 52-53; Ruhmer 1958, pp. 170-171; Bacchi 1990,

pp. 4-5; Mattaliano 1998, p. 19, n. 23; S.J. Campbell in

Boston 2002, pp. 207-208, cat. 6; M. Toffanello in Ferrara

2007, pp. 312-316, cat. 65 (con bibliografia precedente).

La tavoletta condivide con il San Maurelio del Museo

Poldi Pezzoli una più antica appartenza alla collezione

Costabili. L’ipotesi di Longhi (1940, ed. 1956, pp. 126-

127) che le due tavolette e la Vergine Annunciata della

Galleria Colonna di Roma, analoghe per formato,

dimensione e stile, costituissero un’unica serie è accettata

dalla critica, tuttavia divisa sulla loro originaria

collocazione – secondo Longhi pilastrini esterni di un

polittico distrutto, per Ruhmer (1958, pp. 170-171) parte

della predella della Madonna con il Bambino e santi del

Musée Fesch di Ajaccio. I tre dipinti sono, più probabilmente,

quanto rimane delle portelle di un altarolo che

all’esterno presentava l’Annunciazione (manca, dunque,

l’Angelo annunciante) e all’interno i santi protettori

di Ferrara (Salmi 1957, pp. 52-53; Bacchi 1990, pp.

4-5). L’altarolo fu forse commissionato da un Estense,

come lasciano supporre le colonnine verdi, bianche, e

rosse – colori della divisa estense, che contrassegnavano

le vesti dei paggi e gli altri oggetti della corte –,

la stessa preziosità delle tavolette, quasi «opere in

miniatura, concepite per un godimento privato e ravvicinato»

(M. Toffanello in Ferrara 2007, pp. 312-313) e

l’eleganza tutta cortese, in particolare, del san Giorgio,

qui rappresentato secondo un’iconografia piuttosto

inusuale che ha talvolta portato a confonderlo con un

san Michele. Giorgio è infatti appiedato e còlto nell’atto

conclusivo della vicenda raccontata nella Legenda

aurea, mentre recide con la spada la testa del drago.

Tura veste il santo con la lorica degli antichi romani,

guardando probabilmente ai soldati di Mantegna nella

cappella Ovetari a Padova, e al San Giorgio bronzeo di

Nicolò Baroncelli e Domenico di Paris, realizzato tra il

1453 e il 1456 per la cattedrale ferrarese, che rivestito di

antica corazza trafigge il mostro riverso ai suoi piedi.

Rispetto al San Giorgio che Tura dipinge nel 1469 per

le ante dell’organo del duomo, di ben altra temperie

drammatica, il santo Cini è, prendendo a prestito un

verso ariostesco, «un gentil cavallier, bello e cortese»

(Of V, 15, 7) dalla vermiglia armatura che con un elegante

gesto ad arco delle braccia impugna fodero e

spada, mentre le frange della lorica si aprono «come un

fiore di cardo» e il drago, colpito mortalmente, richiude

i rebbi delle ali (Longhi 1940, ed. 1956, p. 127).

La datazione delle tavolette è incerta: alla collocazione

tra il 1470 e il 1480 (Bacchi 1990, p. 6; S.J. Campbell in

Boston 2002, p. 207), è da preferire quella a ridosso

di opere giovanili quali la pala di Ajaccio e il disegno

della Madonna con il Bambino e quattro santi del British

Museum di Londra, del 1460 circa, ancora molto vicine

all’ambiente artistico padovano degli anni Cinquanta

(M. Toffanello in Ferrara 2007, p. 316).

Marialucia Menegatti

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36. Marco Zoppo

Profilo di donna guerriera con elmo, 1448-78

Penna e inchiostro marrone su pergamena, mm 171 x 120

Iscrizione nell’elmo, all’interno del caduceo: PAX

Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings

Inv. PD 1891,0617.25

Provenienza: Londra, collezione Charles Fairfax Murray;

acquisito dal Museo nel 1891.

Bibliografia: Popham e Pouncey 1950, p. 165, n. 265; Ruhmer

1966, p. 68, n. 51; Armstrong 1993, p. 83; H. Chapman

in Londra 1998, p. 69, cat. 17 (con bibliografia precedente);

Fletcher 1999, pp. 86-87.

Il disegno raffigura una giovane donna, di profilo e a

mezzo busto, le spalle leggermente ruotate e il braccio

tronco come a volere riprodurre un frammento scultoreo,

che indossa un elmo su cui sono avvolti morbidi

nastri e da cui fuoriescono i capelli. Le numerose affinità

che il foglio presenta con le teste “all’antica” di guerrieri

e guerriere nel Rosebery Album di Zoppo dello stesso

British Museum confermano l’attribuzione all’artista,

generalmente condivisa dalla critica (H. Chapman in

Londra 1998, p. 69). Dell’accuratissimo disegno, forse

concepito come opera autonoma, colpisce soprattutto

l’elmo che la giovane indossa, una delle tante declinazioni

al tema degli elmi fantastici che contraddistingue

anche il Rosebery Album: il repertorio “romano” messo

a punto da Mantegna, con la visiera, la protezione per la

nuca, un motivo a voluta sopra l’orecchio, nel punto in

cui la visiera è fissata al corpo dell’elmo, si arricchisce in

Zoppo di particolari fantasiosi. In questo caso, la voluta

diventa un serpente con la testa di uomo, la visiera una

sorta di mostro con coda sporgente che sorregge un nano

(Armstrong 1993, p. 83). Il significato del caduceo alato

in cui è leggibile l’iscrizione “PAX” è piuttosto oscuro

(Popham e Pouncey 1950, p. 165); l’ipotesi che il profilo

maschile nella voluta sopra l’orecchio sia l’autoritratto

dell’artista e che l’iscrizione alluda al «pax tibi Marce»

riferito all’evangelista, patrono della città dove Zoppo a

lungo operò e morì (Fletcher 1999, p. 86), è suggestiva

ma forse un po’ troppo ingegnosa. Il disegno di Zoppo

restituisce una delle rare immagini quattrocentesche di

una figura, quella della donna guerriera, che in campo

letterario riscuoteva ampio successo, da Antea e Meridiana

del Morgante di Luigi Pulci, a Bradamante e Marfisa

dell’Orlando innamorato di Boiardo, riprese e sviluppate

da Ariosto nel Furioso. L’indomita Marfisa indossa,

sia in Boiardo che in Ariosto, un elmo che pare memore

delle invenzioni fantastiche di Zoppo: nel cimiero un

drago verde che sputa fuoco secondo la descrizione di

Boiardo (Oi I, 13, 4-5), «sopra l’elmo una fenice» in Ariosto

(Of XXXVI, 17, 8).

Marialucia Menegatti

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37. Bottega di Andrea della Robbia

Scipione l’Africano, primi anni del XVI secolo

Terracotta invetriata, diametro cm 63

Vienna, Kunsthistorisches Museum

Inv. KK491

Provenienza: Firenze, collezione di Tommaso Gherardini,

ante 1798; Battaglia Terme (Padova), Catajo, collezioni

Obizzi, 1798; collezione dell’arciduca Francesco

Ferdinando d’Austria d’Este, 1890; Vienna, Kunsthistorisches

Museum, 1922-23.

Bibliografia: Tormen 2007, pp. 92 note 43-46, 93; Caglioti

2008, pp. 67-83; Caglioti 2011, pp. 520-521; Tormen 2016,

nota 37.

Lo Scipione viennese è giunto al museo austriaco assieme

agli oggetti raccolti da Tommaso degli Obizzi, che lo

acquistò nel 1798 dalla collezione del pittore fiorentino

Tommaso Gherardini (Tormen 2007, pp. 92 e note 43-46,

93). Il tondo raffigura Scipione secondo la moda dei profili

all’antica avviata nella Firenze del secondo Quattrocento,

di cui Desiderio da Settignano fu il maggior

esponente. Nel 1455, questi lavorava a una serie di profili

d’imperatori dell’antichità, probabilmente destinati

al re di Napoli Alfonso il Magnanimo, che nei decenni

successivi vennero reinterpretati da allievi e imitatori.

Gregorio di Lorenzo, uno dei più stretti collaboratori

di Desiderio, nel 1472 scolpì un ciclo di profili analogo,

destinato alla corte di Ferrara, mentre Andrea del Verrocchio,

stando a Giorgio Vasari, intorno al 1477 realizzò

due profili bronzei, raffiguranti Alessandro e Dario,

che Lorenzo il Magnifico inviò al re d’Ungheria Mattia

Corvino. Lo Scipione viennese, incorniciato da una ghirlanda,

deriva da un rilievo rettangolare di marmo conservato

al Louvre (di cui esiste una derivazione in stucco

conservata a Londra al Victoria and Albert Museum),

che può essere stilisticamente inquadrato nella scultura

fiorentina tra Desiderio e Verrocchio (Caglioti 2008, pp.

67-83; Caglioti 2011, pp. 520-521).

Scipione è raffigurato di profilo, vestito di una fantasiosa

armatura, che reca sul petto una testa simile a una

Gorgone. L’elmo, dal quale partono nastrini svolazzanti,

ha una struttura a conchiglia e presenta ricchi ornati e

forme affilate culminanti in riccioli decorativi. Il cimiero

è a forma di drago, le cui ali sono affini allo spallaccio

squamato. Questo tipo di raffigurazione attesta come a

inizio Cinquecento per ritrarre Scipione si ricorresse ai

modelli elaborati dai grandi scultori quattrocenteschi.

Certamente Ariosto conosceva bene gli analoghi rilievi

presenti alla corte estense, specialmente quelli di Gregorio

di Lorenzo, che a Ferrara, prima delle grandi imprese

scultoree di Antonio Lombardo, costituivano un raro

modello di iconografia all’antica.

Paolo Parmiggiani

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38. Iniziale miniata raffigurante il profilo di un condottiero

in Formulario di epistole volgari, settimo decennio del XV secolo

Manoscritto membranaceo miniato, mm 185 x 130

Confezione collocabile tra il 31 ottobre 1461 (data di una delle lettere, f. 60v) e il 12 marzo 1468 (morte del dedicatario,

Astorgio Manfredi)

72 ff. (l’ultimo reciso al margine interno), composto di 10 fascicoli (rispettivamente di 4 ff., 6 ff., 8 ff., 2 ff., 6 ff., 8

ff., 8 ff., 10 ff., 10 ff., 10 ff.)

Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 226, f. 1r

Bibliografia: Gentilini 2006, p. 433; Guernelli 2009, pp.

65-73.

Come si apprende dalla Exhortation de Bartolomio

da Ferrara al libro suo, il quale lo racommandi al principe

a cui se driça (ff. 3v-4r), l’autore di questa raccolta

di modelli epistolari è un Bartolomeo da Ferrara. Un

formulario vicino a questo venne peraltro stampato a

Bologna da Ugo Ruggeri con data 20 aprile 1485 sotto il

nome di Bartolomeo Miniatore con dedica a Ercole d’Este

(IGI 6435), e nuovamente con data 23 giugno sotto

il nome di Cristoforo Landino (IGI 5650). È verosimile

che autore della raccolta e miniatore del manoscritto

coincidano e, sul finire degli anni Novanta, Massimo

Medica ha suggerito che questo sia da identificare nel

ferrarese Bartolomeo da Benincà, il quale soggiornò a

tratti a Bologna durante il settimo decennio del Quattrocento

(Medica 1997, p. 74; Medica 1998, p. 77).

Il profilo di condottiero racchiuso nell’iniziale non

sembra ritrarre Astorgio Manfredi, vista la poca somiglianza

fisiognomica con il busto di Mino da Fiesole

conservato alla National Gallery di Washington. Si

tratta piuttosto di una fantasia, affine ai profili verrocchieschi

degli stessi anni. Con riguardo a questi –

peraltro divulgati in numerosi nielli bolognesi –, va detto

che erano certamente familiari ad Ariosto: il manoscritto

parigino della raccolta epigrafica di Michele Ferrarini

reca la testimonianza di un rilievo pseudo-antico con

profilo di condottiero appartenente alla stessa tipologia

incassato in un muro del duomo di Reggio (lat. 6128, f.

5r), tuttora conservato (CIL XI-1, n. 127).

Adolfo Tura

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39. Antonio Averlino detto Filarete

Ettore a cavallo, 1456

Bronzo, cm 27,5 x 25,5 x 12,5

Sul fronte della base: hector hic est priami trovm / frotissimvs heros et danais / terror primvs / qvo concidit

/ hercles dardaniae lvcem (il testo s’interrompe); all’interno della base: opvs antoni / 1456

Madrid, Museo Arqueológico Nacional

Inv. 52173

Provenienza: Madrid, Museo de Antiguedades de la

Biblioteca Nacional, almeno dal 1847 e fino al 1867;

Museo Arqueológico Nacional, dal 1867.

Bibliografia: Keutner 1964, pp. 139-156; Coppel 1987, pp.

801-804; H. Keutner in Berlino 1995, pp. 134-135, cat. 3;

A. Litta Modignani in Brescia 2003, pp. 140-141, cat. 25.

Secondo le genealogie cortigiane estensi (di cui tanto

Boiardo nell’Innamorato che Ariosto nel Furioso dettero

le proprie versioni), la stirpe dei signori di Ferrara risaliva,

tramite il pagano Ruggiero, nientemeno che al leggendario

Ettore omerico e a suo figlio Astianatte, il quale

anziché venir ucciso per estinguere definitivamente la

linea paterna, come narrano le fonti più note, si sarebbe

salvato riparando in Sicilia e lì avviando, appunto, una

propria discendenza. Il valoroso principe troiano, già

celebrato da Virgilio nell’Eneide, conobbe grande fortuna

anche per tutto il lungo Medioevo cortese specie

in Francia, figurando tra l’altro all’inizio della serie dei

Neuf Preux, cioè il più famoso canone eroico profano del

mondo cavalleresco (Donato 1985).

Un poemetto franco-italiano in ottonari, Le Roman

d’Hector et d’Hercule, composto tra la fine del XIV e il

primo quarto del XV secolo e diffuso in area padana (Le

Roman... 1972; il codice da cui è tratta l’edizione, ora a

Parigi, BnF, Fr. 821, è attestato nella biblioteca viscontea

di Pavia sin dal 1426, Albertini Ottolenghi 1991), raccontava

di come l’eroe da giovane avesse sfidato a duello e

ucciso addirittura il gigantesco Ercole, colpevole dell’assassinio

di suo nonno Laomedonte: come è stato dimostrato

da Herbert Keutner, è proprio questo episodio ad

essere illustrato ai lati della base del fierissimo Ettore a

cavallo oggi a Madrid, che lo studioso attribuiva magistralmente

a Filarete su base stilistica (attribuzione puntualmente

confermata vent’anni più tardi col ritrovamento

di firma e data: Keutner 1964, Coppel 1987; ancora

Keutner in Berlino 1995, pp. 134-135, cat. 3 e ora anche

Litta Modignani in Brescia 2003, pp. 140-141, cat. 25).

Considerando la raffinata rarità del soggetto e l’eleganza

piena d’energia della sua fattura, è chiaro che il

bronzetto venne prodotto per un committente d’alto

rango. Filarete, che nel 1465 doveva donare a Piero de’

Medici l’altro suo cavaliere di piccolo formato (il ben più

antiquario Marco Aurelio oggi a Dresda: A. Nesselrath

in Roma 2005, pp. 312-313, cat. III.2.2), l’indirizzò nel

1456 probabilmente a Francesco Sforza, magari a ideale

risarcimento del fallito progetto di monumento equestre

a grande scala che a Cremona solo due anni prima

si era voluto dedicare al neo Signore di Milano, sempre

per sua mano (Visioli 2008); oppure al primogenito di

lui, Galeazzo Maria, che quando l’opera veniva modellata

aveva pressoché l’età dell’enfant Hector. L’elegante

armatura indossata dal giovane guerriero e la sua sella

decorata, entrambe alla moderna, sottolineano come

l’eroe antico fosse termine di paragone per il valore del

destinatario dell’oggetto, evidentemente in grado di

superare una prova immane (qui la lotta con un gigante,

per giunta semidio) pur in condizione di svantaggio (per

età e stazza): il tema, certo caro ad un condottiero divenuto

duca e alla sua casata, ritorna in un altro bronzo

filaretiano di soggetto omerico, la placchetta con la

Lotta di Ulisse e Iro, che andrà pertanto datata anch’essa

al periodo milanese dell’artista (M. Leithe-Jasper in

Washington, Los Angeles e Chicago 1986-87, pp. 48-50,

cat. 1, Cannata 1989, S.G. Casu in Atene 2004, pp. 162-163,

cat. I.49 e C. Kryza-Gersch in Firenze 2006, pp. 202-203,

cat. 114).

Maria Beltramini

112 113



40. Albrecht Dürer

Odoberto d’Asburgo (recto), due figure maschili (verso), 1515-16

Penna bruna su carta, mm 252 x 156

Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett

Inv. 4260

Provenienza: Berlino, Kupferstichkabinett, acquisito nel

1986.

Bibliografia: Oberhammer 1935; Anzelewsky 1986, pp.

67-73; Koreny 1989, pp. 127-148; Wood 2005, pp. 1160-

1165; Silver 2008, pp. 70, 251 nota 106.

Il disegno sul recto del foglio è lo schizzo di un personaggio

in armatura, che la nota manoscritta in basso a

destra identifica con “Ottoprecht Fürst”, ossia Odoberto

d’Asburgo (Koreny 1989, p. 127). La storiografia artistica

ha ricondotto l’immagine a una serie di studi che

Albrecht Dürer realizzò per le statue bronzee volute

da Massimiliano I d’Asburgo per la propria tomba nella

Hofkirche di Innsbruck. La figura è simile a quella di

Alberto d’Asburgo abbozzata da Dürer su un foglio conservato

alla Walker Art Gallery di Liverpool (oggi in

cattivo stato di conservazione e conosciuto attraverso

riproduzioni fotografiche), la cui traduzione in bronzo

nel monumento fa comprendere quale fosse la destinazione

di questi disegni. Rispetto al progetto iniziale

di quaranta statue che dovevano raffigurare la genealogia

imperiale asburgica (secondo la concezione del

giurista Jakob Mennel), alla fine ne furono realizzate

ventotto, tra le quali non è presente quella di Odoberto

(Oberhammer 1935; Koreny 1989, pp. 127, 146-148).

Il foglio testimonia l’attenzione di Dürer per la raffigurazione

delle armature e, più in generale, degli abiti, come

attesta anche il verso, che ritrae due figure maschili in

vesti italiane. Come indicato dalla nota manoscritta dello

stesso artista sulla parte alta del foglio, il disegno deriva

da un ritrovamento archeologico avvenuto nel 1516 a

Celje, in Slovenia, ossia una statua di pietra che, verosimilmente,

raffigurava un personaggio vestito di corazza

(Koreny 1989, p. 127; Wood 2005, pp. 1160-1165). I caratteri

derivati da ricerche archeologiche e da modelli antichi

e medievali, così come da un gusto fantastico molto

affine agli esiti dei pittori e degli scultori italiani (e che

ritroviamo nell’immaginazione multiforme di Ariosto),

sono rivelatori dell’arte düreriana. Sebbene il monogramma

AD dell’autore e la data 1515 paiano aggiunti

in epoca successiva alla realizzazione del disegno, in

discordanza con la data 1516 riferita al ritrovamento

sloveno (Koreny 1989, pp. 127-130), non v’è motivo di

dubitare che questo disegno sia legato alla complessità

dei lavori che nel terzo lustro del Cinquecento il pittore

avviò per celebrare e raffigurare la genealogia imperiale,

culminanti nel celebre Arco trionfale (1515-17) composto

di 192 xilografie.

Paolo Parmiggiani

114 115



41. Le battaglie del Danese

Milano, Giovann’Angelo Scinzenzeler, 12 maggio 1513. 4°

Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Sammlung von Handschriften und alten Drucken, *35.S.70

Bibliografia: Kristeller 1913, n. 125,2; Balsamo 1959, n.

109.

Questa edizione del Danese, uno dei poemi cavallereschi

di maggiore popolarità nella stagione precedente

all’apparizione del Furioso (si veda Villoresi 1994; Villoresi

2005, pp. 38-74), presenta al titolo la figura stante

di un uomo d’arme. Il legno è di notevole qualità e difficilmente

collegabile alla restante produzione milanese

di primo Cinquecento. È stato Lamberto Donati a

osservare l’affinità, anzitutto fisiognomica, della figura

in questione con il noto disegno a punta d’argento di

Leonardo del British Museum raffigurante il profilo di

un guerriero (1895,0915.474): «L’eroe catafratto, uscito

vittorioso dalla battaglia, si riposa appoggiandosi allo

scudo e brandendo la spada con gesto retorico. Caratteristico

è il lungo corsaletto, non a maglia di ferro ma a

piastre rettangolari. Ancor più caratteristica è la faccia

dall’espressione feroce: il labbro inferiore prominente,

il mento scavato, il naso ondulato e allungato colle

profonde pliche naso-labiali, il sopracciglio corrugato

e lo sguardo nel vuoto. Tutta la faccia magra e rugosa

esprime lo sforzo della lotta recente e la profonda stanchezza;

soprattutto ci dice che ci troviamo in presenza

d’un ritratto, che ora non possiamo riconoscere ma che

ai contemporanei era noto. Lo rivediamo in un superbo

disegno di Leonardo conservato nel Museo Britannico»

(Donati 1963, pp. 121-122). Per la verità il naso mostra

una rispondenza assai più notevole col profilo di Dario

in stucco già al Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino

(disperso nel 1945), copia di un originale verrocchiesco

inviato a Mattia Corvino (Caglioti 2011, p. 546)

Quello che si espone è, per dimensioni e freschezza, il

più bell’esemplare conservato di questo prezioso libro.

L’esemplare della Biblioteca Nazionale Braidense (AB.

XI.35) è privo della prima carta, recante la pagina di

titolo; in quello della British Library (C.62.b.10) la stessa

carta è rifilata, mentre nel volume della Bibliothèque

nationale de France (Rés. Yd 224, con nota di possesso di

Jacopo Corbinelli), la silografia è scarabocchiata.

Adolfo Tura

116 117



42. Antonio Lombardo

Marte, c. 1513-15

Marmo, cm 44,9 x 36,8 x 10

Modena, Galleria Estense. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. 2054

Provenienza: Ferrara, collezioni Estensi, c. 1513-15 (?),

documentato nel 1629; Modena, Villa Pentetorri, 1684;

Modena, Palazzo dei Musei, 1894.

Bibliografia: Markham Schulz 1998, pp. 76, 242-243; A.

Sarchi in Ferrara 2004b, pp. 265-267, cat. 67; D. Gasparotto

in Torino 2014, p. 116, cat. 12; Farinella 2014a, pp.

389-398.

Il Marte, attribuibile ad Antonio Lombardo, è documentato

nelle collezioni estensi fin dal 1629. Verosimilmente, fu

scolpito nel secondo decennio del Cinquecento, durante il

ducato di Alfonso I, in armonia con i temi mitologici del

Camerino d’alabastro del Castello ferrarese. La storiografia

artistica ha anche proposto di riferirlo a Giammaria

Mosca (o a uno scultore della sua cerchia, si veda Markham

Schulz 1998) e ad Aurelio Lombardo (A. Sarchi in

Ferrara 2004b, pp. 265-267, con una datazione al 1525).

L’opera è un mezzorilievo marmoreo raffigurante Marte

nudo accanto alle armi e agli abiti militari. Il dio è seduto

su un plinto, che reca un’iscrizione in esametro: «NON

BENE MARS / BELLVM POSITA NI / SI VESTE MINIS /

TRO» (Io, Marte, non guerreggio bene se non ho deposta

la veste). Verosimilmente, il tema guerresco di Marte

poteva essere accompagnato da un pendant, quale il

rilievo bronzeo lombardesco raffigurante la Pace conservato

alla National Gallery of Art di Washington (forse

derivato da un originale marmoreo). Questa ipotesi troverebbe

rispondenza storica nel cessato conflitto tra il

ducato di Ferrara e il papato – e nel periodo di tranquillità

che seguì la morte di Giulio II, avvenuta nel 1513 –

e porterebbe a datare il rilievo a questi anni. In base a ciò,

è plausibile che l’opera fosse destinata alla Delizia del

Belvedere, ove circa un decennio dopo, Dosso Dossi, nel

ritrarre Giove pittore di farfalle (Fig. 56), avrebbe potuto

rifarsi al Marte per la figura di Mercurio seduto accanto a

Giove (Farinella 2014a, pp. 389-398).

Un’ipotesi alternativa vede nell’opera il riferimento a

una battaglia amorosa, e pertanto un diverso pendant,

plausibilmente una Venere, richiamando dunque il mito

del tradimento di Venere e Marte ai danni di Vulcano. La

postura del dio presenta molte analogie con quella dell’incisione

Venere, Marte e Cupido realizzata da Marcantonio

Raimondi nel 1508 (A. Sarchi in Ferrara 2004b, p. 266).

Il mito era presente nella cultura figurativa estense, dato

che compariva già nel Settembre degli affreschi nel Salone

dei Mesi a Schifanoia, completato nel 1470. Rispetto ai

modi propri dei pittori attivi alla corte ferrarese di Borso

d’Este, il Marte estense è improntato alla cultura antiquaria

cinquecentesca di cui Antonio Lombardo era finissimo

interprete. La fortuna del racconto al tempo di Alfonso I è

riflessa nelle rime dell’Orlando furioso e nell’abile fusione

dei temi cavallereschi e mitologici elaborata da Ariosto.

Nel quindicesimo canto del poema, ricco di riferimenti

storici e politici, si narra della rete fabbricata da Vulcano

per catturare gli amanti, la quale, giunta poi in Egitto nelle

mani del gigante Caligorante, è recuperata da Astolfo e da

questi ceduta al degno Sansonetto da Meca (moro convertito

da Orlando al cristianesimo), «giovene gentil […] oltre

l’etade, / ch’era nel primo fior, molto prudente; / d’alta

cavalleria, d’alta bontade / famoso, e riverito fra la gente /

[…] Avea in governo egli la terra, e in vece / di Carlo

[Magno] vi reggea l’imperio giusto» (95, 2-6; 97, 1-2), che

riecheggia non casualmente la figura, le virtù e il ruolo

attribuiti dal poeta al duca Alfonso: «ch’in così acerba età,

che non eccede / dopo il vigesimo anno ancora il sesto, /

l’imperator [Carlo V] l’esercito gli crede» (29, 3-5).

Paolo Parmiggiani

118 119



43. Agostino Busti detto Bambaia

Lesena con trofei, 1515-23

Marmo, cm 96,5 x 31 x 9

Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica. Su concessione della Fondazione Torino Musei

Inv. 466/PM

Provenienza: Milano, Santa Marta, 1516-1631; Torino,

Palazzo Reale, 1631; Torino, Museo Civico, 1871.

Bibliografia: Vasari 1568 (ed. 1984), V, pp. 433-434; Mallé

1965, pp. 175-176; Agosti 1990, pp. 9, 147; Fiorio 1990, pp.

54-55; Zani 2012, pp. 161-163; Cupperi 2013, pp. 35-36.

La lesena appartiene al monumento di Gaston de Foix

dello scultore lombardo Agostino Busti, detto Bambaia,

destinato al convento di Santa Marta a Milano, rimasto

incompiuto e poi smembrato nel Seicento. Gaston, duca

di Nemours, nipote del re francese Luigi XII, nel 1512

morì ventitreenne nella Battaglia di Ravenna alla guida

dell’alleanza, di cui faceva parte anche Alfonso I con la

sua artiglieria, contro la Lega Santa di papa Giulio II.

All’episodio bellico Ariosto dedicò alcune ottave dell’Orlando,

rievocando l’uccisione in battaglia del capitano

francese: «Quella vittoria fu più di conforto / che d’allegrezza;

perché troppo pesa / contra la gioia nostra il

veder morto / il capitan di Francia e de l’impresa» (XIV,

6, 1-4). Il monumento fu commissionato da Francesco I,

che volle onorare Gaston con un’opera di grande fasto

e impegno scultoreo. La qualità degli intagli marmorei

è esaltata da un celebre passo delle vite di Giorgio

Vasari, che, impressionato, lo esaminò a lungo: «E per

dirlo brevemente, ell’è tale quest’opera, che mirandola

con stupore, stetti un pezzo pensando se è possibile

che si facciano con mano e con ferri, sì sottili e maravigliose

opere, veggendosi in questa sepoltura fatti con

stupendissimo intaglio fregiature di trofei, d’arme di

tutte le sorti, carri, artiglierie e molti altri instrumenti

da guerra» (Vasari 1568, ed. 1984, V, pp. 433-434). Le

parole del biografo aretino descrivono espressamente i

motivi all’antica della lesena, la quale, assieme ad altre

simili, intervallava rilievi figurati dedicati alle imprese

di Gaston. Nello spirito cavalleresco ormai tramontato, i

trofei della lesena ricordano passi dell’Orlando dedicati

alla commemorazione di grandi guerrieri: «Tristano, /

Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano, / et altri cavallieri

e de la nuova / e de la vecchia Tavola famosi: / restano

ancor di più d’una lor pruova / li monumenti e li trofei

pomposi» (IV, 52-53); ma anche il perduto senno di

Orlando, la dissoluzione delle sue virtù di cavaliere

manifestatasi con l’abbandono delle vesti, del cavallo,

delle armi: «Vide [Fiordiligi] con gli occhi il miserabil

caso, / e n’ebbe per udita anco novella; / che similmente

il pastorel narrolle / aver veduto Orlando correr folle. /

Quivi Zerbin tutte raguna l’arme, / e ne fa come un bel

trofeo su’ n pino; / e volendo vietar che non se n’arme /

cavallier paesan né peregrino, / scrive nel verde ceppo in

breve carme: / – Armatura d’Orlando paladino» (XXIV,

56-57).

Paolo Parmiggiani

120 121



44. Giorgio da Castelfranco detto Giorgione

Ritratto di guerriero con scudiero detto “Gattamelata”, c. 1501

Olio su tela, cm 90 x 73

Firenze, Galleria degli Uffizi. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. 1890 n. 911

Provenienza: Firenze (?), casa de’ Nobili (Vasari 1568, ed.

1976, IV, p. 43); Urbino (?), Palazzo Ducale, fino al 1631;

Praga, collezione del Castello, 1718; Vienna, Gallerie Imperiali,

1781; Firenze, Galleria degli Uffizi, dal 1821.

Bibliografia: A. Ballarin in Parigi 1993, pp. 313-316 (con

bibliografia precedente); Lucco 1995, p. 95; Anderson 1996,

p. 326; S. Ferino-Pagden in Vienna 2004, pp. 208-211; Dal

Pozzolo 2009, pp. 168, 174 (con bibliografia precedente); S.

Facchinetti in Londra 2016, pp. 56-57.

Il giovane condottiero che, con un intreccio sofisticato

delle braccia, sostiene l’elsa preziosa dello spadone e indica

la celata sul primo piano, mentre alle spalle lo scudiero di

profilo regge l’asta dello stendardo e gli porta la “barbozza”

(altro componente dell’armatura), rappresenta forse Clito,

amico fraterno e luogotenente di Alessandro Magno, che

si affretta a montare a cavallo (gli speroni sono sul davanzale)

per andare in guerra e domanda l’elmo all’armigero. Si

tratterebbe, seguendo un’ipotesi assai suggestiva, del rifacimento

moderno di un dipinto di Apelle, in base all’ecfrasi

di un passo di Plinio, noto dal volgarizzamento del Landino

(Ballarin 1979, pp. 8-10). Al magistero del grande pittore

greco si ispirano, secondo la medesima lettura, la resa

luministica e, in particolare, i riflessi sulle armature che

culminano nel virtuosismo della linea sottile sulla mazza

in primo piano, restituzione quasi “filologica” della tecnica

dello splendor, ovvero della costruzione della forma e del

rilievo tramite la luce, e del potenziamento e controllo di

tali effetti attraverso l’atramentum, una vernice nera trasparente

che – sempre in base alla lezione pliniana – aveva

anche la funzione di conservare la pittura. Questa interpretazione,

stimolata da un magistrale saggio di Gombrich

(1976), colloca il dipinto in una stagione precisa della storia

di Giorgione, di seguito all’incontro con Leonardo a Venezia

nel 1500 e alle nuove problematiche da questi sollevate in

merito alla diversa natura della luce (lo splendor contrapposto

al lumen), all’eredità degli antichi e al paragone pittura/

scultura. Questo capitolo cruciale nella storia dell’artista e

dell’avvio della Maniera moderna in laguna, si apre con la

pala di Castelfranco (1500), dove il santo in armatura costituisce

un primo esercizio sul tema, e promuove negli anni

successivi l’invenzione di una nuova ritrattistica “neoplatonica”

e “stilnovista”, maturata a contatto con l’ambiente

cortigiano e letterario della “Compagnia degli amici”, celebrato

anche nella poesia del giovane Pietro Bembo. Rispetto

alle teste verrocchiesche all’antica, vicine alla tradizione

umanistica della scultura o delle medaglie (Tav. 37), il volto

fiero e androgino di questo condottiero, l’eleganza dei suoi

gesti e la ricercatezza della luce esemplificano un diverso

ideale, cavalleresco e romantico, giocato sul registro della

grazia (la proverbiale charis di Apelle), della bellezza stilizzata

e del languore sentimentale cari all’estetica cortigiana,

così come la preziosa armatura, offerta sul primo piano

all’esercizio dei lustri. Giorgione fonda in questo modo

una nuova tipologia di ritratto d’uomo in armi destinata ad

ampia fortuna nel Cinquecento e che, sotto molti aspetti,

ci appare sottesa all’immaginario figurativo e all’orizzonte

formale e di linguaggio del primo Furioso.

Come la maggior parte delle opere del maestro di Castelfranco,

il dipinto ha avuto una vicenda critica tormentata

e tuttora controversa, sebbene sia stata ricondotta all’ambito

giorgionesco da un’autorevole tradizione di studi (sulla

linea indicata da Justi 1908 e 1926; proseguita da Longhi

1946, ed. 1978; Ballarin 1979, 1983 e in Parigi 1993, pp. 313-

316), mentre la discussione è declinata ai margini intorno

all’eventualità che si tratti di un originale (concordi Lucco

1990, p. 89, e 1995, p. 95, e Dal Pozzolo 2009, pp. 168, 174),

una copia o una derivazione da parte di un seguace del

decennio successivo (per esempio Anderson 1996, p. 326,

Ferino-Pagden in Vienna 2004, pp. 208-211). La recente

esposizione della tela a Londra tra il Francesco Maria della

Rovere di Vienna e il Doppio ritratto di Palazzo Venezia,

appare a chi scrive una conferma, contrariamente ai dubbi

espressi in catalogo (Facchinetti in Londra 2016, pp. 56-57),

dell’autografia e della sequenza strettissima di queste opere

entro una fase sperimentale e pre-tizianesca della pittura

moderna che si gioca nei primissimi anni del secolo. Tra i

possibili confronti interni si può far caso a come nel Della

Rovere, più vicino alla pala di Castelfranco (S. Ferrari in

Padova 2013, pp. 193-194), l’elmo presenti qualche retaggio

ancora “fiammingo” nella decorazione e nella specchiante

lucentezza, rispetto a quello del nostro condottiero, in cui

l’artista si misura più decisamente con la tecnica della pittura

antica.

Barbara Maria Savy

122 123



45. Vincenzo Catena

Giuditta con la testa di Oloferne, c. 1525

Olio su tela, cm 81,5 x 64

Venezia, Fondazione Querini Stampalia

Inv. 1/72

Provenienza: Venezia, Giovanni Querini Stampalia,

legato del 1868.

Bibliografia: Crowe e Cavalcaselle 1871 (ed. 1912), I, p.

262; Berenson 1894; Burckhardt 1898 (ed. 1995), vol.

IV, p. 137; Jacobsen 1909, pp. 217-218; Venturi L. 1913,

p. 228; Venturi 1915, p. 568; Pinacoteca 1925, p. 45;

Venturi L. 1928, p. 51; Van Marle 1936, p. 400; Venezia

1945, p. 71, cat. 78; Waterhouse 1952; Robertson 1954,

pp. 36, 67; Venezia 1955, p. 148, cat. 66; Berenson 1957, I,

p. 63; Heinemann 1962, III, p. 105; Mucchi 1978, p. 70;

Pignatti 1978, pp. 72, 151; Anderson 1979, p. 157; Dazzi e

Merkel 1979, p. 37; Anderson 1997, p. 318; Daniele 2000,

p. 59; Daniele et al. 2000, p. 4; Reineke 2003, p. 43; Dal

Pozzolo 2006, pp. 83-104 (con bibliografia precedente);

Kaplan 2007, p. 291; Dal Pozzolo 2009, p. 291.

Dalle nobili Bradamante e Marfisa, esperte nelle arti

cavalleresche, alle più ostili e selvagge donne d’Alessandria,

le guerriere che popolano il mondo dell’Innamorato

e del Furioso rispondono ad un topos largamente

attestato nella tradizione romanza, del quale è

stata già rilevata la discendenza da modelli mitologici

e di storia antica che Ariosto volutamente rievoca

(Minerva, le bellicose Amazzoni, le donne di Lenno o le

sette eroine del canto XXXVII, 5), nella prospettiva di

un’abile contaminazione tra leggende medioevali, elementi

classici e riferimenti alla storia contemporanea

(si vedano dopo Rajna 1900, ed. 1975, pp. 31-35, 163-165,

almeno Baldan 1981; Musacchio 1983, pp. 141-145; e i più

recenti Andres 2001, pp. 150-153; Farnetti 2004, p. 379).

Nell’immaginario e nelle arti figurative rinascimentali

un altro ideale di donna guerriera, dotata di virtù

e coraggio unite a beltà e fascino seduttivo, è quello

di Giuditta, in questo caso raffigurata con un assetto

compositivo di tre quarti e a mezza figura di chiara

matrice giorgionesca, come notato già da Carlo Ridolfi

(1648, ed. 1914-24, I, p. 83), e che si è ritenuto derivi da

un originale perduto del maestro di Castelfranco. Una

Giuditta a mezza figura «lavorata su la via di Giorgione

con spada in mano e il capo d’Oloferne» fu vista,

infatti, in casa di Bartolomeo della Nave a Venezia dal

Ridolfi che la ritenne opera di Vincenzo Catena. Lo

stesso dipinto passò nella collezione dell’arciduca Leopoldo

e poi a Vienna con un’attribuzione alternante tra

Catena e Giorgione, per finire sotto il più celebre nome

del secondo nella traduzione a stampa incisa da Lucas

Vorsterman per il Theatrum pictorium di David Teniers

(1658, pl. 13). Quella Querini Stampalia è oggi dai più

ritenuta una variante dell’esemplare già a Vienna che

sarebbe dunque perduto, anche se le differenze con

la riproduzione a stampa (soprattutto nell’abito della

donna) potrebbero essere imputabili all’incisore che

spesso traeva spunto non dagli originali, ma da copie

dello stesso Teniers. Le misure riportate negli inventari

(palmi 3 x 4; Waterhouse 1952, pp. 1-23) e sulla

stampa (palmi 4 x 5), d’altronde, non sembrano poi così

discoste dal dipinto oggi a Venezia, essendo suscettibili

di diverse interpretazioni a seconda della misura

del palmo.

L’opera di Catena riprende, in ogni modo, nella dolcezza

idealizzata del viso e nel modo in cui la donna si

pone oltre il parapetto con la mano sul grande spadone,

invenzioni di certa paternità giorgionesca, nel genere

dei ritratti in armi o del David con la testa di Golia, documentato

dalla copia oggi a Vienna (Anderson 1979, pp.

156-157; Dal Pozzolo 2006, p. 83 e 2009, p. 291 che nota

nella stessa testa di Oloferne una citazione dalla Giuditta

a figura intera di Giorgione, oggi all’Ermitage di

San Pietroburgo). L’impianto largo della figura, girata

di tre quarti e il rapporto con la finestra aperta sul paesaggio

guardano altresì, senza mai dismettere del tutto

la lezione belliniana, ad esempi della pittura lagunare

del secondo decennio del secolo e alla fortuna del tema

delle mezze figure femminili tra Tiziano, Sebastiano

del Piombo e Palma il Vecchio, cui si riferisce un’antica

iscrizione sul verso della tavola (Robertson 1954,

p. 67). Rispetto alla ricostruzione del percorso dell’artista,

la datazione si è orientata verso la fase estrema

caratterizzata da una sorta di «neogiorgionismo classicizzante»

(M. Lucco in Parigi 1993, p. 274), con consistenti

oscillazioni tra la prima e la seconda metà del

terzo decennio del secolo (si veda Dal Pozzolo 2006, p.

103 nota 201).

Barbara Maria Savy

124 125



46. Spada detta “di Boabdil”, fine del XV secolo

Ferro forgiato, inciso e dorato, legno intagliato, cm 85 x 12 x 4

Parigi, Musée de l’Armée

Inv. 680 P0

Provenienza: antica collezione di Georges Pauilhac;

acquisita dal Musée de l’Armée, 1964.

Bibliografia: Parigi 2011, pp. 37, 66.

Quando Ariosto descriveva gli epici combattimenti tra i

Mori e i paladini di Carlo Magno, la presenza musulmana

nell’Europa occidentale era ancora di assoluta attualità.

Erano trascorsi soltanto ventiquattro anni dalla caduta

del sultanato dei Nasridi di Granada nelle mani dei

sovrani cattolici e la resa il 2 gennaio 1492 del suo ultimo

emiro, Maometto XII (noto in Europa come Boabdil),

figurava ancora nelle cronache.

L’eco di questi avvenimenti, che coincisero con l’inizio

dell’espansione mondiale della Spagna, è durata fino ai

nostri giorni e la maggior parte delle spade dei Nasridi a

noi pervenute sono ancor oggi arbitrariamente assegnate

a Boabdil, che ha legato il proprio nome a questo genere

di arma del tutto caratteristico.

Questa prestigiosa, per quanto erronea, attribuzione è

toccata in sorte anche all’esemplare del Musée de l’Armée,

così come a quelli conservati alla Bibliothèque nationale

de France, a Parigi, e alla Real Armería di Madrid.

Queste spade a lama dritta, dette jineta, sono spesso

sontuosamente decorate e a renderle riconoscibili è la

particolare conformazione dell’elsa: le due estremità del

gavigliano escono dalla bocca di una genetta (un piccolo

mammifero maculato) per scendere parallelamente alla

lama, e i pomelli sferici si prolungano ciascuno in un elemento

conico. Tali armi evocano quell’aristocrazia cavalleresca

musulmana che si contrappose a quella cristiana,

pur condividendo con essa gli stessi ideali legati alla corte,

al valore e all’onore.

Olivier Renaudeau

126 127



IL

MERAVI-

GLIOSO



47. Paolo di Dono detto Paolo Uccello

San Giorgio e il drago, c. 1440

Tempera su tavola, cm 52 x 90

Parigi, Musée Jacquemart-André, Institut de France

Inv. MJAP-P 2248

Provenienza: Firenze, antiquario Stefano Bardini, almeno

dal 1890 fino al 1899 (Scalia e De Benedictis 1984, p. 102);

Londra, vendita della collezione Bardini, 7 giugno 1899:

«Paolo Uccello. St. George and the Dragon: a view of a

town in the back-ground, and an extensive garden in the

middle distance. On panel - 23 ½ in. by 40 in.» (Catalogue...

1899, p. 72, n. 488); Parigi, collezione Nélie Jacquemart

(1841-1912), dal 1899; Parigi, Musée Jacquemart-André.

Bibliografia: Vasari 1568 (ed. 1971), III, p. 69; Loeser 1898,

p. 89; Tongiorgi Tomasi 1971, p. 98; Beck 1979, p. 3; Sberlati

1994, p. 83; Berti 2004, p. 11; Hudson 2008, pp. 295-297, n.

27 (con bibliografia precedente); Sainte Fare Garnot 2013,

p. 44.

Il dipinto, appartenuto alla collezione fiorentina dell’antiquario

Bardini (Sainte Fare Garnot 2013, p. 29) fu venduto

nel 1899 con l’attribuzione a Paolo Uccello avanzata da

Loeser l’anno prima e da allora generalmente condivisa

dalla critica (Loeser 1898, p. 89; Hudson 2008, pp. 295-

297), propensa a ritenere l’opera completamente autografa,

ma divisa sulla sua datazione e su come scalare

crolonogicamente la tavola parigina rispetto alle altre

versioni dello stesso soggetto realizzate dal pittore, il San

Giorgio della National Gallery di Londra e quello della

National Gallery of Victoria di Melbourne. Anche l’ipotesi

di connettere il quadro parigino alla tavola eseguita da

Paolo Uccello nel 1465 per il mercante fiorentino Lorenzo

di Matteo Morelli (Beck 1979, p. 3; Hudson 2008, p. 391, n.

46) non trova concordi gli studiosi; con ogni probabilità la

tavola parigina è comunque un esempio della produzione

evidentemente copiosa di quadri di piccole dimensioni

riservata ai privati, tanto che Giorgio Vasari testimoniava,

un secolo dopo, che «in molte case di Firenze sono assai

quadri in prospettiva per vani di lettucci, letti ed altre

cose piccole»» di Uccello (1568, ed. 1971, III, p. 69).

Il San Giorgio mette in scena il noto episodio tratto dalla

Legenda aurea di Jacopo da Varagine, in cui si narra che

il pestifero drago che da tempo costringe la città libica

di Selene a sacrificargli pecore e giovani estratti a sorte

viene trafitto dal cavaliere Giorgio proprio mentre si

appresta a divorare la figlia del re. In primo piano, di

profilo, i tre protagonisti, la principessa che in piedi assiste

alla scena con le mani giunte in atto di preghiera, il

drago con le ali spiegate e la bocca spalancata entro cui si

è confitta la lancia, Giorgio rivestito dell’armatura, in sella

a un cavallo bianco bardato di rosso. L’imponente massa

della caverna, tana del drago, separa il primo piano dallo

sfondo, dividendo in due la successione di campi coltivati

attraversata sulla sinistra dal lungo viale che conduce

alla città circondata da mura e inerpicata sulla collina. La

particolarità della costruzione spaziale contribuisce ad

accentuare l’atmosfera da favola del dipinto (Berti 2004,

p. 11), quasi il pittore voglia creare «an Alice-in-Wonderland-like

world» (Hudson 2008, p. 227): le tre figurine

sono come stilizzate e congelate nelle loro movenze, l’esile

principessa straordinariamente composta, il drago più

spaventato che spaventoso, il cavaliere colpisce la bestia

senza alcuno sforzo, come se non ci fosse stata tra loro

battaglia. Semplificata di qualsiasi elemento possa distogliere

dalla scena rappresentata in primo piano, e tuttavia

fitta di un complicato simbolismo allusivo alla vittoria del

bene sul male, della luce sulle tenebre, la tavola parigina

«straordinariamente moderna, davvero paleosurrealista»

costituisce, assieme a quella londinese, «l’archetipo di

tutti i San Giorgio del Rinascimento con tanto di drago

annesso» (Sberlati 1994, p. 83). In nuce sono qui racchiusi

anche i grandi temi dell’immaginario ariostesco: raffigurato

senza nimbo, il cavaliere Giorgio anticipa i tanti

“cavallier” «di bello armato e lucido metallo» (XLII, 53, 2)

che popolano il Furioso, il drago le orribili creature che

minacciano cavalieri e donzelle, come lo «strano mostro»

con la coda a forma di «lungo serpe» che combatte contro

Rinaldo e che esce «fuor d’una caverna oscura» (XLII, 46,

7), la principessa precorre le figure di Angelica e Olimpia,

sottratte alle fauci di un’orrenda creatura dal salvifico

intervento di Ruggiero e Orlando. La croce rossa sull’armatura

del santo ribadisce il ruolo tradizionalmente

attribuito a Giorgio, che converte la pagana Selene al

cristianesimo e salva la fanciulla dal drago, di difensore

e paladino della cristianità, e trova naturalmente corrispondenza

nel grande tema che fa da sfondo e da filo

conduttore del Furioso, la guerra tra l’esercito cristiano di

Carlo Magno e quello saraceno di Agramante.

Marialucia Menegatti

130 131



48. Jean d’Arras

Le Livre de Mélusine

Ginevra, Adam Steinschaber, agosto 1478. 2°

Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, XV.IV.20

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Si espone la prima edizione a stampa del romanzo di

Jean d’Arras (GW 12649; Lökkös 1978, n. 2; IGI 5098), i

cui legni sono ispirati a quelli della precedente edizione

del testo tedesco di Thüring von Ringoltingen, compiuta

a Basilea nella tipografia di Bernhard Richel (GW

12656, Harf-Lancner 1989b; Bock 2013). Si tratta del

primo romanzo francese a stampa. L’esemplare torinese

è privo della prima e dell’ultima carta (entrambe

bianche), nonché della penultima recante il colophon.

Già Rajna ipotizzò una conoscenza della Mélusine da

parte di Ariosto (Rajna 1900, pp. 586-587), in particolare

per ciò che concerne la leggenda della trasformazione

delle fate in serpi (immancabile nell’iconografia

melusiniana, si veda Clier-Colombani 2001), riecheggiata

nelle parole di Manto (XLIII, 98, 7-8: «Ch’ogni

settimo giorno ogniuna è certa / che la sua forma in

biscia si converta»). Ma un’altra osservazione può

essere fatta. Nel testo di Jean d’Arras il cadavere del

gigante Grimault, abbattuto da Geoffroy «dal lungo

dente», è posto su un carretto: nell’edizione ginevrina

del 1478 (come nelle più tarde lionesi GW 12651-12652,

che riutilizzano i legni di quella di Basilea) il gigante

sul carretto appare vispo e sconsolato. La vicenda di

Astolfo che conduce prigioniero al Cairo, tra la meraviglia

della folla, il gigante Caligorante ha una singolare

assonanza con queste immagini. Suggestivo è il confronto

della stampa di Ginevra, c. [23]4v, con i versi di

Ariosto (XV, 61, 1-6):

Anche il precedente episodio dell’uccisione del gigante

Guédon da parte di Geoffroy mostra, nelle illustrazioni,

assonanza con la cattura di Caligorante. Astolfo

si serve del corno per impaurire il gigante e, nel

romanzo francese, dopo aver tagliato la testa a Guédon,

Geoffroy suona il corno per darne avviso: le più antiche

silografie lascerebbero quasi credere che sia il suono

del corno ad aver sopraffatto il gigante. Si direbbe

insomma che Ariosto abbia fantasticato, più che sul

testo, sulle immagini che corredavano una delle prime

edizioni della Mélusine.

Adolfo Tura

Tutto il popul correndo si traea

per vedere il gigante smisurato.

– Com’è possibil – l’un l’altro dicea

– che quel piccolo il grande abbia legato? –

Astolfo a pena inanzi andar potea,

tanto la calca il preme da ogni lato.

132 133



49. Historia di Merlino

Venezia, Luca di Domenico, 1 febbraio 1480. 2°

Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, AN.XIII.18

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività

culturali e del turismo

Divisa in sei libri, la Historia di Merlino è un adattamento

delle Prophecies de Merlin, salvo il primo libro,

basato piuttosto sul Merlin in prosa (Visani 1994,

pp. 26-27). È questa la più antica edizione (IGI 6373),

dovuta a quel Luca di Domenico cui si deve un’ampia

produzione di testi cavallereschi (Harris 1987, pp.

72-74). Si tratta della prima stampa di materia arturiana

in Italia.

Come riconosciuto già da Rajna, la Historia di Merlino

è la fonte di Ariosto per l’episodio di Bradamante nella

grotta di Merlino nel III canto del Furioso (Rajna 1900,

p. 132; Delcorno Branca 1998, pp. 77-78).

Adolfo Tura

134 135



50. Maestro dei cassoni Campana

Teseo e il Minotauro, c. 1510-15

Olio su tavola, cm 66 x 155

Avignone, Musée du Petit Palais, deposito del Musée du Louvre, Parigi, 1976

Inv. MI 528

Provenienza: Roma, collezione Campana; Parigi, Musée

Napoleon III, 1862; Musée du Louvre, 1863; in deposito al

museo di Marsiglia, dal 1872 al 1957; in deposito ad Avignone,

dal 1976.

Bibliografia: Fahy 1976, pp. 200-202; Zeri 1976; Mirimonde

1978, pp. 92-95; Laclotte e Moench 2005, pp. 150-

151, nn. 138-141 (con bibliografia precedente); Bernacchioni

2011; Seidel 2015.

Questo pannello costituisce il terzo elemento d’un ciclo

di quattro tavole, in origine ornamento d’un arredo

domestico (spalliere, piuttosto che cassoni: Laclotte e

Moench 2005), provenienti dalla collezione romana del

marchese Giampietro Campana e rappresentanti con

antefatti e conseguenze l’intero mito di Teseo, Arianna e

il Minotauro. Dopo avere illustrato nei primi due dipinti

il mostruoso amore maturato da Pasifae, moglie di

Minosse sovrano di Creta, per uno splendido toro bianco,

e l’assedio e la conquista di Atene da parte di Minosse,

con il conseguente tributo di giovani vite da sacrificare al

Minotauro nato dall’unione del toro con Pasifae, il pittore

rappresenta nella nostra tavola l’arrivo a Creta di Teseo

– figlio del re di Atene – con la nave dei giovani destinati

alla creatura; il suo incontro con le figlie di Minosse,

Arianna e Fedra, la prima delle quali gli rivela lo stratagemma

del filo per orientarsi nel labirinto del Minotauro;

la sconfitta del mostro e la successiva partenza di Teseo

a Creta con le due donne. L’ultimo scomparto della serie

mostra l’abbandono di Arianna a Nasso e il suo incontro

con Dioniso (per la lettura iconografica delle tavole si

ricorra a Mirimonde 1978, peraltro non molto più dettagliato

di Zeri 1976).

I cosiddetti “cassoni Campana” costituiscono il nucleo

d’un problema filologico impostato indipendentemente,

e con conclusioni non identiche, da due illustri conoscitori:

Federico Zeri ed Everett Fahy. Il corpus dellano-

nimo maestro che li dipinse è stato infatti ricostruito con

divergenze sul catalogo e soprattutto una diversa interpretazione

della sua personalità: mentre lo studioso americano

– che denomina l’artista Maestro di Tavernelle da

una sua pala conservata in quella località toscana lo

ritiene un fiorentino formatosi sulla scia di Ghirlandaio

e specialmente di Filippino Lippi, Zeri analizzava lintrigante

connubio di italianismi e nordicismi del maestro

proponendo di riconoscervi un pittore francese attivo in

Toscana al principio del Cinquecento. Lipotesi di Zeri ha

riscosso un successo maggiore: sulla sua onda, è recente

il tentativo – assolutamente congetturale – di identificare

l’anonimo nella persona anagrafica del pittore Antonio di

Jacopo, detto Antonio Gallo (l’appellativo richiama un’origine

d’Oltralpe), documentato a Firenze fra 1503 e 1527

(Bernacchioni 2011). Quel che è palese, è che il duplice

binario espressivo del maestro, fra tradizione nordica

e gusto italiano, così bene individuato da Zeri specialmente

nella cultura stilistica dei cosiddetti cassoni Campana

(si guardi, nella nostra tavola, l’aspetto ibrido degli

edifici insieme gotici e all’antica), ben si adatterebbe ad

uno straniero con diretta conoscenza dell’arte toscana fra

Quattro e Cinquecento, fra Filippino, Signorelli e Piero

di Cosimo. Come evidenziato dallo studioso, l’anonimo

maestro affronta il tema classico con uno spirito che, più

che allantichità vera e propria, sembra guardare alle sue

rielaborazioni medioevali: da qui «il sapore, quanto mai

courtois, da Tavola Rotonda, che sostiene le scelte figurative

di certi passi, e per cui Teseo, tutto chiuso nella armatura

moderna, minutamente descritta dallelmo piumato

sino alla corazza, ai cosciali e alle manopole, somiglia più

a un Orlando o a un Lancillotto che a un eroe greco» (Zeri

1976, p. 82). Un modo brioso di accordare materia classica

e forma cavalleresca che forse non sarebbe dispiaciuto

neppure allo stesso Ariosto, se non aveva smesso di

affascinare i committenti toscani del nostro pittore.

Gabriele Donati

136 137



51. Evangelista Fossa

Libro di Galvano

Venezia, Melchiorre Sessa, 28 febbraio 1508. 4°

Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. E.6.7.29

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività

culturali e del turismo

Bibliografia: Delcorno Branca 1992, pp. 79-80; Visani

1997; Delcorno Branca 1998, pp. 216-220.

L’Innamoramento di Galvano, poema in ottave di materia

arturiana, fu composto dal servita cremonese Evangelista

Fossa a Venezia tra il 1494 e i primi del 1497. Perduta

la prima edizione, quattrocentina (Canova 1992, p. 675),

si conservano oggi due stampe di primo Cinquecento,

una milanese priva di data (Kristeller 1913, n. 152; Sandal

1981, p. 36, n. 461) ma assegnabile al 1505-09 (Bonomi

1983, p. 45), e questa che si espone: non è accertato quale

preceda.

Il poema, ispirato ai cantari di Astore e Morgana e della

Ponzela Gaia, è caratterizzato da una massiccia presenza

della magia e delle pratiche necromantiche (Visani 1997,

p. 96; Delcorno Branca 1998, p. 220).

Adolfo Tura

138 139



52. Luigi Pulci

Morgante Maggiore

Firenze, [Antonio Tubini] per Piero Pacini da Pescia, 22 gennaio 1500 [=1501]. 4°

Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Sammlung von Handschriften und alten Drucken, Ink 5.G.9

Bibliografia: Kristeller 1897, n. 347a.

La fortuna del Morgante in terra padana fu immediata.

Del 16 agosto 1478 è la lettera che Rodolfo Gonzaga

manda dal campo dei fiorentini, presso Poggibonsi, al

fratello marchese Federico: «Il libro del gigante intitulato

Morgante lo mando a Vostra Illustrissima Signoria

per lo cavallaro, advisandola che dal dicto cavalaro ho

havuto la ziffra me ha mandata; prego ben quella che

quanto più presto la pò, voglia fare trascrivere il dicto

libro, perché questi signori hanno piacere assai haverlo

apresso» (Kent 1993, pp. 209-210). Si tratta probabilmente

di un esemplare a stampa, che veniva inviato a

Mantova per poter essere copiato a mano (Harris 2006,

p. 93). L’11 novembre dello stesso anno Ercole d’Este

richiede ad un suo fiduciario a Firenze di procuragli

appunto un Morgante (Tissoni Benvenuti 1987, p. 23).

Tale vigorosa fortuna non doveva estinguersi nemmeno

dopo l’apparizione dei poemi di Boiardo e di Ariosto, se

il 30 ottobre 1531 Federico Gonzaga scrive «ex castris» al

proprio segretario: «Ippolito. Mandane Orlando furioso,

lo Inamoramento di Orlando e Morgante mazor, advertendo

che tutti siano di bona stampa e di lettere un poco

grossette e ben legibile» (Canova 1999, p. 81). Anche

Ariosto gustò la lettura del poema pulciano, di cui si ravvisano

riprese linguistiche nel Furioso (Blasucci 1976,

ed. 2014).

Quello che si espone è il solo esemplare completo della

più antica edizione illustrata che ci è pervenuta (un’edizione

fiorentina precedente, dotata dello stesso ciclo

illustrativo, è andata perduta, si veda Tura 2004, p. 75).

Adolfo Tura

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53. Piero di Cosimo

La liberazione di Andromeda, c. 1510

Olio su tavola, cm 70 x 120

Firenze, Galleria degli Uffizi. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. 1890, 1536

Provenienza: nel 1568 è attestato in proprietà di Sforza

Almeni; Firenze, Palazzo Strozzi, nel 1589 è già nelle raccolte

medicee.

Bibliografia: Vasari 1568, ed. 1976, IV, p. 67; Craven 1975, pp.

575-576; L. Berti in Firenze 1980, p. 163, cat. 370; Geronimus

2006, pp. 108-115; E. Capretti in Roma 2011, p. 164, cat. 31;

S. Ferrari in Riva del Garda 2013, pp. 60-63, cat. 1; Capretti

2015, pp. 101-104; D. Parenti in Firenze 2015, p. 330, cat. 56

(con bibliografia precedente); Parenti 2015, pp. 163-168; D.

Geronimus in Washington 2015, pp. 202-205, cat. 33.

Questo capolavoro dell’avanzata maturità di Piero di

Cosimo illustra fedelmente l’episodio della liberazione

di Andromeda dal mostro marino quale è narrato nel

libro quarto delle Metamorfosi di Ovidio (vv. 663-764).

Il dipinto è descritto con entusiasmo da Giorgio Vasari

nell’edizione giuntina delle Vite: «Un quadro di figure

piccole, quando Perseo libera Andromeda dal mostro, che

v’è dentro certe cose bellissime; […] non fece mai Piero

la più vaga pittura né la meglio finita di questa, attesoché

non è possibile veder la più bizzar[r]a orca marina né la

più capricciosa di quella che si immaginò di dipignere

Piero, con la più fiera attitudine di Perseo che in aria la

percuote con la spada. Quivi fra ’l timore e la speranza si

vede legata Andromeda, di volto bellissima, e qua inanzi

molte genti con diversi abiti strani sonando e cantando,

ove sono certe teste che ridano e si rallegrano di vedere

liberata Andromeda, che sono divine; il paese è bellissimo

et un colorito dolce e grazioso: e quanto si può unire e

sfumare colori, condusse questa opera con estrema diligenza»

(Vasari 1568, ed. 1976, p. 67). Il biografo mette in

luce qui alcuni elementi che saranno ripresi dalla critica

moderna: la qualità e la originalità delle invenzioni, ad

esempio negli abbigliamenti e negli (improbabili) strumenti

musicali; la sapienza per così dire “registica” nel

comporre la storia, con i gruppi di astanti che ne accompagnano

i momenti topici tramite il loro disporsi e variato

atteggiarsi, come in una scenografia festiva; la peculiare

condotta pittorica, morbida e sfumata, che caratterizza

sia il paesaggio che le figure umane, e per cui occorre

senz’altro richiamare il rinnovato soggiorno fiorentino di

Leonardo (1501-06) – un apporto così palese che nel 1589

il dipinto veniva registrato nella Tribuna degli Uffizi

quale «di mano il disegno di Lionardo da Vinci e colorito

da Piero di Cosimo» (Gaeta Bertelà 1997, p. 42, n. 492 e

note 341-342).

Il dipinto fu con ogni probabilità destinato alla camera

nuziale di Filippo Strozzi il Giovane (1489-1538) e di Clarice

de’ Medici in Palazzo Strozzi, dacché formato e soggetto

della Liberazione di Andromeda ben si adattano al

contesto matrimoniale ed all’ornamento di una spalliera –

anche se il nostro dipinto sembra essere nato in autonomia,

mentre normalmente tali arredi comprendevano un ciclo

di più tavole. Alcuni documenti confermano che fra il settembre

del 1510 ed il febbraio 1511 Filippo provvide all’arredo

della propria stanza nuziale incaricandone il legnaiolo

Baccio d’Agnolo (si citano espressamente «due cassoni

con le spalliere») e pagando Piero di Cosimo «per parte

del lavoro di camera mia» (Craven 1975; Geronimus 2006,

p. 276, nn. 19-20). Peraltro l’ipotesi di interpretare l’intero

dipinto in chiave di propaganda medicea – e di legarlo

dunque al rientro dei Medici e al carnevale del 1513 –

parte dalla presunta allusione all’impresa medicea del

Broncone nel tronco che occupa il centro della scena (L.

Berti in Firenze 1980), che illustra invero l’eziologia ovidiana

del corallo (IV, vv. 740-752); per cui mi sembra sano, a

proposito, lo scetticismo di Geronimus (2006, pp. 113-115).

La liberazione di Andromeda avrebbe certo potuto attrarre

l’attenzione di Ariosto, poiché tale mito narrato da Ovidio

è rievocato dal Furioso negli episodi della liberazione

di Angelica da parte di Ruggiero (X, 92-111) e di quella –

concepita quasi in controcanto – di Olimpia da parte di

Orlando (XI, 30): entrambe le fanciulle erano state offerte

in pasto ad un mostro marino e proditoriamente salvate

da un eroe. È peraltro certo che ad Ariosto non erano sconosciute

alcune opere di Piero di Cosimo: questi aveva

dipinto in casa di Giovanni Vespucci a Firenze il ciclo pittorico

di «storie baccanarie» descritto da Vasari (da identificare

nella Storia di Sileno di Cambridge e nella Scoperta

del miele di Worcester); ebbene, il poeta ferrarese durante

il suo soggiorno fiorentino fu ospitato in casa di Niccolò

Vespucci, figlio di Giovanni, e fu in rapporti pure con altri

membri della famiglia; proprio in casa Vespucci conobbe

inoltre l’amata Alessandra Benucci.

Gabriele Donati

142 143



54. Anonimo portoghese

Charta del navicare per le isole novamente trovate in la parte de l’India (detta del Cantino),

1501-02

Manoscritto a inchiostro e tempera su pergamena in sei pezzi giuntati, mm 1050 x 2200

Modena, Biblioteca Estense Universitaria, C.G.A. 2

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Bibliografia: Cortesão e Teixeira da Mota 1960, pp. 7-13;

del Capo Verde e sulla penisola del Deccan, e risultano

Attirano l’attenzione parecchi elementi extra carto-

Guinea, e un paesaggio con alberi e acque azzurre che

La Roncière e Mollat du Jourdin 1984, pp. 214-215, tav.

tangenti al centro dell’Africa dove è posizionata una

grafici quali le due vedute di Gerusalemme e di Vene-

fanno da sfondo a tre coloratissimi pappagalli nella

25 (ed. it. 1992, pp. 209-211); Frabetti 1985; Milano E.

complessa ed estremamente decorativa rosa dei venti,

zia (quest’ultima in una veritiera rappresentazione dal

costa del Brasile, toccata da Pedro Alvarez Cabral

1991; I. Luzzana Caraci in Genova 1992, pp. 683-686,

con trentadue direzioni.

bacino di San Marco), il “Castello damina”, importante

nell’aprile del 1500.

736-737; Milano E. 1994; Battini 2001; Alegria et al.

Oltre alla perfezione cartografica e al suo valore sto-

fortilizio fondato dai portoghesi nel 1484 nel golfo di

Vladimiro Valerio

2007, pp. 992-994 e ad indicem.

rico-scientifico (vi è anche tracciata la “Raya”, linea

di demarcazione tra l’area di influenza portoghese e

La carta del Cantino è così denominata da Alberto Can-

quella spagnola, stabilita nel trattato di Tordesillas nel

tino, ambasciatore presso la corte portoghese di Ercole

giugno del 1494) il documento si presenta come una

I d’Este, che gliel’aveva commissionata per essere al

vera e propria opera d’arte, una “Carta per il Principe”.

corrente dei viaggi di esplorazione nel nuovo mondo.

L’autore è un anonimo cartografo portoghese, probabilmente

attivo nella Casa da India a Lisbona, che

la eseguì tra il dicembre del 1501 e l’ottobre del 1502.

La carta è certamente copia di una mappa ufficiale

aggiornatissima.

Si tratta di uno dei più noti e celebrati monumenti cartografici

del Rinascimento, tra i primi a registrare le

scoperte nel nuovo mondo a seguito dei primi tre viaggi

di Cristoforo Colombo (1492, 1493 e 1498) e l’apertura

di una nuova via marittima verso le Indie, effettuata da

Vasco da Gama nel 1497. Proprio le scoperte di nuove

terre verso occidente e di un collegamento diretto tra

l’Oceano atlantico e l’Indiano, mediante la circumnavigazione

dell’Africa, modificano profondamente la

forma e i limiti delle terre conosciute, e rivoluzionano

la concezione del mondo, che si fondava sui testi classici

e in primis sull’opera geografica di Claudio Tolomeo.

Tra i pochi residui della tradizione tolemaica si

registrano i “Montes Lune”, ove erano posizionate le

sorgenti del fiume Nilo.

La costruzione della carta è basata su un sistema di

rose dei venti, provenienti dalla tradizione nautica

medievale; due sistemi di rose sono centrati sulle isole

144 145



55. Claudio Tolomeo

Cosmographia (traduzione latina dal greco di Jacopo Angeli da Scarperia)

Incisione su rame acquarellata, mm 44 x 31, 5

Bologna, Domenico de’ Lapi, 23 giugno [1477] (in colophon, erroneamente, 1462)

Modena, Biblioteca Estense Universitaria, a.C.3.14

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Bibliografia: Sighinolfi 1908; Lynam 1941; Skelton 1963;

Campbell 1987, pp. 129-130; Firenze 1992c, pp. 217-219;

Shirley 2004, I, pp. 819-820; Valerio e Spagnolo 2014, I,

p. 95.

Si tratta del primo atlante geografico a stampa e della

prima raccolta di immagini (le 26 mappe) incise su rame.

Il solo testo della Geographia di Claudio Tolomeo, erroneamente

intitolata Cosmographia dai primi umanisti,

fu pubblicato a Vicenza nel 1475, senza alcun corredo di

carte.

L’edizione bolognese si basa sulla traduzione latina di

Jacopo Angeli da Scarperia, effettuata a Firenze nei

primi anni del XV secolo, rivista e corretta da Filippo

Beroaldo e Angelo Vado secondo quanto dichiarato

nell’epistola al lettore, che chiude il testo tolemaico.

L’iniziativa di tale pubblicazione nacque dalla volontà

e dalla collaborazione di Filippo Balduino e di quattro

stampatori e librai: Giovanni degli Accursi, Ludovico

e Domenico de Ruggeri e il pittore e miniaturista Taddeo

Crivelli (1425-1479), che è ritenuto autore delle

carte, trasferito a Bologna da Ferrara dopo la morte di

Borso d’Este nel 1471. Secondo gli accordi stabiliti con

il tipografo Domenico de’ Lapi, firmato nell’aprile del

1477, furono stampate 500 copie del testo e delle mappe;

attualmente ne sono censite solo 26 delle quali venti

recano un’acquarellatura contemporanea.

Quasi tutti i rami furono rimaneggiati, tra il 1477 e il

1479, segno di un aggiornamento o di un completamento

di essi avvenuto in corso d’opera, con l’aggiunta di onde,

navi e mostri marini. A questa edizione fecero seguito,

nel corso del Quattrocento, un’edizione romana (1478)

con carte finemente incise su rame ed una fiorentina

(1482) con testo volgare in terza rima di Francesco

Berlinghieri.

Tra le particolarità delle mappe contenute nell’edizione

bolognese della Geographia di Tolomeo va certamente

menzionata la proiezione utilizzata per la redazione

delle carte regionali. Si tratta di una proiezione conica

con paralleli curvilinei e meridiani convergenti, della

quale non vi è menzione nel testo tolemaico né vi è traccia

in alcuna altra copia sia manoscritta che a stampa,

frutto, probabilmente, dell’intervento degli astrologi

Girolamo Manfredi e Pietro Bono Avogaro.

Vladimiro Valerio

146 147



56. Ludovico Vartema

Itinerario in Egitto, Arabia Felice, Persia, India, Borneo, Etiopia, c. 1510

Manoscritto membranaceo, mm 295 x 210

Berlino, Staatsbibliothek, Ms. Hamilton 652

Bibliografia: Pagliaroli 2016.

Dopo aver appreso l’arabo a Damasco, il bolognese

Ludovico Vartema, di cui quasi nulla è noto, intraprese

per puro amore dell’avventura un viaggio che, tra 1503

e 1507, lo condusse fin nel cuore dello Yemen. Al suo

ritorno compose in volgare, dedicandolo ad Agnese di

Montefeltro (moglie di Fabrizio Colonna), l’Itinerario

nello Egypto, nella Sura ecc. Non si tratta di una semplice

relazione di viaggio, ma – grazie alla qualità della

scrittura – di un’opera di considerevole pregio narrativo

(Pozzi 1998), che conobbe un successo vastissimo.

L’Itinerario fu stampato la prima volta a Roma sul finire

del 1510 dai tipografi Étienne Guillery ed Ercole Nani ad

istanza di Ludovico degli Arrighi (Barberi 1983, pp. 16,

24). Fino ad oggi si conosceva un solo testimone manoscritto,

di mano dello stesso Arrighi, ma disgraziatamente

mutilo di parecchi fogli: il Landau-Finaly 9 della

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, confezionato

come dono a Vittoria Colonna (Casamassima 1962).

Recentemente il testo è stato identificato nel codice

Ham. 652 della Biblioteca di Stato di Berlino (che non

contiene altro) da Stefano Pagliaroli, il quale vi ha altresì

riconosciuto la mano dell’Arrighi.

Adolfo Tura

148 149



ORLANDO

IN CAMPO



57. Ludovico Ariosto

Orlando furioso

Ferrara, Giovanni Mazzocchi, 22 aprile 1516. 4 o

Londra, The British Library, G 11061

Bibliografia: Ermini 1909-13; Catalano 1930-31; Ariosto

1960; Caretti 1976; Segre 1976a; Beer e Ivaldi 1986; Ariosto

2006; Dionisotti 2003; Scianatico 2005; Pellegrini

2009; Dorigatti 2011; Matarrese 2016.

Dei dodici esemplari superstiti della princeps il londinese

qui esposto è, dal punto di vista bibliografico,

quello «maggiormente perfetto», integro di tutte le

carte. «Si distingue dagli altri esemplari anche per la

presenza di un numero significativo di fogli di prima

tiratura, portatori di lezioni antiche in limine tra manoscritto

e stampa». Mentre l’esemplare conservato nella

Biblioteca Ariostea (Tav. 72) si distingue per portare «un

numero statisticamente elevato di fogli nello stato corretto»,

dovuto ad alcuni interventi dell’autore in corso

di stampa; ed è servito da copy-test e da esemplare di

controllo all’edizione critica curata da Marco Dorigatti

(2006), la prima in assoluto dell’opera, dalla cui Introduzione

provengono le citazioni precedenti.

All’Orlando furioso del 1516 è mancata, nella sua storia

editoriale, una operazione come quella che ha portato

alla riscoperta ottocentesca del Boiardo ad opera di

Panizzi, che ha segnato «l’inizio di una rigogliosa fioritura

editoriale e critica», mentre il suo erede più diretto

ha continuato a rimanere nell’ombra, eclissato dal fratello

maggiore, l’edizione del 1532, ampliata di quei

nuovi episodi che fanno del poema, passato dai 40 ai

46 canti, un’opera in parte ideologicamente diversa. Di

nessun rilievo è la pubblicazione ferrarese del 1875, «a

ridosso del quarto centenario della nascita del poeta [...],

priva di qualsiasi valore testuale, essendo stata dettata

da motivazioni e finalità commemorative anziché filologiche»

(Ariosto 2006, pp. XXIV-XXV). A fini di raffronto

variantistico rispondeva invece la pubblicazione

di Filippo Ermini, tra il 1909 e il 1911, che presentava in

colonne raffrontate e in trascrizione diplomatica i testi

della prima edizione (A) e della seconda del 1521 (B),

seguiti dalla terza (C) nel 1913.

Fino a pochi anni fa dunque il testo della princeps lo si

ricavava in negativo dall’apparato dell’edizione definitiva

del 1532 (Ariosto 1960). L’edizione Dorigatti ha reso

finalmente leggibile l’opera nella sua integrità, recuperandola

«alla conoscenza e all’ammirazione», come

auspicato a suo tempo da Cesare Segre e da studiosi

come Carlo Dionisotti e Lanfranco Caretti, concordi nel

ritenere la prima redazione «un capolavoro assoluto»,

dotato di una «sua autentica forza espressiva» (Dionisotti

2003, p. 87, e Caretti 1976, p. 105). Se con l’ultima

edizione vediamo pienamente realizzata l’aspirazione

a una lingua letteraria «nobile e limpida, chiara ed elegante»

secondo i criteri rinascimentali (Segre 1976a),

nella prima possiamo cogliere nel suo momento di «freschezza

vitale» l’invenzione ariostesca, la sua maggior

libertà ed escursione linguistica, espressione di «uno dei

momenti più alti della civiltà municipale estense» (Dorigatti

in Ariosto 2006, p. VIII). Occorre peraltro considerare

la distanza temporale che la separa dall’ultima edizione,

i veloci cambiamenti che segnano nel frattempo la

letteratura volgare, e i forti rivolgimenti che interessano

la penisola e coinvolgono Ferrara e la casa d’Este. E l’Orlando

furioso è «il primo e forse l’unico romanzo cavalleresco

a far parte tanto larga, tra le “fole di romanzi”,

alla narrazione di fatti bellici realmente accaduti» (Beer

e Ivaldi 1986, p. 92), «assimigliando» «alle antique le

moderne cose» (A XXII, 2; C XIV; sulla presenza della

storia contemporanea nell’Orlando furioso, si vedano

Scianatico 2005 e Matarrese 2016).

Alla composizione del poema Ariosto si dedica a partire

dal 1505: il racconto epico cavalleresco ha maturato una

tale ricchezza di esperienze, da una parte il Morgante,

dall’altra l’Inamoramento de Orlando con le sue importanti

novità di strutturazione narrativa, da poter ambire

all’alta letterarura. E Ariosto riprendendo la «inventione

del conte Matheo Maria Boiardo», raccoglie una

eredità specificamente estense, portandola a nuovi traguardi

letterari. Poema dunque “estense”, non solo per

l’aspetto celebrativo, connaturato del resto al genere,

ma per l’intersecarsi delle vicende estensi con le storie

fantastiche e una partecipazione alla politica degli

Estensi, che lascia un segno ben preciso in particolare

nella stesura della prima redazione (Dorigatti 2011),

per la dimensione più familiare, e potremmo dire più

municipale che caratterizza il suo disegno. Al centro di

questa dimensione più estense con cui Ariosto guarda

alla storia contemporanea ci sono le figure di Ippolito

e Alfonso d’Este, con le loro imprese. Per fare qualche

esempio, prendiamo la battaglia della Polesella, vinta da

Ippolito (1509) e rievocata nella narrazione del grande

scontro navale tra Agramante e Dudone (XXXVI 1-5 in

A): Ariosto, che in quella occasione si trovava a Roma

in missione diplomatica, appresa la notizia si affrettò a

rallegrarsene con il cardinale, annunciandogli che «la

sua Musa haverà historia da dipingere nel padiglione»

delle nozze di Ruggiero: una testimonianza alta di un

luogo specifico del poema appartenente all’ultimo canto

(Dorigatti 2011, pp. 10-14). Quanto ad Alfonso, e alla celebrazione

delle sue imprese, ricordiamo quella relativa

alla vittoria di Ravenna sul papa e sugli Spagnoli (1512):

«Costui serà, col senno e con la lancia, / ch’avrà ne la

pinifera campagna / gloria d’aver l’esercito di Francia /

vincitor fatto contra Iulio e Spagna» (A III 55). E in un

memorabile proemio, quello del canto XII (C XIV), la

sanguinosa vittoria dei Saraceni a Parigi rievoca la vittoria

dei Francesi e dei Ferraresi guidati da Alfonso

d’Este, nello scontro di Ravenna: vittorie a caro prezzo,

in quanto entrambe «così sanguinose, / che lor poco

avanzò di che allegrarse» (XII, 2): battaglia, quella di

Ravenna, seguita dall’orribile saccheggio della città da

parte delle truppe francesi. E Ariosto che aveva visitato

il campo il giorno dopo il saccheggio, apostrofa il re di

Francia Luigi II, invitandolo a punire gli abusi commessi

dai suoi soldati:

Bisogna che proveggia il re Luigi

di nuovi capitani alle sue squadre,

che per onor de l’aurea Fiordiligi

castighino le man rapaci e ladre,

che sore e frati, e bianchi, neri e bigi,

vïolati hanno, e sposa e figlia e madre;

E nel compiangere la «misera Ravenna» ricorda la

vicenda dei Vespri Siciliani, il «sangue che fu spanto / al

vespro ch’intonò l’orribil canto» (A XII, 8-9); versi cambiati

nelle successive edizioni in «quanti per simil torti /

stati ne sian per tutta Italia morti». Più esplicito, e sottolineato

dall’«orribil canto», è dunque il riferimento ai

Vespri Siciliani nella prima edizione, la cui stesura avrà

certo risentito della vicinanza a quegli avvenimenti.

Un altro luogo speciale al riguardo è quello del canto

XV di A (XVII di C), in cui il poeta nel toccare le condizioni

dell’Italia invasa dagli stranieri, li richiama al

loro dovere di andare a liberare il Santo Sepolcro. In un

primo tempo il suo sdegno si sarebbe espresso in una

invettiva contro il papa Giulio II, che «per diverse vie»

aveva favorito la presenza degli stranieri in Italia (cfr.

Pellegrini 2009, pp. 105-116) e che i Ferraresi s’erano trovati

di fronte a Ravenna:

Ma tu, gran padre, ch’esser déi il primiero

a cacciar da l’Italia queste arpie,

perché, lasciato il dritto e ver sentiero,

ivi le chiami per diverse vie?

Perché non segui il bon Silvestro e Piero?

Che fan tanti cavalli e fanterie?

Ohimè, ch’or mett’Italia in tanti affanni,

ch’uscir non ne potrà molt’e molt’anni!

Non ti diede a portar Dio questa verga

perché sua greggia divorar tu lassi;

ma perché la diffenda, se le terga

lupi le preman d’ogni pietà cassi.

Deh, non esser cagion che si summerga

l’Italia in maggior danni, sì che i sassi

mova a pietà; ch’a te sol si conviene

trarla d’affanni, e non aggionger pene.

Le due stanze erano previste, secondo Dorigatti che le

ha portate all’attenzione, dopo l’arringa contro i principi

cristiani e dopo la novella del re Norandino e di Lucina,

scampati al terribile Orco, il “mostro cieco” che teneva

prigionieri i due sposi e si nutriva di carne umana: un

“pastore”, dietro al quale potrebbe celarsi ben altro

“pastore”, cioè Giulio II, che aveva lasciato che i “lupi”

dilaniassero la sua “greggia”, “lupo” lui stesso verso gli

Estensi, che come vicari papali appartenevano alla sua

“greggia” (Dorigatti 2011, pp. 29-33). Morto nel frattempo

quel papa, le due stanze sarebbero state sostituite

nel corso della prima redazione da una nuova e diversa,

152 153



154

155



la stanza 79, contenente un appello al nuovo pontefice,

Leone X, con l’auspicio di una politica più conciliante

(«Tu, gran Leone, a cui premon le terga / de le chiavi

del ciel le gravi some, / non lasciar che nel sonno si

summerga / Italia, se la man l’hai ne le chiome. / Tu sei

Pastore; e Dio t’ha quella verga / data a portar, e scelto il

fiero nome, / perché tu ruggia, e che le braccia stenda, /

sì che da’ lupi il gregge tuo difenda» (XV, 79). Resta

qualche dubbio sulla paternità delle due stanze: esse si

trovano in un testo musicale del compositore fiammingo

Jacquet de Berchem (Iachetto), stampato a Venezia nel

1561 e contenente 91 ottave dell’Orlando furioso secondo

la redazione del ’32 (Dorigatti 2011, pp. 29-33). Le ottave

hanno un ordine grosso modo tematico, e alcune riguardano

l’Italia «preda ai tramontani», tutte precedute da

una sorta di titolo, ad eccezione delle due che ci interessano,

ciò che induce a qualche cautela sulla attribuzione:

siamo in anni ricchi di una varia pubblicistica critica verso

quel papa guerrafondaio. Siano o no di Ariosto quelle

ottave – le rime rare della seconda ottava (verga e terga)

che si ritrovano in quella che la sostituisce, deporrebbero

a favore della paternità ariostesca –, il luogo dice quanto

l’elaborazione del poema s’incroci con i fatti storici.

Un caso simile di avvenimenti contemporanei che si

intersecano con la stesura del testo, ci riporta ai re francesi,

verso i quali la politica estense era stata fino a un

certo punto favorevole. Morto Luigi XII il primo gennaio

del 1515, il suo successore Francesco I scende in

Lombardia e a Marignano sconfigge gli svizzeri, riconquistando

Milano e rovesciando quella che era stata la

politica di Giulio II. In Italia più che come invasore il

nuovo re sarà visto come un liberatore, diversamente

dall’immagine che aveva accompagnato la discesa di

Carlo VIII. Bellezza, ingegno e magnanimità sono gli

attributi che lo accompagnano nelle cronache storiche

dell’epoca. Uno storico dei nostri giorni lo descrive

come «il monarca più carismatico del Rinascimento

francese, bramoso di compiere grandi imprese con la

spada in pugno onde poter essere consacrato cavaliere

sul campo di battaglia»; e ciò puntualmente avvenne con

una cerimonia che «fornì spunti da leggenda per la biografia

di quello che ancor oggi viene ricordato come il

cavaliere del Rinascimento francese» (Pellegrini 2009,

pp. 145-149). Anche Ariosto ne rimane affascinato, tanto

da allargare la tela del suo poema già completato, introducendone

un elogio con la menzione della vittoria di

Marignano del 13-14 settembre 1515, proprio all’ultimo

minuto, un mese prima che il manoscritto vada in tipografia

(Dorigatti 2011, p. 38). Lo inserisce nel luogo giusto:

nel canto XXIV, un canto sulla liberalità che esordiva

con un apprezzamento delle donne dell’antichità,

«che le virtù, non le ricchezze amaro». Gli eventi del

racconto ci portano presso una fontana istoriata con

immagini profetiche di personaggi politici del secolo

XVI, distintisi per la loro liberalità; e in prima fila è

Francesco I per la sua lotta contro il mostro della cupidigia:

«Poi si vedea d’imperïale alloro / cinto le chiome

un cavallier venire [ ... ] // L’un ch’avea sin a l’elsa ne la

pancia / la spada immersa alla maligna fiera, / Francesco

primo, avea scritto, di Francia» (A XXIV, 34-35; C

XXVI). E più avanti, all’ottava 43, si ribadisce che non

vi sarà nessun altro più molesto al mostro della cupidigia,

di «Francesco re de’ Franchi». A lui Ariosto affidava,

a questa altezza, le speranze di pace per l’Italia. E non

sarà un caso se un esemplare prezioso del primo Furioso

risulta appartenuto a Francesco I: fu Ariosto, racconta

Catalano, a far spedire sul finire del maggio 1516 (il libro

era uscito il 22 aprile) varie «partite di Orlandi», tra cui

una «in Francia, alla corte del cavalleresco re Francesco,

ove la cultura italiana era molto diffusa» (Catalano 1930-

31, vol. I, p. 433; Dorigatti in Ariosto 2006, p. XCVI).

Un campione, Francesco I, di quella liberalità che costituisce

un tema centrale del poema. E con questo spirito

di liberalità e cortesia per eccellenza cavalleresco, si presenta

come più in sintonia il primo Furioso, in cui a Ruggiero

non è richiesto, per avere Bradamante in sposa,

alcun titolo nobiliare e neppure averi; mentre nell’ultimo

Furioso Ruggiero prima di sposare Bradamante

dovrà affrontare nuove difficoltà, che gli guadagneranno

un titolo regale, quello di re di Bulgaria.

Tina Matarrese

156 157



58. Alessandro Filipepi detto Sandro Botticelli e bottega

Venere pudica, c. 1485-90

Tempera e olio su tavola trasferita su tela, cm 174 x 77

Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. 172

Provenienza: Londra, reverendo Walter Davenport Bromley,

acquistata a Firenze nel 1844; Londra, vendita collezione

Davenport Bromley, 1863, acquistata da Lord

Ashburton; ceduta allo scultore Carlo Marochetti (1805-

67); Torino, acquistata da Riccardo Gualino; Torino, esposta

alla Galleria Sabauda, dal 1928; donazione ufficiale

della raccolta Gualino, 1930.

Bibliografia: Waagen 1857, p. 166; Crowe e Cavalcaselle

1864-66, II, pp. 427-428; Horne 1908, p. 153; Venturi 1928,

tav. 23; Gabrielli 1971, p. 79, n. 656 (con bibliografia precedente);

Lightbown 1978, II, pp. 121-122; G. Dette in Francoforte

2009-10, pp. 236-239, catt. 34-35; S. Mascalchi,

in Firenze 2011-12, p. 228, cat. 7.20; F. Fiorelli Malesci in

Pechino 2012-13, p. 164, cat. 29; F. Gualano in Torino e altre

2014, p. 42, cat. 7; Körner 2015, pp. 75, 80, 84-85; L. Sebregondi

in Tokyo 2015, p. 146, cat. 81; R. Rebmann in Berlino

e Londra 2015-16, p. 328, catt. 169-170.

Fin da quando fu avvistata da Gustav Waagen nella raccolta

londinese del reverendo Walter Davenport Bromley

(1857, con attribuzione a Botticelli), e quindi poi studiata

da Giovan Battista Cavalcaselle (1864-66: «Not of the best

style by Botticelli»), la Venere che passò con la collezione

di Riccardo Gualino alla Galleria Sabauda nel 1930 è stata

ricondotta al maestro fiorentino o al suo ambito; con un’oscillazione,

nei giudizi dei critici, fra prevalente intervento

del maestro e prevalente intervento della bottega, che

è in qualche modo connaturata alla natura del pezzo: la

Venere è infatti una replica, isolata su fondo scuro, dell’omonima

protagonista della celeberrima Nascita di Venere

degli Uffizi. Secondo Lionello Venturi (1928), a dire il

vero, tale rapporto andava interpretato a tutto vantaggio

della tavola Gualino, forse lo «studio dal vero», assolutamente

autografo, da cui era nata la composizione fiorentina.

Già Waagen, peraltro, accostava al nostro pezzo

l’analoga Venere della Gemäldegalerie di Berlino, mentre

una terza Venere, assimilabile alle precedenti per grado

d’autografia e stile ma di diversa iconografia, era pure

entrata a far parte della collezione Davenport Bromley

ed è ancora oggi in mani private. La posizione critica

divenuta vieppiù maggioritaria – ma non esclusiva –

durante il Novecento ritiene tutt’e tre le Veneri prodotte

essenzialmente dai collaboratori del maestro, a partire

dalle invenzioni di quest’ultimo (così già Horne 1908, che

pure credeva distrutte due di esse; una recente discussione

dei rapporti fra gli esemplari si trova nella scheda

di G. Dette in Francoforte 2009-10). Le piccole varianti

che contraddistinguono le due Veneri torinese e berlinese

rispetto al loro prototipo degli Uffizi (capigliatura, mani,

la veste trasparente del pezzo Gualino) ci assicurano

peraltro che la “riproduzione” d’un’iconografia di grande

successo non avveniva in maniera esclusivamente meccanica,

benché con l’ausilio di cartoni, ma anche cercando

di applicare all’esemplare prodotto un seppur minimo

grado di originalità. Ad ogni modo, questa sorta di riduzione

“ad uso domestico” d’un monumentale quadro di

soggetto mitologico-allegorico (recentemente analizzata

da Körner 2015 nei suoi presupposti e conseguenze) attesta

una modalità del progressivo diffondersi di dipinti dal

soggetto profano se non proprio lascivo – quelli contro cui

si sarebbe scagliato a fine secolo il Savonarola – nelle case

dei fiorentini: il Libro di Antonio Billi, fra le opere di Botticelli,

registra «più femmine igniude, belle più che alchuno

altro» (ed. 1892, p. 29, versione Petrei); l’Anonimo Magliabechiano,

«più femine gnude bellissime» (ed. 1892, p. 105);

e anche Vasari (1550 e 1568, ed. 1971, III, p. 513) ricordava

che «per la città in diverse case fece […] femmine ignude

assai», ricollegandosi subito ai due grandi dipinti oggi agli

Uffizi (La nascita di Venere e la Primavera).

Quanto Botticelli ideava le sue «femmine ignude»,

mascherandole da divinità antiche, Ludovico Ariosto era

ancora un fanciullo; ai tempi della maturità del poeta,

tali iconografie avevano ormai preso campo, ad esempio

nella pittura veneziana, con ben altra intensità e soprattutto

sensualità. È stato giustamente osservato come,

rispetto alla descrizione della nudità di Angelica liberata

dal mostro marino già presente nella prima redazione del

Furioso (1516), quella analoga della liberazione di Olimpia,

discinta, aggiunta nell’edizione del 1532 presupponga

proprio un confronto con l’arte coeva, rilevando altresì

quanto «il tocco del descrittore si avvalga di tonalità che

non del tutto irragionevolmente potrebbero definirsi

figurative, e che nella loro fulgida nitidezza evocano il

mondo tizianesco» (Padoan 1980, pp. 97-98).

Gabriele Donati

158 159



59. Elmo corinzio, seconda metà del VI secolo a.C.

Bronzo fuso, imbutito e inciso, altezza cm 25, diametro cm 30

Bassano del Grappa, Musei Civici, collezione Chini

Inv. 537

Provenienza: i dati sulla provenienza del manufatto sono

incerti; sembra sia stato rinvenuto nell’area di Gioia del

Colle; pervenuto al Museo civico di Bassano del Grappa

nel 1978 grazie alla donazione di Virgilio Chini.

Bibliografia: Bottini 1988, p. 118 nota 12; Bottini 1990, p.

26 nota 4; Andreassi et al. 1995, pp. 187-190, cat. 5.2.1.

L’elmo si presenta con calotta arrotondata, paragnatidi

(coperture delle guance) rigide separate nella parte centrale

e il paranuca a falda che lungo il margine conserva

ancora parte dei piccoli chiodi che avevano la funzione

di fissare un’estensione in materiale deperibile come

stoffa o pellame.

Il manufatto, realizzato in bronzo fuso, è impreziosito

da una raffinata decorazione incisa lungo i bordi e nella

parte anteriore, sulla fronte e sul lato sinistro eseguita

con solchi più o meno profondi. Nello specifico i bordi

presentano una decorazione geometrica composta da

una fila di piccoli cerchi tra due coppie di linee che

vicino ai fori oculari e delle paragnatidi si arricchisce

con motivi vegetali a foglie che si dipartono da una

duplice linea. A marcare le arcate sopraccigliari invece

è presente un motivo a due “S” convergenti, unite al

centro, formato da una doppia linea con una nervatura

centrale decorata all’interno con un motivo a “spina di

pesce” che termina con elementi fitomorfi.

La decorazione diviene più complessa sopra le sopracciglia,

anche se ora è scarsamente visibile: due cinghiali

resi di profilo posti specularmente verso il centro

dell’elmo dove è presente un decoro fitomorfo con

fiori, girali e serpenti. Sulla paragnatide sinistra infine si

scorge appena, per la leggerezza dell’incisione, una coppia

di teste di grifo.

Originariamente la superficie della calotta era rivestita

di tessuto, di cui restano tracce della trama emerse, e

lasciate visibili, durante il restauro del 1981.

Le fattezze della calotta e del paranuca portano a collocare

l’elmo in una fase cronologica avanzata delle produzioni

arcaiche e a ricondurlo all’area meridionale apula,

probabilmente appartenuto ad un esponente di un ceto

guerriero aristocratico insediato nelle Murge, sul Monte

Sannace a pochi chilometri da Gioia del Colle.

La tipologia di decorazione figurata al centro della

fronte appare dalla seconda fase della classificazione di

Pflug (Lotus-Gruppe): proprio per la presenza del fiore

di loto sulla fronte e per confronti con altri elmi di area

apula Enzo Lippolis (Andreassi et al. 1995, p. 189) propone

una datazione alla seconda metà del VI secolo a.C.

Federica Millozzi

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60. Lucio Anneo Seneca

Tragoediae (con il commento di Nicola Trevet), XIV secolo

Manoscritto membranaceo, mm 355 x 245

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. lat. 355, f. 1v

Bibliografia: C.M. Monti in Città del Vaticano 1996-97, p.

226, cat. 50.

L’avvicendarsi nella scrittura di mani francesi e italiane

ha suggerito che il codice sia stato esemplato alla corte

papale di Avignone. Il testo delle tragedie è accompagnato

dal commento del domenicano inglese Nicola

Trevet, compiuto prima del 31 luglio 1317 (Marchitelli

1999, pp. 42-43).

La miniatura di f. 1v, di mano italiana, raffigura la

messa in scena dell’Hercules furens in un teatro antico.

Il poeta che legge i versi, il coro, i personaggi (tra cui

spicca Ercole impellicciato – compreso il capo – nella

leontè), il pubblico, tutti sono disposti in accordo con la

descrizione del teatro antico data da Nicola Trevet nel

suo commento: «Et nota quod tragedie et comedie solebant

in theatro hoc modo recitari: theatrum erat area

semicircularis, in cuius medio erat parva domuncula,

que scena dicebatur, in qua erat pulpitum super quod

poeta carmina pronunciabat; extra vero erant mimi,

qui carminum pronunciationem gestu corporis effigiabant

per adaptationem ad quemlibet ex cuius persona

loquebatur. Unde cum hoc primum carmen legebatur

mimus effigiabat Iunonem conquerentem et invitantem

Furias infernales ad infestandum Herculem» (f. 5v =

Trevet 1959, pp. 5-6) – «E nota che tragedie e commedie

venivano recitate in questo modo: il teatro era una

piattaforma semicircolare nel cui mezzo era una piccola

casetta, detta “scena”, dove si trovava un leggio sopra il

quale il poeta proferiva i versi; al di fuori si trovavano

i mimi, che col movimento del corpo fingevano di pronunciare

le battute a seconda del personaggio che parlava.

Così, mentre veniva letto il primo brano di versi, il

mimo impersonava Giunone quando questa si lamenta e

incita le Furie infernali ad infestare Ercole.»

Come notato da Silvia Longhi (2005), è soprattutto nei

comportamenti che contrassegnano l’impazzimento

che la figura di Orlando nel Furioso echeggia l’Ercole

senecano.

Adolfo Tura

162 163



61. Giuliano Giamberti detto Giuliano da Sangallo

Figura maschile in piedi che lacera un cartiglio (Lucrezio?), c. 1510

Penna e inchiostro, pennello e inchiostro diluito, biacca, pietra nera naturale su carta, mm 394 x 274

Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e

del turismo

Inv. 155 F

Bibliografia: Fabriczy 1902; M. Fossi Todorow in Firenze

1955, p. 28, cat. 75; C. Sisi in Firenze 1992a, pp. 58-59, cat.

2.16; C. Casoli in Firenze 2011, pp. 180-181, cat. 39 (con

bibiografia precedente); Casoli 2012.

Questo splendido disegno, perfettamente finito, rappresenta

un individuo anziano, con barba e capelli fluenti,

rivestito – ma con ampie porzioni denudate – d’un mantello

dal panneggio tempestoso, nell’atto di stracciare

quasi forsennatamente, con entrambe le mani, due lunghi

cartigli, mentre ai suoi piedi giace un libro aperto ma

rovesciato; sulla sinistra, l’unica notazione ambientale è

quella d’una grande roccia.

Di Giuliano da Sangallo, legnaiolo e architetto fiorentino

dalla carriera lunga e onorata, ci resta un ricco e vario

corpus grafico, che comprende due interi taccuini di

rilievi architettonici dall’antico e vari fogli sparsi, che

esibiscono tuttavia soltanto in piccola parte disegni di

figura. Nondimeno l’attribuzione del nostro esemplare

a Giuliano, avanzata oltre un secolo fa da Cornelius von

Fabriczy (1902), e talora messa in dubbio dagli studiosi

successivi, è stata recentemente confermata in un’esaustiva

scheda da Cristina Casoli (2012), che lo ha accostato

per tecnica e stile ad un altro foglio attribuito a

Giuliano con un Gruppo di guerrieri antichi (Firenze,

GDSU, inv. 616 Orn), che costituiva in origine un’unità

con il Generale che legge un messaggio dell’Albertina di

Vienna (inv. 48). Questa composizione ricostruita «sembra

collegarsi, nell’ambientazione, al nostro foglio 155 F»

(Casoli 2012). Sul piano stilistico, data anche l’altissima

qualità esecutiva, la figura disegnata del Sangallo s’intona

perfettamente ad un artista legato a doppio filo al

clima colto e raffinato della Firenze laurenziana, fra Botticelli

e Filippino Lippi, cui rimanda anche il gusto per

la combinazione di pose complesse e tono nobilmente

patetico – che qui, però, pare davvero ispirata, come

propose Maria Fossi Todorow (1955), al Laocoonte, alla

cui riscoperta Giuliano poté assistere personalmente

a Roma nel 1506. Il riferimento, rifiutato da Sisi (in

Firenze 1992a), è stato poi ripreso dalla Casoli (2012), la

quale tuttavia richiama l’esistenza di altri Laocoonti precedenti

alla riscoperta del gruppo statuario.

Il soggetto del disegno non di facile individuazione:

un’ipotesi di Carlo Sisi (in Firenze 1992a) vuole che si

tratti del poeta latino Tito Lucrezio Caro, del quale San

Girolamo descrive la subentrata follia a causa di un

filtro amoroso, nonché il suicidio («[Lucretius] amatorio

poculo in furorem versus, cum aliquot libros per

intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero

emendavit, propria se manu interfecit»). Va osservato

che, benché la figura e l’opera di Lucrezio fossero ben

conosciute e apprezzate nella Firenze del Rinascimento

(Brown 2010), la pur suggestiva proposta rimane allo

stato attuale priva di riscontri; fra l’altro, Girolamo non

accenna al fatto che Lucrezio distruggesse i suoi scritti,

né il disegno sembra accennare in modo diretto – ad

esempio tramite la pozione – alla causa della “pazzia”

dell’effigiato.

Gabriele Donati

164 165



62. Ludovico Ariosto

Orlando furioso

Venezia, 31 agosto 1526. 8°

Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, AB.VIII.49

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività

culturali e del turismo

Bibliografia: Agnelli e Ravegnani 1933, n. 26.

Questa stampa popolareggiante, della quale s’ignora il

tipografo, reca all’inizio del testo (c. a2r) una silografia

di grossolana fattura divisa in quattro scomparti in

cui sono rappresentate, in raccapricciante sequenza, le

scene dell’impazzimento di Orlando. La scelta di privilegiare

la pazzia del paladino ponendone una raffigurazione

all’inizio, sebbene in pieno accordo col titolo

del poema, è un unicum tra le edizioni illustrate del

Cinquecento.

Adolfo Tura

166 167



63. Baldassarre da Fossombrone

Il Menzoniero o Bosadrello

[Ferrara], Severino Ferrarese, [non dopo il 1475]. 4°

Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Misc. 4136.7

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività

culturali e del turismo

La più antica edizione a stampa dell’opera di Baldassarre

da Fossombrone (IGI 1166), di cui si conserva, oltre a

questo, un solo altro esemplare, in mano privata (Martini

1934, n. 178). Nell’iniziativa di stampa ebbe un coinvolgimento

finanziario Felice Feliciano (Contò 1995, pp.

304-305).

Il testo consiste in una raccolta di astrusi sonetti che

narrano fatti strampalati; alla fine di ognuno si connette

alla sirima, tramite la formula «Questa non fu busia»,

una coda faceta di due versi. Per chi si dilettava a leggerlo,

si trattava insomma di una sequela di “pazzie”.

In una missiva del 15 agosto 1470 l’oratore mantovano

Zaccaria Sagi così si esprime: «L’officiale da Soncino ha

scritto oggi la magior patia del mondo: [...] a Bressa s’è

levato il popolo a romore e li retthori si sonno ridutti ne

la garzetta, che mi par una de le novelle del Bosadrello di

ser Baldesaro» (Crimi 2010, p. 13).

I sonetti del Bosadrello divennero presto la base di un

gioco di sorti, di quelli che incominciavano con un tiro

di dadi, e le edizioni del Cinquecento sono dichiaratamente

informate a questo utilizzo.

Adolfo Tura

168 169



64. Cosmè Tura

San Giovanni a Patmos, c. 1470-75

Olio su tavola, cm 27 x 32

Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

Provenienza: (?) Ferrara, collezione Giovan Battista

Costabili, 1835; Genova, collezione Gnecco; Milano, collezione

Dal Pozzo; Milano, collezione De Angeli-Frua;

Lugano, barone Hans Thyssen-Bornemisza, dal 1976;

Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, dal 1993 (Manca

2000, p. 133).

Bibliografia: N. Barbantini in Ferrara 1933a, p. 65, cat.

70bis; Longhi 1934 (ed. 1956), p. 26; Ruhmer 1958, pp. 38,

175; F. Todini in Londra 1984 (ed. 1985), pp. 74-75, cat. 2;

Mattaliano 1998, p. 146, n. 501; Molteni 1999, pp. 169-170;

Manca 2000, pp. 133-134, n. 20 (con bibliografia precedente);

Ciani Passeri e Ciatti 2003, p. 161; Sgarbi 2003,

pp. 188-189; Toffanello 2007, p. 140.

La tavoletta fu presentata per la prima volta a Ferrara

all’Esposizione del 1933 con attribuzione a un «ferrarese,

affine al Tura» (Barbantini in Ferrara 1933a, p. 65);

dopo il sicuro pronunciamento di Longhi (1934, ed. 1956,

p. 26) a favore del maestro, l’autografia è stata generalmente

accettata dalla critica, concorde nel ritenerla

opera matura del pittore (Molteni 1999, p. 170; Manca

2000; Toffanello 2007, p. 140). La sua provenienza dalla

collezione Costabili merita ulteriori approfondimenti:

l’identificazione del quadro di Madrid con l’unico di

analogo soggetto presente nella collezione, descritto

come «S. Giovanni nell’Isola di Patmos. Tavola piccola

bislunga che era in Casa» e attribuito ad autore incerto

del XVI secolo di scuola fiorentina (Mattaliano 1998, p.

146, n. 501) desta qualche perplessità, parendo strano

che il Catalogo del 1835 possa avere equivocato sia sul

periodo che sull’autore del dipinto, che presenta inconfondibili

cifre turiane. Le affinità stilistiche e compositive

del San Giovanni con il San Luca di Tura già nella

collezione Martelli di Firenze e oggi agli Uffizi suggeriscono

la loro appartenenza a un medesimo complesso

decorativo raffigurante i quattro evangelisti (Sgarbi

2003, p. 189). L’ipotesi che i due Santi fossero parte della

predella del perduto polittico eseguito da Cosmè per la

chiesa ferrarese di San Luca, con figurine di santi nei

vari comparti già smembrati nel Settecento in quadretti

autonomi (Ciani Passeri e Ciatti 2003, p. 161), è difficilmente

verificabile, vista la genericità delle informazioni

trasmesse dalle fonti settecentesche e la conseguente

impossibilità di stabilire se in effetti il polittico fosse di

Cosmè, nonché d’immaginarne l’assetto originario.

Le condizioni conservative della tavoletta non offuscano

l’incanto del paesaggio roccioso, del verde del prato,

dell’azzurro del cielo attraversato da sottilissime nubi

dorate, né rendono meno leggibile la mirabile tranquillità

del santo, placidamente sdraiato, la testa avvolta in

un copricapo orientaleggiante le cui pieghe sembrano

ricalcare quelle delle rocce circostanti, e su cui poggia

il cerchio del nimbo. L’aquila, appollaiata sul braccio

destro e come immersa nella lettura del libro, conferisce

vivacità e movimento a una scena altrimenti sospesa

nello spazio e nel tempo. L’isola di Patmos in cui Giovanni

è stato esiliato e in cui compone l’Apocalisse si

trasforma, nella fantasia di Tura, in un paesaggio favoloso,

quasi non terrestre (F. Todini in Londra 1984, ed.

1985, p. 74), o simile alla «strana visione di un deserto

dell’Arizona» (Ruhmer 1958, p. 38). La temperatura

fantastica del San Giovanni di Tura evoca uno dei passi

più celebri e ricchi d’incanto del Furioso, quello dell’incontro

nel Paradiso terrestre tra Astolfo e l’evangelista,

immaginato come un vegliardo vestito di rosso e

di bianco, bianchi i capelli, bianca la «folta barba ch’al

petto discorre» (XXXIV, 54, 4), che lo guiderà sulla luna

per recuperare il senno di Orlando «in un vallon fra

due montagne istretto, / ove mirabilmente era ridutto /

ciò che si perde o per nostro difetto, / o per colpa di

tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, là si raguna»

(XXXIV, 73, 4-8).

Marialucia Menegatti

170 171



65. Maestro delle Vitae Imperatorum

Dante e Virgilio scendono verso le Malebolge in groppa a Gerione

in Guiniforte Barzizza, Commento all’Inferno di Dante, c. 1440

Pergamena, 381 ff., mm 320 x 215

Parigi, Bibliothèque nationale de France, It. 2017, ff. 198v-199r

Bibliografia: Toesca 1912 (ed. 1966), pp. 219-220; Pellegrin

1955, p. 392; R. Cipriani in Milano 1958, pp. 67-68,

cat. 208; Brieger, Meiss e Singleton 1969, I, pp. 38-39; F.

Avril in Parigi 1984, pp. 149-151, cat. 130; Bandera Bistoletti

1984; Roddewig 1984, n. 574; Bellomo 2004, pp. 134-

139; F. Lollini, M. Besseyre e M. Perani in Baruzzi e Mirri

2006, pp. 75-89, n. 6.

L’unico esemplare miniato del commento all’Inferno

redatto da Guiniforte Barzizza verso il 1438 appartenne

al duca di Milano Filippo Maria Visconti, committente

del testo (Bellomo 2004). Le sue oltre cento miniature

d’origine ne facevano uno dei testimoni figurati più ricchi

del poema (Brieger, Meiss e Singleton 1969, I, pp.

38-39), ma nell’Ottocento, in Francia, alcuni mini furono

asportati, e si conservano oggi a Imola (F. Lollini, M. Besseyre

e M. Perani in Baruzzi e Mirri 2006, pp. 75-89, n. 6).

Nel frammento parigino cinquantanove scene incorniciate

introducono i versi del poema, intercalati alla

glossa. In groppa a Gerione, Dante e Virgilio scendono il

burrone che li porterà a Malebolge allontanandosi dagli

usurai, seduti sul sabbione arroventato e sferzati da una

pioggia di fiamme. Il dannato che porta al collo una

borsa con la scrofa azzurra in campo argenteo (ossidato)

è uno Scrovegni: è identificato con Reginaldo, padre di

Enrico, il committente padovano di Giotto. Dante gli

parla nella miniatura precedente, al f. 196r: le due scene

condividono la rappresentazione di un identico sfondo,

che però nella seconda è tagliato all’estremità sinistra

ed ampliato a destra, come se lo sguardo del lettore si

spostasse orizzontalmente nello spazio per seguire i due

protagonisti. La scena è ambientata sotto la crosta terrestre,

ma la vegetazione dorata sul fondo rosso ha un

semplice valore decorativo. Altrove è sostituita da fondi

geometrici, di gusto francese.

L’anonimo “Maestro delle Vitae Imperatorum”, prolifico

miniatore caro a Filippo Maria Visconti (F. Lollini

in Bollati 2004, pp. 587-589), forza in chiave grottesca

il registro comico del poema, attribuendo ai suoi personaggi

una mimica enfatica. Dotato di un’affabile vena

narrativa, gli è invece estraneo il gusto del demoniaco,

così che anche il mostruoso Gerione è disegnato con

tratto fluido e un volto convenzionale. Sempre densa, la

tavolozza del maestro sfrutta qui il contrasto tra i grigi

del terreno e il rosso del fuoco, attingendo progressivamente

a tonalità più livide che rendono lo squallore

degli ultimi gironi. In tutto il codice le nudità dei personaggi

sono state grattate.

Pier Luigi Mulas

172 173



66. Globo dell’obelisco vaticano, prima metà del I secolo d.C.

Bronzo dorato, diametro cm 80,5

Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori

Inv. MC 1066

Bibliografia: C. Parisi Presicce in Roma 2008-09, p. 257,

cat. 145 (con bibliografia precedente).

L’imponente globo in bronzo dorato, databile al I secolo

d.C., è stato per secoli sulla sommità dell’obelisco fatto

trasportare a Roma da Caligola per collocarlo nel Circo

Vaticano. Ancora agli inizi del Duecento il monumento

si trovava nella posizione originaria, rialzato su un piedistallo

formato dai corpi di quattro leoni in bronzo. Era

considerato la tomba di Giulio Cesare, sulla base di una

tradizione documentata già nel XII secolo e supportata

dalle presenza dell’iscrizione dedicatoria Divo Caesari

Divi Iulii. Secondo la credenza medievale, le ceneri

dell’imperatore erano conservate nel globo sommitale

– come pure si riteneva che la sfera dell’obelisco in

Aracoeli contenesse le ceneri di Augusto – in una evidente

ma infondata analogia con la sepoltura di Traiano

nell’omonima colonna. Nel 1586 l’obelisco venne traslato

ad opera di Domenico Fontana nell’attuale posizione

al centro di piazza San Pietro e una croce venne posta

a sostituire la sfera. Quest’ultima era quindi ben visibile

negli anni dei soggiorni romani di Ariosto. Sulla sua

superficie sono tuttora distinguibili i danni dei colpi sparati

dagli archibugi dei lanzichenecchi durante il Sacco

di Roma del 1527. Il pyramidion dorato, estraneo al manufatto

originale, fu probabilmente inserito nell’Ottocento,

quando si posizionò la sfera sull’attuale base marmorea.

Nella immaginazione di Ariosto, la luna è una sfera

metallica: «Come un acciar che non ha macchia alcuna»

(XXXIV, 73, 4). In questo si avvicina all’idea di Leonardo

che, all’incirca negli stessi anni (1506-08), nel descrivere

la luna come una palla d’oro brunito — polita, lustra e

densa — che riflette lo splendore del sole, va implicitamente

con la memoria alla palla del Verrocchio sulla

lanterna della cupola della cattedrale fiorentina: «Come

manifestamente c’insegnia le palle dorate poste nelle

sommità delli alti edifizi» (Codice Arudel, f. 94v). Commissionata

nel 1486, la sfera di rame di oltre due metri

di diametro era stata costruita e montata in cima alla

lanterna nel 1471, quando Leonardo era entrato da poco

nella bottega del Verrocchio; un’impresa prodigiosa che

ancora ricorda con nostalgia nel 1515, ormai vecchio, a

Roma (ms. G, f. 84v): «Ricordati delle saldature con che

si saldò la palla di Santa Maria del Fiore» (Maffeis 2015).

Guido Beltramini

174 175



67. Maestro di Evert Zoudenbalch

Ruota della fortuna

in De natuurkunde van het geheelal, XV secolo

Manoscritto cartaceo eterogeneo, mm 215 x 150

Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, Cod. Guelf. 18.2 Aug. 4°, f. 123r

Bibliografia: Heinemann 1900 (ed. 1965), n. 3133; Jansen-Sieben

1968, pp. 153-163; H.L.M. Defoer in Utrecht e

New York 1989-90, pp. 208-209, cat. 64; per una descrizione

codicologica Jansen-Sieben 1968, pp. 155-158.

Il codice esposto contiene vari testi, tra cui la Descriptio

de tota terra promissionis cum Jherusalem di Willem

Walter van Zierixsee (ff. 1r-43r), l’Itinerarium di Odorico

da Pordenone (ff. 43r-105r), un trattato di flebotomia (ff.

106r-110v, inc. «Fleubotomia est vene recta incisio et sanguinis

moderata effusio» = TK 798k) e l’anonimo poema

didattico del XIII secolo in medio-olandese noto come

De natuurkunde van het geheelal (ff. 115r-151v). Quest’ultimo,

vergato attorno al 1465-70, è corredato da illustrazioni

dovute al Maestro di Evert Zoudenbalch (Defoer in

Utrecht e New York 1989-90, pp. 198-211). La miniatura

di f. 123r raffigura la ruota della fortuna. Questa viene

mossa da un asino tenuto al laccio dalla Fortuna, i cui

capelli le coprono interamente il viso – secondo un’iconografia

che trova già attestazione nel Conte du Graal (vv.

4578-4579 Méla: «Ha! Percevaus, fortune est chauve /

darriere et devant chevelue») e riaffiora nell’Amorosa

visione (redazione B, canto XXXI, vv. 22-23: «Horribile

in la fronte sol avea / li capei volti»). Alla sommità della

ruota è una volpe, sulla sinistra si sta arrampicando

una scimmia, a destra si vede scendere un levriero;

sotto la ruota si trova un leone. La particolarità dell’iconografia

sta soprattutto nel fatto che la ruota appare

solidale a un crescente di luna. Questo si spiega per l’associazione

tra la mutabilità della fortuna e la variazione

delle fasi lunari (tipica testimonianza l’adagio «est rota

fortunae variabilis ut rota lunae: crescit, decrescit, in

eodem sistere nescit»: si veda Wackernagel 1848, p. 143;

Appuhn-Radtke 2005, p. 300). In modo spiccatamente

visionario, alla parte in ombra del corpo celeste è data la

parvenza di un volto umano di profilo, di tinta cilestrina,

con labbra vermiglie socchiuse e grandi occhi marroni

dallo sguardo perplesso, che fa da sfondo all’immagine

della Fortuna e della ruota.

Adolfo Tura

176 177



68. Niccolò Machiavelli

Lettera a Lodovico Alamanni, 17 dicembre 1517

Bifolio cartaceo, mm 290 x 220

Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Aut. Pal. Mach. I.52.

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

La lettera di Machiavelli a Lodovico Alamanni del 17

dicembre 1517, della quale si espone l’autografo, contiene

la più antica testimonianza che ci sia pervenuta di

apprezzamento dell’Orlando furioso da parte di un letterato.

Nell’edizione delle Lettere di Machiavelli curata

da Franco Gaeta il passo in questione si legge così: «Io

ho letto a questi dì Orlando Furioso dello Ariosto, e

veramente el poema è bello tutto, et in di molti luoghi

è mirabile. Se si truova costì, raccomandatemi a lui, e

ditegli che io mi dolgo solo che, avendo ricordato tanti

poeti, che m’abbi lasciato indreto come un cazo, e ch’egli

ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non

farò a lui in sul mio Asino» (Machiavelli 1984, p. 498).

La curiosa frase «che m’abbi lasciato indreto come un

cazo» si trova parimenti in tutte le più accreditate edizioni

del Novecento a partire da quella di Mazzoni e

Casella del 1929 (Machiavelli 1929, pp. 898-99; Machiavelli

1971, p. 1195; Machiavelli 1999, p. 357) e ricorre tale

e quale sotto la penna di molti insigni studiosi (si veda,

per esempio, Blasucci 1964, p. XXVIII; Martelli 2009,

p. 209; Bausi 2005, p. 145; Bruscagli 2008, p. 35) e nelle

storie letterarie (Ferroni 2009, p. 36; Asor Rosa 2009,

I, p. 546). Nessuno si è mai soffermato sulla stranezza

della locuzione, la cui singolarità è confermata dal fatto

che il Dizionario di Battaglia registra, per cazzo, un’accezione

di «individuo oltremodo sciocco, citrullo»

(GDLI, II, p. 935) a suffragio della quale viene allegata

soltanto la frase di Machiavelli (sulla base dell’edizione

di Mazzoni e Casella).

Tutte le stampe da me consultate precedenti al 1929,

dalla seconda metà del Settecento e per buona parte

dell’Ottocento, omettono la parola da leggersi dopo

«come un» e segnalano la lacuna con dei puntini. Nel

1883 uscì l’edizione di Edoardo Alvisi, in cui per la

prima volta venne completata la frase: «come un cane»

(Machiavelli 1883, p. 403); lezione che, presto sopraffatta

da quella vulgata da Mazzoni e Casella, ebbe fortuna

brevissima.

Valga l’autografo. Questo, per cominciare, è custodito in

una cartellina sulla cui prima facciata si legge, di mano

di un bibliotecario di primo Ottocento, la seguente

osservazione: «È pubblicata fra le Familiari (Opere t.

VIII, pag. 152) [il riferimento è a Machiavelli 1813]. La

parola lasciata in bianco nella stampa a pagina 154 v.

1 sembra che nel presente ms. dica ciuco». Una mano

più tarda ha chiosato: «Mi pare invece chiarissimo che

dica altrimenti». Venendo con ciò all’autografo, al f. 1v l.

5 si legge distintamente (se si abbia dimestichezza con

le corsive di primo Cinquecento) «come un cane» (cāe).

Gloria all’Alvisi!

Adolfo Tura

178 179



69. Giovanni Luteri detto Dosso Dossi

Melissa, c. 1518

Olio su tela, cm 176 x 174

Roma, Galleria Borghese. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. 217

Provenienza: Roma, palazzo in Borgo (oggi Giraud Torlonia),

residenza del cardinale Scipione Borghese, 1611; Roma,

villa Borghese, 1650; Roma, Giovanni Battista Borghese

1693; Roma, quadreria Borghese nel palazzo a Campo Marzio,

1790; fedecommesso Borghese, 1833.

Bibliografia: Ballarin 1994-95, I, p. 40; Romani in Ballarin

1994-95, I, p. 312, n. 372 (con bibliografia precedente); Yarnall

1994, pp. 116-118; Roberts 1996, p. 188; Coliva 1998, pp.

74-76; P. Humfrey in Ferrara, New York e Los Angeles 1998,

pp. 114-118, cat. 12; K. Hermann Fiore in Bruxelles 2003, p.

257, cat. 180; Kilpatrick 2004; Macioce 2004; Wood 2006;

Fumagalli 2007, pp. 177-178, 181; Fiorenza 2008, pp. 101-126;

Morel 2008, pp. 232-239; Farinella 2014a, pp. 440-464;

Caneparo 2015, pp. 31-34.

La favolosa incantatrice seduta al centro di un cerchio

magico è stata a lungo identificata con una generica

«maga», poi con la temibile Circe omerica, prima di

essere riconosciuta come una delle figure protagoniste

del poema, quella della maga Melissa in atto di annullare

il sortilegio della malvagia Alcina, «imagini abbruciar,

sugelli torre, e nodi e rombi e turbini disciorre» per liberare

Ruggiero e i cavalieri che questa aveva trasformato in

fiori, alberi e animali (VIII, 14). L’immagine, interpretata

da Julius von Schlosser (1898, pp. 129-130; 1900, pp. 268-

169) sulla base del canto VIII, è tuttavia qualcosa di più

della traduzione di uno specifico episodio, è un compendio

dell’intera vicenda che attinge a diversi punti del poema

per celebrare questo personaggio, al quale Ariosto affida

il ruolo di buona madrina e profetessa della discendenza

estense (Ballarin 1994-95, I, p. 40). Una svolta importante

nell’interpretazione dell’opera ha offerto in questo senso

la radiografia della tela (Coliva 1998, pp. 74-76), rivelando

la presenza in origine di una figura armata sul lato sinistro

rivolta verso la protagonista, successivamente occultata

dal pittore. A partire da questo nuovo elemento è stato

possibile prospettare una più articolata ipotesi di lettura

riconoscendo nel cerchio magico ai piedi della maga, entro

il quale si trovava anche la seconda figura, un elemento

proprio del racconto e della tradizione figurativa del canto

III (Farinella 2008, 2012, 2014a, pp. 440-464). In questo

Melissa conduce Bradamante, presso la tomba di Merlino,

la cui voce rivela l’origine troiana della stirpe che nascerà

dall’unione dei due paladini; poco dopo gli spiriti della progenie

estense, evocati dalla maga, sfilano intorno al «sacro

cerchio» uno dopo l’altro fino ad arrivare ad Alfonso e al

fratello Ippolito. La presenza del duca e dei suoi familiari

al cospetto del dipinto costituiva dunque l’ideale completamento

della composizione (Caneparo 2015, p. 33).

La fortuna di Melissa, come nume tutelare e celebrativo

degli Este, è attestata da altri esempi, tra i quali un dipinto

perduto, ma descritto dalle fonti, realizzato da Jean Boulanger

per il palazzo Ducale di Sassuolo (Farinella 2008, p.

209). È dunque probabile che la figura armata rappresentasse

Bradamante, ma, giocando sul filo di una più sottile

allusione, il pittore avrebbe deciso di eliminarla e di introdurre

altri elementi riferibili al canto VIII, dove la maga

interviene in favore dell’altro capostipite degli Este. Se le

piante, gli animali, l’armatura e le piccole figure umane di

cera appese all’albero rimandano dunque ai sortilegi della

malvagia Alcina, il cespuglio di rose, avrebbe la funzione

di antidoto, secondo un passo dell’Asino d’oro di Apuleio

citato nel dialogo sulla stregoneria di Gianfrancesco Pico

(Morel 2008, pp. 242-249; Farinella 2014a, p. 455).

Dal punto di vista stilistico l’opera è da collocare intorno al

1518, ponendosi a pochissimi anni dall’uscita del Furioso,

come il primo esempio in assoluto della sua secolare fortuna

figurativa. Nessun dipinto di diretta ispirazione ariostesca,

tuttavia, è forse in grado come questo di Dosso di tradurre

contenuti e forme della prima redazione del poema

nel linguaggio dell’arte. La temperatura fantastica accesa di

sontuoso cromatismo nel paesaggio, come nella veste della

maga e negli oggetti che la circondano (la lucente corazza,

il braciere, l’intenso molosso dal pelo argentato), declina

le possibilità espressive del giorgionismo e del tizianismo

di terraferma, che avevano caratterizzato le prime prove

dell’artista, reinterzato poi da umori eccentrici e transalpini

intorno al 1516-17. Entro questa atmosfera, però,

la figura si pone con un’ampiezza ed una monumentalità

che guardano ormai al classicismo di Tiziano quanto di

Raffaello, assumendo l’atteggiamento più che di una maga,

di una antica Sibilla. Sulla Sibilla Cumana, d’altronde, e

sull’intero canto VII dell’Eneide lo stesso Ariosto aveva

scelto di esemplare la profezia di Melissa.

Barbara Maria Savy

180 181



UN CAPO-

LAVORO IN

TRASFOR-

MAZIONE



70. Ludovico Ariosto

Frammento manoscritto autografo dell’Orlando furioso

Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, SP33, n. 3

Bibliografia: Ariosto 1937; Contini 1947; Ariosto 2010.

Della composizione dell’Orlando furioso non ci sono

rimaste testimonianze manoscritte dell’autore, ad eccezione

di alcuni frammenti riguardanti le aggiunte al

testo del 1532. I più importanti sono quelli relativi alla

storia di Olimpia e a quella di Ruggiero e Leone; meno

rilevanti sul piano strutturale i manoscritti riguardanti

le avventure di Bradamante nella Rocca di Tristano e

l’episodio di Marganorre. Tali autografi sono divisi tra

la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara, che ne conserva

la maggior parte (54 carte), la Biblioteca Ambrosiana

di Milano (2 carte) e la Biblioteca Nazionale di

Napoli (un foglio), e costituiscono un corpo unico, come

ha magistralmente ricostruito Santorre Debenedetti,

trascrivendoli nella loro disposizione originaria che

rende conto dell’andamento della scrittura ariostesca,

e pubblicandoli nel 1937 (si veda Ariosto 1937). Sono

stati recentemente ripubblicati da Cesare Segre con una

sua Premessa. Le due carte qui esposte contengono una

parte dell’episodio di Olimpia e ne costituiscono la copia

definitiva, a parte qualche ulteriore ritocco in fase di

stampa (vedi Tav. 75): un documento pertanto preziosissimo

in quanto frammento dell’«unico manoscritto –

quello che fu poi consegnato all’editore dell’ultima

redazione, Francesco Rosso da Valenza», come sottolinea

Cesare Segre (in Ariosto 2010, p. IX). Si tratta dunque

della copia in pulito delle stanze IX 1-11, 92-94 e X

3-7, le cui precedenti fasi di elaborazione si trovano nei

manoscritti conservati a Ferrara, dai quali si può avere

un esempio di come procedeva la scrittura ariostesca,

delle sue difficoltà e delle sue felici soluzioni: «versi ora

appena abbozzati, poi abbandonati, ora invece animati

da un entusiasmo gioioso, che ci dicono tutto su ogni

fase di composizione» (Ibid., p. IX), fino ad arrivare

alla stesura definitiva rappresentata dai manoscritti qui

esposti. Gli autografi ci introducono dunque nel laboratorio

dell’Orlando furioso, mostrandoci «come lavorava

l’Ariosto», secondo le parole con cui Gianfranco Contini

ha intitolato il suo articolo-recensione ai Frammenti

autografi di Debenedetti, articolo che segna l’avvio di

quella «critica delle varianti (d’autore)», diventata centrale

nell’attività critica continiana; autografi che aiutano

a farci conoscere il percorso inventivo e la perizia

di Ariosto nel creare una poesia che non denuncia le

fatiche della elaborazione che le sta dietro, «una poesia

che diresti nata senza alcun travaglio, agevole come i

prodotti della natura» (Ibid., p. IX).

Tina Matarrese

184 185



71. Archibugio a ruota, c. 1520-25

Ferro, ottone e legno, cm 85,3 x 15 x 8

Parigi, Musée de l’Armée

Inv. 794 PO M

Provenienza: collezione Georges Pauilhac, acquisito dal

Musée de l’Armée nel 1964.

Bibliografia: Reverseau 1982, pp. 91-92.

Per te son giti ed anderan sotterra

Tanti signori e cavallieri tanti,

Prima che sia finita questa guerra,

Che ’l mondo, ma più Italia ha messo in pianti

Orlando furioso, XI, 27, 1-4

Con queste parole Orlando si rivolge all’archibugio,

arma del vile re di Frisia. Nel mettere in campo questo

strumento letale, Ariosto evoca quell’epoca turbolenta

in cui il moltiplicarsi delle armi da fuoco andava trasformando

il modo di guerreggiare. Eppure nel 1516, nonostante

le espressioni accorate del poeta, l’archibugio

non era una novità: era conosciuto e usato da circa due

secoli. Recente era invece la creazione di reparti organizzati

dotati di tale arma, il cui contributo in termini

tattici cominciava a rivelarsi importante: nella battaglia

di Cerignola del 1503 gli archibugieri spagnoli del

Gran Capitán Gonzalo de Cordoba avevano sopraffatto

i cavalieri francesi, e nel 1525, nella battaglia di Pavia,

sarebbe stato un reparto dotato di armi da fuoco a tempestare

di colpi i gendarmi di Francesco I, contribuendo

alla sconfitta del re di Francia.

Gli archibugi della prima metà del XVI secolo sono

molto rari; l’esemplare conservato al Musée de l’Armée

è dotato di un meccanismo a ruota, che ne fa una delle

più antiche armi da fuoco di tipo francese che si siano

conservate. La polvere da sparo, inserita nella canna

con il proiettile, veniva accesa mediante lo sfregamento

di una rotella dentata contro un pezzo di pirite fissata

nelle ganasce del cane. Questo meccanismo, complesso,

costoso e fragile, era riservato soprattutto alle armi di

lusso: i semplici fantaccini avevano in dotazione degli

archibugi a miccia, in cui il sistema di accensione rendeva

necessario portare con sé una funicella impregnata

di salnitro per assicurare la combustione lenta. Un

archibugiere ben addestrato poteva sparare un proiettile

di piombo di 15-18 mm di calibro ogni quaranta-cinquanta

secondi, portando con sé fino a una trentina di

cariche di polvere.

Olivier Renaudeau

186 187



72. Ludovico Ariosto

Orlando furioso

Ferrara, Giovanni Mazzocchi, 22 aprile 1516. 4°

Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, S 16.1.21

Il 22 aprile del 1516 del calendario giuliano fu pubblicata

a Ferrara la prima edizione del poema di Ludovico Ariosto:

l’Orlando furioso, il cui incipit fu stampato, nei due

versi iniziali, in caratteri capitali «Di donne e cavallier li

antiqui amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto». L’editio

princeps del Furioso, composta in ottave e costituita

da quaranta canti, reca, a c. 2r, il privilegio di stampa

del pontefice Leone X (al secolo Giovanni de’ Medici)

datato Roma, 27 marzo 1516, sottoscritto dal segretario

dei Brevi Iacopo Sadoleto, che diverrà cardinale, sotto

Paolo III, nel concistoro del 22 dicembre 1536. Seguono

altri privilegi: Similemente il Christianissimo Re di Francia

[Francesco I], et la Illustrissima Signoria de Venetiani

et alcune altre potentie prohibiscono che ne le lor terre a

nessuno sia licito stampare, ne far stampare, ne vendere,

ne far vendere questa opera senza expressa licentia del suo

authore, sotto le gravissime pene che ne li ampli lor privilegi

se contengono.

Al verso della c. 2 è presente una xilografia raffigurante

api che sciamano da un ceppo posto sul fuoco, nella cui

cornice, ricorrono, otto volte, martello e scure legati da

una serpe e il motto, in capitale, dell’autore «Pro bono

malum». La stessa iconografia della cornice, connessa

al motto, fu utilizzata anche in altre edizioni temporalmente

inseribili tra la prima e la definitiva. La si

ritrova, infatti, in una rarissima edizione del Furioso –

che dal Censimento nazionale delle edizioni italiane del

XVI secolo risulta essere conservata, in Italia, solo dalla

Biblioteca Ariostea di Ferrara – stampata a Venezia il 13

marzo 1530 dal tipografo Girolamo Penzio, originario di

Lecco. Tuttavia nell’edizione veneziana la suddetta iconografia

è associata al frontespizio, impresso ad inchiostro

rosso e nero, e non all’“impresa” delle api.

Ludovico Ariosto, che dedicò l’opera al cardinale Ippolito

I d’Este (c. 3r), fece stampare la prima edizione del

poema da Giovanni Mazzocchi da Bondeno, figlio di

Pellegrino, libraio e tipografo attivo a Ferrara fra il 1509

e il 1517. Mazzocchi, la cui marca tipografica è costituita

da una corona con in basso le iniziali I M in cornice

(c. 1r n.n.), aveva la propria bottega, a Ferrara, in via dei

Sabbioni – attuale via Mazzini – nella contrada di san

Romano. In seguito, fra il 1519 e il 1520, esercitò la sua

attività anche a Mirandola chiamato, nel 1518, da Giovanni

Francesco Pico.

Del poema, il 13 febbraio del 1521 fu editata a Ferrara,

per i torchi del milanese Giovanni Battista della Pigna,

la seconda edizione con varianti ma sempre in quaranta

canti; la terza, definitiva, in quarantasei canti, di cui la

Biblioteca Ariostea possiede tre copie, fu stampata a Ferrara

da Francesco Rossi il 1 ottobre 1532 con privilegio

del pontefice Clemente VII del 31 gennaio 1532.

Vicenda appassionante l’acquisizione dell’esemplare

“ferrarese” della princeps ricostruibile da varia documentazione

dell’Otto-Novecento, manoscritta e a

stampa, conservata nelle collezioni della Biblioteca. Per

la favorevole mediazione del conte Leopoldo Cicognara

(1767-1834), l’esemplare della princeps fu acquisito dalla

Biblioteca Pubblica ferrarese nel dicembre 1802. Oggetto

di transazione, la preziosa cinquecentina fu data dalla

Biblioteca di Brera – ora Biblioteca Nazionale Braidense –

in cambio di un prezioso codice membranaceo, con

iniziali in oro, del secolo XV, contenente il De Officiis

di sant’Ambrogio e l’opera di Omero, Iliade ed Odissea,

in greco, dai torchi fiorentini di Bernardo e Nerio

Nerli, non prima del 13 gennaio 1488 (IGI 4795; ISTC

ih00300000). Una vera rarità la prima edizione, di cui

già Giuseppe Faustini ne diede conto affermando di

conoscere in tutto tre esemplari, da lui stesso esaminati,

di cui quello ferrarese «è il solo ben conservato e perfetto»

(Brevi notizie delle tre originali edizioni dell’Orlando

Furioso di Lodovico Ariosto nobile ferrarese, Ferrara,

Biblioteca Comunale Ariostea, ms. Classe I 560,

fasc. 2a, cart., aut., sec. XIX, c. 4v). Negli Annali Agnelli

e Ravegnani individuano con certezza otto esemplari

superstiti dell’editio princeps. Attualmente, se ne contano

in tutto il mondo dodici, di cui quattro in Italia.

L’esemplare ferrarese, che presenta una legatura settecentesca

in pergamena con fregi in oro, è stato restaurato

nel novembre 2008.

Mirna Bonazza

188 189



73. Ludovico Ariosto

Orlando furioso

Ferrara, Giovanni Battista della Pigna, 1521. 4°

Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, 132 G 1.

In questo esemplare il frontespizio è sostituito da una

carta (a 1 ) su cui è stata realizzata a mano, in inchiostro

color seppia, una composizione di diversi elementi. Al

centro è riprodotta la marca tipografica con due serpenti

ed una mano armata di forbici. Nei quattro angoli della

cornice che delimita questa immagine si trova il motto

DILEXISTI/MALITIAM/SUPER/BENIGNITATE.

L’immagine (senza cornice) ed il motto (in un cartiglio)

si trovano nell’edizione del 1532 (Zappella 1986, I,

n. CCXXI, r, II, n. 1054; Masi 2002). Il titolo ORLANDO

FURIOSO DI / LUDOVICO ARIOSTO / MDXXI è inquadrato

da una cornice molto simile a quella presente nel

frontespizio tipografico. Nei quattro angoli il motto

ariostesco PRO/BONO/MA/LUM; sul margine destro è

scritto «Vetustatis in obsequium ob viventem AREOSTI

memoriam Bononiensis pinxit Asellus 1650». L’intera

carta a 1 risulta quindi una composizione di motivi decorativi

diversi (marche tipografiche, scritte, cornici), assemblata

dopo la metà del XVII secolo, come l’indicazione

del 1650 sembra suggerire. La sostituzione di questa carta

implica la mancanza nella copia corsiniana del privilegio

di Leone X (27 marzo 1516) che doveva trovarsi a c. a 1 v.

La carta a 8 è sostituita da una carta manoscritta, con testo

su due colonne in inchiostro color seppia, molto probabilmente

allestita contemporaneamente al frontespizio. L’esemplare

corsiniano presenta tracce di lettura in diverse

carte (esercizi di copiatura delle lettere, prove di penna),

indice di una lettura non colta.

La copia corsiniana ha una legatura in cuoio con impressioni

dorate e tassello con il titolo sul dorso.

In un elenco di libri rilegati dalla bottega del legatore e

libraio Toussaint Lhuillier (Petrucci 1961, in particolare

pp. 177-179) tra il 12 settembre 1731 e l’8 febbraio 1732

(ms. Cors. 2628) si trova citato anche «Ariosto, Orlando

Furioso». Si tratta della nostra copia, che è quindi presente

nella raccolta fin dal 1731 e che in quell’anno viene

fornita di una nuova legatura. Il volume entra in Corsiniana

con l’acquisto della biblioteca del cardinale Filippo

Antonio Gualterio l’anno precedente, nel 1730, come si

evince dalla lettura dell’inedito inventario dell’eredità

Gualterio (Roma, Archivio di Stato, Trenta notai capitolini,

notaio Giovanni Paolo Capponi, 1728, c. 1146 r). È

questa una prima, importante, acquisizione sulla provenienza

del volume.

Della rarità sembrano prendere consapevolezza i bibliotecari

corsiniani nel corso dell’Ottocento: nel catalogo

manoscritto annotano che si tratta di un’«edizione arcirarissima»,

espressione già usata in uno dei primi studi sulle

edizioni ariostee (Guidi 1861, p. 6). Questa descrizione è

preziosa perché sembra confermare che il volume entra

in Corsiniana già con il frontespizio e carta a 8 sostituiti.

Nel 1882 il bibliofilo Giacomo Manzoni dà notizia della

presenza in Corsiniana di quest’esemplare e segnala la

volontà di riprodurre, con i metodi dell’eliotipia, la prima

e la ottava carta («Il Bibliofilo», 3, agosto-settembre 1882,

p. 113). L’intenzione non ha seguito. Qualche anno più

tardi, nel 1891, il volume servirà da modello per integrare,

con la riproduzione fotografica, l’esemplare della

biblioteca Angelica di Roma, mutilo di alcune carte (C.A.

Girotto in Tivoli 2016, pp. 158-159, cat. 2) a testimonianza

di una rinnovata attenzione per questa impresa editoriale.

La storia di questo volume è anche storia di una progressiva

consapevolezza della rarità dell’edizione (ancora nel

1933 il repertorio di Agnelli-Ravegnani segnalava come

una scoperta recente il volume della Corsiniana). Oltre

alla due copie romane (Fahy 1989; Spagnolo 2008) e a

quella del Trinity College di Dublino (già citata nel 1861

da Ulisse Guidi), segnalo l’esemplare della Biblioteca Universitaria

di Dresda (coll. S.B. 699) ed il fatto che lo studio

ottocentesco di Guidi citi almeno due esemplari presenti

in biblioteche settecentesche mai individuati. L’edizione

del 1521 rimane, tra quelle realizzate vivente Ariosto, la

meno documentata e la più frettolosa. Dedicata al cardinale

Ippolito d’Este, come quella del 1516, fu stampata

infatti in soli tre mesi, tra il novembre del 1520 ed il febbraio

del 1521, e questo non giovò alla correzione del testo

che infatti presenta molti errori, segnalati nell’errata corrige

del volume insieme a un invito rivolto ai lettori affinché

correggano a loro volta. Particolarmente interessante

risulta in questo senso una delle notazioni a mano presenti

nella copia corsiniana: a carta I 4 r tra gli errori emendati

è stato aggiunto con lo stesso inchiostro «cede chiede

c. 8st.i.u.j». Si riferisce infatti alla carta manoscritta e

sembra far intravvedere difficoltà di accedere ad un testo

corretto e certo. L’esame delle due copie romane, rivela

l’esistenza di almeno due varianti di stato (Spagnolo 2008,

pp. 82-87), indice forse, anche questo, di un lavoro veloce

che se, da un punto di vista testuale, non modifica molto

l’edizione del 1516 avvia però quella complessa e consapevole

revisione linguistica e di stile che culminerà nell’edizione

del 1532 (C.A. Girotto in Tivoli 2016, pp. 160-161, cat.

3; Casadei 2001, pp. 91-111)

Diversi e tutti molto intriganti sono i percorsi di ricerca

aperti dallo studio della copia corsiniana, non ultimo

quello relativo alla circolazione di un’opera che ebbe un

immediato e travolgente successo editoriale. L’edizione

del 1521 risulta forse particolarmente significativa e documenta

una fase intermedia del lungo processo di revisione

ed ampliamento dell’opera da parte di Ludovico Ariosto.

Se da una parte infatti l’edizione del 1521 nasce soprattutto

dall’esigenza di rimettere in circolazione copie del poema

che a quella data cominciavano a scarseggiare, come sembra

testimoniare la lettera del poeta a Mario Equicola del

novembre 1520, dall’altra il coinvolgimento diretto di Ariosto,

economico ed editoriale, ripropone un modus operandi

che era già stato sperimentato nel 1516 e che verrà riproposto,

ampliato ed arricchito anche da una precisa strategia

di distribuzione delle copie, in occasione dell’edizione del

1532 (C.A. Girotto in Tivoli 2016, pp. 160-161, cat. 3).

Ebe Antetomaso

190 191



74. Pietro Bembo

Prose della volgar lingua

Venezia, Giovanni Tacuino, settembre 1525. 2°

Bologna, Biblioteca Universitaria, Raro D. 29

Bibliografia: Bologna 1998, cat. 16 (per la legatura).

Come osservava già Stella (1976), Ariosto anticipa nel

Furioso del 1516 alcune statuizioni delle Prose della volgar

lingua – il che può addursi a riprova del fatto che non

è agevole, parlando di Bembo, rispondere alla domanda

«in che misura la sua grammatica recepì tendenze già

in atto, e in che misura determinò l’assetto dell’italiano

che si stabilizzò diciamo verso la fine del Cinquecento?

Non lo sappiamo con precisione, anche se sulle Prose si

è scritto molto» (Tavoni 1999, p. 227). Non c’è comunque

dubbio che la lettura delle Prose abbia accompagnato

Ariosto nella revisione linguistica del poema che trova

attestazione nella stampa del 1532 (Bigi 1961, ed. 1967,

pp. 167-169), confortandolo soprattutto per le scelte

morfologiche. Nel trentasettesimo canto (15, 1-4) si legge

un esplicito omaggio a Bembo:

Là Bernardo Capel, là veggo Pietro

Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro,

levato fuor del volgare uso tetro,

qual esser dee, ci ha col suo esempio mostro.

Non si creda però che il gusto di Bembo abbia mai dettato

legge al poeta. Già lo notava Luigi Blasucci misurando

l’ampiezza del debito lessicale di Ariosto verso Dante

(vera e propria cartina di tornasole): «E così l’immagine

piuttosto astratta di un Ariosto felicemente approdato

alla stilizzazione petrarchesca, consule Bembo, esce

seriamente ridimensionata. Si può anzi rilevare in proposito

che nell’ultima edizione del Furioso [...] i prestiti

dalla Commedia tendono a infittirsi: né solamente per le

aggiunte dei nuovi episodi, ma anche per alcune correzioni

alla stampa precedente, dirette a introdurre nuove

espressioni dantesche. È questo, se vogliamo, un altro

aspetto della indipendenza ariostesca nei riguardi del

gusto bembiano» (Blasucci 1968, ed. 2014, p. 74).

Si espone un esemplare in legatura bolognese coeva

(in un cerchio al centro del piatto posteriore, tra hederae,

è iscritto il nome del primo possessore: «Alexandro

Sassone»).

Adolfo Tura

192 193



75. Ludovico Ariosto

Orlando furioso

Ferrara, Francesco Rosso da Valenza, 1 ottobre 1532. 4°

Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, S, 16.1.21

Bibliografia: Ariosto 1928; Ariosto 1960; Fahy 1989; Harris

1997; Casadei 1998.

Dei 24 esemplari superstiti del poema nell’edizione del

1532 quello qui esposto è il più corretto, corrispondente

all’“esemplare ideale” dell’opera, che porta l’ultima volontà

dell’autore. Il volume è entrato di recente a far parte del

patrimonio librario della Biblioteca Ariostea, come dono di

Cesare Segre, che ne era proprietario.

La prima edizione dell’opera in 40 canti, apparsa nel 1516

(indicata con A), ha il pregio di essere basata su un manoscritto

autografo, mentre quella del 1521, stampata pure

a Ferrara da Giovanni Battista della Pigna, il 13 febbraio

1521 (B) e la terza e ultima (C), si fondano sulle precedenti

edizioni annotate o interfogliate per le aggiunte o

le correzioni che le interessano. È importante che Ariosto

fosse finanziatore delle tre edizioni e interessato ovviamente

al loro smercio, attento quindi a richiedere i privilegi

di stampa a tutela della sua opera. La scelta di Ferrara

invece che di Venezia, centro dell’industria tipografica

italiana, per la stampa di tutte tre le edizioni, può essere

stata influenzata dal fatto che gli Este avevano interessi

economici pur se indiretti nella editoria locale, e nel caso

del Furioso ne seguivano la pubblicazione «se non forse

con partecipazione da lettori appassionati, almeno con

compiacimento da padroni» (Fahy 1989, pp. 95-96). Ma è

risaputa la passione per i racconti di cavalleria di Isabella

d’Este, che aveva potuto godere di una lettura precoce del

poema; e pure del marchese di Mantova che aveva manifestato

il desiderio di poter leggere quel libro ancora in una

fase di prima stesura. Comunque sia, Ariosto trasse vantaggio

dalle possibilità di controllo offerte dalla stampa

dell’opera sotto i suoi occhi, potendo intervenire, forse col

tacito consenso dei signori, nelle varie fasi della composizione

e apportarvi correzioni e modifiche. Già la stampa

della princeps era stata seguita con particolare attenzione

da Ariosto (vedi scheda Tav. 57); e anche quella della successiva

edizione, che vede cambiamenti linguistici e stilistici,

e qualche soppressione e aggiunta, pur restando di

40 canti. Ma la fretta con cui fu stampata la versione del

’21 non lasciò gran spazio alla revisione dell’autore, per cui

risulta, fra le edizioni ferraresi del Furioso, la più scorretta

e insoddisfacente, come mostra il cospicuo errata corrige

aggiunto. A partire poi dal 1524 erano cominciate ad

apparire edizioni non autorizzate, nonostante i privilegi

ottenuti a protezione fin dalla stampa del 1516 dal papa, da

Venezia e da altri centri, oltre che dal re di Francia. Da qui

la decisione di rimettere mano al poema, dedicando particolare

cura alla sua stampa; per cui oltre a correggere i

difetti della precedente edizione, l’autore interviene capillarmente

sulla lingua e lo stile, tenendo anche conto, liberamente

e secondo il suo gusto di poeta, dei suggerimenti

del Bembo, di cui erano nel frattempo uscite le Prose della

volgar lingua (1525): un testo dunque nuovo e accresciuto

di altri episodi, quelli di Olimpia, della Rocca di Tristano, di

Marganorre e di Ruggiero e Leone, che portano il poema a

46 canti. Ariosto interviene non solo sulle bozze ma anche

sul testo a tiratura inoltrata o per completare il lavoro

correttorio, o per nuovi ripensamenti, arrivando fino alla

sostituzione di un intero foglio di stampa. Sono interventi

microscopici, come su dui corretto in duo e due, sul dittongo

(truova / trova); o sulla parola con apocope o piena

se seguita da parola iniziante per vocale (lasciar il campo

> lasciare il canpo); o macroscopici con la sostituzione di

uno o più versi, come nel luogo famoso della «verginella

è simile alla rosa», il cui verso seguente suona nelle prime

due edizione «che ’n un chiuso orto in la nativa spina», e

nella terza nel più scorrevole e letterario «ch’in bel giardin

su la nativa spina» (vedi i saggi di Casadei e Trovato

in questo catalogo). I diversi interventi hanno comportato

l’esistenza di esemplari con varianti. Alcune copie con la

lezione definitiva l’autore ebbe, però, l’avvertenza di farle

stampare per ultime: copie speciali quindi, in carta più

grande e con filigrana diversa, destinate a se stesso e ai suoi

amici. Su una di queste copie si fonda il testo messo criticamente

a punto da Santorre Debenedetti, che ebbe il merito

di aver saputo cogliere la natura delle varianti e individuare

l’esemplare “ideale”, quello portatore dell’ultima volontà

del poeta (Debenedetti in Ariosto 1928). Tale edizione è

stata successivamente riveduta e integrata con l’apparato

delle lezioni delle precedenti edizioni e una Nota al testo

da Cesare Segre (in Ariosto 1960). Il processo di stampa è

stato poi ulteriormente analizzato attraverso i metodi della

filologia dei testi a stampa (textual bibliography) da Conor

Fahy, che ha preso in esame altri esemplari superstiti di C

oltre quelli utilizzati da Debenedetti, illuminando più precisamente

il percorso di revisione (Fahy 1989).

Tina Matarrese

194 195



76. Sebastiano Luciani detto del Piombo

Ritratto di Andrea Doria, 1526

Olio su tavola, cm 153 x 107

Genova, Villa del Principe – Palazzo di Andrea Doria

Fc. 671

Provenienza: Roma, Galleria Doria Pamphilj, fino al 1996.

Bibliografia: Vasari 1568, ed. 1984, V, p. 95; Bernardini

1908, pp. 50-51; D’Achiardi 1908, pp. 232-234; D’Achiardi

1909; Crous 1940; Dussler 1942, pp. 67-68, 140, n. 48;

Pallucchini 1944, p. 168; Lucco 1980, p. 116, n. 69; Hirst

1981, pp. 65, 89, 91, 105-106; Boccardo 1989; Leoncini

1993; Lucco 1996, pp. 334-335; Brock 2003; Cieri Via

2003; Costamagna 2003; Irlenbusch 2004, pp. 61-62,

900; Gorse 2005; Agosti B. 2008, p. 46; Barbieri 2008, pp.

55-56; R. Contini in Roma e Berlino 2008, p. 208, cat. 46;

De Marchi 2010; Colonna 2012, pp. 189-198; De Marchi

2016, pp. 341-342.

«Questo è quel Doria che fa dai pirati / sicuro il vostro

mar per tutti i lati» (XV, 30, 6): è l’inizio del lungo elogio

dell’ammiraglio Andrea Doria (Oneglia 1466 – Genova

1560) che Ariosto inserisce al canto XV del Furioso

nell’edizione del 1532. Il contesto è quello della profezia

di Andronica che per volere di Logistilla, la buona

maga rappresentante la ragione, accompagna Astolfo in

viaggio per mare, rivelandogli la sfericità della terra, le

future scoperte transoceaniche e l’avvento dell’impero

di Carlo V, che il poeta presenta come una nuova età

dell’oro. Tra i «capitani invitti», provvidenziali alleati di

Carlo, a Doria è riconosciuto un ruolo preminente, non

solo nella lotta ai pirati, ma per aver aperto la strada alla

incoronazione imperiale di Bologna (1530), ottenendo in

cambio in luogo di favori personali la garanzia di libertà

per la Repubblica di Genova. Rispetto alle precedenti

edizioni, l’aggiunta di queste ottave (XV, 18-36) rientra

nella «dimensione imperiale» del terzo Furioso più

volte sottolineata dalla critica (Yates 1978; Caretti 1977;

Casadei 1988; Santoro 1989), corrispondente alla svolta

filospagnola della politica estense e più in generale al

nuovo assetto politico delle corti italiane, e che va di pari

passo col prevalere, nella revisione letteraria del testo,

del modello epico e classicistico su quello romanzesco

di tradizione medioevale e quattrocentesca (Zatti 1990).

La cronologia del dipinto di Sebastiano è accertata da

una lettera del 29 maggio 1526 di Francesco Gonzaga

da Roma al padre Federico, duca di Mantova, nella

quale si fa riferimento al recente incontro tra Doria e

Clemente VII e all’esecuzione del ritratto che il papa

volle «appresso sé, che è signo de lo amore che li porta»

(Luzio 1908, p. 370). L’episodio si colloca, quindi, a

monte dell’alleanza con Carlo V, quando il Doria era al

comando della flotta pontificia, avanti il drammatico

Sacco del 1527.

Il dipinto, ricordato anche da Vasari come «cosa mirabile»

(Vasari 1568, ed. 1984, V, p. 95), si avvicina per

l’imponente monumentalità, la capacità di sintesi psicologica

e di resa emblematica ad altri esempi della

ritrattistica romana di Sebastiano in quegli stessi anni.

La sagoma nera e severa di Andrea vi si staglia proiettando

sul fondo grigio un’ombra cupa, come quella che si

addensa sul volto evidenziandone l’aspetto “saturnino”,

mentre la mano con gesto imperioso indica il parapetto

sul primo piano. I sei elementi che vi sono raffigurati e

che sono stati puntualmente identificati (àncora, acrostolion,

rostro di prora, timone, protome di poppa, aphlaston)

riprendono liberamente l’antico rilievo un tempo

presso la basilica di San Lorenzo fuori le mura, ampiamente

ricopiato e citato dagli artisti del Rinascimento

e illustrato anche nel Poliphilo (Crous 1940). Il motivo

assolve una funzione geroglifico-antiquariale che, al di

là delle diverse interpretazioni, rimanda alla dimensione

marittima e di comando del grande ammiraglio

genovese.

Barbara Maria Savy

196 197



77. Polidoro Caldara da Caravaggio

Rotella da parata, raffigurante l’Assedio di Cartagena (esterno) e un episodio mitologico

allusivo a Diana e Atteone (interno), c. 1525-27

Olio su legno, diametro cm 60

Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica. Su concessione della Fondazione Torino Musei

Inv. 387/D

Provenienza: collezione di Emanuele Tapparelli D’Azeglio,

ante 1890.

Bibliografia: Mallé 1963, pp. 160-161; Boccia 1980, pp.

403-404; S. Béguin in Parigi 1983-84, pp. 127-129; Pyhrr

e Fahy 1992, pp. 96, 130-140; Leone de Castris 2001, pp.

197-206.

La rotella è un notevole esemplare di scudo da parata

dipinto da Polidoro da Caravaggio, verosimilmente

in collaborazione con Maturino da Firenze, secondo

temi e modelli della bottega di Giulio Romano già in

uso intorno alla metà degli anni venti del Cinquecento

(Leone de Castris 2001, p. 204). La faccia esterna mostra

il celebre episodio dell’Assedio di Cartagena, secondo un

disegno molto simile a quello – oggi conservato al Louvre

– che Giulio realizzò per il ciclo di arazzi dei Trionfi

di Scipione tessuto a Bruxelles tra il 1532 e il 1535, destinato

a Francesco I di Francia (Boccia 1980, pp. 403-404;

Béguin in Parigi 1983-84, pp. 127-129). La presenza dello

stemma dei Della Rovere sullo scudo del personaggio

che raggiunge la sommità delle mura grazie a una scala,

ha fatto ipotizzare che l’Assedio sia stato reimpiegato

per rappresentare la conquista di Pesaro (1512) a opera

del duca d’Urbino Francesco Maria I della Rovere, o,

sempre per mano dello stesso, l’assedio di Pavia (1525)

(Mallé 1963, p. 161; Boccia 1980, p. 403; Pyhrr e Fahy

1991, p. 130). La faccia interna presenta un episodio allusivo

al mito di Diana e Atteone, dipinto a monocromo,

diviso nelle due metà superiore e inferiore, raffiguranti

rispettivamente Diana con le sue compagne e un cacciatore

condotto da Cupido; al centro è dipinto uno spazio

rettangolare rosso, incorniciato da un motivo a rami

attorti, destinato a posizionare l’avambraccio che brandisce

lo scudo.

La compresenza di temi bellici e amorosi appartiene al

genere della produzione di armi da parata e risponde

allo spirito cavalleresco che informa l’Orlando furioso fin

dai primi versi. L’usanza dei cavalieri di ornare i propri

scudi con immagini e simboli amorosi, si ritrova nell’episodio

della giostra indetta da Norandino, re di Damasco

e della Siria, per la ricorrenza della liberazione da

un Orco della diletta Lucina. Ariosto così presenta l’arrivo

dei cavalieri nella lizza: «Giunsero in piazza, e trassonsi

in disparte, / né pel campo curâr far di sé mostra, /

per veder meglio il bel popul di Marte, / ch’ad uno, o a

dua, o a tre, veniano in giostra. / Chi con colori accompagnati

ad arte letizia / o doglia alla sua donna mostra; /

chi nel cimier, chi nel dipinto scudo / disegna Amor, se

l’ha benigno o crudo» (XVII, 72). Sebbene lo scudo torinese

non sia mai stato protagonista di vicende analoghe

a quelle ariostesche, esso testimonia la sopravvivenza

dell’immaginario cortese nel Rinascimento, che all’Amore

congiungeva l’impeto guerriero ben rappresentato

nella scena dell’Assedio di Cartagena, concitata congerie

di strumenti d’assalto e uomini incuranti del pericolo nel

furore della battaglia.

Paolo Parmiggiani

198 199



78. Manifattura fiamminga su disegno di Bernard van Orley

Battaglia di Pavia con la cattura del re di Francia, 1528-31

Arazzo in lana, seta, argento e oro, cm 435 x 789

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Inv. IGMN 144489

Provenienza: donato all’imperatore Carlo V dagli Stati

Generali di Bruxelles nel marzo 1531; presente al castello

di Binche, agosto 1549; presente nel palazzo reale di Bruxelles,

febbraio 1556; portato in Spagna da Maria d’Ungheria

nel 1556 e lasciato, alla sua morte nel 1558, a Don

Carlos; lasciato da questi a Francesco Ferdinando d’Alvalos,

marchese di Pescara (1568-71), ed elencato nel suo

inventario del 1571; venduto alla famiglia Grassi all’inizio

del XVIII secolo; venduto a Daniele Delfin, nobile veneziano,

nel 1774; acquistato da Tommaso d’Avalos ed esposto

a Palazzo D’Avalos a Napoli prima del 1815; lascito di

Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, alla Pinacoteca di

Napoli nel 1862; trasferito nel 1882 al Museo Borbonico.

Al centro della composizione si scorgono due cavalieri

imperiali che si affiancano a un personaggio in sontuosi

abiti civili, da alcuni studiosi identificato con Carlo III

Borbone. Nell’angolo destro due lanzichenecchi sembrano

commentare animatamente degli eventi, mentre

alle loro spalle irrompe la cavalleria imperiale guidata

durante la battaglia da Carlo di Borbone. In secondo

piano, sulla sinistra, un cavaliere francese viene brutalmente

ucciso da due nemici a cavallo, mentre più indietro

la fanteria svizzera in assetto di guerra è pronta a

intervenire. Nella sua avanzata la cavalleria di Carlo V

supera un edificio fortificato e alcune case coloniche

visibili al centro della scena, mentre a destra marcia la

fanteria imperiale di Borgogna sventolando la bandiera.

Quella di Pavia è stata definita la prima battaglia moderna

per la gran varietà di armi letali che vi furono

impiegate, prive ormai delle connotazioni rituali degli

armamenti medievali. Mentre Ariosto si impegnava ad

esaltare le virtù cavalleresche di Alfonso d’Este, la

guerra andava trasformandosi nell’antitesi degli ideali

cortesi. Si chiudeva un’epoca: il mondo cavalleresco,

l’ambiente cortese e i nobili principi dell’aristocrazia

appartenevano ormai al passato. Inoltre nel 1535 sarebbe

morto senza lasciare eredi l’ultimo duca di Milano,

Francesco II Sforza, e il ducato sarebbe caduto nelle

mani dell’imperatore.

Zofia Jackson

Bibliografia: Müntz 1878-85, p. 37; Wauters 1878 (ed. 1973),

pp. 95-98; Guiffrey 1886, pp. 187-188; Morelli 1899; Beltrami

1896; Guiffrey 1911, pp. 146-148; Hunter 1915; Gagliardi 1916;

Hunter 1925, pp. 127-129; Göbel 1923, I, pp. 102, 415-416;

Steinberg 1935; Crick-Kuntziger 1943, pp. 71-93; Dhanens

1953; D’Hulst 1960, pp. 147-156; Brassat 1992, pp. 169-170;

Casali, Fraccaro e Prina 1993; Napoli 1994-95; Delmarcel

1999, pp. 98-99; Parigi 1999; Spinosa 1999; Forti Grazzini

2000; Spinosa e Guadalupi 2000; Buchanan 2002; New

York 2002, pp. 321-328; Knauer 2006, p. 253; New York e

Madrid 2007-08, pp. 321-328; Paredes 2014.

Questo arazzo appartiene a una serie che commemora

la vittoria dell’esercito imperiale di Carlo V su quello

francese di Francesco I nella battaglia di Pavia del 1525,

durante la Guerra d’Italia, evento che portò a un radicale

mutamento degli equilibri di potere in Europa.

I sette arazzi, disegnati da Bernard van Orley e tessuti

nella bottega di William Dermoyen a Bruxelles, furono

donati a Carlo V dagli Stati Generali dei Paesi Bassi nel

1531. Essi raffiguravano eventi contemporanei e molti

dei personaggi erano identificabili grazie ad iscrizioni.

In quello qui esposto assistiamo al momento cruciale

della battaglia: la cattura di Francesco I dopo che il

suo cavallo è stato colpito. In primo piano a sinistra il

sovrano viene fatto smontare dalla sua cavalcatura da un

gruppo di soldati. Presso il margine sinistro il generale

dell’esercito imperiale, Carlo di Lannoy, osserva la scena

scendendo di sella.

200 201



79. Piero Antonio Cataldo o Chataldo (lama), manifattura francese o italiana (guardia)

Spada di Francesco I, c. 1505-10

Acciaio forgiato, inciso e dorato, bronzo, oro cesellato e smaltato, cm 94 x 14 x 6

Parigi, Musée de l’Armée

Inv. 993/J 376

Provenienza: Madrid, Real Armería; trasferita in Francia

per ordine di Napoleone I nel 1808.

Bibliografia: Boccia e Coelho 1975, p. 361; Parigi 2015b,

pp. 90-92; Ecouen 2015-16, p. 68.

Date le sue finissime decorazioni in oro smaltato, va

escluso che questa spada potesse essere utilizzata in battaglia,

nonostante l’ottima qualità della lama che porta

incisa nella scanalatura la firma del suo artefice: CHA-

TALDO ME FECIT. La grafia arcaicizzante di questa

iscrizione ha suggerito l’ipotesi, errata, che la lama fosse

anteriore al resto dell’arma di una quarantina d’anni.

L’elsa conserva la forma a croce delle spade medievali.

L’anima in bronzo, forgiata assai grossolanamente – come

rivela un’importante lacuna nel rivestimento su un intero

lato del pomolo – è ricoperta da una spessa foglia d’oro

lavorata a sbalzo, cesellata, decorata con elementi a filigrana

e impreziosita da un motivo a smalto rosso, blu

(meno ben conservato) e bianco. Una citazione dal Magnificat,

+FECIT+POTENTIAM+ / +IN+BRACHIO+SVO+

(ha spiegato la potenza del suo braccio), sottolineata

con smalto bianco opaco, occupa l’intera lunghezza dei

due bracci della guardia. Lionello Giorgio Boccia sottolinea

l’analogia tra la citazione latina incisa sulla spada di

Pavia e il motto della città di Cremona, Fortitudo mea est

in Bracchio, suggerendo che l’arma fu forse un dono della

città lombarda al giovane principe di Valois. Il codolo

smaltato in bianco e rosso è ornato, su entrambe le facce,

con un delicatissimo motivo a candelabro in cui figura la

salamandra degli Angoulême distesa tra le fiamme.

L’assenza della corona reale sopra questo rettile sembra

indicare che la spada fu fabbricata prima dell’ascesa

al trono di Francesco I e che questi la conservò come

oggetto personale fino alla disfatta di Pavia del 1525. In

effetti, dopo la cattura del re francese, il generale Juan de

Aldana, comandante delle truppe italiane al servizio di

Carlo V, prese la spada dalla tenda del sovrano fatto prigioniero.

Nel 1808 Murat la prelevò dalla Real Armería

di Madrid per ordine di Napoleone I, il quale l’avrebbe

conservata nel suo studio alle Tuileries fino al 1815.

Nell’ultima versione dell’Orlando furioso, pubblicata nel

1532, Ariosto rievoca la sconfitta del re-cavaliere a Pavia.

Prestigioso trofeo perduto e riconquistato due volte,

quest’arma meravigliosa, di sapore ancora medievale,

ricorda le mitiche spade – Durlindana, Balisarda, la flamberga

– che i grandi eroi della leggenda si disputarono.

Olivier Renaudeau

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80. Michelangelo Buonarroti (copia da)

Leda e il cigno, dopo il 1530

Olio su tela, cm 105,4 x 141

Londra, The National Gallery. Dono del duca di Northumberland, 1838

Inv. 1868

Provenienza: Althorp, John Spencer, 1736; Londra, sir

Joshua Reynolds (vendita 1795, n. 87); Lord Berwick; donato

alla National Gallery dal duca di Northumberland, 1838.

Bibliografia: Roy 1923, pp. 65-82; De Tolnay 1970, pp. 192-193;

Barocchi 1950, pp. 78-80, 246-247; Gould 1962, pp. 97-99;

Bober e Rubinstein 1986, p. 54; Washington 1987, pp. 318-

327; Falciani in Vinci 2001, pp. 164-165, cat. IV.5; Haarlem

e Londra 2005-06, p. 189; Natali 2006, pp. 230-233; Nanni e

Monaco 2007, p. 100; Farinella 2014a, pp. 683-715.

Il ricercato intreccio tra il nudo monumentale della fanciulla

e il dio Giove in sembianza di cigno ripete, in quanto

copia antica, la composizione perduta, ma che sappiamo

ideata da Michelangelo per il duca di Ferrara tra il 1529 ed

il 1530. È noto che il desiderio di possedere un’opera dell’artista

da parte di Alfonso risaliva a molti anni prima. Le

prime richieste di un dipinto espressamente realizzato per

la corte furono avviate a quanto sembra nel luglio del 1512,

quando il duca, recatosi a Roma per riconciliarsi col papa,

si era intrattenuto sui ponteggi della Sistina, e qui, stando al

racconto dell’agente locale di Isabella d’Este, «non si poteva

satiar di guardar quelle figure, et assai careze li fece» (Menegatti

2007, pp. 12-13). La promessa rimasta disattesa sembrò

concretizzarsi soltanto nell’estate del 1529, in occasione di

un soggiorno del Buonarroti a Ferrara, per consultarsi col

duca in materia di costruzioni militari. Sia Condivi (1553, ed.

1998, pp. 39-40, 42-43) che Vasari (1568, ed. 1987, VI, p. 56)

raccontano dettagliatamente la vicenda della commissione

allora della Leda, raffigurante anche Castore e Polluce mentre

escono dall’uovo, cui l’artista lavorò l’anno dopo a Firenze

«a tempera» e che Alfonso mandò a ritirare, in una data che

i carteggi ducali fissano all’ottobre del 1530. Qui cadono

l’imperdonabile gaffe compiuta dal messo ducale, che osò

definire l’opera «poca cosa», e la reazione indispettita di

Michelangelo che rifiutò di consegnare il dipinto e lo regalò

ad un suo discepolo, Antonio Mini, il quale lo vendette di lì a

poco al re di Francia Francesco I. Il destino finale dell’opera,

a quanto pare, fu la messa al rogo per motivi moralistici (Cox

Rearick 1995, pp. 237-241, 277, e in Firenze 2002, pp. 174-175).

Anche se non giunse mai a Ferrara la Leda “mancata” appare

comunque intimamente legata a quella corte e più in particolare

alle passioni di Alfonso celebrate nel Furioso. Il

soggetto è anzitutto ispirato all’ecfrasi dell’arazzo di

Aracne, secondo le Metamorfosi di Ovidio (VI, 109) e le

loro versioni volgarizzate, e poteva assumere per gli Este

un duplice valore di celebrazione dinastica alludendo,

attraverso la figura di Elena (una delle figlie di Leda), alla

discendenza troiana della stirpe e, attraverso Castore e Polluce,

agli stessi Alfonso e Ippolito, paragonati ad esempio ai

«figli del Tindareo cigno» proprio nel canto III del poema

(Rosenberg 2000, p. 94). Alla data del dipinto tuttavia,

morto ormai Ippolito da quasi un decennio, il riferimento

ai Dioscuri potrebbe avere assunto anche un altro significato

alludendo alla nascita tra il 1527 ed il 1530 di due figli

maschi che il duca Alfonso ebbe da Laura Dianti, la bella e

giovane amante del duca che Ariosto non manca di celebrare

nel XLVI canto (Farinella 2014a, pp. 673-713). L’uovo

di Elena, assente nel nostro dipinto e nella descrizione

delle fonti, compare invece nell’incisione cinquecentesca

di Cornelis Bos, da cui derivano probabilmente quelle di

Nicolas Béatrizet e di Etienne Delaune e che sembra essere

tratta dal dipinto originale (Wilde 1957, pp. 276-279).

Alla Leda sono legati anche alcuni disegni autografi, tra i

quali uno studio per la testa, oggi a Casa Buonarroti a Firenze

(inv. 7F; si veda P. Ragionieri in Torino e Bonn 2007), nonché

numerose repliche e varianti che attestano la larga fortuna di

questa invenzione. Tra queste, la nostra tela, già attribuita a

Rosso Fiorentino, è una delle più antiche e in grado di rappresentare

in mostra l’idea di un confronto da parte di Michelangelo

con gli Andrii di Tiziano (Tav. 81) e con quelle stesse

tematiche erotiche e ovidiane che sottendono sia al camerino

di Alfonso sia al poema ariostesco. L’argomento è stato

più volte ripreso dagli studi che hanno rilevato l’interpretazione

tutta fiorentina del tema nel disegno dell’anatomia che

rimanda a prototipi classici (Michaelis 1885) e al precedente

della stessa Notte michelangiolesca nella cappella Medicea

(Wind 1985, pp. 202-203). È anche vero che nonostante la

ricercatezza del movimento sinuoso della Leda l’amplesso

è restituito in termini decisamente sensuali, tanto che, per

dirla con Aretino, «non si può non invidiare il cigno che ne

gode con affetto tanto simile al vero che pare, mentre stende

il collo per basciarla, che le voglia essalare in bocca lo spirito

de la sua divinità» (Aretino 1542, ed. 2002, II, p. 20).

Barbara Maria Savy

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81. Tiziano Vecellio

Il baccanale degli Andrii, 1522-24

Olio su tela, cm 175 x 193

Firmato «Ticianus. F.»

Madrid, Museo Nacional del Prado

Inv. P00418

Provenienza: commissionato da Alfonso I d’Este per il

Camerino delle pitture, nella Via Coperta che collega

il Palazzo Ducale al Castello Estense; requisito dal cardinale

Pietro Aldobrandini nel 1598; Roma, Ludovico

Ludovisi, 1623; Roma, Olimpia Aldobrandini, 1626;

principe Niccolò Ludovisi, 1633; donato dal Ludovisi a

Filippo IV di Spagna nel 1637 in segno di riconoscenza

per la concessione del principato di Piombino; conservato

nella collezione reale spagnola fino al suo trasferimento

al Museo del Prado nel 1821.

Bibliografia: Crowe e Cavalcaselle 1877-78, I, pp. 170-195,

225-232; Gould 1959, pp. 102-107; Wethey 1975, pp. 37-41,

151-153; Campbell 2003; P. Humfrey in Washington e

Vienna 2006, pp. 176-177, cat. 33 (con bibliografia precedente);

Farinella 2014a, pp. 563-573.

Il tema del baccanale degli Andrii, trattato in una delle

«fabule o vero hystorie» che compongono le Immagini

di Filostrato il Vecchio (III secolo d.C.), venne scelto

da Alfonso d’Este e Mario Equicola per la decorazione

del Camerino delle pitture. La scena (Immagini I, 25) si

svolge sull’isola di Andros, luogo prediletto da Bacco,

dove il vino scorre in forma di ruscello. Secondo Filostrato,

il vino «rende gli uomini ricchi, dominanti nelle

assemblee, generosi con gli amici, prestanti e alti quattro

cubiti». Lo stesso concetto è espresso nella partitura,

raffigurata al centro del dipinto in basso, del canone

«Qui boyt et ne reboyt / ne seet qui boyre soit» (chi beve

e non beve nuovamente non sa cosa sia il bere) attribuito

ad Adriaen Willaert, compositore fiammingo al

servizio di Alfonso. Tiziano, interessato al senso della

narrazione di Filostrato più che a una sua trasposizione

letterale, si concede varie licenze; per esempio,

non raffigura Bacco – presumibilmente imbarcato sulla

nave che sta prendendo il largo – e inserisce nella composizione

diversi personaggi consoni al tema, come il

putto che fa pipì o la bellissima ninfa addormentata.

Quest’ultima non è Arianna – che non fu abbandonata

ad Andros, bensì a Nasso – ma riflette una sua descrizione

contenuta in un altro passo delle Immagini (I, 15):

«Osserva anche Arianna, guarda come dorme: nuda

dalla cintola in su, la testa reclinata che rivela il collo

morbido, l’ascella destra completamente in vista mentre

la mano sinistra è nascosta sotto la tunica». Tiziano

raffigura anche alcuni personaggi in abiti contemporanei,

che potrebbero essere membri delle “Compagnie

della calza”, confraternite assai popolari tra i giovani

aristocratici veneziani, di cui fece parte anche Alfonso

d’Este. C’è senz’altro qualcosa di contemporaneo in

questa composizione – dalla musica all’abbigliamento –

che manca negli altri dipinti del Camerino.

Si è tentati di interpretare il Baccanale di Tiziano “a

confronto” con il Festino degli dei di Giovanni Bellini

(Fig. 13): entrambi celebrano il vino e tra le due opere si

notano dei parallelismi compositivi deliberati, come la

profusione di oggetti in ceramica e in cristallo, o la simmetria

tra le figure femminili nude sulla destra e altre

figure che portano recipienti sulla sinistra. Ma Tiziano

trionfa nel paragone con Bellini per il dinamismo della

sua composizione: i movimenti delle figure e la giustapposizione

di aree cromatiche contrastanti trasmettono

efficacemente l’ebbrezza e la sensualità sottese al soggetto.

Nel quadro di Bellini l’elemento più dinamico è di

fatto il paesaggio, che Tiziano rimaneggiò per adattarlo

a quello del Baccanale.

Per alcune figure Tiziano si è ispirato alla scultura classica

o all’arte contemporanea (Michelangelo), mentre

altre tradiscono lo studio dal vero: in un lettera dell’aprile

1522 l’agente di Alfonso d’Este segnalava che l’artista

non desiderava recarsi a Ferrara perché a Venezia

disponeva di prostitute e di uomini che gli servivano da

modelli per i nudi.

Secondo Gould il Baccanale è considerato l’ultimo contributo

di Tiziano alla decorazione del Camerino, ma noi

crediamo – con Crowe e Cavalcaselle, e più di recente

Humfrey – che esso preceda il Bacco e Arianna (Fig.

18). La luminosità della composizione e la monumentalità

delle figure nella tela londinese non si trovano nei

dipinti del Prado, eseguiti da Tiziano in precedenza per

il Camerino, ovvero l’Omaggio a Venere e il Baccanale.

Miguel Falomir

206 207



82. Miguel de Cervantes

El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha

Madrid, Juan de la Cuesta, 1605. 8°

Londra, The British Library, G. 10170

Nel VI capitolo barbiere e curato visitano la biblioteca

di don Chisciotte, passando in rassegna i molti volumi

di letteratura cavalleresca e portando un giudizio su

questo e quello. Venendogli in mente il nome di Ariosto,

il curato afferma: «Al cual, si aquí le hallo, y que

habla en otra lengua que la suya, no le guardaré respeto

alguno, pero, si habla en su idioma, le pondré sobre mi

cabeza» («Quest’ultimo poi, se lo trovo qui a parlare

altra lingua che non sia la propria, non riceverà da me

mostra di rispetto alcuno, però, se parla nel proprio

idioma, me lo porrò sulla testa», Cervantes 2013, p. 101).

Francisco Rico suggerisce che quest’affermazione

tenda a colpire la traduzione di Jerónimo Jiménez de

Urrea del 1549 (Ibid., p. 2035). Ma se un’allusione a

questi è fatta più avanti nel testo («avremmo perdonato

volentieri il signor capitano se non l’avesse portato in

Spagna e fatto castigliano, privandolo di gran parte del

suo valore naturale», Ibid., p. 101), la locuzione «en otra

lengua que la suya» di per sé non designa il castigliano:

in qualsiasi traduzione il Furioso perderebbe il proprio

maggior pregio, «cosa questa che, del resto, toccherà in

sorte a chiunque decida di tradurre ad altra lingua un

libro in versi» (Ibid., p. 101). Non c’è dubbio, insomma,

che Cervantes faccia consistere la bellezza del poema

non nelle avventure dei personaggi o nell’intricarsi

della narrazione, ma nella qualità della scrittura di

Ariosto. Si espone la prima edizione della prima parte

del Quijote.

Adolfo Tura

208 209





LE ARTI VISIVE

NEGLI SCRITTI DI ARIOSTO:

OPERE, IDEE, PROTAGONISTI

MARCO COLLARETA

Nella canzone che introduce le Rime, Ludovico Ariosto rievoca il suo primo incontro con

Alessandra Benucci a Firenze il 24 giugno 1513. 1 La vista, che tradizionalmente gioca un

ruolo importante anche in più segrete situazioni damore, costituisce qui lunico strumento

con cui il poeta mette a fuoco, nel caos della città in festa, quella che diverrà la donna della

sua vita. Il bel volto, i capelli biondi e spessi raccolti in una rete sottile, lincarnato eburneo messo

in evidenza dalla veste di seta nera, ricamata con un motivo di viti intrecciate non meno simbolico

della corona d’alloro sulla fronte serena: tutto ci parla di un movimento lento, concentratissimo

degli occhi dell’amante che inizia ad impossessarsi dell’oggetto del suo amore. Se si aggiunge

l’attenzione con cui viene registrata l’ombra leggera tra il collo e le guance, e l’analogo effetto

nel ricamo nero su nero dell’abito elegantissimo, non sfuggirà la profonda sintonia tra questo

squisito ritratto letterario ed i più tipici ritratti pittorici della maniera moderna (Fig. 9). Come

tanti tra gli artisti toccati dal genio di Leonardo, anche Ariosto mantiene un perfetto equilibrio

tra la caratterizzazione individuale dell’effigiata ed il suo monumentale isolamento. Il lettore

dimentica presto la chiassosa folla femminile ed i rapidi scorci urbani evocati dal poeta nei versi

precedenti. Limmagine di Alessandra gli simprime nella mente con lassertività di un ritratto a

figura intera su fondo neutro. Lhic et nunc dellincontro sè definitivamente trasformato in qualcosa

di eterno, qualcosa di assoluto. Ancora nell’Orlando furioso Alessandra apparirà nobile e

bella nella sua veste scura, come l’archetipo di un ideale muliebre evocato una volta per tutte

davanti ai nostri occhi. 2

Il tono sentimentale, e riflessivo insieme, che marca la lirica come genere letterario ha molto a

che fare con quanto appena detto. Passando dalle Rime alle Commedie, merita dunque ricordare

subito che queste ultime obbediscono a convenzioni e regole totalmente altre rispetto a quelle

prime. Non la persona singola e la relazione esclusiva che ha con essa il poeta, ma l’azione oggettiva

di uno o più personaggi che si succedono sul palco per un dato lasso di tempo guida la penna

dello scrittore. Lopera di costui è supportata di fatto da quella degli attori, dei costumisti, degli

scenografi che intrecciano i loro diversi linguaggi visivi a quello puramente verbale del testo.

Operoso in una città che con il De spectaculis di Pellegrino Prisciani aveva dato un contributo

importante alla concezione del teatro come fatto strettamente legato alla visione, Ariosto ha perfetta

coscienza di ciò ed arriva fin a chiamare i fruitori delle sue commedie non lettori o uditori,

Fig. 8

Michelangelo Buonarroti

Giona, c. 1511-12

Città del Vaticano, Musei

Vaticani, Cappella Sistina

212



ma «guardatori». 3 Proprio per questo i suoi testi contengono solo sporadici richiami ai messaggi

che gli occhi degli spettatori dovevano cogliere autonomamente nel Gesamtkunstwerk teatrale.

L’espressione del volto, il gesto del corpo, il costume diverso per sesso e per classe sociale, i segni

di riconoscimento, gli spazi pubblici o privati sono espressi a parole solo quando servono a chiarire

lo svolgimento dei fatti.

Si pensi, in particolare, ai problemi generati dall’impiego della scena fissa rinascimentale. Le

parti dell’azione che si svolgono davanti ai nostri occhi accadono sempre nello stesso luogo e

vanno dunque integrate con quelle raccontate dagli attori come accadute, o prossime ad accadere,

altrove. Quando la vicenda è ambientata in una città pressoché mitica come Metellino o

Sibari nella Cassaria in prosa e in versi, i riferimenti possono essere vaghi, ma quando si decide

di ambientarla nell’amata e conosciutissima Ferrara, tutto deve prevedere il vaglio della verifica.

Nelle due versioni dei Suppositi come nella Lena i dialoghi evocano con precisione cartografica le

piazze, le vie, le case, le chiese, i dintorni stessi della città degli Este, che lo sguardo dello spettatore

non ha davanti a sé. 4 Quello che la scenografia del tempo gli propone è infatti un luogo generico,

genericamente connotato come cittadino dallaccavallarsi di elementi edilizi diversi, che

corrispondono alle serie nominali ariostesche sul tipo «porte, finestre, vie, templi, teatri» della

canzone ricordata più sopra (Fig. 10). 5 Non a caso, presentando nel 1529 la seconda redazione del

suo Negromante in versi, il nostro sorvegliatissimo drammaturgo si sentì in dovere di giustificare

Fig. 9

Giovanni Antonio Boltraffio

Studio di figura femminile,

c. 1498-1502

Carboncino e pastelli

colorati su carta

preparata, mm 544 x 404

Milano, Veneranda

Biblioteca Ambrosiana

con un lambiccato discorso l’utilizzo, per l’ambientazione cremonese di quella commedia, della

stessa scena utilizzata l’anno prima per l’ambientazione ferrarese della Lena. 6 Il suo amico Niccolò

Machiavelli se lera sbrigata in maniera più rapida, quando nel prologo della Mandragola

aveva indicato agli spettatori il solito fondale, aggiungendo sornionamente: «questa è Firenze

vostra, / unaltra volta sarà Roma o Pisa, / cosa da smascellarsi dalle risa». 7

Le istanze realistiche che Ariosto dimostra anche nelle opere d’invenzione sollecitano una rapida

verifica nelle Lettere. Significativo allora che, a parte una descrizione di abiti degna più dellestensore

di un identikit poliziesco che di un costumista teatrale, queste risultino talmente estranee

al mondo dei manufatti che l’unica considerazione estetica in esse presente risale alla giovanile

attività di cortigiano e concerne un paio di «bellissimi» cani da caccia. 8 Evidentemente Ariosto

non è Bembo, nel cui epistolario pulsa intensissimo un desiderio di possesso anche artistico che

al nostro fu sempre estraneo. E non è Bembo perché non è un seguace di Cicerone, ma di Orazio, e

da questultimo ha appreso e fatto suo lideale dellaurea mediocritas. 9 Parva sed apta mihi, la casa

che messer Ludovico sè procurato col suo lavoro costituisce il manifesto di quest’etica di radice

aristotelica, venata più di genuino epicureismo che di stoicismo di scuola. Difficile immaginare

in quelledificio qualcosa di più di ciò che è necessario o almeno utile ad una vita tutta dedita agli

affetti ed al lavoro intellettuale. 10 Come l’anonimo che in un ritratto lucchese del tempo ostenta

una tabella col motto Ne quid nimis (Fig. 11), così il nostro poeta deve essere rimasto indifferente

alle lusinghe di un costoso collezionismo, che contagiavano tanti suoi contemporanei. Nell’Orlando

furioso la passione smodata per le «gemme» e le «opre di pittori» è espressamente citata

tra le cause della perdita di senno. 11 Si può intendere larte anche senza desiderarne il possesso,

o semplicemente considerando quest’ultimo come una prerogativa di altre persone o altre categorie

sociali.

Il punto è nodale per noi e trova piena conferma nelle limpide terzine delle Satire. Destinate

alla pubblicazione o comunque a una diffusione ben maggiore che non le lettere in prosa, le più

originali tra le opere minori di Ariosto ci presentano il loro autore in netto contrasto con la corte

di cui pure fa parte. In effetti, l’aurea mediocritas può andare bene per chi ha deliberatamente

scelto unesistenza incentrata sul privato. Per chi la fortuna ha collocato ai vertici della società

dantico regime, il privato semplicemente non esiste e la virtù più importante è, sin dalla sua teorizzazione

aristotelica, la magnificenza, virtù politica per eccellenza e vero “motore immobile”

del mecenatismo rinascimentale. I suoi prodotti sono guardati da Ariosto con la stessa affettuosa

ironia con cui guarda agli uomini di potere. A Ferrara, ci confessa, passeggia felice «fra il Domo /

e le due statue dei Marchesi miei». 12 Riandando poi alla strepitosa carriera promessagli a Roma

da papa Leone X, ironizza sulla possibilità che «tante mitre e diademe / mi doni, quante Iona

di Cappella / alla messa papal non vede insieme». 13 I perduti monumenti bronzei di Niccolò III

e Borso d’Este acquistano ai nostri occhi l’aria di vecchie fotografie di famiglia e il seminudo,

sdegnoso profeta collocato da Michelangelo nel punto più visibile della Sistina (Fig. 8) si sporge

curioso a sbirciare la folla di avidi prelati ammassati ai suoi piedi per ottenere ancora qualcosa

dal vicario di Cristo.

Nulla di altrettanto genialmente scanzonato, di altrettanto in sintonia con l’ottica graffiante e

bonaria insieme di un Romanino o di un Dosso, connota le lunghe ekphraseis dell’Orlando furioso.

Radicate in una consuetudine che risale fin alle origini dell’epica europea, tali parentesi descrittive

si distinguono certo come utili pause di contemplazione nel travolgente ritmo narrativo del

poema, ma restano un fatto squisitamente letterario di cui è più agevole riscontrare gli esiti che

non i presupposti artistici effettivi. E tuttavia, leggendo di quei palazzi fatati, di quelle sale misteriose

visitate alla luce delle fiaccole, di quelle simboliche fontane, di quei padiglioni profetici, non

di rado s’affaccia alla nostra mente l’impressione che Ariosto scriva con una qualche cognizione

di causa. I materiali impiegati, i metodi di lavorazione, lorganizzazione compositiva, le stesse

modalità di fruizione trovano una formulazione verbale così precisa e pertinente che pare difficile

negare al poeta una diretta esperienza di ciò che, da un po’ di tempo in qua, malamente si

214 215



divide tra “arte” ed “architettura”. Giova allora tener presente che Ariosto viaggiò più di quanto

non lasci pensare la ben nota consuetudine con le tavole di Tolomeo 14 e che in quei viaggi daffari

e dufficio non mancò di consolarsi con qualche giro turistico. Se nellOrlando furioso questa

opportunità è virgilianamente attribuita ai personaggi stessi del poema, 15 nelle Rime è il poeta in

persona a compilare un denso inventario delle bellezze di Firenze, 16 mentre nelle ancor più personali

Satire trova diretta espressione il desiderio di ripercorrere le antichità dellUrbe sotto la

guida di uno dei dotti letterati di curia, «che, col libro in mano, / Roma in ogni sua parte mi divida

[...]». 17 Per altre città visitate da Ariosto mancano simili testimonianze dirette, ma la notizia che

lo attesta ad Urbino nel 1507 è preziosa per intendere la singolare affinità che con quel mirabile

palazzo, costruito per traguardare dalle sue alte logge la campagna, sembra presentare lo «splendido

castello» collocato dal nostro autore nella sua favolosa Soria. 18

Lasciando le arti monumentali per quelle che sarebbero diventate di lì a poco le “arti minori”,

limpatto dei dati di realtà sullimponente tradizione letteraria si fa ancor più evidente. Non che

gli arazzi, i tappeti, il vasellame prezioso che incontriamo nellOrlando furioso non conoscano

numerosi precedenti nella lunga storia del poema epico, alla quale Ariosto costantemente s’ispira.

Ma ora interviene qualcosa che tocca direttamente la sensibilità del poeta e gli fa aprire

gli occhi con inusitata curiosità. Ci riferiamo in particolare a quel settore delle arti tessili cui

è demandata la produzione dellabito e degli accessori che ad esso saccompagnano. Se ci ricordiamo

da dove siamo partiti, non è difficile riandare al nome di Alessandra Benucci ed al ruolo

centrale che costei ebbe nella vita del poeta. La donna non solo vestiva con grande raffinatezza,

ma eseguiva ella stessa lavori di cucito e ricamo variamente attestati nelle poesie e nelle lettere di

messer Ludovico. 19 Anche l’Orlando furioso reca tracce dell’interessamento del poeta per questa

Fig. 10

Sebastiano Serlio

Secondo Libro di

Architettura

Parigi, Jean Barbe, 1545

Ferrara, Biblioteca

Comunale Ariostea

Fig. 11

Zacchia il Vecchio

Ritratto di uomo con

motto iscritto, c. 1519

Olio su tavola,

cm 57,7 x 46,6

Lucca, Pinacoteca

Nazionale di Palazzo

Mansi

gentile occupazione femminile. Tra esse basterà menzionare qui il passo in cui, con raffinato

chiasmo cromatico, la candida mano dell’amata che lacera il cuore rosso d’amore dell’amante

viene paragonata al nastro purpureo che divide in comparti una bella tela d’argento. 20

Fuori delle calde mura domestiche, una simile implicazione emotiva nei confronti del manufatto

risulta difficilmente immaginabile. Bisogna tuttavia riconoscere che anche i meglio conservati

tra i nostri numerosi “centri storici” restituiscono oggi solo una parte della vasta produzione artistica

cui poteva attingere, all’epoca, la fervida fantasia di Ariosto. Bastava infatti varcare la soglia

di una chiesa qualsiasi e ci si trovava di fronte qui ad un ex voto dipinto come quelli pronosticati

dal poeta per la beata Beatrice d’Este, lì ad una statua votiva verosimilmente vestita di tutto

punto come quella con cui vien confrontato Leone, più in là ancora ad un’arca marmorea sollevata

su colonne come quella fatta costruire da Drusilla per Olindro. 21 Scorrendo poi i cicli santorali

dispiegati sulle pareti o nelle predelle delle pale daltare, non sarà stato difficile imbattersi

nella rappresentazione di un idolo pagano issato anch’esso sopra una colonna, motivo che Ariosto

ripropone nella sua descrizione del tempio dellImmortalità e che Teofilo Folengo deforma da

par suo nel grottesco sabba che conclude il Baldus. 22 Si toccano con mano qui le complesse radici

dell’Orlando furioso e di tutta la cultura del suo tempo, che avviano la modernità nella misura in

cui guardano sì allantichità, ma senza interrompere la naturale continuità col medioevo. Viene

alla mente il passo in cui il nostro poeta registra il magistrale colpo di spada con cui uno dei suoi

paladini taglia in due il proprio avversario. 23 Lo stupore è analogo a quello espresso da Platone

216 217



quando nel Convito descrive la divisione dell’androgino archetipico, 24 ma mentre per il filosofo

greco il riferimento artistico è al mezzo rilievo delle stele funerarie attiche a figura intera, per

Ariosto lo è alle mezze figure a tutto tondo, in cera o argento, che i devoti del tempo solevano

offrire per grazia ricevuta. Apparentemente limitata al solo effetto visivo, la differenza concerne

in realtà qualcosa di più profondo, che tocca da presso la concezione del ritratto, e dunque dello

stesso essere umano nel suo rapporto col mondo e con la divinità.

Il discorso perde ogni residuo di vaghezza non appena s’intenda affrontare l’ut pictura poesis

ariostesco secondo la sua giusta prospettiva storica. Per quanto antica e specificamente oraziana,

25 quella formula si ripresenta infatti in età rinascimentale carica dei nuovi significati che

le hanno conferito secoli di riflessione cristiana. In pratica l’idea di un dio creatore, combinata

con quella dell’uomo creato a sua immagine e somiglianza, porta con sé una potente rivalutazione

del fare umano anche nei suoi aspetti manuali, una rivalutazione che non ha mancato di avere

un impatto importante nella considerazione sociale delle arti visive. Ariosto trovava certamente

nelle fonti greco-romane sistematici confronti tra i metodi ed i risultati dei pittori e degli scultori

da un lato e quelli dei poeti dall’altro, ma non consta che egli abbia condiviso lo sprezzante

senso di superiorità, che quelle stesse fonti documentano, da parte di chi maneggia le parole nei

confronti di chi maneggia le tele ed i marmi. Nel suo presentarsi come tessitore di racconti sentiamo

così uneco non solo delletimologia della parola textus o della sua personale passione per le

belle stoffe, ma anche dell’orgoglio con cui San Paolo aveva dichiarato di mantenersi fabbricando

tende. 26 Dobbiamo essere consapevoli di ciò quando ci viene propinata una lettura meramente

retorica dei passi in cui il poeta paragona il proprio lavoro a quello degli artisti figurativi. Dopo

tutto è la Bibbia, non Omero, che estende a questi ultimi il privilegio dell’ispirazione divina, che

classicamente si tenderebbe a riconoscere solo ai poeti ed ai musicisti. E ciò deve pure aver contato

qualcosa in anni di platonismo dilagante.

Una lunga tradizione assegnava del resto alla pittura e alla scultura un indiscusso primato nella

rappresentazione della bellezza fisica. L’Orlando furioso cita espressamente l’aneddoto di Zeusi e

delle fanciulle di Crotone, che di quel tema costituisce il locus classicus, 27 ma più importante per

noi è il passo in cui uno dei personaggi sperimenta dal vivo il senso stesso di quellaneddoto, cioè

la felice fusione in un unico corpo di donna delle grazie che la natura distribuisce di norma in più

corpi. 28 Una simile irruzione della più sana sensualità maschile va tenuta presente quando altrove

nel poema leggiamo di Olimpia, che si mostra ad Orlando con quell’istintivo, provocante pudore

con cui pittori e scultori rappresentano Diana mentre cerca di cacciare con l’acqua Atteone. 29 È da

questo felice intreccio di cultura e di vita che sorgono le più celebri descrizioni di Alcina, «tanto

ben formata / quanto me’ finger san pittori industri», e della nuda Angelica, avvinta allo scoglio

come una «statua finta / o d’alabastro o d’altri marmi illustri». 30 I richiami artistici non dipendono

qui solo dalla tradizione letteraria classica, quale essa s’esprime ad esempio nelle lettissime

Metamorfosi di Ovidio. Presuppongono anche una consuetudine diffusa a guardare al corpo

umano, e al nudo femminile in particolare, attraverso il filtro di un’arte, come quella del primo

Cinquecento veneto, che quei soggetti aveva innalzato a bandiera della sostanziale autonomia del

piacere estetico. Il pensiero corre ad Antonio Lombardo, a Tiziano e agli altri straordinari maestri

le cui opere Alfonso I aveva indefessamente sollecitato per i Camerini d’alabastro ed analoghi

spazi della sua favolosa reggia. 31

Nel 1532, quando uscì ledizione definitiva dell’Orlando furioso dalla quale citiamo, i fatti d’arte

cui abbiamo appena fatto riferimento erano ormai storicizzati. L’arrivo in Italia settentrionale,

prima e dopo il Sacco di Roma del 1527, di artisti come Giulio Romano, Michele Sammicheli,

Jacopo Sansovino aveva provocato un profondo rimescolamento delle carte ed accentuato come

mai prima il carattere nazionale dell’arte italiana. Vi è una ragione dunque se, rielaborando il suo

capolavoro secondo i principi fissati nel 1525 dalle Prose della volgar lingua del Bembo, Ariosto

introduce a capo della lunga descrizione delle pitture della Rocca di Tristano quellottava dei

pittori nella quale suole sintetizzare gli interessi artistici del poeta la diffusa attitudine a veder

Fig. 12

Raffaello Sanzio,

Il Parnaso, 1509-10

Città del Vaticano, Musei

Vaticani, Stanza della

Segnatura

larte solo là dove se ne riconoscano i protagonisti. 32 I nomi di persona si susseguono con mirabile

larghezza di ritmo nei versi centrali della strofe: «Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino, /

duo Dossi, e quel cha par sculpe e colora, / Michel, più che mortale, Angel divino; / Bastiano,

Rafael, Tizian chonora / non men Cador, che quei Venezia e Urbino.» Le indicazioni di luogo

sottendono una geografia non tanto di scuole artistiche, quanto di neutre porzioni di suolo occasionalmente

toccate dal soffio dello spirito. Se per un verso si pensa al dibattito antico sulla città

dorigine di un poeta quantaltri mai nazionale come Omero, per laltro sembra vedersi profilare a

un orizzonte non troppo lontano il costume dellItalia post-unitaria di innalzare monumenti alle

personalità di spicco proprio nelle località in cui avevano visto la luce, piuttosto che in quelle in

cui avevano operato.

È stato giustamente osservato che il canone degli artisti moderni presenti nelledizione definitiva

dellOrlando furioso riecheggia quello pubblicato nel 1528 da Castiglione nell’edizione a stampa

del suo Cortegiano, ugualmente debitrice delle teorie linguistiche di Bembo. 33 Come ovvio in

un testo in prosa teso a simulare un dialogo avvenuto oltre vent’anni prima alla corte d’Urbino,

l’elenco si configura qui come una nuda serie di nomi propri: «Leonardo Vincio, il Mantegna,

Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco.» Si tratta di cinque persone distinte a fronte

delle nove che si contano nel passo di Ariosto. Leonardo ed il Mantegna introducono in entrambi

i casi la sequenza. Raffaello e Michelangelo sono pure comuni, sebbene con un ordine inverso,

alluno e allaltro testo. Giorgione compare solo nel Castiglione, perché nellAriosto viene sdoppiato

in quelli che il Vasari chiamerà i suoi creati, Tiziano e Sebastiano del Piombo. 34 Se ciò

richiama lattenzione sul fatto che l’Orlando furioso non ha il problema di storicizzare la situazione

narrativa come il Cortegiano, l’inserimento nell’“ottava dei pittori” dei fratelli Dosso e

Battista Dossi evidenzia una diversa ma altrettanto significativa preoccupazione da parte del

suo autore. Si tratta dell’amor di patria, che impone ad Ariosto la menzione dei principali artisti

218 219



operosi a Ferrara presso la corte estense. Giovanni Bellini, la terza new entry artistica del poema,

era stato pure attivo per Alfonso I, ma il suo nome compare nell’Orlando furioso soprattutto perché

celebrato nelle Rime del Bembo come quello di Simone Martini lo era stato a suo tempo nel

Canzoniere del Petrarca. 35

Ma proseguiamo nel confronto tra la serie di artisti proposta dal Castiglione e quella proposta da

Ariosto. I nomi del Cortegiano costruiscono un solenne arco a tutto sesto, le cui spalle poggiano

saldamente sul genio di Vinci e quello di Castelfranco, e la cui chiave di volta innalza come un

vessillo il genio di Urbino. I versi dell’Orlando furioso delineano un analogo andamento parabolico,

ma trovano il loro modello non nella statica simmetria di una struttura architettonica, bensì

nel mosso profilo di un’altura naturale, sulla quale i personaggi evocati sembrano disporsi con

estrema libertà. Questa similitudine si deve ad uno dei più profondi interpreti di Ariosto, che ha

acutamente richiamato l’immagine archetipica del Parnaso, 36 pensando forse a quello celeberrimo

di Raffaello nella Stanza della Segnatura (Fig. 12) o alla sua variante a stampa. Al posto del

dio Apollo siede il “divino” Michelangelo, ai lati del quale si distribuiscono liberamente, sui due

versanti del monte, gli artisti che hanno sviluppato uno stile sostanzialmente indipendente dal

suo e quelli che palesemente ne hanno subito l’indelebile influsso.

Sarebbe improprio dedurre da questa straordinaria visualizzazione della storia della più eletta

arte rinascimentale una personale preferenza di Ariosto per il genio di Caprese. 37 Come osservato

da più parti, il cuore del poeta dellarmonia avrà battuto per artisti meno intransigenti del

Buonarroti, ben rappresentati, peraltro, anche tra quelli espressamente menzionati nell’“ottava

dei pittori”. Se ci limitiamo ad esplicitare qui il nome di Raffaello, non è certo per un tardivo

omaggio al Bembo, che nella sua opera più importante per lOrlando furioso individua appunto

nel Sanzio ed in Michelangelo i due soli artisti moderni degni di eterna menzione; 38 è perché,

a tanti secoli di distanza da quei fatti capitali della nostra storia culturale, solo il principe dei

pittori ci sembra poter reggere, in tutto e per tutto, il passo col principe dei poeti. Il comparabile

peso storico delle due personalità, o se si preferisce la loro comparabile pervasività culturale, non

esclude del resto l’esistenza di unaffinità più cordiale e profonda tra le medesime. E qui, oltre ai

contatti diretti di cui sono prove eminenti la scena disegnata da Raffaello per la recita romana

dei Suppositi (Tav. 33) ed il bellissimo epitafio latino di Ariosto per l’amico scomparso, 39 un vasto

campo di ricerca si apre a chi sappia riconoscere nel pittore e nel poeta un analogo atteggiamento

di fronte al mondo ed alla propria arte.

Si pensi anche solo al denso, cruciale rapporto con la donna amata. Senza voler invadere un campo

su cui altri interviene in questa stessa sede (pp. 242-249), merita ribadire con forza che esso poggia

su una sostanziale parità di genere sia per il ritrattista della Fornarina che per il cantore di

Alessandra Benucci. Uscita dal fianco dell’uomo e postagli accanto, la donna che costoro hanno

distillato dalla più eletta antropologia umanistica tiene i piedi sulla terra, dove li tiene lui, e volge

lo sguardo al cielo, come lo volge lui. In questa perfetta integrazione di anima e corpo, di spirito

e materia, non vè posto per la donna angelicata della più frusta tradizione poetica, ma nemmeno

per la donna oggetto di tanta brutta realtà. Quando Raffaello era ormai morto, giunse tra le mani

di Ariosto una copia dei Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino illustrati da Giulio Romano. La presa di

distanza da quella greve pubblicazione, che il poeta esprime nel prologo dei Suppositi in versi, 40 è

tanto sobria quanto netta. Piace pensare che egli parlasse anche per Raffaello, altrettanto sicuro nel

distinguere i luminosi diritti dellamore dai cupi soprusi della pornografia. Non era una questione

di generazione, ma di temperamento. Ed il temperamento, nei due, era straordinariamente solare.

Poco aggiungono a quanto detto le occorrenze artistiche che lAriosto inserì nei Cinque canti,

unici testimoni compiuti di una volontà poi abortita di ampliare lopus maximum. Le descrizioni

di edifici, suppellettili, vestiti sono variazioni intorno a temi già noti, e così gli effetti stranianti

di certi mirabolanti colpi di spada. Più interessante il passo in cui la maga Gloricia disegna

nella polvere una nave che magicamente prende vita e sinnalza nel cielo col suo ricco bottino

di cavalieri. 41 Il repertorio dei luoghi comuni resta evidente, ma il suo caleidoscopico utilizzo si

trasforma nel consapevole paradigma di una poetica tesa a rivendicare il primato assoluto del

libero fantasticare. Per quanto applicato all’arte della costruzione navale, il vero riferimento è

qui, orazianamente, al quidlibet audendi che accomuna pittura e poesia. 42 La cosa va tenuta presente

quando si passa a considerare i nomi «d’Alberto, di Bramanti e di Vitruvi» richiamati qualche

ottava prima dal poeta a proposito del solito «bel palagio». 43 La declinazione plurale di due

nomi su tre, non meno che l’indifferenza per la loro sequenza storica, delineano una concezione

dell’architettura nella quale la regola generale fa chiaramente aggio sulla licenza individuale.

Significativo allora che le personalità così genericamente evocate siano di architetti di cui possediamo

dei trattati, come Vitruvio e l’Alberti, o che quali autori di trattati sono noti alle fonti

cinquecentesche, come Bramante. Per grammatici di tal fatta, non diversamente che per Bembo,

Ariosto provava profondo rispetto ma non profonda simpatia. Il suo mondo modellato con estro,

colorato con straordinaria vivacità, resta estraneo al compasso ed alla livella. Solo il genio di un

Vignola saprà restituirne un’immagine architettonica nella fantastica villa-fortezza-eremo laico

di Caprarola. Ma questa, che riguarda la fortuna e non la cultura visiva di Ariosto, è davvero tutta

un’altra storia e noi dobbiamo accontentarci qui di un breve accenno.

In memoria della passione di mio padre Pietro per Ariosto, di mio fratello Pierantonio per Rabelais

1. Canzoni, I, vv. 84-116.

2. Of XLII, 83.

3. Negromante, prima redazione, atto V, scena 3.

4. I Suppositi, in prosa, atto I, scena 1, scena 3;

atto II, scena 1, scena 2; Lena, atto II, scena

1, scena 3; atto III, scena 2, scena 9. Nell’Orlando

furioso, III, 48, un accenno all’“addizione

erculea”.

5. Canzoni, I, v. 78.

6. Negromante, in versi, seconda redazione,

prologo.

7. Niccolò Machiavelli, Mandragola, prologo.

8. Si vedano rispettivamente la lettera 87 e la

lettera 4 in Ariosto 1984.

9. Orazio, Carmina, II, x, v. 4.

10. Catalano 1930-31, I, pp. 565-571.

11. Of XXXIV, 85.

12. Satire, VII, vv. 152-153. La statua del duca

Borso è ricordata anche nella Lena, atto II,

scena 3.

13. Satire, III, vv. 190-192.

14. Satire, III, vv. 61-63.

15. Of XXVIII, 55, chiaramente memore di Virgilio,

Aeneis, I, vv. 418-468.

16. Capitoli, XI, vv. 23-51. Questa canonica lode

di “Firenze bella” può essere utilmente confrontata

con il grottesco rovesciamento del

topos operato da François Rabelais, Gargantua

et Pantagruel, IV, 11.

17. Satire, VII, vv. 131-132.

18. Of XVII, 119-120. Per la presenza di Ariosto

ad Urbino nel 1507 si veda Catalano 1930-31,

vol. I, p. 317.

19. Si vedano ad esempio le lettere 192, 194, 205,

207, 208, 209, 214 in Ariosto 1984 e Sonetti,

XXVI.

20. Of XXIV, 66.

21. Si vedano nell’ordine Of XIII, 64; XLVI, 38;

XXXVII, 68.

22. Of XXXV, 16, da confrontare con Teofilo

Folengo, Baldus, XXIV, vv. 180-182.

23. Of XIX, 86.

24. Platone, Convito, XVI, 193.

25. Orazio, Ars poetica, v. 361.

26. Si confronti Atti, XVIII, 3 con 2 Tessalonicesi,

III, 6-10.

27. Of XI, 71, da confrontare con Cicerone, De

inventione, II, i, 1 o Plinio il Vecchio, Naturalis

historia, XXXV, 64.

28. Of VI, 47.

29. Of XI, 58-59.

30. Si veda rispettivamente Of VII, 11 e X, 96.

31. Basti per tutti il rinvio a Farinella 2014a,

vera summa degli studi sul mecenatismo di

questo importante principe rinascimentale.

32. Of XXXIII, 2.

33. Barocchi 1970, vol. I, pp. 388-405, in particolare

pp. 388-389, con rinvio a Baldassarre

Castiglione, Il libro del cortegiano, I, 37.

34. Giorgio Vasari, Vita di Giorgione da Castelfranco,

in fine, sia nell’edizione del 1550 che

in quella del 1568.

35. Si vedano, a confronto, Pietro Bembo, Rime,

XIX-XX e Francesco Petrarca, Canzoniere,

LXXVII-LXXVIII.

36. Croce 1946, p. 69.

37. I vari, spesso difformi collegamenti che la

critica ha via via proposto tra la poesia di

Ariosto e l’arte dei pittori a lui contemporanei

sono acutamente recensiti da Ceserani

1985, pp. 145-166.

38. Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, III,

I.

39. Si vedano Catalano 1930-31, vol. I, pp. 376-

379 da un lato e Ludovico Ariosto, Carmina,

LXI dal’altro.

40. I Suppositi, in versi, prologo, dove sarà da

notare anche il riferimento ad Elefantiade,

già presente nel 1509 in Suppositi, in prosa,

prologo.

41. Cinque canti, I, 86-87.

42. Orazio, Ars poetica, vv. 9-10.

43. Cinque canti, I, 78.

220 221



ARIOSTO E L’OTTAVA

SUI PITTORI

BARBARA MARIA SAVY

E quei che furo a’ nostri dì, o sono ora,

Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,

duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora,

Michel, più che mortale, angel divino;

Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora

non men Cador, che quei Venezia e Urbino;

e gli altri di cui tal l’opra si vede,

qual de la prisca età si legge e crede

Orlando furioso, XXXIII, 2

Sono nove i nomi che Ariosto elegge ed incastona nella celebre ottava sui pittori moderni al

canto XXXIII del Furioso. Il valore di affermazione di un nuovo canone che essi vengono a

delineare è stato giustamente misurato dagli studi in relazione ai precedenti di Baldassarre

Castiglione – che nel Cortegiano aveva definito «eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna,

Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco» 1 – e di Paolo Giovio, autore delle biografie di

Leonardo, Michelangelo e Raffaello e di acuti giudizi di merito su Dosso, Sebastiano del Piombo

e Tiziano. 2

L’elogio delle loro opere viene prospettato da Ariosto in base ad un criterio d’eccellenza e di

paragone con quelle dei pittori antichi, ricordate nella stanza precedente, la cui fama perdura,

nonostante il tempo e le distruzioni materiali, «mercé degli scrittori». Questi artisti sono dunque

selezionati e consacrati esplicitamente in relazione al genere ecfrastico e all’interno di un canone

classicizzante con riferimento alle discussioni teoriche sulla diversa natura e sul rapporto tra arti

figurative e letteratura. 3 Non è un caso che quest’aggiunta compaia solo nell’edizione del 1532,

successiva alla pubblicazione delle Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo e caratterizzata

dal confronto con i principi estetici e normativi del classicismo bembesco. Bembo stesso Fig. 13

aveva espresso in tale direzione le proprie predilezioni artistiche e nel proemio alla terza parte

della sua opera aveva indicato negli artisti della Roma di Leone X, specificamente in Raffaello e

Michelangelo, i campioni di un nuovo linguaggio basato sulla lezione dell’antico, in anticipo sulla

stessa – e ben inteso superiore – arte dello scrivere. 4

Giovanni Bellini

e Tiziano Vecellio

Festino degli dei, 1514-29

Olio su tela, cm 170,2 x 188

Washington, National

Gallery of Art, Widener

Collection

222



Non va d’altronde dimenticato che le stanze dei pittori antichi e moderni sono costruite quale

premessa alla finzione profetica degli affreschi nella Rocca di Tristano, ove si trovano effigiate,

ad opera della magia di Merlino, guerre e disfatte dei francesi in Italia nell’arco di mille anni, fino

al tragico epilogo del Sacco (1527). Il nodo che si stringe in questa serie di strofe (XXXIII, 1-58)

tra la presa d’atto di un mutamento politico definitivo nella storia d’Italia e d’Europa e alcune

questioni cruciali nel dibattito culturale di quegli anni, cui si è accennato, è significativo del

nuovo e più ampio orizzonte entro cui si colloca l’intera revisione del poema. Si intende che la

«sprovincializzazione dell’opera non è un fatto circoscritto alle scelte linguistiche» e formali 5 e

che questa ed altre aggiunte dedicate a personaggi ed eventi contemporanei (le ottave sui grandi

scrittori e sulle scrittrici, sui nuovi Argonauti ecc.), al di là dell’encomio contingente, mirano a

coinvolgere e celebrare l’intera società del Rinascimento, modello di civiltà destinato ad essere

riconosciuto nei secoli a venire. 6

Allo stesso tempo è indubbio che l’ottava ariostesca rifletta anche scelte personali e d’ambiente,

occasioni di incontro e rapporti concreti di Ariosto con la cultura figurativa del proprio tempo. 7

Da questa non univoca, ma articolata prospettiva andrebbe valutata, ben oltre lo spazio qui concesso,

la sequenza degli eletti. Ci limiteremo di volta in volta ad alcune osservazioni a partire da

Leonardo, che Ariosto, come Castiglione, pone ad apertura della sua rassegna, ruolo che dalle

biografie gioviane – dove la triade con Michelangelo e Raffaello riflette forse il canone letterario

delle “tre corone” – si consoliderà nel successivo disegno vasariano. 8

Rispetto al problema del rapporto con l’antico, è opportuno distinguere chiaramente la posizione

di Leonardo da quella dei suoi compagni di “stanza”, per il carattere propriamente anticanonico

e sperimentale del suo percorso, entro il quale si collocano tuttavia affermazioni quali: «l’imitazione

delle cose antiche è piú laudabile che quella delle moderne». 9 Larga eco aveva avuto poi

presso le corti settentrionali l’impresa della statua equestre a Francesco Sforza, che, nell’arco

della sua lunga e incompiuta elaborazione, e soprattutto nella seconda versione del progetto con

il cavallo “al passo” (c. 1490-93), aveva comportato un crescente impegno nello studio dei modelli

antichi e moderni, aprendo la strada al topos del paragone tra Leonardo e i grandi scultori

greci che si incontra nella poesia di Baldassarre Taccone e poi nel De divina proportione di Luca

Pacioli, per il quale anche di fronte al Cenacolo «Apelle, Mirone, Policreto e gli altri» conviene

che cedano. 10 Nel 1501 da Ferrara il duca Ercole I d’Este cercava di ottenere la forma in argilla

del Cavallo, mentre da Mantova la figlia Isabella interpellava l’artista, quale esperto di oggetti

antichi, in merito ad alcuni vasi provenienti dal tesoro mediceo. 11 Leonardo aveva già realizzato

nel breve passaggio per la corte dei Gonzaga alla fine del 1499 il seducente Ritratto della marchesa

a punte colorate oggi al Louvre (Département des arts graphiques, inv. MI 753), che tuttavia era

stato poco dopo dato in dono e probabilmente Ariosto non ebbe modo di vedere. Altre possibili

Fig. 14

Dosso Dossi

Enea e la Sibilla nei Campi

Elisi, c. 1520-21,

Olio su tela, cm 58,4 x 167,8

Ottawa, National Gallery

of Canada

occasioni di incontro con l’artista il poeta le avrebbe potute avere attraverso Ippolito d’Este, arcivescovo

di Milano sin dal 1498 e in contatto con Leonardo nel 1507; quindi tra il 1513 e il 1516 a

Roma, quando il maestro alloggiava presso Giuliano de’ Medici in Belvedere. 12 Ma il ruolo di

capofila assegnatogli nell’ottava ha per noi un forte significato in relazione al tema guerresco che

domina le strofe successive, tenendo conto che proprio il confronto tra Leonardo e Michelangelo

per la decorazione della Sala del Gran Consiglio in Palazzo Vecchio (1503-06) aveva rifondato nei

primi anni del secolo l’immaginario visivo della battaglia e che il clamore delle rispettive invenzioni

aveva immediatamente scavalcato, anche tramite copie e disegni, le mura di Firenze, dove

peraltro Ariosto si trovò ripetutamente a soggiornare. 13

Per il pubblico delle corti di Mantova e di Ferrara e per Ariosto stesso i nomi di Mantegna e di

Giovanni Bellini attivavano immediatamente il rimando a scenari assai più familiari. 14 Per quanto

riguarda il primo, l’attenzione è stata giustamente puntata sullo studiolo di Isabella d’Este che

il poeta ebbe modo di visitare durante i suoi ripetuti soggiorni a Mantova, proprio negli anni in

cui andava sviluppando la materia del poema. Nelle intenzioni della marchesa i due anziani maestri

avrebbero dovuto confrontarsi sul tema delle allegorie mitologiche e della cultura antiquaria

all’interno di questo ambiente, ma il tentativo di coinvolgere anche il veneziano, attraverso la

mediazione di Pietro Bembo, non andò in porto. Bellini si trovò invece ad aprire nel 1514 con il

Festino degli dei oggi a Washington (Fig. 13) la decorazione del Camerino delle pitture di Ferrara,

impresa che segna il trapasso ad un nuova stagione del Rinascimento di corte. 15 Il nesso con lo

studiolo mantovano va dunque al di là della citazione rilevata nel poema dalla tela di Mantegna

con Minerva che scaccia i Vizi oggi al Louvre (Tav. 19) 16 e si allarga a comprendere una fetta

importante della cultura figurativa e letteraria di Ariosto al tempo del primo Furioso, quando

una traduzione dal greco del Filostrato, di proprietà di Isabella, già impiegata per l’iconografia

dello studiolo, viaggiava da Mantova a Ferrara, per essere utilizzata, insieme ai testi di Ovidio,

Luciano, Catullo nell’invenzione più libera ed organica di sei «fabule» per il Camerino di Alfonso

I, elaborate già nel 1511 da Mario Equicola. 17

I versi successivi registrano un immediato aggiornamento, tanto del canone quanto delle esperienze

visive dell’artista e del suo pubblico, sulla situazione del secondo decennio. La citazione

dei due Dossi (con Battista accanto al fratello) rimanda ad imprese condotte insieme, proprio a

partire dal fregio per il camerino delle pitture, dove le Storie di Enea, ed in particolare l’episodio

dei Campi Elisi (Fig. 14), rivestono lo stesso significato encomiastico della genealogia estense

celebrato nel Furioso. 18

Nella struttura aurea della strofe, Ariosto conferisce a Michelangelo una posizione centrale, isolando

il suo nome rispetto agli altri e conferendogli particolare risalto poetico attraverso due

elementi, destinati a diventare altrettanti topoi della fortuna letteraria: l’equivalenza tra scultura

e pittura, che era stata già espressa da Giovio e che tocca un altro capitolo del paragone tra le arti,

e l’uso dell’aggettivo “divino”, ricevuto per la prima volta dall’artista proprio in questo luogo.

Non è un caso che l’unica opera d’arte del tempo citata in maniera esplicita da Ariosto in una delle

sue Satire (III, 191) sia proprio quel profeta Giona che vede tante «mitre e diademe» dall’alto della

Sistina (Fig. 8). 19 Il poeta, al pari del suo duca e di molti altri suoi contemporanei, doveva essere

rimasto sinceramente colpito dalla nuova concezione della volta che egli aveva avuto modo di

ammirare forse già in corso di esecuzione durante i ripetuti soggiorni nell’Urbe tra il 1509 e il

1510 e certamente nel marzo del 1513, quando si recò a rendere omaggio al nuovo papa Leone X.

Chissà se, oltre al ricordo vivo di quella potente figura, egli fu in grado di apprezzare il grandioso

sistema che lega in tensione le diverse parti e l’impeto eroico dei protagonisti maschili e femminili

nel movimento continuo della Storia. Meno difficile è immaginare un suo interesse verso le

figure dei veggenti, rivissute, nel Furioso come nell’epopea cristiana della volta, attraverso l’immaginario

classico e mitologico.

Dal canto suo Alfonso aveva inseguito per quasi vent’anni il desiderio di possedere un’opera di

Michelangelo. Alle sue collezioni egli aveva acquisito, con esibito significato politico, la testa

224 225



bronzea di Giulio II già appartenente al monumento realizzato da Buonarroti a Bologna e trasferita,

subito dopo l’abbattimento dello stesso (dicembre 1511), a Ferrara, dove il resto della statua

era stato fuso e trasformato in una colubrina, chiamata “La Giulia”. 20 Quindi a Roma, sotto la

volta Sistina nel 1512, aveva iniziato ad “accarezzare” l’artista e l’ambizione di un dipinto fatto

apposta per la sua corte. Soltanto nell’estate del 1529, com’è noto, profittando dei soggiorni di

Buonarroti a Ferrara per ispezionare su incarico della signoria di Firenze le fortificazioni e le

artiglierie estensi, il duca era riuscito a commissionare una Leda che tuttavia, all’atto della consegna

nell’ottobre del 1530, gli venne negata a causa di un malaccorto commento del suo emissario

(Tav. 80). Forse quando Ariosto iniziò a scrivere l’ottava riteneva ancora possibile l’arrivo del

dipinto, per il quale doveva essere montata certamente a corte grande aspettativa, o forse, con

sottile compiacimento, volle regalare al duca con la sua poesia ciò che il pittore gli aveva rifiutato.

Il verso che tiene insieme Sebastiano, Raffaello e Tiziano meriterebbe di essere declinato in tre

distinti capitoli, chiamando a raccolta per esempio tutte le opere di Raffaello che Ariosto ebbe

modo di vedere, dopo essere entrato a servizio di Ippolito nel 1502 (a cominciare dal Ritratto del

cardinale, oggi a Budapest, c. 1505), 21 a Urbino già nel 1507 (i ritratti dei duchi, ma anche il dittico

del Louvre o il San Giorgio di Washington); poi certamente durante le sue trasferte romane,

tra le Stanze, la Stufetta e la Farnesina. 22 Riguardo a quest’ultima si può almeno ricordare l’arrivo

nell’agosto del 1511 di Sebastiano al seguito del banchiere papale Agostino Chigi, che, rientrando

da un lungo soggiorno a Venezia, aveva inteso portare con sé un pupillo di Giorgione e

Fig. 15

Raffaello Sanzio

Studio per Enea ed

Anchise, c. 1514

Matita rossa su carta,

mm 300 x 173

Vienna, Albertina,

Graphische Sammlung

coinvolgerlo nella decorazione della sua nuova villa suburbana. Ariosto, forse già nel marzo del

1513, ebbe modo di visitare la Farnesina e di ammirare gli affreschi della Loggia di Galatea, con

il ciclo astrologico del soffitto realizzato da Baldassarre Peruzzi, le storie ovidiane delle lunette

dipinte da Sebastiano e il Ciclope Polifemo ritratto da quest’ultimo sulla parete mentre brama

inutilmente la bella Galatea, dipinta da Raffaello nel riquadro di fianco e in atto di fuggire col suo

cocchio marino e il suo corteo di ninfe e di tritoni. Il poeta era probabilmente a conoscenza del

programma generale della sala messo in carta da quel Blosio Palladio ricordato nel canto XLVI

(13, 5) e persino dei motivi per i quali il ciclo era stato inizialmente concepito e poi lasciato interrotto.

Tra le ipotesi più convincenti è quella di un legame con la proposta di matrimonio avanzata

da Chigi in favore di Margherita Gonzaga nel 1511 e già sfumata entro la fine del ’12, sufficiente

tuttavia per mandare a monte l’amore sincero e la promessa tra la figlia del duca di Mantova e

Alberto Pio da Carpi, e a spingere la bella Margherita verso il convento, vicenda certamente ben

nota nell’ambiente delle corti e ad Ariosto. 23

In ogni modo la fama di Sebastiano ed il suo stesso credito letterario dipendevano soprattutto

dal rapporto di amicizia con Michelangelo e dalle doti riconosciute di ritrattista del veneziano.

Giovio, che – si è detto – costituisce una fonte importante per lo stesso Ariosto, ricorda anch’egli,

in stretta sequenza rispetto all’elogio dell’opera di Michelangelo, l’eccellenza di Sebastiano

in quest’ambito («In humanis vultibus, quos egregie Sebastianus exprimit, suaves et liquidos

tractus blandissimis coloribus convelator intuemur»). 24

Tornando a Raffaello e riducendo il fuoco alle testimonianze più oggettive, limitiamo ora sulla

fine del secondo decennio. Sul versante della biografia ariostesca sono l’allestimento da parte

dell’artista della scenografia dei Suppositi nel 1519 (Tav. 33) e l’elegia in latino del poeta per la

morte dell’urbinate nell’aprile del 1520 (De Raphaeli Urbinate, Carmina, LXI). Sul versante del

mecenatismo di Alfonso sono questi gli anni dell’arrivo a Ferrara di opere, come il modello per il

Trionfo indiano di Bacco, destinato al Camerino, o alcuni cartoni inviati in omaggio al duca, uno

relativo alla stanza dell’Incendio, l’altro per il San Michele di Francesco I. 25 Tra questi ultimi, in

particolare, quello per la stanza dell’Incendio si identifica con ogni probabilità con il gruppo di

Enea e Anchise, che, perduto il cartone, è documentato dal foglio originale a matita rossa conservato

all’Albertina di Vienna (inv. 4881; Fig. 15). A Ferrara il soggetto assumeva, come sappiamo,

valore encomiastico in relazione alla supposta discendenza degli estensi dai troiani e non

è escluso che lo stesso Raffaello lo avesse scelto consapevolmente come un dono gradito per il

duca. Ma l’invenzione raffaellesca diventa addirittura cruciale in relazione al modo in cui tale

spunto viene sviluppato nel Furioso, dove il riferimento al poema virgiliano riveste un valore più

ampio e normativo. Inoltre, la rievocazione da parte di Raffaello di queste figure a latere dell’episodio

medioevale dell’Incendio riflette una strategia allusiva molto simile a quella in atto nel

poema ariostesco, dove la materia cavalleresca viene reinventata in senso rinascimentale attraverso

continui riferimenti a episodi mitologici, di storia antica e contemporanea, che attingono

ad un immaginario letterario e visivo condiviso e sono per questo capaci di accendere immediatamente

la fantasia del pubblico.

Il nesso Ariosto-Tiziano, non meno di quello Ariosto-Raffaello, ha rivestito un ruolo centrale

nelle discussioni intorno ai pittori dell’ottava. Già nella trattatistica cinquecentesca si evidenziano

due distinti orientamenti che caratterizzano successivamente la fortuna e lo sviluppo del

tema. L’uno condotto sul piano delle analogie stilistiche è inaugurato da Lodovico Dolce (1557),

che propose la fata Alcina come modello di bellezza per i pittori, nell’ottica dell’ut pictura poesis e

dell’Ariosto “colorista”. L’altro, di carattere più storico e biografico, risale a Giorgio Vasari (1568)

che collega all’attività e ai soggiorni di Tiziano presso la corte ferrarese, a partire dal 1516, l’occasione

di un’amicizia tra l’artista e il poeta, nonché dell’elogio tributato al primo con la nostra

ottava nell’edizione del 1532, la stessa in cui compare un ritratto dell’autore inciso su disegno

di Tiziano (Fig. 47). 26 Nel tempo questi argomenti sono stati diversamente ripresi e commentati,

superando le più generiche assonanze di stile e le credenze tradizionali. L’attenzione si è

226 227



concentrata soprattutto sull’impresa del Camerino delle pitture e sui celebri baccanali realizzati

da Tiziano per quell’ambiente, sottolineando l’esistenza di un concreto e articolato rapporto con

il poema ariostesco.

È stato notato, in particolare, che l’episodio dell’abbandono di Olimpia da parte di Bireno nel X

canto, pure aggiunto nel 1532, appare direttamente calcato su quello di Arianna, intrecciando le

stesse fonti letterarie classiche utilizzate nel ciclo del Camerino (a partire da Catullo, Filostrato,

Ovidio). Anche nelle imprese di Ippolito d’Este istoriate sul padiglione nuziale di Ruggiero e Bradamante

nel XLVI canto, già nell’edizione del 1516, è stato colto il rimando alla coperta nuziale

di Peleo e Teti sulla quale è ricamata la storia di Arianna descritta da Catullo. 27 Secondo John

Shearman sarebbe stato proprio Ariosto, passato al servizio del duca nel 1517, l’autore delle istruzioni

fornite a Tiziano per il Bacco e Arianna (Fig. 18), oggi a Londra, proveniente dal Camerino. 28

Questa ipotesi nasceva dall’idea che il dipinto fosse entrato solo a quel punto nel progetto e che

non vi fosse un disegno unitario del ciclo, messo in carta invece proprio da Mario Equicola già

nel 1511. Una lettura coerente delle sei «hystorie» ideate dal letterato campano per il Camerino

di Alfonso è stata invece ribadita ed analizzata in tempi più recenti, anche alla luce del ritrovamento

presso il Prince of Wales Museum di Mumbay della «baccanaria d’uomini» di Dosso Dossi

vista da Vasari in quella stanza. Secondo tale ricostruzione la storia della passione di Bacco per

Arianna rappresenta non il soggetto di un singolo dipinto, ma il tema di fondo dell’intero programma

iconografico, inteso come un percorso attraverso i vari gradi dell’amore che parte e si

conclude nel giardino della Venere Urania, e al quale si connette il fregio dossesco del registro

superiore con le storie di Enea. Nella sequenza e nella concatenazione delle tele viene ora bene in

evidenza un principio dinamico e di sviluppo narrativo, nel quale il mito classico è fatto rivivere,

a partire da descrizioni letterarie, combinando con disinvoltura testi antichi e moderni, e attraverso

la citazione consapevole di un immaginario figurativo di ispirazione antiquaria, che viene

rielaborato però in forme moderne, pienamente rinascimentali, e chiamato ad esprimere nuovi

significati intellettuali e contenuti encomiastici. 29 In questo contesto, il rapporto tra Ariosto e

Tiziano non si risolve quindi nel riferimento pur puntuale al soggetto né nell’uso delle stesse

fonti letterarie, probabilmente già contemplate dal primo iconologo salvo successivi aggiustamenti,

ma si sostanzia ancora una volta nel confronto che poeta ed artista ingaggiano da fronti

diversi con i modelli antichi e che entrambi traducono in una nuova capacità di racconto e di rappresentazione,

provocatoriamente allusiva verso i gusti e le esperienze di Alfonso I, della corte

ferrarese e della sua rete sociale e intellettuale. Fra i tre baccanali tizianeschi, quello degli Andrii

(Tav. 81), ultimo in ordine di tempo, rivela il maggiore impegno dell’artista sul versante della

reinvenzione ecfrastica di un’opera antica e sul registro “alto” del riecheggiamento dei classici,

lo stesso che guida Ariosto nella revisione del poema. Il nudo femminile in primo piano, da alcuni

studiosi identificato proprio con Arianna abbandonata e di fatto ispirato al modello scultoreo

dell’Arianna (Cleopatra) del Belvedere e ai sarcofagi dionisiaci, si offre sensualmente all’occhio e

al desiderio dello spettatore, così come il nudo di Olimpia a quello del lettore. 30 Allo stesso modo

il luogo che accoglie il suo riposo e la festa degli Andrii restituisce nella tradizione del paesaggio

moderno veneziano l’immaginario letterario del locus amoenus quale spazio mentale di sosta e

di svago, lo stesso che nel poema Ariosto mostra di saper alternare sapientemente alla selva o al

Palazzo di Atlante nel quale fuggono e si perdono i suoi inquieti protagonisti.

Al termine di questa panoramica riemergono dunque, rispetto ai versi dell’ottava e al tema del

paragone, la centralità e la precedenza del Camerino di Alfonso, quale luogo nel quale si era cercato

di realizzare consapevolmente nel corpo a corpo della pittura un confronto tra le diverse

maniere del Rinascimento italiano basato sull’imitazione dell’antico, lo stesso che, forse proprio

in rapporto al primo progetto del duca nel 1511, Agostino Chigi promuove a sua volta e a stretto

giro nella villa sul Tevere. 31 L’esperienza del Camerino e del soggiorno ferrarese è stata d’altronde

richiamata quale incentivo per lo stesso Giovio nella trattazione degli artisti contemporanei e per

intendere il suo elogio delle abilità paesaggistiche di Dosso. 32 Il rapporto tra i due umanisti viene

dunque a configurarsi in termini non tanto di dipendenza dell’uno dall’altro, bensì di mutuo

scambio. Rispetto a Giovio, però, Ariosto, formula il suo canone tracciando l’intero arco di esperienze

che tra la prima e l’ultima redazione del poema avevano condotto dallo studiolo di Mantova

al Camerino di Ferrara alla maturazione di questo confronto e delle sue ambizioni di classicità,

consacrando alla poesia ciò che «Cloto» avrebbe ancora disperso.

1. Barocchi 1970, p. 388. Il catalogo degli artisti

è già presente nella seconda redazione

dell’opera del 1518-20, prima della stampa

del 1528, in ogni modo con riferimento a

conversazioni ambientate nel 1507 (Agosti

2005, p. 169).

2. Oltre al fondamentale Barocchi 1970, già

citato, si vedano almeno Dionisotti 1995,

pp. 120-121; Savarese 1984, p. 57; Romano

1981, pp. 5-85; Shearman 2003, vol. I, pp.

873-875, 1532/6; Bartalini 1996, pp. 135-145;

Agosti 2005, pp. 169, 191 nota 57, 287-288,

335 nota 53 e 454. In particolare per il ruolo

e la disamina delle pagine di Giovio, Maffei

(in Giovio 1999) e Agosti B. 2008, che a p. 51

argomenta la composizione delle biografie

sul 1525-26.

3. Tra i contributi recenti Gareffi 2012 (con

bibliografia).

4. Su Bembo e le arti del Rinascimento si veda

ora il catalogo della mostra, Padova 2013

(nella sua interezza con relativa bibliografia).

5. Zatti 1997, p. 37.

6. Segre 1966, pp. 34-35.

7. Gnudi 1994, pp. 38-40; Ceserani 1985.

8. L’osservazione è in Agosti B. 2008, p. 49,

che ricorda come la selezione fosse presente

nella Veneziade (1521) dell’umanista romagnolo

Publio Francesco Modesti (il passo

citato in Agosti 1996, pp. 79-80), noto a Giovio

e, si può aggiungere, con ogni probabilità

anche ad Ariosto.

9. Agosti, Farinella e Settis 1987, p. 533. Alle

riflessioni di Leonardo sul magistero delle

fonti letterarie antiche è stato riconosciuto

da tempo un peso nell’avvio verso

la maniera moderna di Giorgione intorno

all’anno 1500 (Ballarin 1979, pp. 230-231).

10. Questa e altre citazioni si possono leggere

in Marani 2007-08, pp. 20-21. Per questa

fase dell’attività di Leonardo, Ballarin 2010.

11. Agosti, Farinella e Settis 1987, p. 533.

12. Un primissimo incontro potrebbe risalire

all’agosto del 1493 tra Milano e Pavia, dove

Ariosto è al seguito del duca Ercole per recitare

in una commedia plautina (Catalano

1930-31, vol. I, pp. 122-123).

13. Il fascino esercitato dai resti del murale leonardesco

allora visibile in Palazzo Vecchio

è testimoniato, tra gli altri, da Paolo Giovio

(1999, p. 235). Le osservazioni di Leonardo

sulla superiorità della pittura nella rappresentazione

della battaglia (Leonardo 2002,

pp. 200-201) sono state più volte richiamate

in relazione al dibattito sul paragone tra le

arti e al tema dell’ecfrasi. Un tentativo di

cogliervi delle affinità con la mobilità dello

spazio ariostesco è in Praloran 2007, pp.

232-242. Per una più approfondita disamina

dell’argomento rimando al saggio di Francesca

Borgo in questo volume.

14. Su entrambi, in relazione alle attestazioni

letterarie del paragone con gli antichi, si

vedano Agosti 2005 e 1996, ed. 2009.

15. Tra le nuove pitture erotiche del vecchio Bellini

all’altezza del Festino di Ferrara, Giovanni

Agosti (1996, ed. 2009, pp. 33-35) ricorda, oltre

alla Nuda di Vienna, il doppio ritratto di una

donna insidiata da un giovane che le tocca

il seno ricordato da Niccolò Liburnio nelle

Selvette dedicate nel 1513 a Isabella d’Este.

La descrizione mi fa pensare ad un possibile

modello, accanto alla Laura di Giorgione, per

il dipinto di Dosso oggi alla Galleria Palatina

(c. 1515-16), la cui interpretazione come Angelica

e Orlando, proposta da Simari (in Firenze

1986-87, n. VI.11) e da Ballarin (1994-95, p. 34)

sembra confermata dalle indagini effettuate

nel corso del più recente restauro (Navarro in

Tivoli 2016, pp. 201-215).

16. Farinella 2011; un affondo su Ariosto e

Mantegna è anche nel saggio dello stesso

studioso in questo volume con relativa

bibliografia, pp. 230-235.

17. Per questo e i successivi riferimenti nel

testo all’impresa del Camerino e al suo

rapporto con quella dello studiolo rimando

soprattutto a Ballarin 2002-07 e a Farinella

2014a (con bibliografia).

18. Farinella 2014b, pp. 37-38 nota 60 e nello

stesso volume il saggio di A. Pattanaro,

sull’attività dei due fratelli fino agli affreschi

di Trento con espliciti riferimenti

all’ottava ariostesca (2014, p. 197).

19. Monti 1867, p. 30; Ceserani 1985, p. 153.

20. Su tutta questa vicenda si veda ora Farinella

2014a, pp. 688-691.

21. Ballarin 2010, pp. 990-1000.

22. A partire da Panofsky (1954), Arcangeli

(1963), Gnudi (1994), Raffaello è stato uno

degli artisti più invocati (insieme a Tiziano,

Dosso, Mantegna o Piero di Cosimo) alla

ricerca di paralleli stilistici tra codice figurativo

e codice poetico.

23. Thoenes 1986.

24. Giovio 1984, p. 237. Una testimonianza della

presenza a Ferrara di opere dell’artista è

il Ritratto di Renata di Francia, andata in

sposa ad Ercole d’Este nel 1528 (nel giugno

di quell’anno Sebastiano è a Venezia), dato

in dono dalla stessa duchessa a Madame

de Soubise di ritorno in patria nel 1536

(Gorris 1997, p. 152; Pattanaro 2000, pp.

21, 77). Altro candidato è un San Giovanni

Battista a mezza figura attribuito a «Bastianello»

nell’inventario di Ippolito II del 1535

(Menegatti 1998-99, p. 152). Nelle collezioni

estensi di Modena si trovava nel 1663 anche

il Ritratto giovanile oggi a Budapest (Curti

1993, p. 66).

25. Ballarin 2002-07, vol. I, pp. 328-336. Su

altre opere realizzate da Raffaello per Ferrara,

come la Madonna del passeggio del

1514 circa, oggi ad Edimburgo, si soffermano

Caramanna e Menegatti 2013, pp.

54-55.

26. Sull’esistenza di una effigie del poeta

dipinta dallo stesso artista si vedano da

ultimi Venturi 2012 e Cogotti, Farinella e

Preti in Tivoli 2016, pp. 14-15.

27. Rajna 1900, pp. 117-119, 209; Ballarin 2002-

07, vol. I, pp. 156-157.

28. Shearman 1995, pp. 256-258.

29. Il riferimento per questa interpretazione

del ciclo e dei suoi significati è principalmente

a Ballarin 2002-07, vol. I, pp. 63-353,

che ricorda l’importanza delle aperture

di Wind (1948) in questa direzione. Una

diversa lettura in chiave più decisamente

politica è prospettata ora da Farinella

2014a, pp. 487-672.

30. Senza ammettere un’influenza diretta o

mediata Padoan 1980, pp. 97-98, rileva però

nella nudità di Olimpia, a confronto con

quella di Angelica, tonalità figurative che

evocano il mondo tizianesco, ricordando

proprio la nuda degli Andrii. L’argomento è

ripreso da Albonico 2012.

31. La valutazione di questo ciclo in rapporto

alle vicende di Chigi e al progetto di Alfonso

è ampiamente illustrata da Ballarin 2002-

07, vol. I, pp. 241-249.

32. Longhi 1940, ed. 1956, p. 157; Agosti B. 2008,

pp. 78-81.

228 229



ARIOSTO E MANTEGNA,

CHE NELLA PITTURA

«TIENE LO IMPERO»

VINCENZO FARINELLA

Nel 1974 Cesare Gnudi presentava al Convegno Internazionale su Ludovico Ariosto, organizzato

in occasione del quinto centenario della nascita del poeta, un’ampia relazione

dal titolo L’Ariosto e le arti figurative: 1 in questo consuntivo sul «rapporto, che certo

esistette, intimo e profondo, fra l’Ariosto e le arti figurative del suo tempo», Mantegna veniva

ad occupare un posto fondamentale, rappresentando, per così dire, l’artista di riferimento per

gli anni giovanili del poeta, prima che si accingesse, a partire dall’aprirsi del Cinquecento, all’ideazione

e alla composizione del Furioso: «Era questo, del Pisanello, come quello del Quattrocento

ferrarese, un mondo culturale di cui l’Ariosto si era certo nutrito, ma che ora lasciava dietro

di sé, guardando piuttosto al Mantegna come a colui che indicava la via di un rinascimento

umanistico e classico anche nelle arti figurative, parallelo a quello che il Bembo, a Ferrara, già

negli anni 1498-99 gli indicava per la lingua e la letteratura.» 2

Una posizione ribadita ulteriormente da Gnudi, là dove rifletteva sulle ragioni delle inclusioni

(e delle esclusioni) dei nomi degli artisti moderni nella celebre ottava inserita nel 1532 nella

definitiva edizione del poema (XXXIII, 2): «Altro discorso [rispetto a Giovanni Bellini] si deve

fare per Andrea Mantegna. Per lui, morto nel 1506, la citazione può ben avere un significato

più ampio e retrospettivo, riferito al complesso delle sue opere e non solo alle sue ultime, come

i dipinti per il Camerino di Isabella a Mantova. Mantegna, di cui l’altissima fama correva nelle

corti e negli ambienti culturali nei quali il giovane Ariosto visse e si formò e le cui opere capitali

erano raccolte nella corte mantovana, può ben essere stato da lui considerato il maggior pittore

vivente ai tempi della sua prima giovinezza, sul finire del secolo; e anche in seguito egli dovette

continuare a vedere in lui (a fianco dell’Alberti per l’architettura) il maggiore dei quattrocentisti,

il fondatore di una cultura classica e umanistica nelle arti figurative, oltre che un superbo e

immaginoso inventore di finzioni prospettiche e spaziali.» 3

La fama di Mantegna, in effetti, correva molto alta a Ferrara, negli anni in cui Ariosto stava

formandosi come intellettuale e come poeta: 4 apprezzato a corte già a partire dagli anni del

Andrea Mantegna

Minerva che scaccia i Vizi

dal giardino delle Virtù

(part. di Tav. 19),

c. 1497-1502

Tempera su tela,

cm 160 x 192

Parigi, Musée du Louvre

230



Andrea Mantegna. Sempre nell’ultimo decennio del secolo si data una serie di stampe mantegnesche

raffiguranti alcune fatiche di Ercole, pensate con ogni probabilità, come suggerito

dalle dediche («DIVO HERCULI INVICTO»), come un omaggio al secondo duca di Ferrara.

Un’occasione fondamentale per approfondire la conoscenza delle opere mantovane di Mantegna

fu sicuramente offerta ad Ariosto dal soggiorno, nel momento in cui era immerso nell’ideazione

del primo Furioso, presso la corte dei Gonzaga: il 30 gennaio 1507 il cardinale Ippolito

scrive due lettere alla sorella Isabella e a Francesco Gonzaga, marchesi di Mantova, per

congratularsi della nascita, avvenuta il 28 gennaio, del figlio Ferrante, e per pregarli di accogliere

benevolmente Ludovico Ariosto e di «audirlo cum piena fede come faria me proprio»; il

3 febbraio entrambi rispondono al cardinale estense, per ringraziarlo del fraterno interessamento;

celebre è la lettera inviata a Ferrara da Isabella (Tav. 17), testimonianza cruciale non

solo della preistoria del poema, ma anche del rapporto di amichevole complicità che d’ora in

avanti legherà il poeta alla marchesa mantovana: «Et per la lettera della S. V. R.ma et a boccha

da m. Ludovico Ariosto ho inteso quanta leticia ha conceputa dal felice parto mio. Il che mi

è stato summamente grato, cussì la ringratio de la visitacione et particularmente di havermi

mandato il dicto m. Ludovico per che, ultra che ’l me sia stato acetto, representando la persona

di la S. V. R.ma, luy anche per conto suo mi ha addutta gran satisfactione havendomi, cum la

naratione de l’opera che ’l compone, facto passare questi dui giorni, non solum senza fastidio,

ma cum piacere grandissimo, che in questa, come in tutte le altre actione sue, ha avuto buon

Iudicio ad elegere la persona in lo caso mio. De li rasonamenti che, ultra la visitacione, havemo

facti insieme, m. Ludovico renderà cunto alla S. V. R.ma, alla quale mi raccomando.» 5

Ovviamente durante questi giorni mantovani Ariosto dovette avere modo, in compagnia di Isabella,

di vedere con agio i capolavori che Mantegna aveva compiuto per la corte dei Gonzaga,

e in particolare i dipinti realizzati per lo studiolo della marchesa; uno, in particolare, dovette

colpirlo particolarmente e imprimersi nella sua poetica fantasia, e cioè la Minerva che scaccia

i Vizi dal giardino delle Virtù (Tav. 19). Come già argomentato in altre occasioni, 6 tre ottave del

sesto canto del poema (A VI, 61-63) sembrano aver trovato proprio nella raffigurazione dei

mostruosi Vizi messi in fuga dall’irrompere di Minerva/Isabella nel giardino delle Virtù (e in

un dettaglio di un’altra composizione mantegnesca, l’incisone Virtus combusta / Virtus deserta,

dove è raffigurata l’obesa ed ebbra personificazione dell’Ignoranza seduta su una sfera, Fig. 16)

una fonte d’ispirazione, tratta in questo caso non dagli innumerevoli testi compulsati e contaminati

dal poeta, ma da precise e riconoscibili opere figurative:

marchese Leonello, sarà nell’ultimo decennio del Quattrocento che la fortuna dell’artista giungerà

al suo apice nella città degli Este. A questa altezza cronologica il pittore padovano, assunto

ed adottato dai Gonzaga, è diventato l’esempio del perfetto “artista di corte”, capace di illuminare

di gloria riflessa perfino i più illustri committenti: non solo i marchesi di Mantova, i duchi

di Ferrara o Lorenzo il Magnifico, ma anche il pontefice o il re di Francia. Nel 1498 il medico

di corte del duca Ercole I, Francesco da Castello, si dichiarava pronto a «pagarlo da re», pur

di avere una sua opera autografa per il proprio studiolo. Nessun artista ferrarese, nemmeno

il grande Ercole de’ Roberti, che pure aveva saputo dialogare senza alcuna sudditanza con

Mantegna, veniva ritenuto al suo livello. Lo dimostra un episodio avvenuto nel novembre 1494:

volendo assicurarsi il favore di Carlo VIII mediante il dono di uno spettacolare padiglione da

campo, il duca estense chiese che, per l’invenzione e la decorazione del palo di sostegno, ci si

rivolgesse a Mantegna, “prestato” in quell’occasione dai Gonzaga agli Este. Nel marzo del 1499,

scomparso ormai Ercole de’ Roberti, viene nominato come arbitro, per valutare il ciclo di affreschi

di Lorenzo Costa, Niccolò Pisano e di un anonimo maestro modenese destinato a decorare

l’abside del duomo ferrarese, proprio il «magnificum virum integerrimumque dominum»

Fig. 16

Andrea Mantegna

Virtus combusta (Allegoria

della caduta dell’umanità)

(part.), c. 1500

Penna, inchiostro e punta

di metallo su fondo bruno,

lumeggiato di bianco,

sfondo nero su rosso,

mm 286 x 441

Londra, The British

Museum, Department of

Prints and Drawings

Non fu veduta mai più strana torma,

più monstruosi volti et peggio fatti:

alcun’ dal collo in giù d’huomini han forma

col viso poi di can, di simie o gatti;

stampano alcun’ co piè caprigni l’orma,

alcuni son centauri agili et atti;

son gioveni impudenti et vecchi stolti,

chi nudi et chi di strane pelli involti.

Chi senza freno s’un caval galoppa,

chi lento va con l’asino o col bue;

altri salisce ad un centauro in groppa,

molti hanno sotto aquile, struzzi et grue;

ponsi altri a bocca il corno, altri la coppa;

chi femina è, chi maschio, e chi amendue;

chi porta uncino, chi scala di corda,

chi pal di ferro et chi una lima sorda.

232 233



La ricomparsa del nome di Mantegna nella celeberrima ottava sugli artisti moderni, inserita da

Ariosto nella terza definitiva edizione del poema (1532), 9 si spiega così non solo come un segno

della fama nazionale conseguita dall’artista gonzaghesco per tutto il Cinquecento (testimoniata

anche, qualche anno prima, dalla ricorrenza del suo nome nel canone di artisti presenti

nel Cortegiano di Baldassare Castiglione, pubblicato nel 1528 ma ambientato nel 1507), 10 ma

anche come un attestato di una predilezione maturata da Ariosto negli anni giovanili: predilezione

sopravissuta a lungo, anche quando Raffaello, Michelangelo e Tiziano avevano ormai

conquistato un definitivo primato, capace di offuscare la fama di chi, a fine Quattrocento,

poteva ancora apparire come colui che nella pittura «tiene lo impero» 11 o che, per rimanere in

un contesto ferrarese, «porta la corona de questo mestere de depinzere». 12

Di questi il capitan se vedea

c’havea gonfiato il ventre, e ’l viso grasso;

et sopra una testugine sedea

che con gran tardità mutava il passo.

Havea di qua e di là chi lo reggea,

perché egli era ebro et tenea ’l ciglio basso;

altri la fronte gli sciugava e ’l mento,

altri i panni scuotea per fargli vento. 7

L’interesse per le composizioni mantegnesche si colloca, nel primo Furioso, in un contesto di

interessi figurativi che può ancora essere definito come essenzialmente “cortigiano”: informato

cioè sull’orizzonte culturale delle corti frequentate da Ariosto (Ferrara, Mantova e

Urbino) e solo tiepidamente aggiornato, a queste date (ottobre 1515), sulle rivoluzionarie novità

della “maniera moderna” incrociate durante i soggiorni fiorentini e romani: anche nell’ultimo

canto del poema (A XL, 50-72), il fantastico padiglione approntato dalla maga Melissa per le

nozze di Ruggiero e Bradamante, dove Cassandra aveva profeticamente effigiato, ricamandoli

con l’ago e col filo, gli eventi più significativi della vita di Ippolito d’Este, potrebbe aver trovato Fig. 17

una fonte d’ispirazione visiva nel padiglione affidato nel 1494 alle capacità inventive di Mantegna,

intagliato e dipinto «ad istorie cum animali» e arricchito da «ocellitti» talmente vivi che

pareva di sentirli cantare (documentati forse da due disegni di Mantegna raffiguranti uccellini

impegnati a beccare una mosca o delle bacche, Fig. 17), per blandire il re di Francia che stava

minacciosamente scendendo con il suo esercito lungo la penisola. 8

Andrea Mantegna

Uccello su un ramo che

mangia una mosca, c. 1494

Penna e inchiostro bruno

su carta, mm 128 x 88

Londra, The British

Museum, Department of

Prints and Drawings

1. Gnudi 1975, pp. 331-401; il saggio è stato

ripubblicato da ultimo in Reggio Emilia

1994, pp. 13-47 (da cui si cita).

2. Ibid., p. 15.

3. Ibid., p. 39.

4. Per quello che segue si veda Gruyer 1897,

vol. II, pp. 31-32, 141-142; Toffanello 2010,

pp. 26-30; Farinella 2010, pp. 351-382.

5. Catalano 1930-31, vol. II, pp. 77-79 docc.

127-130.

6. Farinella 2011; Farinella 2016, pp. 43-44.

Approfitto di questa occasione per sottolineare

un dato di fatto che mi era sfuggito:

come mi ha fatto amichevolmente notare

Marialucia Menegatti, già Pio Rajna aveva

cautamente avanzato l’ipotesi di un possibile

influsso del dipinto di Mantegna per

Isabella su questi versi di Ariosto. Non

nella prima edizione (1876) del suo ormai

classico studio sulle Fonti dell’Orlando

furioso, ma nella postilla aggiunta in calce

alla seconda edizione corretta e accresciuta

(1900). Per quanto riguarda «il pensiero di

rappresentare le mostruosità morali come

mostruosità fisiche» nel passo ariostesco

in questione, Rajna così precisa: «Elementi

di confronto fornisce la cacciata dei vizi

dipinta dal Mantegna per lo “studiolo” di

Isabella Gonzaga ora al Louvre» (Rajna

1900, ed. 1975, p. 650, nota a p. 180 riga 1).

7. Ariosto 2006, pp. 123-124.

8. Su questa “incredibile” invenzione mantegnesca

si veda la bibliografia citata in Farinella

2016, p. 57.

9. Su questa ottava si veda da ultimo Shearman

2003, vol. I, pp. 873-875, 1532/6; Agosti

2005, pp. 169, 191 nota 57, 287-288, 335 nota

53 e 454; Gareffi 2012, pp. 119-141; Farinella

2014b, pp. 37-38 nota 60.

10. Agosti 2005, pp. 168-170.

11. Per i versi di Giovanni Santi, il padre di

Raffaello, in lode di Mantegna si veda Santi

1985, vol. II, p. 676.

12. Il passo del memoriale di Francesco Mazzoni,

segretario di Albertino Boschetti,

conte di San Cesario sul Panaro (uno dei

congiurati del 1506 che verranno giustiziati

sulla pubblica piazza di Ferrara), è citato in

Agosti 2005, p. 109.

234 235



ARIOSTO

E TIZIANO

MIGUEL FALOMIR

La questione del rapporto tra Ariosto e Tiziano ebbe origine quando il pittore era ancora in

vita e fu alimentata dalla sua cerchia, in particolare da Lodovico Dolce, finché Carlo Ridolfi

non ne fece addirittura un mito. 1 Per come si è consolidata tra Cinque e Seicento, essa si

articolava su tre fattori: l’amicizia che avrebbe legato l’artista e il poeta, la familiarità con Alfonso I

d’Este di cui entrambi godettero, e i “prestiti” o le analogie tra le forme pittoriche dell’uno e quelle

letterarie dell’altro.

Che Tiziano e Ariosto si conoscessero è fuor di dubbio: operarono nello stesso periodo alla corte

di Alfonso e l’artista eseguì almeno due ritratti del poeta. 2 Sul fatto che fossero amici – o sul

grado della loro amicizia – gli storici hanno espresso per lo più scetticismo, a partire da Crowe

e Cavalcaselle, che hanno notato come la corrispondenza di Ariosto sia priva di indizi in merito,

assenti anche nelle fonti tizianesche coeve. 3 Non meno dubbia è la pretesa parità che Alfonso

d’Este avrebbe attribuito ad Ariosto e Tiziano, e che secondo Ridolfi era sancita da una delle

tele che avrebbero decorato il catafalco, progettato ma mai realizzato, del cadorino, nella quale

erano raffigurati Alfonso e i suoi cortigiani in atto di ascoltare Ariosto che declamava i suoi versi

mentre Tiziano dipingeva. 4 Le passioni estetiche di Alfonso sono ben documentate, come lo è la

costellazione di ingegni di cui egli si circondò, ma, come già osservava Paolo Giovio nella Vita di

Alfonso da Este duca di Ferrara (Firenze 1553), tra questi ingegni Ariosto occupava una posizione

dominante. 5

Il rapporto d’amicizia e la frequentazione degli stessi ambienti avrebbero generato, secondo gli

estimatori del pittore, un fecondo scambio di idee tra i due. Dice Ridolfi che Ariosto consultava

Tiziano sulle proprie invenzioni, 6 ma gli storici moderni non accolgono questa affermazione, così

come nulla comprova il ruolo del poeta come “consulente iconografico” di Tiziano per i Camerini

d’alabastro, anche se Shearman gli accredita la sofisticata fusione di fonti letterarie sottesa

al Bacco e Arianna del maestro veneziano (Fig. 18). 7 Fuori dall’ambito dei Camerini, c’è una sola

opera di Tiziano che riprende una scena descritta da Ariosto, il disegno Paesaggio con Ruggiero

Fig. 18

Tiziano Vecellio

Bacco e Arianna, c. 1520-23

Olio su tela, cm 176,5 x 191

Londra, The National

Gallery

236



e Angelica (Fig. 19), eseguito parecchio tempo dopo la morte del poeta, che, curiosamente, si

distingue per la sua libertà nei confronti della fonte letteraria. 8 E proprio la sua non letteralità

mette in luce uno dei tratti condivisi da Ariosto e Tiziano: la tendenza a rielaborare le fonti in

maniera disinibita e spesso ironica, ma senza smentire la conoscenza delle tradizioni poetiche e

pittoriche precedenti. 9 Le affinità tra i due vanno cercate nelle rispettive posizioni e concezioni

estetiche, più che nella puntualità tematica, e da questa prospettiva si possono in effetti rilevare

concomitanze plausibili. Come fa Lodovico Dolce nel suo Dialogo della pittura (Fig. 20), quando,

riprendendo l’oraziano ut pictura poesis, afferma a proposito della bellezza di Alcina: «Qui l’Ariosto

colorisce, et in questo suo colorire dimostra essere un Titiano». 10 Una simile osservazione

assume un senso pieno quando si tengono presenti gli altri parallelismi tra pittori e letterati

tracciati da Dolce: Dante e Michelangelo, Petrarca e Raffaello. Alla “difficoltà” rappresentata

dal binomio Dante/Michelangelo egli contrappone la “facilità” di Petrarca/Raffaello e Ariosto/

Tiziano, creatori di un’arte volta a procurare piacere ai suoi fruitori, e per ciò stesso superiore: «I

migliori sono i più facili». Altrettanto calzante appare l’accostamento tra Ariosto e Tiziano compiuto

da Giovanni Paolo Lomazzo nel suo Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura

(1584), motivato dal dispiego di varietas o, come stabilisce la moderna storiografia artistica, dal

comune ricorso al non finito come mezzo espressivo e argomentativo. 11

Per concludere mi soffermerò sull’espressione «eroica maestà», coniata da Dolce per definire le

figure di Tiziano, che secondo Roskill costituiva un’alternativa alla «terribilità» michelangiolesca.

12 Già nella sua Apologia contra ai detrattori dell’Ariosto, pubblicata in appendice alla ristampa

del 1535 dell’Orlando furioso, Dolce aveva usato queste parole per descrivere l’eleganza linguistica

del poeta: «Non è lettori il verso dell’Ariosto gonfio & aspero, ma alto e grave, e quello a

punto si conviene all’Heroica Maestà». Questa «heroica maestà» è stata assimilata, a mio parere

Fig. 19

Tiziano Vecellio

Paesaggio con Ruggiero e

Angelica, c. 1550

Penna e inchiostro bruno

su carta, mm 256 x 405

Bayonne, Musée

Bonnat-Helleu

Fig. 20

Lodovico Dolce

Dialogo della pittura

Venezia, Gabriele

Giolito, 1557

Venezia, Biblioteca

Nazionale Marciana.

Su concessione del

Ministero dei beni e delle

attività culturali e del

turismo

felicemente, ai ritratti imperiali di Tiziano (nella sua Vita di Carlo V, del 1561, Dolce allude alla

«bellezza eroica del corpo» dell’imperatore), 13 e questo suggerisce un’ulteriore considerazione:

Ariosto, in quanto prototipo del letterato cortigiano, dovette costituire un modello perfetto per

Tiziano, divenuto artista di corte.

Dalle fonti cinque-seicentesche si deduce che l’accostamento tra Tiziano e Ariosto ebbe origine

nel XVI secolo. I vantaggi per Tiziano, al di là di questo luogo comune del loro apparentamento,

appaiono evidenti. L’inserimento del suo nome nel XXXIII canto della terza edizione dell’Orlando

furioso (1532) fu determinante per la sua fortuna critica. Per la prima volta egli figurava accanto

ai grandi pittori del passato e del presente, proprio nel momento in cui cercava il riconoscimento

della corte imperiale, quella stessa che nel 1532 presenziò a Mantova alla donazione da parte di

Ariosto a Carlo V di una copia del poema. Non arriverei ad affermare che il riconoscimento da

parte di Ariosto influì su ciò che Carlo concesse a Tiziano un anno dopo – vale a dire il titolo di

cavaliere palatino –, ma certo esso fornì al pittore una sorta di certificazione di cui ancora non

godeva quando incontrò l’imperatore per la prima volta nel 1529. Inoltre, per circa un ventennio

i versi di Ariosto furono il maggiore elogio a stampa ricevuto dall’artista, e ciò spiega la considerazione

di cui godette nel suo ambiente. Basti dire che Dolce, scrivendo del suo adorato Ariosto

nel Dialogo della pittura, equiparò Tiziano ad artisti come Sebastiano del Piombo o i Dossi e si

spinse fino a conferirgli l’appellativo di «divino», che Ariosto aveva riservato a Michelangelo. 14

Dal canto suo Tiziano – e con lui il suo entourage – era pienamente consapevole dell’importanza

di quei versi. Lo straordinario successo che l’Orlando furioso ebbe in tutta Europa (ben superiore

al favore riscosso da qualunque trattato artistico) fece sì che il suo nome, affiancato a quelli di

238 239



Raffaello e Michelangelo, giungesse là dove non lo avrebbero portato i suoi dipinti; anche dove

le sue opere affluivano in gran numero, come in Spagna, Ariosto e il suo poema furono cruciali

nell’assicurargli fama e prestigio. 15

Se Ariosto contribuì in misura notevole a diffondere il nome di Tiziano, quest’ultimo ebbe un

ruolo cruciale nel tramandare l’immagine del poeta attraverso i suoi ritratti. Merita un breve

commento quello inserito, in versione incisa, nell’edizione definitiva dell’Orlando furioso del 1532

(Fig. 47). 16 Si tratta di un profilo che ricalca la tipologia delle monete antiche, ma si differenzia

dai precedenti esempi italiani per la mancanza di attributi o simboli riferiti allo status di poeta

del modello. Tiziano sfrutta invece la calvizie di Ariosto per dare risalto alla sua fronte ed enfatizzare

così la sua vis intellettuale. È quasi impossibile guardare questo ritratto senza pensare a

quello di Philip Melanchton eseguito da Dürer nel 1526, ed è innegabile che esso fissò un modello

per i ritratti di scrittori veneziani che sarebbero seguiti nei decenni successivi. Ci si può inoltre

domandare se, raffigurandosi di profilo nel suo ultimo autoritratto – conservato al Museo del

Prado – Tiziano non mirasse a stabilire una definitiva identificazione tra sé e Ariosto.

1. La bibliografia è assai vasta e dovrò limitarmi

a citare solo qualche titolo. Per un’impostazione

generale rimando a Padoan

1980.

2. Il tema dei ritratti di Ariosto è trattato in

Paoli 2015.

3. Vedi Crowe e Cavalcaselle 1877-78, vol. I,

pp. 146-147.

4. La scena conteneva l’iscrizione Titianus

Ferrariam ductus ab Alphonso I. ipsus

Ludouicique Ariosti intima usus familiaritate;

Ridolfi 1648 (ed. 1914-24), vol. I, p. 214.

Sull’attendibilità della testimonianza di

Ridolfi si veda Land 2004.

5. Checa 2013, p. 79.

6. Ridolfi 1648 (ed. 1914-24), vol. I, p. 162.

7. Shearman 1992, pp. 256-261.

8. Freedman 2001.

9. Tra gli altri vanno segnalati Fehl 1992, pp.

24-25, e Rosand 2004, pp. 35-44.

10. Questa e la citazione seguente sono tratte

da Dolce 1557 (ed. 1960), pp. 173, 196.

11. Barolsky 1998, p. 461.

12. Dolce 1557 (ed. 1960), p. 145. Roskill 2000, p. 225.

13. S. Arroyo Esteban in Dolce 2010, pp. 28-29.

14. Dolce 1557 (ed. 1960), p. 150.

15. Selig 1973, p. 310 nota 7.

16. Si tratta di una xilografia ricavata da un

disegno di Tiziano, come attesta una lettera

di Giovanni Maria Verdizzotti a Orazio

Ariosto del 27 febbraio 1588; Crowe e Cavalcaselle

1877-78, vol. I, p. 171. Per quanto

riguarda il ritratto, vedi Venezia 1976, pp.

193-194.

240 241



LA MUSA

COME AMANTE

ULRICH PFISTERER

In amore Ariosto è furioso quasi come Orlando. Già nella seconda ottava del poema, l’autore

paragona il folle amore di Orlando per Angelica ai propri sentimenti per l’amata, e invoca

quest’ultima come fonte d’ispirazione della sua opera: «Se da colei che tal quasi m’ha fatto, /

ch’el poco ingegno ad hor ad hor mi lima.» 1 Questa nuova forma di invocatio musae suscitò giudizi

contrastanti già nei contemporanei di Ariosto. Alcuni vi vollero vedere un richiamo al modello

virgiliano, del resto piuttosto comune per questo genere di testo, altri invece sottolinearono la

novità e la singolarità di questo appello, che racchiude in sé la confessione di sentimenti tanto

impetuosi. 2 In ogni caso si annuncia già nel proemio, e non solo in esso, una diversa concezione

dell’amore (cortese), amore che Ariosto innalza a uno dei temi centrali del poema stesso. 3 L’atto

creativo, la scrittura poetica trovano la loro principale motivazione in un desiderio amoroso di

natura mondana e sensuale. La musa astratta e quasi incorporea di Virgilio si trasforma in Ariosto

in un’amante vera, in grado di privare il poeta della sua capacità di raziocinio; né è significativo,

dal punto di vista dell’efficacia di questi versi, il fatto che il lettore sia a conoscenza della

relazione sentimentale che legava Ariosto ad Alessandra Benucci, o che piuttosto presti fede alla

dimensione finzionale del testo letterario. In verità, l’immagine di un’amante reale in veste di

musa esisteva fin dall’antichità e, per avvicinarsi al tempo di Ariosto basti pensare all’esempio di

Dante e Petrarca. Da questo punto di vista il gruppo dei “contemporanei” avrebbe potuto a sua

volta citare una tradizione consolidata e contestare così la presunta novità introdotta dai versi

della seconda ottava. Eppure, Ariosto attribuisce all’ispirazione amorosa una qualità nuova, una

forza che domina spirito e corpo oltre i limiti fino a quel momento consentiti.

È l’idea provocatoria di un’ispirazione di natura sensuale ed erotica che, negli anni intorno al 1500,

avvia una trasformazione dell’immagine delle muse, o meglio, che fa apparire la musa in veste di

amante e al contempo l’amante in veste di musa. Si tratta di un procedimento estetico che, in ultima

istanza, conduce a un obiettivo incerto: non è chiaro, infatti, se sia l’immagine personificata ad

essere “naturalizzata”, cioè resa presente e concreta, o se non sia invece la donna reale ad essere

elevata al rango di figura idealizzata. 4 Cercheremo quindi di delineare quel processo che, intorno

al 1500, vide da un lato la progressiva “incarnazione” delle muse e l’acquisto da parte loro di qualità

erotiche sempre più spiccate, dall’altro le donne reali comparire nel ruolo di muse. Esemplare di

questo contesto è la cosiddetta Fornarina di Raffaello.

Fig. 21

Raffaello Sanzio

La Fornarina, 1518-19

Olio su tavola, cm 87 x 63

Roma, Galleria Nazionale

d’Arte Antica.

Su concessione del

Ministero dei beni e delle

attività culturali e del

turismo

242



Nel 1503 Jacopo de’ Barbari firma e data un dipinto che rappresenta una donna seduta, vestita

con un abito dalla foggia antichizzante, la testa appoggiata sulla mano in una posa triste e malinconica;

dietro di lei, un vecchio sta per avvolgerla in un mantello, o forse glielo toglie dalle spalle

(Fig. 22). 5 Realizzati ancora a Norimberga, oppure già alla corte del principe elettore di Sassonia,

tutti i dipinti di Jacopo de’ Barbari di questo periodo sono da intendere come una sorta di

“autoritratto” con cui l’artista veneziano espone ai nuovi committenti il suo programma estetico.

Nel caso di questa tavola di piccolo formato, è essenziale rendersi conto che il soggetto rappresentato

non è semplicemente una coppia mal assortita. La giovane donna appoggia il braccio su

una sorta di cerchio o di sfera. Questo elemento a prima vista curioso rivela il suo significato se lo

si interpreta come “sphaíra”, vale a dire come attributo della musa, quale compare, ad esempio,

nelle raffigurazioni dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna. 6 Qui l’obiettivo del pittore non è solo

impressionare il pubblico tedesco attraverso soggetti iconografici antichizzanti. La vera provocazione

sta nelle sue allusioni ironiche: da un lato, la musa non appare felice per il suo trasferimento

nel freddo nord, quel trasferimento che gli umanisti tedeschi del tempo invocavano come

una translatio artium verso le Germanie. E ancora meno entusiasta appare il vecchio che le si

avvicina. La figura maschile potrebbe contenere un impertinente rimando a quello che era considerato

il massimo cultore della poesia d’amore in terra tedesca, l’ormai anziano Konrad Celtis,

che nel 1502 aveva pubblicato i suoi Amores. Pur senza entrare nel dettaglio, vogliamo citare l’elemento

decisivo a sostegno della nostra argomentazione: l’efficacia del dipinto di De’ Barbari si

basa sul fatto che, per l’osservatore, la distinzione tra personificazione astratta in veste antichizzante

e donna reale e sensuale (dal seno scoperto) tende a confondersi. Il letterato o erudito, ormai

anziano, si propone alla giovane donna anche come amante, ma il suo tentativo non può che concludersi

con una delusione. Il pittore gioca insomma con la doppia natura delle personificazioni

femminili, che ora il realismo della pittura rinascimentale poteva efficacemente mettere in luce.

Questa ambivalenza era già stata trattata più volte da Boccaccio in tono sarcastico. Si pensi a

Fig. 22

Jacopo de’ Barbari

Anziano poeta e musa, 1503

Olio su tavola,

cm 40,3 x 32,4

Philadelphia Museum

of Art, John G. Johnson

Collection, 1917

Fig. 23

Leonardo da Vinci

(copia da)

Profilo di giovane donna

con ghirlanda di edera,

c. 1490-1510

Incisione su carta,

mm 136 x 130

Londra, The British

Museum, Department of

Prints and Drawings

quando scrive, per esempio, che le muse nude possono ispirare, ma anche indurre al desiderio

della carne (Teseida 12, 84); che muse e donne appaiono senz’altro simili le une alle altre, ma

alle muse il poeta non ha dedicato un solo verso, alle donne invece migliaia (Decameron 4, 35);

che, seppur esistano tante cose buone femminili o personificate al femminile, rimane sempre tra

loro una differenza decisiva: «Tutte sono femmine, ma non pisciano» (Il Corbaccio). 7 Nei dipinti

dedicati alle muse e realizzati a Ferrara intorno agli anni 1455-60 per lo studiolo di Leonello

d’Este a Belfiore, è possibile osservare, forse per la prima volta, laccentuazione degli elementi

corporei, che a volte assumono addirittura una valenza erotica. 8 Ma se in queste opere la carnalità

delle muse è ancora poco più che unallusione, una delle calcografie della «ACH[ADEMI]

A LE[ONARDI] VI[NCI]», risalente alla fine del Quattrocento, presenta una giovane donna dal

seno scoperto che difficilmente può essere intesa altrimenti che come una figura erotica, a un

tempo ispiratrice e dea protettrice del circolo maschile degli artisti (Fig. 23). 9 Negli stessi anni,

in ogni caso prima del 1499, Tullio Lombardo si raffigura in un rilievo, sotto forma di autoritratto

idealizzato, accanto ad una musa con il seno scoperto (può davvero trattarsi della moglie, come

suggerito?). 10

Anche la concezione del rapporto di Petrarca con Laura sembra sottoposta, a partire dal 1500, a

una sorta di traslazione: da questo periodo cominciano ad apparire delle miniature in cui Laura

e il poeta sono rappresentati nudi e in foggia antichizzante; e anche le commedie del XVI secolo

alludono apertamente alla dimensione erotico-carnale della loro relazione. 11

Al contrario, almeno dal tardo Quattrocento si verificano situazioni in cui una donna reale

assume un ruolo analogo a quello di una musa. Si pensi per esempio all’orazione tenuta da Cassandra

Fedele all’Università di Padova nel 1487: nella xilografia che Dürer dedica all’episodio,

la celebre erudita si china dalla cattedra per deporre sulla testa di due congiunti, inginocchiati

davanti a lei, il cappello dottorale; la composizione della scena ricorda da vicino l’immagine delle

muse attorniate dai loro ammiratori maschi negli studioli di Urbino e di Gubbio. 12

244 245



Se a nord delle Alpi Jacopo de’ Barbari sperimenta forme nuove e osa un’immagine erotica e

sensuale delle muse, in Italia Giorgione – o il giovane Tiziano? – si cimenta in modo esplicito con

questo tema. È evidente, per esempio, che nella scena immaginaria illustrata dal Concerto campestre

del Louvre le due ninfe nude non sono visibili ai musicanti, perché appartengono a un diverso

ordine di realtà; eppure esse evocano nell’osservatore un ambiente naturale carico di erotismo, lo

stesso che ispira evidentemente le fantasie dei due giovani uomini nel dipinto.

Nello stesso contesto si inserisce, e a maggior ragione, il ritratto della giovane donna raffigurata

con un arbusto di alloro, dal quale ha tratto il nome con cui è comunemente noto, Laura. 13 Con

sguardo pacato, la giovane si scopre il seno, sotto il mantello rosso foderato di pelliccia. Non vi

sono altri attributi che facciano pensare a una tela realizzata per la celebrazione di un matrimonio

o che identifichino la figura. La chiave interpretativa più convincente appare quella di

valorizzare di nuovo la tensione tra donna concreta, erotico-carnale, e femminilità ideale, sulla

base del concetto di ispirazione petrarchesca: l’amata come musa o l’immagine desiderata di una

musa dalle qualità erotiche come stimolo estetico ed espressione della tensione spirituale di un

ricco erudito e letterato.

Il cosiddetto “ritratto della Fornarina” dipinto da Raffaello intorno al 1520 si inserisce appieno

in questo contesto (Fig. 21). 14 Il dipinto mostra una donna dal busto scoperto, sullo sfondo un

cespuglio di mirto e un ramo di cotogno. Fu probabilmente Leonardo a dare una dimensione

nuova, nella Roma del 1513-16, al tema del nudo femminile, con un dipinto che ritraeva l’amante

di Lorenzo de’ Medici (“Monna Vanna”). 15 Anche se l’originale è andato perduto, diverse copie

Fig. 24

Scuola di Leonardo

da Vinci

La Gioconda nuda detta

Monna Vanna, c. 1515

Gesso nero su carta,

mm 724 x 540

Chantilly, Musée Condé

Fig. 25

Jan Sander van Hemessen

Allegoria (Natura come la

balia dell’arte), c. 1550

Olio su tavola, cm 159 x 189

L’Aia, Mauritshuis, in

prestito a lungo termine

al Rijksmuseum di

Amsterdam

presunte e opere di analogo soggetto permettono di ricostruirne i tratti più importanti (Fig. 24).

Anche Raffaello si ispirò a questo dipinto, solo che la Fornarina è molto più di un semplice ritratto.

La tavola ha suscitato una ridda di ipotesi sull’identità della donna raffigurata; più aumenta il

divario temporale, più precise e dettagliate sembrano farsi le informazioni a supporto dell’una

o dell’altra tesi: amante di Raffaello, anonima cortigiana, fidanzata e sposa, dea Venere. È stato

accertato che le prime fonti scritte che identificano la donna ritratta come un’anonima amante

di Raffaello risalgono all’inizio del Seicento. Il nome “Fornarina” compare per la prima volta in

un’incisione del 1772, mentre si deve attendere il 1897 per identificare la modella con una donna

di nome Margherita Luti. 16 L’ipotesi che si tratti dell’amante del pittore sarebbe avvalorata, oltre

che dalla smodata passionalità attribuita da Vasari a Raffaello, anche dal bracciale che cinge il

braccio della donna e reca l’iscrizione «RAPHAEL VRBINAS». Con questo bracciale, Raffaello

non si limita a firmare l’opera e affermare le sue prerogative nei confronti della donna; il monile

simboleggia un legame amoroso simile a quello celebrato dal Cantico dei Cantici (8, 6): «Mettimi

come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio». Per quanto sia convincente l’interpretazione

del bracciale come pegno d’amore per l’amata, esso racchiude in sé un significato sovrapersonale.

Un ornamento simile si trova nelle statue classiche della dea Venere, a cui rimandano

anche la posa del braccio e, per certi aspetti, la forma del viso. In quest’ottica, la Fornarina è un

perfetto connubio tra donna reale e creatura idealizzata. Infine bisognerebbe riflettere in che

misura il braccialetto abbia qualità altrimenti attribuite a gioielli affini e al pegno d’amore per

eccellenza, l’anello. Già nel Medioevo era nota la leggenda secondo la quale una statua di Venere,

con l’aiuto di un anello magico, avrebbe soggiogato un giovane uomo. 17 Ariosto si serve di un

anello del diavolo per un greve scherzo misogino nella sua Satira V: il pittore Galasso desidera,

come ricompensa per aver dipinto il diavolo con belle fattezze, ricevere da quest’ultimo un mezzo

246 247



che gli permetta di controllare la fedeltà della moglie. In sogno il diavolo gli infila un anello al

dito. La morale del racconto si rivela al pittore al suo risveglio: «Lieto ch’omai la sua senza fatica /

potrà guardar, si sveglia il mastro, e truova / che ’l dito alla moglier ha ne la fica. / Questo annel

tenga in dito, e non lo muova / mai chi non vuol ricevere vergogna / da la sua donna.» 18

C’è un altro elemento decisivo del ritratto che non è stato finora preso in considerazione. Se la

posa del braccio rimanda a un gesto di pudicizia diffuso nell’antichità classica, l’intento di Raffaello

potrebbe essere un altro: la donna mostra il petto all’osservatore premendosi leggermente

il seno. 19 Questo gesto, per quanto discreto, fa innegabilmente riferimento a un motivo pittorico

sviluppato in modo particolarmente esplicito dalla bottega di Botticelli: in questo caso non solo

la musa si preme il seno, ma dal suo seno sgorga il latte ispiratore. Intorno alla metà del Cinquecento

il pittore fiammingo Jan Sander van Hemessen raffigura anche un poeta o cantore sul cui

strumento musicale cadono stille di latte dal seno di una musa (Fig. 25). La potenza del latte delle

muse è stata celebrata già dai poeti classici (Antologia Palatina 16, 217), secondo una tradizione

che lo stesso Dante riprende nel descrivere Omero (Purgatorio XXII, 11): «Che le Muse lattar più

ch’altro mai». Nel poema La Plainte du désiré di Jean Lemaire de Belges del 1504 (dato alle stampe

nel 1509), per la prima volta una personificazione dell’arte descrive alcuni pittori – Leonardo da

Vinci, Giovanni Bellini e Perugino – definendoli «mes beaux enfants nourris de ma mamelle». 20

E lo stesso Vasari, nel delineare le personalità antitetiche di Raffaello e Michelangelo, attribuisce

un’importanza decisiva al fatto che Raffaello fosse stato allattato dalla propria madre mentre

Michelangelo fosse stato affidato a una balia di Settignano, villaggio di scultori e scalpellini. 21

Lo sguardo insolitamente diretto della Fornarina richiama alla mente tutte queste riflessioni:

l’azione ispiratrice dello sguardo non si esplica all’interno dello spazio figurativo, la sua forza scaturisce

con immediatezza dal dipinto, suscitando una reazione nella persona che lo contempla.

È ormai impossibile stabilire con certezza chi fosse in origine il destinatario di questo sguardo.

Tuttavia il nuovo gruppo degli “amanti dell’arte” deve aver riconosciuto nella sensualità discinta

della donna ritratta da Raffaello una personificazione dell’amore per le opere d’arte, più volte

celebrato all’inizio del Cinquecento. 22 D’altro canto, l’insolita composizione e il bracciale con la

firma dell’Urbinate sostengono l’ipotesi che il principale destinatario fosse il pittore stesso. Alla

luce della crescente importanza attribuita alla pittura, innalzata al rango di arte libera e sorella

della poesia, l’intenzione di Raffaello potrebbe esser stata quella di rivendicare una musa a essa

dedicata. Questa ipotesi appare tanto più verosimile se si considera che proprio artisti a lui vicini,

intorno al 1520, dipinsero la prima personificazione della pittura. 23 In definitiva, tanto la raffigurazione

di un’amante in veste di musa quanto l’immagine idealizzata di una personificazione

a cui vengono conferite le attrattive di un’amante rispondono perfettamente ai tentativi, portati

avanti nella cerchia di Raffaello, di indagare il potenziale di un linguaggio figurativo erotico, se

non addirittura pornografico. 24 Sia che simboleggi la rivendicazione, da parte dell’urbinate, di

una musa dedicata alla sola pittura, oppure che sia, più genericamente, il ritratto di una musa-amante

in carne e ossa, La Fornarina si colloca nello stesso orizzonte rappresentativo nel quale

Ariosto apre il suo poema dichiarando il suo amore folle: «Se da colei che tal quasi m’ha fatto, /

ch’el poco ingegno ad hor ad hor mi lima».

1. Of A I, 2, 5-6.

2. Si veda il commento di Girolamo Ruscelli:

Ludovico Ariosto, L’Orlando furioso… Con le

Annotationi, gli Avvertimenti, & le Dichiarationi

di Ieronimo Ruscelli, Venezia 1568, p. 8

e seg.: «Questi due versi, detti di sopra, cio e,

Se da colei, & c. sono l’invocatione dell’Autore,

& non sta però così di piatto ò nascosta,

nè è cosi nuova ò insolita, come pare a

qualche bello spirto. Percioche per certo

assai chiara & aperta sta ella, & con molta

leggiadria ad imitation di Virgilio.»

3. Tema trattato recentemente in modo esauriente

in Steigerwald 2014, pp. 285-302.

4. Sul tema della figura femminile segnalo le

interessanti riflessioni metodologiche condotte

da Elizabeth Cropper (1995) e Lina

Bolzoni (2010).

5. Philadelphia Museum of Art; su questo

dipinto si vedano Ferrari 2006, p. 99 e

segg., cat. 12; Dal Pozzolo 2008, p. 51 e segg.;

Böckem 2012.

6. Questa interpretazione è presentata in

modo esauriente in Pfisterer 2014a, pp.

75-101.

7. Giovanni Boccaccio, Opere, vol. V, Bari

1940, pp. 217 e segg.; a questo proposito si

veda Foster Gittes 2008.

8. Campbell 1995.

9. Sulle incisioni di questo gruppo si veda

Bambach Cappel 1991.

10. Doppio ritratto, Venezia, Ca’ d’Oro, Galleria

Giorgio Franchetti, vedi Luchs 1989;

un’altra interpretazione è proposta in Kryza-Gersch

2007.

11. Trapp 2001; Philipps-Court 2010.

12. Schweinfurt 2002, pp. 70-72.

13. Vienna, Kunsthistorisches Museum;

Brouard 2012; Helke 1999. Per l’interpretazione

del dipinto come esempio della virtù

coniugale si veda Lüdemann 2008.

14. Per informazioni esaustive sul dipinto e

sullo stato attuale degli studi al riguardo si

rimanda a Mochi Onori 2002 e Meyer zur

Capellen 2008, pp. 144-149, cat. 78; si veda

inoltre Arasse 1990, pp. 13-24; Craven 1994.

15. Per una disamina completa sul ritratto di

Leonardo si rimanda a Brown e Oberhuber

1978.

16. Per le fonti si rimanda all’appendice in

Pfisterer 2012, pp. 62-83; vedi anche i più

recenti tentativi di identificazione in Ferrigno

2013.

17. Hinz 1989; per la tradizione classica si veda

Bettini 1992.

18. Ariosto 1954, pp. 548-560, vv. 298-328.

La figura del pittore potrebbe riferirsi a

Galasso Galassi da Ferrara. Questa Satira è

ispirata alla Facetia 133 di Poggio Bracciolini.

Ringrazio sentitamente Marco Collareta

per l’indicazione.

19. Si veda il frammento di un dipinto di Paris

Bordon più tardo e esplicito in New York e

Fort Worth 2008-09, pp. 323 e seg., cat. 149;

più in generale su questo tema si vedano

Bertelli 2002, pp. 65-112 e Sperling 2013.

20. Lemaire de Belges 1885 (ed. 1969), p. 162.

21. Vasari 1550 e 1568 ed. 1966-87, vol. IV, p. 156

e seg. e vol. VI, p. 5.

22. Sull’importante tematica dell’“amore per

l’arte” si veda Pfisterer 2014b.

23. Kliemann 1985, pp. 73-82; Pommier 2001;

Culatti 2007.

24. Talvacchia 1999.

248 249



«SICURO IN SU LE CARTE

VERRÒ, PIÙ CHE SU LEGNI,

VOLTEGGIANDO»

VLADIMIRO VALERIO

Un poema come l’Orlando furioso, che ha come teatro di rappresentazione scenica l’intero

globo terracqueo e la cui trama si sviluppa sovente con lunghe descrizioni di terre

percorse a gran velocità da vari eroi su un ippogrifo, non può che fondarsi su una conoscenza

quantomeno letteraria e figurata del mondo.

Il riconoscimento dei luoghi e le fonti geografiche dell’opera di Ariosto sono da sempre state un

terreno di studio e di confronto, che ha portato gli studiosi alle analisi dei più minuti particolari

delle lunghe descrizioni di luoghi e ha messo anche a dura prova le loro capacità interpretative

e le loro conoscenze storico-geografiche. 1 Terre dai nomi misteriosi, fantasiosi, trasposizioni

di nomi reali, o semplicemente uso di fonti ignote, rendono ancora oggi la lettura dei percorsi

geografici degli eroi del Furioso affascinante, non senza qualche vena di turbamento. 2

Si sa per certo che Ariosto avesse mappe geografiche dinanzi a sé, altrimenti alcuni percorsi,

per quanto frutto anche di invenzione poetica sarebbero stati difficilmente realizzabili in versi.

L’uso di carte da parte di autori di viaggi, fantasiosi o meno, è una tradizione che può dirsi consolidata

dal Medioevo in poi. E quando non si disponeva di carte cui affidarsi se ne inventavano

o disegnavano di apposite: si va dalla Utopia di Thomas More 3 alla Città del Sole di Campanella, 4

passando per l’inesistente isola di Frisland di Nicolò Zeno, 5 e giù per i secoli fino alle avventure

di Robinson Crusoe del 1719 e ai viaggi di Gulliver del 1726. 6 C’è poi chi ne ha fatto una cifra

del proprio linguaggio, come Joseph Conrad, che unisce viaggi realmente esperiti e mappe

realizzate sui luoghi. 7 Un variegato uso e abuso delle mappe per localizzare avvenimenti o per

rendere il racconto più veritiero o, al contrario, più fantastico e avvincente.

I poemi fatti di guerre, inseguimenti e conquiste, anche solo dell’anima, si prestano a questo

tipo di uso delle mappe e ciò vale tanto per la stesura, nella fase dell’invenzione narrativa,

quanto per la lettura critica, nella fase di ricostruzione dell’opera. Quanto la mappa o la descrizione

di un viaggio reale sia strutturale al racconto e faccia parte della costruzione stessa della

trama, realizzata attraverso apposite ricerche dell’autore, e quanto sia invece solo un elemento

aggiuntivo, posteriore o posticcio, è spesso difficile dire.

Anonimo portoghese

Charta del navicare

(detta del Cantino)

(part. di Tav. 54), 1501-02

Manoscritto a inchiostro

e tempera su pergamena,

mm 1050 x 2200

Modena, Biblioteca

Estense Universitaria. Su

concessione del Ministero

dei beni e delle attività

culturali e del turismo

250



Vi può essere un uso di mappe e descrizioni geografiche in letteratura, ma vi è anche un uso e

un condizionamento della letteratura nella descrizione dei luoghi. La visione dei luoghi è non

solo frutto dei sensi, poiché questi sono sempre sottoposti alla lente deformante della letteratura,

delle conoscenze del viaggiatore, o semplicemente delle sue aspettative. Una classica

invenzione nella letteratura di viaggio è il canto dell’usignolo che Cristoforo Colombo dice di

aver sentito nell’isola che egli battezza Hispaniola, e che descrive in una lettera del febbraio del

1493: «y cantava el ruiseñor y otros paxaricos» ma, è stato osservato, «l’usignolo di cui egli credette

di sentir risonare le foreste di Haiti non è mai esistito in quelle regioni», 8 il suo canto era

solo il frutto di una sua trasposizione letteraria, di quanto la sua cultura gli imponeva di vedere

e di sentire in quei luoghi, geograficamente prossimi al paradiso terrestre. 9

Insomma, il rapporto tra descrizione autoptica dei luoghi e versione letteraria è sempre complesso

e in qualche modo finto.

Nel caso di Ludovico Ariosto, egli stesso non fa mistero dell’utilizzo di mappe per «volteggiar»

i mari del mondo e ci mette sull’avviso della sua propensione all’uso di mappe e della sua dimestichezza

con esse (Fig. 26). Nella terza Satira, 10 dedicata a suo cugino Annibale Malagucio,

descrivendo la sua predisposizione verso i piccoli piaceri domestici («meglio una rapa / ch’io

cuoca [...] che all’altrui mensa tordo, starna o porco / selvaggio»), accenna ai vari appetiti degli

uomini ai quali «a chi piace la chierca, a chi la spada, / a chi la patria a chi li strani liti», mentre,

conclude, «a me piace abitar la mia contrada».

Questo non vuol dire disinteresse per la conoscenza geografica dei luoghi, quanto piuttosto la

Fig. 26

Mappamondo di Johannes

Ruysch, 1507

Incisione su rame,

mm 405 x 535

Collezione privata

Fig. 27

Claudio Tolomeo

Cosmographia, tavola

decima dell’Asia

Bologna, Domenico de’

Lapi, [1477]

Modena, Biblioteca

Estense Universitaria.

Su concessione del

Ministero dei beni e delle

attività culturali e del

turismo

proposizione di una sua personale “via” al viaggio, da letterato cui piace più «di posar le poltre /

membra, che di vantarle che alli Sciti / sien state, agli Indi, a li Etiopi, et oltre».

Dichiara di aver visto «Toscana, Lombardia, Romagna, / quel monte che divide e quel che serra /

Italia, e un mare e l’altro che la bagna». E ciò gli è sufficiente perché, se volesse visitare altri

luoghi «il resto della terra, / [...], andrò cercando / con Ptolomeo», e tutto questo lo potrà fare

«senza mai pagar l’oste» e «sia il mondo in pace o in guerra». Potrà anche viaggiare sul mare

perché «sicuro in su le carte / verrò, più che sui legni, volteggiando», e senza dover raccomandar

l’anima a dio.

La frase sembra riprendere un topos letterario caro alla cultura antica, di guardar da terra, in

tutta sicurezza, la furia del mare. Famosi i versi di Lucrezio, nell’incipit del secondo libro del De

Rerum Natura, allorché l’autore osserva come sia dolce «mentre nel grande mare i venti sconvolgono

le acque, guardare dalla terra la grande fatica di un altro; non perché il tormento di qualcuno

sia un giocondo piacere, ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.» 11

Versi dai quali Ariosto sembra trarre una trasposizione autobiografica, caratteriale, direi.

Egli propone insomma dei viaggi sicuri, da studioso amante del proprio scrittoio. 12

Le date definite dall’abbozzo del poema, tra il 1504 e il 1507, e la stesura pronta per la prima

edizione dell’opera nel 1516, pongono dei limiti temporali molto precisi alle possibili fonti grafiche

di Ariosto. Inoltre la citazione di Tolomeo nella Satira III, realizzata nel 1518, ci conferma

l’uso di un’edizione della Geografia realizzata ben prima di quella data e certamente utilizzata

per la prima redazione dell’Orlando furioso. 13 Volendo restringere l’ambito alle sole opere a

252 253



stampa (i manoscritti risultavano anche di grande formato e poco maneggevoli), al 1504 risultano

pubblicate in Italia quattro edizioni della Geografia di Tolomeo: una a Vicenza, nel 1472,

ma priva di mappe, una a Bologna nel 1477 (Fig. 27), una a Roma nel 1480 e un’altra a Firenze,

nel 1482, ma in versi e con testo completamente rivisto, e di ardua lettura.

Le ultime tre edizioni erano corredate di immagini cartografiche con nomi di città, regioni,

monti, fiumi e popoli, a costituire una fonte di ineguagliabile stimolo di enorme impatto visivo.

È probabile che Ariosto avesse a disposizione una copia dell’edizione bolognese (vedi Tav. 55)

realizzata da personaggi vicini alla corte Estense, quali il miniaturista Taddeo Crivelli, incaricato

della realizzazione delle mappe.

Altre mappe che potessero stimolare la fantasia ed essere usate per la ricerca di nomi e di luoghi

ve ne erano alla corte ferrarese, e tra queste certamente si impone, per importanza documentaria

e per bellezza, la cosiddetta carta del Cantino (Tav. 54), realizzata a Lisbona nel 1502,

ove per la prima volta compaiono le terre del nuovo mondo. Almeno un verso del poema, nel

canto quindicesimo, dove si esprime la profezia di Andronica, potrebbe rimandare a questa

carta: «Veggio la santa croce, e veggio i segni / imperial nel verde lito eretti.» 14 Sulla carta del

Cantino compaiono i vessilli di Castiglia sulle terre recentemente scoperte in occidente e risultano

colorate di un intenso verde. 15 1. Accenni alla realtà geografica dell’Orlando

furioso sono già nel quasi contemporaneo

Fornari 1549, mentre il primo studio

sugli aspetti geografici e cartografici veri

e propri è in Bolza 1866. Da ultimo si veda

Doroszlaï 1998 con ampia bibliografia.

2. Ulteriori precisazioni e indagini suoi luoghi

geografici sono in Rajna 1900, Vernero 1913,

Milanesi 1978, Rossi 2006 e, da ultimo ma

non di minore interesse, Furlan 2011.

3. L’Utopia vide la luce nel 1516, stesso anno

dell’Orlando furioso.

4. Pubblicata nel 1602, non fu corredata di

alcuna mappa, ma la descrizione accurata la

rende perfettamente riproducibile.

5. Un’isola di questo nome compare per la

prima volta nella Carta da navegar de Nicolo

et Antonio Zeni, pubblicata a Venezia da un

discendente dei due fratelli, Nicolò Zeno,

nel 1558 e riprodotta in un singolo foglio,

dal titolo “Frisland”, nella bottega di Antonio

Lafreri a Roma intorno al 1570.

6. Entrambe le opere furono corredate di

mappe: “Pictorial map of Robinson Crusoe’s

island”, nell’edizione del 1720, mentre

5 mappe comparvero già nella prima

edizione dei Travels into Several Remote

Nations of the World.

7. «Carte reali, ma anche immaginarie, opere

di cartografi oppure da lui stesso disegnate

nel corso del suo viaggiare [...] Disegnare un

percorso per poterlo poi raccontare, e, viceversa,

raccontare a partire da ciò che si è già

in precedenza visto e disegnato», si veda

Saracino 2006, p. 166.

8. Olschki 1937, p. 19.

9. Su questo si vedano le straordinarie pagine

di Olschki 1937, pp. 11-21.

10. I passi di seguito riportati sono tutti relativi

alla Satira III, 43-66 (Ariosto 1954, p. 526).

11. «Suave, mari magno turbantibus aequora

ventis / e terra magnum alterius spectare

laborem; / non quia vexari quemquamst

iucunda voluptas, / sed quibus ipse malis

careas quia cernere suavest», Lucrezio, II

1-4.

12. Sul tema del viaggiatore da studiolo si veda

anche Greppi 1984.

13. Per la presenza nell’Orlando furioso della

Geografia di Tolomeo e delle carte ad essa

allegate, si rimanda al dovizioso Doroszlaï

1998.

14. Of XV, 23. Si tratta di aggiunte che compaiono

solo nella terza redazione del 1532 ma

la citazione sembra oltremodo pertinente

con la carta del Cantino presente alla corte

Estense già dal 1502.

15. L’osservazione di Luciano Serra è citata in

Doroszlaï 1998, pp. 58-59.

254 255



IL FURIOSO E L’ARTE

DELLA BATTAGLIA:

ARIOSTO IMMAGINA

LA GUERRA

FRANCESCA BORGO

Ma ritornando ove aspettar mi denno

quei che la sala hanno a veder dipinta,

dico ch’a uno scudier fu fatto cenno,

ch’accese i torchi; onde la notte, vinta

dal gran splendor, si dileguò d’intorno;

né più vi si vedria, se fosse giorno.

Quel signor disse lor: - Vo’ che sappiate,

che de le guerre che son qui ritratte,

fin al dì d’oggi poche ne son state;

e son prima dipinte, che sian fatte.

Chi l’ha dipinte, ancora l’ha indovinate.

Quando vittoria avran, quando disfatte

in Italia saran le genti nostre,

potrete qui veder come si mostre.

Orlando furioso, XXXIII, 5-6

Dopo cena, alla luce delle fiaccole – i «torchi» dei versi citati qui in epigrafe – gli ospiti della

Rocca di Tristano osservano, affrescati sulle pareti del castello, mille anni di guerre e

invasioni della penisola. Guidati nella visita dalle parole del signore della Rocca, incantati

dalla terribile bellezza e dalla varietà delle storie, gli invitati non riescono a separarsi dalle

immagini: «Tornano a rivederle due e tre volte, / né par che se ne sappiano partire; / e rilegon più

volte quel ch’in oro / si vedea scritto sotto il bel lavoro» (XXXIII, 58).

Il ciclo di battaglie della Rocca di Tristano sostituisce, nella versione finale del poema, quello che

Ariosto aveva in precedenza immaginato effigiato sullo scudo dorato che Ullania, messaggera

della regina d’Islanda, porta con sé come dono per Carlo: l’unico superstite di dodici scudi fabbricati

dalla Sibilla Cumana che illustravano le future guerre d’Italia. Abbandonata l’idea, nell’edizione

del 1532, lo scudo di Ullania diventa muto: le battaglie che Ariosto aveva immaginato

lavorate a sbalzo e smalti, sono ora dipinte a fresco sulle pareti di un castello. 1

Il salto non è solo, come è stato notato, da un topos antico – l’ecfrasi virgiliana dello scudo di

Enea – a un precedente quattrocentesco – quello della loggia di Febosilla nell’Innamorato –, ma

segna anche lo scarto tra un modello squisitamente letterario e uno invece profondamente radicato

nella cultura figurativa contemporanea. Nel descrivere una serie di battaglie eseguite ad

Fig. 28

Leonardo da Vinci

(copia da)

La battaglia di Anghiari

(part.), ante 1563

Olio su tavola, cm 86 x 144

Firenze, Museo di Palazzo

Vecchio

256



l’incarico di dipingere due scene guerresche per il ciclo del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale,

mentre le battaglie di Palazzo Vecchio a Firenze – dipinte nell’altra grande sala consiliare dell’Italia

cinquecentesca – erano affidate nei primi anni del secolo successivo a Leonardo e Michelangelo.

7 Durante i frequenti e prolungati soggiorni a Firenze del 1512-16, Ariosto avrebbe potuto

facilmente osservare quello che ancora rimaneva visibile, nella sala, della Battaglia di Anghiari di

Leonardo (Fig. 28). 8 Come è stato dimostrato di recente, i rapporti tra l’artista e Ippolito d’Este,

al cui servizio in questi anni era Ariosto, erano andati intensificandosi verso il 1506-07, mentre

Leonardo era impegnato a gestire le pretese che la Signoria ancora avanzava sul completamento

dell’opera. 9 È importante poi tenere conto delle frequentazioni fiorentine di Ariosto con Giovanni

e Niccolò Vespucci: oltre ad apparire nelle Vite vasariane come committenti e promotori

di artisti importanti, i due cugini sono vicini ad Agostino Vespucci, estensore di una lettera che

Leonardo invia a Ippolito nel 1507 e autore di un riassunto sullo svolgimento dello scontro di

Anghiari che ancora si conserva nel Codice Atlantico, tra le carte di Leonardo. 10

Ospite prima di Niccolò Vespucci e poi, nel marzo del 1513, di Giuliano de’ Medici, Ariosto avrebbe

anche potuto vedere, nel Palazzo in Via Larga, le tre grandi tavole della Battaglia di San Romano

di Paolo Uccello, qui ricollocate poco dopo il 1512 (Fig. 29). 11 Un confronto tra queste incruente

battaglie senza pathos né sangue, immerse in un’atmosfera da giostra, e la drammatica intensità

di espressioni e pose dell’annodato gruppo leonardesco – grande incunabolo della nuova pittura

di battaglia su scala monumentale – avrebbe inevitabilmente fatto risaltare il potenziale espressivo

a cui i pittori moderni (quelli ricordati nel canto XXXIII del Furioso del ’32) sapranno spingere

il genere figurativo.

affresco, disposte in ordine cronologico e corredate da iscrizioni, Ariosto difficilmente avrebbe

potuto non pensare ai cicli di gesta che sempre più frequentemente, come consigliava Leon Battista

Alberti, decoravano le pareti dei palazzi pubblici e le case dei cittadini illustri. 2

Per analizzare l’immaginario bellico del Furioso, all’annosa questione de «l’Ariosto soldato» 3 –

il tentativo cioè di determinare quanto l’esperienza più o meno diretta dei campi di battaglia

contemporanei pesi rispetto alla tradizione letteraria del genere – sarà quindi da affiancare una

domanda diversa, che ha a che fare con la battaglia sub specie imaginis: bisognerà cioè indagare

lo statuto della scena guerresca come soggetto artistico assiduamente riproposto in tecniche

diverse e sui supporti più vari. Ma anche, nella teoria artistica coeva, come genere figurativo

privilegiato per misurare le possibilità proprie del mezzo pittorico, spesso in un paragone serrato

con la poesia e con un particolare riguardo alle battaglie antiche, descritte già da Plinio come

soggetti particolarmente impegnativi, e quindi adatti a testare la grandezza di un artista. 4

2. Tra le pugnaci signorie dell’Italia settentrionale l’affermazione del potere si accompagna

spesso, in questo periodo, alla celebrazione di vittoriose imprese belliche: nel palazzo di Gonzaga,

fuori Mantova, Francesco II commissiona nel 1495-96 una «sala delle victorie», che doveva

comprendere un ciclo di affreschi con i fatti d’arme del suo avo, Ludovico II. Le imprese militari

di Francesco erano invece rappresentate nel palazzo di San Sebastiano, dove si conservava anche

un secondo ciclo di fasti gonzagheschi, che andrà poi a includere La cacciata dei Bonacolsi di

Domenico Morone (Mantova, Palazzo Ducale) e una perduta Battaglia di Fornovo di Francesco

Bonsignori. 5 In questi stessi anni a Milano, per le doppie nozze Este-Sforza del 1491, quelle di

Ludovico con Beatrice e di Alfonso con Anna, le pareti del castello di Porta Giovia sono ricoperte

da tele dipinte con «tutte le victorie et gesti memorabili» di Francesco Sforza. Un ciclo di battaglie

era già nel palazzo milanese del condottiero Francesco Bussone, conte di Carmagnola, mentre

nella residenza padovana di un altro capitano di ventura, il Gattamelata, il giovane Mantegna

aveva lasciato delle storie ad affresco con le imprese militari svolte a servizio della Serenissima. 6

Proprio a Venezia, alla fine del Quattrocento, Giovanni Bellini e Pietro Perugino ricevevano

Fig. 29

Paolo Uccello

La battaglia di San

Romano, c. 1435-41

Tempera su tavola,

cm 181 x 322

Firenze, Galleria degli

Uffizi. Su concessione del

Ministero dei beni e delle

attività culturali e del

turismo

3. Le scene di battaglia di questo periodo non compaiono però solo in cicli monumentali a soggetto

storico. Temi bellici – classici, cavallereschi, biblici e contemporanei – si dispiegano abitualmente

anche sulle fronti dei cassoni dipinti, soprattutto a partire dalla seconda metà del

Quattrocento, quando la committenza dei forzieri nuziali passa a essere competenza del marito,

imprimendo una svolta “marziale” nella scelta dei soggetti rappresentati. 12 In queste battaglie i

soldati vestono elaborati cimieri da giostra e colorati abiti quattrocenteschi, mentre le sfavillanti

armature sono rese con uso estensivo di lamine metalliche e rifiniture rilevate in pastiglia. 13 Pur

nelle varietà locali, il racconto di queste guerre si arricchisce d’infiniti particolari, con lance che

si spezzano e meticolose descrizioni di ferite che danno alla narrazione un andamento divagante

e impigliano lo sguardo invitando a una visione lenta e ravvicinata.

Anche le scene di battaglia intessute su arazzo offrono continue notazioni macabre e di costume;

le «coltrine» che la corte estense importa dalle Fiandre – interi cicli sfarzosamente intessuti,

istoriati con le gesta di eroi dell’antichità o del ciclo carolingio – compaiono con frequenza negli

inventari di corte. Qui si trovano elencate una «coltrina de razo morelo a figure et a bataie chiamada

del re Pepin», quasi sicuramente una battaglia combattuta dal padre di Carlo Magno, e

un’altra «lauorada a figure combatente», collegabile alla voga franco-fiamminga per gremite

scene di battaglia che prende piede nella seconda metà del Quattrocento, 14 come si osserva in un

frammento di arazzo con la Battaglia di Roncisvalle (Tav. 4), parte di un ciclo di gesta di Carlo

Magno tessuto a Tournai nell’ultimo quarto del quindicesimo secolo. L’arazzo offre un tipo di

esperienza visiva che Ariosto descrive spesso nel Furioso: quella di scontri tra soldati in cui il

campo – di battaglia, ma anche quello pittorico – è talmente stipato di figure in lotta da non

lasciare nemmeno intravedere il terreno sottostante. Sono le iscrizioni ad assistere lo sguardo

nel caos della mischia, guidandolo verso i protagonisti: sulla destra, Rolando – alla sua ultima

battaglia, già ferito, con il sangue che gocciola da sotto l’elmo – cala la lama dell’enorme spada

Durlindana sulla testa del re Marsilio, dividendolo in due e liberando un fiotto rossastro. Poco

distante, la «rubiconda riga» che il sangue disegna sull’armatura lucida dei cavalieri (come nel

Furioso: XXIV, 65; XXX, 63; XLVI, 121) si riassorbe nella circostante opulenza dei colori, mentre

la foresta di picche ed elmi dello sfondo suggerisce l’estensione degli eserciti.

258 259



In un dialogo composto e ambientato presso la corte ferrarese, il De politia litteraria di Angelo

Decembrio (c. 1460), lo sfoggio di ornamenti e colori tipico degli arazzi nordici è criticato per

bocca di Leonello d’Este, che dice di preferire a queste «ineptiae» importate dalla Gallia oltremontana

la rappresentazione all’antica di corpi nudi e ben proporzionati. 15 Nel giudizio del marchese

si avverte già chiaramente il gusto per quelle battaglie di nudi realizzate in diretto confronto

con l’antico, spesso al di là di una precisa intenzione iconografica: dall’incisione (Tav. 9) e

dal perduto rilievo bronzeo di Antonio del Pollaiolo, alla Battaglia di Bertoldo di Giovanni – ricostruzione

filologica di un lacunoso sarcofago antico (Tav. 8) – alla Centauromachia di Michelangelo

(Firenze, Casa Buonarroti), fino alle due scene di combattimento di Vittore Camelio (Venezia,

Ca’ d’Oro). Questi nudi sofisticati, anatomicamente inappuntabili e nutriti di modelli antichi,

incarnano un nuovo ideale figurativo: spogli di ogni inezia e ornamento, sono impreziositi solo

dall’invenzione e dalla bravura esibite dai loro artefici.

4. Nelle dimore estensi non c’è traccia di cicli pittorici di imprese militari tratte da episodi di

storia recente, ma non mancano rappresentazioni di battaglie antiche, cortesi e classiche, purtroppo

tutte perdute. Poco si sa, oltre al nome, delle due sale «de’ paladini» – una a Fossadalbero

e una nel palazzo di corte a Ferrara – citate nei documenti della seconda metà del Quattrocento. 16

Nel dialogo di Decembrio c’è poi un accenno a un ciclo di storie di Scipione e Annibale, in cui si

è voluto leggere un riferimento agli affreschi che, secondo Giorgio Vasari, Piero della Francesca

avrebbe dipinto durante il suo soggiorno in città, nel 1446-48. 17 La tradizionale identificazione di

due dipinti oggi a Londra e Baltimora (Figg. 30-31) come presunte copie delle perdute battaglie

ferraresi di Piero è però ipotesi da rivedere, considerata l’indiscutibile presenza di modelli cinquecenteschi:

non è stato ad esempio notato che il cavaliere di destra nel gruppo in primo piano

del dipinto di Baltimora è un indiscutibile conio leonardesco dalla Battaglia di Anghiari (Fig. 28),

da cui, oltre alla posa del guerriero di destra, riprende persino le pieghe sul collo del cavallo

e l’assenza di finimenti. È possibile poi rintracciare anche la persistenza di alcune formule

Fig. 30

Artista ferrarese (?)

Scena di battaglia, 1530-40

Olio su tavola,

cm 71,1 x 94,6

Londra, The National

Gallery

Fig. 31

Artista ferrarese (?)

Scena di battaglia, c. 1540

Olio su tavola,

cm 85,2 x 72,6

Baltimora, The Walters

Art Museum

arcaizzanti, tipiche delle battaglie quattrocentesche: il gusto decorativo, quasi da orefice, nella

resa minuziosa dei cimieri che innalzano dragoni, ali di cigno e pantere; l’indugiare in dettagli

sanguinolenti, terribili nella loro precisione, ma sempre circoscritti; gli scorci arditi e spesso

incongrui dei corpi caduti; le armi rotte o perdute; l’affastellarsi delle figure in un cumulo dalla

cui sommità spuntano elmi, braccia che impugnano spade, stendardi astati.

La stessa percezione di un groviglio di figure si ritrova in un passo sul paragone tra poesia e

pittura del De politia litteraria, in cui Decembrio accenna proprio alla corretta rappresentazione

della figura umana in scene di guerra, dove – scrive – i corpi dei soldati devono essere raffigurati

sovrapposti e intrecciati tra loro, e non pedestremente ritratti sempre nella loro interezza. 18 Non

si usa notare che l’idea è tratta da Filostrato, impegnato a descrivere come, in un dipinto dell’assedio

di Tebe, il pittore abbia giustamente mostrato alcune figure solo parzialmente, per far sì

che gli occhi dello spettatore fossero ingannati dall’illusione di profondità, e invitati a esplorare

la battaglia partecipando, con il loro movimento, al movimento dell’azione rappresentata: anche

questi soldati sono quindi visibili «per metà, di altri si vede solo il petto, di altri ancora si vedono

gli elmi o la punta delle lance». 19

Questa complessità compositiva, tipica delle scene di guerra, che richiedono al lettore-spettatore

di ripercorrere con lo sguardo l’intreccio confuso della lotta, è un tema ricorrente nella tradizione

epica, in cui la battaglia è tradizionalmente un luogo privilegiato per saggiare la forza espressiva

del racconto, ma anche un esercizio sulla pluralità caotica dei movimenti, sulla difficoltà di conciliare

azione di massa e innumerevoli singoli exploit. 20 Il problema diventa ancora più pressante

in ambito artistico, dove più centri d’azione devono convivere in uno spazio unificato: da tempo

Alberti aveva messo in guardia i pittori contro il rischio di riempire la composizione di troppe

260 261



figure, «nulla lassando vacuo», disseminando un senso di confusione, proprio come nell’arazzo

di Roncisvalle. In un trattato del 1504 dedicato a Ercole d’Este, Pomponio Gaurico consigliava

quindi, per rappresentare affollate scene di guerra, di abbandonare una visione frontale e adottare

invece un punto di vista elevato, evitando così che l’occhio si smarrisca nel numero eccessivo

di dettagli. 21 Questa vista dall’alto – in tutto simile alla teichoscopia, lo sguardo sul campo di battaglia

tipico dell’epos, in cui gli spettatori osservano lo scontro dall’alto delle mura – si affermerà

presto sulle composizioni a fregio orizzontale delle battaglie quattrocentesche di Piero della

Francesca e Paolo Uccello, per culminare poi nelle proiezioni topografiche dei paesaggi militari

seicenteschi. 22 È la forza di questa nuova immagine di guerra, in grado di “squadernare” l’intera

materia guerresca nell’icasticità di un’unica, panoramica visione, che per Leonardo sancisce la

superiorità della pittura sulla poesia, a cui quest’ultima altro non potrebbe opporre se non un

tedioso elenco di gesta. 23

5. Dipinta sui cassoni o sulle pareti delle sale d’onore, cucita sugli arazzi, fusa in bronzo, modellata

su piccoli cofanetti in pastiglia profumata, scolpita, miniata, stampata nelle illustrazioni dei

cantari e dei poemetti bellici in ottava rima: 24 la battaglia era ovunque. La rappresentazione di

scontri tra cavalieri, battaglie campali, assedi e duelli godeva di un’altissima pervasività nella

cultura visiva del tempo, e costitutiva già, alla fine del Quattrocento, un genere a sé stante, definito

e codificato, come testimonia anche un commento di Lorenzo de’ Medici che elenca «battaglie

o terrestri o marittime e simili cose marziali e fere» in una lista di possibili soggetti figurativi.

25 Questo immaginario guerresco, modellato da necessità celebrative e propagandistiche, da

requisiti stilistici e formali, era lontano dalla realtà dei campi di battaglia, che rimanevano spesso

oltre l’esperienza diretta della popolazione urbana, mediati dai resti abbandonati sul terreno –

come a Ravenna, le cui montagne di cadaveri sono in molti, come Ariosto, ad andare a vedere – o

dal ritorno trionfale dell’esercito in città con le spoglie dei nemici vinti, come a Ferrara dopo la

vittoria della Polesella. 26

È difficile immaginare che la ricerca ariostesca sulla tecnica narrativa delle scene guerresche

andasse elaborandosi in un contesto totalmente svincolato da quella, parallela, delle arti figurative.

Del resto sono già gli interpreti cinquecenteschi del Furioso che tessono le lodi di “Ariosto

pittore” a insistere sulle scene di guerra come sommo esempio della capacità del poeta di seguire

un importante precetto della retorica antica: quello di mettere la materia narrata davanti agli

occhi del lettore, come in un dipinto, e quindi anche – indirettamente – a paragone con la pittura

di battaglia contemporanea. 27 Pochi anni ancora e il confronto diventerà addirittura esplicito,

come si legge ne Il Figino (1591) di Gregorio Comanini, poeta presso la corte dei Gonzaga, che

propone di contrapporre una tela con il duello fra Rinaldo e Sacripante all’ottava ariostesca che

descrive il combattimento fra i due (II, 9). 28

Avvicinare due filoni di ricerca tradizionalmente separati, quello sull’immaginario bellico del

Furioso e quello su Ariosto e le arti visive, permetterà dunque di rilevare la fortuna, figurativa

e verbale, di determinati motivi. La particolare «densità formulaica» 29 delle scene di battaglia

del Quattrocento – l’attingere costante a un repertorio di modelli ricorrenti, accostati paratatticamente

in narrazioni a fregio – si presta facilmente a un confronto con la rappresentazione,

altrettanto schematica e convenzionale, della gestualità guerresca nell’epos cavalleresco. Nel

caso del duello corpo a corpo tra Mandricardo e Orlando, ad esempio, il rimando a Ercole che

stringe al petto Anteo soffocandolo (XXXIII, 85) è esplicitato dallo stesso poeta: non è si tenuto

conto di quanto il soggetto goda in questi stessi anni di una straordinaria fortuna in campo figurativo,

dove i nudi abbracciati nella lotta offrono l’opportunità di esibire conoscenze anatomiche

e antiquarie, come nella tavoletta (Firenze, Uffizi) e nel bronzetto (Firenze, Bargello) di Antonio

del Pollaiolo, nel gruppo dell’Antico per Isabella D’Este (Fig. 32), e in numerose incisioni mantegnesche

di larga diffusione (Fig. 33). 30 Il “tagliatore di teste” che afferra l’avversario per i capelli

prima del colpo di grazia è un’altra citazione antica (nella Colonna Traiana e in diversi sarcofagi

Fig. 32

Pier Jacopo Alari Bonacolsi

detto l’Antico

Ercole e Anteo, 1511-19

Bronzo, altezza cm 43,5

Vienna, Kunsthistorisches

Museum

Fig. 33

Scuola di Andrea Mantegna

Ercole e Anteo, c. 1450-1500

Incisione a stampa su

carta, mm 340 x 234

Londra, Victoria and Albert

Museum

classici, Tav. 7) che riappare in innumerevoli battaglie quattrocentesche (nel rilievo di Bertoldo,

Tav. 8, in Piero della Francesca ad Arezzo, nel rilievo e nell’incisione di Pollaiolo, Tav. 9, in Leonardo,

Fig. 28), ed è utilizzata anche da Ariosto tra le varie “tecniche di presa” dei paladini in

combattimento, 31 assieme al soldato con la gola forata dalla punta di una lama, 32 alle teste tagliate

di netto che rotolano a terra, 33 alle spade che tingono di vermiglio il nemico, 34 al verde del terreno

che si colora di rosso: 35 tutte formule guerresche tipiche delle scene di lotta contemporanee, che

si ritrovano ad esempio elencate in una tela dei primi del Cinquecento, opera di un artista dell’Italia

settentrionale (Fig. 34). 36

Oltre alla compresenza di certe Pathosformeln, è però anche nella scelta della tecnica compositiva

che il nesso con la battaglia dipinta diventa importante. Come proponeva cautamente Marco Praloran,

la raffinata e consapevole sperimentazione ariostesca sullo spazio e il tempo della narrazione

di guerra sembra rispondere agli scritti di Leonardo sul primato delle arti, in cui linguaggio

visivo e verbale vengono testati proprio sulla rappresentazione di una scena di battaglia. La sfida

compositiva è sempre la stessa: rappresentare una moltitudine di azioni simultanee una dopo

l’altra (in poesia), o una accanto all’altra (in pittura). 37 Tuttavia queste riflessioni, come si è visto,

non sono limitate a Leonardo (con cui non è peraltro da escludersi Ariosto abbia avuto uno scambio),

38 ma elaborate piuttosto in un clima comune, che risente del prestigio del tema guerresco

nelle fonti antiche, delle recenti conquiste dei pittori moderni (le battaglie di Leonardo e Michelangelo

a Palazzo Vecchio), e di una diffusa riflessione teorica (ad esempio in Decembrio, Alberti,

Gaurico) sul modo di figurare una battaglia, un tema che diventerà ricorrente nella trattatistica

d’arte del secondo Cinquecento.

262 263



sulla rappresentabilità stessa di un evento – per definizione – impossibile da rappresentare, come

già disperava Omero nell’Iliade («è ben difficile che come un dio tutto questo io possa narrare»)

e come ripete anche Ariosto («non fu, Signor, di sorte, non fu in guisa / ch’imaginar, non che

descriver possa», XXVII, 31), utilizzando un paradosso retorico che fa del silenzio la più efficace

espressione dell’orrore del combattimento. 40 Questa radicale inintelligibilità della guerra è un

motivo che la successiva tradizione letteraria e artistica varierà di continuo: la vera battaglia – in

immagini – resterà invisibile, inenerrabile in versi.

6. Visibilità e temporalità della scena di lotta erano del resto due nodi affrontati proprio da Leonardo

in alcuni appunti intitolati Modo di figurare una battaglia (c. 1492, Ms. A, ff. 111r-110v, ),

poi confluiti nella seconda parte del Libro di pittura. 39 Come dichiara il titolo, il testo fornisce

una serie di precetti utili alla raffigurazione di una scena di guerra, aprendosi però, inaspettatamente,

con una immagine inusuale, del tutto assente nella tradizione figurativa precedente:

quella di un campo di battaglia avvolto nella polvere e nel fumo delle artiglierie. L’esperienza

visiva della battaglia è quindi necessariamente difettiva: da facoltà rivelatrice, quale è spesso

in Leonardo, la vista diventa qui fonte di paura, dubbio e incertezza. Il testo evidenzia i limiti

dell’occhio, incapace di distinguere con chiarezza lo svolgersi dell’azione; l’insistenza sui valori

soggettivi della percezione è tematizzata dalle azioni dei soldati, che sono descritti mentre si

ripuliscono gli occhi («nettandosi co’ le due mani gli occhi e le guance ricoperti di fango fatti

dal lacrimare degli occhi per causa della polvere»), li schermano dal sole («co’ le ciglia aguzze

facendo a quelle ombra co’ le mani»), o li proteggono con la mano per non vedere la fine avvicinarsi

(«l’una delle mani faccia scudo ai paurosi occhi, voltando il di dentro verso l’inimico»).

Nell’unico disegno leonardesco che mostra un campo di battaglia nella sua interezza (Tav. 11) lo

scontro è ugualmente invisibile e non figurabile: tutto è ricoperto da un velo di polvere e fumo

in cui si distingue a fatica un numero indefinibile di figure. L’esperienza visiva che se ne ricava

è sfuggente e allusiva, e corrisponde all’effetto che nei suoi appunti Leonardo raccomandava al

pittore di ricercare: «Farai in prima il fumo dell’artiglieria mischiato infra l’aria insieme con la

polvere mossa dal movimento de’ cavalli e de’ combattitori […]. I combattitori, quanto più fieno

infra detta turbolenza, meno si vedranno […]. L’aria sia piena di saettume di diverse ragioni […]».

Il nesso con il Furioso qui non è solo nella compresenza di un motivo (l’offuscamento è, anche

nella descrizione della battaglia di Parigi, un conio virgiliano: «Grande ombra d’ogn’intorno il

cielo involve, / nata dal saettar de li duo campi; / l’alito, il fumo del sudor, la polve / par che

ne l’aria oscura nebbia stampi», XVI, 57, si veda Aen. II, 251), o una tecnica compositiva (l’accento

su una percezione soggettiva, interna allo scontro), ma anche la volontà di interrogarsi

Fig. 34

Scuola dell’Italia

settentrionale

(Vicenza o Padova)

Scena di battaglia, c. 1500

Tempera e olio su tela,

cm 61 x 108

New York, Brooklyn

Museum

1. Sulle Stanze per la Storia d’Italia si veda

Casadei 1997, pp. 87-112.

2. Alberti 1966, vol. II, pp. 804-805.

3. Sull’argomento: Traversari 1905; Catalano

1930-31, vol. 1, pp. 313-325; Pampaloni 1971;

La Monica 1985; Henderson 1992; Murrin

1994, pp. 79-92; Scarano 1996; Bolzoni 2002,

pp. 213-228; Bolzoni 2011; Valleriani 2011;

Larivaille 2011; Matarrese 2014; Matarrese

2016.

4. Summers 2007.

5. Brown 1997; Brown e Lorenzoni 1996. Nel

Palazzo Ducale di Mantova erano anche le

scene di torneo affrescate da Pisanello, per

cui rimando a Woods-Marsden 1988 e ad

Allaire 2014b per una bibliografia aggiornata

(ma si tenga conto che si tratta di un

ciclo cavalleresco, e pertanto distinto dagli

esempi a soggetto storico elencati in questa

sezione).

6. Un accenno a questi esempi, con ulteriori

rimandi, in Kliemann 1993. La citazione si

legge in Carlevaro 1982, p. 115.

7. Per le battaglie di Punta Salvore e di Spoleto,

commissionate in sostituzione dei

rovinati affreschi della prima serie: Wolters

1987; Agosti 1986. Per Cascina e Anghiari,

da ultimo: Cole 2014.

8. Per un riesame delle fonti sulla sopravvivenza

della battaglia leonardesca nella Sala

si veda Frosinini 2015.

9. Schirg 2015.

10. I due testi si leggono in Richter e Pedretti

1977, vol. I, pp. 381-382, n. 669; vol. II, pp.

298-302, n. 1348. Per Agostino Vespucci/

Nettucci e Giovanni (1478-1549) si veda

González Germain 2015, che ringrazio

per il riferimento. Su Niccolò (1474-1535):

Ekserdjian 2000; su Ariosto e la famiglia

Vespucci: Catalano 1930-31, vol. I, pp. 395-

401. Ricordo che Leonardo era conosciuto

e apprezzato a Ferrara già dai tempi del

suo primo soggiorno milanese: nel 1501

Ercole d’Este chiede al suo agente a Milano

di adoperarsi per ottenere il modello del

cavallo che Leonardo aveva realizzato per

la fusione del monumento equestre a Francesco

Sforza, lasciato incompiuto; si veda

Bernardoni 2007, p. 67.

11. Qui lo incontra Mario Equicola, che cena

con Ariosto nel palazzo, si veda Carrai 1999,

p. 146. Per Paolo Uccello a Palazzo Medici:

Caglioti 2000, p. 273.

12. Hughes 1997, p. 97.

13. Dei preziosi cassoni nuziali che Ercole

de’ Roberti realizza per il matrimonio di

Isabella d’Este e per quello della sorella

Beatrice non conosciamo il soggetto della

decorazione, ma la ricchezza dei materiali

si ricostruisce facilmente dai pagamenti per

foglie d’oro, lacche, colori (Manca 1992, pp.

199-206).

14. Forti Grazzini 1982, pp. 23-24.

15. Baxandall 1963.

16. Tuohy 1996, pp. 68-69, 215.

17. Battisti 1992, pp. 44-53. Da ultimo: Arezzo

2007, pp. 34-35, 214.

18. «Nempe subtilium poetarum pictorumque

eadem fere ars, haec eadem rerum politia:

non ut omnes omnium vultus eorum,

quos describunt, hominum aut pecudum,

non manus, non pedes, non omnis denique

corporis imagines ostentent, sed alias aliis

implicitas, latentes, aversas, pronas, iacentes,

alias patentes penitus et arrectas, ut

in proeliorum picturis saepe videmus», in

Decembrio 2002, p. 178 (Libro I, cap. XI, 5).

19. Filostrato Maggiore 2010, pp. 30-31 (IV).

Per Filostrato in Decembrio: Webb 1992, pp.

169-170, ma senza riferimenti al passo qui

analizzato.

20. Da ultimo: Lovatt e Vout 2013.

21. Sinisgalli 2006, p. 203; Gaurico 1999, pp.

206-209. Una riflessione sul punto di vista

doveva essere diffusa, se anche nella dedica

del Principe Machiavelli ricorda che «coloro

che disegnano e’ paesi», per considerare la

natura dei luoghi bassi, si dovranno porre

«in alto sopra monti»; si veda Bock 1986.

22. Warnke 1992; sulla teichoscopia: Miniconi

1981.

23. Leonardo 1995, cap. 15 (p. 140), c. 1500-05;

cap. 19 (p. 143), c. 1492.

24. Per un repertorio rimando a Guerre...

1988-89.

25. «[...] alcuni si dilettano di cose allegre, com’è

animali, verzure, balli e feste simili; altri vorrebbono

vedere battaglie o terrestri o marittime

e simili cose marziali e fere; altri paesi,

casamenti e scorci e proporzioni di prospettiva;

altri qualche altra cosa diversa», in De’

Medici 1939, vol. I, p. 68; si vedano Firenze

1987, p. 26, e Summers 2007.

26. Sulla scollatura tra battaglia e rappresentazione:

Starn e Partridge 1984. Sul fenomeno

dei visitatori al campo di Ravenna: Niccoli

2008. Per un revisione del concetto di battaglia

campale e della sua portata storiografica:

Harari 2007.

27. Ad esempio Girlandi Cinzio (1548). Sull’argomento

si veda Ferretti 2016, pp. 166-167.

28. Comanini 1591, f. 86.

29. L’espressione è di Starn e Partridge 1984,

pp. 43-44.

30. Per questi e numerosi altri esempi e derivazioni

si veda Simons 2008.

31. Of XIV, 128; XV, 71.

32. Of XVIII, 54, 175; XIX, 9; XXIII, 60; XLI,

99; XLIV, 87.

33. Of XIV, 121; XXXIX, 13; XLII, 9.

34. Of IX, 70; XXX, 63; XLI, 92, 95.

35. Of XVI, 58; XVIII, 17; XXXIV, 29; XXXI,

89; XXXIII, 40; XXXVIII, 13.

36. Il dipinto ha una tradizionale attribuzione a

Bernardo Parentino: si veda Cieri Via 1995,

che considera la tela una memoria del perduto

ciclo ferrarese di Piero della Francesca;

per una diversa ipotesi e una bibliografia

aggiornata: Vinco 2012, pp. 177-178.

37. Praloran 2009, pp. 125-148. Per un riflesso

in Ariosto via Jean Lemaire de Belges si

veda Tura 2014.

38. Giovanissimo, a Pavia, nell’estate del 1493,

quando fa parte della compagnia teatrale

che mette in scena quattro commedie

plautine per Ludovico il Moro, e Leonardo

segue la corte sforzesca tra Milano e Pavia

occupandosi anche di apparati scenici; più

tardi, tramite Ippolito d’Este, con cui Leonardo

è in contatto nel 1507; infine a Roma,

nel 1513-16, mentre l’artista è al servizio di

Giuliano de’ Medici.

39. Leonardo 1995, cap. 148 (pp. 207-208), c.

1492. Per un commento: Vecce 2012.

40. Omero, Iliade, XII, 176 (ed. 1996), p. 657. Sui

«topoi dell’inesprimibile» si veda Curtius

2006, pp. 180-182. Per l’inesprimibile guerresco:

Scarry 1985; Virilio 1984.

264 265



ARIOSTO E

LA TRADIZIONE

EPICO-ROMANZESCA

DELLE ARMI

INCANTATE

DANIELA DELCORNO BRANCA

militare (spada, elmo, scudo, lancia e cavallo) non è per il cavaliere

un accessorio indifferente: in particolare la spada ricorda la sua investitura e i solenni

L’equipaggiamento

impegni assunti in quella occasione. Questi elementi costituiscono quasi la sua seconda

pelle, in particolare la spada e il cavallo sono alleati e compagni inseparabili: così Durindana,

la spada di Orlando, alla quale il paladino nella Chanson de Roland rivolge un commosso saluto

prima di morire, Baiardo o Rondello, straordinari destrieri fedeli e intelligenti che accompagnano,

fin dalla più antica tradizione, rispettivamente Rinaldo e Buovo d’Antona. 1 Le armi sono

una sorta di carta di identità dell’eroe, si caricano della sua progressiva gloria in quanto ricordano

le sue imprese soprattutto quando si tratta di strapparle a potenti avversari, com’è il caso

di Durindana e del restante equipaggiamento tolti al re saraceno Almonte dal giovane Orlando

nella guerra di Aspramonte.

A volte però tali oggetti presentano un esplicito legame col mondo soprannaturale, magico o

religioso. Sono le spade che sottolineano un eccezionale destino, un’investitura voluta dall’Alto.

Tale è la spada conficcata in un petrone galleggiante e apparsa improvvisamente a corte, che

solo il predestinato riesce a estrarre: sia il giovinetto orfano Artù, rivelandosi così il legittimo

monarca (Merlin, Micha 1980, cap. 82-87), sia lo sconosciuto figlio di Lancillotto, Galaad, al quale

Dio affida il compimento dell’Inchiesta del Santo Graal (Fig. 35). 2 Nella tradizione delle fiabe

numerosissimi sono i doni magici dovuti a fate, e fra questi armi e cavalli con proprietà meravigliose,

3 ma la narrativa epico-cavalleresca (Chanson de Roland, Entrée d’Espagne, Lancelot, Tristan)

pare preferire altri campi per il meraviglioso, il dono di oggetti magici diversi dalle armi,

forse per non dare al cavaliere un identikit personale di valore di origine allotria. La fata è nella

fiaba il classico “aiutante magico” e il suo dono (armi o altro) serve positivamente al protagonista

per superare le prove che deve affrontare. 4 Nei romanzi arturiani il ruolo della fata è ambiguo, e

ambigui sono di conseguenza i suoi doni. Un fondamentale studio di Laurence Harf-Lancner ha

ripercorso la complessa filiazione delle fate arturiane dalle antiche tradizioni classica, cronachistica

e folklorica fino ai romanzi in prosa francesi del XIII secolo, e il suo cristallizzarsi in due

modelli principali, l’uno negativo, Morgana (fata amante e segregatrice), e l’altro positivo, Melusina

(fata madrina). 5 Ma l’indagine sottolineava anche una serie di contaminazioni fra positivo e

negativo: Morgana insidia continuamente gli amori di Lancillotto e Ginevra e la corte del fratello

Artù, ma è anche quella che raccoglie il re morente e lo porta nell’isola di Avalon ad attendere il

Fig. 35

Bottega di Bonifacio

Bembo

Galaad, il predestinato

a compiere l’impresa del

Graal, estrae la spada

conficcata in un petrone

galleggiante, c. 1446

Palatino 556, f. 108r

Firenze, Biblioteca

Nazionale Centrale.

Su concessione del

Ministero dei beni e delle

attività culturali e del

turismo

266



favoloso ritorno; Viviana è la discepola di Merlino che inganna il maestro chiudendolo nel sepolcro,

ma è anche – per alcuni testi – colei che alleva il fanciullo Lancillotto preparandolo alla sua

splendida carriera.

I doni di queste fate possono dunque essere positivi o negativi. Nei romanzi arturiani in prosa, in

particolare Lancelot, Tristan e Guiron – che sono i testi familiari ai nostri poeti del Rinascimento – 6

«les enchantements de Bretagne» sono all’ordine del giorno, quasi cifra identitaria del genere:

sono situazioni in cui si imbattono i personaggi, a volte anche oggetti donati, ma raramente si

tratta di armi. Viceversa i nostri autori, Ariosto e già prima Boiardo, all’atto di riproporre l’antica

Fig. 36

Nicolò dell’Abate

La flotta di Alcina è abbagliata

dallo scudo magico di Atlante

durante la fuga di Ruggiero,

c. 1548

Affresco trasportato su tela,

cm 401 x 253

Bologna, Pinacoteca

Nazionale. Su concessione

del Ministero dei beni e delle

attività culturali e del turismo

tradizione epica secondo i valori e le strutture narrative del romanzo cortese arturiano, 7 sembrano

recuperare decisamente il tema fiabesco-folklorico del dono delle armi incantate da parte

di una fata, che quei testi avevano messo in sordina.

L’Innamorato si apre con Argalia, fratello di Angelica, che possiede una lancia magica tale da

abbattere l’avversario appena lo tocca (I, i-iii); la fata Febosilla incanta cavallo e armi di Brandimarte

(II, xxvi, 16-19); la fata Falerina costruisce una spada fatata per uccidere il suo nemico

Orlando (II, iv, 6-8). 8 Nel Furioso la lancia di Argalia verrà ricordata, ma l’interesse si concentra

piuttosto su altri elementi, appartenenti al mago Atlante: il cavallo alato, l’ippogrifo (II, 37, 48-49;

IV, 16-19 e passim), e lo scudo che abbaglia l’avversario quando si toglie il drappo che lo copre (II,

55-57 e passim). Come dimostrano una serie di puntuali riscontri entra qui in gioco la tradizione

tutta italiana, propria della Tavola Ritonda (= T.R.) e di vari cantari in ottave (Lasancis; Falso

scudo = F.S.; Astore e Morgana = A.M.) che svolgevano, con molteplici varianti, la vicenda del

“Cavaliere dalle armi incantate”. 9 Si trattava di testi tre-quattrocenteschi ben diffusi in area

padana fino al primo Cinquecento: Astore e Morgana fu riutilizzato da Evangelista Fossa da Cremona

nel suo poema Innamoramento de Galvano (Tav. 51), stampato a Venezia negli ultimi anni

del Quattrocento; la Tavola Ritonda conosce una versione padana trasmessa dal ms BNCF Pal.

556, copiato nel 1446, legato all’area gonzaghesca e illustrato da raffinati disegni della bottega

di Bonifacio Bembo (Fig. 35). 10 La vicenda vede una malvagia fata nemica di Artù che invia a

corte un cavaliere provvisto di armi magiche al fine di vincere i migliori cavalieri e distruggere

la Tavola Rotonda. Quando ormai tutti sono stati abbattuti, arriva il liberatore (Galasso/Galaad

in F.S. e A.M.; Tristano in T.R.). Al di là delle variazioni ed elaborazioni dei vari testi, è evidente

l’identico schema narrativo che contrappone il positivo (la corte di Artù e i suoi cavalieri) al negativo

(la fata malvagia e i suoi demoniaci collaboratori). L’episodio in cui il cavaliere è Lasancis

(attestato anche da un cantare frammentario) è assolutamente sconosciuto ai testi tristaniani e

fu inserito nella Tavola Ritonda, adattando a gloria del protagonista Tristano il canovaccio precedente

dove il vincitore era invece il cavaliere-eremita Galasso.

È questa indubbiamente la versione che ha lasciato tracce evidenti sia nell’Innamorato che nel

Furioso. Argalia e Angelica si presentano a corte con intenzioni maligne e la lancia incantata ha

esattamente gli stessi effetti di quella di Lasancis, come già rilevarono gli spogli cinquecenteschi

della Tavola Ritonda fatti in servizio del Vocabolario della Crusca. 11 In un accesso di furore Argalia

dimentica la lancia magica appoggiata a un albero (Oi I, i, 90), esattamente come Lasancis nel

romanzo italiano (T.R., cap. LXXXVII, Heijkant 1997, p. 360). Nel Furioso l’arma incantata è in

particolare lo scudo (come nel cantare del Falso Scudo, anche se con potere diverso), uno scudo che

abbaglia quando viene tolta la fodera che lo copre. Se ne serve, con intenzioni a suo parere benefiche,

il mago Atlante per catturare Ruggiero e altri cavalieri (II, 55-57; IV, 17-25): quest’arma,

venuta in possesso di Ruggiero assieme all’ippogrifo (IV, 42-47), diventa in qualche modo problematica.

Può un cavaliere servirsene senza venir meno alle regole della lealtà cavalleresca? Allorché

deve affrontare i mostri dell’isola di Alcina, Ruggiero decide di non usarlo, e l’autore lo loda:

«e forse ben, che disprezzò quel modo / perché virtude usar volle e non frodo» (VI, 67, 7-8). Ma

la tipica medietas ariostesca in materia di comportamenti, mostra che invece questo uso è lecito

in casi di forza maggiore, quando sono in gioco valori superiori: come per fuggire dall’isola di

Alcina (con quanto di fortemente allegorico è implicato in questo episodio: VIII, 10-11 e X, 49-50;

Fig. 36) o liberare Angelica dall’Orca marina (X, 107-110). Successivamente, però, alla Rocca di

Pinabello, un colpo dell’avversario squarcia la fodera e lo scudo esercita inopinatamente il suo

potere, mettendo fine allo scontro: gli avversari cadono abbacinati e Ruggiero si ritrova improvvisamente

vincitore. «Via se ne va Ruggier con faccia rossa / che, per vergogna, di levar non osa: /

gli par ch’ognuno improverar gli possa / quella vittoria poco gloriosa. / “Ch’emenda poss’io

fare, onde rimossa / mi sia una colpa tanto obbrobriosa? / che ciò ch’io vinsi mai, fu per favore, /

diran, d’incanti, e non per mio valore”» (XXII, 90). L’unica soluzione è distruggere lo scudo:

Ruggiero lo getta in un pozzo profondo, dove nessuno potrà ritrovarlo (XXII, 91-94: Fig. 37).

268 269



prende l’arma e la distrugge gettandola questa volta in fondo al mare (IX, 88-91). Le parole che

accompagnano il gesto sono un’esplicita condanna, simile a quella già formulata da Tristano nel

distruggere le armi incantate del suo avversario: «Qual è quello cavaliere che si diletti d’esser

tenuto pro’ nella opera e avere ardimento di cuore, e sia forte di membra, savio e ingegnoso nello

combattere; e non affalsi sue prodezze con incantate armadure» (T.R., cap. LXXXVII, Heijkant

1997, pp. 363-364 e si veda Of IX, 90). 13

Lo scudo di Atlante gettato nel pozzo non sarà più ritrovato (XXII, 94): appartiene alla tradizione

romanzesca. Invece, vanamente Orlando ha tentato di distruggere l’archibugio, moderno

corrispettivo della lancia incantata, strumento di morte del presente che ha sancito la decadenza

degli originari valori cavallereschi (XI, 21-28): nell’elaborazione del poema, l’antico paradigma

tristaniano e canterino viene decisamente riletto da Ariosto alla luce della realtà contemporanea.

È un gesto emblematico che ricalca quello di Tristano nella Tavola Ritonda (cap. LXXXVII, Heijkant

1997, pp. 363-364), che non vuole saperne delle armi incantate donategli dal vinto Lasancis

e le distrugge gettandole in una fornace. Se si considera che nel Furioso Ruggiero, futuro progenitore

degli Estensi, è in qualche modo un personaggio, anzi un principe, in formazione, dal

comportamento non sempre irreprensibile (si pensi ai cedimenti prima ad Alcina e poi alle grazie

di Angelica), questo rifiuto delle armi incantate, anche rispetto al loro precedente uso moderato,

sembra segnare una tappa positiva di perfezionamento cavalleresco. 12

Boiardo si era divertito a variare l’antico tema del cavaliere dalle armi incantate facendo capitare

la lancia magica in mano ad Astolfo, simpatico paladino poco abile in duello, che, ignaro, crede

che gli infallibili colpi di quell’arma siano dovuti al suo valore (Oi I, ii, 17-19 e 65-68; iii, 1-30).

Ariosto torna all’originario giudizio che vede le armi incantate come un oggetto anticortese e

sleale (analogamente alla freccia), qualche cosa che oppone frode a virtù, che vanifica ogni superiorità

dovuta a personale valore. Nella terza redazione del Furioso (1532) riprende significativamente

il problema: fra le giunte che tendono a riequilibrare e ad accentuare il parallelismo

di Orlando con Ruggiero, vi è quella doppia liberazione di Olimpia da parte del paladino, che

prima di salvarla dall’Orca la sottrae al perfido Cimosco, possessore dell’archibugio, a tutti gli

effetti arma incantata di origine diabolica, introdotta con effetto straniante nella narrazione.

Anche Orlando, come già Tristano vincitore di Lasancis o Ruggiero dopo la Rocca di Pinabello,

Fig. 37

Giacomo Mancini detto

El Frate

Ruggiero distrugge lo

scudo magico di Atlante

gettandolo in un pozzo,

c. 1545

Maiolica, diametro cm 39,7

Londra, The Wallace

Collection

1. Delcorno Branca 1973, pp. 57-103.

2. Si veda Micha 1980, cap. 82-87; Pauphilet

1949, pp. 5-12.

3. Thompson 1966: si veda ad esempio D 1086;

D 1101; F 343.9; F 3433.10.1.

4. Propp 1966, pp. 31-70; 132-134.

5. Harf-Lancner 1989a.

6. Per la circolazione in Italia dei romanzi arturiani:

Allaire e Psaki 2014; per le fate della

tradizione arturiana nell’Innamorato e nel

Furioso, si veda Delcorno Branca 2012 e 2014.

7. Per i rapporti di Boiardo e Ariosto con questa

letteratura, si veda Praloran 1990, 1999

e 2009.

8. Boiardo 1999: si cita per libro, canto e

ottava.

9. Per l’analisi che segue si veda Delcorno

Branca 1998, pp. 201-223. I testi dei cantari

sono editi in Delcorno Branca 1999; la

Tavola Ritonda in Heijkant 1997 (si cita per

capitolo e pagina).

10. Per il ms BNCF Pal. 556 si veda Cardini

2009; per la redazione padana della Tavola

Ritonda, Delcorno Branca 1998, pp. 99-113

e Delcorno Branca 2009.

11. Punzi 1997, p. 150.

12. Delcorno Branca 1973, pp. 94-96.

13. Sul problematico rapporto fra la condanna

delle armi da fuoco nell’episodio aggiunto

nel 1532 e le menzioni non negative di esse

nelle precedenti edizioni del poema (1516 e

1521), si veda Henderson 1992.

270 271



L’ILLUSTRAZIONE

DEI CODICI CAVALLERESCHI

DI BERNABÒ VISCONTI

PIER LUIGI MULAS

Accanto ai ben noti fenomeni di produzione letteraria originale, la circolazione di

romanzi cavallereschi stimolò nella penisola un’importante produzione artistica, nel

campo della scultura oltre che della pittura, in cicli parietali e naturalmente sui fogli

dei manoscritti miniati. I codici arturiani francesi – i primi risalgono all’inizio del XIII secolo –

adottavano di preferenza iniziali istoriate o miniature incorniciate, disposte nei margini

superiori dei fogli o entro le colonne di scrittura. 1 Sono le stesse formule impaginative che

ricorrono anche in alcuni dei più antichi codici italiani, come La Mort le roi Artu, copiato nel

1281 e miniato da un artista di cultura pisana o genovese. 2 Ma presto negli scriptoria italiani

vennero messi a punto schemi illustrativi diversi, ispirati ai testi in volgare e alle cronache

della penisola: le miniature occupano allora il margine inferiore dei fogli, come nei numerosi

codici cavallereschi che si riconducono a Genova, illustrati da disegni schematici tracciati con

l’inchiostro sul neutro della pergamena e poi velati di colore (Roman de Tristan, 1300 circa). 3

Più avanti nel tempo, arricchendo il racconto figurato di sfondi architettonici, di descrizioni

di interni, di dettagli di moda, gli illustratori della Penisola ambientano le avventure cavalleresche

nel mondo contemporaneo, che non può essere se non quello dei signori, divoratori

accaniti di questa letteratura, che amano rispecchiarsi nei valori degli eroi arturiani. 4 Perché

se le attività dei mercanti italiani in Francia e nelle Fiandre contribuirono alla diffusione

dei romanzi cavallereschi, le corti svolsero un ruolo centrale in questa circolazione: quella dei

Savoia, quella angioina di Napoli, quelle padane. Nel 1407 l’inventario di Francesco I Gonzaga

enumera quarantatré romanzi cavallereschi, altri sono elencati nel 1436 in quello degli Este, i

cui archivi restituiscono un incessante flusso di esemplari prestati e resi (e bisognosi di riparazioni

alle legature). 5 E i Visconti?

Fig. 38

Guiron le Courtois,

c. 1375, f. 19r

Parigi, Bibliothèque

nationale de France

272



De Sanguine graduali in galico volumen magnum et grossum, Liber unus Troiani in gallico, Liber

unus in gallico regis Artusii cum aliquibus historiis, Liber unus Tristantis in gallico historiatus,

ecc.: 6 nel 1426, nella biblioteca che i Visconti hanno fondato a Pavia, gli ottantasette manoscritti

in lingua gallica superano in numero quelli in volgare italiano, e quelli cavallereschi sono

una decina, anche illustrati. 7 Emblematicamente, la loro provenienza riflette origine e acclimatazione

dei modelli. Il primo dei quattro qui citati contiene infatti il Saint Graal di Robert

de Boron, è il più prezioso esemplare di romanzo arturiano del Duecento e fu miniato a fine

secolo in un atelier del Nord della Francia. 8 L’ultimo, italiano, è il più ricco illustrato tra quelli

noti del Tristan (Fig. 39), conta trecentoventi miniature e fu allestito probabilmente per i Bonacolsi

di Mantova prima del 1325, poi giunse ai Gonzaga e di qui, entro il 1426, ai Visconti (per

dono?). 9 Quella pavese era riconosciuta come una raccolta prestigiosa, se ancora nel 1470 Borso

d’Este domandava agli Sforza la lista dei libri scripti more francorum ex vetere Tabula vel nova

(saranno tredici). 10 Di sicuro comprendeva il Lancelot du Lac qui esposto (Tav. 6).

Forse però c’era stato o c’era ancora il Guiron le Courtois (Tav. 23, Figg. 38, 40), anche se non

è mai precisamente identificabile negli inventari principali della biblioteca. 11 Tracce araldiche

hanno permesso tuttavia di collegare a Bernabò questo monumento dell’arte del Trecento,

porta d’accesso trionfale alla stagione della miniatura tardogotica lombarda. 12 Del signore

di Milano (1354-85) si conosce un solo altro manoscritto, di contenuto astrologico – il Liber

iudiciorum et consiliorum d’Alfodhol de Merengi, arabo del IX secolo – fregiato dell’impresa

del leopardo sulle fiamme che fu di Bernabò. 13 Due libri possono sembrare pochi, ma conosciamo

male i primi codici viscontei e la loro araldica. E poi, dietro il ritratto a tinte fosche del

tiranno medievale di fattura ottocentesca, Bernabò riemerge oggi come uno degli artefici della

Fig. 39

Le Roman de Tristan,

prima del 1325, ff. 150v-151r

Parigi, Bibliothèque

nationale de France

Fig. 40

Guiron le Courtois,

c. 1375, f. 50r

Parigi, Bibliothèque

nationale de France

magnificentia milanese, committente del monumento equestre eretto in san Giovanni in Conca,

del palazzo urbano rivestito di illusionistiche crustae marmoree, delle sottigliezze prospettiche

degli affreschi nel castello di Pandino 14 . Le fonti contemporanee, nuovamente censite, concordano

sulla sua cultura: Geoffrey Chaucer, che fu a Milano nel 1378, celebra la grandezza del

principe, che gli Annales mediolanenses dicono doctissimus; poco dopo il 1385, l’ambasciatore

274 275



Honoré Bonet, lamentando col re Luigi d’Orléans gli scarsi interessi culturali dei principi,

adduce come esempio opposto, con Carlo V e Roberto d’Angiò, proprio Bernabò che, più sensibile

all’oro che alla scienza, tuttavia «fit escripre plusieurs beaulx livres»; ancora Biondo Flavio

è colpito dalla dimora del principe, degna degli antichi. 15 Il gusto del Visconti per la letteratura

cavalleresca passa ai figli: nel 1371 Ambrogio chiede a Mantova una copia dell’Aspremont, nel

1378 Luchino vuole un romanzo de Tristano vel Lanzaloto, aut de aliqua alia pulcra et delectabili

materia, da leggere in viaggio. 16 La passione riecheggia nell’onomastica degli illegittimi:

Palamede, Ginevra, Isotta, Lionello, Lancellotto (ma già suo fratello Galeazzo doveva il nome a

Galaad, il figlio di Lancillotto, che porta armi bianche alla croce di rosso, come la città di Milano).

Aggiungiamo dunque alla grandeur di Bernabò quello splendido gigante che è il Guiron,

che oggi ci appare meno isolato che in passato. Il dibattito sulla genesi del manoscritto e sulla

cultura del suo artista si è infatti arricchito con gli studi interdisciplinari condotti su un esemplare

del testo già in collezione Rothschild – noto come X, disperso – del quale sopravvive una

parziale campagna fotografica. Indizi di natura linguistica, iconografica e stilistica collocano

X in anni precedenti l’allestimento del Guiron visconteo e in ambito veneto, forse padovano. 18

Per quanto ardua ne sia la decifrazione, le rigidità del tratto, le incongruenze proporzionali, gli

accenti drammatici dell’azione, le licenze nell’impaginazione, situano il ciclo scomparso su un

piano espressivo inferiore rispetto al colto naturalismo di misura classica del Guiron seriore,

che non sembra mai citare alla lettera le illustrazioni di X (almeno quelle note), se non in qualche

dettaglio topico dell’illustrazione cavalleresca. François Avril ha ancorato l’allestimento

del Guiron visconteo a Milano, riconoscendo nelle iniziali filigranate il lavoro del calligrafo al

quale, nel 1368-69, affidò due suoi codici Francesco Petrarca. 19 Le affinità stilistiche tra i due

cicli illustrativi di X e del Guiron di Bernabò inducono a ricondurli a una stessa bottega. È allora

nel rapporto di filiazione dei due codici che si cela il segreto della formazione del Maestro del

Guiron, del quale è più difficile cogliere le premesse che non i frutti, osservabili non tanto

nelle illustrazioni del Lancelot, che ne derivano qualche composizione, quanto nei disegni del

Taccuino di Bergamo di Giovannino de Grassi, la cui formazione, non a caso, è stata legata al

Maestro del Guiron. 20 1. Per una sintesi, si veda Parigi 2009-10 e, in

particolare, Stones 2009-10. Più in generale

Allaire 2014b.

2. Chantilly, Musée Condé, ms. 649. T. D’Urso

in Chantilly 2014, pp. 48-51, cat. 3.

3. Modena, Biblioteca Estense Universitaria,

ms. α.T.3.11 (Est. 59). S. Castronovo in Alessandria

1999, p. 162, cat. 5.

4. Per un bilancio sulla ricezione dei testi, Delcorno

Branca 1998, pp. 13-48; Allaire 2014a.

5. Braghirolli 1880. Rajna 1873 e Antonelli 2013.

6. Pellegrin 1955, pp. 117, 267, 266, 283. Si veda

ora anche Albertini Ottolenghi 2001.

7. Nel 1459 i codici francesi saranno ottantadue,

Thomas 1911.

8. Parigi, Bibliothèque nationale de France,

fr. 95. A. Stones in Parigi 2009-10, pp. 69-70,

cat. 3.

9. Parigi, Bibliothèque nationale de France,

fr. 755. Zanichelli 1997, p. 41; Avril e Gousset

2005, pp. 16-26, n. 1; Medica 2012, pp.

106-109.

10. Motta 1884, pp. 217-218; Delcorno Branca

1998, p. 35.

11. Potrebbe corrispondergli un Guiron con

storie di Meladux elencato nella lista del

1470 (Delcorno Branca 1998, p. 41, pensa

di riconoscerlo anche nell’inventario del

1459), ma la descrizione è troppo generica

per giungere a conclusioni fondate.

12. Sutton 1991.

13. Parigi, Bibliothèque nationale de France,

lat. 7323, f. 5r. Pellegrin 1969, p. 28, tavv.

94-95.

14. Si vedano rispettivamente Vergani 2001;

Pagliara 2014; Romano 2013.

15. Si vedano rispettivamente Romano 2011, p.

642; Sutton 1991, p. 322; Pagliara 2014, p. 97

e segg.

16. Novati 1890, pp. 171-173, 174 nota 1; Delcorno

Branca 1998, p. 31.

17. Su onomastica e araldica arturiana, Pastoureau

2009-10.

18. Leonardi et al. 2014, Molteni e Walhen 2014.

19. Avril 1990.

20. Rossi 1995, p. 11 e passim. Boskovits 1992,

p. 395, pensava che il Maestro del Guiron

potesse essere il giovane Giovannino.

276 277



DENTRO

IL FURIOSO

278 279



IL POEMA

E LA CORTE

ALESSANDRA VILLA

Benché fin dal 1516 Ariosto destinasse il suo poema a un pubblico ben più ampio e vario di

quello costituito dai signori, cortigiani e amici a cui il narratore si rivolge regolarmente e

che nell’ultimo canto accoglie il poeta al ritorno dalla sua impresa, non va minimizzato il

fatto che questo gruppo più ristretto costituisce la prima e privilegiata cerchia dei lettori, e forse

ascoltatori, in particolare della princeps. 1 Se la genealogia fantastica celebrata nel Furioso onora

gli Este e se la gionta conferma la supremazia ferrarese nel campo della produzione cavalleresca,

le storie «non dette in prosa mai né in rima» non solo divertono i cortigiani, a Ferrara e nelle corti

“sorelle”, ma tendono loro lo straordinario specchio in cui un’intera società si riflette.

Filtrano, infatti, nel poema molti aspetti dei costumi e della cultura delle corti che Ariosto frequenta:

i passatempi più in voga, come il gioco dei motti rivelatori dei segreti amorosi, la moda

delle imprese, le tecniche di combattimento nei duelli e nei tornei, le armi; 2 e ancor più penetrano

profondamente nel Furioso le quaestiones che animavano le conversazioni cortigiane dell’epoca,

sulla donna, sull’onore, sulla fedeltà alla parola data, sui rapporti tra cortigiani e signori, tutti

temi su cui il poeta prende la parola negli esordi dei canti, ma che irrorano poi in maniera ben

più capillare il corpo stesso della fictio, producendo così una sorta di sincronizzazione morale del

poema con il suo pubblico cortigiano.

Ma il filtro agisce anche in senso opposto, dato che il Furioso stesso penetra rapidamente nella

vita delle corti: materialmente, in quanto oggetto di citazione e riuso sempre più frequente nelle

lettere e nella musica, negli oggetti d’arte e nelle armi; 3 ma anche in quanto strumento e motore

del dibattito cortigiano sui temi che il poema sviluppa, divenendo esso stesso, con le sue storie e

con le sue argomentazioni, il terreno di un esercizio di riflessione morale da parte dei suoi lettori,

come era già accaduto ai romanzi e ai poemi cavallereschi predecessori del Furioso.

La relazione tra il poema e la corte è quindi bidirezionale, in un gioco di specchi ininterrotto, in

un dialogo continuo tra la realtà che imita la finzione e la finzione che imita la realtà, e che va

ben al di là del parallelismo già chiaramente impostato da Boiardo tra i cavalieri e le dame della

«glorïosa Bertagna la grande» e la corte di Ercole d’Este, dove «chi più l’un e chi più l’altro honora /

come vivi tra noi fossero anchora». 4

Fig. 41

Sebastian Brant

La nave dei folli

Johann Bergmann von

Olpe, Basilea, 1499, f. L6v

Londra, The British Library

280



Tuttavia, il Furioso non restituisce al pubblico cortigiano un’immagine neutra, ma agisce come

lo speculum di un mondo su cui il poeta riflette e che a sua volta è invitato a riflettere su se stesso.

Il distacco ironico ormai leggendario negli studi sul Furioso, che Ariosto applica alla corte intesa

come sistema e come realtà estense, impregna le considerazioni del poeta tanto sulle questioni

sociali, come il rapporto tra i due sessi, quanto su quelle politiche, come il legame che vincola

signore e cortigiano o la responsabilità del principe nei confronti del popolo. 5

L’uso dell’ironia non può essere disgiunto dall’invenzione eclatante della persona ariostesca, che

si plasma sulla lezione oraziana già assimilata nel Furioso, ben prima della sperimentazione delle

Satire, e che conferisce al poeta uno spazio di parola eccezionalmente ampio, anche se non privo

di autocensure e cautele. 6

L’esercizio di questa libertà di parola ha un fine eminentemente morale e si esprime in modo

sia diretto, tramite le intrusioni del poeta nell’opera, sia indiretto, tramite il dialogo serrato tra

fictio e commento, tra fictio e fictio, tra commento e commento, 7 secondo una tecnica dell’«“aggiustamento

del tiro”», basata sulla costruzione di sequenze di affermazione-contraddizione. 8

Le incertezze, le ambiguità e i paradossi che risultano dalla scelta di questo procedimento, non

ignaro della retorica erasmiana, possono senz’altro rivelarsi tali in certi casi; ma la loro applicazione

sistematica nel poema li erige a metodo di indagine della realtà. L’ironia ariostesca non è

cioè un fine in sé, ma è un mezzo per avvicinarsi e per delimitare con prudenza i confini mutevoli

e complessi della verità.

Se l’ironia del Furioso prende di mira la corte e i suoi mali, non è necessario postulare un’acrimonia

di Ariosto nei confronti dell’universo in cui egli stesso, nonostante l’ironico understatement

delle Satire (Fig. 42), ha un ruolo non disprezzabile, e anche se lungo il percorso che dalla princeps

Fig. 42

Ludovico Ariosto

Satire, 1518, cc. 7v-8r

Ferrara, Biblioteca

Comunale Ariostea

Fig. 43

Baldassarre Castiglione

Il Cortegiano

Venezia, Aldo

Manuzio, 1528

Bologna, Biblioteca

Comunale

dell’Archiginnasio

porta alla ne varietur passando dai Cinque canti, è innegabile che un velo di pessimismo e di sfiducia

cali su certi passi del Furioso. 9 Tuttavia, la pedagogia ariostesca non si schiera contro la corte,

ma con la corte e a suo beneficio.

Nonostante le orgogliose rimostranze della prima satira e ancor più malgrado le conclusioni paradossali

che il lettore è invitato a trarre dall’episodio lunare, le rivendicazioni ariostesche non si

fondano sulla pur eccezionale affermazione della dignità dello statuto di poeta contro un mecenate

rozzo e incapace di apprezzare la perla che gli è capitata tra le mani, ma sul dialogo con un signore

colto, rispondente piuttosto al ritratto tratteggiato da Castiglione nel Cortegiano (Fig. 43), che sa

interpretare fin nei dettagli le allusioni poetiche e il gioco letterario dei ruoli assegnati nel Furioso

al suo personaggio e a quello del suo «umil servo», e che condivide la weltanschauung ariostesca.

Nell’episodio lunare, Ariosto non ride alle spalle di Ippolito, ma approfitta dello spazio che alla

corte del cardinale viene concesso al ludus letterario per divertire ed educare il lettore. Se in questo

caso il gioco è portato al suo limite estremo, è difficile immaginare che il veleno secreto dall’episodio

non trovi il suo antidoto nel piacere del gioco stesso, a cui tutta la corte partecipa e assente, e

che addirittura non si trasformi in medicina, se inoculato in un lettore sufficientemente preparato.

Gli esordi dei canti VII e VIII consacrano proprio questa solidarietà tra il poeta e quel pubblico

privilegiato, che possiede il «lume del discorso», l’«annello d’Angelica», oggetto di una lode che

appare ironica se ci si ferma al primo di questi canti, e che si rivela invece una celebrazione doppiamente

vera alla luce dell’esordio del canto seguente, in cui Ariosto onora quei lettori che sanno

andare al di là della lettera della fictio, e che quindi sono capaci di muoversi con prudenza anche

tra le finzioni e gli artifici della vita reale.

282 283



Il lettore avvertito del Furioso non concede dunque al poeta la libertà di parola come la tollererebbe

in un giullare per rispetto della sua follia, anche se naturalmente non è un caso che la

follia sia la prima caratteristica del narratore del Furioso, ma perché in sostanza riconosce ad

Ariosto lo statuto di saggio. 10 Che poi i signori e i cortigiani facessero realmente tesoro della

lezione del Furioso è un altro discorso, ma non c’è dubbio che Ariosto, ben al di qua della moralizzazione

e dell’allegorizzazione a cui sarà poi sottoposta l’opera, abbia concepito le avventure

del suo poema in stretta connessione con un discorso morale vario, complesso ed articolato,

che valorizza la sua persona, e se possibile la sua posizione di cortigiano, giovando nel contempo

almeno a una parte del suo pubblico.

Nei paragrafi iniziali del Cortegiano, prima che la compagnia decida di «formar con parole un

perfetto cortegiano», vengono proposti diversi giochi: uno di questi appare come una formidabile

chiave di lettura, intenzionale o meno che fosse, della dimensione di serio ludere che il Furioso

acquista in particolare di fronte ai suoi lettori cortigiani. Cesare Gonzaga propone infatti ai suoi

compagni di confessare di quale tipo di pazzia ognuno di loro impazzirebbe, se dovesse un giorno

impazzire (Cortegiano I, viii). La proposta doveva risultare familiare alla brigata urbinate dato

che, presentando il gioco, il cugino di Castiglione ricorda che mille pazzie sono già state scoperte

in quella corte, grazie alla «nostra diligenza», cioè ad una sorta di esorcismo della follia in cui

molti cadono, «chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare,

chi in giocar di spada, ciascun secondo la miniera del suo metallo» (Fig. 41). L’esorcismo, la cui

messa in opera coinvolge tutta la corte, funziona come la cura che si credeva guarisse i tarantolati,

come quella musica che, stimolando l’umore all’origine della malattia, spinge il malato a

danzare fino allo stremo e così, purgandolo, lo libera dalla malattia.

Allo stesso modo, alla corte di Urbino, quando in qualche cortigiano vengono individuati i sintomi

della pazzia, essi sono esacerbati «tanto suttilmente e con tante varie persuasioni» che alla

fine, resa pubblica e pubblicamente derisa, la follia viene guarita. La proposta di Cesare Gonzaga

ha quindi un fine morale, dato che «in questo nostro gioco ritrarremo frutto ciascun di noi di

conoscere i nostri difetti, onde meglio ce ne potrem guardare».

Come i giochi in cui si rivelava, copertamente, il proprio amore, anche il gioco della follia doveva

essere noto, nella pratica o quantomeno nella teoria, alle corti “sorelle”, e non è difficile immaginarlo

praticato da Isabella d’Este o dai cortigiani di Ippolito, magari nei freddi inverni ungheresi.

Il meccanismo del magistero morale del Furioso si basa sul medesimo principio. Il poeta confessa

senza esitare la propria pazzia perché i lettori, come i compagni di gioco che riconoscono e accettano

le regole del ludus, ammettano poi le loro: il gioco del Furioso non serve solo a divertire e a

far passare piacevolmente il tempo, ma a riflettere e ad esorcizzare la pazzia.

1. Si veda Ferroni 1989, pp. 321-337. Alla lettura

in pubblico di romanzi alla corte estense

accenna Agostino Mosti, che ricorda in particolare

«la Poesia del Conte Matteo Maria

Bojardo, e la prima bozzatura di Orlando

Furioso dell’Areosto» (Solerti 1892, p. 171).

Celeberrima è poi la lettera del 1507 (Tav.

17) in cui Isabella d’Este ricorda come Ariosto

l’abbia rallegrata «cum la narratione de

l’opera che ’l compone» (Catalano 1930-31,

vol. II, pp. 78-79).

2. Si veda Curti 2006, p. 196; Boccia 1994, pp.

48-59; Gusmano 1987, pp. 85-102. Più in

generale, su questi temi, è ancora utile Bertoni

1919.

3. Per il caso delle maioliche urbinati, ispirate

al Furioso già prima del 1532, si veda Wilson

2011. Per il precoce riuso in musica,

Haar 1981 e Dorigatti 2011. Per la corazza

di Filippo Negroli, forse ispirata a quella di

Rodomonte, si veda Boccia 1994.

4. Per la gustosissima disputa ingaggiata

proprio nel 1491 tra Isabella d’Este, che

«honora» Rinaldo, e un suo corrispondente

milanese, che parteggia invece per Orlando,

si veda Luzio e Renier 1890, pp. 100-107.

5. Sul concetto di ironia ariostesca, Rivoletti

2015.

6. Sul delicato problema del posizionamento

morale del narratore del Furioso, oltre a

Petrocchi 1972, pp. 261-275, e La Penna 1991,

pp. 200-205, si vedano Santoro 1983, pp. 133-

151, Casadei 1993, p. 79, e Honnacker 2002.

7. Tutte queste combinazioni argomentative

sono impiegate ad esempio nel discorso

sulla questione femminile, che attraversa

l’intero poema, condotto ora sotto forma

di arringa, negli esordi che sono dedicati al

tema e che non esitano a contraddirsi esplicitamente,

ora in forma drammatizzata, in

particolare negli episodi di Rinaldo e Ginevra,

del cavaliere del nappo e del giudice

Anselmo. Per il funzionamento del discorso

ariostesco sulla fedeltà alla parola data,

Ascoli 2003.

8. Segre 1987, p. 14.

9. Per Cossutta 1995, pp. 433-437, Boiardo

esprime nel suo poema un accordo solidale

con la corte di Ercole, all’interno della

quale distingue diverse qualità di fruitori

della sua opera, sui quali può esercitare

un’ironia «selettiva», senza volontà di critica.

Nelle prime fasi dell’elaborazione del

Furioso, Ariosto sarebbe stato particolarmente

vicino a questo sentimento boiardesco,

allontanandosi però sempre più, con

il progredire della crisi storica e sociale a

cui assiste a corte, a Ferrara, in Italia, dalla

corte ideale del suo nobile predecessore. Di

qui, l’esercizio di un’ironia più pungente

che è la misura della sua, almeno parziale,

desolidarizzazione dagli ideali e dagli orizzonti

del suo pubblico.

10. Sulla figura del poeta come giullare nell’Inamoramento

de Orlando e in particolare a

proposito di certe critiche alla vita di corte

si veda Alexandre-Gras 1978, vol. I, pp. 5-21.

284 285



AUTORE E LETTORE:

LA PARTITA TRUCCATA

DELL’INTRECCIO

CRISTINA MONTAGNANI

«In principio fu Boiardo»: sarebbe forse una degna epigrafe per un saggio sulla tecnica

narrativa di Ariosto. Molti elementi, come gli studi ci hanno ampiamente mostrato, 1

differenziano la gionta dall’Inamoramento, primo fra tutti il mutato clima politico

dell’Italia, che conosce da presso l’orrore delle invasioni straniere e delle guerre sul territorio

nazionale, e in cui, per un tessuto tramato di incanti come quello del poema boiardesco, non

sembra esserci più spazio. «Pro bono malum», come recita il motto che accompagna l’emblema

delle api all’inizio del poema: i personaggi e la vicenda sono gli stessi, ma scavando appena sotto

la superficie tutto ci appare diverso.

Tutto, appunto, tranne la modalità di costruzione del racconto; e non è poco. Se n’era accorto

già un lettore acuto come il Tasso, che nei Discorsi del poema eroico scriveva: «Ma si dee, come

ho detto, considerare l’Orlando Innamorato e ’l Furioso non come due libri distinti, ma come un

poema solo cominciato da l’uno e con le medesime fila, benché meglio annodate e meglio colorite,

da l’altro poeta condotto al fine; ed in questa maniera risguardandolo, sarà intiero poema,

a cui nulla manchi per l’intelligenza de le sue favole.» 2 La metafora della tessitura, donde la

menzione delle «fila», allude senza dubbio alla tecnica di costruzione dell’intreccio, identica

nei due poemi. Sarà subito da notare che, già per i lettori cinquecenteschi (come per esempio

il Salviati), 3 proprio l’immagine dei fili armoniosamente e sapientemente intrecciati traduce la

téchne, l’abilità e anche l’artificio con cui Ariosto sviluppa il suo poema. Il poeta stesso allude

abbastanza spesso alla elaborazione della trama, sottolineando soprattutto la necessità di introdurre

frequenti variazioni per non annoiare mai il lettore: «Non convien che sempre io dica, / né

ch’io vi occupi sempre in una cosa» (VIII, 21) 4 e poco oltre: «Far mi convien come fa il buono /

sonator […] / che spesso muta corda, e varia suono» (VIII, 29).

Di questa tecnica strutturale l’entrelacement costituisce il meccanismo fondante. A grandi linee:

nel racconto entrelacé una struttura narrativa molto complessa viene organizzata intrecciando

Fig. 44

Sala delle Asse, c. 1498

Pittura su muro a secco

Milano, Castello Sforzesco

286



fra loro le storie dei vari personaggi, che non sono raccontate di seguito, ma a tratti, per segmenti;

il “fuoco” della narrazione si sposta sui vari protagonisti, senza che mai nessuno, per

troppo tempo, resti in primo piano sulla scena. Il lettore segue lo svolgersi delle avventure

come se fosse di fronte a un’opera polifonica, in cui l’accordo fra le diverse voci dà forma alla

totalità; in questo suo “ascolto” è ovviamente guidato dall’autore, che suggerisce, ammonisce e

soprattutto soccorre la memoria, permettendo al fruitore del testo di riprendere il filo là dove

era stato interrotto. Si tratta di un percorso di cui solo chi scrive tiene le fila, mentre il lettore,

parecchie volte, viene tratto in inganno, come dagli artifici di un mago; ma di questo più

avanti. La sorpresa e l’emozione sono i sentimenti forti indotti da un modello narrativo aperto,

Fig. 45

Ludovico Ariosto

Orlando furioso,

illustrazione canto I

Venezia, Vincenzo

Valgrisi, 1556

Ferrara, Biblioteca

Comunale Ariostea

dove, letteralmente, a ogni angolo di strada si possono spalancare nuove prospettive, capaci di

gettare una luce inusitata anche sugli avvenimenti già narrati: il mondo dell’entrelacement è

precario e instabile, sempre sottoposto alla fortuna e ai suoi capricci.

Questo artificio narrativo è stato inizialmente studiato da Ferdinand Lot nei grandi romans

francesi in prosa del primo Duecento, e soprattutto nel Lancelot; 5 nel Novecento resta fondamentale

il contributo di Eugène Vinaver, cui si devono le importanti riflessioni sul concetto di

«acentric», ovvero “senza fuoco narrativo”, come elemento caratteristico della forma entrelacée.

6 È stato infine Marco Praloran, fra gli italiani, a studiare a fondo la ripresa del meccanismo

da parte di Boiardo e poi di Ariosto. 7

Tenui, per non dire assenti, sono invece le presenze di racconti entrelacés sia in testi francesi

successivi ai primi romans, sia negli sviluppi canterini della materia di Francia in Italia: le doti

richieste al narratore demiurgo sono notevoli, e solo gli scrittori migliori sembrano in grado di

affrontare l’impresa. A ciò si aggiunga la forte presenza della materia bretone, e dell’ideologia

bretone, nelle corti del Nord e segnatamente a Ferrara; nella Firenze comunale e poi medicea,

e dunque nei cantari toscani e nel romanzo del Pulci, i paladini di Carlo trovano certo dimora,

e alla materia carolingia spesso si intreccia quella bretone, ma la struttura dell’entrelacement

non è presente. D’altro canto, al di là della indubbia preminenza ferrarese nella ricezione delle

pulcherrime ambages arturiane, la costruzione intrecciata non è solo un elemento di carattere

diegetico, ma anche, e soprattutto, etico. La ripresa sul piano orizzontale delle avventure consente

infatti il confronto fra i diversi paladini, e dunque fra i diversi statuti morali sottesi alle

loro azioni: questo è il senso profondo dell’entrelacement, ed è senza dubbio un interesse che

non rientra nell’orizzonte di un canterino, e neppure in quello del Pulci, a tacere dell’influsso

del cosiddetto Orlando laurenziano, e dunque di un cantare popolare, sulla genesi del Morgante.

Chiudo il panorama delle assenze, per così dire, rimarcando come fra i prosecutori di Boiardo

(Niccolò degli Agostini, Raffaele Valcieco da Verona e Pierfrancesco de’ Conti) solo il primo

usi – parcamente – l’entrelacement per rilanciare in avanti la narrazione, per costruire nuovi

mondi possibili: gli altri, turbati dalle possibili implicazioni dello sviluppo orizzontale del racconto,

si affrettano a troncare tutti i fili rimasti sospesi per assicurare un finale, in genere

neppure troppo lieto, alla vicenda. Il Mambriano del Cieco da Ferrara, seppure in maniera

piuttosto timida, senza alcuna ricaduta sull’ethos dei personaggi, utilizza invece lo strumento

boiardesco, lasciando la narrazione sospesa e spostando il fuoco da un personaggio all’altro,

soprattutto in chiusa di canto.

L’impiego ariostesco dell’entrelacement rispecchia le caratteristiche di quello boiardesco, ma,

come vedremo, ne spinge ancora più avanti l’oltranza; già nell’Inamoramento il trattamento

del tempo era spesso illusorio, e parecchi avvenimenti narrati non reggevano alla prova della

realtà effettuale. La rottura dell’oggettività temporale è caratteristica anche di Ariosto: non

esiste un tempo esterno, in cui i racconti delle imprese dei cavalieri vengono calati, ma solo

un tempo interno all’opera, controllato dall’autore. Questa è del resto la vera differenza fra

l’entrelacement medievale e quello moderno: nei romanzi del Duecento francese tutto torna

sul piano della cronologia e il narratore non manipola gli avvenimenti, si limita a distenderli

in sequenze non lineari ma sempre coerenti. In qualche modo aiuta il lettore a comprendere

la successione dei fatti, a entrare nella grande opera-mondo che gli si staglia di fronte, gli permette

di decodificare la realtà. Boiardo e Ariosto, invece, fanno il contrario: nel caso di Boiardo

lo stravolgimento del tempo oggettivo ha soprattutto lo scopo di aumentare la suspence, di

infondere nuova vita al materiale narrativo. Per Ariosto, forse, il processo è più sottile, e comporta

anche la rilettura diretta dei romanzi francesi antichi: 8 la disgregazione del tempo, in cui

tutti i rapporti causa effetto saltano, fa sì che il lettore del Furioso si muova davvero a fatica

su un terreno vastissimo, di cui solo il poeta detiene le chiavi. Mi pare anche evidente che il

profondo pessimismo ariostesco permea di sé questa rappresentazione del reale, inconoscibile

e ingovernabile, non giocosamente pieno di sorprese com’era quello dell’Inamoramento.

288 289



È ora arrivato il momento, però, di affrontare più da vicino i modi secondo i quali Ariosto utilizza

la forma entrelacée nello sviluppo del Furioso: 9 procederò, necessariamente, per esempi.

Nella prima parte dell’opera l’artificio è utilizzato poco, rispetto a Boiardo, ma in ragione delle

condizioni in cui la trama era arrivata al momento della morte dell’autore: l’enorme estensione

narrativa del secondo libro dell’Inamoramento e dell’inizio del terzo fanno sì che il poema sia in

bilico, a grave rischio di fallimento. La storia non può più essere controllata: certo non dai lettori,

ma talvolta parrebbe neppure dallo stesso narratore, e inoltre la vicenda avanza lentissima,

per la necessità di mantenere in tensione tanti fili diversi. A ciò si aggiunga che, da quello che

ci è rimasto del terzo libro, Boiardo sembra lontanissimo dall’aver trovato una conclusione. O

forse un romanzo come il suo avrebbe stentato a chiudersi: ogni conclusione richiede dei sacrifici,

delle perdite, come emerge chiarissimo nel disegno del Furioso, 10 e in Boiardo, lo sappiamo,

tendenzialmente non ci sono perdite, non ci sono lutti. Nessuno è malvagio e dunque nessuno

è sacrificabile. Con qualche eccezione, o meglio con due sole eccezioni: Argalia e Agramante.

Quando Ariosto riprende la vicenda non sembra avere in mente il finale, però pare consapevole

che uno sviluppo illimitato costituisce un rischio anche per un narratore di grande abilità. Per

questo riparte dall’assedio di Parigi: perché il fuoco narrativo concentrato in un solo luogo gli

permette di chiudere per un tratto il racconto entrelacé, o almeno di circoscriverlo. Solo dopo

il canto XI la tessitura orizzontale riprende a crescere, dilatandosi enormemente sino al canto

XXIX, e Ariosto sperimenta, a sua volta, nuove tecniche di entrelacement.

Penso soprattutto a una forma di “stacco” che era sconosciuta ai romanzi medievali e anche a

Boiardo: nella modalità classica del racconto entrelacé il tempo dei personaggi, mentre non erano

sotto la lente della narrazione diretta, continuava a scorrere. Quando il lettore li ritrovava, veniva

aggiornato da loro, e dunque dal narratore, su cosa fosse successo nel frattempo; Ariosto talvolta

non lo fa, e lo vediamo per esempio in un episodio famosissimo, un vero pilastro del poema su

cui torneremo più volte: Angelica in XII, 65 trova un «giovinetto […] fra due compagni morti […]

ch’era ferito in mezzo il petto»; mille ottave più avanti, quando il fuoco della narrazione torna su

di lei, la donna è sempre lì, non è successo niente e il suo tempo ha cessato di scorrere: «questa, se

non sapete, Angelica era, / del gran Can del Catai la figlia altiera» (XIX, 17).

A partire dal XXIV canto la tendenza a una dilatazione sempre più spinta viene contrasta dall’incalzare

di eventi drammatici: dopo la morte di Zerbino per mano di Mandricardo, si innesta nel

romanzo una linea che ne blocca lo sviluppo e apre la possibilità di un finale, anche lontano.

Come è stato più volte sottolineato dalla critica più avvertita, 11 alla dimensione orizzontale e

tendenzialmente illimitata del racconto romanzo si viene sostituendo l’impalcatura verticale

dell’epica classica, Eneide in testa, che tende sempre e comunque a un fine, e a una fine.

Cerco ora di avvicinarmi di più alla trama, segnalando i principali fili dispiegati dall’entrelacement,

con qualche beneficio di inventario, date le dimensioni del poema. 12

Come appena ricordato, Ariosto non riprende esattamente dalla conclusione del III libro dell’Inamoramento

(e cioè dalla maliziosa avventura di Bradamante e Fiordespina), ma riallaccia il

filo più indietro, dalla battaglia di Parigi interrotta dal terremoto (IO VIII, 52), ovvero da un

luogo circoscritto e in cui l’azione è sospesa. In questo modo possono rientrare nel racconto

voci che da tempo erano lontane, per esempio Angelica e Ranaldo, nel nuovo poema diventato

Rinaldo. L’interruzione della battaglia indotta dal terremoto consente ad Ariosto una lunga

pausa, che blocca l’intreccio e tiene “fermi” parecchi interpreti. In questo modo l’autore comincia

a dipanare i suoi nuovi fili, a partire dai personaggi che si allontanano da Parigi e che sono

protagonisti del primo canto.

L’esordio del poema è velocissimo, con almeno nove cambiamenti di focalizzazione, che si articolano

attorno al grande tema della fuga di Angelica: una velocità che consente alla struttura

lasciata interrotta dall’Inamoramento di svilupparsi nuovamente in forma dinamica. Ma è solo

un effetto di apertura: cattura l’attenzione del lettore e consente all’autore di preparare la sua

“macchina”, che comincerà a muoversi nel canto successivo.

I tre fili principali del racconto, già individuati dai lettori cinquecenteschi, e cioè l’amore di

Orlando per Angelica, quello fra Ruggiero e Bradamante e la guerra fra l’esercito di Agramante

e quello di Carlo in realtà scorrono paralleli e non si incrociano quasi mai: Ruggiero e Orlando

si trovano di fronte solo al canto XLII, Bradamante e Angelica, dopo essersi sfiorate nel canto

I, resteranno separate; Orlando incontra Bradamante alla fine del poema e Ruggiero incrocia

Angelica unicamente nel celebre episodio dell’orca. La battaglia fra i due eserciti, che scorre

lungo tutto il poema, vede la partecipazione del solo Orlando e solo dopo che Angelica è uscita

dall’orizzonte testuale. La funzione dell’entrelacement in questa macrostruttura è quella di

permettere all’autore di controllare la materia, di fare avanzare il complesso sistema narrativo,

e di giungere infine a una conclusione. O meglio, alle varie conclusioni: la storia dell’amore di

Orlando si chiude al canto XXXIX con la guarigione del paladino; la guerra si risolve a Lipadusa,

al canto XLII, e il matrimonio fra Ruggiero e Bradamante, posticipato nella redazione del

1532, segna la fine del poema. Il vero intreccio sembra non riguardare i tre assi portanti della

narrazione, quanto piuttosto gli episodi che vanno a incastrarsi dentro il reticolato maggiore.

La prima tranche propriamente narrativa del poema si apre, dicevamo, dopo la “giostra” del

primo canto, e si caratterizza per l’assenza di Orlando, cui si giustappone la presenza di quattro

voci principali impegnate in inchieste singolari. Non vediamo quindi svilupparsi la dialettica

tipicamente boiardesca fra avventura del personaggio e scontro d’armi collettivo, ma quattro

protagonisti che scandiscono con le loro imprese il tempo del racconto: Angelica, Rinaldo,

Bradamante e Ruggiero. Vicende separate fra le quali Ariosto si muove tramite entrelacement:

Rinaldo in Scozia, su ordine di Carlo Magno, Bradamante alla ricerca di Ruggiero, che, rapito

dall’ippogrifo, approda nel regno di Alcina. Ad Angelica tocca il destino più inquietante: abbandonata

sullo scoglio e destinata all’orca, «morte aspettava abominosa e tetra» (VIII, 66). Solo

a questo punto nella narrazione si inserisce Orlando, la voce principale del poema, per lungo

tempo assente, ma la cui attesa condiziona non poco le aspettative del pubblico dei lettori.

Il secondo tempo della narrazione è quello che si apre con l’inchiesta autunnale («Tra il fin

d’ottobre e il capo di novembre»; IX, 7) di Orlando alla ricerca di Angelica: un racconto lungo,

a tratti drammatico, che prende avvio in un momento indeterminato dell’assedio di Parigi, e

quindi in uno spazio cronologico più arretrato rispetto al punto a cui sono arrivati gli altri protagonisti.

La successiva marca cronologica dell’avventura di Orlando si colloca in primavera

(«per neve sciolta e per montane piove»; IX, 8): Orlando incontra Olimpia, la aiuta a salvare

Bireno, poi riparte alla ricerca di Angelica. In parallelo Ruggiero, nel viaggio di ritorno dall’isola

di Alcina, vede Angelica legata alla roccia (la stessa su cui sarà poi incatenata Olimpia),

la libera, cerca poco onorevolmente e con poco profitto di violentarla, e riprende poi il suo

viaggio. La tranche dedicata al giovane pagano si chiude su una azione con tre protagonisti:

Ruggiero, un gigante e un cavaliere suo prigioniero; il cavaliere è Bradamante e l’azione si

interrompe sull’inseguimento di Ruggiero, determinato a liberare la donna amata. Stacco su

Orlando, che libera a sua volta Olimpia, uccide l’orca, 13 e prosegue la sua inchiesta, incontrando

un cavaliere che trascina via una dama che ha le sembianze di Angelica. Sulle loro orme, entra

nel castello incantato di Atlante, dove poco dopo lo raggiunge Ruggiero, alla ricerca di Bradamante:

ci troviamo (canto XII) di fronte a uno dei grandi topoi della narrazione arturiana (e

boiardesca), il luogo-non luogo che per un certo lasso di tempo incatena e immobilizza gli eroi

e la narrazione delle loro vicende.

Si apre ora nel poema il grande spazio della guerra: la battaglia di Parigi, che era rimasta

sospesa dalla fine dell’Inamoramento. Prima, però, Ariosto lancia due fili destinati ad essere

ripresi molto più avanti, con un uso ardito dell’intreccio: Angelica, sempre in fuga, incontra

un cavaliere ferito (XII, 65), che solo in seguito, come già si è detto, scopriremo essere Medoro

(XIX, 17), e viene introdotto il personaggio di Isabella (XII, 86), che poi Orlando restituirà

all’amante Zerbino (XXIII, 62). Anche Ruggiero e Bradamante vengono per ora abbandonati:

prigionieri nel castello di Atlante e inconsapevoli l’uno dell’altra, ma non del loro reciproco

290 291



desiderio. Rinaldo è assente, ormai da tempo, dalla scena: il suo ruolo di cavaliere errante è

stato assunto da Orlando (secondo un modello forte, che deriva dall’Inamoramento). In questa

parte centrale la cronologia interna degli avvenimenti è difficile da seguire: le azioni belliche

vengono aperte e richiuse per cinque volte, senza che mai ci vengano offerti indizi cronologici,

e ai fatti d’arme si intrecciano eventi magici e amorosi, anch’essi acroni. L’unico dato indiscutibile

è quello costituito da Angelica e Medoro: lo spazio fra XII e XIX canto non esiste, e tutto

quanto narrato nella corrispondente sezione del poema non ci porta avanti lungo l’asse cronologico.

La guerra deve arrivare allo stesso punto a cui erano giunte le vicende che leggendo il

testo avevamo creduto anteriori, ma erano state semplicemente narrate prima.

Impossibile ripercorrere qui le cosiddette “storie minori” della parte centrale del poema: Mandricardo

e Doralice, il viaggio di Astolfo sull’ippogrifo, Grifone, Orrigille e Martano, per ricordare

solo le più note, che si insinuano nelle pieghe della battaglia di Parigi, sino alla avventura

notturna di Cloridano e Medoro, al ferimento del giovane e al suo incontro con Angelica.

È qui che il lettore moderno realizza appieno che, affascinato dalla narrazione ariostesca, è

assolutamente incapace di controllare la seriazione dei fatti: ogni incontro lo sorprende, ogni

epifania lo sgomenta. Spesso il narratore lo inganna, perché possiede informazioni che non

condivide. Un esempio chiarissimo è nello stesso canto XIX, che innesta la sequenza cosiddetta

della “pazzia di Orlando”: dopo il soggiorno felice presso il pastore, Angelica e Medoro

si avviano verso l’Oriente e pensano di fermarsi per qualche giorno a Barcellona, in attesa di

una nave. Prima di entrare in città, però, vengono assaliti da un «uom pazzo» (XIX, 42) che

«[…] diè loro noia, e fu per far lor scorno» (Ibid.). Il lettore non ha alcun indizio sul fatto che

l’uomo possa essere Orlando, ma leggendo le disavventure del conte, più avanti, se la memoria

lo soccorre, il collegamento diventa possibile, e la rivelazione al canto XXIX dell’identità

dell’assalitore non lo sorprende più di tanto. Nel momento in cui legge dell’aggressione, però,

ogni decodificazione di quanto narrato gli è preclusa.

Fig. 46

Ludovico Ariosto

Orlando furioso,

illustrazione canto XII

Venezia, Giovanni Andrea

Valvassori, 1553

Reggio Emilia, Biblioteca

Panizzi

La sequenza XIX-XXIX è di straordinaria complessità: al suo centro, che è anche il centro del

poema nella sua stesura definitiva, si colloca l’episodio della pazzia (canti XXIII e XXIV), anticipato

dall’incontro fra Angelica e Medoro ferito (al canto XIX, con ripresa dal XII come già

più volte ricordato) e seguito dalla aggressione di Orlando, che non riconosce gli sposi, al canto

XXIX. Il trattamento cronologico è simile a quello già sperimentato nell’incontro di Angelica

(che è un vero pivot dell’entrelacement) con Medoro al canto XII, e poi al XIX: le diverse

vicende, soprattutto quella di Orlando, devono raggiungere il vissuto letterario di Angelica.

Attorno alla storia del paladino se ne intrecciano altre due, anch’esse recuperate da un punto

più arretrato del Furioso: quella di Isabella e Zerbino (dal canto XIII) e quella di Doralice,

Mandricardo e Rodomonte (dal canto XIV); vicende amorose, che con tutta evidenza fanno

ancora più risaltare il sentimento impossibile che lega il paladino ad Angelica. A complicare

ulteriormente la zona centrale intervengono i racconti di Ricciardetto (Ariosto chiude così, con

l’invenzione del gemello maschio, la storia di Fiordespina innamorata di Bradamante, l’ultima

rimasta sospesa dall’Inamoramento), e della malvagia Gabrina, che pagherà il fio delle sue colpe

al canto XXIV. Con il canto XXIX le vicende narrate raggiungono una sostanziale coincidenza

cronologica e, soprattutto, le vicende a latere rispetto alla pazzia di Orlando sono tutte chiuse:

il poema può ripartire esibendo una struttura, da qui innanzi, molto meno complicata.

Potremmo anzi dire che nel Furioso si comincia a intravedere il senso di una conclusione, la

necessità, come prima ricordavo, di verticalizzare la vicenda per consentirle di finire. E sono

proprio le tre storie principali a farsi avanti sul proscenio: al canto XXIX Orlando è ancora

pazzo, ma al XXXIX, grazie ad Astolfo, ha riacquistato l’intelletto; Agramante si ritira dalla

Francia e Ruggiero, ferito, non può soccorrerlo; l’amore fra Ruggiero e Bradamante viene

ancora posposto per effetto della gelosia di Marfisa. I protagonisti, in qualche modo, si preparano

alle ultime fasi: Orlando e Bradamante recuperano il senno; Marfisa si converte e promette

di far fare lo stesso a Ruggiero; i cavalieri pagani e cristiani rientrano quasi tutti nelle

rispettive armate. Rimangono ancora, è vero, azioni secondarie, come quella di Brandimarte e

Fiordiligi, o episodi isolati, come la Rocca di Tristano, Lidia e Marganorre, ma la linea principale

del récit appare ben evidente. E lo vediamo proprio dal riemergere di Orlando: lo avevamo

lasciato, completamente pazzo, a XXX, 15, lungo una spiaggia su cui si profila una massa di

uomini. Lo ritroviamo, sempre pazzo, a XXXIX, 37 mentre fa strage in mezzo all’esercito di

Astolfo, l’«esercito infinito» e affatto sconosciuto di XXX, 15. Astolfo e i compagni lo abbattono

come un toro infuriato e lo costringono a inspirare il senno recuperato sulla luna.

In tutta la narrazione che abbiamo visto dipanarsi sin qui, questa è la quarta volta che Ariosto

va “in presa diretta” su Angelica o su Orlando: i due protagonisti non sono spesso di scena

(Angelica anzi se n’è allontanata definitivamente), ma ogni volta la loro apparizione è come

un tuffo nella realtà, che permette di parametrare cronologicamente tutto quanto è avvenuto

nel frattempo. Anche in questo caso, come nei precedenti, la narrazione non è in realtà

andata avanti, Ariosto ha solo raccolto e dipanato fili che erano rimasti più indietro di quello di

Orlando. Riprendendo una bella immagine di Praloran, 14 potremmo dire che il lettore si muove

nell’intreccio del Furioso come in un labirinto: a ogni svolta narrativa non solo cambia ciò che

ha di fronte, ma il labirinto muta alle sue spalle, la storia si riorienta e si modifica, anche quella

che sembrava di poter dare per assodata.

La conclusione dell’opera, come tutti ricordiamo, si snoda in maniera piuttosto lineare, anche

se Ariosto, con le addizioni del 1532, sentì evidentemente la necessità di rallentarla, procrastinando

le nozze di Ruggiero e Bradamante con l’episodio di Leone. I protagonisti vengono via

via collocati su uno stesso asse cronologico, che consenta loro intanto di combattere a Lipadusa

(XLI), e in seguito di convergere verso la riconciliazione finale (XLIII); notevole anche la

ricomparsa di Rinaldo, in qualche modo simmetrica alla sua presenza all’inizio della storia, ai

canti IV-VI: al canto XLII beve alla fonte dell’odio e dimentica l’amore per Angelica. Anch’egli,

in qualche modo, rinsavisce, e segue le tracce degli altri protagonisti passando per Lipadusa

292 293



in tempo per piangere la morte di Brandimarte. Negli ultimi tre canti, infine, l’entrelacement è

assente e la narrazione, modellata su archetipi classici, è lineare: assistiamo solo al recupero di

un personaggio lasciato indietro dall’autore, come tante altre volte abbiamo visto. Qui è Rodomonte,

che Ariosto aveva abbandonato a XXXVI, 52, sconfitto da Bradamante: novello Turno,

sfiderà Ruggiero e con la sua morte (una delle tante necessarie a chiudere la narrazione) consentirà

ad Ariosto, che a differenza di Orlando non ha perso la bussola della sua vita e della sua

storia, di condurre la nave del poema all’approdo felice vaticinato in apertura del canto XLVI.

1. La bibliografia ariostesca è davvero sconfinata,

e quello dei rapporti con l’Inamoramento

è da sempre un tema centrale. A far

tempo da Rajna 1876, poi via via lungo il

Novecento; un regesto esaustivo delle corrispondenze

fra i due poemi è stato allestito

da Sangirardi 1993.

2. Tasso 1964, p. 123.

3. Notevolissima anche la consapevolezza

ermeneutica presente nelle illustrazioni

del poema di metà secolo (Figg. 45-46):

nell’edizione Valvassori (Orlando furioso di

M. Lodovico Ariosto, ornato di nove figure,

e allegorie in ciascun canto, Venezia, Giovanni

Andrea Valvassori, 1553), l’immagine

iniziale del canto XII illustra a partire dal

primo piano, posto nella parte bassa, l’arrivo

di Orlando al palazzo di Atlante (XII,

4, 5-8 e 15), la fuga di Angelica inseguita da

Orlando, Sacripante e Ferraù (XII, 33), il

duello tra Orlando e Ferraù (XII, 46, 5-8 e

53, 1-4), la partenza di Orlando verso Parigi

(XII, 68-85) e infine, nella parte più alta

della scena, Orlando nella grotta dei malandrini

(XII, 88, 3-8 e 92). Da L’“Orlando

Furioso” e la sua traduzione in immagini:

http://www.ctl.sns.it/collezioni.html#.

Ancora più complessa l’articolazione figurativa

dell’edizione Valgrisi (Orlando furioso

di M. Lodovico Ariosto, tutto ricorretto,

et di nuove figure adornato…, Venezia, Valgrisi,

1556), dove l’illustrazione iniziale del

canto I si propone di rendere la complessità

dell’intreccio costruito da Ariosto: a differenza

che nell’edizione Valvassori, non

sempre ciò che accade in apertura del canto

è collocato in primo piano, ma le diverse

scene si succedono con un movimento a spirale,

a partire da Carlo che affida Angelica

a Namo di Baviera (I, 5-9, vv. 1-4; in alto a

sinistra), poi il duello tra Rinaldo e Ferraù e

la fuga di Angelica (I, 16-22; a metà pagina,

da sinistra a destra), l’incontro tra Ferraù e

il fantasma di Argalia (I, 23, vv. 7-8 - 26, vv.

1-5; in primo piano, a destra), l’incontro tra

Angelica e Sacripante (I, 35, 2-8 - 48; in alto,

a destra), Sacripante disarcionato da Bradamante

(I, 63-69; in alto, al centro della

tavola), Sacripante che si avvicina a Baiardo

(I, 72-76; subito sopra alla precedente), e

infine il duello tra Rinaldo e Sacripante (II,

3-12, vv. 1-4; sopra alle due precedenti). Da

L’“Orlando Furioso” e la sua traduzione in

immagini: http://www.ctl.sns.it/collezioni.

html.

4. Tutte le citazioni ariostesche sono tratte da

Ariosto 1960.

5. Lot 1918.

6. Vinaver 1971.

7. Nei suoi tre importanti volumi Praloran

1990, 1999 e 2009, cui vanno riaccostati

saggi più specifici su questioni puntuali.

8. È la tesi – non da tutti condivisa – più volte

sostenuta da Praloran, sulla scorta di Rajna

1876; sulla diffusione dei testi francesi in

Italia resta fondamentale Delcorno Branca

1998.

9. Non mi sottraggo al problema posto dagli

incrementi narrativi fra 1516 e 1532: là dove

le aggiunte incidono sulla struttura, farò

riferimento anche all’assetto del 1516.

10. Penso soprattutto al duello di Lipadusa e

alla morte di Brandimarte (oltre che di Gradasso):

si veda M. Praloran, Vedere, patire,

agire, in Praloran 1999, pp. 127-142.

11. Penso soprattutto a Bruscagli 1983, Zatti

1990, Javitch 1991 e più recentemente a Delcorno

Branca 2007.

12. La scansione interna si può articolare in

vari modi, tutti più o meno plausibili. Io

seguo, almeno in parte, la proposta di Praloran

1999, che mi sembra più funzionale alla

partizione cronologica degli avvenimenti

narrati.

13. Solo nella redazione del 1532, con l’evidente

intento di porre ancora in maggior rilievo

il riprovevole comportamento di Ruggiero.

14. Praloran 1990, p. 55.

294 295



1516-1532:

LE TRASFORMAZIONI

DELL’ORLANDO

FURIOSO

ALBERTO CASADEI

Tre diverse redazioni dell’Orlando furioso furono pubblicate a Ferrara, sotto la sorveglianza

dell’autore, rispettivamente il 22 aprile 1516 (Giovanni Mazocco dal Bondeno), il

13 febbraio 1521 (Giovanni Battista della Pigna) e il 1 ottobre 1532 (Francesco de’ Rossi da

Valenza). Ci sono pervenuti inoltre un lungo frammento detto Cinque canti, probabilmente destinato

ad ampliare la seconda edizione ma poi accantonato e pubblicato solo postumo (1545 e 1548);

numerosi abbozzi autografi, riguardanti soprattutto alcuni episodi aggiunti nella terza edizione;

altri abbozzi minori, in qualche caso noti solo attraverso stampe o manoscritti non autografi.

Delle varianti (ossia modifiche) fra le tre stampe ci dà conto l’edizione critica pubblicata nel 1960

a cura di Santorre Debenedetti e Cesare Segre, 1 ma numerose precisazioni sulle caratteristiche

tipografiche della terza sono state apportate da Conor Fahy. 2 L’edizione originale è stata invece

riproposta autonomamente nel 2006 per le cure di Marco Dorigatti, che ha ricostruito fra l’altro

la storia della dozzina di copie superstiti della prima stampa. 3

Questi dati materiali non rendono certo conto delle tante trasformazioni apportate da Ariosto

al suo poema ormai edito (e oltretutto, bisogna ricordare che quasi nulla sappiamo della lunga

gestazione cominciata intorno al 1505 e finita nel 1515). Nell’insieme, si tratta di un cammino

durato più di venticinque anni, che spesso è stato inteso come un tentativo di raggiungere una

sempre maggiore perfezione linguistica e formale. Ma la critica più recente ha precisato questa

visione troppo semplificata mettendo a fuoco i vari progetti legati alle tre edizioni, e soprattutto

a quelle del 1516 e del ’32, dato che quella intermedia, benché non priva di modifiche significative,

si presenta piuttosto affrettata. 4 Per comprendere le varie tappe di questo lungo cammino

occorre comunque indagare il rapporto fra il capolavoro ariostesco e i contesti storici e culturali

in cui è stato scritto e letto.

Alcuni tentativi di analisi delle varianti si registrano già nel Cinquecento, a opera di commentatori

e di letterati quali Lodovico Dolce, Giovan Battista Giraldi Cinzio, e soprattutto Giovan Battista

Nicolucci detto il Pigna, che fornì un elenco di modifiche nei suoi Scontri de’ luoghi mutati

dall’autore..., terzo libro dell’opera I romanzi, edita a Venezia nel 1554; e anche Girolamo Ruscelli,

Fig. 47

Ritratto di Ludovico Ariosto

Xilografia in Orlando

furioso, 1532

Ferrara, Biblioteca

Comunale Ariostea

296



che, nella premessa al Furioso da lui curato (Venezia 1556), asserì fra l’altro di aver visto una copia

del 1532 corretta da Ariosto stesso in vista di una quarta edizione, poi impedita dalla sua morte (6

luglio 1533). A parte la scarsa precisione di molti di questi tentativi, l’interesse per le varianti fu

unicamente linguistico o stilistico: si voleva infatti dimostrare la maggiore purezza della lingua

oppure la migliore costruzione retorica della terza redazione.

Dopo una lunga fase di lavori parziali o filologicamente poco corretti, una nuova fase nello studio

delle varianti d’autore fu segnata, nel Novecento, dall’edizione critica dei Frammenti autografi

dell’“Orlando Furioso”, curata da Santorre Debenedetti. 5 Pur riguardando soltanto le varianti fra

manoscritti e stampa dell’ultima redazione, questa magistrale edizione diede spunto a numerosi

studi, primo fra tutti il celebre articolo di Gianfranco Contini intitolato Come lavorava l’Ariosto,

nel quale furono posti alcuni princìpi fondamentali riguardo al modo di esaminare le varianti. 6

Negli anni Sessanta, oltre all’edizione critica del poema, uscirono altri contributi che riportarono

l’attenzione sull’importanza di un esame diacronico delle tre redazioni: in particolare, un lavoro

di Carlo Dionisotti sui Cinque canti indusse fra l’altro a riconoscere che la redazione del 1516 è già

«un capolavoro assoluto». 7

Da quell’epoca, numerosi sono stati i critici che si sono pronunciati sulle caratteristiche delle

varie fasi dell’opera, da Cesare Segre e Lanfranco Caretti, a Emilio Bigi, Remo Ceserani e Sergio

Zatti, sino a Giuseppe Sangirardi, Giulio Ferroni e Stefano Jossa, autori di alcune recenti e autorevoli

monografie. 8 Ma le analisi puntuali continuano a essere necessarie per determinare con la

massima esattezza le differenze effettive tra le redazioni del Furioso, senza rischiare di proporre

etichette generiche: per questo sono frequenti gli studi dedicati a specifici aspetti compositivi e

variantistici. 9

2. L’avvio della composizione del Furioso è fissato, con buona probabilità, intorno al 1505. 10 Di

certo Ariosto raccontò una parte dell’opera a Isabella d’Este, sposa di Francesco Gonzaga, all’inizio

del 1507: infatti, il 3 febbraio di quell’anno la signora di Mantova scrisse al fratello Ippolito,

dedicatario del poema, per fargli sapere che la narrazione delle nuove vicende di Orlando e dei

paladini le aveva procurato grande piacere (Tav. 17). Altre notizie sulla composizione del Furioso

si registrano negli anni successivi (specie nel 1509 e nel ’12), fino a quando, nel settembre del 1515,

cominciano i preparativi della prima stampa, poi conclusa il 22 aprile 1516.

La decisione di proseguire l’Orlando innamorato (o Inamoramento de Orlando, come si legge in

alcune fra le stampe più antiche) è sembrata a molti critici sorprendente, dato che l’incompiuto

poema di Matteo Maria Boiardo risultava fuori moda rispetto alle tendenze più forti della letteratura

primocinquecentesca. Ma la sua fama era ancora notevole quando, nel 1505, fu pubblicata

a Venezia la sua prima continuazione, il Quarto libro di Niccolò degli Agostini. Si trattava principalmente

di un’operazione commerciale, che, rivolgendosi a un vasto pubblico, toglieva agli Este

il privilegio di vedere nell’Innamorato un’opera dedicata alla loro celebrazione.

Ariosto aveva appena iniziato o forse iniziò proprio in quell’anno il suo Furioso: certamente l’impresa

fu vista subito con il massimo favore nella corte di Ferrara. Questo poeta ancora piuttosto

giovane, molto incline alle riscritture di opere classiche e recenti, nell’Innamorato si ritrovava

già ben selezionato il materiale della tradizione cavalleresca, 11 e soprattutto erano molti gli episodi

rimasti interrotti che potevano essere completati o addirittura re-interpretati: ad Ariosto

era perciò possibile unire modelli classici e moderni, per concludere una vicenda pensata da

Boiardo utilizzando, magari, Ovidio o Virgilio. Insomma, il prosecutore aveva un dominio assoluto

riguardo alla materia e di fatto esercitò nei confronti dell’Innamorato non solo una rispettosa

imitazione, bensì anche una forte emulazione o addirittura varie forme di parodia: questi aspetti

contribuirono a creare il famoso tono ironico che contraddistingue il nuovo poema.

3. Al termine di un’elaborazione almeno decennale, il primo Furioso si presentava in 40 canti,

anziché in 46 come l’ultimo: nel 1532 infatti vennero inseriti nella compagine del poema gli

Fig. 48

Ludovico Ariosto

Frammenti autografi

del canto XI

Ferrara, Biblioteca

Comunale Ariostea

episodi di Orlando e Olimpia (fra i canti IX-X-XI, Fig. 48), della Rocca di Tristano (XXXII-

XXXIII), di Marganorre (XXXVII), di Ruggiero e Leone (XLIV-XLV-XLVI), per un totale di più

di settecento ottave. L’edizione del 1516 fu stampata da Giovanni Mazocco dal Bondeno, già attivo

da tempo a Ferrara; venne richiesta ottima carta e la tiratura ammontò a circa 1300 esemplari. 12

La veste grafica risultò accurata, con alcuni aspetti abbastanza innovativi per un poema cavalleresco,

come la chiara partizione fra la fine di un canto e l’inizio del successivo. Sin dalla seconda

carta, inoltre, compariva una xilografia (rappresentante un nugolo di api cacciate col fuoco da un

ceppo d’albero) in una cornice, ai cui angoli si leggeva il motto «Pro bono malum», cioè «Il male

in cambio del bene»: elementi elegantemente allusivi, che sono stati ben presto oggetto di varie

interpretazioni. 13

Venendo al testo, per quanto riguarda la lingua va detto che la prima edizione presenta un

discreto numero di tratti dialettali padani; 14 tuttavia, queste forme sono sensibilmente meno frequenti

rispetto all’Innamorato. In effetti, già nel ‘16 si registra un forte distacco dalle forme più

tipiche dell’Italia settentrionale: Ariosto si distingueva dai suoi predecessori indirizzandosi decisamente

verso la lingua toscana, benché non sempre utilizzasse le forme corrette, anche a causa

della mancanza di norme grammaticali chiare e univoche. Da un punto di vista metrico-sintattico,

risultano evidenti alcuni tratti distintivi rispetto all’Innamorato: per esempio, un’attenzione

costante alla ritmicità e alla simmetria nella strutturazione delle ottave, e un uso ampio della

subordinazione, che permette di creare periodi sintattici di quattro e a volte di sei versi. Tutto

questo provoca un notevole cambiamento nello sviluppo della narrazione, che risulta molto più

fluida e scorrevole rispetto a quella di Boiardo. 15 Solo un commento puntuale al primo Furioso

potrà delineare ulteriormente questi aspetti; 16 comunque, si può sinteticamente affermare che

298 299



nel 1516 la fisionomia linguistico-retorica e metrica del poema è già ben definita ed è frutto di

scelte che Ariosto non modificherà mai in modo radicale, anche se le correggerà da vari punti di

vista (vedi § 5).

Un discorso più complesso va fatto riguardo alla strutturazione narrativa, che non è ricavabile

semplicemente sottraendo al terzo Furioso gli episodi sopra indicati. In particolare, l’inserimento

della vicenda di Ruggiero e Leone allontana parti del testo prima strettamente unite fra loro,

che formavano nel ’16 un finale del poema assai diverso da quello del ’32. Per esempio la lunga

sequenza che vede per protagonista Rinaldo (XXXVIII, 28 e segg.), in buona parte ambientata in

territori padani fra Mantova e Ferrara, era collocata subito prima dell’ultimo canto del poema e si

presentava come una sorta di commento a tutte le sue vicende, a cominciare da quelle legate alla

pazzia d’amore. Rinaldo infatti, dopo essersi liberato della “rabbia” dovuta alla gelosia per Angelica,

affrontava varie prove di saggezza, che costituivano per il lettore una serie di annotazioni

morali: mai però moralistiche, perché improntate alla delicata ironia oraziana.

Si arrivava così direttamente al canto finale (XL), nel quale si scioglievano uno dopo l’altro i

nodi narrativi lasciati ancora insoluti: i paladini rientravano tutti a Parigi, Astolfo liberava l’ippogrifo,

si celebrava finalmente il matrimonio di Ruggiero e Bradamante, con una grande festa

alla corte di Carlo Magno. Quest’ultima situazione riconduceva l’intera storia all’inizio dell’Innamorato,

che presentava appunto il re a banchetto con i suoi paladini: una sorta di “chiusura ad

anello” di tutte le vicende romanzesche, che però costituiva solo un momentaneo happy ending. A

esso seguiva infatti il celebre duello tra Ruggiero e Rodomonte, modellato soprattutto su quello

tra Enea e Turno che chiude l’Eneide. Tutte queste vicende non scomparvero nel ’32, ma furono

dislocate in vari canti per dare spazio a un episodio che nobilitasse ulteriormente Ruggiero. Nella

sequenza originaria, però, esse chiudevano il testo con maggior compattezza, e nel contempo lo

avvicinavano con evidenza al pubblico estense e delle corti padane, al quale Ariosto si rivolgeva

prioritariamente.

4. La seconda edizione del Furioso uscì a Ferrara il 13 febbraio 1521 dalla tipografia di Giovanni

Battista della Pigna, uno stampatore milanese noto solo per questa edizione (Fig. 49). Essa fu

preparata in gran fretta, come si deduce da una lettera dell’8 novembre 1520 al cortigiano mantovano

Mario Equicola, nella quale Ariosto afferma che la prima edizione è esaurita ma non dice di

averne in previsione una nuova. Dunque l’edizione fu stampata in poche settimane e per questo

essa si presenta più scorretta della prima, come dimostra anche un lungo errata corrige stilato

dallo stesso Ariosto, che peraltro intervenne più volte in bozza. La sua tiratura fu piuttosto limitata,

forse di 500 esemplari, dei quali solo quattro ci sono pervenuti. 17 In questa redazione Ariosto

aggiunse 11 ottave ma ne tolse altrettante, e corresse 2.912 versi su 32.944. In molti casi si trattò

di modifiche dovute a errori locali, ma Ariosto seguì anche alcune linee correttorie più generali,

sulle quali è opportuno soffermarsi brevemente.

Da un punto di vista linguistico si registra l’eliminazione di qualche forma padana e di parecchi

latinismi (a volte interpretabili anche come dialettismi); inoltre, vengono soppressi alcuni vocaboli

troppo triviali o comici, spesso derivati dall’Innamorato: 18 essi risultavano poco dignitosi

perché le regole dovute alle “buone maniere” andavano facendosi più rigide in quegli anni, e

per questo molti vocaboli troppo espliciti venivano banditi dalla conversazione e dalla poesia. 19

A livello metrico-sintattico, sono eliminati numerosi enjambements che creavano ritmi troppo

prosastici (simili a quelli sperimentati, dopo il 1517, nelle Satire); sono inoltre corrette varie frasi

poco perspicue nei nessi subordinativi.

Le varianti strutturali risultano, come si è detto, minime, perché Ariosto si è limitato ad aggiungere

una stanza o due là dove andavano spiegati meglio alcuni dettagli della narrazione. In un

caso però le ottave inserite sono di un certo interesse. Ci si riferisce a quelle riguardanti la battaglia

di Lipadusa (cioè Lampedusa) nel canto XXXVIII, in cui il narratore si rivolge direttamente

a un personaggio reale, il nobile Federico Fregoso, per rispondere a una sua obiezione sulla

Fig. 49

Ludovico Ariosto

Orlando furioso

Ferrara, Giovanni Battista

della Pigna, 1521

Roma, Biblioteca Angelica

verosimiglianza del racconto: è un tipico commento metanarrativo, che si adatta al modo ironico

di trattare la materia cavalleresca, di cui si è già parlato per il primo Furioso.

Nel complesso la fisionomia della seconda redazione testimonia alcune linee correttorie che corrispondono

a nuove esperienze linguistiche e letterarie di Ariosto. Tuttavia, rispetto al 1516, la

parte di testo non modificata è di molto superiore a quella modificata (in proporzione quasi 9 a 1):

probabilmente però il secondo Furioso sarebbe stato molto diverso, se il poeta avesse completato

una prosecuzione della quale ci rimangono soltanto i già citati Cinque canti (Fig. 50). Si tratta di

un’aggiunta che, secondo le interpretazioni più accreditate, sarebbe stata collocata dopo l’ultimo

canto della prima redazione e che riguardava le trame di Gano e dei Maganzesi per dividere

Carlo Magno dai suoi paladini, mettendo in difficoltà soprattutto Rinaldo e Ruggiero. Sebbene

la prima ideazione risalga quasi certamente al 1519-20, questo episodio fu rimaneggiato almeno

sino al 1526-28, quando fu accantonato per dare spazio alle aggiunte poi introdotte nel 1532. 20

Al di là di alcuni particolari, ancora sottoposti a verifiche, i critici sono nel complesso concordi

nel considerare questi canti improntati a un gusto piuttosto arcaico, vicino a Pulci oltre che a

Boiardo, ma nello stesso tempo notano molti riferimenti ad autori poco presenti nella redazione

del 1516, come Lucano con la sua epica cupa e drammatica: uno dei temi di fondo dei Cinque canti

era infatti, come nella Farsaglia, la lotta per il potere, attuata soprattutto attraverso intrighi di

corte e a causa della stoltezza dell’imperatore.

5. Nel 1525 Carlo V sconfisse Francesco I nella battaglia di Pavia e prese così il sopravvento in

Italia. Dopo ulteriori scontri, culminati nel Sacco di Roma del 1527, Carlo fu incoronato imperatore

a Bologna nel 1530. Questi avvenimenti, a volte meravigliosi a volte tragici, lasciarono una

profonda traccia nell’immaginario collettivo, e infatti compaiono più o meno esplicitamente pure

nelle aggiunte del terzo Furioso. Ariosto si rende conto che il mondo cavalleresco, nel 1516 ancora

300 301



rappresentato da Francesco I e dalla sua corte francese, è ormai in declino, e lo fa intuire in

numerose modifiche di carattere storico-politico. Più in generale, il poema abbandona la dimensione

municipale e cortigiana in cui era nato, per indirizzarsi decisamente verso una dimensione

nazionale e, anche simbolicamente, imperiale. Ciò non implica che i riferimenti alla corte ferrarese

vengano cancellati: essi sono quasi tutti conservati, ma vengono affiancati da altri che

riguardano la storia italiana ed europea, come nel canto XV, con un’aggiunta dedicata alle scoperte

geografiche e ai conquistadores, o nell’esordio del canto XXXIII, sulle guerre combattute

dai Francesi in Italia.

Sempre nel 1525, si registra un avvenimento decisivo nel campo letterario: l’uscita delle Prose

della volgar lingua di Pietro Bembo. Fra i tanti effetti, la loro pubblicazione sancì l’avvento di

nuove e precise regole grammaticali e stilistiche, basate com’è noto sui modelli di Petrarca e Boccaccio.

Ariosto ritenne opportuno seguire queste nuove regole, anche se mai pedissequamente, e

dovette perciò correggere alcune migliaia di versi per rispettarle: basti pensare ai cambiamenti

introdotti per evitare incontri di consonante+s implicata (tipo “il scudo” e simili). Altre varianti

linguistico-stilistiche derivarono invece da scelte autonome dell’autore, per esempio allo scopo

di rendere più simmetriche le dittologie e le elencazioni. 21

Ma le Prose di Bembo provocarono anche nuovi giudizi di valore riguardo ai generi letterari: il

poema cavalleresco, che dopo il 1516 era stato praticato da scrittori mediocrissimi, fu sempre

Fig. 50

Ludovico Ariosto

Cinque canti

Venezia, Gabriele

Giolito, 1548

Ferrara, Biblioteca

Comunale Ariostea

1. Ariosto 1960.

2. Fahy 1989.

3. Ariosto 2006.

4. Per una sintesi si veda Jossa 2009.

5. Ariosto 1937.

6. Contini 1937 (ed. 1974).

7. Dionisotti 1961, p. 375.

8. Per una bibliografia completa, si veda il commento

di Bigi in Ariosto 2012.

9. Casadei 1988 e 2001; Montagnani 2007;

Dorigatti 2009 e 2011.

più considerato umile e volgare, cosicché Ariosto si trovò quasi a dover difendere il suo Furioso,

per farlo accettare pure nelle nuove élites culturali. Predispose un’edizione lussuosa (addirittura

con il suo ritratto, preparato in xilografia da Tiziano Vecellio, Fig. 47) e la curò fin nei minimi

particolari presso lo stampatore Francesco de’ Rossi da Valenza, correggendola molte volte prima

della sua uscita il 1 ottobre 1532. 22 Negli episodi aggiunti adottò spesso uno stile elevato, senza

concedere quasi niente al comico. Inoltre, in questi episodi spiccano le vicende di tipo moralmente

nobile, nelle quali i paladini sono impegnati contro personaggi immorali e crudeli, come

Cimosco o Marganorre. Rispetto a quello della prima edizione (vedi § 3), il nuovo finale risulta

molto più complesso, perché da un lato aumentano i riferimenti a Virgilio o ad altri modelli epici,

dall’altro si leggono inedite e drammatiche avventure cavalleresche di Ruggiero, al quale viene

assegnato il titolo di re dei Bulgari, probabilmente per nobilitarlo presso il nuovo pubblico delle

corti italiane ed europee. Di certo si può affermare che in questa aggiunta, come in tutte le altre

del ’32, si hanno pochissime tracce dell’ironia che dominava le prime due redazioni.

Il testo dell’ultimo Furioso presenta insomma alcune parti più dissonanti e tetre rispetto alle

versioni precedenti. Non si può tuttavia attribuire questa situazione a una crisi puramente personale,

né alle conseguenze delle crisi storiche, peraltro almeno in parte superate nel 1530. Piuttosto

si dovrà pensare a un’evoluzione interna al genere cavalleresco 23 e a una nuova tendenza

di tipo classicistico ma non soltanto antiquario. 24 Di certo la redazione del 1532 risulta al passo

con la storia, così come, in modi diversi, lo erano quelle precedenti: è per questo che, seguendo

i cambiamenti del poema ariostesco, si ricostruisce un diagramma significativo della fase più

importante del Rinascimento italiano.

Tuttavia l’analisi delle trasformazioni del Furioso contribuisce anche a cogliere le potenzialità di

una letteratura che, pur nascendo dal grande semenzaio dell’Umanesimo quattrocentesco, aspirava

a costruire un “mondo possibile” autonomo e autoconsistente. Nelle prime due redazioni,

dominava l’aspirazione a far comprendere, attraverso la piacevolezza delle vicende dei paladini,

quale atteggiamento si poteva tenere davanti all’incostanza e alla contraddittorietà delle passioni

umane a cominciare dall’amore, in grado di far impazzire persino il saggio e casto Orlando. Nella

terza, Ariosto chiede al suo lettore di confrontare le nuove avventure con le vicende realmente

accadute, che avevano persino prodotto la caduta di un re valoroso come Francesco I. Di fatto,

al di là delle convinzioni personali dell’autore (non soltanto pessimistiche), nell’ultimo Furioso

l’instabilità etica e quella storica risultano ancora più nette, in significativa analogia per esempio

con le riflessioni introdotte nella versione del 1530 dei Ricordi guicciardiniani. 25

10. Per le notizie biografiche si fa riferimento a

Catalano 1930-31.

11. Si veda Sangirardi 1993.

12. Per i dati si veda Ariosto 2006.

13. Vedi Masi 2002.

14. Si veda da ultimo Vitale 2012.

15. Vedi Blasucci 2014 e Cabani 1990a.

16. Come primo esempio si veda Matarrese e

Praloran 2010.

17. Si veda Fahy 1989 e Spagnolo 2008.

18. Oltre alla sintesi in Trovato 2004, si veda

Boco 2005.

19. Vedi Mazzacurati 1985.

20. Casadei 2001.

21. Casadei 2008.

22. Sulla complessa storia dell’edizione si veda

Fahy 1989, pp. 102-175.

23. Bruscagli 2003; Praloran 2009; Ascoli 2014.

24. Si veda Javitch 2012 e, per una ricca contestualizzazione

storico-artistica, Farinella

2014a.

25. Su questi aspetti si veda Casadei 2016.

302 303



ARIOSTO IN CERCA

DELLA LINGUA.

IL PRIMO, IL SECONDO

E IL TERZO FURIOSO

PAOLO TROVATO

Gli ultimi decenni del Quattrocento e i primi del Cinquecento sono,

com’è noto, decisivi per la storia della lingua italiana, perché in essi il

toscano letterario diventa di fatto la lingua letteraria di tutta la penisola.

Caratteristico esempio di passaggio da un volgare illustre di tipo

regionale, che potremmo chiamare «padano», al toscano letterario è

quello di Ludovico Ariosto.

Bruno Migliorini

Nel 1552 un protagonista dell’editoria cinquecentesca come Girolamo Ruscelli, curatore-correttore

responsabile di tante riedizioni fiorentineggianti di autori quattro e primocinquecenteschi,

ci offre una notevole, anche se non imparziale, testimonianza della

svolta o crisi linguistica che si era consumata nel corso del Cinquecento: «Non era a’ tempi del

Collenucio ancor molto abbraciata per l’Italia la lingua toscana, et usavasi una lor lingua che

chiamavano cortegiana, la qual però in chi più et in chi meno s’avicinava alla Toscana vera, che

pur era riconosciuta per la migliore, ma non erano ancora stati alcuni che l’havessero ridotta in

regole […], onde si vede l’Innamoramento d’Orlando del Boiardo, et ancora quelle historie d’Erodoto

ch’ei tradusse dal greco et così anco quei primi Cortegiani del Castiglione a penna et altri

scritti di persone chiare in que’ tempi che usarono quella lingua.» 1

Tra le opere scritte in lingua cortegiana figuravano, dunque, testi di notevole interesse storicoculturale,

come i volgarizzamenti del Boiardo, ma anche il capolavoro dello stesso Boiardo, l’Inamoramento

de Orlando (citato, si noti, con il titolo originario: dunque da un’edizione molto antica)

e i «primi Cortegiani del Castiglione a penna» (il Cortegiano «a penna» non adeguatamente fiorentinizzato

che Ruscelli avrà potuto leggere sarà stato probabilmente la copia manoscritta di

Vittoria Colonna, che tanto preoccupava il Castiglione, o un suo derivato).

L’apparizione di grammatiche a stampa del fiorentino trecentesco come le Regole grammaticali

della volgar lingua del Fortunio (1516, Fig. 51) e le Prose della volgar lingua del Bembo (1525, Tav.

74) è giustamente individuata da Ruscelli come il punto di non ritorno della rottura da lui denunciata

(«in chi più et in chi meno [la lingua] s’avicinava alla Toscana vera, che pur era riconosciuta

per la migliore, ma non erano ancora stati alcuni che l’havessero ridotta in regole»).

Per la verità, la svolta delle grammatiche era stata anticipata, in buona misura, dalle scelte di

editori di punta come Aldo Manuzio e di autori di avanguardia come Bembo e Sannazaro. Aldo –

che disponeva d’altronde di un socio-consulente d’eccezione come lo stesso Bembo – aveva

Fig. 51

Giovanni Francesco

Fortunio

Regole grammaticali

della volgar lingua

Ancona, Bernardino

Vercellese, 1516

Bologna, Biblioteca

Universitaria

304



pubblicato nel 1501 e nel 1502 un Petrarca e un Dante immuni dai tratti settentrionali normali

nelle edizioni del tempo. Sannazaro e Bembo avrebbero mostrato nel biennio 1504-05, rispettivamente

nell’Arcadia e negli Asolani, che la lingua più appropriata per l’alta letteratura non

era quella delle corti e nemmeno il fiorentino contemporaneo, ma era invece il fiorentino dei

grandi trecentisti, Petrarca, Boccaccio e (ancora senza le riserve avanzate dal Bembo nelle Prose

della volgar lingua, II 20) Dante. 2 Ma non dobbiamo farci suggestionare dalla precocità di queste

iniziative. Perché questi orientamenti diciamo pure classicistici, che applicavano al volgare le

procedure dell’umanesimo cosiddetto ciceroniano, diventassero prevalenti tra i letterati d’avanguardia

(e innanzi tutto tra i lirici) occorre aspettare la fine del terzo decennio del Cinquecento

(tra 1529 e 1530 appaiono a stampa molte raccolte di rime di grande rilievo). 3

E Ariosto? Non ci sono dubbi (basterebbe ricordare il fatto che il primo Vocabolario degli Accademici

della Crusca, quello del 1612, lo include, unico ferrarese, nel suo canone di autori fiorentini)

sulla pertinenza del terzo Furioso (1532) a questa fase linguisticamente nuova della letteratura

italiana, largamente modellata sulla lingua delle Tre Corone. Basta, e avanza, per rendersi conto

dell’entità del cambiamento, confrontare l’attacco dell’Inamoramento, punteggiato di padanismi

ai suoi tempi normalissimi come diletose, bela, oldir, gli indicativi adunati e vedereti, gli imperativi

stati e ascoltati:

Signori e cavallier che ve adunati

per oldir cose diletose e nove

stati atenti e quïeti et ascoltati

la bela historia che il mio canto move;

et odereti i gesti smisurati,

l’alta fatica e le mirabil prove

che fece il franco Orlando per amore

nel tempo de il re Carlo imperatore.

con quello, fiorentinamente impeccabile, del Furioso C:

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori

Le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori

d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,

seguendo l’ire e i giovenil furori

d’Agramante lor re, che si dié vanto

di vendicar la morte di Troiano

sopra re Carlo imperator Romano.

Ma la redazione B del Furioso, apparsa nel 1521? E quella A, ancora più remota, pubblicata nel

1516?

2. Nel 1946 Bruno Migliorini pubblicò su «Italica» un articoletto dei suoi (tutti fatti, raccordati

con sobrie, meditatissime frasi di commento) intitolato Sulla lingua dell’Ariosto, da cui proviene,

tra l’altro, l’epigrafe di queste pagine. 4 Da allora molti auspici di Migliorini si sono realizzati: non

è più vero, per esempio, che «manca un saggio linguistico sul volgare illustre delle corti padane,

quello per intenderci che si potrebbe identificare nei carteggi estensi e gonzagheschi, quello

che (raffinato letterariamente) troviamo nell’Orlando innamorato del Boiardo»; 5 e molti studiosi

hanno ripreso a studiare la lingua di Ariosto. 6 Di più, disponiamo di strumenti di lavoro preziosi

come l’edizione del Furioso C «con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521», l’edizione

critica del Furioso A e il Rimario diacronico del poema. 7 Ma la validità di molte se non di tutte le

indicazioni del Migliorini rimane inalterata, cosicché quel breve saggio può funzionare anche

come un metro per misurare i progressi degli studi ariosteschi.

A giudizio di Migliorini, il testo del 1516 «teneva ancor molto» del padano illustre, «benché fosse

già ben più toscano che l’Orlando innamorato o il Mambriano. Nel vocalismo notiamo forme dialettali

o latineggianti come gionco, artifice, pontifice, depingere, argumento, suspiro. Nel consonantismo,

v’è ancora grandissima incertezza nell’uso delle doppie; si hanno numerose oscillazioni

tra c e z (roncino più frequente di ronzino); sporadico è l’uso di sc, ignoto alle parlate padane

(settro, samito, trassinare, ecc., ma scevra, sdruscito); usuale è il tipo giaccio, giara, giotto, e così

pure il tipo iumenta, iusto, Iove (tuttavia anche giocondo).» 8

«Già durante la stampa di A – continua Migliorini – il poeta è preso da qualche pentimento; così

nell’errata corrige egli rifà due versi in cui aveva adoperato in rima mano al plurale: una volta

mutando tutti e tre i versi in rima, la seconda trasformando il plurale in singolare. Un terzo esempio

(XIV, 65) gli sfugge, ma lo troveremo corretto nella seconda edizione.» 9

La recente monografia di Maurizio Vitale sulla lingua del primo Furioso arricchisce e precisa, ma

non stravolge, il disegno miglioriniano. 10

3. Per quanto riguarda la redazione B, è ancora Migliorini a osservare: «I ritocchi di lingua e di stile

per l’edizione del 1521 sono relativamente assai parchi, e del resto anche le aggiunte e le modificazioni

d’altro genere. Notiamo fra i ritocchi volgo mutato in vulgo, sfochi cambiato in sfuochi, ciucca

cambiato in zucca, perse mutato in perdette, espona (congiuntivo) eliminato; è corretto il passato

remoto cacciorno, ecc. […]. Quasi più interessanti, direi, che le correzioni del testo sono quelle elencate

nell’errata corrige. Giunto alla fine dell’opera, il poeta vede quanto essa si scosti dal proprio

ideale e dalle pretese che i grammatici cominciano ad avere, e insieme alla correzione di alcuni

grossi errori di stampa e a parecchi miglioramenti singoli egli enumera quelli che riconosce come

difetti di lingua: oltre ad avvertenze troppo generiche (“una consonante per due, due per una”), v’è

una lista di riconoscimenti specifici: egli vorrebbe avere scritto non summo ma sommo, non reverire

ma riverire, non distino ma destino, non raccorda ma ricorda, non devere ma dovere, non volontieri ma

volentieri, non parangone ma paragone; non gli piacciono più de per di e dil per del, ecc.» 11

La nostra maggior consapevolezza delle specificità dei procedimenti tipografici in generale e in

particolare le importanti ricerche di Irene Torregrossa sulle varianti presentate dai pochi esemplari

superstiti della ’21, riconducibili a interventi ariosteschi in tipografia, ci permetterebbero di

arricchire un po’ il quadro ricostruito da Migliorini. 12 Ma è innegabile che una serie molto significativa

di pentimenti fonomorfologici e di microsintassi (per esempio, il stanco > lo stanco, in li salsi

> nei salsi…) viene introdotta da Ariosto solo in C, cioè nel 1532, dopo una meditata lettura del libro

grammaticale delle Prose della volgar lingua. La prova regina di questa attenta lettura rimane ancora

quella individuata dal grandissimo Debenedetti nel 1930, ossia la correzione sistematica dell’avverbio

presto (ignoto alla lingua del Trecento in cui presto ha invariabilmente il valore aggettivale

di “pronto, preparato”) con il suo corrispondente aureo tosto: 13 appunto a norma di Prose, III 60. 14

4. Nel saggio del 1946 Migliorini propone anche una valutazione d’insieme del lessico del Furioso,

già nella redazione A molto ricco e saldamente orientato verso il fiorentino letterario: «Nel lessico

abbondano i latinismi: cicada (VIII, 20), crebro, dicare, difensione, mal dolato (XI, 37), erradicare,

esicio, formidato, hara, hirondine, proceri, tumente, tuto, ecc. Pochissimi sono invece i veri e propri

dialettalismi: intendo dire i vocaboli di area dialettale non toscana, e non quelli che esistevano,

con lievi varietà fonetiche o morfologiche, anche in Toscana: tale per esempio giava “stanza di

deposito nelle navi”.» 15

Ma anche a non tener conto di qualche imprecisione del benemerito Migliorini, che non disponeva

dei nostri sussidi elettronici e nemmeno di concordanze cartacee del Furioso, 16 si ha l’impressione

che sul lessico (che in uno scrittore raffinato come Ariosto vuol dire anche intertestualità, prelievo

puntuale di materiali da autori modello) ci sia ancora parecchio da lavorare.

306 307



Come ogni autore non fiorentino del suo tempo, Ariosto si appropriò del fiorentino letterario con

lo stesso metodo impiegato dagli umanisti per affinare il loro latino, sottolineando e riportando

nel margine dei suoi libri vocaboli e costrutti dei testi canonici e «collegando con rinvii da carta a

carta quelli ripetuti o simili». 17 Ma nonostante lavori importanti come quelli di Cesare Segre e altri

sull’influsso di Dante, 18 di Luigi Blasucci sul Morgante (1976), 19 di Maria Cristina Cabani su Petrarca

e il petrarchismo, 20 di Giuseppe Sangirardi su Boccaccio e Boiardo, 21 di Stefano Jossa e altri su Poliziano,

22 il palchetto dei «testi di lingua» usati da Ariosto per fiorentinizzare come si doveva il suo

poema è stato ricostruito solo parzialmente.

Per cominciare, la decisione ariostesca di scrivere un poema che esplicitamente si proponeva come

una continuazione dell’Inamoramento de Orlando, implica una diffusa assunzione di parole, iuncturae,

clichés ritmici, similitudini di Boiardo, quando non genericamente cavallereschi o canterini. Al

livello meno significativo della interdiscorsività (il riuso di tratti comuni a un’epoca o a un genere,

ma non riconducibili a un autore specifico) non meritano particolare attenzione formule e clausole

tipiche di quella tradizione, come, per esempio, «la gente saracina» (2 occorrenze nella Spagna ferrarese

o SF, 7 nell’Inamoramento de Orlando o IO), «la gente pagana» (5 occorrenze + 2 di «pagana

gente» in SF, 0 + 3 in IO) e la «negra gente» (2 occorrenze in IO), cui corrisponde per esempio,

nel campo avverso, «la cristiana gente» (0 occorrenze + 2 «gente cristiana» in SF, 1 occorrenza di

«gente cristiane» in IO), «la gente battezzata», ecc.

Non occorrerebbe dire (e comunque ci torneremo più sotto) che travasi massicci da un sistema stilistico

all’altro non significano che i due sistemi siano pienamente sovrapponibili. Un controllo sulle

prime 200 occorrenze di gente in SF e IO e sulle prime 100 nel Furioso rivela semmai che, mentre il

pur colto e inventivo Boiardo non si preoccupa troppo della frequente ricorrenza delle formule epiche,

il classicista Ariosto è generalmente attento a evitare le ripetizioni (tra le numerose variazioni:

la «nera gente», la «gente Cirenea», la «gente maura» ecc.).

Sempre dello stesso tipo, ossia, per usare la comoda opposizione di Segre, interdiscorsive, cioè tipiche

della tradizione cavalleresca, ma non intertestuali, sono le iuncturae formate da sostantivi +

epiteti come «spada tagliente» o da coppie di sostantivi come «pedoni e cavallieri» o «trabacche e

padiglioni».

Di nuovo si può verificare come, a fronte della formularità della Spagna:

Sotto suo sbergo la spada tagliente

con Durlindana, sua spada tagliente

con Altachiera, sua spada tagliente

e dello stesso Inamoramento:

de arme a diffensa e di spada tagliente

mena a fracasso la spada tagliente

quando menava sua spada tagliente,

Ariosto si produce in una virtuosistica serie di variazioni, dislocando la formula o i suoi due componenti

in sedi sempre diverse, fino all’enjambement:

può la tagliente spada, ove s’incappi

Ecco vibrando la spada tagliente

Ed indi van con la tagliente spada

Non si presto però, che la tagliente

spada fuggisse…

e via enumerando.

Va notato inoltre che, nonostante la sua ampia disponibilità nei confronti della tradizione, e

specialmente di Boiardo, Ariosto non arriva a condividerne la, come dire?, tendenziale asemanticità

di certi epiteti in rima, «caratteristici di un genere di narrazione che subordina […] il

significato […] alla preoccupazione di colmare la struttura strofica» (i cavalieri e gli imperatori

adorni, i giovani e i baroni fioriti ecc.). 23 Anche a forza di iniezioni dagli auctores latini (Ovidio,

Virgilio, ma anche Catullo, Tibullo ecc.), Ariosto vuole, in qualche misura, rifondare il genere

cavalleresco, renderlo classico. Il suo pubblico ideale non si aduna più per oldire cose nuove

lette ad alta voce, in piazza o nel palazzo, ma legge, silenziosamente, a casa propria. 24

5. Come ha mostrato Sangirardi (che si è occupato però anche di riprese tematico-situazionali),

proprio Boiardo fornisce alla fabbrica del Furioso una gran quantità di materiale

prefabbricato, pronto per essere “rimontato” in un altro poema. 25 Ne darò qualche esempio,

ricorrendo, per comodità di esposizione, a una griglia collaudata una quarantina d’anni fa,

ma senza preoccuparmi di documentare i tipi ai due estremi dell’elenco: parole isolate, sintagmi

minimi o emistichi, sequenze semplici (versali), sequenze complesse (trans-versali),

sistemi di rime. 26

Vediamo dunque come fin dal 1516 Ariosto riutilizza, con minimi ritocchi (Franza > Francia,

cridando > gridando...), qualche emistichio del Boiardo, spesso decontestualizzandolo:

come fanno, di regola, i grandi autori nelle riprese di natura formale (eventuali varianti delle

redazioni A e B, precedute dal segno /</, sono incolonnate sotto le parole corrispondenti del

Furioso C).

con la gente di Francia e de Lamagna OF I, 5, 7

< e d’Alemagna A

de l’Ongheria, di Franza e de la Magna IO II, XXIII 15 1.3

gridando la donzella ispaventata I 15, 2

cridando la donzella ad alta voce IO I, XXII 4.2

pur come avesse l’elmo, ardito e baldo (: caldo: Rinaldo) I 16, 4

viddero un cavalliero ardito e baldo (: caldo: Ranaldo) IO II, XX 47.4

non che le piastre e la minuta maglia I 17, 3

coperto è a piastre et a minuta maglia IO II, X 8.8

Riporterò ora qualche esempio di ripresa formale di versi interi o comunque coincidenti per

sequenze superiori all’emistichio. Avverto una volta per tutte che, quanto più aumenta la

massa sillabica coinvolta nella ripresa, tanto più il gioco classicistico dell’imitatio-emulatio

impone strategie di occultamento della “fonte” quali inversioni, sostituzioni di lessico rilevato

ecc.:

e per la selva a tutta briglia il caccia I 13, 2

< briglia caccia AB

e per la selva in abandono il caccia IO I, III 53.8

questo di quel, né quel di questo dotto I 18, 4

questo con quello e quel con questo ha zuffa IO XXX 51.8

temea Rinaldo aver sempre alle spalle (: valle) I 33, 8

sempre Marfisa aver crede alle spalle (: valle) IO II, XVI 8.8

308 309



6. Come si è visto, dal momento che già la lingua poetica del Boiardo è orientata verso il toscano

letterario, una parte non trascurabile del materiale che confluisce nel Furioso è già anche linguisticamente

in linea con le incipienti esigenze di fiorentinizzazione del linguaggio letterario.

Come se non bastasse e come gli umanisti facevano con Virgilio, Cicerone ecc., Ariosto “osserva”

scrupolosamente i testi dei grandi fiorentini del Trecento.

Sempre servendomi della mia griglia, offro qualche esempio di riprese formali da Dante, come

ho già detto studiatissime, o da Petrarca, di cui Ariosto tesaurizza sia il Canzoniere sia i Triumphi

(mi limito a scegliere tra i tanti passi ben accostati da Cabani). Con sempre maggior sicurezza gli

studi recenti hanno riconosciuto, in molti di questi travasi, aspetti di raffinatissima arte allusiva

o di distorsione parodica, «dalla citazione introdotta in contesti che ne alterano il senso, agli

interventi sul significante, miranti a contraffare la lettera […] con sostituzioni verbali, parafrasi,

contaminazioni ecc.» 27

Sintagmi minimi:

di gir cercando il bel viso sereno II, 27, 3

per non turbare il bel viso sereno RVF CCXXXVI 6

Splende lo scudo a guisa di piropo (: uopo: dopo) II, 56, 1

< Fiammeggia il scudo… AB

Poi fiammeggiava a guisa d’un piropo (: uopo: dopo) T.F. I 43

discinta et scalza, e sciolte aveva le chiome III 8, 7

discinta et scalza, et desto avea ’l carbone RVF XXXIII 6

e di sua legge ogni maestro e donno XII 59, 6

questi pareva a me maestro e donno Inf. XXXIII 28

a quella intenzion provida e saggia XXXIX 78, 2

ma quella intenzion casta e benigna T.C. I 112

Riprese versali:

e cada come corpo morto cade II 55.7

e caddi come corpo morto cade Inf. V 142

Non credo ch’un si grande Apulia n’abbia (: labbia) VII, 4, 1

Maremma non cred’io che tante n’abbia (: labbia) Inf. XXV 19

cercato Francia avea dentro e d’intorno (: giorno) XII, 5, 8

< avea cercato invan per quei contorni (: giorni) AB

Vago già di cercar dentro e dintorno (: giorno) Purg. XXVIII 1

Al mondo, di gridar mercè già roco XXVI, 42, 5

Tu eri di mercé chiamar già roco T.M. II 142

rendea la notte chiara, oscuro il die XLIII 21.3

po’ far chiara la notte, oscuro il giorno RVF CCXV 13

e turbar vide il bel viso sereno XLVI, 125, 4

per non turbare il bel viso sereno RVF CCXXXVI 6

Per dare almeno un’idea della finezza di certe analisi, che ho impietosamente tagliato, riporto

il commento di Blasucci al primo esempio della seconda serie, «e cada come» ecc.: «A parte l’effetto

già ricordato di “svalutazione” semantica, prodotto dalla trasposizione di quel verso in un

contesto narrativo così eterogeneo, non potrà sfuggire al lettore un effetto altrettanto evidente

di svalutazione ritmica: […] alludiamo […] alla specifica trasposizione di quel verso dalla sua sede

privilegiata di clausola [“verso finale del canto”] a quella subordinata di settimo verso dell’ottava,

preparatorio del volo ritmico del verso finale. “e cada come corpo morto cade / e venga al negromante

in potestade”». 28

7. Un altro importante repertorio linguistico-stilistico del Furioso, studiato in modo impeccabile

dallo stesso Blasucci, è il Morgante del Pulci, che «imprime al poema cavalleresco […] una carica

di vitalità linguistica alla cui suggestione nessun narratore in ottave potrà più sottrarsi». 29 Al

solito, offro qualche esempio dei due tipi più frequenti.

Sintagmi minimi:

Se giungea Orlando, di cavargli il core II 18, 8

E vo’ con le mie man cavargli il core Morg. XI 71

partito / quel colpo gli avria il capo come un torso XXVI 126, 6

Lo tagliò nel mezzo come un torso Morg. XVII 85

Riprese versali:

Ma ben fo, a chi lo vol, caro costallo II 3, 4

pertanto io ti farò caro costallo Morg. XX 11

e farò forse lor caro costallo Morg. XXI 87

se non che caro ti farò costallo Morg. X 83

Piegò Aldigier ferito a poggia e ad orza XXVI 76, 6

Che lo fece piegare a poggia e ad orza XLI 70, 3

< poggia et orza AB

Uggier piegossi ora a poggia ora a orza Morg. VIII 64

e su la lancia fe’ le spalle gobbe (: Iobbe: conobbe) XXVI 92, 3

fece le spalle pel gran duol più gobbe (: Iobbe: conobbe) Morg. XI 93

Bisogna ch’io castighi questo matto XXIX 42, 5

A gastigar, Terigi, questo matto Morg. XII 45

Come è stato notato, il Morgante non è solo un repertorio di locuzioni idiomatiche come appunto

“fare le spalle gobbe”, “fare caro costallo [sc. costarlo]”, “castigare questo matto”, ma anche un

prezioso serbatoio di lessemi rari e tecnici come sfere, talacimanno ecc.

8. In questo quadro, tutto sommato omogeneo, riveste particolare interesse l’insieme dei prelievi dal

Decameron, per i quali (non tenendo, ovviamente, conto delle riprese ideologiche o tematiche) mi

limito a scegliere tra i riscontri addotti da Sangirardi qualche esempio di recupero lessicale esteso:

però che quella parte del palagio / risponde verso alcune case rotte, / dove nessun mai passa o

giorno o notte V, 10, 6-8

< …passa giorno o notte AB

310 311



Era il palagio […] alto molto, e quella finestra […] guardava sopra certe case dall’impeto del mare

fatte cadere, nelle quali rade volte o non mai andava persona Dec. II 7, 54

…e restò il vel suttile e rado, / che non copria dinanzi né di dietro / più che le rose o i gigli un chiaro

vetro VII, 28, 6-8

< …che più non la copria dinanzi e dietro / che rosa o giglio un bel vaso di vetro AB

Non altramenti li lor corpi candidi nascondeva [sc. il laghetto] che farebbe una vermiglia rosa un

sottil vetro Dec. VI Concl. 30

i bianchi gigli e le vermiglie rose / […] / di che son sparse le polite membre X, 95, 6

il viso ritondetto con un colore vero di bianchi gigli e di vermiglie rose Dec. IV Concl. 4

Ferì con una lancia sopra mano / al supplicante il delicato petto XIX 13.3-4

E pien di mal talento si rivolse / al cavallier che fe’ l’impresa ria XIX 14, 3-4

< Trasse la spada e per punir si volse / il cavalier che fe’ la mala incetta AB

Fellone e pieno di maltalento, con una lancia sopra mano gli uscì addosso Dec. IV 9, 11

Sangirardi osserva a ragione che, per lo più, le riprese «interessano due settori: quello degli usi

metaforici […]; e quello della fraseologia» (tra gli esempi, «innanzi tratto», «a tentone»). 30 E conclude:

«Le riprese dal Decameron sono generalmente a basso coefficiente di caratterizzazione

stilistica: piuttosto che emergere dal tessuto linguistico […] vi si mimetizzano, direi, per virtù

propria. Se il modello dantesco […] va incessantemente aggiustato e costretto nelle misure di una

scrittura poetica che, pur accogliendo in sé materiali diversissimi, non ammette escursioni di

tono, i codici linguistico e tematico del Decameron si offrono già omogenei alla fruizione ariostesca.»

31 E ancora: «Come è poco allusiva, così la memoria del Decameron è tendenzialmente

non-parodica.» 32

Detto così, sembrerebbe però che tutto fili liscio per una qualche curiosa proprietà del linguaggio

boccacciano. In realtà, Ariosto seleziona con estrema attenzione i suoi prelievi, ignorando tanto

le zone di stile basso quanto le punte sublimi del Decameron (non a caso vari recuperi interessano

la cornice, di tono prevalentemente medio-alto).

9. Sta di fatto che, come ho già accennato, nemmeno sommando il lessico toscano di Boiardo,

quello delle Tre Corone, quello del Morgante si arriva a dar conto della ricchezza e della precisione

della fiorentinità del Furioso.

Il modo più comodo per dimostrare questo assunto consiste nel far tesoro degli insegnamenti

della linguistica computazionale ed estrarre da una lista di frequenza le parole più lunghe (qui,

quelle di 5 o più sillabe) che sono, in ogni lingua, quelle più rare e riconoscibili. Se ripuliamo

l’elenco così ottenuto dei casi meno significativi (avverbi in –mente, composti con suffissi molto

produttivi come -mento, verbi più enclitici come adormentosse, parole di evidente tradizione dantesca

o boccacciana come abbarbicata, omiciattolo, sceleraggini ecc.), possiamo concentrarci su

quello che resta, che è tutto materiale significativo: per esempio, aborrevole, accaneggiato, attorcigliato,

avvantaggiato, contestabile, decapitati...

Per ragioni di spazio, mi soffermo su due versi soltanto, «immansueto tauro accaneggiato»

(XVIII, 19, 3), che esibisce in rima un toscanismo raro come accaneggiato “accanito, inferocito”,

e «e che dai sacerdoti ebbe eleisonne» (XLIII, 181,3; il leisonne AB), che espone in rima il grecismo

eleison, però con epitesi fiorentina (veramente, centro-meridionale) di -e. Salvo errore, per

trovare nella poesia italiana prima di Ariosto un altro eleisonne (in rima con colonne: giansonne:

diaquilonne), bisogna risalire allo straordinario funambolismo lessicale del Burchiello, sonetto

Nominativi fritti e mappamondi, v. 3: «cantavan tutti Kirieleisonne». Come si ricava dall’edizione

Zaccarello, si tratta di un sonetto che ha goduto di una tradizione larga, manoscritta e a stampa. 33

Ringrazio per i loro suggerimenti Sergio Bozzola,

Maria Cristina Cabani e Alberto Casadei.

1. Girolamo Ruscelli, Brieve discorso, in Compendio

dell’historie del Regno di Napoli, composto

gia da m. Pandolfo Collenuccio da Pesaro, et

nuouamente alla sincerità della lingua uolgare

ridotto, et tutto emendato da Girolamo Ruscelli.

Con un brieue discorso del medesimo sopra l’istesso

autore. Et con una tauola de’ nomi di

tutti i seggi, et delle casate nobili di Napoli, et

d’altre terre principali di quel regno, Venezia,

per Giouan Maria Bonelli, 1552. Il passo è

discusso in Trovato 1991 (ed. 2009), pp. 269

e segg., e Trovato 1994 (ed. 2012), pp. 96-100.

2. Paragonato, come si sa, da Bembo a «un bello

e spazioso campo di grano […] tutto d’avene e

di logli e d’erbe sterili e dannose mescolato»

(cito dall’edizione Pozzi 1978, p. 162).

3. Per un’analisi di insieme delle varie opzioni

linguistiche primocinquecentesche mi permetto

di rinviare a Trovato 1994 (ed. 2012),

e specialmente al cap. VI (La “questione della

lingua” e la fissazione della norma).

4. Migliorini 1946 (ed. 1957).

5. Ibid., p. 178 nota. Basti pensare agli studi di

Mengaldo sulla lingua del Boiardo lirico, di

Ghinassi sul mantovano, di Vitale e Bongrani

sulla cancelleria milanese, per non citare che

pochi lavori ormai classici.

6. Ricorderò soltanto Stella 1976; Trovato 1994

(ed. 2012), pp. 292-297; Boco 2005; Vitale

2012.

Per quanto riguarda, invece, accaneggiato, nell’intero corpus digitale dell’Opera del Vocabolario

Italiano (il più affidabile per la nostra lingua antica), ne trovo 3 esempi soltanto: due al singolare

e uno al plurale: «Lo porco ferito e accaneggiato» (Guido da Pisa, Fiore d’Italia, ante 1337); «più

fier che accaneggiato verro od orso» (Pucci, Centiloquio, ante 1388); «l’oste, vedendoli così feriti

e accaneggiati, si maravigliava dicendo: “Chi v’ha così conci?”» (Sacchetti, Trecentonovelle, XIV

secolo). Davvero, come ho accennato, molto lavoro rimane ancora da fare in quest’ambito.

10. Un pensiero per concludere. Quando Ariosto scrive il Furioso non si limita a cercare una lingua,

come suggerisce il titolo di queste pagine, ma cerca anche uno stile, che non vuole schiacciarsi

sul lessico aulico di Petrarca o su una koiné dantesco petrarchesca. Il fatto che Ariosto

innesti nel poema sostanziose iniezioni di lessico della prosa, riconducibile a Boccaccio, o frasi

fatte di livello comico ricavate dal Morgante (per esempio, «bisogna ch’io castighi questo matto»,

«e come il conducessero alla mazza», «che di vetture vuol vivere a macco») non è un dato irrilevante.

Significa che, in una tradizione – la nostra – a lungo ossessionata dalla gravità e dalla

magniloquenza, cerca di differenziarsi dai precedenti trecenteschi assumendo un tono, meglio

ancora uno stile medio. 34

Gli esempi potrebbero essere molto numerosi, ma ne propongo uno soltanto, all’apparenza banale,

ma, come ho già notato, significativo (e del resto non sfuggito alla perspicacia di Stella). Nel primo

Furioso Ariosto scrive di Angelica come avrebbe potuto fare una maestrina, ben inteso di prima

nomina, di cinquant’anni fa: «Tanto vagò che giunse a una rivera» (I, 13, 8). In B e in C le varianti

vagò e giunse sono abbandonate al loro destino di doppioni inutilmente sostenuti e Ariosto parla,

ha imparato a parlare una lingua più fresca, che ce lo rende, se non nostro contemporaneo, vicino,

il più vicino dei grandi antenati: «Tanto girò che venne a una riviera». 35

7. Ariosto 1960; Ariosto 2006; Segre 2012a.

8. Migliorini 1946 (ed. 1957), p. 179.

9. Ibid., p. 180.

10. Vitale 2012.

11. Migliorini 1946 (ed. 1957), pp. 180-181.

12. Per l’analisi dei procedimenti tipografici

è d’obbligo il rinvio a Fahy 1988 e 1989 (si

vedano anche le raccolte curate da P. Stoppelli

e A. Sorella, che testimoniano la ricezione del

magistero di Fahy nella nostra tradizione di

studi). Quanto agli studi di Irene Torregrossa,

anticipazioni dalla sua tesi di dottorato sono

state fornite in alcune giornate di studio (per

esempio, Liegi, 2015; Ferrara, 2015).

13. Debenedetti 1930.

14. Pozzi 1978, pp. 257-258.

15. Migliorini 1946 (ed. 1957), pp. 179-180.

16. Per esempio, dicare è introdotto in C 28,96,8,

difension e formidato e (h)irondine rimangono

fino a C. Una lista di dialettalismi più ampia,

ma allargata in qualche caso a parole «che esistevano,

con lievi varietà fonetiche o morfologiche,

anche in Toscana», è offerta da Vitale

2012.

17. Dionisotti 1938, p. 249.

18. Segre 1966, pp. 51-83; Blasucci 1969, pp. 121-

162 (= Blasucci 2014, pp. 55-97); Ossola 1976.

19. Blasucci 1976 (ed. 2014, pp. 99-119).

20. Cabani 1990b.

21. Sangirardi 1992 e 1993.

22. Da ultimo Jossa 1996, pp. 90-124.

23. Cabani 1990a, p. 121. Con le sue parole:

«Rispetto alla tradizione la sua scelta [di

Ariosto] è […] decisamente antiformulare,

ed è questo aspetto di radicale innovazione

quello che […] deve per primo essere messo in

luce»; «Ciò non comporta la totale scomparsa

dei moduli canterini. […] ampiamente accolti

nel Furioso, ma preliminarmente sottoposti

ad un processo di risemantizzazione o di

revisione parodica» (p. 117). E si veda l’intero

paragrafo L’eredità formulare canterina, pp.

116-124.

24. Trovato 1994 (ed. 2012), p. 128.

25. Sangirardi 1993.

26. Trovato 1979.

27. Cabani 1990b, p. 104.

28. Blasucci 1969, p. 151 (ed. 2014, p. 86).

29. Blasucci 1976 (ed. 2014, p. 100).

30. Sangirardi 1992, pp. 38-39.

31. Ibid., p. 65.

32. Ibid., p. 65.

33. Burchiello 2000, p. 10.

34. Sintomatica la correzione dell’iperletterario

A VIII 78, 1, «oh misero! che chero / se non

morir…?», che già in B è appianato nel più colloquiale

«che voglio / se non morir…?».

35. Trovato 1994 (ed. 2012), p. 296. In C le attestazioni

di venne, 96, sono il doppio di quelle di

giunse e quelle di vagare si contano sulle dita

di una mano, mentre sono numerose le attestazioni

dell’aggettivo vago (11 occorrenze;

vaga, 8 occ.; vaghi, 8 occ.; vaghe, 1 occ.). L’amico

Alberto Casadei, che di nuovo ringrazio,

suggerisce quindi che abbia contato anche la

repulsione di Ariosto per gli omografi.

312 313



COSA UDIVA ARIOSTO

QUANDO CHIUDEVA

GLI OCCHI.

MUSICA E SUONO

NEL FURIOSO

FLORA DENNIS

Dopo la morte di un barbiere veneziano avvenuta nel 1589, fu compilato un inventario del

contenuto della sua bottega. Insieme a una «fogera» e a un «lavello da barbier», figuravano

«do lauti rotti» e un «retratto dell’Ariosto». 1 Oggi può stupire che nella bottega di

un barbiere si trovassero, insieme agli arnesi del mestiere, il ritratto di un poeta e alcuni strumenti

musicali, ma per quei tempi non era nulla di eccezionale. Nel XVI secolo i versi di Ariosto

erano recitati non solo nelle corti e nelle alte accademie, ma anche nelle piazze cittadine e negli

ambienti rurali; 2 li si cantava, come scrisse il compositore e umanista Giovanni Bardi nel 1583,

«in sulla cetera per le taverne e nei barbieri […] per la bocca d’ognuno». 3

Negli anni successivi alla sua pubblicazione, l’Orlando furioso acquistò una grande popolarità e

a questa contribuì non poco quella che veniva percepita come la sua musicalità: «Li suoi versi […]

pieni di ritmo, e di suono.» 4 La forma in ottave ben si prestava all’esecuzione musicale e il poema

entrò nel flusso dell’antica tradizione orale della poesia cantata. Le molte interpretazioni di raffinati

musicisti di corte, di istrionici cantastorie e di dilettanti appassionati (che «tutto il giorno

distratiare i versi del Furioso, & impararne qualche stanza à mente per poter la poi biscantare sù

la ribeca, ò su’l gracivembalo») 5 affrancarono il testo dalla pagina stampata e lo dotarono di una

mobilità e di una portata incomparabili.

Ariosto lavorò a contatto con il sofisticato e fertile ambiente musicale della corte ferrarese. 6

Nei primi decenni del XVI secolo la cappella ducale, benché non fosse più l’istituzione gloriosa

dei tempi di Ercole I, attirava ancora compositori e cantanti franco-fiamminghi d’alto livello. 7

Alfonso I impiegò musicisti di fama, e i suoi fratelli – il cardinale Ippolito I d’Este e Sigismondo –

nonché la sua consorte, Lucrezia Borgia, disponevano di un proprio ensemble musicale composto

da nomi celebri. 8 Dunque Ariosto doveva conoscere una gran varietà di forme e stili musicali,

dal mottetto sacro alla chanson francese, dalla frottola, ossia una poesia cantata con accompagnamento

improvvisato al liuto e sempre più spesso alla lira da braccio (Fig. 52), fino alle danze.

Se quindi vogliamo domandarci che cosa vedesse il poeta quando chiudeva gli occhi, dovremmo

altresì chiederci che cosa udissero le sue orecchie, ovvero quale sia il rapporto tra i suoni del

mondo da lui immaginato nella sua opera e quelli da cui era circondato quando la scriveva.

Considerato il fecondo clima musicale in cui fu composto l’Orlando furioso, sorprende che la

musica abbia così poco spazio nel poema. I versi d’apertura rispettano la convenzione retorica

dell’epica “cantata” dal narratore, tradizione che dai rapsodi della Grecia antica, interpreti dei

Fig. 52

Filippino Lippi

Ritratto di musico (Uomo

accorda una lira da

braccio), c. 1480

Tempera e olio su tavola,

cm 51 x 36

Dublino, National Gallery

of Ireland

314



poemi omerici, arrivava fino ai cantari cavallereschi del Medioevo franco-italico. 9 In linea di

principio questo connoterebbe il poema come “musicale”, sia che fosse letto – ad alta voce o mentalmente

– o che fosse effettivamente cantato. Ma solo pochi episodi sembrano attingere direttamente

alle esperienze dello stesso Ariosto in fatto di musica. Uno di questi è la visita di Rinaldo a

un lussuoso palazzo nella Pianura Padana, dove si trova un’elaborata fontana formata da otto statue

femminili, ciascuna sorretta da due altre figure che ne cantano le lodi: «Con la bocca aperta

facean segni / ch’el canto e l’harmonia lor dilettasse.» 10 La statua di Lucrezia Borgia poggiava su

quelle dei poeti Antonio Tebaldi ed Ercole Strozzi, «un Lino et uno Orpheo», 11 mentre Lucrezia

Bentivoglio era sorretta dal poeta bolognese Camillo Paleotti, che «di costei canta con suave e

chiara / voce». 12 Tra le altre figure vi erano Isabella d’Este ed Elisabetta e Leonora Gonzaga. Questo

gruppo di donne abitava uno spazio temporale paradossale, poiché si trattava di personaggi

contemporanei che all’epoca dei fatti narrati non esistevano, resi al tempo stesso eterni dalla loro

trasposizione scultorea. Chi leggeva o ascoltava questo passo del poema sentiva indubbiamente

risuonare nella mente il tipo di lode in forma cantata che era in uso all’epoca, di cui ben conosceva

la forma musicale. 13

In due momenti importanti della narrazione il poeta trasmette il potere della musica di evocare

l’ultraterreno. Nel palazzo di Alcina il suono delle note crea un’inebriante atmosfera incantata,

gravida di promesse amorose: «Nanzi alla mensa Cìthare, Arpe et Lyre, / et diversi altri dilettevol

suoni / faceano intorno l’aria tintinire / d’harmonia dolce et di concenti buoni; / non vi mancava

chi, cantando, dire / d’Amor sapesse gaudi et passïoni, / o con inventïoni et poesie / rappresentasse

grate fantasie.» 14 E quando Brandimarte viene ferito, la musica segna il momento cruciale

Fig. 53

Francesco Xanto Avelli

Astolfo suona il corno

magico, 1532

Terracotta invetriata,

diametro cm 26,1

Londra, The British

Museum

Fig. 54

Versi posti a Pasquillo

ne l’anno 1513

Roma, Etienne

Guillery, 1513

Vienna, Österreichische

Nationalbibliothek

Fig. 55

Giulio Cesare Croce

Lamento dei poveretti

Bologna, Bartolomeo

Cochi, 1614

Bologna, Biblioteca

Comunale

dell’Archiginnasio

della sua morte evocando l’assunzione in cielo della Vergine, con accompagnamento di angeli

musicanti, così com’era spesso rappresentata nella pittura dell’epoca: «E voci e suoni in l’aria

andar concordi / de l’angeli s’udîr, tosto ch’uscìo / l’alma beata del corporeo velo, / e fra dolce

armonia salire al cielo.» 15

Ma questi brevi interludi musicali sono quasi sommersi dal frastuono che pervade il poema. 16

La cacofonia prodotta dai rumori della natura determina l’atmosfera dei luoghi in cui si svolge

l’azione, che si tratti di tranquille radure nella boscaglia o di mari in tempesta. E i protagonisti

emettono tutta una serie di suoni che esprimono emozioni intense, dalle grida nell’infuriare della

battaglia, fino al pianto e ai sospiri. 17 Inoltre, con una suggestiva descrizione dei suoni, il poeta

rende vividamente il clangore delle armi negli scontri corpo a corpo o tra eserciti. In antitesi alle

dolci note associate al divino o alla magia, i corni, le trombe e gli altri strumenti marziali, insieme

alle grida di furore e di dolore, trasmettono la violenza della battaglia di Parigi: «L’alto rumor

de le sonore trombe, / timpani, corni et barbari stromenti, / giunti al continuo suon d’archi, di

frombe, / Di diserrate machine e tormenti; / E quel, di che più par che ’l ciel rimbombe, / gridi

et tumulti, gemiti et lamenti, / rendeno un alto suon che a quel s’accorda, / con che i vicin il Nil,

cadendo, assorda». 18 Le dissonanze infernali della lunga battaglia di Parigi – «tanti metalli, / tanti

tamburi e tanti varii suoni, / tanti annitriri in voce de cavalli, / tanti gridi e tumulti di pedoni» – 19

fungono esse stesse da arma letale, tanto da costringere i Saraceni a fuggire.

In alcuni passi dell’Orlando furioso il suono è protagonista, e sostiene e connota i fatti violenti che

si susseguono a ritmo serrato. Per esempio, il corno magico di Astolfo (presente nel poema solo

nelle edizioni successive a quella del 1516) – dono di Logistilla, la fata buona sorella di Alcina –

incarna la potenziale carica distruttiva del fragore (Fig. 53), 20 che può diventare offensivo quanto

un’arma: «Di sì orribil suono, / ch’ovunque s’oda, fa fuggir la gente: / non può trovarsi al mondo

un cor sì buono, / che possa non fuggir come lo sente: / rumor di vento e di termuoto, e ’l tuono, /

a par del suon di questo, era niente.» 21 Grazie alla voce spaventosa del suo corno, Astolfo mette

in fuga il gigante Caligorante che rimane impigliato nella sua stessa rete, 22 ottiene l’evacuazione

della cittadella nel golfo di Laiazzo, 23 si salva dal negromante Atlante 24 e libera il castello di re

Senapo dalle arpie (dopo avergli fatto turare le orecchie con la cera). 25 In quanto simbolo della

potenza cristiana, questo oggetto ricorda l’olifante che Orlando, nella Chanson de Roland, suona

subito prima di morire nella battaglia di Roncisvalle del 778 (Tav. 5). 26

316 317



L’opposto sia della musica che del rumore è il Silenzio, che Ariosto introduce come personificazione,

precisando che è ormai così raro «che ’l ritrovarlo ti serìa ventura». 27 Se il clamore della

guerra è reso mediante la descrizione di armi e armature, l’assenza di suoni è trasmessa attraverso

immagini come le scarpe di feltro indossate dal Silenzio o l’«alta nebbia» in cui esso avvolge

l’esercito di Rinaldo così che possa entrare a Parigi senza esser visto. 28

Se la musica non riveste un ruolo di primo piano nell’universo immaginario dell’Orlando furioso,

è certo che all’epoca contribuì notevolmente a rendere popolare il poema. Che si trattasse di

«uomini di alto ingegno» o di «uomini di piccolo intendimento e idioti», 29 coloro che di fatto cantarono

«Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori», diffondendo l’opera oralmente, furono non meno

importanti delle sue copie stampate.

Due filoni – distinti ma non del tutto disgiunti – della tradizione musicale servirono da veicolo al

poema: quello dell’improvvisazione e quello della musica scritta. Chi cantava poemi con accompagnamento

improvvisato si esibiva tanto a corte quanto al cospetto di un pubblico di contadini

o di un variegato uditorio urbano. Poteva trattarsi di improvvisatori esperti che si accompagnavano

al liuto o alla lira da braccio (Tav. 20) – la cui presenza alla corte ferrarese è regolarmente

documentata a partire dai primi del Quattrocento – 30 o, all’opposto, di quei cantastorie o “cantimbanchi”

che, come scrisse Giovan Battista Giraldi Cinzio, «per le piazze, et per gli luochi publici

[…] con la lira in braccio cantano le lor fole, cosi guadagnano il pane». 31 Spesso questi ultimi, dopo

essersi esibiti, vendevano libretti con il testo delle loro canzoni, ispirando così ulteriori esecuzioni.

32 In genere i cantastorie sapevano muoversi tra la corte e la piazza, 33 e in molti ambienti

diversi avevano luogo interpretazioni dell’Orlando furioso su musica improvvisata, ad opera di

musicisti di ogni genere. Racconta Giovan Battista della Pigna che un giorno Ariosto sentì dei

giovani cantare per strada «Oh gran contrasto in giovenil pensiero», invece di «È gran contrasto

in giovenil pensiero», e provvide a correggere il suo testo. 34

Per cantare il Furioso gli improvvisatori si servivano di melodie semplici e riconoscibili che si

potevano modificare o elaborare per trasmettere meglio il significato di particolari brani. Il musicista

e teorico cinquecentesco Gioseffo Zarlino fa riferimento a questi motivi musicali «sopra i

quali cantiamo al presente li Sonetti o Canzoni del Petrarca, overamente le Rime dell’Ariosto», 35

e il fatto che essi affiorino ripetutamente anche nelle composizioni scritte indica che finirono per

essere specificamente associati all’Orlando furioso. 36 Tali melodie o frammenti costituiscono l’unica,

concreta testimonianza sonora che ci resta di una tradizione dell’improvvisazione musicale

un tempo viva e dinamica.

Alcune pubblicazioni che si sono conservate dimostrano che brani del testo ariostesco furono

musicati prima che il poema andasse in stampa. Il celebre compositore e musicista Bartolomeo

Tromboncino servì Ippolito d’Este contemporaneamente ad Ariosto nel 1511-12, nel corso di una

carriera che lo vide all’opera anche per Isabella d’Este e Lucrezia Borgia a Mantova e a Ferrara. 37

Queste non son più lacrime, la sua versione in musica del lamento di Orlando per la perdita di

Angelica, fu pubblicata da Andrea Antico nel 1517 in Canzoni, sonetti, strambotti e frottole. Libro

IV ed è il più antico spartito stampato dedicato al poema (Tav. 21). In questa frottola – duttile

forma musicale in strofe, assai diffusa nelle corti del Nord d’Italia ai primi del Cinquecento –

Tromboncino si serve di un testo assai diverso da quello pubblicato nel 1516, il che fa pensare che

avesse accesso a una versione precedente del poema.

La pubblicazione della terza edizione del Furioso, nel 1532, diede l’avvio a un proliferare di madrigali,

spesso comprendenti una sola strofa, che proseguì fino alla fine del secolo. 38 Molto popolari

per il loro pathos erano i lamenti: quelli di Orlando per Angelica, di Olimpia (aggiunto in quell’edizione),

di Isabella per la morte di Zerbino, e di Bradamante. 39 A partire dalla metà del secolo

si cominciò a musicare brani più lunghi: l’esempio più ambizioso è il Capriccio di Giachetto Berchem,

che comprende più di novanta versi. 40 La portata narrativa di queste composizioni preparò

il terreno al successo che il poema avrebbe riscosso, come fonte tematica, presso i musicisti del

Sei-Settecento, tra cui Vivaldi e Händel.

1. ASVe, Cancelleria inferiore, Miscellanea

notai diversi, inventari, b. 43, n. 6.

2. Si vedano le numerose citazioni di autori

cinquecenteschi che hanno trattato dei

contesti sociali in cui il poema era noto in

Fenlon 2016, p. 95 e Welch 2012, pp. 31-33.

3. Giovanni Bardi, In difesa dell’Ariosto, 24 febbraio

1583, in Discorsi dell’Accademia degli

Alterati, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale,

ms Magl. VI. 168, cc. 60v-63r; citato e

discusso in Cavicchi 2011 e Haar 2004.

4. G. Bardi, In difesa dell’Ariosto, citato in

Cavicchi 2011, p. 287.

5. Giuseppe Malatesta, Della nuova poesia:

overo delle difese del Furioso, dialogo, Verona,

Sebastiano dalle Donne, 1589, p. 147.

6. Si vedano Cavicchi 2011 e Lockwood 1981.

7. Sul tema della musica all’epoca d’oro di Ferrara

rimando a Lockwood 2009.

8. Cavicchi 2011, pp. 266-271.

9. Welch 2012, pp. 30-32; Fenlon 2016, p. 89.

10. Of A XXXVIII, 78, 3-4 (C XLII, 81, 3-4). Le

citazioni dalla princeps del 1516 sono tratte

da Ariosto 2006, quelle dell’edizione del

1532 da Ariosto 1960.

11. Of A XXXVIII, 80, 7-8 (C XLII, 83, 7-8).

12. Of A XXXVIII, 85, 5-6 (C XLII, 88, 5-6).

13. Per esempio il mottetto d’autore anonimo

Lucrecia pulchra è, probabilmente dedicato

a Lucrezia Borgia, di cui tratta Cavicchi

2011, pp. 73-75.

14. Of A VII, 19, 1-8 (C VII, 19, 1-8, con la

Il ruolo svolto dalla musica nel consolidare la fama dell’Orlando furioso fu oggetto di controversie.

Il fascino evidentemente universale e la “cantabilità” dell’opera – «manegiata dai vecchi, letta

dai gioveni, havuta cara da gli huomini, pregiata dale Donne, tenuta cara da i dotti, cantata da

gl’indotti» – 41 furono un’arma a doppio taglio, usata da alcuni per sminuire il suo pregio artistico,

da altri per equiparare il suo autore ai grandi poeti epici, come Omero. 42 I versi di Ariosto, accompagnati

al liuto o alla lira da braccio (Figg. 54-55), furono un fenomeno culturale travolgente, che

stimolò dibattiti sulla poesia e la musica antiche sia nelle accademie letterarie che per la gioia dei

clienti dei barbieri.

variante «A quella mensa» invece di «Nanzi

alla mensa»).

15. Of A XXXVIII, 14, 5-8 (C XLII, 14, 5-8, con la

variante «E voci e suoni d’angeli concordi /

tosto in aria s’udir, che l’alma uscìo; / la qual

disciolta dal corporeo velo / fra dolce melodia

salì nel cielo»).

16. Sui suoni nell’Orlando furioso si veda

Mirollo 1988; Rolfs 1978, pp. 151-169.

17. Mirollo 1988.

18. Of A XIV, 56, 1-8 (C XVI, 56, 1-8, con la

variante «L’alto rumor de le sonore trombe /

de’ timpani e de’ barbari stromenti, / giunti

al continuo suon d’archi, di frombe, / di

machine, di ruote e di tormenti; / e quell

di che più par che ’l ciel ribombe, / gridi,

tumulti, gemiti e lamenti; / rendeno un alto

suon ch’a quell s’accorda, / con che i vicin,

cadendo, il Nilo assorda»).

19. Of A XXIX, 86, 1-4 (C XXXI, 87, 1-4).

20. Of C XV, 14-15.

21. Of C XV, 15, 1-6.

22. Of C XV, 53-4.

23. Of C XX, 88-94.

24. Of C XXII, 20-22.

25. Of C XXXIII, 119-125.

26. Vedi la bibliografia a corredo della scheda

(Tav. 5), in particolare Shalem 2004, pp. 4-5

e Shalem e Glaser 2014, vol. I, pp. 264-270,

vol. II, pp. 70-71.

27. Of A XII, 90, 4 (C XIV, 90, 4).

28. Of A XII, 97, 3 (C XIV, 97, 3).

29. Bardi, In difesa dell’Ariosto, citato in Cavicchi

2011, p. 287.

30. Ibid., pp. 268-270, 280-282.

31. Giovan Battista Giraldi Cinzio, Discorso

intorno al comporre dei romanzi, Venezia,

Gabriele Gioliti de Ferrari, 1554, pp. 6-7.

32. Fenlon 2016, pp. 86-87; Cavicchi 2013; Salzberg

e Rospocher 2012.

33. Cavicchi 2011, p. 284; vedi anche Fenlon

2016 e Salzberg e Rospocher 2012.

34. Giovanni Battista Pigna, Scontri de’ luoghi,

(Osservazione LII), Libro III di I romanzi,

Venezia, Valgrisi, 1554, citato in Cavicchi

2011, p. 285, e Fenlon 2016, p. 95.

35. Gioseffo Zarlino, Le istitutioni harmoniche

(Venezia, Francesco dei Franceschi, 1559),

III. 79, citato in Haar 2004, p. 179 e Fenlon

2016, p. 92.

36. Haar 2004, pp. 179-180; Haar 1981, pp.

31-46; Fenlon 2016, p. 89; Cavicchi 2011, pp.

278-280.

37. Prizer 1985, p. 24.

38. Haar 1981, p. 40.

39. Si veda Balsano 1981b, pp. 50-78; Haar 2004,

p. 184.

40. Jacquet de Berchem, Capriccio… con la

musica da lui composta sopra le stanze del

furioso (1561), si veda Haar 2004, p. 41.

41. Francesco Caburacci, Defence of Orlando

Furioso, 1580, citato in Javitch 1991, p. 14.

42. Si veda Welch 2012, pp. 31-32, e Fenlon 2016,

p. 95.

318 319



ALBERTI

IN ARIOSTO

LUCIA BERTOLINI

Sul finire del 1462, o all’inizio dell’anno successivo, Carlo di Lorenzo Alberti, il fratello del

più noto architetto e scrittore, lamentando di essere affetto dalla gotta, inneggiava in un

breve e malcerto epigramma alla scoperta del petrolio e all’illustrazione che dei presunti

poteri farmacologici del nuovo ritrovato aveva fatto Francesco (Peregrino) di Princivalle Ariosto

(c. 1415-84) nel suo De oleo Montis Zibinii. 1 L’episodio (niente più che una coincidenza) non

riguarda Leon Battista Alberti, né Ludovico Ariosto né, infine, il ramo familiare di quest’ultimo

(il Francesco di cui trattasi non è infatti lo zio di Ludovico, figlio di Rinaldo), eppure

esso risulta emblematico del panorama entro il quale inscrivere la questione della presenza di

Alberti in Ariosto, che, a limitarsi alle menzioni esplicite, si ridurrebbe alla citazione esemplare

dell’architetto, le cui invenzioni pure non avrebbero potuto competere con il palazzo che

«fece far Gloricia incantatrice» nei Cinque canti (I, 78, 5-8: «L’oro di Creso, l’artificio e ’l senno

/ d’Alberto, di Bramanti, di Vitrui, / non potrebbono far, con tutto l’agio / di ducent’anni, un

così bel palagio»).

Come dimostra l’episodio da cui siamo partiti e che coinvolge Carlo Alberti, l’incistamento di

Leon Battista (Fig. 57) e della sua famiglia a Ferrara vanno ben al di là dei contatti più noti e

spesso citati, di carattere pubblico: l’invio o la dedica del Theogenius e del De equo animante,

e prima ancora la seconda redazione della Philodoxeos fabula a Leonello (cui si aggiunga la

probabile scrittura a Ferrara, forse su impulso di Leonello, di una prima idea di trattato architettonico

che sfocerà alfine nel De re aedificatoria); la scrittura su commissione di Meliaduse

degli Ex ludis rerum mathematicarum; a livello più privato la dedica degli Apologi centum a

Fig. 56

Dosso Dossi

Giove pittore di farfalle,

c. 1524

Olio su tela, cm 111,3 x 150

Cracovia, Castello Reale

del Wawel

320



Francesco Marescalchi. Episodi che posero le basi sia per la presenza di quei testi nelle biblioteche

di corte e private (testimonianza dunque documentariamente accertata di letture non

episodiche o occasionali di una produzione, per solito, poco diffusa), sia per il riuso a Ferrara

di quelle e altre opere albertiane (e basterà ricordare, per il secondo Quattrocento e per gli inizi

del Cinquecento, i nomi di Pandolfo Collenuccio, Pellegrino Prisciani, Boiardo e Celio Calcagnini).

2 L’epigramma di Carlo Alberti insomma accenna a possibili rapporti diretti o indiretti

dell’Alberti maggiore anche con quello staff di officiali ferraresi al quale appartenne Francesco

Peregrino Ariosto 3 e conferma la costante presenza di Ferrara nel panorama mentale di

Leon Battista (basti citare una delle sue “profezie” registrate nella Vita: «Ferrariensibus, ante

edem qua per Nicolai Estensis tyranni tempora maxima iuventutis pars eius urbis deleta est

“O amici, – inquit – quam lubrica erunt proximam per estatem pavimenta hec, quando sub his

tectis multe impluent gutte!”» [Disse a dei cittadini di Ferrara, trovandosi davanti all’edificio

in cui, al tempo del principe Niccolò d’Este, la parte più ragguardevole della gioventù ferrarese

era stata uccisa: – O amici, quanto saranno sdrucciolevoli questi pavimenti la prossima estate,

allorché gocce (di sangue) pioveranno dentro questi tetti!]). 4

In questo quadro (di natura storico-documentaria e storico-letteraria), che il Quattrocento

aveva predisposto, si accampa, ormai nell’età di Ercole I e Alfonso I, l’esperienza “albertiana”

di Ariosto. Eppure, a ben guardare, è proprio la presenza, sullo sfondo, di quel panorama (che

Fig. 57

Ritratto di Leon Battista

Alberti, 1435

Placchetta in bronzo,

cm 19,7 x 13,3

Parigi, Bibliothèque

nationale de France,

Département des

Monnaies, médailles et

antiques

Fig. 58

Ludovico Ariosto

Orlando furioso,

illustrazione canto XXXIV

Venezia, Zoppino, 1536

Ferrara, Biblioteca

Comunale Ariostea

pure concreta l’esperienza dell’autore più antico da parte del più moderno) a rendere malagevole

la piena definizione di un rapporto diretto.

Più ampio spazio e maggior agio sarebbe necessario per render conto dei diversi gradi di pertinenza

degli affioramenti e delle pezze d’appoggio. Il dossier relativo ai rapporti intertestuali

fra la produzione dell’umanista quattrocentesco e le scritture del poeta ferrarese fu inaugurato

nel 1964, subito a ridosso della scoperta e pubblicazione di un manipolo consistente di intercenales

fino ad allora ignote; un dossier, al suo aprirsi, scarno quanto sicuro (la dipendenza

dall’intercenale Somnium dell’episodio del Furioso che vede Astolfo, in sella all’ippogrifo,

impegnato a recuperare sulla luna il senno di Orlando impazzito per amore: XXXIV 73-85,

Fig. 58); 5 nel medesimo dossier, in contemporanea, fu inserita la scheda che voleva il proemio

al VII libro delle Intercenales fonte di un passo della III satira di Ariosto (scheda più di recente

revocata in dubbio dallo stesso proponente che ha rintracciato un riscontro più preciso nel

Tristan en prose per spiegare Satira III 208-231). 6 Dieci anni dopo Leonzio Pampaloni rendeva

sistematico lo spoglio delle intercenales (e di altre opere albertiane, ivi compresa l’Ecatonfilea)

in prospettiva ariostesca, 7 annotando, insieme al riuso, le «profonde trasformazioni operate

dall’Ariosto sulla fonte» e distinguendo, con apprezzabile cautela, quanto rappresentava solidi

riscontri formali e quanto, viceversa, sfumava in assonanze anche spiegabili altrimenti, in convergenze

tematiche e in altri paralleli «narrativi», contenutistici e filosofici. Niente (se non ci

inganniamo) di altrettanto sicuro quanto il puntuale riscontro letterale fra Somnium e il viaggio

lunare di Astolfo si è aggiunto a quel che sappiamo sulla effettiva conoscenza delle opere

albertiane da parte di Ludovico; e nonostante che le proposte di assonanze, riscontri tematici o

affinità filosofiche siano andate nel tempo a infoltire il dossier e abbiano ormai coinvolto quasi

tutte le tappe della carriera dell’Alberti scrittore. 8

Se è utile stabilire una gerarchia fra riscontri letterali e di situazione, fra riprese formali e di

sentire, fra consonanze sorrette da appigli intertestuali e consonanze di idee, occorre anche

ricordare che la gerarchia funziona soltanto in relazione al grado, maggiore o minore, dell’evidenza

della prova. Qualche anno fa Piermario Vescovo ha accennato alla «scivolosità» di certi

raffronti, 9 e senz’altro va accolto l’invito a tener distinte le precise prove di letture di prima

mano, le riprese consapevoli dai riscontri inconsapevoli che possono anche essere determinati

322 323



dalla particolare situazione di Ferrara («la bella terra che siede sul fiume», Of III 34, 2, destinata

nella prefigurazione giovannea di quel canto a divenire, da «umil [...] e piccol borgo» «la

più adorna / di tutte le città d’Italia [...], / non pur di mura e d’ampli tetti regi, / ma di bei studi

e di costumi egregi»); insomma da quella humus intellettuale, profondamente inseminata dalle

opere albertiane, in cui Ariosto fu educato. È però altrettanto vero che, per comprendere e

valutare appieno la persistenza e/o la coniugazione di temi albertiani (primo fra tutti quello

della follia) nella maggior opera ariostesca bisogna fare i conti con l’una e con l’altra tipologia

di concordanze. Perché è proprio in tale più ampia prospettiva, che accondiscende a minor

selezione dal punto di vista filologico, che meglio risalta, accanto alle affinità tematiche, la

differente ideologia espressiva dei due autori, la cui immagine ormai criticamente invecchiata

(solida e tetragona per il più antico, aerea e ironica per il secondo) gli studiosi moderni hanno

riconnotato sottolineando in entrambe la convivenza di elementi di disagio e di risentimento. 10

Ma mentre per Alberti la disposizione delle due componenti è per così dire orizzontale (la parte

costruttiva, socialmente impegnata, del pensiero si organizza in forme letterarie e in generi

tendenzialmente separati da quelli in cui si dà sfogo all’estro umorale e dissacratorio), in Ariosto

i due elementi si dispongono in verticale nel medesimo contenitore, l’irritazione e l’amarezza

costituiscono la faglia profonda su cui si stende il sovrano armonioso distacco, rotto da affioramenti

in apparenza occasionali, che però avvertono della soggiacente e ineliminabile presenza.

1. L’epigramma è stato di recente pubblicato

in Carlo Alberti 2015, p. 201 (per il testimone

che lo tramanda e il commento si

vedano rispettivamente anche le pp. 137-138

e 395-396).

2. Per la presenza delle opere albertiane a Ferrara

vedi da ultimo Tissoni Benvenuti 2007.

Dagli inventari antichi risulta che alla fine

del Quattrocento nella biblioteca di corte

erano conservati il Canis, la Musca, la Philodoxeos,

il De equo animante, la Deiphira, il

Theogenius, gli Ex ludis e forse il De re aedificatoria;

ma fra gli intellettuali ferraresi è

certa la circolazione del De pictura latino

e del De re aedificatoria ormai stampato,

che Boiardo lesse a Ercole nel 1488 (ibid.

pp. 272-274). Per i personaggi citati a testo

nel loro rapporto con le scritture albertiane

vedi ancora Tissoni Benvenuti 2007

e Zanato 2007. La bibliografia relativa al

più generale rapporto fra Alberti e Ferrara,

anche in relazione agli aspetti artistici,

potrà essere recuperata dai saggi presenti

in Furlan e Venturi 2010.

3. Sulla verosimiglianza che anche Leon Battista

conoscesse Francesco di Princivalle

Ariosto si veda l’introduzione di A. Martelli

in Carlo Alberti 2015, p. 53; per gli officii,

soprattutto esterni, rivestiti da Francesco

Ariosto si rinvia a Quattrucci 1962.

4. Cito il testo dell’autobiografia albertiana (§

76) da Alberti 2010, p. 995, ma offro una mia

traduzione, qua e là divergente da quella

proposta dal curatore, Roberto Cardini.

5. Martelli 1964, p. 168: «Non solo l’idea centrale,

la bizzarra affascinante fantasia

di raccogliere in un paese immaginario

tutto ciò che si perde in terra, è all’Ariosto

suggerita dal dialogo dell’Alberti; ma

molti fra i simboli del Somnium ritornano

puntualmente nelle ottave del Furioso; e

perfino certi particolari, che potrebbero

sembrare di secondaria importanza, l’Ariosto

ritiene utile d’imitare, svelandoci

nello stesso tempo quale profonda impressione

avesse fatta su di lui la lettura della

prosa albertiana.» Si veda anche Segre

1965 (ed. 1966).

6. Segre 1965 (ed. 1966); poi Segre 1986 (ed.

1990) e Segre 1988 (ed. 1990).

7. Pampaloni 1974; la successiva citazione a p.

318.

8. Un resoconto aggiornato delle varie proposte

(che coinvolgono sul versante volgare i

Libri de familia, l’Ecatonfilea, Theogenius, e

sul versante latino il Momus e le intercenales,

comprese anche le due bilingui Uxoria e

Naufragus) è in Dorigatti 2010, con i rinvii

alla bibliografia precedente.

9. Vescovo 1999, p. 419 nota 4: «Sul fronte della

critica ariostesca [...] si è tentato di saggiare

l’allargabilità dei rapporti con l’Alberti

delle Intercenali oltre a Somnium, scivolando

talora dai riscontri testuali a meno

facilmente comprensibili tentativi di istituire

linee di una continuità “ideologico /

tematica”». Si veda per contro Villa 2000.

10. Troppo nota la vicenda critica dei due autori

perché sia necessario produrre in extenso

una bibliografia di dimensioni ormai molto

ampie; valgano, a titolo esemplare, i nomi di

Eugenio Garin per l’Alberti e di Lanfranco

Caretti per Ariosto.

324 325



VITE PARALLELE.

ARIOSTO E

CASTIGLIONE

MARIA CRISTINA CABANI

Baldassarre Castiglione nasce a Casatico (Mantova) nel 1478 e muore a Toledo, dove risiedeva

come ambasciatore del papa presso Carlo V, nel 1529 (Fig. 59); Ludovico Ariosto

nasce a Reggio Emilia nel 1474 e muore a Ferrara, al ritorno da un viaggio intrapreso al

servizio di Alfonso, nel 1533 (Fig. 60). Entrambi muoiono un anno dopo la pubblicazione dell’opera

a cui hanno lavorato per almeno venti anni: la prima redazione del Furioso risale al 1516,

la terza al 1532 (del 1521 è la seconda); Castiglione inizia a lavorare al Cortegiano dal 1508 e lo

completa nel 1524, ma lo pubblicherà solo nel 1528. Nella lunga vicenda compositiva e nell’intenso

lavorio variantistico che contraddistinguono i due capolavori gioca un ruolo determinante

l’uscita nel 1525 delle Prose della volgar lingua di Bembo. In effetti, pur arrivando a soluzioni

linguistiche in gran parte diverse, Ariosto e Castiglione rivedono i loro testi secondo una precisa

direzione “italiana”. Le loro vite, dunque, corrono parallele: frequentano corti molto simili e,

spesso, intrecciano rapporti con le stesse persone. Anche la veste editoriale con la quale furono

stampate mostra che le loro opere erano destinate a uno stesso pubblico; in esse, insomma, si

respira quella che potremmo definire un’aria comune. Tuttavia, la vulgata secondo la quale i due

autori sarebbero stati legati da sentimenti di amicizia e di stima non trova riscontro nei fatti e

neppure negli scritti, che lasciano trapelare, piuttosto, una cortese dissimulazione e una sostanziale

volontà di ignorarsi.

L’incontro fra i due può essere avvenuto a Urbino, nella primavera del 1507, quando Ariosto,

diretto a Roma, sostò presso i Montefeltro. È probabile che in quell’occasione Ludovico abbia

letto brani del poema che stava scrivendo, e proprio nel 1507 è ambientato il Cortegiano, ma nella

sua ultima redazione, benché il dialogo sia affollato di personaggi famosi, Ariosto è assente. Ciò

non toglie che le testimonianze certe di una loro reciproca conoscenza si ricavino proprio dagli

scritti. Nella seconda redazione Castiglione citava «messer Ludovico Ariosto» fra i «chiari ingegni

che sono ora al mondo». 1 Lo citava, dopo Bembo (che è pure uno dei dialoganti) e Sannazaro,

entro una serie nutrita di poeti cortigiani: Postumo, Tebaldeo, Bendedei, Muzzarelli, Fausto Maddalena.

Non sappiamo a quale Ariosto Castiglione pensasse; probabilmente a quello, certo non il

migliore, delle Rime. Lo lascia credere il fatto che lo elogi fra coloro che hanno pigliato «subbietto

solamente dalla bellezza e virtù delle donne»: una caratterizzazione, questa, che potrebbe valere

tanto per l’Ariosto delle Rime quanto per quello del poema se non fosse che il suo inserimento in

Fig. 59

Raffaello Sanzio

Ritratto di Baldassarre

Castiglione (part.), 1514-15

Olio su tela, cm 82 x 67

Parigi, Musée du Louvre

326



quel gruppo fa pensare piuttosto al poeta lirico. Nell’ultima redazione del dialogo, però, Ariosto

non compare più. È vero che qui Castiglione elimina anche gli altri autori che nella precedente

aveva menzionato insieme a lui; se però si ritiene che la loro cancellazione sia dipesa dal fatto che

essi, in gran parte defunti, a quell’altezza cronologica erano ormai da considerarsi «fantasmi» di

una «effimera stagione della letteratura cortigiana» (Quondam 2000), allora quella di Ariosto,

ancora vivo e ormai famoso, appare quasi oltraggiosa.

Nello stesso periodo in cui Castiglione lavora alla seconda redazione, Ariosto nella Satira III,

90-94, pur senza nominarlo, lo ricorda insieme a Bembo e agli altri personaggi della «feltresca

corte» «sacri al divo Apollo» con la definizione: il «formator del cortigiano». Un concetto che poi

Ariosto ripeterà, quasi con le stesse parole, nella rassegna di autori che hanno celebrato le donne

collocata nell’esordio del canto XXXVIII (aggiunto nella terza redazione) del Furioso, rassegna

nella quale Castiglione non sarà nominato ma reso riconoscibile proprio dalla perifrasi: «c’è chi,

qual lui / vediamo, ha tali i cortigian formati». Lo nominerà invece nel canto XLII (87, 1) ancora

una volta come «elegante» celebratore delle donne famose, in compagnia di una serie di poeti

gravitanti intorno alla corte di Mantova.

Non sappiamo se le ottave del canto XXXVIII sono state aggiunte prima o dopo la morte di Castiglione.

È certo, però, che Ariosto, mentre sembra mostrarsi generoso, lodando Castiglione come

«formatore del cortegiano» nasconde nell’elogio un fondo di veleno. La stessa definizione, infatti,

Fig. 60

Palma il Vecchio

Ritratto di poeta

(Ludovico Ariosto?), c. 1516

Olio su tela, cm 83,8 x 63,5

Londra, The National

Gallery

Fig. 61

Francesco del Cossa

Marzo (part.), 1469

Affresco

Ferrara, Palazzo

Schifanoia, Salone dei

Mesi, parete est

essendo ricavata da Castiglione («avendo noi a formar un cortegiano», Il Cortegiano, XVI), solo in

apparenza è oggettiva ed esente da implicazioni negative. In realtà è anch’essa, come altre analoghe

definizioni ariostesche, un esempio di “sprezzatura” degno di un perfetto cortigiano: Ariosto

ama schermarsi dietro le citazioni, se ne serve per prendere le distanze, per dire e non dire.

Si pensi a quando, nell’esordio del canto XLVI, omaggia Pietro Aretino con l’epiteto «divino».

Benché quell’appellativo iperbolico fosse diffusissimo (e lo stesso Aretino se ne compiacesse), è

difficile ritenere che Ariosto, così diverso per cultura e per etica dal discusso Pietro, lo condividesse

effettivamente. Considerazioni analoghe si possono fare per l’espressione «il flagello /

dei principi» del canto XLVI (14, 3-4). È noto che il vanitoso Aretino proclamava di esserlo, ma

sulla sincerità dell’elogio ariostesco c’è da dubitare. Questi si limita ad assecondare la vox populi.

D’altra parte, non mancano altri esempi nei quali Ariosto ricorre a formule fatte che gli consentono

di non esprimere un giudizio personale favorendo una presa di distanza che sta al lettore

interpretare. Proprio Aretino fu uno dei primi a riprendere, con una tempestività che prova il suo

fiuto, la formula del «formar il cortegiano», dandone però una interpretazione letterale. La Cortigiana

del 1525 allude sfacciatamente, fin dal titolo, al dialogo castiglionesco ancora inedito ma

328 329



già circolante e oggetto di discussione: la “cortigiana” del titolo, infatti, è la corte di Roma che si

prostituisce. A essa approda lo stupido messer Maco per lasciarsi «formare» cortigiano da chi, in

realtà, vuole farsi gioco di lui facendogli credere che uno possa diventare cortigiano assumendo

quella “forma” grazie agli stampi conservati in un bagno termale. Con la sua feroce satira, che

demolisce ogni mito cortigiano, la commedia rappresenta il negativo del quadro idillico della

corte urbinate. Nessun intento satirico, invece, si cela nella definizione ariostesca di Castiglione;

è indubbio, però, che essa doveva già essere diventata un luogo comune, e non sempre positivo,

come mostra Aretino.

L’elogio del Furioso non coincide del tutto con quella della satira. Mentre in questa Ariosto parla

di una «feltresca corte» nella quale «col formator del cortigiano, / col Bembo e gli altri sacri al

divo Appollo, / [Giuliano de’ Medici] facea l’essilio suo men duro e strano» (III 90-3), nel Furioso,

elencando per nome gli elogiatori delle donne, allude a Castiglione con una formula leggermente

diversa perché modificata da un’aggiunta: «qual lui / vediamo, ha tali i cortigian formati», vale a

dire, ha formato i cortigiani avendo a modello se stesso. Quell’inciso («qual lui vediamo»), di per

sé ambiguo, perché il lettore non è in grado di capire se implichi un giudizio negativo o positivo,

ha alle spalle una storia che aiuta a precisarne il senso. Alla fine della lettera di dedica a Michel de

Silva, Castiglione scriveva: «Alcuni ancor dicono ch’io ho creduto formar me stesso, persuadendomi

che le condizioni, ch’io al cortegiano attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio

già negar di non aver tentato tutto quello ch’io vorrei che sapesse il cortegiano; e penso che chi

non avesse avuto qualche notizia delle cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato,

mal avrebbe potuto scriverle; ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi

presuma saper tutto quello che so desiderare.»

Con queste parole rispondeva indirettamente a Vittoria Colonna, che in una lettera indirizzatagli

il 20 settembre 1524 aveva osservato: «Che [lei] abbia ben formato un perfetto cortegiano non

me ne meraviglio, ché con solo tenere uno specchio denanzi et considerare le interne et externe

parti sue, posseva descriverlo qual lo ha descritto; ma essendo la maggior difficoltà che habbiamo

conoscer noi stessi, dico che più difficile li è stato formar sé che un altro.»

Quello che nelle intenzioni della Colonna quasi sicuramente voleva essere un elogio, forse non

era stato del tutto gradito da Castiglione, se egli ritenne opportuno inserirlo fra le “accusazioni”

alle quali rispondere nella lettera di dedica: «alcuni dicono ch’io ho creduto formar me stesso».

Con la sprezzatura che gli è consueta, in quel contesto Castiglione si scherma dietro una doppia

negazione («A questi tali non voglio già negar») per poi negare di aver voluto fare un ritratto

di se stesso allegando un topos modestiae («non presumo di avere tanti doti quante ne immagino

nel mio cortigiano»). Ma è il tono risentito della lettera, che inizia proprio con un’accusa

diretta a Vittoria Colonna, colpevole di aver fatto trascrivere parti dell’opera a insaputa dell’autore,

a generare il sospetto che Castiglione non avesse gradito i complimenti della Marchesa e li

avesse recepiti piuttosto come «accusazioni». Mi chiedo allora se il malizioso Ariosto fosse del

tutto innocente quando inserì in enjambement un inciso che sembrava ribadire proprio quell’«accusazione».

Mi chiedo inoltre se per Ariosto il termine «cortigiano» abbia davvero quel valore

positivo che sicuramente gli attribuisce colui che si presenta come «formatore del perfetto cortigiano».

Anche di ciò è possibile dubitare. Prescindendo dalle Satire, quando nel Furioso parla

della corte e dei suoi funzionari Ariosto non abbandona mai il tono sarcastico, per non dire che

la corte vi è descritta come un luogo di invidia, di falsità e di ingannevoli rapporti (Fig. 61). Lui

stesso, cortigiano suo malgrado, manifesta in più occasioni il proprio disagio nei riguardi del

potere dal quale dipende.

Un’irriverenza più grave nei riguardi di Castiglione è l’averlo escluso dalla rassegna di personaggi

del canto XL (poi divenuto, nel ’32, il XLVI): una rassegna vasta, generosa di nomi e in

progressivo accrescimento. Non ammesso nel ’16 e nel ’21, Castiglione non lo sarebbe stato nemmeno

nel ’32, tre anni dopo la sua morte. Le scelte fatte in quest’ultima redazione del poema,

dunque, non potevano più interessarlo, ma ci dicono qualcosa sulla stima che Ariosto ne aveva,

1. In una redazione ancora precedente l’elogio

era un po’ più esplicito. Infatti, anche

se nemmeno in quel contesto Castiglione

nominava il Furioso, faceva pensare che ad

soprattutto al confronto con il trattamento riservato a Pietro Bembo. Nella prima redazione,

assenti entrambi dalla rassegna finale, i due comparivano appaiati nel canto XXXVIII («Iacobo

Sadoleto e Pietro Bembo. / Uno elegante Castiglione», 83-84). Ma nel 1532 il nome di Bembo

troneggia isolato e disteso ampiamente nell’enjambement: «là veggo Pietro / Bembo, che ’l puro

e dolce idioma nostro, / levato fuor del volgare uso tetro, / qual esser dee, ci ha col suo esempio

mostro» (15), mentre quello di Castiglione continua a essere assente. Si noti che Bembo, già celebrato

per due volte come poeta d’amore, qui è elogiato come normatore dell’italiano idioma. Se

l’affermata centralità di Bembo come legislatore linguistico va interpretata come una presa di

posizione di Ariosto sulla questione della lingua, è possibile che l’esclusione di Castiglione sia

in qualche modo legata a un rifiuto delle sue scelte linguistiche e a quanto della questione egli

scrive nel dialogo e nella lettera prefatoria. Ma se fosse così, perché Ariosto avrebbe fatto spazio

a un Mario Equicola («Mario d’Olvito» morto nel 1525), scrittore demodé, orientato verso scelte

linguistiche ormai sorpassate e ripetutamente ridicolizzate proprio dal suo vicino nella rassegna,

il terribile Aretino? In realtà, uno dei criteri che hanno guidato le scelte di Ariosto è stato quello

dell’amicizia, tanto è vero che nella rassegna nomi illustri allignano accanto a poeti minori o,

addirittura, a improvvisatori, del genere di quell’Andrea Marone, compagno di Ariosto al servizio

di Ippolito. Ebbene, anche questo criterio non sembra esser valso per Castiglione, nonostante

lo stretto legame che lo aveva unito ad Alfonso Ariosto, cugino di Ludovico. 2

Castiglione non è il solo illustre escluso dalla rassegna del canto XL, anche Machiavelli non è vi

nominato. E proprio il caso di Machiavelli, il quale non si era astenuto dal commentare subito

la propria esclusione – lamentandosi con Lodovico Alamanni nel 1517 scriveva di essere stato

lasciato indietro «come un cazo» (cfr. Tav. 68) – dimostra quanto gli scrittori fossero sensibili a

quel genere di riconoscimento. Castiglione, più elegantemente, si limitò a ignorare Ariosto fino a

cancellare il suo nome dall’ultima redazione del Cortegiano.

esso si riferisse quanto aggiungeva a fianco

del nome di Ariosto: «che in un solo ci dà

Omero e Menandro».

2. La tradizione riferisce che Ariosto avesse

progettato di scrivere una satira alla morte

di Alfonso, dopo il 1525, e di dedicarla a

Castiglione. Ma di essa non si ha traccia.

330 331



LUDOVICO ARIOSTO,

IL POEMA E LA STORIA

MARCO DORIGATTI

Una vicenda esistenziale ricca di affetti ma costellata da delusioni, quella del poeta. Un

periodo storico in cui risuonano eventi locali come pure di rilevanza europea. Fattori,

l’uno e l’altro, che si imprimono nella storia compositiva del poema, la cui prima edizione

uscì a Ferrara il 22 aprile 1516 facendosi, al suo apparire, specchio di un’epoca e di una

società uniche e irripetibili. 1 In essa si possono distinguere tre momenti o fasi che hanno una

valenza sia storica che autobiografica: la stagione di Ippolito, l’eroe della Polesella (1509), quella

di Alfonso, il vincitore a Ravenna (1512), e quella di Francesco I, la cui discesa in Italia (1515)

segna un momento di grande aspettativa con il quale si cala il sipario sul primo Furioso. A queste

tre fasi se ne deve aggiungere una quarta, che è l’epoca di Carlo V durante la quale fu completata,

nel 1532, la redazione finale del poema in 46 canti. Quattro stagioni fortemente caratterizzate ma

accomunate da un unico punto di osservazione: lo sguardo di un poeta non soltanto spettatore ma

anche partecipe delle vicende che stiamo per raccontare.

1. Nel segno di Ippolito

Indeterminato l’inizio della composizione, variamente fissato tra il 1504 e il 1506. La data di

nascita dell’Orlando furioso per così dire ufficiale, quella che ci fornisce la prima notizia dell’opera,

è il 3 febbraio 1507, giorno in cui Isabella d’Este inviava una missiva al fratello Ippolito per

ringraziarlo di aver mandato a Mantova, in occasione della nascita del figlio Ferrante, Ludovico

Ariosto (Tav. 17). Alla puerpera, nota appassionata di letteratura cavalleresca, il poeta aveva letto

dei brani del manoscritto che aveva portato con sé. Il quale, faceva sapere Isabella, «mi ha adduta

gran satisfactione havendomi, cum la naratione de l’opera che ’l compone, facto passare questi

dui giorni, non solum senza fastidio, ma cum piacere grandissimo». 2 Il poeta ne diede un saggio

anche ad Ottaviano Fregoso ad Urbino, proprio al tempo delle amene conversazioni del Cortegiano

in cui figura tra gli interlocutori. 3

Il 1509 è l’anno in cui la storia vi entra di forza, con una serie di eventi che si direbbero registrati

in presa diretta, a partire dalla carneficina di Agnadello sull’Adda (14 maggio) con cui Luigi XII

metteva freno alle ambizioni espansionistiche della Repubblica di Venezia (Of AB XV 4, 5-8; C

XVII). 4 Poi, in una pausa tra le stragi sanguinose, si colloca (5 luglio) una lettera del duca Alfonso

nella quale richiedeva ad Ippolito copia di «quella gionta fece m. Lud. co Ariosto a lo Innamoramento

de Orlando», 5 che presumeva nelle sue mani. Ma perché Alfonso si rivolgeva a lui e non

Fig. 62

Tiziano Vecellio (copia da)

Ritratto di Alfonso I d’Este,

XVI secolo

Olio su tela,

cm 154,7 x 123,3

Firenze, Gallerie degli

Uffizi, Galleria Palatina.

Su concessione del

Ministero dei beni e delle

attività culturali e del

turismo

332



direttamente ad Ariosto? Questo ci fa intuire che il cardinale non solo era al corrente dell’opera

che impegnava il suo familiare, ma anche la seguiva da vicino. A questo proposito occorre sfatare

l’immagine di un cardinale, dispotico e sordo alle ragioni dell’arte, quale sarà cristallizzata

dalle Satire postume al primo Furioso (la prima in special modo), sancendo di fatto una damnatio

memoriae del prelato estense. In realtà, il severo giudizio del poeta non trova riscontro prima

del 1515. La figura di Ippolito – dedicatario, personaggio e interlocutore –, connaturata com’è

all’impianto dell’Orlando furioso, lo sovrasta e non è rimovibile, e la voce del poeta – occorre credere

– non meno cordiale nei suoi confronti che verso Isabella. La richiesta di Alfonso conferma

comunque che la voce di una “gionta” ariostesca già circolava nella corte estense.

Nello stesso anno (1509) va registrato un episodio legato alla guerra della Lega di Cambrai.

Padova, conquistata dalla Serenissima, era assediata da Massimiliano I d’Austria e sottoposta

ad un pesante bombardamento (15-30 settembre), il che forniva al poeta lo spunto per un inciso,

rivolto al cardinale, che funge da paragone alla forza distruttiva di Rodomonte: «Signor, havete a

creder che bombarda / mai non vedeste a Padoa così grossa / che tanto muro possa far cadere, /

quanto fa in una scossa il Re d’Algiere» (AB XIV 27, 5-8; C XVI). L’inciso fa appello ad un ricordo

personale («vedeste»). All’evento, infatti, Ippolito era presente di persona, inviatovi da Alfonso

con una scorta di soldati.

Di altro evento, svoltosi due mesi dopo sulle rive del Po nel corso dell’annosa guerra tra Ferrara e

Venezia, testimone oculare fu il poeta stesso (30 novembre), che assistette («vidi») all’atto coraggioso

di due combattenti estensi: l’adolescente Ercole Cantelmo che sotto gli occhi trepidanti del

padre (Sigismondo, duca di Sora) si spinse oltre le linee nemiche al seguito del proprio capitano,

Alessandro Faruffino: «Salvossi il Faruffin, restò il Cantelmo. / Che cor, Duca di Sora, che consiglio

/ fu allhora il tuo, che trar vedesti l’elmo / fra mille spade al generoso figlio, / e menar preso

a nave, e sopra un schelmo / troncarli il capo?» (XXXIII 7, 1-6 AB; XXXVI C). L’impresa di Ercole

e Alessandro – invero tragica, ma riscattata poeticamente tanto da rendere i due protagonisti dei

novelli Cloridano e Medoro – entra così a far parte della leggenda estense che il poeta andava

costruendo.

Tre settimane dopo, su quelle stesse rive, in quella terra del Polesine da sempre contestata fra

Venezia e Ferrara, si sarebbe svolto uno scontro decisivo: la battaglia della Polesella (22 dicembre).

Si tratta della prima di due battaglie formanti un dittico elevato dal poeta alla stregua del

mito, l’una in lode di Ippolito, e l’altra – la vittoria di Ravenna del 1512 – in lode di Alfonso. Un

mito che, partendo dalla storia recente e rispecchiando con precisa simmetria la gestione diarchica

del potere, fonda la gloria della moderna dinastia estense. Nel caso di Ippolito, l’elogio fa

presa su un fatto particolarmente brillante, ossia la cattura di quindici galee veneziane, un’impresa

che si inscrive nel poema già a partire dal canto terzo:

costui con pochi a piedi e meno in sella

veggio uscir mesto, e poi tornar iocondo,

che quindeci galee mena captive,

oltra mill’altri legni, alle sue rive.

ABC III 57, 5-8

È un motivo encomiastico che consente al poeta infinite variazioni, dando rilievo di volta in volta

a qualche particolare diverso, realistico o suggestivo. E tutto questo nonostante che Ariosto (a

dispetto del «veggio» di III 57, 6) non potesse essere presente all’evento, avendo dovuto precipitarsi

«con molta fretta e molta a i piedi santi / del gran pastore – intendasi Giulio II – a dimandar

soccorso» (AB XXXVI 3, 3-4; C XL) per Ferrara, stremata dal conflitto al punto da dover impegnare

i gioielli della duchessa Lucrezia. 6 Fu qui che il 25 dicembre Ariosto apprese la notizia

della vittoria estense, e lo stesso giorno mandò un dispaccio al cardinale con cui se ne congratulava:

«Me ne sono alegrato, ché oltra l’util pu‹blico la mia Musa ha›verà historia da dipingere nel

padiglione del mio ‹Ruggiero a nova la›ude de V. S.». 7 Dove si osserverà anzitutto il tono cordiale

e partecipe, indizio di un rapporto che a questa data si manteneva ancora aperto e fiducioso; da

parte sua, il cardinale doveva quantomeno conoscere il luogo del poema a cui Ariosto accennava

senza altro preambolo. E si noterà anche un altro particolare: secondo la lettera (e così nella

realtà) la vittoria militare fu ottenuta da Ippolito «insieme col Duca», grazie cioè al contributo

non indifferente della sua artiglieria. Ma nel poema Ippolito è presentato come il solo protagonista:

sua ed esclusivamente sua, in questo caso, la palma della vittoria. Ciò è evidente anche

nella nuova «historia» che Ariosto prometteva di inserire nel padiglione di Ruggiero, secondo

cui Ippolito sconfigge l’armata veneziana «et al fratel captiva / la dà con ogni preda» (AB XL 70,

5-6; C XLVI 97). È l’inserto che, aggiungendosi alla vita di Ippolito ricamata sul padiglione (ivi,

A 57-71; B 57-70; C 85-97), ne consacra la memoria iscrivendola sotto il titolo di pater patriae («del

nome herede / che Roma a Ciceron libera diede», AB 68, 7-8; C 95).

2. È di scena Alfonso

Il 15 febbraio 1510 Giulio II firmava la pace con gli ambasciatori veneziani, creando le basi di

un’alleanza di stati italiani in funzione antifrancese (poi consolidatasi nella Lega Santa) che per

Ferrara, fedele a Luigi XII e alla Francia, avrà conseguenze disastrose. L’ex alleata del papa ad un

tratto diveniva sua nemica. Dopo aver intimato al cardinale Ippolito di presentarsi al suo cospetto

e aver scomunicato Alfonso, il 22 settembre il pontefice si metteva alla testa di un esercito con cui

si stringeva la morsa attorno a Ferrara. Toccò ad Ariosto anche stavolta recarsi a Roma e tentar

di rappacificarlo, in tre missioni diplomatiche dimostratesi vane (24 maggio, 10 e 21 agosto); ma

alla terza venuta Sua Beatitudine montò su tutte le furie, e il povero postulante – riferisce il cardinale

– «fu minazato d’essere butato in fiume se non se le toleva denante». 8 Quest’esperienza, a

cui Ariosto farà risalire l’inizio della sua malattia, lo segnò profondamente: «andar più a Roma in

posta non accade / a placar la grande ira di Secondo». 9 E forse, causa l’intensa attività diplomatica,

la composizione andò a rilento.

Ma se fin qui l’attenzione di Ariosto si era appuntata quasi esclusivamente su Ippolito, occorreva

ora (1511), onde ripristinare l’immagine di una più simmetrica diarchia (secondo il binomio «el

giusto Alphonso e Hippolyto benigno», ABC III 50, 2), portare in primo piano la figura del principe

che ancora restava nell’ombra. Ciò fa sì che d’ora in avanti il riflettore si punti su Alfonso, il

protagonista della nuova fase (Fig. 62). La prima immagine che di lui ci presenta il poema è un’istantanea

che lo coglie nel clima di pericolo, caratteristico di questo periodo:

A grande uopo gli fia l’esser prudente

e di valor assimigliarsi al padre,

che se ritrovarà con poca gente

da un lato haver le Venetiane squadre,

colei da l’altro, che più giustamente

non so se devrà dir matrigna o madre;

ma se pur madre, a lui poco più pia

che Medea a’ figli o Progne stata sia.

ABC III 52

Quello che si instaura col voltafaccia papale è un clima di instabilità, di alleanze rovesciate, di

comportamenti etici e politici sempre nuovi e imprevedibili. Ne dà prova il proemio al canto

XXXV A (1-10), soppresso nelle redazioni successive (BC), in cui si profila per la prima volta la

figura del cardinale Giovanni de’ Medici, inviato a Bologna da Giulio II, suo zio, nel ruolo di

legato pontificio (1 ottobre) onde coordinare di lì l’esercito della Lega Santa.

All’inizio del 1512 ferveva lo scontro sotto la fortezza di Bastia, tenuta dalle truppe ispano-pontificie,

allorché si verificò un incidente. Un masso proveniente da un merlo della fortezza colpì

334 335



Alfonso sulla fronte (13 gennaio) facendolo credere morto. Ariosto se ne servirà per ampliare il

suo mito, trasformando una potenziale tragedia in un motivo di trionfo. Ecco allora che l’infortunio

del duca cambia l’esito della battaglia, rovesciandolo a suo favore: a quella vista i soldati ferraresi

si scagliano contro la guarnigione spagnola con tale ferocia da non lasciarne vivo neppure

uno (cfr. III 54, 5-8 e XXXVIII 3-5). La rappresaglia delle milizie estensi fu invero crudele, ma

secondo il poeta non imputabile ad Alfonso. Il fatto che questi si trovasse tramortito lo scagiona

da ogni responsabilità: «Se in piedi erate voi, forse minore / licentia havriano havute le lor spade»

(ivi, 4, 3-4). Con ciò Ariosto regalava ad Alfonso sia una vittoria bellica che una vittoria morale:

un atto così inumano sarebbe stato indegno di un principe cavaliere.

Di lì a soli tre mesi Alfonso si trovava ad affrontare l’impresa suprema, quella che gli darà gloria

imperitura: la battaglia combattuta nei pressi di Ravenna la domenica di Pasqua (11 aprile 1512)

tra l’esercito francese e le forze ispano-pontificie della Lega Santa. Alfonso vi partecipò con un

contingente di trecento soldati; ma furono le sue famose artiglierie, a quel tempo le più avanzate

d’Europa, a determinare l’esito del conflitto. Eppure, non così il fatto apparirà ad Ariosto nel

momento di iscriverlo nel Furioso: qui il ruolo dell’artiglieria viene sottaciuto di proposito (preludio

a quella che, nella redazione C, si farà aperta polemica contro le armi da fuoco) e la vittoria è

ottenuta «col senno e con la lancia». Nel poema, cioè, diventa impresa cavalleresca:

Costui serà, col senno e con la lancia,

c’havrà nela pinifera campagna

gloria d’haver l’exercito di Francia

vincitor fatto contra Iulio e Spagna […].

ABC III 55

Grave fu il colpo inflitto alla “superba febbre” di Giulio II; se quel giorno non fu sconfitto «il

Giglio» (di Francia, ma è anche emblema estense), a lui «si deve il triomphal alloro» (XII 4, 5).

Con questa «gran vittoria» di cui si coronava la fronte Alfonso, Ariosto completava il dittico di

battaglie estensi, allineando il fatto d’arme alfonsino all’altro, non meno memorabile, del fratello,

cui fa da pendant.

In estate giunse ad Ariosto una nuova richiesta dell’opera, stavolta da parte del marchese di Mantova

Francesco Gonzaga. Rispondendogli (14 luglio), Ariosto si diceva dispiaciuto di non poterla

soddisfare perché «el libro […] è anchora scritto per modo, con infinite chiose e liture e trasportato

di qua e de là, che fôra impossibile che altro che io lo legessi». 10 Di ciò poteva far fede la

marchesa, «alla quale (quando fu a questi giorni) a Ferrara» egli ne aveva letto «un poco», da cui

si deduce la seconda lettura documentata fatta ad Isabella d’Este. Se o quando la copia richiesta

dal suo consorte gli fosse inviata, non si sa. Ma non v’è dubbio che ormai una nuova redazione

del poema, la seconda, avesse cominciato a circolare. Lo prova un documento d’eccezione, che

ce ne conserva un’ottava, ossia il più antico lacerto testuale di quello che sarà l’Orlando furioso.

E questo grazie ad un musicista rinascimentale, Bartolomeo Tromboncino (1470-1535), che tra il

novembre 1511 e il giugno 1512, cioè nel periodo in cui si trovava al servizio di Ippolito, compose

uno strambotto a tre voci sul testo di un’ottava ariostesca, Queste non son più lachryme (Tav. 21). 11

Intanto Alfonso aveva lasciato Ferrara (23 giugno) per recarsi a Roma dove era stato assolto dalla

scomunica (9 luglio); ma allorché il papa pretese anche la liberazione di Giulio e Ferrante nonché

la cessione del dominio di Ferrara, Alfonso si diede alla fuga (19 luglio) e per quasi tre mesi restò

latitante, impegnato in un tortuoso quanto fortunoso viaggio di ritorno. A settembre Ariosto si

unì alla scorta di Alfonso e insieme si fermarono a Firenze dove era da poco caduta la Repubblica.

Ciò aveva permesso il rientro dei Medici, tra cui quel cardinale Giovanni, legato pontificio.

Nei mesi seguenti la situazione di Ferrara precipitò. Lo stato estense aveva quasi cessato di

esistere. Non restava che la città, tragicamente sola nell’ora del pericolo. Nella primavera del

1513 Giulio II ordinava l’offensiva finale e stavolta Alfonso non aveva scampo. Dentro la città

accerchiata il duca «si preparò virilmente alla resistenza. Fece tregua coi Veneziani, fortificò la

capitale e raccolse un buon numero di armati». 12 Già si attendeva l’irruzione dell’esercito nemico

quand’ecco, la notte tra il 20 e 21 febbraio, un miracolo insperato: a Roma una febbre violenta

assalì e sconfisse il papa battagliero. La fama vuole che spirasse con una maledizione sulla bocca:

«Fuori d’Italia, Franzesi; fuori, Alfonso d’Este!». 13

Era giunto il momento lungamente atteso da Giovanni de’ Medici. L’11 marzo «venne il dì che la

Chiesa fu per moglie / data a Leone» (Sat., VII 58-59), e il 12 Ariosto fu inviato prima a Firenze

e poi a Roma allo scopo di rendere omaggio al novello “sposo”: l’accoglienza deludente che gli

riservò l’amico improvvisamente sublimato «al sommo degli uffici» (Sat., III 87) sarebbe divenuta

uno degli episodi più memorabili della sua biografia. 14

Ora, non molto dopo l’elezione di Leone X (se ne vedrà la ragione), Ariosto fece un intervento sul

manoscritto; espunse due ottave e le sostituì con una che racchiude un accorato appello al nuovo

pontefice: «Tu, gran Leone, a cui premon le terga / de le chiavi del ciel le gravi some […]» (AB XV

79; C XVII). In esso risuonava più d’una canzone del Petrarca, tra cui la celebre Italia mia (RVF

128), venendo così a convergere con l’exhortatio ai Medici affinché si mettessero a capo della liberazione

dell’Italia dagli stranieri, con cui si conclude Il Principe di Machiavelli.

A questo punto occorre osservare che quella operata nel canto XV non è un’aggiunta, ma una

sostituzione. La sorte ha voluto che la parte sostituita, consistente in due ottave, si sia salvata,

restituendoci il profilo del canto anteriore all’intervento ariostesco. E anche questa volta la

lezione del manoscritto (α) ci è stata preservata da un musicista, il compositore fiammingo Jacquet

de Berchem, detto anche Iachetto Berchem (c. 1505-65), attivo alla corte di Alfonso II verso

la metà del secolo. Di lui resta il Capriccio (1561) contenente le due ottave cassate:

Ma tu, gran padre, ch’esser déi il primiero

a cacciar da l’Italia queste Harpie,

perché, lasciato il dritto e ver sentiero,

ivi le chiami per diverse vie?

Perché non segui il bon Silvestro e Piero?

Che fan tanti cavalli e fanterie?

Ohimè, c’hor mett’Italia in tanti affanni,

ch’uscir non ne potrà molt’e molt’anni! […]. 15

XV 79a a

Giulio II si rivela pertanto il Bonifacio ariostesco, colui che aveva lasciato che i «lupi» dilaniassero

la sua «greggia», lupo egli stesso e non già Leone, che stava per prenderne il posto. Grazie a

Iachetto, torna alla luce l’aspro rimprovero con cui il poeta incriminava il «gran padre» per i mali

che affliggevano l’Italia. Reso anacronistico dalla scomparsa di Giulio II, esso veniva sostituito

da un nuovo appello a Leone X. Ciò che premeva ad Ariosto era che il poema continuasse ad

essere specchio del presente.

3. La discesa di Francesco I

Il 1 gennaio 1515 moriva a Parigi Luigi XII e il 25, a Reims, veniva incoronato Francesco I, il quale

non tardava a rilanciare il progetto del suo predecessore e tornare alla conquista di Milano. In

agosto, varcate le Alpi con una grande armata, scendeva in Lombardia e poneva il campo nei

pressi di Marignano: lì si sarebbe svolta (13-14 settembre) quella che il comandante di parte francese

Gian Giacomo Trivulzio avrebbe definito «battaglia non d’uomini ma di giganti». Battaglia

invero cruenta quanto eclatante sarà la sconfitta degli Svizzeri. Ma sua – di Francesco I – la vittoria,

sapiente, calcolata, meritata.

In Italia Francesco I non è visto come un invasore, bensì un liberatore. «Francesco I – osserva

Anne Denis – appare in ogni senso il contrario di Carlo VIII. La sua bellezza impressiona e

336 337



rassicura perché è conforme ai canoni in voga». 16 Il vincitore di Marignano, insomma, aveva conquistato

l’Italia anche col suo fascino. Che anche Ariosto ne rimanesse ammaliato, non sorprende.

È nel canto XXIV che il poeta allargherà la tela per far posto ad un inserto (30-49 AB; XXVI C) in

sua lode – a non più di un mese e mezzo dalla consegna del manoscritto in tipografia (da fissarsi

a ridosso del 25 ottobre). Il luogo in cui viene intercalata l’aggiunta non è casuale. Si tratta del

canto in cui Malagigi e Viviano, tenuti in ostaggio dai Saracini, stanno per essere consegnati ai

Maganzesi in cambio di un ingente riscatto in oro. Liberati da Ruggiero e compagni, festeggiano

lo scampato pericolo presso «una de le fonti di Merlino» (XXIV 30, 1), adornata da bassorilievi

che hanno per tema la lotta contro la cupidigia, raffigurata come bestia «odiosa e brutta». Ciò

permette all’autore di mettere Francesco I in prima fila tra i principi cristiani che sconfiggono la

«bestia horrenda»:

Poi si vedea d’Imperïale alloro

cinto le chiome un cavallier venire

con tre gioveni a par, che i gigli d’oro

tessuti havean nel lor real vestire […].

AB XXIV 34, 1-4; C XXVI

Jossa (che vede nel Furioso del ’32 «l’adesione al sogno dell’Impero universale»). 20 Questa lettura

non pare tuttavia convincente. Anzitutto è da notare che Ariosto non sopprime, quindi non

ritratta, quanto già scritto, mantenendo intatto, pur integrandolo, l’impianto ideologico quale si

presentava all’altezza di AB. Inoltre, il suo elogio è ambiguo. «In effetti – osserva Sangirardi – la

lezione di storia profetica impartita da Andromaca ad Astolfo termina con un elogio di Andrea

Doria (60, 6-35) d’un vigore e d’una ampiezza perfino superiori a quelle di Carlo V». 21 Ma non è

tutto. Hempfer ci ricorda che «Francesco I viene elogiato anche nell’aggiunta del 1532 per la sua

vittoria sugli svizzeri a Marignano nel 1515 (XXXIII, 43)», 22 mentre per Segre, forse colui che è

andato più a fondo nella questione, «è chiaro che il suo cuore è tutto dalla parte del re francese»; 23

«A Carlo V, del resto, […] l’Ariosto rinfaccia soprattutto, pur non nominandolo, il sacco di Roma

(1527)». 24

Se così, il poeta visse gli anni che videro la messa a punto del terzo Furioso in intimo disaccordo

con le posizioni assunte dalla politica estense, nel suo cuore restando fedele ad un re sia pure

sconfitto dalla storia ma esempio vivente di cavalleria, il valore supremo del poema ariostesco.

I «tre gioveni» al suo seguito sono Massimiliano d’Austria, Carlo di Borgogna (il futuro Carlo V)

e Enrico d’Inghilterra, ma vi è anche Leone X. Si tratta di un drappello di principi uniti da una

causa comune: la sconfitta dell’abominevole «Mostro» ossia il trionfo della liberalità.

Chissà se con questo encomio Ariosto avrà guardato alla Francia come ad un possibile rifugio,

aggiungendosi a quella schiera di intellettuali che di lì a poco avrebbero trapiantato il Rinascimento

italiano alla corte di Francesco I. Dietro le speranze del poeta sta l’amara delusione che

gli aveva fatto subire Leone X ed anche – è giunto il momento di avvertire – Ippolito d’Este, il

quale non figura in prima fila e nemmeno in seconda, ma in coda. Evidente, ormai, la riluttanza di

Ariosto a concedere ad Ippolito un qualsivoglia posto onorevole nella gara di liberalità. Di contro,

Francesco I si rivela il vero eroe dell’Orlando furioso.

4. L’età di Carlo V

Ciò che colpisce in questo percorso è la caparbietà con cui Ariosto cerca di sincronizzare il presente

della storia con l’orizzonte del poema. Sorvolando sull’edizione del 1521, che registra scarsi

cambiamenti, egli cercherà di farlo anche in quella del 1532, da cui emerge un dato interessante.

Sono mutate le alleanze ufficiali («Fan lega hoggi Re, Papi e Imperatori; / diman seran nemici

capitali», AB XL 13, 3-4; C XLIV 2, 3-4), ma Ariosto non se la sente di passare dalla parte imperiale,

filospagnola.

A suggerirlo è un inserto (C XV 18-36; manca AB) aggiunto all’ultima redazione, un segmento narrativo

che – in apparenza – è una celebrazione di Carlo V e del suo ruolo provvidenziale, paragonato

al ritorno di Astrea. Con forte accento religioso (insolito in Ariosto), Carlo è detto «il più saggio

imperatore e giusto, / che sia stato o sarà mai dopo Augusto» (24, 7-8), ragion per cui la divina Bontà

«vuol che sotto a questo imperatore / solo un ovile sia, solo un pastore» (26, 7-8), secondo quanto sta

scritto nell’apostolo Giovanni (X 16: «et fiet unum ovile et unus pastor»).

Ma si tratta di una nuova posizione assunta da Ariosto all’indomani del convegno di Bologna

(novembre 1529), oppure di un omaggio a Carlo V che in realtà nasconde un che di freddo nei

suoi confronti? I pareri degli interpreti sono discordi. Secondo taluni si assisterebbe ad un atto

di integrazione ovvero di rassegnata adesione alla politica imperiale da parte di Ariosto: così

pensano, ad esempio, Rajna («È questo uno dei pochi elogi sinceri e propriamente meritati che

ci accada di ascoltare nel Furioso»), 17 Moretti (che ne deduce la rinuncia al sogno di concordia

europea accarezzato nella prima edizione), 18 Casadei (secondo cui sarebbe «la grande operazione

ideologico-culturale condotta da Carlo e dai suoi consiglieri a trovare disponibile Ariosto») 19 e

1. Per una trattazione più approfondita si

rimanda a Dorigatti 2011.

2. Isabella d’Este ad Ippolito, 3 febbraio 1507,

in Catalano 1930-31, vol. II, pp. 78-79.

3. Ad Ottaviano Fregoso, 27 febbraio 1516: si

veda Ariosto 1984, n. 17, p. 159.

4. Le sigle designano le tre edizioni originali

dell’Orlando furioso: A = Ferrara 1516; B =

Ferrara 1521; C = Ferrara 1532. Le citazioni

dalla redazione A sono tratte da Ariosto

2006; B e C da Ariosto 1960.

5. Alfonso I al cardinale Ippolito, 5 luglio 1509,

in Catalano 1930-31, vol. II, p. 93.

6. Ibid., vol. I, p. 323 n.

7. Al cardinale Ippolito d’Este, 25 dicembre

1509, in Ariosto 1984, n. 5, pp. 138-139.

8. Minute del cardinale Ippolito I, 31 agosto

1510, in Catalano 1930-31, vol. II, p. 107.

9. Sat., I 152-153: si veda Ariosto 1987.

10. Al marchese Francesco Gonzaga, 14 luglio

1512, in Ariosto 1984, n. 12, p. 151.

11. Si veda Canzoni, sonetti, strambotti et frottole.

Libro quarto, Roma 1517, cc. 3v-4r.

12. Catalano 1930-31, vol. I, p. 351.

13. Ibid.

14. Si veda la lettera a Benedetto Fantino del 7

aprile, in Ariosto 1984, n. 14, p. 154; e Satire,

III 175-186 e VII 64-69.

15. Primo, secondo et terzo libro del Capriccio di

Iachetto Berchem con la Musica da lui composta

sopra le Stanze del Furioso, Venezia

1561, pp. 66-67.

16. Denis 1998, p. 264; traduzione mia.

17. Rajna 1876, p. 261.

18. Moretti 1987.

19. Casadei 1988, p. 13.

20. Jossa 2009, p. 124.

21. Sangirardi 2012, § 18; mia la traduzione di

questo e del passo successivo.

22. Hempfer 1998, p. 234.

23. Segre 2012b, p. 206.

24. Ibid., p. 207, e si veda C XXXIII 55 (manca

AB): «Vedete gli omicidii e le rapine / in

ogni parte far Roma dolente; / e con incendi

e stupri le divine / e le profane cose ire

ugualmente [...].»

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Crediti fotografici

Bassano del Grappa, Musei Civici,

su gentile concessione del Museo

Biblioteca Archivio di Bassano del

Grappa: Tav. 59

Bergamo, su concessione della

Fondazione Accademia Carrara:

Tav. 16

Bologna, Pinacoteca Nazionale,

su concessione del MiBACT, Polo

Museale Regionale dell’Emilia

Romagna: Fig. 36

Brescia, © Archivio fotografico Civici

Musei d’Arte Antica di Brescia –

Fotostudio Rapuzzi: Tav. 7

Cambridge, © The Fitzwilliam

Museum: Tav. 2

Città del Vaticano, © Biblioteca

Apostolica Vaticana: Tav. 60

Città del Vaticano, © Musei Vaticani:

Figg. 8, 12

Cracovia, Castello Reale del Wawel,

© foto Stanisław Michta: Fig. 56

© De Agostini Picture Library /

G. Nimatallah / Bridgeman Images:

Fig. 62

Dublino, © National Gallery of

Ireland: Fig. 52

Ferrara, © Fototeca dei Musei di Arte

Antica: Tav. 34; © foto Ghiraldini /

Panini: Fig. 61

Ferrara, © foto Luca Gavagna: Figg. 10,

45, 50, 59

Firenze, © 2016 Foto Fine Art Images /

Heritage Images / Scala: Fig. 15;

© Foto Scala, Firenze / bpk,

Bildagentur fuer Kunst, Kultur und

Geschichte, Berlin: Tavv. 40, 56;

© 2016 Foto Scala, Firenze: Tav. 8;

Fig. 21

Firenze, © Fototeca dei Musei Civici

Fiorentini: Fig. 28

Firenze, Gallerie degli Uffizi, su

concessione del MiBACT: Tavv. 28, 33,

44, 53, 61; Fig. 29

Genova, © foto Paolo Airenti: Tav. 76

Londra, © The British Library Board:

Tavv. 27, 31, 57, 82; Fig. 41

Londra, © The National Gallery:

Tav. 80; Figg. 18, 30, 60

Londra, © Trustees of The British

Museum: Tavv. 18, 149; Figg. 16, 17,

23, 53

Londra, © Victoria and Albert

Museum: Tavv. 3, 4; Fig. 33

Londra, © The Wallace Collection:

Fig. 37

Lucca, Pinacoteca Nazionale di

Palazzo Mansi, © foto Lucio Ghilardi:

Fig. 11

Madrid, © Archivo fotográfico Museo

Nacional del Prado: Tav. 81

Madrid, © Museo Arqueológico

Nacional / Fernando Velasco Mora:

Tav. 39

Madrid, © Museo Thyssen-Bornemisza:

Tav. 64

Milano, © Comune di Milano, tutti i

diritti riservati: Fig. 44

Milano, Biblioteca Nazionale

Braidense, © foto Mauro Ranzani:

Tavv. 49, 62

Milano, Pinacoteca di Brera: Tav. 25

Milano, © Veneranda Biblioteca

Ambrosiana / De Agostini Picture

Library: Tavv. 32, 70; Fig. 9

Modena, © Archivio Fotografico delle

Gallerie Estensi / Carlo Vannini: Tavv.

13, 22, 42

Napoli, Archivio Fotografico del Polo

Museale della Campania, © Museo e

Real Bosco di Capodimonte, su

concessione del MiBACT: Tav. 78

New York, © The Morgan Library and

Museum: Figg. 1, 4

Ottawa, © foto The National Gallery

of Canada: Fig. 14

Parigi, © foto Bibliothèque nationale

de France: Tavv. 6, 23, 26, 65; Figg. 6,

38, 39, 40

Parigi, © foto Musée de l’Armée, Dist.

RMN-Grand Palais / Emilie Cambier:

Tav. 46; Pascal Segrette: Tavv. 71, 79;

Emilie Cambier e Pascal Segrette:

Tav. 15; © foto Musée du Louvre, Dist.

RMN-Grand Palais / Angèle Dequier:

Tav. 19; Fig. 59; © foto RMN-Grand

Palais / René-Gabriel Ojéda: Tav. 50;

Figg. 3, 19; © foto RMN-Grand Palais

(domaine de Chantilly) / Gérard Blot:

Fig. 24

Parigi, Musée Jacquemart-André, ©

Studio Sébert Photographes: Tav. 47

© 2016 Philadelphia Museum of Art:

Fig. 22

Reggio Emilia, © Fototeca della

Biblioteca Panizzi: Fig. 46

Roma, Galleria Borghese, su

concessione del MiBACT: Tav. 69

Roma, © Sovrintendenza Capitolina ai

Beni Culturali, Archivio Fotografico

dei Musei Capitolini, foto Giuseppe

Schiavinotto: Tav. 66

Tolosa, © Musée Paul-Dupuy / Daniel

Molinier: Tav. 5

Torino, Biblioteca Nazionale

Universitaria, © foto Federico

Disegni: Tav. 48

Torino, Palazzo Madama, Museo

Civico d’Arte Antica, © foto Paolo

Robino 2016: Tavv. 43, 77

Venezia, © 2016 Archivio Fotografico,

Fondazione Musei Civici di Venezia:

Tav. 10

Venezia, Biblioteca Nazionale

Marciana, © foto Shylock e-solutions:

Tavv. 1, 63; Fig. 20

Venezia, © Fondazione Giorgio Cini /

Matteo De Fina: Tav. 35

Vienna, © 2016 Kunsthistorisches

Museum: Tavv. 12, 20, 37; Fig. 32

Washington, © 2016 National Gallery

of Art: Fig. 13

Windsor, Royal Collection Trust /

© Sua Maestà la Regina Elisabetta II

2016: Tav. 11

L’editore è a disposizione di eventuali detentori di diritti che non sia stato possibile rintracciare.



Didascalie

pp. 2-3: La battaglia di Roncisvalle

(part. di Tav. 4), c. 1475-1500

p. 8: Pisanello, Ritratto di Leonello

d’Este (part. di Tav. 16), c. 1441

p. 11: Maestro del Lancelot, Galaad

viene in soccorso di Perceval (part. di

Tav. 6), ultimo quarto del XIV secolo

p. 15: Sebastiano del Piombo, Ritratto

di Andrea Doria (part. di Tav. 76), 1526

pp. 16-17: Tiziano Vecellio, Il baccanale

degli Andrii (part. di Tav. 81), 1522-24

pp. 28-29, 129: Piero di Cosimo,

La liberazione di Andromeda

(part. di Tav. 53), c. 1510

p. 31: Bartolomeo Veneto, Ritratto di

gentiluomo (part. di Tav. 2), c. 1510-15

p. 39: Grande elmo con cimiero (part.

di Tav. 12), metà del XIV secolo

p. 65: Maestro del Guiron, Re Artù e

Faramon giocano a scacchi, mentre

Bliobéris di Gaunes riceve un

messaggio del re (part. di Tav. 23),

c. 1375

p. 101: Antonio Lombardo, Marte

(part. di Tav. 42), c. 1513-15

p. 151: Sandro Botticelli e bottega,

Venere pudica, c. 1485-90 (part. di

Tav. 58)

p. 183: Michelangelo Buonarroti

(copia da), Leda e il cigno (part. di

Tav. 80), dopo il 1530

pp. 210-211: Andrea Mantegna,

Minerva che scaccia i Vizi dal giardino

delle Virtù (part. di Tav. 19),

c. 1497-1502

pp. 278-279: Paolo Uccello, San

Giorgio e il drago (part. di Tav. 47),

c. 1440

pp. 340-341: Manifattura fiamminga

su disegno di Bernard van Orley,

Battaglia di Pavia con la cattura del re

di Francia (part. di Tav. 78), 1528-31

Traduzioni

Mary Archer: saggi e schede di

Isabelle de Conihout,

Flora Dennis, Miguel Falomir,

Zofia Jackson, Olivier Renaudeau

Barbara Baroni: saggio di

Ulrich Pfisterer

© 2016 Fondazione Ferrara Arte

Tutti i diritti riservati

ISBN 978–88–89793–35–0

www.palazzodiamanti.it

Finito di stampare

nel mese di settembre 2016

da Sate Srl, Ferrara


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