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Il Giornale dei Biologi - N. 6

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Maggio 2020 | Anno III - N. 5 | www.onb.it

Il Giornale dei

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

SALUTE ED ECONOMIA

NELL’ITALIA CHE RIPARTE

Riprendono le attvità commerciali in tutto il Paese

nel rispetto delle norme sulla sicurezza sanitaria dei cittadini


Guarda Onb Tv sul sito www.onb.it

o sull’App dell’Ordine dei Biologi

II Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

Ordine Nazionale dei Biologi


Sommario

EDITORIALE

3

Lorsignori

di Vincenzo D’Anna

38

PRIMO PIANO

SALUTE

6

Covid-19, la curva epidemica si sta piegando

dal lato giusto

di Daniele Ruscitti

20

Malattia di Kawasaki. In Italia colpisce

annualmente 14 bimbi ogni 100mila

di Marco Modugno

8

9

10

Qualità dell’aria e Covid-19

di Daniele Ruscitti

Nessun rischio dall’uso di farmaci ipertensivi

di Daniele Ruscitti

Premio GreenCare 2020 ad Alessia D’Angelo

22

24

Impronta digitale microbica: tale madre

tale figlio?

di Chiara Di Martino

È la cellula madre a decidere se la cellula

figlia si dividerà

di Sara Lorusso

11

Siglato il nuovo atto costitutivo dell’Ecba

26

Le malattie professionali tabellate del 2020

di Pasquale Santilio

27

Trovato un gene che causa difetti metabolici

di Carmen Paradiso

28

Panico, ansia, traumi: come il cervello collega

eventi distanti nel tempo

di Chiara Di Martino

12

14

16

18

BIOLOGIA DEL PALAZZO

Coronavirus, il ruolo dell’Oms.

Ecco com’è andata

di Riccardo Mazzoni

Zero burocrazia e riforme strutturali. L’Italia

alla prova della ripartenza

di Riccardo Mazzoni

INTERVISTE

Anna Bagnato e la ricerca sul tumore

alle ovaie

di Carmine Gazzanni

24

78

Il “silenzio assordante” del mare in quarantena

di Carmine Gazzanni

30

32

34

36

38

40

Leggere le emozioni con un radar a onda

continua

di Sara Lorusso

Il gene che controlla l’attività elettrica cerebrale

di Marco Modugno

Malattie neurodegenerative da Trento una

chiave genetica

di Domenico Esposito

Scoperto il gene ZNF398. Consente alle

staminali di restare sempre giovani

di Domenico Esposito

Sport e calvizie: come l’attività fisica incide

sulla perdita di capelli

di Biancamaria Mancini

Il mondo si è fermato, ma non la filiera

agro-alimentare

di Maria Carlotta Rizzuto

Attualità Scienze Contatti


43

44

Riprogrammare le cellule per ringiovanire

di Carla Cimmino

Intelligenza artificiale e dermatologia

di Sara Lorusso

64

BENI CULTURALI

In Vaticano, scoperta una nuova opera

di Raffaello

di Pietro Sapia

65

L’Urlo di Munch “deumidificato”

di Felicia Frisi

STORIA E RICERCA

46

66

Il Corpus Hippocraticum e il suo contributo

al progresso scientifico

di Barbara Ciardullo

46

AMBIENTE

I patriarchi verdi del nostro Paese

di Gianpaolo Palazzo

68

La medicina nell’antichità

di Barbara Ciardullo

SPORT

48

Deforestazione e Amazzonia, così cresce

il rischio pandemie

di Giacomo Talignani

70

Tifosi di cartone, drive-in e proteste a distanza:

l’Europa torna a far gol

di Antonino Palumbo

50

52

53

Smart working, un alleato per la salute

dell’ambiente

di Gianpaolo Palazzo

Il condizionatore funziona senza elettricità

di Gianpaolo Palazzo

L’Ecologia molecolare per salvare la meiofauna

di Pasquale Santilio

72

73

74

L’ultimo ballo (in TV) di Air Jordan

di Antonino Palumbo

Riaprono palestre e piscine: ecco le regole

di Antonino Palumbo

BREVI

LAVORO

54

Il mondo caldissimo che avremo nel 2070

di Giacomo Talignani

76

Concorsi pubblici per Biologi

56

Save the Queen

di Felicia Frisi

SCIENZE

INNOVAZIONE

78

Prevedere l’insorgenza e l’impatto della demenza

di Sara Lorusso

58

Il futuro dell’ultravioletto per sanificare

le mascherine

di Giacomo Talignani

82

Esposizione ripetuta a taglie diverse

e soddisfazione del corpo

di Sara Lorusso

60

In spiaggia con i distanziatori ecosostenibili

di Felicia Frisi

86

Le basi genetiche della malattia di Alzheimer

di Giada Fedri

61

Comunità energetiche per il low-carbon

di Felicia Frisi

ECM

62

Un micro-orto a seimila km dalla Terra

di Pasquale Santilio

90

Rischio biologico da Covid-19

di Giorgio Liguori e Marco Guida

Attualità Scienze Contatti


EDITORIALE

Lorsignori

di Vincenzo D’Anna

Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

Benché sia sempre più

nota e meritoria l’azione

svolta dai Biologi,

non progredisce di pari

passo la conoscenza

dei loro meriti

nell’opinione pubblica

All’atto della mia elezione come presidente

del Consiglio dell’Ordine

Nazionale dei Biologi e fino ad oggi,

una domanda è inciampata quotidianamente

nei miei pensieri di primo rappresentante

e responsabile politico di una vasta

comunità associativa: che ruolo dobbiamo

reclamare affinché i Biologi e le scienza biologica

abbiano il giusto riconoscimento e

l’apprezzamento che è loro dovuto?

Una scienza, la Biologia, che si avvale di

nuove scoperte in vasti e sconosciuti

orizzonti, che si segnala

con cadenza continua,

all’attenzione della opinione

pubblica, per i problemi che

risolve e le speranze di ulteriori

progressi scientifici che

suscita nel mondo intero. Speranze

di poter allungare e migliorare

la vita della comunità

umana; di curarne le malattie

con diagnosi e terapie genetiche

personalizzate; di proteggere

dalla devastazione di

origine antropica l’ecosistema

mondiale, riducendo l’impatto negativo

dell’ambiente inquinato sul patrimonio genetico

dell’umanità, un danno epigenetico il

cui progressivo ampliarsi minaccia il basilare

principio biologico di conservazione delle

specie e della biodiversità.

E tuttavia, ancorché sia sempre più nota

e meritoria l’azione svolta dai Biologi, non

progredisce di pari passo la consapevolezza

e la conoscenza dei loro meriti, sia nella opinione

pubblica sia presso le istituzioni politiche

e parlamentari. Un ritardo che è certo

imputabile ai profili bassi assunti, in epoche

passate, dall’Onb, nella non adeguata rappresentanza

degli interessi della categoria.

Ma non solo. Certamente è mancato lo spirito

identitario, il sentimento di appartenenza

alla nostra comunità, che tuttora è ancora

scarso tra i cinquantamila iscritti all’Onb,

lo dicono chiaramente anche i sondaggi di

opinione che abbiamo commissionato. Sono

ancora molti gli iscritti che si rifiutano di

rendersi disponibili a dare

un giudizio, un suggerimento,

una critica costruttiva.

La lamentazione e la commiserazione

inconsolabile è

ancora l’elemento distintivo

della espressione caratteriale

dei Biologi Italiani. Sono

migliaia i Biologi che disertano

l’obbligo di iscriversi al

proprio ordine, esercitando

spesso abusivamente l’attività

professionale, sottraendo

a tutti noi risorse economiche

e il peso della rappresentanza

innanzi alle autorità.

Nonostante una politica di costante apertura

e di dialogo attraverso gli strumenti

di comunicazione e informazione realizzati

nell’ultimo biennio, ci sono in giro ancora

molte consorterie, associazioni e gruppi

chiusi che sembrano addirittura distinti e distanti

dalla vita e dalla conoscenza delle molteplici

attività poste in essere dal Consiglio

dell’Ordine. Una frammentazione inspiegabile,

dopo i profondi mutamenti realizzati

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

3


nell’Onb, che crea dispersione, disarmonia,

lontananza e disincanto, indebolendo la capacità

negoziale con il decisore politico.

Nei recenti webinar ai quali ho partecipato,

si sono aperte valide interlocuzioni

con molti di questi gruppi di colleghi ed è

stato avviato un fecondo dialogo che sta sviluppandosi

e approderà certamente a intese.

Nel frattempo, al di là delle nostre colpe

e della diffusa incuria che serpeggia tra

le fila di migliaia di colleghi, dentro e fuori

all’Onb, si deve registrare una disattenzione

e una scarsa conoscenza da parte delle istituzioni

politiche e socio-sanitarie delle istanze

dei Biologi. Una distrazione che non trova

giustificazioni e che va colmata nel più breve

tempo possibile. Non è più accettabile per la

nostra categoria, ormai parificata alle altre

nell’ambito delle professioni sanitarie, che si

possa disconoscere un criterio di pari dignità

e considerazione tra tutte le categorie che

operano nel comparto della sanità.

In queste settimane sono

In queste settimane

sono stato costretto

più volte a intervenire

pubblicamente per

protestare innanzi a

dimenticanze e disparità,

in danno dei Biologi

stato costretto più volte a intervenire

pubblicamente per

protestare innanzi a dimenticanze

e disparità, in danno

dei Biologi, emerse in provvedimenti

di legge. Legislazione

adottata dal Governo,

attraverso la decretazione

d’urgenza, che non lascia

molto spazio ad interventi

da parte dell’Ordine. Norme

adottate per fronteggiare il

Covid-19, ma che non hanno

tenuto conto dell’impegno

e dei meriti di tutte le figure professionali

impegnate sul fronte del contrasto alla epidemia.

C’è stata una lunga fila di omissioni.

Si è cominciato con il reiterare l’annosa disparità

del mancato riconoscimento di borse

di studio agli specializzandi non medici,

aggiungendo solo per i medici altre quattromila

borse di studio. Eppure le provvigioni

governative, stanziate per fronteggiare la

crisi economica conseguente alla chiusura

delle attività produttive, ammonta ad oltre

un centinaio di miliardi di euro, dei quali

alcune decine per il Sistema Sanitario Nazionale.

È ben strano che non si reperiscano

fondi per colmare questa annosa ed odiosa

disparità tra professionisti. Si è proseguito

consentendo agli specializzandi medici, al

terzo anno di corso, di poter partecipare ai

bandi e agli avvisi per copertura di posti nel

SSN, con disuguaglianze per tutte le categorie

non mediche. Ed ancora la disparità di

non citare nel cosiddetto Decreto Cura Italia

i Biologi ospedalieri tra i beneficiari del

premio di produzione per la lotta al Covid

riconosciuto ai medici e finanche ai tecnici

di laboratorio! La saga delle dimenticanze si

conclude con il procedimento di legge a sostegno

alla Scuola, nel quale viene introdotto

ed approvato dal Senato un emendamento

da parte della opposizione leghista, che

riconosce solo a medici, farmacisti e infermieri

l’abbuono, automatico, dei cinquanta

crediti ECM per l’anno in corso.

Unica parentesi positiva, per i nostri

iscritti, è quella di essere stati inseriti nel

DPCM del 9 marzo 2020, in modo che la

categoria possa rientrare tra quelle per le

quali si può procedere con le assunzioni

per scorrimento di graduatoria, per avviso

pubblico oppure concorso per assunzioni

ordinarie e straordinarie previste per la

lotta al Covid-19, oltre ai posti emersi dalla

nuova programmazione dei fabbisogni. Una

parentesi certo felice che sta consentendo a

centinaia di Biologi in tutta

Italia di poter entrare nelle

fila del Sistema Sanitario. Ma

non possiamo né dobbiamo

accontentarci.

Occorre una strategia di

oculata protesta critica che

indichi al decisore politico

la strada dell’equiparazione

dei Biologi alle altre categorie,

forse più note e numerose,

con maggiore peso

politico ed elettorale, ma

non più meritevoli della nostra.

Come realizzare questa

strategia sarà materia di discussione per le

iniziative da intraprendere nel programma

che il Consiglio dell’Ordine si accinge a definire

nell’ultimo scorcio della consiliatura.

Uno scorcio ancora consistente, ma che non

durerà in eterno se il futuro lo aspetteremo

inermi, accettando supinamente uno stato

di semi clandestinità per la nostra comunità.

Non si può certo attendere che le castagne

dal fuoco le tolgano in futuro gli Ordini

Regionali che prenderanno vita attraverso il

decentramento amministrativo che, a metà

dell’anno 2022, prenderà vita.

In questo arco di tempo, bisogna insistere

e stare col fiato sul collo ai governanti e

alle istituzioni ministeriali preposte ad adottare

i provvedimenti legislativi necessari. Insomma,

non bisogna demordere né coltivare

complessi di sudditanza nei confronti di

nessun’altra categoria né degli interlocutori

politici. In fondo, qualcuno dovrà pur dare

la sveglia a Lorsignori.

4 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


INAUGURAZIONE

DELLA SEDE REGIONALE

DI EMILIA-ROMAGNA

E MARCHE DELL’ONB

BOLOGNA*

25 settembre 2020

Ore 10:30

Interventi:

Sen. dott. Vincenzo D’Anna

Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

Dott. Pietro Sapia

Consigliere tesoriere dell’Onb e delegato

regionale di Emilia-Romagna e Marche

Dott. Massimo Zerbini

Commissario della delegazione

di Emilia-Romagna e Marche

Autorità convenute

*Via Corticella 89/2

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

www.onb.it

5


PRIMO PIANO

di Daniele Ruscitti

Anche se la curva epidemica si

sta piegando dal lato giusto e

tutti i dati relativi all’apertura

del 18 maggio non trasmettono

messaggi preoccupanti, gli italiani dovranno

aspettare ancora qualche giorno per

capire se la tempesta è davvero passata.

L’ipotesi di una ricaduta e di un secondo

pesantissimo lockdown, trattengono i giudizi

positivi sui numeri registrati rispetto

ad una pandemia che in Italia ha già provocato

più di 33mila morti, colpendo più

di 230mila persone.

«I dati ci dicono che la curva si sta piegando

dal lato giusto, anche se a livello globale

siamo ancora in piena pandemia, ma

a leggere i dati di oggi possiamo dire che

il Paese ha retto l’apertura del 4 maggio

- spiega il ministro della Salute, Roberto

Speranza - Avremo bisogno di aspettare ancora

un po’ di giorni perché si consolidino

i dati relativi all’apertura del 18 maggio».

E questo «perché il tempo di incubazione

medio del virus è tra 5-6-7 giorni».

Speranza auspica che il vaccino contro

Covid-19 «arrivi il prima possibile anche

perché la ricerca globale sta facendo

uno sforzo senza precedenti. Ma non c’è

scritto da nessuna parte che c’è una data

certa per il vaccino. Quindi fino ad allora

dobbiamo tenerci pronti per una eventuale

seconda ondata. Un giorno, sconfitto il

coronavirus, aver dotato il Paese di posti

letto aggiuntivi in terapia intensiva ci avrà

resi più forti».

Inoltre, garantisce il ministro, nel giro

di pochi mesi avremo una autonoma produzione

italiana di mascherine, che ci consentirà

di essere pienamente autosufficienti

e indipendenti dal mercato internazionale.

Anche l’epidemiologo Pier Luigi

Lopalco, professore ordinario di Igiene

all’Università di Pisa e alla guida della

task force anti-covid della Regione Puglia,

predica prudenza. Perché ora «è imprevedibile

quello che può essere l’esito di

questa riapertura con poche cautele. Potrebbe

non sviluppare nulla, soprattutto

in quelle regioni in cui la circolazione del

virus, come nelle isole, è molto bassa, così

come potrebbe aver riacceso dei focolai

epidemici ma di questo ce ne accorgeremo

a metà giugno,

non prima».

Intanto le riaperture

continuano,

dopo quelle di palestre,

centri sportivi e

piscine (25 maggio),

il 3 giugno sul tavolo

la mobilità tra le regioni

e da metà giugno cinema e teatri. «Il

mese di giugno è un mese chiave, decisivo

per fare davvero il punto della situazione e

capire quale sarà la nostra nuova normalità,

quale strategia possiamo portare avanti. Al

momento è assolutamente d’obbligo usare

qualche precauzione e cautela, ma io una

ripresa di circolazione del virus come quel-

Il Ministro Speranza: “Fino

a quando non arriva

il vaccino, teniamoci pronti

per una seconda ondata”

la di marzo la escluderei perché ora siamo

preparati. Potremo vedere un aumento dei

casi, una ripartenza della circolazione del

virus, ma l’impatto sulla salute pubblica

non sarà paragonabile a quello che c’è stato

a marzo. Gli ospedali sono pronti, la sorveglianza

sul territorio funziona abbastanza

bene, non è paragonabile

la situazione in

cui siamo ora rispetto

a qualche mese fa:

eravamo sguarniti,

non eravamo preparati.

Abbiamo imparato

tante cose sia su

come cercare il virus

che come curarlo. La situazione è completamente

diversa».

Messaggi di prudenza che si inseriscono

in un quadro sanitario generale che

vede in Italia, su una popolazione residente

di quasi 51 milioni di persone con più

di 18 anni di età, oltre 14 milioni di persone

convivono con una patologia cronica

6 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SALUTE PRIMO PIANO

COVID-19, LA CURVA

EPIDEMICA SI STA PIEGANDO

DAL LATO GIUSTO

Migliorano tutti gli indicatori ma c’è grande

prudenza: giugno è un mese chiave

© Tetiana Shumbasova/www.shutterstock.com

e di questi 8,4 milioni sono ultra 65enni.

È questo il contesto in cui si è diffusa l’epidemia

da Sars-Cov-2, con gli anziani

sorvegliati speciali perché dai dati emerge

che già dopo i 65 anni e prima dei 75, più

della metà delle persone convive con una

o più patologie croniche fra quelle indagate

e questa quota aumenta

con l’età fino a

interessare complessivamente

i tre quarti

degli ultra 85enni, di

cui la metà è affetto

da due o più patologie

croniche.

C’è inoltre un altro

aspetto sul quale rifletter. La paura del

contagio rischia di vanificare gli importanti

risultati ottenuti finora grazie alla prevenzione

anche secondaria, con il pericolo

concreto nel lungo periodo di un aumento

della mortalità soprattutto per alcune neoplasie

come il cancro al seno che, se individuate

precocemente, consentono nel 90

La paura del contagio

ha bloccato gli screening

per altre patologie e rischia

di rallentare la prevenzione

© Prostock-studio/www.shutterstock.com

per cento dei casi la sopravvivenza a 5 anni

senza segni della malattia. Stefania Gori,

presidente della Fondazione Aiom, segnala

che «in Italia nel 2019 le diagnosi di tumore

sono state 371 mila, mille al giorno, grazie

anche alla prevenzione secondaria, ma durante

il lockdown la pandemia ha bloccato

screening, controlli

periodici e moltissimi

esami diagnostici per

individuare il tumore,

come ad esempio

mammografie e Tac,

con una diminuzione

di 20 mila nuove

diagnosi in due mesi.

Un dato molto preoccupante – prosegue

Gori – in linea con quanto già registrato

in alcuni paesi europei, come ad esempio

l’Olanda, e da poco pubblicato su Lancet

Oncology, che nel lungo termine rischia di

compromettere la sopravvivenza, perché la

diagnosi preventiva cambia il destino delle

persone».

Guanti e mascherine?

Mai per terra

Guanti e mascherine non devono

mai essere gettati per terra.

L’Iss ha aggiornato le indicazioni per

lo smaltimento in ambito domestico

e sul luogo di lavoro. Se si è positivi

o in quarantena obbligatoria mascherine

e guanti monouso, come

anche la carta per usi igienici e domestici

(fazzoletti, tovaglioli, carta

in rotoli) vanno smaltiti nei rifiuti

indifferenziati, possibilmente inseriti

in un ulteriore sacchetto. Per le attività

lavorative i cui rifiuti sono già

assimilati ai rifiuti urbani indifferenziati

mascherine e guanti monouso

saranno smaltiti come tali. L’utilizzo

massivo dei dispositivi di protezione

individuale “determinerà un aumento

significativo dei volumi di rifiuti

ed un possibile impatto ambientale

che necessita di adeguate politiche

di governo del ciclo dei rifiuti” spiega

il ministro della Salute, Roberto

Speranza. “La ripresa progressiva

delle ordinarie attività quotidiane e

lavorative deve avvenire nel rispetto

delle necessarie misure precauzionali

tra cui il distanziamento sociale e

l’utilizzo di dispositivi di protezione

individuale”.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

7


PRIMO PIANO

© Arcansel/www.shutterstock.com

Qualità dell’aria e Covid-19

Al via studio epidemiologico Iss-Ispra per cercare eventuali connessioni

Lo studio delle possibili connessioni tra l’epidemia di

Covid-19 e l’esposizione a inquinanti atmosferici, richiede

approcci metodologici basati sull’integrazione

di diverse discipline: l’epidemiologia ambientale e

quella delle malattie trasmissibili, la tossicologia, la virologia,

l’immunologia, al fianco di competenze chimico-fisiche, meteorologiche

e relative al monitoraggio ambientale. Per dare

delle risposte alle numerose ipotesi emerse sul possibile legame

tra Covid-19 e inquinamento atmosferico, l’Istituto superiore

di sanità (Iss) e l’Istituto superiore per la protezione

e la ricerca ambientale (Ispra) con il Sistema nazionale per la

protezione dell’ambiente (Snpa) hanno avviato uno studio epidemiologico

a livello nazionale per valutare se e in che misura

i livelli di inquinamento atmosferico siano

associati agli effetti sanitari dell’epidemia.

L’inquinamento atmosferico aumenta il

rischio di infezioni delle basse vie respiratorie,

particolarmente in soggetti vulnerabili,

quali anziani e persone con patologie

pregresse, condizioni che caratterizzano

anche l’epidemia di Covid-19. Le ipotesi

più accreditate indicano che un incremento

nei livelli di PM rende il sistema respiratorio più suscettibile

all’infezione e alle complicazioni della malattia da coronavirus.

Nel realizzare lo studio, si terrà quindi conto del fatto

che la diffusione di nuovi casi segue le modalità del contagio

virale e quindi si muove principalmente per focolai (cluster)

all’interno della popolazione e si seguiranno approcci e metodi

epidemiologici per lo studio degli effetti dell’inquinamento

atmosferico in riferimento alle esposizioni sia acute (a breve

termine) che croniche (a lungo termine), con la possibilità di

controllo dei fattori socio-demografici e socio-economici associati

al contagio, all’esposizione a inquinamento atmosferico,

L’inquinamento atmosferico

aumenta il rischio di infezioni

delle basse vie respiratorie

nei soggetti vulnerabili

all’insorgenza di sintomi e gravità degli effetti riscontrati tra i

casi di Covid-19.

«L’emergenza sanitaria della Pandemia di Covid-19 è

una sfida per la conoscenza sotto molteplici punti di vista e

non solo quelli oggi centrali sul fronte dei vaccini e delle terapie”

ricorda il presidente dell’Istituto superiore di sanità,

Silvio Brusaferro, sottolineando però che “altri importanti

quesiti di ricerca richiedono sforzi congiunti. Un esempio è

lo studio odierno che mira ad esplorare il possibile contributo

dell’inquinamento atmosferico alla suscettibilità all’infezione

da Sars-CoV-2, alla gravità dei sintomi e degli effetti sanitari

dell’epidemia», questione oggi molto dibattuta in tutto il

mondo.

«Su questo tema - continua Brusaferro

- assieme a Ispra-Snpa, stiamo proponendo

l’avvio di uno studio epidemiologico

nazionale”. “Il presunto legame tra Covid-19

e inquinamento è argomento divenuto

quotidiano nel dibattito mediatico

e non solo, suscitando da più parti teorie

ed ipotesi che è giusto approfondire ed

a cui è doveroso dare una conferma, per

quel che ci riguarda, tecnico-scientifica. Anche per questo

abbiamo aderito con entusiasmo alla proposta di collaborazione

dell’Iss, con cui già dal 2019 condividiamo gli obiettivi

di un Protocollo di Intesa sui temi che riguardano i rapporti

tra ambiente e salute - ha dichiarato il Presidente di Ispra e

Snpa Stefano Laporta. “Metteremo a disposizione le nostre

competenze in materia di qualità dell’aria e di modellistica

ambientale, per comprendere gli eventuali effetti associati

all’epidemia di CoViD-19. Un esempio concreto per fare rete

e integrazione, un’azione congiunta che crediamo potrà supportare

anche percorsi futuri». (D. R.)

8 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


PRIMO PIANO

© Arthur zhi/www.shutterstock.com

Nessun rischio dall’uso di farmaci ipertensivi

Uno studio fuga i dubbi sulla correlazione con il Covid-19

I

farmaci più utilizzati per la gestione dell’ipertensione arteriosa

(Ace-inibitori e sartani) non sono responsabili di

una maggiore esposizione al rischio di infezione da Covid-19

o dell’aggravamento dei suoi sintomi. A sostenerlo

è uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Università

di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Istituto nazionale

dei tumori di Milano (Int) e l’Agenzia Aria (Azienda regionale

per l’innovazione e gli acquisti ), che è stato pubblicato sulla

rivista scientifica New England Journal of Medicine. Una ricerca,

svolta in Lombardia, mettendo a confronto un totale

di 6272 casi di pazienti affetti da grave infezione respiratoria

determinata dal virus Sars-Cov-2 con 30.759 persone sane.

«Gli antagonisti del recettore dell’angiotensina, i cosiddetti

sartani, e gli Ace-inibitori sono tra i

farmaci più utilizzati al mondo come trattamenti

di prima scelta per il controllo di

ipertensione, scompenso cardiaco, malattie

renali croniche e altre patologie cardiovascolari.

Questi farmaci sono capaci di

aumentare l’espressione dell’enzima Ace2,

considerato una porta d’ingresso per i virus

della famiglia Coronavirus e, da qui, è

nata l’ipotesi che i pazienti curati con queste terapie potessero

essere maggiormente a rischio di infezione da Covid-19 –

commenta Giuseppe Mancia,professore emerito all’Università

degli studi Milano-Bicocca – Lo studio ha invece mostrato che

non c’è nessun elemento di evidenza specifico a indicare che

chi è in cura con questi farmaci abbia un rischio diverso di

contrarre il virus rispetto a chi non è in trattamento. È emerso

che, rispetto al gruppo dei controlli, i pazienti affetti da Covid-19

fanno un uso maggiore del 10-13% di Ace-inibitori e

sartani, ma anche di altri antipertensivi, come betabloccanti e

diuretici, e di altri farmaci come gli antidiabetici».

La ricerca italiana è stata

pubblicata sulla rivista

scientifica New England

Journal of Medicine

«Ad ogni caso di Covid-19 sono stati appaiati casualmente

5 controlli della stessa età, sesso e comune di residenza. Le

informazioni sull’uso di farmaci e sui profili clinici dei pazienti

sono stati ottenuti dalla banca dati regionale di assistenza

sanitaria, mentre per tutto il campione è stato utilizzato un

indice di prognosi, con uno score da 0 a 4, dove il valore più

alto indica uno stato clinico peggiore – spiega il professor Giovanni

Corrao del Dipartimento di Statistica e Metodi Quantitativi

dell’Università di Milano-Bicocca - La nostra analisi ha

evidenziato che i pazienti contagiati dal virus hanno un punteggio

più alto nello score e e fanno un uso più frequente di

farmaci antipertensivi, e sono più affetti da malattie cardiovascolari.

Questo suggerisce che le manifestazioni cliniche del

contagio si manifestano prevalentemente

in individui clinicamente fragili, e tra questi

in pazienti affetti da malattie cardiovascolari

e metaboliche. Tuttavia, farmaci

come Ace-inibitori e sartani non sembrano

avere alcun ruolo diretto nel favorire un

maggior rischio di sviluppo o aggravamento

dell’infezione».

Lo studio ha incluso delle sotto-analisi

in modo da prendere in considerazione eventuali differenze

per sesso o per età (soggetti con più di 60 anni contro soggetti

con meno meno di 60 anni), ma in entrambi casi i risultati

sono stati confermati, senza quindi evidenziare differenze significative

tra i diversi gruppi. Inoltre, è stata indagata anche

l’ipotesi che il rischio per i pazienti in terapia con antipertensivi

non fosse solo un aumento della probabilità di essere

contagiati dal virus, ma di sviluppare la sintomatologia in forma

più severa a causa dell’esposizione ai bloccanti del sistema

renina-angiotensina. L’analisi ha smentito anche quest’ultima

ipotesi. (D. R.)

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

9


PRIMO PIANO

Premio GreenCare 2020 ad Alessia D’Angelo

Conferita alla biologa la Medaglia di Riconoscenza Civica

Premio GreenCare riconosce e sottolinea

il valore di chi è impegnato nella cura, creazione,

tutela e valorizzazione delle aree verdi negli spazi

L’Associazione

urbani. L’obiettivo è sensibilizzare gli amministratori

pubblici e i semplici cittadini ad una maggiore attenzione e cura

nei confronti delle aree verdi metropolitane, polmoni di ossigeno

per i cittadini, ma anche importanti luoghi di aggregazione

e svago.

La Medaglia di Riconoscenza Civica è stata assegnata alla

per l’anno 2020 è stata assegnata alla biologa Alessia D’Angelo,

promotrice attiva della richiesta di sospensione di errati interventi

sul verde urbano che avrebbero interessato numerosi

alberi della specie Quercus ilex, leccio, quercia sempreverde

mediterranea scelta spesso per le alberature in ambiente urbano

perché presenta la caratteristica di adattarsi facilmente ad una

vasta gamma di terreni e per essere

una specie idrostabile, presentando

elevata risposta fisiologica in

carenza idrica.

L’intervento, programmato erroneamente

per fine aprile 2020

a Bagnoli, Napoli, avrebbe compromesso

la nidificazione dell’avifauna

e rischiato di danneggiare la

chioma dei lecci che in primavera

hanno crescita vegetativa, rendendo

le piante suscettibili ad attacchi

di patogeni. Inoltre i lecci appartengono

alla famiglia delle fagacee,

specie note per essere allergeniche,

un intervento meccanico cosi invasivo

avrebbe sollecitato la presenza

di pollini nell’aria, causando le ben La biologa Alessia D’Angelo.

note forme di rinite, congiuntivite e asma, sintomi che in piena

emergenza coronavirus non era opportuno stimolare nella popolazione.

Non appare un caso che sia stata una biologa ecologa a farsi

promotrice come professionista e come cittadina della richiesta

di sospensione di tale intervento chiedendo di rinviarlo in stagione

opportuna, con una visione d’insieme in zoologia, botanica

e allergologia che ha permesso un dialogo preciso ed efficace

con Associazioni e Municipalità. Ricordiamo che la definizione

di ecologia classica nasce nel 1866 ad opera dello scienziato e

filosofo tedesco E. Haeckel, e da allora il suo carattere transdisciplinare

ha assunto sempre maggior consapevolezza e completezza.

Oikos logos lo studio della casa, lo studio quindi delle

complesse relazioni che legano gli organismi e gli habitat è cresciuto

di pari passo con le azioni e gli impatti antropici che modicano

continuamente l’ambiente

stesso.

Il titolo di Ecologo è stato

in passato troppe volte confuso

e messo al pari di un ecologista,

un paladino ambientale mosso da

entusiasmo ed empatia, invece il

Biologo Ecologo è un professionista

che integra una visione d’insieme

capace di fare da trait d’union

in diversi campi e gruppi di lavoro

spaziando dalla microbiologia

alla legislazione vigente in campo

ambientale. Con questo riconoscimento

alla biologia, si auspica una

sempre maggior presenza in ambito

pubblico e privato della preziosa

figura del Biologo Ecologo.

10 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


PRIMO PIANO

© Nicoelnino/www.shutterstock.com

Siglato il nuovo atto costitutivo dell’Ecba

In Olanda è stato rinnovato lo statuto dei Biologi d’Europa

Il 7 febbraio 2020, ad Amersfoort, in Olanda, è stato firmato il

nuovo atto costitutivo dell’Ecba, l’Associazione dei Biologi delle

Comunità Europee. La storia dell’Ecba inizia nel 1975, quando

le associazioni di biologi dei diversi paesi della CEE si sono associate

con lo scopo di sviluppare delle relazioni multilaterali tra i diversi

stati europei per consentire un progresso equilibrato delle scienze biologiche,

affinché queste potessero essere presentate in modo chiaro e

comprensibile a industriali, accademici e al grande pubblico. All’Ecba

aderiscono scienziati, accademici, industriali, referenti istituzionali e

liberi professionisti provenienti da Paesi come Austria, Cipro, Belgio,

Germania, Spagna, Grecia, Irlanda, Italia, Norvegia, Portogallo, Svezia,

Turchia e Francia.

L’iniziativa è nata da tre input. Quello del professor Haupt del

Verband Deutscher Biologen (VDBiol) della

L’associazione raccoglie biologi

provenienti da diversi Paesi

europei e afferenti diversi

settori di impiego della biologia

Repubblica federale di Germania, che ha contattato

Dax Copp dell’Institute of Biology (lOB)

del Regno Unito, esplorando le prospettive di

una più stretta integrazione delle attività tra le

associazioni di biologi in Europa.

In questo incontro, avvenuto nella primavera

del 1974 a Londra, si seppe che l’Ordine

Nazionale dei Biologi era in procinto di spostare

le sue attenzioni verso Bruxelles nel tentativo di unificare le associazioni

di biologi professionisti su base europea. Queste iniziative hanno

facilitato la promozione di un’associazione di biologi in Europa. Dopo

un ulteriore incontro a Milano nell’autunno 1974, la “European Communities

Biologists Association (ECBA)” è stata formalmente fondata

nell’ottobre 1975 a Bonn (FRG).

L’Associazione, che vuole rappresentare la biologia e le bioscienze

a livello internazionale, ha lavorato per il sostegno del ruolo dei biologi

in ambito europeo e per la promozione e la cooperazione tra le diverse

associazioni rappresentative della categoria. Il Consiglio direttivo, organo

supremo formato da delegati delle associazioni membri, è presieduto

da Harm Jaap Smit e vede il biologo Corrado Marino come vice

presidente con delega alla biologia clinica e alla sanità.

Questa nomina è scaturita dal lavoro progettuale di Marino

esposto al meeting ECBA, tenutosi in Febbraio ad Utrethc, e ad altri

suoi interventi programmatici illustrati a Bruxelles. «Il lavoro da lui

egregiamente svolto – riporta il comunicato dell’Ecba - deriva da puntuali

programmi intessuti grazie alle indicazioni della Dirigenza del

nostro Ordine Professionale. Un’attività aperta verso la conoscenza

dell’importanza della Scienza ad ogni livello, sia scolastico educativo

sia mediatico; una maggiore coesione tra le svariate attività professionali

della costellazione europea dei Biologi e dei laureati in Scienze;

una capacità di intervento sulla Commissione Europea per una più coerente

e rapida esecuzione delle normative sulle qualifiche professionali

e sulla libera circolazione dei professionisti

in Europa; una attività culturale e scientifica con

convegni da organizzare nelle capitali Europee

anche per portare all’attenzione dei responsabili

politici e della pubblica opinione la nostra categoria

professionale e la sua incisiva valenza nel

tessuto economico e produttivo. L’Ordine dei

Biologi – prosegue il comunicato - potrà erigere

il proprio vessillo in Europa, trasferire ai Colleghi

europei quanto di importante ha saputo fare e ancora farà in Italia.

I Colleghi italiani potranno ricevere informazioni e input in campi di

attività finora ancora non percorsi. L’Ordine Nazionale dei Biologi

conclude - si avvarrà nelle proposizioni progettuali anche di giovani

Colleghi che vorranno dare il proprio contributo, per apportare in

Europa una ventata di innovazione scientifica e normativa».

Negli anni, l’Associazione ha organizzato numerosi seminari

su argomenti relativi alla biologia. Sono inoltre in progetto programmi

di studio dedicati agli studenti delle scuole primarie e secondarie,

al settore biomedico, dell’alimentazione, della sostenibilità

e dell’energia.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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BIOLOGIA DEL PALAZZO

CORONAVIRUS, IL RUOLO DELL’OMS

ECCO COM’È ANDATA

Le accuse di Trump sulla sudditanza alla Cina, la difesa dell’Onu

L’allerta pandemia durerà ancora a lungo

Palazzo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Ginevra).

di Riccardo Mazzoni

La polemica sul ruolo dell’Oms

nell’affrontare la pandemia del

Coronavirus è destinata a durare

per anni, tra i colpevolisti come

Trump che la accusano di aver ritardato

l’allarme per sudditanza al governo cinese,

e chi invece, a livello internazionale, difende

il suo operato. Cerchiamo di ricostruire

i fatti con una ricostruzione il più possibile

obiettiva, riepilogando la cronologia di

questi mesi terribili.

Era partita bene l’Oms, quando a settembre

aveva pubblicato un rapporto intitolato

“Un mondo a rischio”, che parlava di

una possibile, imminente epidemia su scala

mondiale avvertendo i governi sulla possibilità

di un’emergenza sanitaria globale. Il rapporto

era chiaro: “C’è una minaccia molto

reale di una pandemia in rapido movimento

altamente letale, di un agente patogeno respiratorio

che potrebbe uccidere da 50 a 80

milioni di persone e spazzare via quasi il 5

per cento dell’economia mondiale”. Allarme

caduto purtroppo nel vuoto e nel mancato

recepimento da parte di molti governi nazionali,

ma poi è proprio l’Organizzazione mondiale

della Sanità ad essere finita nel mirino

per le falle, i ritardi e le opacità nella gestione

del Covid-19. Il nove aprile, nel mezzo della

bufera e mentre il contagio si diffondeva

pericolosamente nel mondo, è dovuta scendere

in campo la stessa Onu per difendere

il direttore generale dell’Oms Ghebreyesus

dall’accusa dell’amministrazione americana

di essersi piegata agli

interessi della Cina

A settembre scorso, l’Oms

aveva avvertito i governi sulla

possibilità di un’emergenza

sanitaria globale

aiutando Pechino a

insabbiare le prime

notizie sulla pandemia.

Accusa tutta da

dimostrare, ma ci sono

fatti e circostanze che

fanno oggettivamente

riflettere sul funzionamento

della macchina dell’Oms: alcuni medici

di Taiwan, ad esempio, la informarono – a

loro volta inascoltati - di aver scoperto che il

virus si trasmetteva da uomo a uomo. E’ ormai

accertato, poi, che in Cina il primo caso

clinicamente diagnosticato risale al 2 dicembre,

ma che il governo di Pechino ha annunciato

la prima morte solo l’11 gennaio, e resta

dunque il motivato dubbio che in quel mese

cruciale l’interlocuzione tra Oms e Cina sia

stata, per usare un eufemismo, quantomeno

lacunosa. Solo il 28 gennaio, inoltre, l’Oms si

è decisa, dopo ben cinque rapporti tranquillizzanti,

a correggere da “moderata” ad “elevata”

la minaccia dell’epidemia cinese per il

resto del mondo. E la definizione di “pandemia”

per definire l’emergenza è stata data

solo l’11 marzo, quando

era noto ormai da

settimane che l’ondata

epidemica interessava

tutto il globo.

Anche sull’uso

dei test diagnostici,

la posizione iniziale

dell’Oms fu inizialmente

quella di raccomandarli

solo ai casi sintomatici conclamati,

per poi correggersi consigliando

ai governi di effettuare test generalizzati

a tutta la popolazione, a partire dagli

operatori sanitari. Ebbene: i Paesi come

la Corea del Sud o Taiwan che sono andati

per la propria strada con l’uso siste-

12 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


BIOLOGIA DEL PALAZZO

© EQroy/www.shutterstock.com

matico dei tamponi e il tracciamento dei

contatti sono quelli che stanno uscendo

meglio, e con i minori danni anche economici,

dalla pandemia.

Infine, anche sull’uso delle mascherine

le linee guida dell’Oms non sono state

all’altezza di un’organizzazione che ha il

compito istituzionale di tutelare la salute

del mondo, sostenendo che in caso di

persone senza sintomi non c’è il rischio di

contagio e che le mascherine non deve portarle

nessuno, se non gli operatori sanitari

che hanno in cura malati di Coronavirus,

ignorando così il tasso di trasmissione dagli

asintomatici. Un altro passo falso, insomma.

Ora Mike Ryan, capo del programma

di emergenze sanitarie dell’Oms, durante

uno dei briefing sul Coronavirus, ha avvertito

che sarà necessario fare ancora un

lungo cammino per arrivare alla cosiddetta

“nuova normalità”. Non si parla ancora,

dunque, di revocare l’allerta pandemia.

L’Oms non abbasserà il livello di allarme

fino a quando – ha detto - “non disporremo

di un significativo controllo del virus,

di solidi sistemi di sorveglianza e di sistemi

sanitari più forti”.

Come la Chinatown pratese ha dato scacco al Covid-19

I

l governo di Pechino è sul banco degli imputati per il Coronavirus: 122 Stati

membri dell’Onu si sono detti favorevoli a un’inchiesta per fare luce sulle circostanze

e sulle modalità in cui la pandemia si è originata e diffusa dalla Cina al

resto del mondo, non ritenendosi soddisfatti né delle indagini condotte dall’Organizzazione

Mondiale della Sanità né delle dichiarazioni ufficiali del presidente

Xu Jinping, che ha offerto due miliardi di dollari per la lotta mondiale contro la

pandemia; promettendo di mettere a disposizione di tutti il vaccino, se saranno

gli scienziati di Pechino i primi a svilupparlo. Ma se la Cina è sotto accusa, c’è

un’enclave cinese in Italia, quella di Prato, che ha saputo invece dare il buon

esempio. All’inizio della pandemia Prato, dove vive la seconda comunità cinese

d’Europa, era considerata la città più esposta al rischio Covid a causa dei 2500

cinesi che dovevano rientrare proprio in quei giorni dal Capodanno celebrato in

patria

Gli allarmi si sono moltiplicati di pari passo con le polemiche. Ebbene, Prato

è stata finora uno dei capoluoghi che stanno uscendo meglio dall’emergenza

sanitaria. Questo piccolo miracolo ha però una spiegazione empirica molto precisa,

che deriva sia dai forti legami di solidarietà che caratterizzano le comunità

cinesi sparse nel mondo, sia dall’antica vocazione all’obbedienza: c’è una catena

di comando che ha funzionato alla perfezione e ha organizzato una ferrea cintura

sanitaria per evitare i contagi. Quando il virus è arrivato in Italia la Chinatown

pratese, che brulica sempre di gente dalle sei del mattino fino a mezzanotte, ha

letteralmente chiuso i battenti, diventando d’improvviso, da un giorno all’altro,

un quartiere fantasma. Questo perché c’è stata una regia tempestiva ed oculata

dell’emergenza: decine di famiglie sono state spedite in quarantena sull’Appennino,

in case prese in affitto all’Abetone e a Fiumalbo, e i cinesi rientrati dal Capodanno

sono stati sottoposti a una doppia quarantena: la prima nello Zhejiang,

dove il governo regionale aveva adottato misure rigorose che impedivano l’espatrio,

e la seconda appena rientrati nelle abitazioni pratesi, applicando l’autoisolamento

volontario.

Senza dunque aspettare le indicazioni delle autorità italiane, i cinesi di Prato

hanno importato dalla madrepatria le rigide misure di sicurezza che laggiù hanno

alla fine dimostrato di funzionare: quarantena generalizzata e a turno, ogni tre

giorni, un condomino va a fare la spesa per gli altri nuclei familiari in isolamento.

Non solo: si rientra in casa lasciando fuori scarpe e vestiti e si riducono al minimo

i contatti col mondo esterno, comprese le visite ai parenti, sostituite dalle videochiamate

su Wechat. I cinesi di Prato, insomma, hanno giocato d’anticipo sul

virus attraverso sacrificio, disciplina, solidarietà, autoisolamento e igiene scrupolosa,

un atteggiamento responsabile che ha contribuito a fugare tra i pratesi i

timori sul fatto che le migliaia di rientri dalla Cina potessero trasformare la città

laniera in una zona rossa come quelle lombarde. R.M.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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BIOLOGIA DEL PALAZZO

ZERO BUROCRAZIA E RIFORME

STRUTTURALI. L’ITALIA ALLA

PROVA DELLA RIPARTENZA

Gli italiani hanno saputo gestire la pandemia

del Covid-19. Ora il Paese si sta riavviando

La premessa è doverosa: trovarsi

a governare un’emergenza come

quella del Coronavirus non è

stato facile per nessun governo

al mondo, come dimostrano le difficoltà

che stanno incontrando democrazie sperimentate

e solide come Stati Uniti e Gran

Bretagna. È stato uno tsunami a cui tutti

erano impreparati e che sta mettendo a

dura prova la tenuta dei sistemi sanitario,

amministrativo ed economico.

In Europa ne è uscita meglio la Germania,

che ha potuto contare su fondamentali

più solidi. L’Italia ha invece pagato

prima il progressivo smantellamento

della sanità di base, a cui si sono aggiunti

gli errori forse inevitabili della gestione

della prima emergenza, e poi la persistenza

di una burocrazia ossessiva ed invasiva

che ha reso difficile il funzionamento degli

aiuti a un Paese in ginocchio dopo due

mesi di lockdown. Il profluvio di decreti,

Dpcm, ordinanze, direttive, comitati tecnici

e task-forces ha prodotto un imbuto

decisionale, comunicativo e funzionale

che ha finito per penalizzare la stessa volontà

politica del governo.

Non è ammissibile, ad esempio, che

dopo cento giorni dall’inizio dello stato

d’emergenza nazionale ci fossero sono ancora

quattro milioni di italiani che aspettavano

i sostegni del decreto Cura Italia,

tra cassintegrati in deroga e autonomi in

attesa dei 600 euro. Il governo ha accelerato

le procedure col decreto Rilancio, che

però necessita di ben 98 decreti attuativi e

contiene ben 622 rimandi ad altre leggi,

tra le quali un decreto Regio del 1910.

Ci sarebbero voluti da subito sussidi

a fondo perduto, non prestiti alle imprese

già indebitate, peraltro intralciati dalla

pretesa di diciannove documenti e dalla

ritrosia dei funzionari di banca ad elargirli

per il timore di incorrere in inchieste penali.

Certo, lo stanziamento è stato imponente

e all’altezza del momento: 80 miliardi di

euro in grado, si è detto, di movimentarne

400, ma il fattore tempo era cruciale, ed è

stato purtroppo disatteso, mentre altri Paesi

sono stati in grado di far piovere soldi

freschi sui conti correnti in pochi giorni

dall’inizio del blocco

produttivo.

Prendiamo la

cassa integrazione:

alla lacuna dei fondi

mancanti per la cig di

luglio e agosto, con i

titolari delle aziende

costretti dal governo

a non licenziare, si aggiunge un altro grave

problema: per molti lavoratori gli anticipi

dell’Inps arriveranno solo a inizio luglio.

Si tratta di ritardi drammatici per famiglie

già in estrema difficoltà che stentano ad

arrivare a fine mese. Ritardi che purtroppo,

decreto dopo decreto, hanno continuato

ad accumularsi.

Il Covid-19 ha messoa dura

prova la tenuta dei sistemi

sanitario, amministrativo

ed economico

Gli italiani in questi mesi terribili hanno

dimostrato grande senso di responsabilità,

a parte qualche eccesso nelle prime

movide della riapertura: pur sfibrati dalle

autocertificazioni, dai controlli ossessivi

e dai codici Ateco non chiedevano tanto,

chiedevano solo

di poter tornare alla

vita normale magari

con poche regole

chiare e con qualche

soldo in tasca per poter

riaprire le attività.

Invece si sono trovati

divisi tra garantiti e

non garantiti, con milioni di imprese e di

famiglie, di commercianti, di artigiani e di

partite Iva che non hanno visto un euro.

Prima è toccato a medici e infermieri

– a cui è come premio sono arrivate

solo briciole - combattere il virus a mani

nude, e lo stesso destino viene purtroppo

riservato agli operatori economici, molti

14 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


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BIOLOGIA DEL PALAZZO

dei quali hanno coraggiosamente riaperto

ma rischiano di trovarsi davanti a un

bivio drammatico: chiudere o fallire. Ci

vuole liquidità vera e non solo promessa

per non far chiudere le aziende e per rimettere

in circolo i consumi, ma in tutti i

decreti non c’è alcun

incentivo a spendere

per il consumatore

finale attraverso detrazioni

per la spesa.

C’è il bonus monopattino,

è vero, ma

forse quei 120 milioni

avrebbero potuto

essere impiegati molto meglio, e c’è il

bonus per le ristrutturazioni, cosa buona

che diventerà ottima se verrà esteso anche

alle seconde case.

Ma prima di tutto bisogna evitare la

desertificazione produttiva del Paese e la

morte di milioni di piccole imprese, dei

negozi storici che costituiscono la linfa

Ora sarà importante evitare

la desertificazione produttiva

del Paese e la morte

delle piccole aziende

vitale dei nostri centri storici. E attenzione:

il dato forse più drammatico è che in

queste settimane l’usura è aumentata del

50%: chi ha lavorato una vita rischia di

vedersi “confiscare” la propria impresa

dalla criminalità a causa dei ritardi dello

Stato nel far arrivare

i sussidi.

Ora che siamo in

piena fase due, è giusto

far rispettare le

regole di sicurezza,

ma serve buonsenso,

non sceriffi o un’infornata

di sessantamila

improvvisati assistenti alla vigilanza

pescati tra i percettori di reddito di cittadinanza

e disoccupati. La sicurezza è una

cosa seria, e già si sono verificati spiacevoli

eccessi durante i controlli operati dalle

forze dell’ordine.

Si devono dunque far rispettare le

norme di precauzione, ma non si può

caricare sul negoziante, sul barista, sul

ristoratore anche l’onere dei controlli.

È l’autorità che fa le leggi e deve farle

rispettare. I commercianti hanno dovuto

già caricarsi sulle spalle le spese per

la sanificazione, ora non possono anche

rischiare maximulte: oltre il danno, si aggiungerebbe

la beffa.

Chi vuol bene all’Italia non può che

auspicare che il decreto Rilancio sblocchi

davvero la situazione, e che i soldi a

pioggia stanziati dal governo arrivino a

destinazione. Poi ci vorrà molto altro: un

piano strategico di investimenti e un forte

progetto riformatore per non disperdere

in altri rivoli assistenziali i finanziamenti

che arriveranno dall’Europa. Ma intanto

va tamponata subito l’emergenza economica

perché in autunno non si trasformi

in rabbia sociale.

Per far questo non servono gli approcci

ideologici: la maggioranza, ad esempio,

ha trovato l’accordo per una sanatoria di

600 mila immigrati: scelta politicamente

legittima ma che non risolve affatto i problemi

del lavoro sommerso e non rilancia

nemmeno l’agricoltura. Gli imprenditori

agricoli avevano chiesto a gran voce i voucher

e i corridoi verdi per far rientrare gli

immigrati stagionali già utilizzati nei precedenti

raccolti, e ora stanno pagando di

tasca loro i voli charter per trasportarli in

Italia e non far marcire i prodotti.

Bisogna quindi cambiare passo: in Italia

c’è prima di tutto un eccesso di leggi,

troppe, illeggibili, che configurano un eccesso

di potere, spesso incomprensibile e

per questo ancora più insidioso. Zero burocrazia

dappertutto, soprattutto per cantieri

e infrastrutture, che sono il vero volano

per la ripartenza del Paese, e più fiducia

a cittadini e imprese. È il momento che chi

governa dimostri di essere all’altezza degli

italiani e del modo con cui hanno saputo

affrontare la pandemia. (R. M.).

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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INTERVISTE

ANNA BAGNATO E LA RICERCA

SUL TUMORE ALLE OVAIE

Ogni anno circa 5.300 donne sono colpite

da questo carcinoma

di Carmine Gazzanni

Una donna che lavora e studia con

le donne e per le donne. Anna

Bagnato, responsabile dell’Unità

di modelli preclinici e nuovi

agenti terapeutici dell’Istituto nazionale dei

tumori Regina Elena, grazie anche al fondamentale

supporto dell’Airc da anni porta

avanti la sua battaglia contro il tumore ovarico:

«I numeri – spiega la biologa – ci dicono

che circa una donna su tre sarà colpita da

un cancro nel corso della vita. Un impegno

eccezionale che non può permettersi battute

d’arresto, per contrastare tutti i tipi di cancro

che, solamente nel 2019, in Italia hanno

colpito circa 175 mila donne». E non ci si

può permettere battute d’arresto neanche

nel pieno di una crisi pandemica come quella

che stiamo vivendo. Ma anzi l’emergenza

«smaschera la vulnerabilità dell’intera comunità

e soprattutto delle persone più fragili,

esposte a rischi maggiori. E di fronte a

questi pericoli solo la ricerca scientifica può

prevenire e curare».

Dunque è fondamentale continuare a

sostenere la ricerca?

«Assolutamente sì. Le pazienti beneficiano

oggi dei risultati che i ricercatori

hanno ottenuto grazie a lunghi anni di studi.

La ricerca è l’unica possibilità per un futuro

sempre più libero dal cancro».

Il suo team è quasi tutto al femminile:

donne che lavorano per le donne?

«Il mio team, formato prevalentemente

da ricercatrici, studia i meccanismi che regolano

la crescita e la progressione di un tumore

che colpisce ogni anno circa 5.300 donne:

il carcinoma ovarico. Solamente il 40%

delle donne con carcinoma ovarico curate

in Italia supera il quinto anno dalla diagnosi.

Purtroppo in questo tumore la diagnosi

precoce è ancora difficile e spesso presenta

un alto tasso di recidiva e di resistenza ai

farmaci. Per superare questi problemi, con

il sostegno della Fondazione AIRC, stiamo

cercando di sviluppare nuove combinazioni

© Shidlovski/www.shutterstock.com

terapeutiche capaci di ridurre la resistenza

ai farmaci. La campagna dell’Azalea della

Ricerca della Fondazione AIRC, attiva per

tutto il mese di Maggio, intende sottolineare

una volta di più la centralità della ricerca

scientifica nella battaglia contro il cancro

delle donne».

Perché questa scelta? Ci si è “trovata”

oppure sono intervenute anche altre ragioni?

«La passione per la ricerca inizia tra i

banchi del liceo per proseguire con la laurea

in Scienze Biologiche

e la specializzazione

in Patologia Generale

all’Università

“Sapienza” di Roma.

L’esperienza formativa

più importante

è sicuramente quella

vissuta nei due anni

in Maryland, ai National Institutes of Health

di Bethesda, accanto all’endocrinologo

Kevin J. Catt, che in quel periodo pubblicò

studi importanti sull’endotelina, un peptide

con noto effetto vasocostrittore, di cui

si stavano scoprendo alcune funzioni sulla

regolazione ormonale. In quegli anni ho

condotto importanti studi sulla famiglia dei

recettori accoppiati a proteine G, di cui fa

parte il recettore dell’endotelina, per fattori

di crescita autocrini e paracrini dell’ovaio.

Quegli studi hanno rappresentato le basi

Le pazienti beneficiano oggi

dei risultati che i ricercatori

hanno ottenuto grazie

a lunghi anni di studi

molecolari delle future linee di ricerca volte

allo sviluppo di nuove terapie molecolari nel

carcinoma ovarico».

I mesi di lockdown che abbiamo vissuto

e la lenta ripartenza hanno inciso anche

nella ricerca sul cancro?

«Nei mesi di lockdown abbiamo deciso

di riprogrammare l’attività di ricerca nei

laboratori dell’Istituto che si trovano in un

“open space”, dove non sempre si può lavorare

mantenendo il distanziamento sociale.

Per questo motivo abbiamo deciso di ridurre

sensibilmente le

presenze, rallentando

la ricerca senza fermarla.

Ci siamo trovati

a prendere decisioni

difficili su quali esperimenti

essenziali continuare,

e quali riprogrammare

nei tempi

successivi all’emergenza. A turno alcune

ricercatrici del mio team hanno frequentato

i laboratori proseguendo i loro esperimenti,

per portare avanti in particolare il progetto

di ricerca volto ad identificare nuove vulnerabilità

nelle cellule di carcinoma ovarico

farmaco-resistenti per sviluppare nuove

strategie terapeutiche. La ripresa delle attività

di ricerca in laboratorio ha richiesto una

nuova organizzazione del lavoro. Noi stiamo

affrontando la fase due della pandemia

osservando tutte le indicazioni normative

16 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


INTERVISTE

Nell’immagine grande, un

modello di utero con ovaie in 3D.

Nel riquadro, Anna Bagnato.

della Regione Lazio e del Ministero della

Salute. Tutto il personale presente in laboratorio

utilizza i Dispositivi di Protezione

Individuale (DPI) e continua a mantenere

le distanze di sicurezza, evitando assembramenti

e mettendo in atto tutte le misure di

contenimento di esposizione al virus. Nella

fase 2, abbiamo cercato di ripartire subito a

pieno ritmo mettendo il nostro massimo impegno:

è un dovere nei confronti dei pazienti

oncologici e dei sostenitori della ricerca

finanziata da AIRC».

Viviamo oggi una

incredibile emergenza

che, tuttavia, ha permesso

di comprendere

l’importanza della

ricerca scientifica e

dei finanziamenti a

questa dedicati. Crede

che faremo tesoro di tale situazione?

«Quest’emergenza smaschera la vulnerabilità

dell’intera comunità e soprattutto

delle persone più fragili, esposte a rischi

maggiori. E di fronte a questi pericoli solo la

ricerca scientifica può fornirci strumenti di

prevenzione e di cura. Tutti noi ricercatori

sappiamo bene che il paziente oncologico

affronta una sfida particolarmente difficile

in quest’emergenza e rimane ancora di più

al centro delle nostre ricerche. Per questo

mettiamo la nostra competenza e il nostro

massimo impegno al servizio della società

Purtroppo in questo tumore

la diagnosi precoce è ancora

difficile e c’è un alto tasso

di recidiva

per raccogliere e diffondere informazioni a

beneficio dei pazienti oncologici e dei loro

caregiver, ma affinché la ricerca sul cancro

non si fermi, abbiamo bisogno del continuo

sostegno di tutti. Quest’emergenza ha

fatto comprendere la centralità della ricerca

scientifica, perché nella ricerca risiede la

possibilità di identificare nuovi percorsi di

cura. Credo che proprio in questo periodo

questa convinzione, che in noi ricercatori

è connaturata, è ampiamente condivisa

dall’intera comunità».

Per via del distanziamento sociale

com’è cambiato - e cambierà - nel lavoro in

laboratorio?

«Questo momento di estrema difficoltà

mi ha fatto ancor più capire la vera

natura delle ricercatrici del mio gruppo: i

loro sguardi sopra le mascherine rivelano

la passione, la tenacia ed il coraggio con

cui s’impegnano a dare il meglio di sé nel

portare avanti il proprio lavoro. Non si sono

fermate, continuando a lavorare anche da

remoto, dimostrando

continuamente di

“esserci” e di poter

contare su di loro anche

in questo periodo

dove il tempo sembra

sospeso, consapevoli

che la ricerca non si

può fermare perché il

cancro non aspetta».

Una sorta di voglia di ripartire il prima

possibile…

«Che è condivisa da tutti noi ricercatori.

Ed esprime pienamente i valori e gli ideali di

tutta la comunità scientifica, sempre volta a

porre il paziente oncologico al centro della

ricerca e della cura. Con la riorganizzazione

del lavoro attuata in laboratorio, dobbiamo

fare lo sforzo di ripartire subito per trovare

più in fretta risposte e nuove terapie».

Quali sono i consigli per un paziente

oncologico al tempo del coronavirus?

«La diffusione dell’infezione da Covid-19

ha messo in allarme i pazienti oncologici,

che sono le persone più fragili, maggiormente

esposte al rischio di infezioni e di

complicanze. Durante questa emergenza i

pazienti oncologici devono restare al centro

della cura. Per questo motivo gli Istituti oncologici

si sono riorganizzati, tenendo sempre

al centro la sicurezza del paziente, programmando

visite di follow-up e di screening

su base individuale, o mediante il progetto di

consegna a domicilio di farmaci oncologici e

biosimilari, per limitare i rischi per i pazienti.

Inoltre in quest’emergenza, gli strumenti

digitali possono consentire la presa in carico

del paziente e garantire la continuità di cura.

Il nostro Istituto ha reso disponibile in teleassistenza

(IFOconTeOnline) un servizio

gratuito di consulenza a distanza, per mantenere

con sistemi innovativi, la relazione con il

paziente oncologico».

Chi è

Anna Bagnato nasce a Reggio Calabria,

il 16 maggio 1960. Dopo

la laurea in Scienze Biologiche presso

l’Università Sapienza di Roma nel luglio

1984; fino al 1989 è ricercatrice

presso l’Istituto Nazionale Cancro

Regina Elena (IRE) di Roma. Per due

anni ha lavorato in Maryland, ai National

Institutes of Health di Bethesda,

accanto all’endocrinologo Kevin

J. Catt. Fino al 2008 è stata capogruppo

del laboratorio di patologia molecolare

all’Ire, diventando poi oggi

responsabile dell’Unità di modelli

preclinici e nuovi agenti terapeutici

dell’Istituto nazionale dei tumori Regina

Elena, e uno dei nomi più attivi

tra i ricercatori supportati dall’Airc.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

17


INTERVISTE

Un biologo. Un fotografo. Un nuotatore

subacqueo. Tutte queste

cose insieme. O, più semplicemente,

«un amante del mare che,

dopo più di mille immersione, ancora riesce

a provare una sensazione indescrivibile ogni

volta che sono in profondità». Le foto di Pasquale

Vassallo fanno ormai il giro del mondo

da anni. In ogni parte del globo conoscono

una delle tecniche più complicate, di cui lui è

indiscutibilmente uno dei più bravi: lo split,

ovvero la capacità di immortalare momenti,

situazioni, animali marini, mostrando per

metà il mondo sottomarino e per metà quello

terrestre. «È una modalità che mi piace

molto – racconta Vassallo, con un’incredibile

umiltà – in questo modo riesco a far capire

come ogni cosa sia sempre e comunque parte

di un tutto».

In questa quarantena lei ha avuto la

possibilità di immergersi nonostante il lockdown.

Che “mare” ha trovato?

«Splendido. Attenzione, però: non vorrei

essere frainteso. Per ripulire il mare ci vorrebbe

una quarantena lunga quarant’anni.

Ciò che però mi ha notevolmente sorpreso è

la pulizia soprattutto da un punto di vista di

inquinamento acustico».

Cioè?

«Sicuramente il mare era più pulito con

lo stop alla produzione industriale e a quella

dei ristoranti. Ma è “silenzio assordante” di

alcuni luoghi a lasciare senza fiato. Le racconto

un episodio».

Prego.

«In questo periodo ho fatto diverse immersioni

nella variopinta Marina Corricella,

a Procida, nell’area marina protetta “Regno

di Nettuno”: la consistente riduzione

dell’inquinamento acustico e del traffico da

diporto, il mare delle isole di Ischia, Vivara

e Procida si mostra in ottima salute. Sentivo

solo il rumore degli uccelli, nessuna barca,

nessun rumore “artificiale”. È stato meraviglioso.

E questo spiega perché nelle ultime

IL “SILENZIO ASSORDANTE”

DEL MARE IN QUARANTENA

Intervista al fotoreporter Pasquale Vassallo,

una vita tra mare, natura e biologia

settimane abbiamo letto di delfini che si sono

avvicinati ai porti, di tonni ritrovati in posti

in cui non si vedevano da anni. Gli animali,

nel silenzio della natura, si sentono meno

spaventati. Io per primo sono riuscito a fotografare

in questi giorni il pesce luna: ero sulla

motovedetta della Guardia costiera quando

l’abbiamo visto. Sono

subito sceso in acqua

e l’ho immortalato. E

mi creda: non è facile

essendo un animale

molto veloce e soprattutto

molto sensibile ai

rumori. Merito, come

detto, della notevole

riduzione dell’inquinamento acustico».

Lei ora sta lavorando in varie Aree Marine

Protette. Quando decide di immergersi

e, soprattutto, cosa pensa di trovare ogni

volta?

«In realtà non so mai cosa posso trovare

quando mi immergo. Certo: scelgo dei posti,

degli orari determinati perché posso immaginare

che ci sia questo pesce o questa situazio-

Ciò che però mi ha sorpreso

è la pulizia soprattutto

da un punto di vista di

inquinamento acustico

ne. Ma molto spesso capita che trovo decisamente

altro, anche di inaspettato. E questa è

la meraviglia che si nasconde nel mio lavoro e

che mi spinge ad immergermi sempre».

Qual è l’obiettivo dei suoi scatti? Solo

bellezza estetica o c’è dell’altro?

«Ovviamente non voglio fermarmi al

mero scatto. Non c’è

solo bellezza estetica.

Provo sempre a documentare

un evento.

Ho realizzato diverse

foto per documentare,

ad esempio, la conservazione

degli animali e

la loro capacità di adeguarsi

ad ambienti e situazioni nuove. Anche,

paradossalmente, con l’inquinamento:

ho spesso trovato infradito con granchi che

depongono uova o molluschi che si riparano

sfruttando le lattine. Ovviamente tutto questo

non dovrebbe mai e poi mai accadere, ma

è incredibile la capacità di questi animali di

dare sempre una risposta».

Un approccio biologico, dunque.

18 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


INTERVISTE

«Assolutamente sì. Io ho sempre avuto la

passione per la fotografia e per le immersioni,

ma prima fotografavo ciò che mi piaceva,

spesso non conoscendo a fondo il perché di

quella situazione. Ora, invece, conosco ciò

che fotografo ancor prima di scattare. Proprio

questa volontà mi ha spinto a concludere

gli studi in Biologia.

In questo modo cerco

di dare anche una valenza

scientifica al mio

lavoro, che prima mi

mancava».

Però diciamo la

verità: il suo lavoro

fotografico arricchisce

anche la conoscenza scientifica a sua volta…

«(ride) Le rispondo con le parole che mi

disse una volta un mio professore di Biologia:

“Se non fosse per i fotografi, noi biologi non

conosceremmo molte cose di cui parliamo”.

A me piace aggiungere, però, anche che se

non fosse per i biologi, i fotografi come me

non saprebbero cosa fotografano».

Crede che questo periodo di quarantena

Se non fosse per

i biologi, i fotografi come

me non saprebbero

cosa fotografano

© zoff/www.shutterstock.com

possa insegnarci qualcosa nel rapporto uomo-natura?

«Guardi, a me piace essere ottimista, lo

sono sempre stato. E credo che l’uomo abbia

già avuto prova di cosa voglia dire avere

comportamenti diversi nel rapporto con la

natura. Non guardiamo soltanto alle responsabilità

delle grandi

istituzioni, ma cominciamo

da noi stessi,

cominciamo dai nostri

comportamenti: sono

questi innanzitutto

che devono cambiare.

Se ancora non capiamo

che, ad esempio,

i cotton-fioc che usiamo per la nostra igiene

personale, se buttati nel gabinetto finiscono

in mare e creano enormi problemi agli animali,

significa che c’è ancora tanto da fare.

Da qui, da queste piccole e cattive abitudini,

dobbiamo partire».

Ultima domanda: la prossima immersione

quando è prevista?

«Domani, ovviamente». (C. G.)

Pasquale Vassallo.

Chi è

Fotografo subacqueo, laureato in

produzioni marine presso l’Università

di Napoli “Federico II”,

studioso dell’ecosistema marino,

Pasquale Vassallo nasce a Napoli

nel 1970. Ha imparato sin da piccolo

ad amare il mare e ad immergersi

in apnea alla ricerca di polpi e ricci.

Con il passare degli anni, la passione

per il grande blu, si è evoluta in pura

esplorazione del mondo sommerso.

Le sue foto ed i suoi articoli sono

stati pubblicati su importanti riviste

nazionali e internazionali, tra queste:

National Geographic, Tauchen,

Dive Master, Discovery Magazine,

Le Figarò, GeoMagazine e molte

altre. Numerosi i premi e riconoscimenti

in tutto il mondo, tra cui

il prestigioso “Plongeur d’Or” nel

2011 di Marsiglia.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

19


SALUTE

di Marco Modugno

La Società italiana di pediatria

(Sip), ha pubblicato sul suo sito

una raccolta dati, realizzata da

Alessandra Marchesi e Isabella

Tarissi de Jacobis, di Pediatria Generale e

Malattie Infettive dell’Ospedale Bambino

Gesù, e Mariacristina Maggio, della Clinica

Pediatrica Università di Palermo, sulla

possibile insorgenza della Malattia Kawasaki

in bambini colpiti da Covid-19. Si è

parlato molto della sindrome di Kawasaki

(MK) in queste settimane, una malattia

assai rara, molto comune nei bambini

giapponesi, ma che colpisce in tutto l’emisfero.

In Italia annualmente si contano 14

casi ogni 100mila bambini. Circa l’80% è

sotto i 5 anni, con un picco di incidenza

nei primi 2 anni di vita. È più comune nei

maschi, ed ha un tasso di contagio più elevato

tra fine inverno ed inizio primavera.

Fu descritta per la prima volta nel 1967

dal Giapponese, Tomisaku Kawasaki, pediatra

da cui ha preso il nome.

«Si tratta di una malattia che causa

un’infiammazione della parete di alcuni

vasi sanguigni, in particolare delle arterie

coronarie, che possono dilatarsi in alcuni

tratti causando aneurismi, perciò è fondamentale

eseguire una ecocardiografia.

L’infiammazione si limita da sola nel tempo

- rassicurano le dottoresse - la malattia

può guarire da sola, ma senza una terapia

adeguata i vasi del cuore vengono colpiti

più frequentemente nel 15-25% dei casi».

Si presume che alla base della MK ci

sia una causa scatenante infettiva- si legge

nella FAQ della Sip – data la presenza

di diversi batteri e virus, nei bambini con

MK, ma nessuno responsabile della malattia.

I soggetti con una predisposizione

genetica sono molto più colpiti, lo testimonia

il fatto che è più frequente nella popolazione

asiatica, con una maggiore incidenza

nei fratelli, soprattutto nei gemelli.

MALATTIA DI KAWASAKI

IN ITALIA COLPISCE

ANNUALMENTE 14 BIMBI

OGNI 100MILA

Lo studio della Società italiana di pediatria

spiega le caratteristiche di una patologia rara

Inoltre abbiamo casi di MK in figli di genitori

a loro volta colpiti nell’infanzia. La

MK si manifesta con febbre alta per oltre

5 giorni, variamente associata a congiuntivite

bilaterale, alterazioni delle labbra

e della bocca (arrossamento, secchezza)

eruzione cutanea,

arrossamento del

palmo delle mani e

della pianta dei piedi

e/o gonfiore di mani

e dei piedi, arrossamento

e desquamazione

dell’area del

pannolino, tumefazione

dei linfonodi del collo (monolaterale).

I sintomi hanno durata variabile, anche

molto breve, in alcuni casi si associano

altre manifestazioni della malattia come

(irritabilità, diarrea, vomito, dolori addominali,

interessamento del fegato, delle articolazioni,

della parete e delle valvole del

cuore). La diagnosi, non essendoci un test

Circa l’80% degli affetti dalla

malattia ha meno di 5 anni,

con un picco di incidenza

nei primi 2 anni di vita

specifico - assicurano le studiose- né di

laboratorio né strumentale, è per forza di

cose clinica, basandosi su febbre alta per

oltre 5 giorni associata ai sintomi elencati.

Si parla di forma tipica in presenza di

4/5 sintomi, incompleta se presenta 2/3

sintomi e atipica se ci

sono sintomi diversi.

Trarre una diagnosi

di MK è molto complicato

dato che questi

sintomi non sono

tipici solo di questa

malattia pediatrica.

L’evoluzione nei

bambini con MK è molto variabile, nei

casi dove l’ecocardiografia non mostra

danni delle coronarie o interessamento del

cuore, anche in età adulta non sembrano

avere problemi cardiaci maggiori rispetto

a chi non ha avuto la sindrome.

Gli studi però suggeriscono che la malattia

possa produrre un’alterazione del

20 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


© Immersion Imagery/www.shutterstock.com

SALUTE

metabolismo dei grassi e che i pazienti colpiti

da MK - sottolinea la ricerca pubblicata

sul sito della Sip - abbiano una pressione

arteriosa più elevata, per cui è opportuno

monitorare questi bambini nel tempo.

Dove c’è stato un interessamento

delle coronarie le

alterazioni si modificano

nel tempo: il

50/67% degli aneurismi

coronarici

scompare entro 1-2

anni dall’inizio della

malattia, soprattutto

se aneurismi piccoli

e se il bambino non aveva compiuto

l’anno di età al momento della diagnosi

di MK. Le arterie coronariche in cui persistono

le anomalie possono rimanere dilatate

o restringersi, diventando tortuose

o occludersi.

La principale causa di morte nella

MK è appunto l’infarto miocardico acuto

Tra i sintomi c’è febbre alta,

congiuntivite bilaterale,

eruzioni cutanee e tumefazioni

ai linfonodi del collo

causato da una occlusione trombotica di

un’arteria ristretta o dilatata, proprio per

questo si adotta la terapia con ASA e anticoagulanti

con lo scopo di prevenire questa

occlusione. Per la cura della Sindrome

di Kawasaki, la terapia adotta l’uso di farmaci

volti a diminuire

l’infiammazione,

riducendo i sintomi

più acuti.

Lo scopo principale

è quello di prevenire

la comparsa

degli aneurismi coronarici.

1) Immunoglobuline

endovena (IVIG): rappresentano

il trattamento “protettivo” per

eccellenza per le coronarie: si eseguono

entro il 10° giorno di malattia, dietro consenso

dei genitori e dopo aver eseguito un

prelievo per epatite B, epatite C e HIV. 2)

Cortisone (Metilprednisolone): Si esegue

in casi selezionati (età, indici di flogosi,

interessamento cardiaco) è la somministrazione

di un bolo di cortisone dopo la

prima infusione di Immunoglobuline. 3)

Aspirina (ASA): A dosaggio maggiore (antinfiammatorio),

4 volte al giorno, fino a

48 ore dalla scomparsa della febbre; a dosaggio

minore (antiaggregante), una volta

al giorno, per 8 settimane dall’inizio della

malattia in pazienti senza alterazioni coronariche,

per tempo indefinito nei bambini

con interessamento delle coronarie. Nei

bambini con aneurismi delle coronarie è

necessario associare un farmaco anticoagulante.

Non è possibile poter prevenire con

anticipo la Kawasaki, poiché a tutt’oggi

sono ancora sconosciute le cause – affermano

le dottoresse – però si può intervenire

con immediatezza in presenza di alcuni

sintomi: “In caso di febbre persistente e

altri sintomi, far valutare immediatamente

il piccolo da un pediatra - consigliano le

tre studiose. Nei bambini con diagnosi

certa di MK e in trattamento con aspirina,

evitare contatti con persone affette da varicella

o da influenza per il rischio di sindrome

di Reye. Nei bambini trattati con

immunoglobuline per la MK i vaccini contro

morbillo, rosolia, parotite e varicella

devono essere posticipati di dieci mesi

dopo la somministrazione delle IVIG. È

consigliato vaccinare contro l’influenza i

bambini che hanno avuto la MK e che assumono

aspirina.

Per quanto riguarda l’attività sportiva,

non ci sono restrizioni per i pazienti senza

dilatazione coronarica o con dilatazione

transitoria dopo la sospensione dell’aspirina.

Per gli altri pazienti l’idoneità all’attività

sportiva dovrebbe essere fornita da

Centri con provata esperienza: le restrizioni

sono legate ai risultati dei test di funzionalità

cardio-vascolare- concludono- oltre

che alla terapia in corso (anticoagulanti,

antiaggreganti piastrinici).

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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SALUTE

di Chiara Di Martino

Tale madre, tale figlio. L’antico detto

popolare sembra essere valido

anche quando si parla di microbioma

intestinale, cioè quelle comunità

microbiche nell’intestino vitali per la

digestione umana, il metabolismo e la resistenza

alla colonizzazione da parte di agenti

patogeni. Nei neonati e nei bambini fino a

tre anni d’età, la sua composizione cambia

frequentemente. Ma da dove provengono

questi microbi?

Fino a poco tempo fa, gli scienziati erano

stati in grado di analizzare il microbioma

intestinale tra le 500 e le 1.000 diverse

specie batteriche che hanno principalmente

un’influenza benefica: tanto per fare qualche

esempio, stimolano il sistema immunitario,

mantengono la regolare funzionalità

intestinale, agiscono da barriera contro le

infezioni, attivano diverse funzioni metaboliche

utili per la salute, assorbono nutrienti

e minerali. Solo più recentemente i ricercatori

sono stati in grado di identificare singoli

ceppi all’interno di una singola specie usando

potenti strumenti genomici e supercomputer

che analizzano enormi quantità di dati

genetici.

Dagli Stati Uniti, in particolare dalla

University of Alabama at Birmingham, arriva

un nuovo tassello per lo studio di queste

“comunità”: i ricercatori hanno infatti

utilizzato il loro metodo “fingerprint” per

scoprire che un mosaico individualizzato di

ceppi microbici viene trasmesso al microbioma

dell’intestino infantile da una madre

che partorisca attraverso il parto vaginale.

Per arrivare a questo risultato, hanno analizzato

i database metagenomici esistenti di

campioni fecali da coppie madre-bambino,

confrontandoli con la medesima trasmissione

nel topo. Si parla di “impronta digitale”

perché l’insieme dei microrganismi presente

nel tratto gastrointestinale può essere considerato

il nostro secondo codice genetico:

differisce da persona a persona in base all’alimentazione,

allo stile di vita e ad eventuali

farmaci assunti.

«I risultati della nostra analisi dimostrano

che molteplici ceppi di microbi materni

(anche quelli presenti in minore quantità

nella comunità fecale materna) possono essere

trasmessi durante

la nascita per stabilire

una diversa comunità

microbica dell’intestino

infantile - ha affermato

Casey Morrow,

professore emerito del

Dipartimento di Biologia

cellulare, evolutiva

e integrativa dell’UAB -. La nostra analisi

fornisce nuove intuizioni sull’origine dei

ceppi microbici nella complessa comunità

microbica del bambino». Alla ricerca hanno

lavorato anche Hyunmin Koo, del Dipartimento

di genetica e genomica dell’UAB, e

Braden McFarland, assistente professore al

Dipartimento di biologia cellulare, dello svi-

Dalla University of Alabama

at Birmingham, arriva un

nuovo tassello per lo studio

di queste “comunità”

luppo e integrativa dell’ateneo statunitense.

Lo studio ha utilizzato uno strumento

bioinformatico di tracciamento dei ceppi

precedentemente sviluppato presso la UAB,

chiamato “Window-based Similarity Single-nucleotide-variant

o “WSS”. La coppia

madre-figlio non è infatti

il primo oggetto

di ricerca del gruppo,

che ha già esplorato

questa trasmissione

in altre relazioni: nel

2017, hanno scoperto

che i microbi fecali

di un donatore - usati

per trattare i pazienti con infezioni ricorrenti

da Clostridium - sono rimasti nei riceventi

per mesi o anni dopo il trapianto. Nel 2018,

hanno dimostrato che i cambiamenti nel

tratto gastrointestinale superiore attraverso

la chirurgia dell’obesità hanno portato alla

nascita di nuovi ceppi di microbi. Nel 2019,

hanno analizzato la stabilità di nuovi ceppi

22 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SALUTE

IMPRONTA DIGITALE

MICROBICA: TALE MADRE

TALE FIGLIO?

Come avviene la trasmissione

del microbioma intestinale

© Anatomy Insider/www.shutterstock.com

negli individui dopo i trattamenti antibiotici

e, all’inizio di quest’anno, hanno scoperto

che i gemelli adulti, di età compresa tra 36

e 80 anni, condividevano un certo ceppo o

più ceppi per periodi di anni e persino decenni,

dopo aver iniziato a vivere separati gli

uni dagli altri.

Una tendenza

confermata anche da

quest’ultimo studio,

in cui sono stati trovati

diversi modelli

individuali specifici di

condivisione del ceppo

microbico tra madri

e bambini. Tre coppie madre-bambino

hanno mostrato solo ceppi correlati, mentre

una dozzina di bambini presentavano un

mosaico di microbi correlati e microbi non

correlati. È possibile che questi ultimi provenissero

comunque dalla madre, ma in lei

non erano il ceppo dominante e per questo

non erano stati rilevati.

Ora va riconsiderato il

contributo di diversi microbi

materni alla comunità

microbica enterica infantile

© Manjurul Haque/www.shutterstock.com

In un secondo studio, usando un set di

dati di nove donne presi in momenti diversi

durante la gravidanza, è emerso che in sette

donne si sono verificate variazioni di ceppi

nelle singole specie.

«I risultati dei nostri studi supportano

una riconsiderazione

del contributo di diversi

microbi materni

alla comunità microbica

enterica infantile

- ha detto Morrow

-. La costellazione di

ceppi microbici che

abbiamo rilevato nei

neonati ereditati dalla madre era diversa in

ogni coppia madre-bambino. Dato il ruolo

riconosciuto del microbioma nelle malattie

metaboliche come l’obesità e il diabete di

tipo 2, i risultati del nostro studio potrebbero

aiutare per spiegare ulteriormente la

suscettibilità del bambino alle malattie metaboliche

riscontrate nella madre».

La “nuvola” di microbi

impronta digitale microbica è talmente

unica da poter essere uti-

L’

lizzata, potenzialmente, anche… dalla

polizia scientifica: uno studio del 2015

dell’Università dell’Oregon ha infatti

studiato la “nuvola personalizzata” di

microbi lasciata da ogni essere umano,

talmente univoca da poter condurre

al legittimo “proprietario”. Il team di

ricerca ha studiato l’aria di una stanza

sanificata in cui si trovavano 11 persone.

«Ci aspettavamo di rilevare il

microbioma umano nell’aria attorno

a ciascuno, ma siamo rimasti sorpresi

dal riuscire a identificare la maggior

parte degli occupanti della stanza - ha

spiegato all’epoca il primo autore dello

studio James Meadow - provando

per la prima volta che ciascuno emette

la propria nuvola personalizzata di

microbi». Lo studio ha dato risultati

entro le 4 ore dal passaggio di una persona

in una stanza ed è stato condotto

analizzando microbi presenti nel corpo,

per esempio lo streptococco che si

trova in bocca, il propionibacterium e

il corynebacterium che invece abitano

sulla pelle. Il lavoro ha evidenziato

come la chiave per l’identificazione del

singolo individuo sia la diversa combinazione

di questi batteri.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

23


SALUTE

È LA CELLULA MADRE A DECIDERE

SE LA CELLULA FIGLIA SI DIVIDERÀ

L’importante scoperta all’Università del Colorado

sulla persistenza della memoria dei fattori di crescita

Per quarant’anni, ricordano i ricercatori

della University of Colorado

(UC) di Boulder, ogni studente

ha imparato che il fondamentale

processo della divisione cellulare si programma

nella prima fase di vita della cellula

stessa. È quello il periodo in cui si stabilisce

quando e se una cellula nata dalla

divisione della cellula madre a sua volta

genererà altre cellule. Ma uno studio sviluppato

da un team dell’Università del

Colorado e pubblicato sulla rivista Science

apre nuove importanti frontiere su ciò che

sappiamo del ciclo cellulare.

«Abbiamo visto qualcosa di diverso

rispetto a ciò che da tempo è scritto nei

libri sull’argomento», ha spiegato Sabrina

Spencer, autrice senior dello studio e ricercatrice

del dipartimento di Biochimica

dell’università e del BioFrontiers Institute.

I ricercatori hanno scoperto che in realtà

è la cellula madre a determinare se le

sue cellule figlie si divideranno. Una scoperta

arrivata tramite l’utilizzo di moderne

tecnologie di imaging nell’indagine del

ciclo cellulare, che ha ricadute importanti

sull’individuazione di terapie farmacologiche

per il cancro. Per la ricerca sarebbe

decisamente importante comprendere appieno

le cause che determinano la proliferazione

cellulare e, soprattutto, il momento

in cui questa viene decisa. Ne deriverebbe

la possibilità di personalizzare le cure farmacologiche

di contrasto al cancro agendo

anche sulla tempistica della cura stessa.

L’altro punto rilevante dello studio è

relativo alla percezione dei fattori di crescita

e alla loro memoria impressa nella

cellula: le cellule, è stato scoperto, possono

immagazzinare memoria della disponibilità

dei fattori di crescita. «Abbiamo scoperto

che anche bloccando la segnalazione operata

dai fattori di crescita - ha dichiarato

Mingwei Min, primo autore e ricercatore

presso il dipartimento di Biochimica

dell’UC e il BioFrontiers Institute - le cellule

possono percepirla e possono ricordare

quell’informazione per molte ore, fino al

ciclo della cellula figlia».

Il ciclo cellulare è regolato in tutte le

sue dimensioni e qualsiasi interruzione o

errore nel processo può avere effetti importanti.

Le cellule scelgono di dividersi

in base alla quantità di mitogeni (fattori

di crescita) che percepiscono nel loro

ambiente. È la disponibilità di mitogeni a

spingere la duplicazione e la proliferazione

cellulare.

«Le cellule tumorali possono entrare

nel ciclo cellulare anche se non ci sono fattori

di crescita – ha spiegato Spencer – e

questo è parte del motivo per cui proliferano

così tanto: il ciclo cellulare diventa sregolato

e la crescita continua incontrollata».

Una delle innovazioni presentate dallo

studio riguarda il metodo con cui è stato

osservato il processo. Se precedentemente

era sempre stato necessario isolare i fattori

di crescita per sincronizzare il ciclo cellulare,

in questa ricerca sono state utilizzate

tecniche di microscopia timelapse e tecnologie

di tracciamento dello sviluppo cellulare:

così è stato possibile filmare le cellule

in attività in un tempo libero. L’operazione

sarebbe stata impensabile fino a dieci anni

24 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

© Juta/www.shutterstock.com


SALUTE

Capire quando viene decisa la proliferazione

cellulare aiuterebbe a personalizzare le cure

farmacologiche di contrasto al cancro

agendo anche sulla tempistica della terapia

hanno verificato che le cellule figlie non

hanno deciso in autonomia se dividersi,

ma hanno stabilito se impegnarsi o meno

in un nuovo ciclo cellulare immediatamente

dopo la divisione della cellula madre.

«Questo significa - ha aggiunto Spencer -

che la scelta è stata assunta nel precedente

ciclo cellulare, perché le cellule figlie erano

già nate. Possiamo ricavare che, probabilmente,

tutto il rilevamento dell’ambiente

avviene nel ciclo delle cellule madri».

Il passo successivo è stato interrogarsi

sul “quando” la cellula madre decide se le

sue cellule figlie si divideranno.

Per rispondere al quesito i ricercatori

hanno rimosso e sostituito i fattori di crescita

per diverse ore e in diverse fasi del ciclo

della cellula madre.

Hanno così scoperto che quanto più a

lungo i fattori di crescita sono stati rimossi,

tanto meno è risultato probabile che le

cellule figlie si siano divise. Nello specifico,

quando i fattori di crescita sono stati rimossi

per più di nove ore, nessuna delle cellule

figlie si era divisa.

Se dunque le cellule rilevano continuamente

la segnalazione del fattore di crescita,

e non solo nella prima fase dopo la divisione,

i farmaci antitumorali potrebbero

avere una finestra più ampia per rilasciare

effetti terapeutici. (S. L.).

fa, quando pochissimi laboratori potevano

tracciare le cellule e comunque per non più

di due ore. Il gruppo - sono coautori della

ricerca anche Yao Rong e Chengzhe Tian,

del medesimo istituto - utilizzando un metodo

computazionale di tracciamento, è invece

riuscito a tracciare migliaia di cellule

in un arco temporale di 48 ore. L’attività di

una singola cellula è stata fissata in centinaia

di immagini sequenziali.

La sperimentazione condotta nei laboratori

dell’Università del Colorado ha offerto

un tassello importante del funzionamento

di questo meccanismo. Gli scienziati

Il ciclo cellulare nelle scuole

I

l progetto “AIRC nelle scuole”

mette a disposizione una serie

di strumenti e materiali per parlare

di cellule e cancro utilizzando il

linguaggio più adatto all’età degli

studenti. Sul sito dedicato (http://

scuola.airc.it/) è possibile scaricare

gratuitamente i kit a disposizione,

specifici per le scuole di ogni ordine

e grado. Per la scuola dell’infanzia,

per esempio, il kit “Mangioco”

comprende una lezione strutturata

in collaborazione con un pedagogista,

immagini da colorare e alcuni

giochi. Per la scuola secondaria di

primo grado, invece, sono disponibili

proposte di semplici esperimenti

per scoprire il metodo scientifico e

praticare la chimica in cucina. Per

gli studenti delle scuole superiori,

invece, nella sezione dedicata alla

biologia, è possibile accedere a materiale

esplicativo specifico sul ciclo

cellulare e il cancro.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

25


SALUTE

© Chinnapong/www.shutterstock.com

Le malattie professionali tabellate del 2020

Due le liste esistenti, una per l’agricoltura e una per l’industria

Per poter parlare di malattie professionali tabellate, è

fondamentale la presenza di due condizioni. La prima,

richiede che la patologia sia sopraggiunta nel corso

dell’attività e sempre tenendo conto delle lavorazioni indicate

nelle stesse tabelle Inail. La seconda condizione è quella di

natura temporale (l.c sta per leghe e composti, nda).

Per quanto riguarda il comparto dell’agricoltura, l’Inail riconosce

le malattie provocate da:

• Arsenico e c.; Composti inorganici del fosforo; Composti

organici del fosforo; Derivati alogenati degli idrocarburi alitatici;

Derivati del benzene e omologhi; Composti del rame; Derivati

dell’acido carbammico e tiocarbammico; Composti organici

dello stagno; Derivati dell’acido ftalico e ftalimide; Derivati del

dipiridile; Formaldeide; Zolfo e anidride

Richiedono due condizioni:

che la patologia sia

sopraggiunta durante l’attività

e la natura temporale

solforosa; Olii minerali; Dermatite irritativa

da contatto; Cloracne causata; Asma bronchiale;

Alveoliti allergiche estrinseche con o

senza evoluzione fibrotica; Radiazioni solari

; Rumore; Vibrazioni meccaniche trasmesse

al sistema mano- braccio; Ernia discale lombare;

Sovraccarico biomeccanico degli arti

superiori; Ncylostoma duodenalis.

Quanto detto, vale anche per l’industria, le cui malattie professionali

tabellate Inail 2020 sono quelle causate da:

• Antimonio, l.c; Arsenico, l.c; Carcinoma del polmone;

Berillio, l.c; Cadmio, l.c; Cromo, l.c; Manganese, l.c; Mercurio,

amalgame e c.; Nichel, l.c; Osmio, l.c; Piombo, l.c; Piombo tetraetile

e tetrametile; Selenio, l.c; Stagno, l.c; Tallio, l.c; Uranio e c.;

Vanadio, l.c; Zinco, l.c; Bromo e suoi composti inorganici; Cloro

e suoi composti inorganici; Iodio e suoi composti inorganici;

Fluoro e suoi composti inorganici; Ossido di carbonio; Cloruro di

carbonile o fosgene; Composti inorganici del fosforo; Composti

organici del fosforo; Acido solforico; Solfuro di carbonio; Idrogeno

solforato; N- esano e altri idrocarburi alifatici lineari e ciclici;

Etere di petrolio; Acqua ragia minerale; Idrocarburi aromatici

mononucleari; Esposizione a idrocarburi policiclici aromatici;

Cloruro di vinile; Derivati alogenati o nitrici degli idrocarburi

alifatici; Derivati alogenati o nitrici degli idrocarburi aromatici;

Terpeni; Amine alifatiche e derivati; Amine aromatiche e derivati;

Ammidi; Acido cianidrico, cianuri, nitrili, isocianati; Chetoni e

derivati alogenati; Aldeidi e derivati; Chinoni e derivati; Alcoli,

tioli e derivati alifatici e aromatici; Esposizione per la produzione

di alcol isopropilico; Eteri e loro derivati; Acido carbammico,

acido tiocarbammico, carbammati, tiocarbammati; Esteri organici

e derivati; Esteri organici dell’acido nitrico; Asma bronchiale

con le sue conseguenze dirette; Alveolite allergica estrinseca con

o senza evoluzione fibrotica; Antracosi; Baritosi;

Siderosi; Pneumoconiosi da polveri di

pietra pomice; Malattie da asbesto; Erionite;

Pneumoconiosi da talco (talcosi); Pneumoconiosi

da mica; Pneumoconiosi da caolino;

Pneumoconiosi da polveri di silicati del tipo

argille; Polveri e fumi di alluminio; Metalli

duri; Bissinosi; Broncopneumopatia cronica

ostruttiva; Polveri di legno duro; Polveri

di cuoio; Dermatite allergica da contatto causata da agenti non

compresi in altre voci; Dermatite irritativa da contatto causata

da agenti non compresi in altre voci; Dermatite follicolare da oli

minerali; Cloracne; Dermatite irritativa o mista da fibre di vetro;

Dermatite irritativa o mista da malta cementizia e calcestruzzo;

Ipoacusia da rumore; Vibrazioni meccaniche trasmesse al sistema

mano- braccio; Ernia discale lombare; Sovraccarico biomeccanico

dell’arto superiore; Sovraccarico biomeccanico del ginocchio;

Lavori subacquei ed in camere iperbariche; Radiazioni ionizzanti;

Radiazioni laser; Radiazioni infrarosse; Radiazioni u.v. comprese

le radiazioni solari; Ancylostoma duodenalis. (P. S.).

26 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SALUTE

© Yang Nan/www.shutterstock.com

Trovato un gene che causa difetti metabolici

Si chiama GALNT2 ed afflige sette persone in tutto il mondo

di Carmen Paradiso

Si chiama GALNT2 ed è il nuovo gene, scoperto da un team

di ricercatori italiani, responsabile di una malattia rara. Una

patologia caratterizzata da un grave difetto del metabolismo

è stata oggetto di uno studio, pubblicato sulla rivista scientifica

Brain, realizzato dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù in

collaborazione col Policlinico Universitario di Messina e altri centri

internazionali: in USA (Pennsylvania, Minnesota, California), Germania,

Danimarca, Finlandia ed Egitto.

Lo studio è stato condotto sugli unici sette casi al mondo, noti

al momento. Nel laboratorio di genetica dell’Ospedale Pediatrico

Bambino Gesù è stato isolato il GALNT2 la

cui mutazione è la causa della patologia; da

qui è derivato il nome della stessa: “GAL-

NT2-congenital disorder of glycosylation

(GALNT2-CDG)”. Si tratta di una patologia

congenita a trasmissione ereditaria. Nelle patologie

autosomiche recessive entrambi i genitori

sono portatori sani del gene mutato. Quindi la

trasmissione deve avvenire da entrambi i genitori.

Uno degli esempi è dato dall’albinismo che si manifesta solo in

soggetti omozigoti per questa patologia.

Nel caso della GALNT2-congenital disorder of glycosylation

(GALNT2-CDG) i sette casi accertati provengono da famiglie,

quattro, in cui è stata sia accertata che diagnosticata la patologia.

Inoltre, sono state effettuati gli esami clinici e le indagini genetiche

SNP-array e sequenziamento dell’esoma, anche su due pazienti di

cui uno catalogato nella ricerca come controllo negativo. Il paziente

non manifestava i segni della patologia pur essendo portatore di due

varianti del gene GALNT2 e quindi non presentava i segni dell’alterazione

dell’attività proteica.

La ricerca, condotta dall’ospedale

Bambin Gesù e dal Policlinico

di Messina, è stata pubblicata

sulla rivista Brain

Grazie a questo studio sono state definite le caratteristiche genetica

che hanno evidenziato un ritardo globale dello sviluppo, disabilità

intellettiva con deficit del linguaggio, tratti autistici, epilessia,

anomalie cerebrali, dismorfismi e riduzione dei livelli di colesterolo

HDL. «La scoperta di un gene-malattia è sempre il punto di partenza

per ogni futuro intervento diagnostico e di presa in carico di quella

malattia – ha spiegato il dottor Antonio Novelli, responsabile della

UOC Laboratorio di Genetica Medica dell’Ospedale - La medicina

di precisione, cioè lo sviluppo di protocolli mirati di terapia, non

esisterebbe se non si avesse la possibilità di partire da uno specifico

difetto genetico nei confronti della malattia e dalle vie metaboliche

che vengono alterate dalla mutazione genica. Un percorso che a volte

può consentire di sviluppare molecole o interventi di altra natura

specificamente rivolti a contrastare l’effetto

della mutazione».

La “GLANT2-CDG” rientra nel gruppo

delle malattie metaboliche ereditarie rare

dette “ Disturbi congeniti della glicosilazione

(CDG)”, si tratta di malattie solitamente multisistemiche.

La glicosilazione prevede una serie

complessa di reazioni e coinvolge numerosi

enzimi, uno per ogni specifico passaggio: è sufficiente

che un unico enzima sia carente o funzioni male perché ne

risenta il funzionamento di tutte quelle proteine per le quali la componente

zuccherina è importante. Poiché l’effetto della glicosilazione

avviene su molteplici proteine responsabili di diverse funzioni di

una cellula, un disturbo di tale processo causa la compromissione di

molti organi.

Il ritardo psicomotorio è uno dei segni più frequenti di queste

patologie, oltre a disfunzioni del sistema immunitario, del sistema

endocrino e della coaugulazione. Ad oggi non esistono cure per queste

malattie, ciò che la medicina è in grado di fare è trattare i sintomi

e offrire consulenze genetiche alle famiglie.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

27


SALUTE

Un odore, un suono, anche una

semplice parola: anche a distanza

di molto tempo basta poco, a volte,

per richiamare alla mente un

brutto ricordo e, con lui, gli effetti originari

sulla nostra psiche. Ansia, per esempio, ma

anche attacchi di panico. Perché questo accade

oggi sembra essere un po’ più chiaro

grazie a uno studio dello Zuckerman Institute

della Columbia pubblicato su Neuron.

Tutto è iniziato da un racconto raccolto

dallo psichiatra clinico (coautore dello studio)

Mohsin Ahmed, assistente professore al

Vagelos College of Physicians and Surgeons

della Columbia: una donna cammina per

strada, sente un botto; alcuni istanti dopo

scopre che il suo ragazzo, che le camminava

davanti, è stato colpito da un proiettile. Un

mese dopo la donna si presenta al Pronto

soccorso: i rumori emessi dai camion della

spazzatura, dice, le stanno causando attacchi

di panico.

Il suo cervello sembrava avere formato

una connessione profonda e duratura tra

suoni forti e l’evento traumatico a cui aveva

assistito. Cosa ha scoperto il gruppo di

ricerca? Un meccanismo sorprendente attraverso

il quale l’ippocampo, la parte del

cervello situata nella regione interna del

lobo temporale – considerata la “sede” della

memoria - costruisce “ponti” nel tempo: lo

fa sparando scariche di attività che sembrano

casuali, ma in realtà formano un modello

complesso che, nel tempo, aiuta il cervello

ad apprendere associazioni. Rivelando i circuiti

sottostanti l’apprendimento associativo,

i risultati dello studio gettano le basi per

una migliore comprensione dell’ansia e dei

disturbi legati al trauma e allo stress, come

il panico e i disturbi da stress post-traumatico,

in cui un evento apparentemente neutro

può suscitare una risposta negativa.

«Sappiamo che l’ippocampo è importante

nelle forme di apprendimento che

implicano il collegamento di due eventi che

PANICO, ANSIA, TRAUMI:

COME IL CERVELLO COLLEGA

EVENTI DISTANTI NEL TEMPO

Uno studio dello Zuckerman Institute

della Columbia pubblicato su Neuron

si verificano anche fino a 10-30 secondi di

distanza - ha detto Attila Losonczy, ricercatore

del Mortimer B. Zuckerman Mind

Brain Behaviour Institute della Columbia e

professore di neuroscienze al Vagelos College

of Physicians and Surgeons, autore co-senior

del documento -. Questa capacità è un

fattore chiave per sopravvivere,

ma i meccanismi

che nascono Gli studiosi hanno

si sono finora rivelati

“immortalato” parti

sfuggenti. Con lo studio

di oggi, abbiamo dell’ippocampo durante

mappato i complessi l’esposizione a diversi stimoli

calcoli che il cervello

esegue per collegare

eventi distinti che sono anche separati nel

tempo».

«L’opinione prevalente è che le cellule

dell’ippocampo mantengano un livello di

attività persistente per associare eventi distanti

nel tempo – ha detto Ahmed -. La disattivazione

di queste celle interromperebbe

così l’apprendimento».

Nell’esperimento, gli studiosi hanno

“immortalato” parti dell’ippocampo durante

l’esposizione a due diversi stimoli:

un suono neutro seguito da un piccolo ma

spiacevole sbuffo d’aria, distanti circa 15

secondi. Gli scienziati hanno ripetuto questo

esperimento attraverso diverse prove.

Nel corso del tempo,

si è creata l’associazione

tra i due stimoli.

Usando la microscopia

a due fotoni

avanzata e l’imaging

funzionale del calcio,

hanno registrato

l’attività simultanea

di migliaia di neuroni nell’ippocampo nel

corso di ogni prova per molti giorni. «Con

questo approccio, potremmo simulare,

seppur in modo più semplice, il processo

che il nostro cervello subisce quando impariamo

a collegare due eventi» ha detto Losonczy.

Per trovare un filo ancora più lineare

alle informazioni raccolte, i ricercatori

28 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SALUTE

© BlurryMe/www.shutterstock.com

hanno poi collaborato con neuroscienziati

computazionali che sviluppano strumenti

matematici per analizzare enormi quantità

di dati sperimentali.

«Ci aspettavamo di vedere un’attività

neurale continua e ripetitiva persistente durante

il gap di quindici secondi, un’indicazione

dell’ippocampo

“Enormi” le potenzialità

legate a questa scoperta

per mappare i circuiti

dell’apprendimento

© Tero Vesalainen/www.shutterstock.com

al lavoro che collegasse

il tono uditivo

e il soffio d’aria - ha

detto il neuroscienziato

computazionale

Stefano Fusi, ricercatore

allo Zuckerman

e coautore senior del

documento -. Ma quando abbiamo iniziato

ad analizzare i dati, non abbiamo visto tale

attività».

L’attività neurale registrata durante l’intervallo

era effettivamente scarsa. Solo un

piccolo numero di neuroni si era “acceso” e

sembrava farlo apparentemente a caso. «L’attività

sembra avvenire a intervalli intermittenti

e casuali – ha dichiarato il dottorando

James Priestley, tra gli autori dello studio -.

Per comprendere il meccanismo, abbiamo

dovuto cambiare il modo in cui stavamo

analizzando i dati e utilizzare strumenti progettati

per dare un senso ai processi casuali».

Alla fine, il modello è stato individuato: invece

di comunicare costantemente

tra loro,

i neuroni risparmiano

energia, forse codificando

le informazioni

nelle sinapsi, piuttosto

che attraverso

l’attività elettrica delle

cellule. Un segno di

grande efficienza, da parte del cervello. Le

potenzialità di questa scoperta per mappare

i circuiti coinvolti nell’apprendimento associativo

sono enormi, altrettanto quelle per

esplorare più profondamente i disturbi che

coinvolgono disfunzioni nella memoria associativa,

come il panico e il disturbo da stress

post-traumatico. (C. D. M.)

I numeri

emergenza sanitaria che coinvolge

L’ (anche) il nostro Paese ha messo

a dura prova la stabilità psicologica

di circa il 63% degli italiani, secondo

un’indagine del Consiglio nazionale

dell’Ordine degli Psicologi. Quello

che viene “misurato” oggi, però, è un

fenomeno attestatosi in crescita negli

ultimi anni, anche prima della pandemia

e del conseguente lockdown, che

ne hanno certamente acuito l’espressione.

Un’indagine 2019 dell’Associazione

Europea Disturbi da Attacchi di

Panico (Eurodap) aveva già registrato

un forte aumento di italiani alle prese

con ansia e attacchi di panico: ben il

79% dei soggetti che hanno risposto al

sondaggio aveva avuto, nel mese precedente,

manifestazioni fisiche frequenti

e intense di ansia, mentre il 73% del

campione ha dichiarato di percepirsi

come una persona molto apprensiva. Il

68% ha riferito di vivere con disagio lo

stare lontano da casa o dai luoghi familiari

e il 91% ha dichiarato di avere

non poche difficoltà nel rilassarsi. Secondo

gli esperti, gli attacchi di panico

si manifestano generalmente tra i 15 e

i 35 anni, con un nuovo picco tra i 44

e i 55 anni.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

29


SALUTE

LEGGERE LE EMOZIONI CON UN

RADAR A ONDA CONTINUA

Una ricerca portoghese ha sottoposto dei volontari a un test di

cattura dello stato d’animo a partire dal ritmo del respiro

Dire che un’emozione ci si legge in

volto potrebbe diventare un’affermazione

dal valore scientifico

incontrovertibile. Soprattutto

se, come suggerisce un recente studio

portoghese, toccherà a una tecnologia già

nota e comunemente

in uso l’interpretazione

di ciò che il corpo,

più precisamente il

nostro respiro, prova

a dire di noi e del nostro

stato d’animo.

Uno studio sulla

fattibilità dell’utilizzo

del radar a onda continua per il riconoscimento

delle emozioni è stato sviluppato nel

dipartimento di Elettronica, Telecomunicazioni

e Informatica dell’Università di Aveiro,

in Portogallo. La ricerca, di cui Carolina

Gouveia è l’autrice principale, è stata pubblicata

sul numero di aprile della rivista “Biomedical

Signal Processing

and Control”.

L’indagine ha verificato

la possibilità

di sfruttare le onde

continue nella rilevazione

del segnale

respiratorio dell’individuo,

per poi

strutturare una corrispondenza

quanto più solida tra il segnale

corporeo e l’emozione provata.

Il punto di partenza dello studio è la

consapevolezza che le nostre emozioni siano

risposte adattive a eventi o stimoli esterni

che influenzano il nostro comportamento.

La patologia porta perdita

del contatto con la realtà

e una costruzione

di una vita alternativa

Gli autistici hanno difficoltà

a rispondere alle domande

e a partecipare alla vita

o ai giochi di gruppo

Ed è ormai noto che queste reazioni possano

essere comunicate anche da alcuni indicatori

biologici: ritmo cardiaco, affanno o precisi

movimenti del corpo. Ma, attualmente,

per misurare il comportamento attraverso le

variazioni di questi segnali fisiologici è necessario

fare ricorso

a una strumentazione

che prevede il contatto

con il corpo, basti

pensare all’elettroencefalogramma

o all’elettrocardiogramma.

Inoltre, hanno fatto

notare gli autori dello

studio, proprio il contatto tramite sensori e

la consapevolezza del funzionamento delle

strumentazioni potrebbe influenzare i risultati

della misurazione.

Non è la prima volta che gli scienziati

pensano ai radar per rilevare gli stati emotivi

nelle persone. Alcuni studi recenti

avevano già indagato

la materia, puntando

© sun ok/www.shutterstock.com

a generare algoritmi

capaci di “riconoscere”

le emozioni. Nel

2016, in occasione

dell’International

Conference on Mobile

Computing and

Networking fu presentato

l’utilizzo del radar a modulazione

di frequenza (FMCW) nel monitoraggio

del battito cardiaco durante la visualizzazione

di ricordi racchiusi in immagini

o musica, e collegando il segnale a sensazioni

di gioia, tristezza o rabbia. In questo

caso era stato utilizzato l’algoritmo di

classificazione SVM (Support-Vector Machine),

raggiungendo un livello di accuratezza

del 72,3%.

Due anni dopo, nel 2018, un team

dell’università della California, al summit

Asia-Pacific Microwave Conference

promosso dall’ Institute of Electrical and

Electronics Engineers (IEEE), ha presentato

un’applicazione basata sull’algoritmo

k-nearest neighbors (KNN, un algoritmo

tipico del machine learning, utilizzato nel

riconoscimento dei pattern per classificare

oggetti simili a un oggetto dato come target)

e su un radar CW per la verifica del

segnale respiratorio collegato a quattro

emozioni: gioia, tristezza, paura e uno stato

di neutralità. In questo caso il tasso di precisione

è stato del 67,4%.

Risalgono, inoltre, allo stesso anno altri

studi basati sulla risposta allo stress, in

cui l’algoritmo SVM è stato utilizzato per

provare a distinguere tra stress psicologico

30 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SALUTE

e fisico a partire dalla misurazione del respiro.

La sperimentazione portoghese ha

utilizzato invece una tecnologia diversa: il

radar utilizzato è basato su una tecnologia

chiamata Software Defined Radio (SDR),

che permette, cioè, di realizzare apparati

radio non soltanto grazie all’hardware

ma che sono definiti dal software. Questa

tecnologia è stata sfruttata per rilevare il

respiro, verificando i cambiamenti del suo

ritmo man mano che agli individui coinvolti

venivano mostrati video collegati alle

emozioni da indagare: comici, spaventosi

oppure su un genere neutrale come quello

del documentario.

Per evitare contaminazioni, i nove partecipanti

allo studio erano del tutto ignari

del contenuto che avrebbero visionato e

venivano testati in tre sessioni distinte, una

per ciascuna delle emozioni da “misurare”,

a distanza di una settimana l’una dall’altra.

La sperimentazione, inoltre, ha elaborato

i segnali raccolti con tre algoritmi diversi

SVM, KNN e Random Forest. I segnali respiratori

dei volontari sono stati acquisiti

utilizzando un sistema radar CW chiamato

Bio-Radar, abbinato a un apparecchio di

certificazione dell’acquisizione del segnale.

L’obiettivo del team era verificare

quanto i segnali misurati a distanza possano

essere utilizzati per l’identificazione delle

emozioni. I risultati, hanno spiegato gli

autori della ricerca, sono stati positivi. Dei

tre algoritmi utilizzati, quello più efficace

è stato il Random Forest che ha permesso

di raggiungere una validazione del 65,2%.

A partire da questi risultati, la ricerca

portoghese condivide alcuni spunti

sull’utilizzo futuro del radar a onda continua.

Gli scenari più interessanti appaiono

quelli dell’assistenza a pazienti in cura psicologica:

captarne con maggiore precisione

le emozioni senza ricorrere a indagini

invasive potrebbe essere d’aiuto nei processi

della diagnosi e della cura di molti

disturbi. (S. L.).

L’emotion AI

L

a possibilità di riconoscere le emozioni

è l’obiettivo di numerosi

scienziati che sperano di poter applicare

la rilevazione a distanza del nostro

sentire a svariati campi. Un settore che

su questo punto sta investendo molto

è quello del marketing, per cui prende

sempre più spazio il ricorso all’Emotion

AI. L’obiettivo è sfruttare l’intelligenza

artificiale per riconoscere e

interpretare alcuni segnali di apprezzamento

o disturbo di clienti e potenziali

acquirenti. La cattura dell’emozione

può avvenire attraverso la webcam.

Ma le sperimentazioni di Emotion AI

indagano anche le modulazioni sonore

della nostra voce, per cercare di riconoscere

in un’inflessione un segnale di

potenziale interesse.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

31


SALUTE

IL GENE CHE CONTROLLA

L’ATTIVITÀ ELETTRICA CEREBRALE

Si chiama Foxg1 e può modulare l’attività

dei neuroni della nostro cervello

Una ricerca guidata da SISSA (Scuola

Internazionale Superiore di Studi

Avanzati) di Trieste, Università

di Trento e Istituto di Neuroscienze

di Pisa, ha individuato il gene Foxg1 che ha

la capacità di modulare l’attività elettrica dei

neuroni della nostra corteccia cerebrale, elemento

fondamentale per il funzionamento del

nostro cervello, comportandosi come una vera

e propria manopola molecolare.

Le enormi capacità di questo gene erano

già note ai ricercatori, tanto da venir considerato

un “Master Gene” un gene maestro,

capace di coordinare l’azione di centinaia di

altri geni necessari per lo sviluppo del nostro

sistema nervoso centrale anteriore. Come riportato

da questo nuovo studio, - spiega la

SISSA in un comunicato ufficiale - da questo

gene dipende anche “l’eccitabilità” dei neuroni,

ossia la capacità che essi hanno nel rispondere

agli stimoli, comunicando tra di loro

e svolgendo tutti i compiti loro assegnati. Lo

studio dei ricercatori si è basato su esperimenti

che sono stati condotti su modelli animali e

cellulari dove il gene Foxg1 aveva un’attività

artificialmente alterata: con un’attività che potremmo

definire scarsa, volta a riprodurre una

situazione tipica nei pazienti affetti da una rara

variante della Sindrome di Rett, malattia che

è clinicamente riconducibile ad alcuni aspetti

dello spettro autistico; o altrimenti con un’

attività particolarmente eccessiva, situazione

che si verifica in una specifica variante della

Sindrome di West, con sintomi neurologici

molto importanti come ad esempio una grave

epilessia oppure un severo ritardo cognitivo.

Grazie a queste osservazioni, le deduzioni

avute dagli scienziati della ricerca hanno

potuto avere le loro conferme, il difetto nella

“manopola” si manifesta con un’alterata

attività elettrica del cervello che comporta

conseguenze importanti per l’intero sistema,

in maniera molto speculare a quanto accade

nelle due sindromi sopracitate. «Fare luce su

questo meccanismo - dicono i ricercatori – ci

permette di comprendere più profondamente

il funzionamento del nostro sistema nervoso

centrale sia quando è in salute che in caso di

malattia, passo fondamentale per valutare possibili

futuri interventi terapeutici per fronteggiare

queste patologie».

Questa ricerca condotta sul gene Foxg1,

cronologicamente è quella più recente e si va

a collocare all’interno di una serie di tre studi

riguardanti questo particolare gene, che

sono appunto stati recentemente pubblicati

dai ricercatori della SISSA sulla famosa rivista

scientifica di Neuroscienza “Cerebral Cortex”.

Un progetto iniziato oltre cinque anni

fa, che ha visto coinvolte in prima linea l’equipe

del professor Antonello Mallamaci della

SISSA assieme ai ricercatori del Università

di Trento e l’Istituto di Neuroscienze di Pisa,

con il sostegno della Fondazione Telethon, in

prima linea per la ricerca di cure per malattie

genetiche rare, della Fondazione Francese

“Jerome Lejeune” ed infine della FOXG1 Research

Foundation (FRF).

«Sapevamo che questo gene era importante

per lo sviluppo del sistema nervoso centrale

anteriore» spiega Antonello Mallamaci,

Lo studio consentirà

di approfondire il

funzionameno del nostro

sistema nervoso centrale

32 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SALUTE

Da questo “Master Gene” dipende anche

“l’eccitabilità” dei neuroni, ossia la capacità

che hanno nel rispondere agli stimoli,

comunicando tra di loro e svolgendo

tutti i compiti che gli sono assegnati

professore di Biologia Molecolare presso la

SISSA, che ha ricoperto il ruolo di coordinatore

della ricerca. «Negli studi precedenti, in

effetti, avevamo già messo in luce come fosse

coinvolto nello sviluppo di particolari cellule

del cervello, gli astrociti, come pure dei dendriti

neuronali, che sono le parti delle cellule

nervose che trasportano il segnale elettrico in

arrivo alla cellula. Il fatto che fosse mutato in

pazienti affetti da specifiche varianti delle sindromi

di Rett e quella di West, in cui si assiste,

rispettivamente, a un’insufficiente oppure ad

un’eccessiva attività di questo gene, ci ha fatto

esplorare la possibilità che il suo ruolo fosse

anche un altro. E, da quanto emerso, sembrerebbe

proprio così».

Lo studio avrebbe infatti evidenziato

come nell’attivazione dell’attività elettrica di

Foxg1, venga seguito un circuito positivo,

come spiega ancora il professor Mallamaci:

«Se il gene è molto attivo si registra un aumento

dell’attività elettrica nella corteccia

cerebrale. In più i neuroni, quando sono attivi,

tendono a farlo lavorare ancor di più. Un

processo, insomma, alimenta l’altro. Se però

il gene funziona in maniera abnorme, oppure

si trova in un numero di copie diverso da

due, come avviene nelle sindromi di Rett ed in

quella di West, il punto di equilibrio cambia

e il regime di attività elettrica è alterato. Tutto

questo, oltre a farci capire i meccanismi della

Il prossimo passo sarà

capire il funzionamento dei

geni mediatori, ossia quelli

regolati da Foxg1

patologia, ci dice che Foxg1 funziona proprio

come regolatore chiave dell’attività elettrica

della corteccia cerebrale».

La ricerca non si ferma mai ed il team del

professor Mallamaci è pronto ed ha già ben

chiaro in mente quale sarà il prossimo obiettivo

da raggiungere: occorre capire e comprendere

il ruolo che svolgono i geni mediatori,

ossia alcuni tra i moltissimi geni la cui azione

è regolata dal gene maestro Foxg1. Questa

analisi sarà molto importante per riuscire a

comprendere in modo ancora più dettagliato

come questo gene funzioni sia in condizioni

normali che patologiche. «Posto che trovare

una terapia per queste malattie è difficilissimo,

lavorando così in profondità si potrebbe scoprire,

per esempio, che la maggior parte dei

problemi siano causati proprio da alcuni degli

operatori che Foxg1 regola.

E che quindi si debba concentrare la nostra

attenzione su questi obiettivi, piuttosto

che sul gene maestro, magari utilizzando dei

farmaci che già esistono e che si sono visti essere

utili per rimediare a quegli specifici difetti».

Infine il professore Mallamaci si sofferma ad

analizzare quali potrebbero essere gli aspetti

futuri nel caso si volesse invece andare a correggere

le anomalie a carico del gene Foxg1

con la terapia genica: «Bisogna capire quando

intervenire ossia da che momento in poi

gli effetti patologici dovuti alla mutazione di

tale gene diventano irreversibili. Per sostituire

la copia difettosa con quella corretta

bisogna intervenire prima di quel momento,

il che potrebbe supporre di dover effettuare

una diagnosi e una terapia genica prenatale.

I prossimi passi che compiremo - conclude il

professor Mallamaci – saranno orientati proprio

nella direzione di comprendere più a fondo

tutti questi aspetti». (M. M).

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

33


SALUTE

MALATTIE NEURODEGENERATIVE

DA TRENTO UNA CHIAVE GENETICA

Un meccanismo molecolare per curare

«nel giro di qualche anno» diverse patologie

di Domenico Esposito

La premessa è d’obbligo: serviranno

ancora tempo, ricerca e investimenti.

Ma da oggi i pazienti affetti

da malattie neurodegenerative, e i

parenti che si prendono cura di loro, hanno

una speranza in più da coltivare. Tutto grazie

ai ricercatori dell’Università di Trento,

meritevoli della concessione di un brevetto

valido in Europa

e negli Usa grazie

all’invenzione di un

meccanismo che si

inserisce nell’ampia

ricerca scientifica internazionale

sulle terapie

geniche.

Oggetto delle ricerche

compiute nei

laboratori dell’ateneo di Trento i filamenti

Rna. Quello delle malattie neurodegenerative,

oltre a rappresentare un dramma individuale,

con l’invecchiamento generale

della popolazione costituisce uno dei maggiori

problemi di salute pubblica a livello

globale. Michela Denti, coordinatrice dello

I ricercatori dell’Università

di Trento hanno ottenuto

un brevetto valido in

Europa e negli Usa

studio realizzato dall’Università di Trento,

da più di dieci anni studia quelle a base

genetica. Proprio lei ha spiegato come il

nuovo approccio terapeutico sia stato testato

finora soltanto sulle cellule di laboratorio.

Una precisazione che serve a ribadire

come, prima di cantare vittoria, si debba

porre in essere la fase preclinica, passaggio

indispensabile affinché qualcuno possa decidere

di acquisire il brevetto e dare il via

ad una sperimentazione clinica.

Proprio Michela

Denti giudica il meccanismo

«promettente»

e auspica che nel

giro di qualche anno

possa diventare una

terapia nuova per varie

malattie, sia rare

che diffuse, caratterizzate

da «un’irreversibile

e progressiva perdita di funzionalità

neuronale» e per le quali ad oggi non vi

sono cure. Come detto, al centro degli studi

di Michela Denti e del suo team di ricerca

del Dipartimento di Biologia cellulare,

computazionale e integrata Cibio dell’Ateneo

di Trento c’è il cosiddetto Rna, l’acido

ribonucleico fondamentale nei processi di

decodifica, regolazione ed espressione dei

geni. L’acido ribonucleico è anche la molecola

che recepisce e invia gli input per la

produzione delle proteine.

Ma in cosa consiste l’invenzione che è

valsa all’ateneo di Trento la concessione di

un brevetto? Michela Denti, professoressa

di Biologia applicata, e le ricercatrici Giuseppina

Covello e Kavitha Siva, hanno ideato

una terapia molecolare a base di Rna

per malattie neurodegenerative (denominate

Taupatie), causate da anomalie della

proteina Tau, codificata dal gene Mapt e

correlata alla stabilità dei microtubuli, e

dunque al buon funzionamento di alcuni

processi della memoria. Bersaglio della

terapia diventa proprio l’Rna messaggero

della proteina Tau che è mutato nella malattia.

Così facendo, spiega la dottoressa

Denti, “il filamento di Rna si lega a quello

complementare” e finisce per colpire con

precisione solamente il tratto del filamento

alterato a causa della mutazione dal quale

si origina la malattia.

Un approccio che è possibile grazie al

seguente metodo: «Sviluppiamo molecole

di Rna (siRNAs, short interfering Rna o

34 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


AMBIENTE SALUTE

© Chinnapong/www.shutterstock.com

© Kateryna Kon/www.shutterstock.com

Rna interferente breve, oppure oligonucleotidi

antisenso), che si basano su brevi

sequenze di nucleotidi (tipicamente venti

o meno) in grado di interferire con la sintesi

delle proteine o con il processamento

dell’Rna messaggero. Li utilizziamo come

strumenti terapeutici per ottenere alta efficienza

e specificità nel trattare malattie

geniche. Dopo 20 anni di ricerche, questi

approcci stanno avendo un grande successo

negli ultimi quattro anni come terapie

per malattie genetiche

rare e letali, come

l’atrofia muscolare

spinale, la porfiria

epatica acuta e l’amiloidosi

ereditaria».

L’obiettivo dei

ricercatori è quello

di dare vita ad un

approccio mirato per

una demenza ereditaria precoce, che insorge

entro i 60 anni di età, (la demenza

frontotemporale con parkinsonismo legata

al cromosoma 17), ma il meccanismo molecolare

potrebbe rivelarsi utile anche per

varie patologie dovute ad alterazioni della

proteina Tau.

Al centro degli studi

del team di ricerca c’è l’Rna,

fondamentale nei processi

di decodifica

Basti pensare alla malattia di Huntington,

la distrofia miotonica, ma anche lo

stesso morbo di Alzheimer - malattia complessa,

scatenata da diversi fattori ad oggi

non ancora totalmente chiari e senza cura

- che, al pari della demenza frontotemporale,

fa registrare un accumulo sospetto di

proteina Tau nel cervello delle persone che

ne sono affette.

Giuseppe Caputo della Divisione

Supporto Ricerca scientifica e Trasferimento

tecnologico di UniTrento ha spiegato:

«Per il progetto di Michela Denti,

su cui l’Ateneo ha investito molto in termini

di protezione brevettuale, abbiamo

richiesto a IP Booster, con il supporto di

Hit - Hub Innovazione Trentino, quattro

servizi ad alto valore aggiunto relativi alla

valutazione dell’iter

per garantire al meglio

la protezione

legale dei risultati

della ricerca; l’analisi

di competitors e

concorrenza nel settore

della Rna therapeutics;

la verifica

delle potenzialità

dell’invenzione e del possibile posizionamento

nel mercato per poterla valorizzare

al massimo; infine la consulenza e il

supporto nella negoziazione di accordi di

trasferimento tecnologico che sono alla

base del potenziale utilizzo economico

dei risultati della ricerca pubblica».

Com’è stata possibile la ricerca

La professoressa Denti ha voluto

ricordare chi ha sostenuto la ricerca:

«Un investimento importante

a mio favore è venuto dall’Università

di Trento, che con la Divisione

Supporto Ricerca scientifica e

Trasferimento tecnologico mi ha

accompagnata nella partecipazione

a bandi di finanziamenti su base

competitiva e a tutto l’iter per ottenere

il brevetto». Importante anche

il servizio di consulenza sugli aspetti

applicativi della ricerca biomedica

ottenuto dalla Fondazione per la

Valorizzazione della Ricerca Trentina,

nata per iniziativa della Fondazione

Cassa di Risparmio di Trento

e Rovereto, in collaborazione con il

Dipartimento Cibio di Biologia cellulare,

computazionale e integrata

dell’Università di Trento e con Hit

- Hub Innovazione Trentino. Infine

si è manifestata l’opportunità

di usufruire di servizi avanzati per

l’analisi della proprietà intellettuale

offerti dalla Commissione Europea

attraverso il progetto IP Booster,

per esplorare il mercato potenziale

e valutare il panorama competitivo

sulla tecnologia della terapia Rna.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

35


SALUTE

SCOPERTO IL GENE ZNF398

CONSENTE ALLE STAMINALI

DI RESTARE SEMPRE GIOVANI

Lo identifica un team di ricerca dell’Università di Padova in

collaborazione con l’Università di Torino

36 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

© pinkeyes/www.shutterstock.com


SALUTE

I ricercatori hanno confrontato

il comportamento delle cellule in presenza

o assenza della proteina TGF-beta e isolato

i primi geni che ne erano influenzati

young”, per sempre

giovani. Non si tratta solamente

del ritornello di una nota

“Forever

canzone ma anche dell’effetto

prodotto dal gene ZNF398, identificato per la

prima volta da un team di ricerca guidato da

Graziano Martello dell’Università di Padova,

in collaborazione con l’Università di Torino.

Nello studio, pubblicato sulla rivista Nature

Communications e finanziato dalla Fondazione

Armenise Harvard, si evidenzia l’azione da

conservante che il gene appena scoperto è in

grado di esercitare sulle cellule staminali. La

presenza di ZNF398 rappresenta infatti la cartina

di tornasole per determinare un corretto

funzionamento delle iPS, le cellule staminali

pluripotenti indotte. Ma qual è la loro peculiarità?

La caratteristica principale risiede nella

capacità di dare origine a qualsiasi cellula, indipendentemente

che si tratti ad esempio dei

neuroni o di quelle del fegato.

Le staminali pluripotenti indotte hanno

origine a partire da cellule adulte del corpo

mediante quel processo che prende il nome

di riprogrammazione. Le staminali vengono

per questo motivo considerate una fonte cellulare

preziosa in particolare per le terapie

avanzate di medicina rigenerativa. Per essere

conservate, le cellule staminali vengono solitamente

congelate; quando si tratta di riportarle

ad una temperatura idonea risulta perciò

fondamentale mantenerne la stabilità prima

di riprogrammarle nelle cellule che si desiderano

(ad esempio i neuroni). Ed è proprio in

questo passaggio che si determina la portata

della scoperta del gene ZNF398 ad opera del

team di ricerca guidato da Graziano Martello.

Fino ad oggi, infatti, i metodi impiegati

per la stabilizzazione delle cellule staminali si

erano basati su metodologie empiriche. Nello

specifico, i ricercatori sanno da sempre che

per conservare senza rischi le cellule staminali

scongelate è necessario aggiungere ogni

giorno una particolare molecola che prende

il nome di TGF-beta, che esercita un’azione

da inibitore impedendo alle cellule di differenziarsi.

Questo procedimento, però, prima

dell’identificazione compiuta dall’Università

di Padova in collaborazione con l’Università

di Torino, veniva compiuto senza comprendere

esattamente quali fossero le dinamiche che

consentivano la conservazione delle staminali

stesse. Al team di ricerca padovano, composto

da giovani ricercatori tutti sotto i 40 anni, il

merito di essere riuscito a svelare l’arcano: scoprire

cioè come agisce la proteina TGF-beta

che impedisce la differenziazione delle cellule.

Piccolo indizio: c’entra il gene ZNF398, il

famoso “Forever young” di cui accennavamo

all’inizio. Quando la proteina TGF-beta viene

somministrata, infatti, la reazione che scaturisce

determina l’attivazione del gene di cui

sopra, ribattezzato appunto ZNF398. Come

ha spiegato Graziano Martello del Dipartimento

di Medicina Molecolare dell’Università

di Padova, la scoperta è il risultato di cinque

anni di lavoro. Il coordinatore dello studio ha

precisato che il gene identificato è quello che

da solo consente di mantenere le staminali indifferenziate.

Ma com’è stato possibile arrivare a questa

scoperta così importante per la medicina

rigenerativa? I ricercatori hanno confrontato

il comportamento delle cellule in presenza

o assenza della proteina TGF-beta e isolato

i primi geni che nelle staminali sembravano

risultare influenzati dalla proteina. Ovviamente

sono in tanti, adesso, a chiedersi quali

implicazioni, e soprattutto, quali applicazioni

potrà avere la scoperta compiuta dall’ateneo

patavino in collaborazione con quello torinese.

Sulla questione, il coordinatore del team

di ricerca è stato molto chiaro: lo studio non

servirà a curare una specifica patologia ma

avrà un impatto su tutte le malattie che oggi

vengono studiate grazie alle cellule staminali

pluripotenti. Martello ha rimarcato come

fino a dieci anni fa, a livello internazionale,

fossero pochi i laboratori che lavoravano su

queste cellule, mentre oggi un grande nume-

Una scoperta che aiuterà

i laboratori mondiali

spiegare la metodologia utilizzata

dal team di ricerca che

A

ha portato alla scoperta del gene

ZNF398 sono stati Irene Zorzan e

Marco Pellegrini del Laboratorio

di Biologia delle cellule staminali

pluripotenti dell’Università di Padova

che hanno condotto lo studio.

I ricercatori hanno detto di essere

partiti selezionando un campione

di circa 4.000 geni, ridotti poi a 15

attraverso una serie di validazioni.

Fatto ciò li hanno provati in maniera

sperimentale uno a uno. Per

ciascun gene sono serviti circa due

mesi di lavoro, motivo per cui la fase

di test è durata in tutto quasi due

anni. Al termine degli esperimenti

non c’erano più dubbi: ZNF398

era il gene che stavano cercando.

Questa scoperta permetterà a molti

laboratori in tutto il mondo di migliorare

il processo di mantenimento

delle staminali umane una volta

scongelate. I risultati validati dallo

studio pubblicato valgono anche

nell’ambito della riprogrammazione

delle staminali.

ro di progetti di ricerca si basa proprio sulle

staminali. Questa scoperta consentirà quindi

di conservare meglio le cellule staminali pluripotenti

e controllarne adeguatamente la differenziazione,

offrendo uno strumento potente

ed estremamente affidabile. Il metodo usato

dal team di Martello prende il nome di microfluidica,

tecnologia che porta la firma del

professor Nicola Elvassore del Dipartimento

di Ingegneria Industriale dell’Università di

Padova, che consente di coltivare le cellule in

piccoli tubi di silicone biocompatibile e che di

recente ha dato modo ai ricercatori patavini

di creare per la prima volta cellule staminali

pluripotenti primitive - ovvero simili a quelle

degli embrioni - partendo da cellule adulte.

A guidare il team dell’Università di Torino è

stato Salvatore Oliviero, docente di Biologia

molecolare presso il Dipartimento di Scienze

della Vita e Biologia dei Sistemi e responsabile

della piattaforma di analisi genomiche presso

il Centro Interdipartimentale di Biotecnologie

Molecolari e l’Italian Institute for Genomic

Medicine di Candiolo, ente strumentale della

Compagnia di San Paolo. (D. E.).

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

37


SALUTE

SPORT E CALVIZIE: COME

L’ATTIVITÀ FISICA INCIDE

SULLA PERDITA DI CAPELLI

Quali ormoni possono influenzare negativamente

o positivamente la salute del follicolo pilifero

di Biancamaria Mancini

Sulla perdita dei capelli ci sono diversi

miti da sfatare, una delle credenze

più popolari sostiene che lo

sport possa rappresentare un vero

pericolo per la caduta e l’assottigliamento

del fusto.

Una delle cause più accertate per la

perdita dei capelli nell’alopecia androgenetica

(AGA) è senza

dubbio la predisposizione

genetica, ovvero

la sensibilità personale

agli androgeni:

il testosterone in circolo

si lega all’enzima

5-α-reduttasi di tipo

II, che lo processa

La calvizie ha eziologia

multifattoriale. Oltre alla

genetica ci sono altri fattori

che la influenzano

trasformandolo in

DHT, metabolita che presenta un’affinità

per i recettori androgeni tre volte superiore

a quella del testosterone stesso, risultando

di conseguenza molto più attivo. Sappiamo

però che la calvizie ha eziologia multifattoriale,

quindi oltre alla genetica ci sono altri

fattori che influenzano negativamente questo

processo, rendendolo ancora più acuto.

Tra questi fattori aggiuntivi si annoverano

le abitudini di vita e le attività sportive.

Ne parliamo con la dottoressa Debora

Martinelli, una biologa con vasta esperienza

nel campo tricologico che, in seguito

ad una revisione scientifica relativa al ruolo

dello sport nella calvizie, afferma che

quando si pratica un’attività sportiva viene

prodotta una quantità maggiore di ormoni,

compreso il testosterone, motivo per cui

è facile pensare che

questo possa accelerare,

se non addirittura

innescare, il processo

della calvizie.

Ci sono però alcuni

aspetti che devono

essere chiariti

sottolinea la dott.

ssa Martinelli, come

quello secondo cui i picchi di ormoni prodotti

durante uno sforzo non troppo eccessivo

sono solo momentanei, considerato

che durano circa 2-3 ore e pertanto non

hanno il tempo materiale per creare danni

ingenti ai follicoli. Chiaro è che la situazione

cambia drasticamente se lo sforzo fisico

raggiunge livelli eccessivi e cronici. Inoltre,

se insistere troppo sullo sforzo fisico può

favorire già di per sé una produzione più

elevata di androgeni rispetto ai normali livelli

che l’organismo stesso è in grado di

metabolizzare o degradare, tanto più la situazione

si aggrava se a questo si aggiunge

l’assunzione esogena di sostanze chimiche.

In questi ultimi casi il livello di testosterone

può aumentare di 10 volte, interferendo

con la normale sintesi proteica cellulare,

oltre ad innalzare l’attività della 5-α-reduttasi,

che metabolizza una quantità molto

elevata di DHT.

Tutto ciò, a differenza del normale e

sano sport, influisce concretamente sull’andamento

della calvizie, comportando la

perdita della maggior parte dei capelli anche

per ragazzi molto giovani e dando origine

ad un circolo vizioso da cui risulta poi

difficile trovare una via d’uscita.

Inoltre, uno sforzo eccessivo e prolungato

nel tempo, comporta anche un

aumento della produzione di cortisolo. In

condizioni normali, il cortisolo è un ormone

importantissimo per la regolazione di

diversi processi come il ritmo circadiano, la

quantità di glucosio nel sangue e il mante-

38 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


AMBIENTE SALUTE

Molecola cortisolo.

© F8 studio/www.shutterstock.com

nimento del corpo in uno stato di semi-allerta.

Inoltre, in condizioni di stress acuto

e temporaneo, la sua produzione permette

di mantenere sotto controllo i processi biologici

dell’organismo, influenzando la produzione

di specifici ormoni.

Nel caso in cui però i suoi valori diventino

troppo alti, e per un periodo prolungato,

l’effetto massiccio del cortisolo si ripercuote

su diversi organi, tra cui il follicolo pilifero.

Infatti un livello continuo di cortisolo mobilita

il glucosio presente

nel sangue che

aumenta la glicosilazione

delle proteine,

ne altera la struttura

molecolare, impedendo

loro di partecipare

ai processi di rigenerazione.

In seguito a

uno stress cronico, il

follicolo entra quindi in uno stato di disordine

metabolico, che si traduce in diversi

eventi a catena che portano ad uno stress

ossidativo, ciò inibisce la proliferazione

delle cellule fino ad interrompere la fase di

anagen (crescita attiva). L’interruzione prematura

della fase di anagen innesca un telo-

Un aumento eccessivo e

prolungato del cortisolo si

ripercuote su diversi organi,

come il follicolo pilifero

gen (vecchiaia) precoce con un conseguente

accorciamento del ciclo vitale del capello.

Chiediamo alla dott.ssa Martinelli

come fare a questo punto a poter evitare

accumuli troppo elevati di queste molecole

dannose, e paradossalmente lei ci svela

che un aiuto prezioso può giungere proprio

dallo sport! Infatti, se svolto nel modo

corretto non solo fa bene all’organismo in

generale, ma anche ai nostri capelli, rappresentando

un autentico toccasana anche

nei periodi di stress.

Durante l’attività

fisica infatti, viene

prodotta la serotonina,

il cosiddetto ormone

della felicità,

che svolge un’azione

biologica davvero importante

in quanto

serve a regolare specifiche

funzioni come la temperatura corporea

e la pressione dei vasi sanguigni. Questo

nei follicoli piliferi è fondamentale perché

aumenta l’apporto di nutrienti e ossigeno,

permettendo al follicolo stesso di svolgere

la sua attività nel modo migliore. Inoltre, la

sensazione di benessere che ci conferisce la

produzione di serotonina sarebbe sufficiente

a combattere lo stress eccessivo, ripristinando

così i livelli ottimali di tutte le altre

sostanze coinvolte. In conclusione, lo sport,

se fatto nel modo giusto, non solo non danneggia

i capelli ma anzi, contribuisce alla

loro salute.

Bibliografia

- Melinda A Novak et al. “Hair

Loss and Hypothalamic–Pituitary–

Adrenocortical Axis Activity

in Captive Rhesus Macaques

(Macaca mulatta)” Journal of the

American Association for Laboratory

Animal Science Vol 53, No 3

May 2014 Pages 261–266.

- Daniel W. D. West Stuart M.

Phillips “Associations of exercise-induced

hormone profiles and

gains in strength and hypertrophy

in a large cohort after weight training”

Eur J Appl Physiol (2012)

112:2693–2702.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

39


SALUTE

IL MONDO SI È FERMATO, MA NON

LA FILIERA AGRO-ALIMENTARE

Il lockdown del Paese non ha coinvolto

le attività produttive per la loro natura essenziale

di Maria Carlotta Rizzuto *

*

PhD, in «Teoria del diritto ed ordine giuridico

europeo» presso l’Università Magna

Graecia di Catanzaro.

si ferma, se non

passibile di essere esercitata

in modalità e-lerning; lo sport,

L’educazione

la religione, si arrestano, ammettendo

soltanto quelle manifestazioni

personali esternabili all’interno della propria

abitazione. Lo smart working diviene,

anche in assenza di accordi individuali, la

modalità di espletamento della gran parte

delle attività lavorative 1 . Il quadro disegnato

dai d.P.C.M. 2 è chiaro: misure restrittive

al fine di evitare qualsiasi forma

di assembramento.

Eppure, alcune imprese, quelle che

erogano “servizi essenziali e di pubblica

utilità”, non hanno potuto bloccare

le proprie attività, nonostante lo stato

di emergenza Covid 19, sì che il criterio

adottato ai fini della sospensione o continuazione,

sembrerebbe quello della attribuzione

della qualifica di essenzialità.

Tra di esse, sicuramente, un ruolo cardine

è stato ricoperto dalle imprese agricole

e, in particolare, dalla produzione di

derrate alimentari.

Orbene, se una lettura superficiale

della sopraccitata eccezione la ricondurrebbe

all’ovvietà dell’interesse perseguito

da queste ultime, là dove, come ovvio,

la filiera agro-alimentare è indirizzata a

soddisfare l’interesse primordiale e vitale

dell’uomo all’alimentazione 3 , un’analisi

più attenta potrebbe, però, forse, esporre

qualche elemento di criticità.

In particolare, il significato etimologico

del termine “essentialis” garantirebbe

una siffatta qualificazione

esclusivamente

alle attività indispensabili

e necessarie.

Eppure, una tale

conclusione sembrerebbe,

però, smentita

dal tenore dei

d.P.C.M., nei quali è

possibile individuare,

probabilmente, due diverse attribuzione

di essenzialità. Per un verso, tale

qualificazione è assegnata alle attività tese

ad appagare bisogni improcrastinabili

dell’uomo, quali quello all’alimentazione;

per altro verso, la essenzialità di alcune

attività non sarebbe ad esse intrinseca,

La cura del biologico,

per sua stessa natura,

non potrebbe sopportare

eventuali interruzioni

ma deriverebbe, esclusivamente, dal collegamento

funzionale con le prime. In tal

senso, basti riflettere sulle attività di fabbricazione

di spago, corde, funi e reti, imballaggi

in legno, articoli in gomma.

La definizione di “essenzialità” non

può che divenire ancor più ardua in ambito

agrario, là dove la stessa qualificazione

delle attività dirette e per connessione

subisce continue rivisitazione sì da rendere

sempre più labile il confine tra attività

agricole e industriali.

Ed, infatti, il concetto stesso di “cura

del ciclo biologico”, adoperato per individuare

le attività

agricole dirette 4 , induce

a ritenere essenziale

qualunque

attività funzionale

a quest’ultima e il

cui mancato svolgimento

potrebbe interrompere

il ciclo

stesso. In tale ottica,

anche l’eventuale attività di produzione

di energia rinnovabile si potrebbe considerare

essenziale, allorquando essa sia

necessaria all’espletamento della attività

produttiva principale 5 .

L’essenzialità di una attività, in ambito

agricolo, sembrerebbe, dunque, co-

40 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


AMBIENTE SALUTE

© G-stock studio/www.shutterstock.com

stituire un giano bifronte: indispensabile

per soddisfare l’interesse collettivo all’alimentazione,

ma altrettanto essenziale

per l’oggetto stesso dell’attività, volta

alla cura del ciclo biologico, il quale,

per sua natura, non parrebbe sopportare

eventuali interruzioni. Una conferma, in

tal senso, si rinviene, nella mancata differenziazione,

tra le attività agrarie, di quali

fossero da considerare effettivamente

essenziali ossia dirette alla produzione

di beni di prima necessità. Il blocco, ad

esempio, non ha riguardato le attività

florovivaistiche, concernenti la coltivazione

e la vendita

di piante, fiori e sementi,

giacché fatte

rientrare in quelle

attività di produzione,

trasporto e commercializzazione

di

“prodotti agricoli”,

di cui all’art. 1, comma

1, lettera f), del

Dpcm del 22 marzo 2020. Anche la viticoltura

ha proseguito nello svolgimento

delle proprie attività, nonostante molte

bottiglie fossero rimaste invendute, le

spedizioni tornassero indietro e le botti

fossero ancora piene. Nessuna sospensione

è stata applicata per le attività volte

Si è tenuto a salvaguardare

l’interessa ambientale

e quello alimentare,

tutelando il ciclo vitale

alla produzione di energie rinnovabili,

seppur con la limitazione dell’istallazione

di nuovi impianti fotovoltaici. Numerose

le ordinanze emanate al fine di consentire

agli “agricoltori amatoriali” di esercitare

la cura dei propri prodotti e animali 6 .

Orbene, la statuizione, avente ad oggetto

la continuazione dello svolgimento

di tutte quelle attività che, direttamente

o indirettamente, sono essenziali per garantire,

per un verso, l’interesse collettivo

dell’alimentazione e, per altro verso, la

cura del ciclo biologico, fa affiorare, con

maggiore pregnanza, gli elementi differenziali

tra impresa agricola e commerciale

non riconducibili ad un unicum.

Al di là del bilancio di esercizio, del

rischio di impresa, pur sempre presente

e dal quale non si può prescindere, l’impresa

agraria mira a tutelare ulteriori e

più pregnanti interessi. Intrinsecamente

indirizzata a soddisfare il bisogno dell’alimentazione,

essa è stata, con il tempo,

investita della funzione di tutelare molteplici

altri interessi, i quali sono stati

considerati – in virtù della loro natura di

interessi collettivi o diffusi – prevalenti

rispetto all’interesse individuale del singolo

imprenditore e da bilanciare con

l’interesse alla salute dei lavoratori 7 , i

quali, nonostante l’emergenza sono stati

chiamati, comunque, ad espletare, pur

con tutte le precauzioni e l’applicazione

dei protocolli di sicurezza necessari, le

attività lavorative indispensabili a garantire

la continuazione del ciclo produttivo.

La mancata interruzione, durante lo

stato emergenziale, di attività diverse da

quelle volte a garantire beni di prima necessità,

trova fondamento

negli obiettivi

perseguiti, da tempo,

dai legislatori nazionali

ed europei. I

concetti di economia

circolare, agricoltura

biologica, sviluppo

sostenibile – sempre

più presenti nelle legislazioni

– mirano a realizzare, in modo

equilibrato, l’interesse ambientale e l’interesse

alimentare, secondo un indirizzo teleologico

destinato a preservare, nel complesso,

la tutela del “ciclo vitale”.

In tal senso, proprio la scelta di mantenere

aperte attività produttrici di beni

non essenziali, come quella florovivaistica,

potrebbe suggerire un profilo funzionale

dell’impresa agricola, più accentuatamente

incentrato sulla cura del ciclo biologico

inteso, come ciclo vitale dei prodotti,

il quale, se reciso, sarebbe compromesso

senza margini di ripresa. La intrinseca deteriorabilità

di alcuni beni non può che

richiedere una maggiore attenzione sui

sistemi di protezione e fruizione di questi

ultimi, i quali, una volta sottoposti ad un

cattivo uso, non sarebbero più passibili di

utilizzazione.

La protezione del ciclo vitale in quanto

tale – come categoria più ampia in cui

un ruolo cardine è certamente ricoperto

dalla cura di quello funzionale all’alimentazione

e, dunque, alla vita di ogni essere

umano – sposta, forse, l’attenzione sui

possibili strumenti che il Legislatore potrebbe

predisporre ai fini di una ripresa

economica nazionale. Un percorso in tal

senso è suggerito a livello comunitario: la

promozione di un Green Deal, una serie

di misure volte a rendere più sostenibili e

meno dannosi per l’ambiente la produzione

di energia e lo stile di vita dei cittadini

europei.

L’emergenza Covid, le numerose morti

che, in ogni parte del mondo, si susseguono

a ritmo incessante e si concludono,

a detta del Foscolo, con una “illacrimata

sepoltura”, portano con sé l’insegnamento

che l’uomo sembra prostrarsi dinanzi

ad un microrganismo, lo fa sentire “come

d’autunno sugli alberi le foglie”, gli nega

il valore incommensurabile della libertà

e, probabilmente, segnerà un viatico per

scelte politiche dei sistemi giuridici.

Bibliografia

1. La disciplina del lavoro agile, prevista nella

legge n. 81 del 22 maggio 2017, statuisce,

infatti, agli artt. 18 e ss. che debba sussistere

il consenso del lavoratore. Sul lavoro agile si

vedano A. ALLAMPRESE-F. PASCUCCI,

La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore

“agile”, in Riv. giur. lav., 2017, 307; M.

D’APONTE, La tutela della salute del lavoratore

dopo il Jobs Act, Torino, 2018, 75 e ss.;

R. CASILLO, La subordinazione «agile», in

Dir. lav. merc., 2017, 19; R. GUARINIELLO,

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

41


SALUTE

Lavoro agile e tutela della sicurezza, in Dir.

prat. lav., 2017, 2010; M. PERUZZI, Sicurezza

e agilità: quale tutela per lo smart worker?,

in Dir. sic. lav., 2017, 26. M. MENEGOTTO,

Coronavirus: trasferte, lavoro agile e telelavoro,

in Bollettino ordinario ADAPT, n. 7, 17

febbraio 2020. Ed, ancora, quale afferma che

«il fulcro del d.P.C.M 8 marzo 2020 risiede nel

superamento dell’accordo individuale, quale

fonte di disciplina e organizzazione della modalità

agile di esecuzione del rapporto di lavoro

subordinato, e, quindi, nel passaggio dalla

consensualità all’unilateralità dell’applicazione

del lavoro agile […]in un contesto per così

dire “fisiologico”, il lavoro agile è concepito

come strumento teso a conseguire finalità di

work-life balance. Diversamente, nel quadro

“patologico” dell’emergenza da COVID-19,

esso viene individuato quale strumento privilegiato

per il contrasto e il contenimento – in

specie in ambito lavorativo – del diffondersi

del virus, realizzando attraverso di esso un

bilanciamento tra gli interessi costituzionali

coinvolti: diritto alla salute (art. 32 Cost.) e

diritto al lavoro (art. 4 Cost.)».

2. Il 23 febbraio 2020, a seguito dei primi

focolai registratisi in Lombardia e Veneto, il

Consiglio dei Ministri ha approvato il D.L.

6/2020, poi convertito in legge dalla L. n.

13/2020. Il summenzionato decreto ha dato

il via libera anche all’adozione di tutti i successivi

decreti del Presidente del Consiglio

dei Ministri miranti ad attuare misure di contenimento

in caso di interventi riguardanti più

regioni.

3. Sulle molteplici funzioni svolte dall’impresa

agricola si veda A. QUARANTA, Energie

rinnovabili: la multifunzionalità delle imprese

agricole, in Ambiente & sviluppo, 3/2010,

732; L. COSTATO, A. GERMANÒ, E.

ROOK BASILE (diretto da) Trattato di diritto

agrario, Utet, Torino, 2011, 766; G. MAROT-

TA (a cura di), Nuovi modelli di agricoltura

e creazione di valore, FrancoAngeli, Milano,

2013, 379, secondo il quale «in via di sintesi, si

può dedurre che l’impresa agricola multifunzionale

si caratterizza per tre aspetti essenziali:

a) una spiccata tendenza alla diversificazione

dei servizi che essa offre e all’allargamento

delle funzioni che affiancano l’attività esclusivamente

agricola; b) un forte radicamento

con il territorio su cui insiste l’impresa; c) la

conseguente potenzialità dell’impresa agricola

a generare, attraverso la sua attività di impresa,

“valore sociale”. Tutti e tre gli elementi

descritti postulano un’accentuazione molto

forte del posizionamento dell’impresa agricola

in una ampia rete (network o filiera), che

vede coinvolti non solo altri distinti soggetti

imprenditoriali, ma anche istituzioni locali e

associazioni sindacali e datoriali».

4. Il riferimento al ciclo biologico riprende

una formula utilizzata dalla dottrina al fine di

eliminare la necessaria presenza del fondo per

la configurazione dell’impresa agricola. Ed,

infatti, secondo tale corrente dottrinale l’agrarietà

dell’impresa dipendeva non dalla presenza

o meno del fondo ma dallo svolgimento di

un ciclo biologico concernente l’allevamento

di esseri viventi animali o vegetali, legato direttamente

o indirettamente allo sfruttamento

delle forze e delle risorse naturali che si risolve

economicamente nell’ottenimento di frutti

destinati al consumo sia come tali sia previa

una o più trasformazione v. A. CARROZZA,

Lezioni di diritto agrario, Giuffrè, Milano,

1988, 10; ID., Problemi generali e profili di

qualificazione del diritto agrario, Giuffrè,

Milano, 1975, 75 e ss.; A. GERMANÒ, Proprietà

produttiva ed impresa agricola, in Dir.

e giur. agr., 1/1994, 597; L. COSTATO, Relazioni,

in S. MAZZAMUTO (a cura di) Impresa

agricola ed impresa commerciale: le ragioni

di una distinzione, Jovene, Napoli, 1992, 35

e ss.,.L’allargamento dei confini della nozione

di fondo ha consentito di inserire nel novero

delle attività agricole tutta una serie di attività

che, benché definite come agricole a livello

legislativo, erano state oggetto di dibattito

in dottrina e in giurisprudenza poiché utilizzavano

il fondo come mero supporto e non

certo come oggetto: la serricoltura, già qualificata

come agricola nella L. 3 maggio 1982 n.

203; la funghicoltura, L. 5 aprile 1985, n. 126;

le agroenergie, D.lg. 29 marzo 2004, n. 99 e

D.lg. 27 maggio 2005, n. 101.

5. L’art. 2135 cod. civ. utilizza ai fini della qualificazione

di una attività come connessa il criterio

di prevalenza il quale deve essere inteso

in due diversi modi. In una prima accezione

l’espressione è riferita alla produzione [la c.d.

prevalenza per prodotto,]; mentre, secondo

una seconda applicazione, il suddetto criterio

è riferito alle attrezzature e alle risorse [la cd

prevalenza per attività]. A sua volta, la prevalenza

dei prodotti è stata intesa in due ulteriori

significati, giacché per un verso, il criterio

è stato ancorato a profili di tipo quantitativo,

nel senso di qualificare le attività di trasformazione,

manipolazione, commercializzazione

dei prodotti agricoli come attività agricole per

connessione solamente là dove la produzione

del bene finale sia avvenuta mediante l’uso

prevalente di prodotti della propria impresa

agricola rispetto a quelli acquistati da terzi.

Per altro verso, il secondo significato, ossia

quello di tipo reddituale-valoriale rinvia, invece,

alla prevalenza dell’attività dalla quale

derivi la maggior fonte di guadagno. In tale

ipotesi, la condizione di prevalenza andrà

verificata confrontando il valore normale

dei prodotti agricoli ottenuti dall’attività

agricola principale ed il costo dei prodotti

acquistati da terzi; sarà necessario, però, che,

sui prodotti acquistati dai terzi, intervenga,

comunque, una attività di manipolazione

o di trasformazione [Cass. civ., 10 aprile

2015, n. 7238, in Giustizia Civile Massimario

2015] e che i prodotti, così realizzati, rientrino

nella tipologia di appartenenza dei beni

ottenuti dalla trasformazione dei prodotti

propri [Cass. civ., 22 aprile 2016, n. 8128,

in Giustizia Civile Massimario 2016]. Sul

criterio di prevalenza si vedano, ex multis,

A. ROCCHI, L. SCAPPINI, La misurazione

della prevalenza nelle attività connesse

“di produzione” in agricoltura, in Il fisco,

9/2017, 852; M. BIONE, Imprenditore agricolo,

Dir. priv., in EG, Roma, 16/2003, 7;

F. PREZIOSI, Il regime fiscale delle attività

agricole connesse, in Corr. trib., 2004, 3654;

S. BARUZZI, Reddito agrario: prevalenza

della materia prima in senso fisico quantitativo

e non economico, in Il Fisco, 35/2017,

3378; S. BARUZZI, Reddito agrario: prevalenza

della materia prima in senso fisico

quantitativo e non economico, in Il Fisco,

35/2017, 3378. Sulle energie rinnovabili si

veda per tutti M. GOLDONI, Utilizzazione

di terreni agricoli per la realizzazione degli

impianti energetici: aspetti giuridici, in M.

D’ADDEZIO (a cura di), Agricoltura e contemperamento

delle esigenze energetiche e

alimentari, Giuffrè, Milano, 2012, 39.

6. La possibilità per gli hobbisti agricoli di

potere esercitare la propria attività agricola

amatoriale è stata concessa con l’ordinanza

n. 11 del 24 marzo 2020 della Regione Sardegna;

n. 36 del 14 aprile 2020, della Regione

Toscana; n. Z00029 del 15 aprile 2020, della

Regione Lazio; n. 209 del 17 aprile 2020 della

Regione Puglia; n. 32 del 17 aprile 2020

della Regione Calabria e n. 17 del 18 aprile

2020 della Regione Sicilia.

7. In tal senso, si vedano il “Protocollo condiviso

di regolamentazione delle misure per

il contrasto e il contenimento della diffusione

del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”

del 14 marzo, il cui contenuto è stato

integralmente recepito dal successivo Protocollo

del 24 aprile 2020.

42 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SALUTE

© Snailstudio/www.shutterstock.com

Riprogrammare le cellule per ringiovanire

Da un articolo pubblicato su “Nature Communications” da Sarkar TJ et al.

di Carla Cimmino

transitoria di alcuni fattori di riprogrammazione

nucleare, tende a promuovere il ringiovanimento

cellulare. L’invecchiamento è caratterizzato da una perdita

L’espressione

graduale della funzionalità di molecole, cellule, tessuti, è

dato dall’accumulo di errori a livello epigenetico che dà come risultato:

regolazione aberrante di geni, esaurimento di cellule staminali,

senescenza e omeostasi de-regolazione di cellule e tessuti. Se si riprogrammasse

il DNA nucleare, si potrebbe riportare le cellule all’età

embrionale. Alcuni esperimenti condotti sui topi hanno dimostrato

che la riprogrammazione anche se transitoria, può migliorare alcuni

aspetti associati all’avanzare dell’età e prolungare

la vita nei topi progeroidi. Sconosciuta è la

modalità secondo la quale tutto ciò potrebbe

essere applicato all’uomo. Lo studio preso in

considerazione in tale articolo, evidenzia che

l’espressione transitoria di fattori di riprogrammazione

nucleare mediata dall’espressione di

mRNA, permette di controllare l’invecchiamento

cellulare, ripristina l’orologio epigenetico,

riduce l’infiammazione nei condrociti, rigenera le cellule invecchiate

in cellule staminali muscolari umane. La riprogrammazione nucleare

delle cellule ha messo in evidenza che se questa è solo transitoria, le

cellule ritorneranno allo stato somatico iniziale. Quindi, se tale riprogrammazione

dura poco, non cancella quello che è il codice epigenetico

della cellula, che ne definisce l’identità cellulare. Ma non è noto se è

possibile riprogrammare in maniera sostanziale e modificare l’età della

cellula stessa prima del Punto di Non Ritorno (PNR).

Ocampo et al., (primi che hanno preso in considerazione tali studi)

hanno dimostrato che la riprogrammazione transitoria può migliorare

l’espressione fenotipica invecchiata nei topi progeroidi. Questi

Lo studio preso evidenzia che

i fattori di riprogrammazione

nucleare permettono di controllare

l’invecchiamento cellulare

però parlano solo in parte della complessità dell’invecchiamento naturale,

essendo questo proprio caratterizzato da un lento e progressivo

accumulo di errori epigenetici. Inoltre, non è stato provato se l’effetto

ringiovanente può essere ottenuto con cellule umane invecchiate naturalmente

e isolate da individui anziani. L’articolo di “Nature Communications”

mette in risalto se l’espressione transitoria dei geni di riprogrammazione

nucleare riesce a migliorare i tipi di invecchiamento

in cellule umane e di topo naturalmente invecchiate.

Sono state paragonate l’espressione transitoria di fattori riprogrammanti

sull’RNA di fibroblasti e cellule endoteliali di soggetti

umani anziani, con l’RNA delle stesse cellule isolate da giovani donatori.

La riprogrammazione nucleare degli iPSC comprende iniziazione,

maturazione e stabilizzazione. Al termine di una riprogrammazione

epigenetica così dinamica e complessa,

dovremmo esserci iPSC pluripotenti e giovani.

Non esiste la prova che un ringiovanimento

cellulare multispettrale possa essere ottenuto

in modo autonomo da cellula umana in cellule

umane isolate da individui naturalmente anziani.

È stato quindi dimostrato, che la riprogrammazione

cellulare transitoria basata su mRNA,

può invertire molto rapidamente segni distintivi

dell’invecchiamento nella fase di iniziazione, quando non è ancora avvenuta

la cancellazione epigenetica dell’identità cellulare. Si nota che

il processo di ringiovanimento si verifica nelle cellule di topo, invecchiate

naturalmente, le cellule malate ripristinano la funzionalità perduta

e le cellule staminali invecchiate preservano la loro identità cellulare.

Sono necessari però ulteriori studi per chiarire il meccanismo

che guida l’inversione del fenotipo invecchiato durante la riprogrammazione

cellulare, allontanandolo dal processo di dedifferenziazione.

I risultati di tale studio rappresentano un passo avanti per capire come

invertire l’invecchiamento cellulare e possono risultare indispensabili

anche per lo studio di malattie correlate all’invecchiamento stesso.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

43


SALUTE

INTELLIGENZA

ARTIFICIALE E

DERMATOLOGIA

Un algoritmo può affiancare gli specialisti

nella diagnosi dei disturbi cutanei

di Sara Lorusso

ha spiegato il professore

Jung-Im Na, del dipartimento

di Dermatologia della

L’obiettivo,

Seoul National University, è fare

in modo che l’intelligenza artificiale non si

sostituisca all’indagine umana, ma ne supporti

le attività per arrivare a diagnosi più

rapide e più precise. È l’orizzonte entro cui

si è sviluppata la ricerca sull’applicazione

e l’allenamento di algoritmi nel riconoscimento

di patologie della pelle, di cui Na è

autore. Lo studio, pubblicato sul Journal

of Investigative Dermatology, è incentra-

44 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

© elenavolf/www.shutterstock.com


SALUTE

Il team coreano ha sviluppato

una rete neurale convoluzionale,

allenata a riconoscere i disturbi della pelle

a partire da un set di immagini

to sull’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale

(AI) in dermatologia: un indirizzo non del

tutto nuovo, ma in questo caso ad avere

particolare rilevanza sono sia la grande

quantità di disturbi cutanei usati per testare

l’algoritmo sia la qualità dei risultati

ottenuti, con un’adesione importante tra

le diagnosi artificiali e quelle affidate all’esperienza

dei medici del settore. Inoltre, a

differenza di sperimentazioni precedenti,

la ricerca è stata diretta ad applicare l’AI in

un contesto reale, simile a quello di normali

visite in studio.

«Negli ultimi tempi - ha spiegato Na

- ci sono stati notevoli progressi nell’uso

dell’AI in medicina. Per problemi specifici,

come la distinzione tra melanoma e

nevi, l’AI ha mostrato risultati comparabili

a quelli dei dermatologi umani. Tuttavia,

affinché questi sistemi siano praticamente

utili, le loro prestazioni devono

essere testate in un ambiente simile alla

pratica reale, che richiede non solo la classificazione

della lesione maligna rispetto

a quella benigna, ma anche la distinzione

del cancro della pelle da numerosi altri disturbi

tra cui condizioni infiammatorie e

infettive».

Il team coreano ha sviluppato un sistema

di intelligenza artificiale basato su una

rete neurale convoluzionale: si tratta di

un’architettura di rete utilizzata soprattutto

nelle applicazioni di visione artificiale e

in cui viene esercitato l’apprendimento automatico.

La rete è stata allenata a riconoscere

i disturbi della pelle a partire da un

set di 220.680 immagini relative a 174 malattie

diverse su individui asiatici e caucasici.

Al termine della procedura l’algoritmo

è stato capace di diagnosticare 134 disturbi

della pelle. Uno dei risultati più interessanti

è stata l’applicazione nella classificazione

multiclasse, che ha portato al suggerimento

di strategie di trattamento appropriate rispetto

al disturbo analizzato.

Le diagnosi artificiali sono state confrontate

con quelle eseguite da 21 dermatologi,

26 specializzandi e 23 potenziali

pazienti. All’avvio della sperimentazione

le risposte dell’algoritmo sono risultate

simili a quelle degli specializzandi, senza

raggiungere l’adesione alle diagnosi fornite

da dermatologi esperti. Dopo un periodo

di funzionamento della rete, grazie

all’assistenza dell’algoritmo, le diagnosi

di malignità fatte dai clinici è migliorata

in precisione dal 77,4% all’86,8%. Anche

nei cittadini comuni la capacità di leggere

la diagnosi maligna è stata supportata.

Senza l’aiuto dell’algoritmo, hanno spiegato

gli autori della ricerca, la metà delle

neoplasie sarebbe sfuggita ai cittadini comuni

coinvolti se questi non fossero stati

visitati da specialisti.

Lo studio firmato da Na e colleghi

mette in guardia da facili esultanze circa

la possibilità di sostituire l’esperienza teorica

e clinica degli specialisti con la lettura

artificiale. In particolare, al momento,

l’algoritmo ha lavorato su precisi criteri di

addestramento, specializzandosi nell’individuazione

del disturbo in base a classificazioni

binarie (per esempio, la selezione

tra nevi o melanoma). Non è automatica,

dunque, la risposta a diagnosi su caratteristiche

del problema diverse da quelle su cui

la rete si è alimentata. L’esempio riportato

è quello di un ematoma dai contorni irregolari

che potrebbe essere segnalato come

carcinoma da un algoritmo addestrato a

specializzarsi sulla malignità. Anche la qualità

dell’immagine potrebbe pregiudicare

l’identificazione del problema, senza contare

che in una situazione reale lo specialista

non si affida alla sola rappresentazione

visiva del disturbo, ma analizza tutta una

serie di informazioni legate all’anamnesi e

al contatto fisico con la lesione della pelle.

Resta, tuttavia, l’alta potenzialità dello

strumento se utilizzato a sostegno e non

Lo schema ABCDE

Senza mai sostituirsi al parere

del medico, ciascuno di noi

può costruire una routine di autovalutazione

delle lesioni della

pelle. È molto importante tenere

sotto controllo macchie e segni,

e imparare a riconoscere alcuni

campanelli d’allarme. La fondazione

AIRC per la Ricerca sul Cancro

ricorda un semplice schema

di osservazione, facile da tenere a

mente e mettere in pratica a casa,

meglio se in un ambiente ben illuminato.

Basta ricordare la sequenza

ABCDE: racchiude le caratteristiche

di una macchia della pelle

che dobbiamo saper riconoscere.

ABCDE è dunque l’acronimo di

asimmetria della macchia, bordo

irregolare, colore molto scuro o

variabile all’interno della macchia

stessa, diametro maggiore dei nei

comuni (circa 6 mm), evoluzione

rapida nel tempo. In presenza di

uno o più di questi segnali, ci ricorda

il vademecum AIRC, è bene

rivolgersi al proprio medico, che

deciderà se richiedere un controllo

specialistico.

in sostituzione della consulenza medica.

Superando l’attuale limitazione collegata

alla necessità che le immagini da analizzare

siano di buona qualità, «prevediamo

che l’uso del nostro algoritmo attraverso

uno smartphone – ha aggiunto Na - potrebbe

incoraggiare il pubblico a visitare

gli specialisti per lesioni come il melanoma

che altrimenti rischierebbero di essere

trascurate». In ambito clinico l’aspettativa

è invece diretta allo sviluppo di un simile

processo di indagine tramite lettura artificiale

a vantaggio delle diagnosi precoci e

di cure sempre più mirate.

Nel frattempo il team coreano ha reso

disponibile sul sito Model Dermatology

(https://modelderm.com/) una demo del

sistema di AI allo scopo esclusivo di ricerca

e non di diagnosi: gli autori, simulando

di agire in un contesto ipotetico di telemedicina,

sperano infatti che l’utilizzo faccia

emergere, e dunque renda risolvibili, nuove

problematiche dell’applicazione del sistema

ai casi reali.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

45


AMBIENTE

I PATRIARCHI VERDI

DEL NOSTRO PAESE

Il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali

ha pubblicato un elenco di oltre 3300 alberi monumentali

Riportano alla memoria miti, leggende,

storie di luoghi e di popoli,

profumano, suonano col

vento, cantano con gli uccelli e gli

insetti, hanno forme particolari. Segnano e

segnalano, soprattutto, il nostro tempo che

passa, cambiando secondo il ritmo circolare

delle stagioni. In Italia, per il Ministero

delle Politiche agricole alimentari e forestali,

sono oltre 3.300 gli alberi censiti nell’elenco

di quelli monumentali, accessibile,

con una semplice richiesta, in formato Shapefile

o Excel. Importabile nei più comuni

programmi Gis (Geographic Information

System), il file permette di visualizzare la

loro distribuzione sul territorio italiano,

assicurando un costante aggiornamento da

parte della Direzione generale foreste del

ministero, grazie alla collaborazione di Regioni,

Province autonome e Comuni.

Il nostro piccolo tour da Nord a Sud

comincia con “S’Ozzastru”, cioè l’olivastro,

quello precisamente di San Baltolu

di Luras vicino al lago Liscia, in provincia

di Sassari. Per molti sarebbe l’albero più

antico d’Italia: supera i quattromila anni

e ancora oggi ospita sotto i suoi rami numerose

pecore al pascolo. Le sue misure

sono: altezza 14 metri e circonferenza della

chioma 23 m. Il tronco, che ne misura

circa 12, presenta nodi e piccole cavità,

come deve avere un vero patriarca della

natura che si rispetti.

Un altro pezzo da novanta è il famosissimo

Castagno dei cento cavalli, un albero

di castagno

plurimillenario, nel

Parco dell’Etna in

territorio del comune

di Sant’Alfio (Ct) nel

cui stemma civico è

raffigurato. Misura

circa 22 m di circonferenza

del tronco,

per 22 m d’altezza.

Nel 2006 l’Unesco l’ha dichiarato Monumento

messaggero di pace, ricordando le

tante persone che nel tempo l’hanno ammirato

e quel mito secondo cui, in una notte

tempestosa, una regina di nome Giovanna

L’iniziativa è stata promossa

in occassione della

ricorrenza della “Giornata

Mondiale della Terra”

sia stata amata da alcuni dei cento cavalieri

del suo seguito, che con lei avevano trovato

rifugio nel tronco.

Risalendo lo Stivale, segnaliamo l’abete

bianco di Malga Fassole ad Avio (Tn). Ha

una caratteristica particolare: il portamento

del fusto che, anziché essere dritto come

di norma si presenta nell’abete bianco, si

divide a circa due metri di altezza in otto

grosse branche formando una specie di

enorme candelabro.

Il nome attribuitogli

è “patriarca del monte

Baldo”. Il legno

morto in alcune parti

ospita molti insetti e

funghi che lì trovano

i loro habitat ideali.

Una chioma così

ampia e articolata,

inoltre, fornisce possibilità di rifugio a numerose

specie di vertebrati, dai micromammiferi

agli uccelli.

La sequoia gigante di Faè a Longarone

(Bl) mostra ai visitatori i segni della

46 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


AMBIENTE

© trattieritratti/www.shutterstock.com

Sopra, la sequoia gigante di Longarone (Belluno).

A destra, il fico del Bengala del Giardino inglese a

Palermo. Fonte: Ministero delle Politiche agricole

alimentari e forestali.

frana proveniente del monte Toc, che il 9

ottobre del 1963 distrusse il territorio e

moltissime vite umane. Una ferita longitudinale

di cinque metri sul tronco ci fa

capire, infatti, il livello raggiunto in quel

luogo dall’onda d’acqua e fango proveniente

dalla diga. Da allora è il simbolo del

territorio devastato, ma anche rinato. È

conosciuta come “Pianta santa” o “Pianta

dell’Ajal” con un’età stimata di 170 anni,

tale da far ritenere che sia stata una delle

prime importate in Europa.

A San Vito, Monte San Biagio (Lt) il

leccio-sughera convive con un eterogeneo

sottobosco, formato da specie tipiche degli

ambienti mediterranei, quali lentisco, fillirea,

mirto, biancospino e erica arborea. È

stato scelto poiché rappresenta bene i molti

ibridi di quercia presenti in Italia ed è raggiungibile

con uno dei tanti sentieri all’interno

della sughereta. I cipressi di Triboli

a San Quirico d’Orcia (Si) sono una vera e

propria icona del paesaggio toscano, vegetano

isolati su un’altura facente parte di un

gruppo collinare posto tra la Val d’Orcia

e la valle dell’Ombrone. Quella

veduta, celebrata dai pittori della

scuola senese, è stata proclamata

dall’Unesco nel 2004 Patrimonio

mondiale dell’umanità.

Il nostro breve viaggio nell’Italia

dei centenari e secolari si

conclude con l’albero più rappresentativo

della fitogeografia

nel Parco Nazionale del Pollino:

il pino loricato della Grande Porta

a Terranova di Pollino (Pz).

Presente in Italia solo in questa

parte dell’Appennino calabro-lucano

con circa duemila esemplari,

è quanto rimane delle antiche

foreste oro-mediterranee che

nel Terziario coprivano la costa

adriatica meridionale e i Balcani.

L’esemplare che vegeta nel valico tra Serra

di Crispo e Serra delle Ciavole è conosciuto

come il “Solitario”, ha una circonferenza

della base del tronco di 6,5 m, il cimale spezzato

e una chioma dolcemente a bandiera.

Nonostante i suoi 500 anni di età stimata,

mostra ancora intatta la caratteristica corteccia

a squame di serpente e, come tutti gli

altri, aiuta a restituirci quel rapporto con la

natura, unica chiave di cui disponiamo per

aprire la porta che ci separa dalla nostra desiderata

tranquillità. (G. P.).

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

47


AMBIENTE

DEFORESTAZIONE E

AMAZZONIA, COSÌ CRESCE

IL RISCHIO PANDEMIE

Distruggere gli habitat naturali di molti

animali fa salire il rischio “spillover”

di Giacomo Talignani

48 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


AMBIENTE

Per invertire la rotta è necessario

prenderci cura delle nostre foreste

e fermare una deforestazione che

compromettere le vite di migliaia di specie

Abbiamo spezzato la sottile linea

verde. Quella che per anni ha

permesso una sintonia fra uomo

e foreste e che oggi è prepotentemente

in bilico. A causa della deforestazione,

ci avvisano diversi studi internazionali,

oggi aumenta il rischio di nuove pandemie.

Se si distruggono gli habitat gli animali

sono costretti ad entrare nello spazio urbanizzato

e i rischi di

spillover, di salto da

animale all’uomo dei

virus, si moltiplicano.

Per evitare questo e

per invertire la rotta

di una crisi climatica

che accelera, è dunque

necessario prenderci

più cura delle

nostre foreste e fermare una deforestazione

che rischia di compromettere le vite di

migliaia di specie, uomo compreso.

Ad oggi il nuovo rapporto Fao sulle

foreste del mondo ci avverte che la deforestazione

sta rallentando in alcune parti

del Pianeta ma preoccupa seriamente per

i tassi registrati in

Africa e in Sudamerica,

soprattutto in

Amazzonia. La Fao

e l’Unep nella giornata

mondiale della

biodiversità hanno

ricordato come dalle

foreste dipendano la

sicurezza alimentare di milioni di persone,

come forniscano 86 milioni di posti di lavoro

“verdi” e come delle persone che vivono

in condizioni di estrema povertà, il 90 per

cento dipenda proprio dalle foreste come

mezzo di sussistenza, che sia per procurarsi

cibo oppure legna. Persone che, come gli

indigeni dell’Amazzonia, oggi tra deforestazione

e pandemia sono in ginocchio e

La Fao ci informa che il livello

di deforestazione in Afria,

Sudamerica e Amazzonia

è allarmente

Dai polmoni verdi dipende

la sicurezza alimentare

e il posto di lavoro

di milioni di persone

necessitano di aiuti internazionali per non

rischiare di scomparire.

Oltretutto, in questo contesto, come

raccontano appelli che rimbalzano dal Brasile

alla Bolivia, l’emergenza Covid-19 in

Sudamerica sta favorendo diversi taglialegna

e minatori che, approfittandosi della

situazione complicata, stanno devastando

ulteriormente il territorio amazzonico. Da

inizio 2020 ad oggi,

rispetto all’anno scorso,

si conta già il +55

per cento di deforestazione

nell’Amazzonia

Brasiliana che

continua ad essere

sventrata, bruciata e

deforestata. Secondo

l’Inpe (National Institute

of Space Research) nel solo aprile

2020 oltre 405 chilometri quadrati della foresta

pluviale sono stati deforestati, rispetto

ai 248 dell’aprile 2019.

Rispetto a un anno fa nella parte brasiliana

la deforestazione è aumentata sino al

64 per cento. Questo, sostengono attivisti e

associazioni ambientaliste,

è strettamente

collegato alle politiche

del presidente

brasiliano Bolsonaro

che favoriscono l’abbattimento

degli alberi

per riconvertire

i terreni ad uso agricolo,

per sviluppare il settore minerario e

dell’allevamento di bestiame con lo scopo

di favorire l’economia del Paese.

Le cifre preoccupanti per un Brasile

che sta pagando un prezzo altissimo in termini

di vittime per la attuale pandemia da

coronavirus, dovrebbero dunque far suonare

un campanello d’allarme per tutti noi,

ci ricorda uno studio appena pubblicato su

Frontiers in Medicine da un team di scienziati

internazionale.

Nell’analisi “Covid-19: The conjunction

of events leading to the pandemic

and lessons to learn for future threats” un

gruppo di ricercatori francesi e spagnoli riconosce

infatti nuovamente la pericolosità

della distruzione degli habitat naturali e ribadisce

che la chiave per contenere future

epidemie non è temere “il selvaggio”, ma

riconoscere invece che l’attività antropica è

responsabile dell’emergere e del propagarsi

della zoonosi e delle nuove pandemie. Gli

scienziati avvertono anche che o lo sfruttamento

della natura da parte dell’umanità

cambierà oppure ci saranno pandemie più

mortali rispetto a quella in corso.

L’analisi spiega infatti che la distruzione

di foreste e habitat dovrebbe preoccuparci

seriamente: come avvenuto in Asia,

proprio il Sudamerica è oggi uno dei continenti

dove più facilmente potrebbe svilupparsi

lo spillover. Altra zona a rischio, in

futuro, potrebbe essere l’Africa, dove dal

Congo alle zone centrali la deforestazione

avanza.

In generale però, ci dicono i dati del

Global Forest Resources Assessment 2020

della Fao, per fortuna c’è qualche segnale

di speranza in termini di disboscamento,

che in tutto il globo sembra ora muoversi

a ritmi più lenti rispetto al passato: siamo

a 10 milioni di ettari all’anno convertiti in

altri usi dal 2015, in calo rispetto ai 12 milioni

di ettari all’anno dei cinque anni precedenti.

Segnali che dovremmo cogliere e implementare

per ripristinare quella sottile

linea verde in difesa delle nostre preziosissime

foreste che oggi contengono 60mila

specie diverse di alberi, l’80 per cento delle

specie di anfibi, il 75 per cento di quelle

di uccelli o il 68 per cento delle specie di

mammiferi della Terra.

Come ha spiegato il ricercatore italiano

Giorgio Vacchiano della Statale di

Milano, «è importante proteggere foreste

come l’Amazzonia attraverso una cooperazione

internazionale. Le foreste, e

soprattutto quelle tropicali, con un 1 milione

di specie ancora da scoprire, sono

enormi serbatoi di potenziali virus che potrebbero

fare il salto, se noi continuiamo

a mutarne gli equilibri. Non sappiamo,

modificando con la deforestazione le relazioni

uomo-animale, cosa potrebbe accadere,

con il rischio di nuove e devastanti

pandemie. Dobbiamo subito avviare gli

strumenti per proteggerla».

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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AMBIENTE

SMART WORKING, UN ALLEATO

PER LA SALUTE DELL’AMBIENTE

L’Enea registra come il telelavoro nella Pubblica Amministrazione

abbia evitato 8mila tonnellate di CO2 in un anno

di Gianpaolo Palazzo

Il lavoro è cavavoglie, raccontavano i

Toscani, e per l’Enea non solo valorizza

le persone, ma dà una grossa mano

alla sostenibilità ambientale urbana.

In che modo? Basta leggere attentamente

le pagine dell’indagine nazionale “Il tempo

dello Smart Working. La PA tra conciliazione,

valorizzazione del lavoro e dell’ambiente”

durata più di

un anno. Allo studio

hanno aderito, con

oltre 5.500 persone,

ventinove amministrazioni

pubbliche

che, già prima della

pandemia, avevano

fatto partire il lavoro

agile a distanza. È

stato anche realizzato un sondaggio, su base

volontaria, scelto dal 60% del totale coinvolto,

costituito per il 76% da donne e il

24% da uomini.

«Viene presentata - raccontano Marina

Penna e Bruna Felici, due delle ricercatrici

Enea che hanno curato l’analisi - una stima

Il lavoro agile ha ridotto

la mobilità di circa un’ora

e mezza a persona, per un

risparmio di 4 mln di euro

del potenziale di mitigazione di consumi ed

emissioni inquinanti conseguibili attraverso

il lavoro a distanza e l’innovazione organizzativa,

ponendoli in relazione con gli effetti

generati: dallo sviluppo urbano all’efficientamento

della Pubblica amministrazione, al

welfare fino alle tematiche di genere».

Lo smart working ha diminuito la mobilità

quotidiana del campione esaminato

di circa un’ora e mezza in media a persona.

Sono quattro i milioni di euro non spesi in

carburante, mentre i

chilometri risparmiati

arrivano a 46 milioni.

Dati rilevanti solo

pensando alla Capitale

che, secondo l’Inrix

2018 Global Traffic

Scorecard, con quattrocentomila

persone

tra ministeri e amministrazioni

centrali e locali è la seconda al

mondo per ore trascorse in auto, il doppio

di New York, il 12% in più di Londra, il

70% in più di Berlino, il 95% in più di

Madrid. Il beneficio, quindi, è duplice: più

tempo libero e meno traffico, con un taglio

di emissioni e inquinanti che Enea stima in

ottomila tonnellate di CO2, 1,75 t di PM10

e 17,9 t di ossidi d’azoto.

«Del resto - aggiunge Marina Penna - le

conclusioni dell’ultimo rapporto dell’IPCC

(Gruppo intergovernativo sul cambiamento

climatico n.d.r.) sono piuttosto chiare quando

sostiene che saremo in grado di mantenere

il riscaldamento globale ben al di sotto

dei 2° C, rispetto ai livelli preindustriali,

solo se mettiamo in atto modifiche senza

precedenti delle nostre abitudini in tutti gli

ambiti della società, quali l’energia, il territorio

e gli ecosistemi, le città e le infrastrutture,

nonché l’industria».

Con il lavoro a distanza, la mobilità

quotidiana si svolge, nella metà dei casi, in

zone vicine alle abitazioni dei dipendenti

pubblici, il 39% nel quartiere di residenza,

mentre l’8% in luoghi più lontani. Coloro

che si muovono nel proprio rione, usano,

per la maggior parte, la bicicletta o vanno

a piedi. Per spostamenti più lunghi, viene

preferita l’automobile, piuttosto che il

mezzo pubblico, anche per recarsi a pochi

chilometri dal proprio appartamento. Solo

il 15% delle persone intervistate sceglie bus,

treni, metro o tram quando occorra raggiungere

aree molto fuori mano.

50 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


AMBIENTE

© Dean Drobot/www.shutterstock.com

© G-stock studio/www.shutterstock.com

Nel settore sanitario le strutture che

avevano investito su una rete di assistenza

per pazienti con malattie croniche, capace

d’intervenire anche da remoto, hanno dimostrato

il valore aggiunto nell’abilità di

tutelare contatti e cure. «Per uscire dall’emergenza

sanitaria meglio di come ci siamo

entrati, lo smart working andrà compreso,

mantenuto, potenziato e reso più efficace.

Soprattutto nelle grandi città - sottolinea

Marina Penna - in assenza di misure, si

prospetta un massiccio

ricorso al mezzo

privato che offre una

percezione di sicurezza

dal contagio.

Opportunamente

governato a livello

territoriale, il ricorso

allo smart working

consentirebbe, infatti,

di moderare e modulare la domanda di

spostamenti casa-lavoro in modo coordinato

con la programmazione del trasporto

pubblico locale, operazione particolarmente

utile nelle fasi 2 e 3 dell’emergenza Covid-19,

in cui dovremo trovare gli adattamenti

per convivere con il coronavirus».

Allo studio hanno aderito 29

amministrazioni pubbliche,

per un totale di circa

5500 persone

Guardando alla dimensione personale,

il tempo “liberato” dagli spostamenti quotidiani

ci lascia sviluppare relazioni sociali

e dà più spazio all’affettività, alla cura di sé

e delle proprie passioni. Chi, invece, deve

gestire gravi situazioni personali o familiari

percepisce il tempo “liberato” come momento

per l’accudimento, cui si aggiunge

un senso d’isolamento per la mancanza di

dialogo con i colleghi. Per questo gruppo di

persone, il lavoro a distanza ha una natura

ambivalente: da un lato limita le tensioni e

appiana alcune difficoltà quotidiane, dall’altro

non offre opportunità all’individuo per

riacquistare spazi di libertà o di benessere,

anche minimi.

Il passaggio da un’organizzazione “orologio”

a una “organismo”, per usare la metafora

del sociologo

Federico Butera, andrà,

dunque, calibrato

in modo da non

lasciare indietro nessuno.

«Non c’è dubbio

- conclude Bruna

Felici - che il lavoro

agile sia in grado di

migliorare la qualità

dell’ambiente delle nostre città, la vivibilità

di aree urbane decongestionate dal traffico

e anche la rivitalizzazione di quartieri periferici

che sono normalmente svuotati dal

pendolarismo lavorativo verso le aree degli

uffici e delle amministrazioni centrali, come

accade, ad esempio, a Roma».

I dati sulla mobilità

Una stima approssimativa,

estesa a tutti i dipendenti intervistati,

del valore medio per le

percorrenze giornaliere in auto o

con altro mezzo motorizzato dà

come risultato circa 29,8 km evitati

a persona in ogni giorno di

telelavoro e 18,6 nel lavoro agile.

Prendendo in considerazione le

percorrenze annuali, sono stati in

media risparmiati 3.700 km per dipendente

in un anno di telelavoro

e 780 in quello agile. La differenza

nei dati è legata alle caratteristiche

organizzative. Il numero di giorni

di telelavoro oscilla fra due e quattro

alla settimana, mentre nel lavoro

agile tra i tre e i cinque al mese.

Inoltre, il telelavoro è risultato “a

regime” con circa dieci mesi/anno

per dipendente, laddove il lavoro

agile è in fase di adozione con circa

sette mesi/anno e una crescita,

in media, del 148% (2015 - 2018).

Nel valutare le potenziali ricadute

ambientali delle due forme si deve

tener presente che il numero di telelavoratori

nella Pubblica amministrazione

tende ad essere fra il 5

e il 10% dell’organico.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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AMBIENTE

© Butsaya/www.shutterstock.com

Il condizionatore funziona senza elettricità

Acqua, sale e sole per una tecnologia di raffrescamento passiva

Nella pubblicità, oltre al classico uomo sudato e in canottiera

bianca, ci hanno provato con le suocere moleste, il

capufficio arrabbiato, le belle donne, gli animali e le case

dal clima perfetto dopo aver istallato questo piuttosto che

quel condizionatore. Spesso, però, per soddisfare la “fame” di aria

piacevolmente fredda, dimentichiamo che quell’oggetto magico, capace

di conciliare il relax o il sonno notturno, impiega fluidi refrigeranti

con un alto impatto ambientale e richiede, inoltre, un elevato

fabbisogno di energia. Come si possono ridurre, allora, i consumi nel

raffrescamento degli edifici? Un gruppo di studiosi del Politecnico

di Torino (SMaLL) e dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica

(INRiM) ha studiato un dispositivo capace di abbassare la temperatura

senza l’utilizzo della corrente elettrica, pubblicando i risultati della

propria ricerca sulla rivista “Science Advances”.

Lo studio è stato condotto

dal Politecnico di Torino

e dall’Istituto Nazionale

di Ricerca Metrologica

Il fresco si diffonde nell’ambiente sfruttando

sempre l’evaporazione di un liquido, come

nei dispositivi tradizionali, ma sono semplicemente

acqua e sale, invece che composti chimici

nemici dell’Ambiente. Al posto di pompe

e compressori, che hanno bisogno di energia e

manutenzione, tutto gira attorno a fenomeni

passivi, processi spontanei come la capillarità o

l’evaporazione. «Far evaporare acqua per ottenere una sensazione di

freschezza è una soluzione nota da millenni, come il sudore che evapora

sulla pelle per raffrescarci o un fazzoletto imbevuto appoggiato

sulla fronte nelle giornate più calde. La nostra idea - spiega Matteo

Alberghini, dottorando del Dipartimento Energia del Politecnico e

primo autore della ricerca - permette d’ingegnerizzare questa tecnologia,

massimizzandone l’effetto e rendendola possibile in qualsiasi

condizione ambientale».

L’acqua pura bagna una membrana impermeabile che la separa

da una soluzione di acqua e sale ad alta concentrazione. Dobbiamo

immaginare quella membrana «come un setaccio con maglie grandi

un milionesimo di metro: grazie alle sue proprietà idrorepellenti,

non viene attraversata dall’acqua liquida, ma solo dal vapore. In questo

modo, l’acqua dolce e salata non si mescolano, mentre il vapore

d’acqua è libero di passare da una parte all’altra della membrana. In

particolare, la differente salinità nei due liquidi consente all’acqua

pura di evaporare più velocemente di quella salata.

Questo meccanismo raffredda l’acqua pura, e può essere amplificato

grazie alla presenza di diversi stadi evaporativi. L’acqua

salata tenderà gradualmente a “raddolcirsi” nel tempo e dunque

l’effetto raffrescante ad attenuarsi; tuttavia, la differenza di salinità

tra le due soluzioni può essere continuamente e in modo sostenibile

ristabilita tramite l’energia solare». Le unità refrigeranti, spesse

pochi centimetri, possono funzionare autonomamente oppure venir

disposte in serie, come accade con le batterie,

impilandole per aumentarne gli effetti. Diventa

possibile, così, tarare la potenza secondo i gusti

di ciascuno. «In futuro - conclude Matteo Alberghini

- potremmo ottenere una capacità di

raffrescamento anche più elevata aumentando

la concentrazione della soluzione salina oppure

ricorrendo ad un design modulare più spinto

del dispositivo».

Il costo di produzione basso, appena qualche euro per ciascuno

stadio, e la semplicità dell’assemblaggio favorirebbero l’installazione

in zone rurali, dove la scarsa presenza di tecnici specializzati

può rendere difficoltose riparazioni e manutenzioni. Altri vantaggi

potrebbero esserci nelle zone ricche di acque ad alta concentrazione

salina, come ad esempio quelle costiere, nelle vicinanze di

grossi impianti di dissalazione oppure in prossimità di saline. Per

ora, comunque, la tecnologia non è ancora pronta per essere commercializzata,

ma ulteriori sviluppi potrebbero farla affiancare agli

impianti già esistenti, riducendo gli sprechi energetici, ma non l’effetto

rinfrescante. (G. P.).

52 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


AMBIENTE

© S_Photo/www.shutterstock.com

L’Ecologia molecolare per salvare la meiofauna

La chisura delle spiagge ha favorità un arricchimento della biodiversità

di Pasquale Santilio

Alcuni parchi e aree marine protette conservano spiagge completamente

chiuse all’accesso di turisti al fine di tutelare la

conservazione dell’ambiente e a danno delle attività turistiche,

spesso considerate il volano dell’economia locale degli

ambienti di questo genere. La risposta circa la vantaggiosità e necessità

di tale limitazione è in uno studio internazionale pubblicato sulla

rivista Communications Biology e coordinato dall’Istituto di ricerca

sulle acque del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr- Irsa), in collaborazione

con il Parco Nazionale dell’Asinara, l’Istituto di biomembrane,

bioenergetica e biotecnologie molecolari

(Cnr- Ibiom), l’infrastruttura LifeWatch Italia,

le Università di Sassari, di Modena e Reggio

Emilia ed altri atenei stranieri. I ricercatori hanno

dimostrato, utilizzando tecniche di ecologia

molecolare, che la sabbia delle spiagge ospita in

realtà una sorprendente diversità faunistica costituita

da una miriade di microscopici e bizzarri

animali, la cosiddetta meiofauna, la cui esistenza

può essere minacciata dai turisti che, semplicemente,

camminano sulla sabbia.

Il termine meiofauna, coniato nel 1942 dalla biologa marina

Molly Mare, indica l’insieme di metazoi che abita i sedimenti marini

e d’acqua dolce. Comprende 22 dei 35 phyla animali di cui 5

sono esclusivi della meiofauna stessa: Gastrotrichi, Gnatostomulidi,

Chinorinchi, Loriciferi e Tardigradi. Possiamo distinguere una

meiofauna permanente, costituita dagli organismi che fanno parte

della meiofauna per tutta la durata del loro ciclo vitale e una meiofauna

temporanea, rappresentata dagli stadi giovanili di organismi

che, giunti allo stadio adulto, andranno a far parte della macrofauna.

“Dal punto di vista della biodiversità, spiegano Alejandro Martinez

Il termine meiofauna, coniato

dalla biologa Molly Mare, indica

l’insieme di metazoi che abita i

sedimenti marini e d’acqua dolce

ed Ester Eckert del Cnr- Irsa, il nostro approccio integrato di analisi

faunistiche ed ecologiche con metodi tradizionali e con metodi

basati su DNA prelevato in ambiente ha dimostrato che, anche in

una zona piccola come l’isola dell’Asinara, su un totale di circa 200

specie di invertebrati microscopici rinvenute nelle spiagge si registrano

oltre 80 specie finora ignote. Questi alti livelli di biodiversità

dimostrano quanto ancora poco sappiamo della vita che ci circonda,

soprattutto, per quanto riguarda animali microscopici che vivono

nella sabbia e nei sedimenti. In mancanza di tale conoscenza diventa

impossibile studiare le molteplici funzioni ecologiche fondamentali

quali, la trasformazione, il riciclo e il trasporto della sostanza organica

ai vari livelli della rete trofica, svolte da tale specie e gli impatti

esercitati su di loro dalle attività umane”.

Prosegue Vittorio Gazale, Direttore del

Parco Nazionale dell’Asinara e coautore dello

studio “Dal punto di vista della gestione e conservazione

ambientale, i risultati della ricerca

dimostrano come tenere alcune spiagge chiuse

al pubblico sia una scelta fondamentale per

mantenere elevati livelli di biodiversità, in particolare

per permettere la diversificazione degli

organismi microscopici che vivono nella sabbia

e nei sedimenti marini litorali. Anche spiagge con minima affluenza

turistica hanno dimostrato un cambiamento in vari parametri di ricchezza

e composizione in specie, con un effetto maggiore in spiagge

ad alta affluenza di turisti”.

“Studi come questo, conclude Diego Fontaneto del Cnr- Irsa,

dove la ricerca di base viene applicata a sostegno delle decisioni politiche

in campo ambientale, sono essenziali per fornire le basi di una

corretta elaborazione di adeguati piani di gestione di parchi ed aree

protette volti a limitare l’impatto umano in ambiente e potrebbero

essere usati per comprendere gli effetti ambientali della diminuzione

dell’impatto antropico a causa del lockdown”.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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AMBIENTE

Come sarà la Terra fra cinquant’anni?

In diverse parti del mondo

sarà un vero e proprio forno, con

temperature paragonabili a quelle

di un deserto. Dall’India al Pakistan, il

surriscaldamento globale rischia di stravolgere

nel 2070 la vita di 3,5 miliardi di persone

costrette a vivere, in futuro, in zone

paragonabili al deserto del Sahara per condizioni

e temperature. Questo genererà, oltre

alla scarsità di cibo e di risorse, sempre

più rifugiati climatici, persone che saranno

costrette a spostarsi altrove per trovare

condizioni di vita migliori.

Questo scenario, per certi versi apocalittico

ma potenzialmente molto reale,

soprattutto se non riusciremo ad arginare

le emissioni e la conseguente avanzata

della crisi climatica, è stato descritto da

un rapporto apparso sulla rivista scientifica

americana Proceedings of the National

Academy of Science (Pnas) e redatto da

diversi esperti internazionali. Secondo lo

studio in quasi un quinto della Terra il clima

sarà caratterizzato da caldo insopportabile

e un terzo della popolazione mondiale

si ritroverà a vivere in situazioni al limite

della sopravvivenza dato che il caldo avrà

impatti rilevanti su ecosistemi, economie e

vita delle comunità.

Nel documento curato da ricercatori

cinesi, americani ed europei, viene descritto

come ben prima della fine del secolo la

temperatura media crescerà di oltre 3 gradi

e «in alcune aree si potrebbe arrivare a 7,5,

in assenza di azioni di mitigazione». Come

se non bastasse, le temperature elevate si

registreranno probabilmente in zone densamente

popolate e fra le più povere al

mondo, come ad esempio l’India, la Nigeria,

il Pakistan, l’Indonesia e il Sudan, dove

oggi vivono quasi due miliardi di persone e

in futuro probabilmente molte di più. I territori

dove oggi vivono e che vengono usati

per le produzioni agricole e coltivare cibo

IL MONDO CALDISSIMO

CHE AVREMO NEL 2070

Il nuovo studio su Pnas sulla crisi climatica:

l’aumento delle emissioni renderà la Terra invivibile

con l’avanzare della crisi climatica e del

surriscaldamento potrebbero trasformarsi

infatti in territori praticamente inabitabili,

dato che tra calore e siccità sarà sempre più

complesso garantire l’approvvigionamento

a cibo e risorse idriche.

Già oggi, dati

alla mano, purtroppo

siamo lontani dalla Tra cinquant’anni

riduzione di emissioni

di CO2 decisa per

il surriscaldamento globale

esempio negli accordi

di Parigi del 2015. di 3,5 miliardi di persone

rischierà di stravolgere la vita

Se in questo periodo

di lockdown mondiale

dovuto alla pandemia si è registrato un

calo del 17% delle emissioni, questo non

significa e non basta per poter dire che siamo

sulla buona strada: gli obiettivi di contenere

il surriscaldamento a +1,5 gradi, e

anche quello di 2 gradi, sono infatti ancora

lontani dall’essere centrati e nel 2100 potremmo

comunque trovarci con una temperatura

media globale a +3,2 gradi.

Chi oggi abita in zone con temperature

temperate in futuro potrebbe vivere con 20

gradi di media, pari

all’Africa settentrionale,

mentre chi si

trova già in zone con

temperature elevate

potrebbe ritrovarsi

in aree con quasi 30

gradi di media.

Secondo i dati

della ricerca Pnas, basata su una analisi

delle temperature globali negli ultimi 6.000

anni, la fascia di fluttuazioni climatiche ha

una temperatura media annuale di 55.3

gradi Fahrenheit e le colture, gli allevamen-

54 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


AMBIENTE

© Pop Tika/www.shutterstock.com

© Art-sonik/www.shutterstock.com

ti o i sistemi di irrigazione e produzione di

cibo sono sviluppati e progettati all’interno

di questi vincoli di temperature. Fuori

dalle normali condizioni ambientali ci si

ritroverebbe ad operare e vivere in zone

come il Sahara che oggi rappresentano

meno dell’1% della

superficie terrestre

ma che in futuro diventeranno

il 20%,

se non riusciremo ad

abbassare le emissioni

climalteranti.

Il rapido aumento

porterebbe infatti

il 30% della popolazione mondiale ad abitare

in posti con una temperatura media

superiore ai 29 gradi (condizione climatica

che oggi è sperimentata sullo 1% della

superficie delle terre emerse) mentre nel

Lo scenario che si prospetta

porterà, in futuro, scarsità di

cibo, di risorse e sempre più

rifugiati climatici

2070 questa condizione potrebbe riguardare

il 19% della superficie.

«I cambiamenti si manifesterebbero

meno velocemente che con l’attuale pandemia

da Covid-19, ma sarebbero ancor più

deleteri perché alcune zone del Pianeta si

riscalderebbero a livelli

a malapena accettabili

per la sopravvivenza

umana, e non si

raffredderebbero mai

più» ha spiegato Marten

Scheffern dell’Università

di Wageningen,

coordinatore

dello studio assieme a Xu Chi dell’università

di Nanjing. Secondo i ricercatori non

solo milioni di persone sarebbero costrette

a migrare, ma inoltre c’è il rischio che

avvenga presto un possibile spopolamento

delle aree costiere dovuto allo scioglimento

dei ghiacci e il conseguente innalzamento

del livello del mare.

«Visto che le nostre scoperte erano

così rilevanti - ha spiegato Xu Chi dell’Università

di Nanjing - ci siamo presi un anno

in più per verificare attentamente tutte le

supposizioni e i calcoli. Inoltre, abbiamo

deciso di pubblicare tutti i dati e i codici

informatici, per trasparenza e per agevolare

qualunque attività di follow-up da parte

di altri studiosi. Avremo bisogno di un

approccio globale per salvaguardare le generazioni

future dalle significative tensioni

sociali che il cambiamento previsto potrebbe

causare».

Non tutto però è perduto. Per Tim

Lenton, coautore dello studio, climatologo

e direttore del Global Systems Institute

dell’Università di Exeter, «la buona notizia

è che questi effetti si possono ridurre enormemente

nel caso in cui la specie umana

riesca a frenare il surriscaldamento globale.

I nostri calcoli dimostrano che ogni grado

al di sopra dei livelli attuali corrisponde

all’incirca a un miliardo di persone che

finiranno fuori dalla nicchia climatica. È

importante dimostrare i benefici ottenuti

dalla riduzione delle emissioni di gas a effetto

serra in termini di migliori condizioni

di vita per gli esseri umani prima ancora

che in termini monetari». (G. T.).

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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AMBIENTE

© Diyana Dimitrova/www.shutterstock.com

Save the Queen

La campagna di Legambiente per salvare le api dall’estinzione

La giornata mondiale delle api, che si è celebrata lo

scorso 18 ma maggio, ha dato il via alla campagna di

Legambiente “Save the Queen”. Lo scopo è quello

di sensibilizzare istituzioni e cittadini sul tema del rischio

di estinzione delle api.

Fino ad oggi, è stato soprattutto il calo nelle popolazioni

dell’ape da miele domestica a far parlare di sé, ma la nuova

lista rossa europea indica che il 9% di tutte le specie di api del

nostro continente è a rischio di estinzione.

Le api sono preziose impollinatrici, sentinelle ecologiche

e bioindicatori della qualità dell’aria. Sono dieci le azioni

al centro della campagna che ha come simbolo l’ape regina:

creazione di una vera e propria rete di mappaggio capillare

nella penisola per individuare pesticidi e

metalli pesanti attraverso le api, realizzata

in collaborazione con la start up Beeing;

adozione di arnie; più orti urbani; accordi

specifici con aziende agricole per mettere

in campo azioni per tutelare ed incrementare

la presenza di api ed insetti pronubi

nei territori attraverso, ad esempio, la

coltivazione di piante mellifere; campagne

informative rivolte ai cittadini con percorsi didattici e

attività di sperimentazione, coinvolgendo anche il mondo

universitario e della ricerca; pressing sul mondo istituzionale

per chiedere interventi e risposte concrete; creazione di una

rete di Comuni amici delle api; creazione di una rete di Parchi

“Save the queen” messa in campo di azioni economiche

a sostegno diretto di filiere agricole produttive virtuose; realizzazione

di una linea di miele Save the queen, selezionando

apicoltori che operano nel massimo rispetto delle api e degli

ambienti naturali per creare, così, una selezione di mieli italiani

di alta qualità.

L’obiettivo è di raccogliere

un milione di firme

per chiedere all’Ue

a riduzione dei pesticidi

La campagna, realizzata in partnership con Frosta, in prima

linea sul fronte della sostenibilità ambientale e prima azienda

ad aderire a “Save the queen”, e con la partnership tecnica

della start-up Beeing, avrà un suo spazio virtuale specifico,

agricoltura.legambiente.it/save-the-queen, in cui si potranno

trovare informazioni sulle api, ma anche diversi contenuti di

approfondimento, foto e video.

Inoltre, sarà anche possibile firmare la petizione per chiedere

alla Commissione europea di sostenere un modello agricolo

che permetta agli agricoltori sia di tutelare la biodiversità

che di ridurre drasticamente i principi attivi pericolosi utilizzati

in agricoltura, arrivando alla loro totale eliminazione entro

il 2035. La campagna è promossa da una coalizione di 90

organizzazioni in 17 paesi europei con una

compagine molto ampia che vede la presenza

di svariate associazioni con un ruolo

attivo anche in Italia. Obiettivo della campagna

è la raccolta di un milione di firme

entro settembre 2020 allo scopo di chiedere

alla Commissione Europea di adottare

attraverso provvedimenti normativi una

legislazione più efficace nell’ambito della

tutela delle api e degli insetti pronubi, per raggiungere una

riduzione dell’80% dell’utilizzo di pesticidi entro il 2030 e la

loro totale eliminazione entro il 2035.

«Oggi più che mai – spiega Giorgio Zampetti, direttore generale

Legambiente – è importante difendere le api con azioni

di tutela non più procrastinabili, a partire dall’eliminazione

dei principi attivi nocivi come i neonicotinoidi, la diffusione

dell’applicazione di criteri di produzione agroecologici orientati

all’agricoltura biologica e l’adozione di un piano d’azione

per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari che sia orientato

alla tutela della biodiversità». (F. F.)

56 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


INAUGURAZIONE

DELLA SEDE REGIONALE

DI TOSCANA E UMBRIA DELL’ONB

FIRENZE*

3 ottobre 2020 - Ore 10:30

Interventi:

Sen. dott. Vincenzo D’Anna

Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

Dott.ssa Stefania Papa

Consigliere dell’Onb e delegato regionale

di Toscana e Umbria

Dott.ssa Antonella Gigantesco

Commissario della delegazione

di Toscana e Umbria

Autorità convenute

*Via dei Brunelleschi, 4

www.onb.it

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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INNOVAZIONE

IL FUTURO

DELL’ULTRAVIOLETTO

PER SANIFICARE LE

MASCHERINE

Il progresso delle tecnologie al servizio

dell’ambiente e del mondo sanitario

© Mia Stendal/www.shutterstock.com

Probabilmente, finché non si troverà

un vaccino, le mascherine faranno

parte delle nostre vite per molto

tempo. Diventeranno capi protettivi

da indossare ogni giorno forse perfino per

anni, azzardano alcuni studi internazionali.

Oggi, come indicano le disposizioni di legge,

per evitare i contagi legati alla pandemia da

Covid-19 ci stiamo già abituando a portarle

mentre facciamo la spesa, camminiamo, ci

spostiamo, facciamo shopping: praticamente

in ogni occasione, con conseguenti rischi

per l’ambiente se non le sapremo gestire. Alcuni

cittadini infatti, un po’ come accaduto

per la plastica monouso, si stanno abituando

a gettare in natura, una volta usati, guanti e

mascherine.

Se questa cattiva abitudine dovesse

perdurare, con uno studio del Politecnico

di Torino che stima che serviranno sino a

1 miliardo di mascherine al mese, se solo

l’1% dei dispositivi di protezione finisse in

natura ci ritroveremmo con 10 milioni di

mascherine disperse nell’ambiente, pronte a

inquinare i nostri mari. Un dramma, per gli

oceani già soffocati da milioni di tonnellate

di plastica. Ecco perché, per trovare un’altra

via allo smaltimento e per cercare di evitare

possibili danni all’ambiente, ultimamente

si sta ragionando sulla possibilità del riuso

delle mascherine dopo un processo di sanificazione.

Fra i vari modi presi in esame per poter

sanificare e di conseguenza riutilizzare

le mascherine, uno dei più efficaci finora

è quello dei raggi ultravioletti. Soprattutto

quelli più energetici, come i raggi Uv-C,

hanno effetti igienizzanti efficaci solitamente

anche sui virus, anche se siamo ancora in

fase di sperimentazione per capire se davvero

possono essere in grado di “sconfiggere”

sempre il virus Sars-Cov-2 responsabile

dell’attuale pandemia.

Ad esempio, ricercatori delle sedi di

Brera, Merate e Padova dell’istituto nazionale

di astrofisica, in collaborazione con

l’Università di Milano, stanno mirano a sviluppare

dei dispositivi utili alla disinfezione

che non solo potrebbero essere adatti per

sanificare attraverso i raggi le mascherine,

ma addirittura - cosa che è in fase di sperimentazione

- per la

disinfezione dell’aria

e l’inattivazione del

virus Sars-Cov-2.

Al momento si

stanno sperimentando

gli effetti a seconda

dell’esposizione

ai raggi, delle dosi,

delle lunghezze d’onda. Sistemi di sanificazione,

quelli attraverso i raggi Uv, che

potrebbero essere usati anche come disinfezione

per oggetti di uso comune, dalle

banconote agli smartphone.

Il Politecnico di Torino stima

che, nei prossimi tempi,

serviranno 1 miliardo

di mascherine al mese

A Milano, negli ospedali Sacco e San

Raffaele, ma anche a Bergamo, in Piemonte

e in Veneto, sulla scia degli Stati Uniti

hanno sperimentato di recente robot “Light

Strike” che è in grado, usando ultravioletti

allo xeno, di sterminare in pochi minuti

virus, batteri, spore

e funghi e anche il

Sars-Cov-2. Secondo

uno studio effettuato

nel Texas nel Biomedical

Research Institute

questo sistema

è in grado di ridurre

del 99,99% il carico

patogeno su superfici complesse. Funziona

con luce ultravioletta ad alta intensità che

distrugge il Dna dei microrganismi.

Sempre dall’America arriva anche un

sistema capace di sterilizzare e sanificare

58 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


INNOVAZIONE

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200 mascherine ogni otto minuti proprio

grazie ai raggi Uv. E’ stato sviluppato da

due team di ricercatori del Dipartimento

di elettricità e ingegneria informatica

(ECE) della Lehigh University e del St.

Luke’s University Health Network. Grazie

alle proprietà

Se solo l’1% dei dispositivi di

protezione finisse in natura,

ne ritroveremmo 10 milioni

dispersi nell’ambiente

della luce ultravioletta,

che in questa

fase di pandemia è

stata usata in diversi

contesti, dagli ospedali

sino agli aeroporti,

è stato creato

l’ High-Throughput

Symmetrical and Non-Shadowing Ultraviolet

Sterilization System (sistema di sterilizzazione

ultravioletta simmetrica e non

ombreggiante ad alto rendimento) detto

“Bug Zapper”, capace di causare cambiamenti

radicali nel DNA e nell’RNA di virus

e di altri agenti patogeni.

Potenzialmente, questo sistema, fatto di

una struttura di metallo ottagonale con diverse

fonti di luce, irradiando di ultravioletti

è capace di decontaminare fino a 10mila mascherine

al giorno.

Basati sugli ultravioletti,

ci sono poi diversi

progetti stanno

pian piano diventando

realtà negli States,

come al Rensselaer

Politechnic Institute

di Troy nello Stato di

New York, dove è già stato avviato un sistema

automatizzato che attraverso l’uso degli

ultravioletti sta sanificando migliaia di mascherine,

già riutilizzate dagli operatori.

Anche in Italia ci si muove su questo

fronte. Mentre i comuni (come Roma) cominciano

a prevedere multe salate sino a

500 euro per chi getta a terra i dispositivi

di protezione, dalla Lombardia alla Sicilia

si stanno progettando nuove mascherine in

grado proprio di ridurre l’impatto ambientale:

per esempio modelli con filtri sostituibili

o altri in “gomma”, altre ancora si potranno

sterilizzare in microonde. Oppure,

proprio con l’uso di ultravioletti UV-C e

ozono, ci sono progetti di privati che permettono

la sanificazione in un massimo di

quindici minuti dalle mascherine ai guanti,

passando per altri oggetti di uso comune.

Superati ulteriori test, potremmo presto

vedere in funzione questi macchinari: lo

scopo è quello di unire scienza e tecnologia

per aiutarci a proteggerci dal contagio

e contemporaneamente proteggere l’ambiente.

(G. T.).

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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INNOVAZIONE

© Massimo Todaro/www.shutterstock.com

In spiaggia con i distanziatori ecosostenibili

Un brevetto dell’Enea al servizio della sicurezza nei lidi

di Felicia Frisi

Vacanze sì, vacanze no. Il coronavirus impone questo dilemma

quando la stagione estiva è ormai alle porte. In gioco c’è

la salute dei turisti, da far conciliare con il settore balneare

e la sua economia mai così in bilico negli ultimi decenni.

Secondo le linee guida condivise tra Governo e Regioni, bisognerà

garantire una superficie di almeno 10 metri quadrati per ogni

ombrellone. Per stimolare il turismo nella Penisola, i 500 euro del bonus

vacanze rappresenteranno un incentivo invitante.

Ma, intanto, bisogna fare presto per attrezzare correttamente i

litorali. Dal mondo della ricerca arriva una soluzione green per assicurare

il corretto distanziamento sulle spiagge

nella fase post-emergenza Covid-19. L’idea è di

utilizzare la Posidonia oceanica, una pianta marina

che si deposita in grandi quantitativi sugli

arenili mediterranei, per realizzare barriere di

sicurezza ecologiche.

L’innovazione è stata sviluppata dall’Enea

(Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia

e lo sviluppo economico sostenibile) in

collaborazione con l’azienda Ecofibra Design and Technology. Consiste

in pannelli divisori imbottiti con Posidonia, raccolta ed essiccata,

per separare gli ombrelloni e creare dei percorsi di accesso all’acqua,

in linea con l’attuale normativa sanitaria.

«L’utilizzo durante la stagione estiva di questi dispositivi economici,

facilmente riutilizzabili e che possono essere realizzati anche con

materiali 100% naturali, consentirebbe di rendere fruibili in sicurezza

superfici di costa altrimenti non balneabili e di ridurre la dispersione

di aerosol a beneficio della ricettività turistica», spiega Sergio Cappucci

del Laboratorio di Ingegneria sismica e prevenzione dei rischi naturali

dell’Enea, che ha inventato e brevettato il sistema utile anche per

Per realizzare le barriere

viene utilizzata la Posidonia

oceanica, diffusa sugli

arenili mediterranei

stuoie, sdraio, cuscini e altri arredi, in un’ottica di economia circolare,

protezione dell’ambiente e tutela della biodiversità, offrendo nuove

opportunità di sviluppo economico.

Questi prototipi di “separè” ecologici, alti circa 120 cm e larghi

200 cm, sono dotati di telai in acciaio e fodera in plastica riciclata o in

materiali naturali; a fine stagione l’imbottitura può essere semplicemente

svuotata sulla spiaggia dove torneranno a svolgere l’originaria

funzione di protezione dall’azione erosiva provocata dalle onde.

I dispositivi rappresentano inoltre una soluzione al problema

della corretta gestione della Posidonia spiaggiata che occupa molta

superficie, generando cattivi odori: se raccolti insieme ad altri rifiuti,

infatti, i cumuli devono essere smaltiti, con costi ingenti per operatori

e amministrazioni locali che devono provvedere alla loro rimozione.

La Posidonia oceanica è un importante indicatore

dello stato di salute del mare in grado

anche di ridurre i fenomeni di erosione costiera,

produrre ossigeno, contribuire alla conservazione

degli ecosistemi e della biodiversità. La loro

rimozione, oltre a sottrarre quantità elevate di

sabbia alle spiagge, privandole della naturale

protezione dalle mareggiate, sottrae biomassa e

nutrienti importanti per gli ecosistemi costieri,

con conseguente impoverimento della biodiversità. Un recente studio

ha calcolato che la rimozione meccanica di Posidonia spiaggiata,

la cosiddetta “banquette”, in 19 spiagge ha fatto perdere in 9 anni

(2010-2018) un volume di sabbia di oltre 39.000 mc, equivalenti a circa

30.000 tonnellate di sabbia.

Al fine di promuovere l’importanza della Posidonia oceanica e

valorizzare la “banquette”, dal prossimo giugno presso il Parco Nazionale

del Circeo e il Monumento Naturale Palude di Torre Flavia

saranno realizzati due “laboratori a cielo aperto” nell’ambito del progetto

BARGAIN, realizzato da ISPRA, Università di Tor Vergata ed

ENEA, con il contributo della Regione Lazio.

60 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


INNOVAZIONE

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Comunità energetiche per il low-carbon

L’Italia coordina il progetto europeo eNeuron con Enea

La low-carbon economy è la grande scommessa dei prossimi

anni. Ridurre la CO2 in atmosfera è una missione da

portare a termine per la salute del Pianeta, esposto a cambiamenti

climatici che destabilizzano gli equilibri della vita

terrestre, come li abbiamo conosciuti fino a oggi.

Bisogna sviluppare strumenti innovativi per la gestione ottimale

delle “comunità energetiche” e favorire la transizione verso un sistema

a basso contenuto di carbonio. Questo è l’obiettivo prioritario di

eNeuron, il progetto europeo di Innovation Action (IA) coordinato

dall’Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo

sviluppo economico sostenibile).

Le comunità energetiche sono generalmente costituite da un

insieme di soggetti che, all’interno di un’area geografica ben definita,

sono in grado di produrre, consumare e

Gli altri partner

italiani sono l’Università

Politecnica delle Marche

e la Fondazione Icons

scambiare energia con una governance locale

capace di favorire l’utenza in un’ottica di autoconsumo

e autosufficienza, in linea con il quadro

normativo che si sta definendo in Europa

e in Italia.

Il progetto eNeuron può contare su un finanziamento

di 6 milioni di euro nell’ambito di

Horizon 2020 e coinvolge 17 partner pubblici

e privati di 8 Paesi. Per l’Italia, oltre ad Enea, partecipano l’Università

Politecnica delle Marche e la Fondazione Icons.

In una prima fase è prevista la realizzazione di una piattaforma

attraverso la quale gli utenti del progetto e potranno partecipare attivamente

alla gestione “comunitaria” dell’energia per soddisfare in

modo sostenibile ed efficiente il proprio fabbisogno energetico. In

una seconda fase, l’iniziativa si focalizzerà sull’uso ottimale e sostenibile

dei vettori energetici multipli, considerando priorità sia a breve

che a lungo termine.

«Il progetto intende la comunità dell’energia come un’infrastruttura

integrata per tutti i vettori energetici e vede il sistema elettrico

come spina dorsale, caratterizzata dall’accoppiamento delle reti

elettriche con quelle del gas, del riscaldamento e del raffrescamento,

supportate dall’accumulo di energia nelle varie forme e tipologie,

inclusi i veicoli elettrici e i processi di conversione», spiega Marialaura

Di Somma, ricercatrice presso il Laboratorio Smart Grid e Reti

Energetiche del Centro Enea di Portici e coordinatrice del progetto.

A livello operativo, eNeuron si propone di sviluppare approcci

e metodologie innovativi per progettare e gestire le energy community

in quattro siti pilota in Europa caratterizzati da un’elevata complementarità

tra loro: in Italia nel quartiere Montedago ad Ancona,

in Polonia a Bydgoszcz (mediante il distributore di energia elettrica

polacco “ENEA Operator”); in Norvegia nel laboratorio messo a

disposizione dal distributore di energia elettrica Skagerak; in Portogallo

nella base navale di Lisbona messa a

disposizione da EDP Labelec e dalla Marina

Portoghese.

«Questo progetto si inserisce nel quadro

delle policy europee e nazionali per lo sviluppo

delle comunità energetiche, un tema sempre

più attuale e strategico. In particolare, eNeuron

contribuirà alla realizzazione di strumenti

per la pianificazione di sistemi energetici integrati

in presenza di poli-generazione distribuita e con elevati livelli

di penetrazione di energia rinnovabile», sottolinea Giorgio Graditi,

vice direttore del Dipartimento Tecnologie Energetiche dell’Enea.

«D’altra parte questo progetto consentirà a ENEA di rafforzare

il proprio ruolo a livello europeo nella ricerca in campo energetico,

potendo contare sulle specifiche competenze del Laboratorio Smart

Grid e Reti Energetiche, specializzato in attività di studio, analisi, ricerca

e sviluppo di tecnologie, metodologie e dispositivi per applicazioni

nel settore delle smart grid, delle reti energetiche e impegnato

– conclude Graditi – in attività di ricerca per lo sviluppo di hub-energetici

multi-vettore e comunità energetiche locali». (F. F.)

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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INNOVAZIONE

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Un micro-orto a seimila km dalla Terra

È italiano il progetto per coltivare verdure nello spazio

Si chiama Greencube, è stato progettato da un team scientifico

di studiosi italiani e sarà presente per la prima volta

a bordo di un mini satellite che verrà lanciato in orbita in

occasione del volo inaugurale del vettore ufficiale Vega- C

dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Si tratta di un micro- orto a

6mila Km dalla Terra destinato alla coltivazione di verdure fresche

ad uso e consumo delle future esplorazioni spaziali.

Il prototipo, alla cui realizzazione partecipano l’Enea, l’Università

Federico II di Napoli e l’Università Sapienza di Roma, nel

ruolo di coordinatore e titolare di un accordo con l’Agenzia Spaziale

Italiana (ASI), misura 30x10x10 e si basa su colture idroponiche

a ciclo chiuso in grado di garantire, per i 20 giorni di sperimentazione,

un ciclo completo di crescita di microverdure, selezionate

tra quelle più adatte a tollerare le condizioni

estreme extraterrestri. E’ un Cubesat 3U (tre

unità da 10x10x10 cm). Dal 2003, anno in cui

è stato messo in orbita il primo esemplare,

sono stati lanciati oltre 1200 Cubesat insieme

ad altri nano- satelliti programmati.

Luca Nardi, ricercatore del Laboratorio

Biotecnologie Enea, ha dichiarato: “Il progetto

si inquadra nell’ambito della mission Enea

di trasferire, sia all’industria che alle pubbliche amministrazioni, i

risultati della ricerca scientifica in un’ottica di sviluppo economico

sostenibile, in questo caso attraverso competenze, infrastrutture

e professionalità maturate nella coltivazione in ambienti chiusi e

confinati di ortaggi freschi per uso industriale e in ambienti estremi

come lo spazio. Inoltre, il sistema di coltivazione in orbita consentirà

di massimizzare l’efficienza sia in termini di volume che di consumo

di energia, aria, acqua e nutrienti e durante la missione verrà

affiancato da esperimenti di coltivazione a terra in apposite camere

per poter verificare gli effetti sulle piante oltre che delle radiazioni

anche della bassa pressione e della microgravità”.

Si chiama Greencube

e si basa su colture

idroponiche a ciclo chiuso.Sarà

sperimentato per 20 giorni

Il micro- orto Greencube, alloggiato in un ambiente pressurizzato

e confinato, sarà dotato di un sistema integrato di sensori

hi- tech per il monitoraggio e controllo dei parametri ambientali,

della crescita e dello stato di salute delle piante e, sarà progettato

in modo da trasmettere a terra, in piena e totale autonomia, tutte

le informazioni acquisite, offrendo così la possibilità ai ricercatori

di valutare la risposta delle piante alle condizioni di stress

estremo.

Nardi ha concluso sottolineando che “Il confronto tra i risultati

degli esperimenti ottenuti nello spazio e a terra sarà determinante

per la valutazione della crescita delle microverdure

in orbita e poterle utilizzare come alimento fresco ed altamente

nutriente nelle future missioni”.

Fabio Santoni, coordinatore del progetto,

ha evidenziato che: “Per quanto riguarda

il contributo allo studio dell’Università la Sapienza,

Greencube si inserisce nello sviluppo

di una serie di nanosatelliti universitari,

messi a punto per soddisfare le crescenti necessità

di accesso rapido ed economico allo

spazio da parte della comunità scientifica.

Attualmente, il nostro laboratorio ha in orbita

altri due satelliti e ne sta realizzando altri due nell’ambito di altre

iniziative. La missione Greencube ci consentirà di sviluppare

ulteriormente le nostre capacità tecnologiche, permettendoci di

provare in orbita dei nuovi sistemi di acquisizione e comunicazione

dati e un sistema di propulsione elettrica”.

Il satellite verrà realizzato in due sezioni: due unità saranno

dedicate al sistema di coltivazione e di controllo ambientale che,

oltre alle microverdure e ai sensori, conterrà anche la soluzione

nutritiva e l’atmosfera necessaria; la seconda unità, invece, ospiterà

all’interno del “telaio” del satellite la piattaforma di gestione

e controllo del veicolo spaziale. (P. S.).

62 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


È arrivata Radio Bio

l’emittente online dell’ONB

Sul sito internet www.onb.it

e sull’app per smartphone

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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BENI CULTURALI

In Vaticano, scoperta una nuova opera di Raffaello

Si tratta delle Allegorie “Giustizia” e “Cortesia”, realizzate cinque secoli fa

di Pietro Sapia *

*

Consigliere tesoriere dell’Onb, delegato nazionale per le regioni

Emilia Romagna e Marche.

La scelta dei colori tipici

del manierismo e la tecnica

utilizzata hanno permesso di

attribuire il lavoro all’artista

Nel Salone di Costantino della Città del Vaticano sono

state scoperte “Giustizia e Cortesia”, due figure

femminili dipinte a olio riconducibili all’ultima opera

incompiuta e realizzata oltre cinque secoli fa da

Raffaello all’interno della Santa Sede.

L’incarico gli era stato assegnato tra il 1518 e il 1519 da Leone

X Medici, che voleva decorare la sala del Palazzo Apostolico

destinata ai banchetti e ai ricevimenti con le autorità politiche.

Un’operazione enorme, da realizzare in un salone lungo diciotto

metri, largo dodici e alto tredici, dove il pittore

decise di sperimentare la tecnica dell’olio

su muro, tipica della pittura su tavola.

Sulle pareti dovevano essere riprodotti dei

finti arazzi raffiguranti episodi importanti

della vita di Costantino, come la Visione

della Croce o Adlocutio e la Battaglia di

Ponte Milvio. Con la prematura scomparsa

dell’artista, i lavori furono affidati a Giulio

Romano, Giovan Francesco Penni e ad altri

collaboratori della scuola di Raffaello, che terminarono l’opera

con la più sicura tecnica dell’affresco.

L’attribuzione dell’opera all’artista non è stata semplice,

poiché le colle e gli interventi di restauro avvenuti nel corso dei

secoli ne avevano alterato i colori. La lunga e complessa ristrutturazione

delle pareti, condotta dai Musei Vaticani con la collaborazione

dei Patrons of the Arts in the Vatican Museum, ha

evidenziato elementi riconducibili allo stile di Raffaello, come la

scelta dei colori tipici della stagione del manierismo, o come la

tecnica pittorica adottata, quella a tempera grassa e ad olio, che

mette in risalto le trasparenze e le sfumature che caratterizzano

il suo stile. Sotto le due Allegorie, inoltre, sono stati rinvenuti

dei chiodi, che avevano la funzione di ancorare alla parete la

colofonia, ossia la pece greca stesa a caldo e poi ricoperta con

un sottile strano di intonachino bianco, che aveva l’intento di

riprodurre le caratteristiche di una tavola e di garantire di poter

eseguire la pittura ad olio con maggiore sicurezza.

«Il riconoscimento dello stile, della tecnica, dell’attitudine

alla sperimentazione proprie del genio di

Raffaello Sanzio, corroborato dal riscontro

delle fonti storiche e dei risultati delle analisi

scientifiche, hanno portato ad attribuire

al Divin Pittore le allegorie della Iustitia e

della Comitas, le uniche due figure femminili

dipinte ad olio tra gli affreschi del Salone

di Costantino in Vaticano» fa sapere

Vatican News.

«I lavori di conservazione e pulitura

condotti dal 2015 su tre pareti del grande ambiente - prosegue

la nota della mezzi d’informazioni della Santa Sede - consentono

infatti di cogliere nuovi dettagli dell’intero ciclo pittorico, ma

soprattutto di godere appieno della sensazionale scoperta che

sarebbe stata al centro di un convegno internazionale programmato

in Vaticano per lo scorso 20 aprile nell’ambito del cinquecentenario

della scomparsa del grande pittore. L’emergenza

legata al coronavirus ha impedito lo svolgimento del simposio,

ma l’ormai prossima riapertura dei Musei Vaticani consentirà di

ammirare quelle che probabilmente sono le ultime testimonianze

artistiche lasciate dall’Urbinate».

64 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


BENI CULTURALI

L’Urlo di Munch “deumidificato”

La spettroscopia infrarossa suggerisce come proteggere il dipinto

Edward Munch, con “L’Urlo”, ha creato un’icona dell’arte

contemporanea. Sono diversi di dipinti con questo soggetto

realizzati dal pittore norvegese che visse tra la seconda

metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.

Il capolavoro dipinto nel 1910 è la principale attrazione del

museo di Oslo e finora è stato esposto raramente a causa delle sue

delicate condizioni di conservazione, dovute non solo a cause ambientali,

ma anche alla natura stessa dei pigmenti utilizzati e in conseguenza

dei danni subiti dopo il furto avvenuto nel 2004 che lo ha

sottratto al Museo per due anni.

Una ricerca pubblicata sulla rivista Sciences Advances suggerisce

che la principale causa del degrado dei pigmenti gialli di cadmio,

utilizzati dall’artista, non è la luce, come si potrebbe supporre, ma

l’umidità. La scoperta è frutto di un’indagine

condotta da un team internazionale coordinato

dal Consiglio nazionale delle ricerche. Grazie

all’utilizzo di metodologie spettroscopiche

non-invasive del Cnr Molab, e micro-analisi

presso l’ESFR di Grenoble, si è giunti ad un risultato

che suggerisce le condizioni ambientali

ottimali per esporre l’opera. Bisogna mantenere

livelli di umidità relativa percentuale non

superiori a circa il 45%, con il mantenimento dell’illuminazione ai

valori standard previsti per i materiali pittorici stabili alla luce.

«L’artista», spiega Letizia Monico ricercatrice presso Istituto

di Scienze e tecnologie chimiche “Giulio Natta” del Cnr di Perugia,

«ha miscelato diversi leganti, quali tempera, olio e pastello con

pigmenti sintetici dalle tonalità vibranti e brillanti per creare colori

di forte impatto. Sfortunatamente, l’ampio utilizzo di questi nuovi

materiali rappresenta una sfida per la conservazione a lungo termine

delle opere d’arte del pittore norvegese».

Ma come si presenta la superficie del dipinto sotto la lente scientifica?

«La versione del 1910 mostra evidenti segni di degrado in

Finora è stato esposto

raramente al museo

di Oslo, dove è la principale

(e delicata) attrazione

diverse aree dipinte con gialli di cadmio, una famiglia di pigmenti

costituiti da solfuro di cadmio» spiega la ricercatrice. «L’originale

colore giallo brillante di alcune nuvole del cielo e del collo del soggetto

centrale, appare oggi sbiadito. Nella zona del lago, le dense ed

opache pennellate di giallo di cadmio mostrano invece tendenza a

sfaldarsi».

Le micro-analisi effettuate al sincrotrone (un particolare acceleratore

di particelle) hanno permesso di individuare che l’umidità è

una delle cause principali di degrado dei pigmenti gialli di cadmio

del dipinto. Infatti diversamente da quanto si pensava, la luce ha

un impatto irrilevante sul deperimento di tali pigmenti rivelatisi più

stabili alla fonte luminosa di quanto non siano i gialli di van Gogh

nella serie dei Girasoli, ampiamente analizzati dallo stesso team Molab-Cnr.

«Lo studio del dipinto è stato integrato

con indagini sui provini pittorici di laboratorio

invecchiati artificialmente, preparati utilizzando

una polvere storica ed un tubetto ad olio di

giallo di cadmio appartenuto a Munch, aventi

composizione chimica simile al pigmento giallo

del lago del dipinto. Lo studio mostra che

il solfuro di cadmio originale si trasforma in

solfato di cadmio in presenza di composti contenenti cloro ed in

condizioni di elevata umidità relativa percentuale; ciò accade anche

in assenza di luce», aggiunge Letizia Monico.

La novità dello studio consiste anche nella integrazione di differenti

tecniche d’indagine con un approccio che potrà essere utilizzato

con successo per esaminare altre opere d’arte che soffrono di

simili problemi.

Numerose le istituzioni coinvolte nella ricerca: l’Università degli

Studi di Perugia (Italia), l’Università di Anversa (Belgio), il Bard

Graduate Center di New York (USA), il sincrotrone tedesco DESY

(Amburgo) ed il Munch Museum (Oslo). (F. F.)

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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STORIA E RICERCA

di Barbara Ciardullo

Il contributo maggiore del Corpus è

stato quello di avere creato, oltre che

una scienza, anche una terminologia

medica che rimane fondamentale

nei secoli e perdura pure al nostro tempo

(nomi di malattie e termini diagnostici ed

anatomici). Infatti, nel Corpus Hippocraticum

sono già sviluppati i rami basilari

del sapere medico: dalla clinica alla dietetica,

alla chirurgia, alla ginecologia, alla

traumatologia, sino alla malattie mentali.

Il “Corpus” presenta scritti specialistici

e scritti divulgativi, tutti databili tra

il V sec. ed inizi del IV sec. a. C.: leggendo

queste opere, ci rendiamo conto

come la scienza medica si sia servita

della comunicazione scritta, oltre che

dell’insegnamento orale, per informare

e istruire coloro che si affacciavano e intraprendevano

questa professione e per

organizzare un archivio di casi esemplari.

Gli scritti specialistici sono una sorta

di prontuario delle malattie, a proposito

delle quali vengono fornite sintomatologia,

terapia e prognosi.

Ad esempio nei trattati intitolati “Malattie,

affezioni interne, malattie delle

donne” introduce il quadro sintomatologico

con una frase condizionale, cui seguono

descrizione dei sintomi e poi la prescrizione

terapeutica “se il malato si trova

in queste condizioni bisogna fare…” ed,

infine, la previsione sull’esito fausto o infausto.

Insomma, la malattia è vista come

un processo che si evolve nel tempo e a cui

il medico deve rivolgere il proprio intervento.

Tra gli scritti specialistici troviamo

quello intitolato Epidemie, che significa

“soggiorni in città straniere”, dove viene

raccolto materiale clinico dell’attività di

diversi medici: i libri I e III esprimono le

storie cliniche individuali con cui Ippocrate

procede alla descrizione della situazione

climatica e patologica di un luogo

nel corso dell’anno.

IL CORPUS HIPPOCRATICUM

E IL SUO CONTRIBUTO

AL PROGRESSO SCIENTIFIC

Panoramica sull’importante raccolta di scritti

specialistici alla base del sapere medico

Alla base c’è la convinzione che vi

sia un nesso tra i cambiamenti climatici,

la natura dei singoli pazienti e lo sviluppo

delle diverse malattie. Inoltre, vi sono

riflessioni di carattere metodologico, che

sono indicative proprio

della concezione

ippocratica della

medicina, come:

“Nelle malattie mirare

a due scopi: giovare

o almeno non

danneggiare. L’arte

consiste di tre cose:

la malattia, il malato e il medico; il medico

è il servitore della medicina.

E poi bisogna che il malato si opponga

con volontà e caparbietà alla malattia

insieme al medico”. Un altro scritto spe-

Il contributo maggiore

del Corpus è stato quello

di creare un terminologia

medica che perdura

cialistico è quello dal titolo Prognostico:

è interamente dedicato alla possibilità di

prevedere gli sviluppi e gli esiti della malattia.

La prognosi deve essere comunicata

al malato in modo che costui si renda conto

della scienza ed

esperienza del medico

e, quindi, si affidi

alle sue cure. Rispetto

al tradizionale ricorso

alla divinità, in

questo trattato manca

qualsiasi richiamo

ad un rapporto con il

divino: la capacità di argomentare in base

alla valutazione di una natura comune agli

esseri umani, accompagnata dalla valutazione

delle costituzioni individuali che

sono variabili.

66 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


STORIA E RICERCA

O

Gli scritti divulgativi sono rivolti non

solo ad un pubblico specializzato di medici

ma anche ad un pubblico più vasto

e sono frutto di conferenze e convegni.

Molti di questi scritti sono da ricollegare

al dibattito tra le arti

e sulle arti, cioè sulla

validità scientifica

delle singole tecniche

che si sviluppò alla

fine del V secolo a.C.

Tra gli scrittori divulgativi

ne approfondiamo

il contenuto

di qualcuno. Nei trattati intitolati Sull’arte

e L’antica medicina Ippocrate difende la

medicina contro coloro che la accusavano

di essere troppo soggetto al caso: egli si

scaglia contro l’invadenza della filosofia

I testi, specialistici e

divulgativi, sono tutti databili

tra il V secolo e gli inizi

del IV secolo a.C.

nella medicina e denuncia l’errore di quei

medici che si servono di elementi semplificatori

come il caldo, il freddo, il secco

o l’umido per spiegare la malattia. Ippocrate,

risalendo alle origini della medicina,

dimostra che essa

ha una storia ed una

metodologia acquisite

con l’esperienza

e polemizza con i

filosofi come Empedocle

che affermano

come la conoscenza

dell’uomo sia preliminare

alla conoscenza medica: Ippocrate,

invece, sostiene che la medicina studia

le relazioni causali tra dieta, che riguarda

la condizione di vita, e l’uomo. In un altro

scritto divulgativo dal titolo Sulle arie, le

acque e di luoghi, suddiviso in due parti:

medica ed etnografica, Ippocrate evidenzia

i diversi fattori ambientali, che sono

importanti per la salvaguardia della salute

come: orientamento delle città rispetto

ai venti, al sole, alla qualità delle acque,

costituzione climatica nel corso dell’anno.

Il medico deve tenere presenti questi

fattori per pronosticare e curare le malattie

che possono sorgere durante l’anno.

Inoltre, esamina le influenze ambientali

sulla costituzione fisica e morale degli uomini

e fa un paragone tra i popoli dell’Europa

e dell’Asia, concludendo che le differenze

sono dovute al clima ma anche all’

influenza degli usi e delle leggi.

Altro scritto divulgativo è quello dal

titolo Sulla malattia sacra, cioè l’epilessia,

che tradizionalmente veniva attribuita

all’intervento di una divinità e perciò

veniva curata con purificazioni ed incantesimi.

Ippocrate non solo denuncia l’incompetenza

di coloro che credono ad una

tale teoria ma anche la loro crudeltà e irreligiosità

e si impegna ad inserire l’epilessia

nell’insieme delle malattie naturali,

perché anch’essa ha una sua causa, cioè

un’infiammazione che interessa il cervello,

e quindi è curabile.

Infine, come scritto divulgativo è

celebre il giuramento di Ippocrate: fino

all’età moderna i medici hanno iniziato

la loro professione pronunciando tale

giuramento, che sanciva il suo ingresso

all’interno della scuola di medicina. Con

esso il medico si impegnava a rispettare

i principi fondamentali della deontologia

medica, come i doveri verso la professione

stessa e nei confronti del malato.

Inoltre, con questo giuramento il medico

è tenuto al segreto professionale e al rispetto

della privacy del paziente. Questo

giuramento si rendeva e si rende necessario

ancora oggi per combattere ciarlatani

o colleghi privi di scrupoli.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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STORIA E RICERCA

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La medicina nell’antichità

I metodi empirici, magici e scientifici della scienza passata

Nella prima fase della medicina greca antica distinguiamo

due filoni: la medicina tradizionale e quella scientifica. La

prima, che era attraversata da metodi empirici e magici,

era praticata da guaritori dediti a stregonerie o esorcismi

e a purificazioni. La credenza popolare era che la malattia fosse originata

da qualche aggressione demoniaca, per cui questi guaritori si

preoccupavano di guarire con erbe, pozioni e pratiche magiche. Già

nell’Iliade omerica incontriamo due eroi-guaritori, Macaone e Podalirio,

che dimostrarono una grande conoscenza dell’anatomia umana.

Questi eroi-guaritori venivano onorati in varie zone della Grecia, dove

i fedeli giungevano per cercare guarigione; in queste stesse zone si sviluppò

una categoria di medici-sacerdoti, il cui maggiore rappresentante,

secondo la tradizione, è stato Asclepio, figlio di Apollo che, successivamente,

fu considerato il dio della medicina

La credenza popolare era

che la malattia avesse origine

da aggressioni demoniache,

curate dai guaritori

ed il nume tutelare dei medici scientifici.

Il culto di Asclepio, introdotto ad Atene nel

420 a.C., trovò una grande diffusione nel mondo

mediterraneo. In suo onore vennero costruiti

santuari che, in definitiva, erano templi ed ospedali.

La città di Crotone, sede di una delle più

autorevoli scuole mediche, ebbe due validi rappresentanti

della categoria dei medici: Democede

ed Alcmeone; del primo ce ne parla lo storico Erodoto quando in

un passo delle sue “Storie” afferma che, partito da Crotone per contrasti

col proprio genitore giunse ad Egina, i cui abitanti, dopo averlo

visto esercitare la propria professione, lo assunsero ufficialmente

come medico pubblico e, poi, anche gli stessi Ateniesi ed il tiranno di

Samo, Policrate. Diventato schiavo del re dei Persiani Dario, che aveva

sconfitto in battaglia Policrate, fu interpellato per curare lo stesso re

da una slogatura con metodi moderati e non traumatici. La guarigione

di Dario gli arrecò grande prestigio presso la corte persiana. L’altro,

medico e filosofo di ispirazione pitagorica, è Alcmeone, vissuto nel

VI sec. a. C., il quale, secondo fonti storiche, è stato il primo a scrivere

un’opera medica. Qui si nota il rapporto dialettico tra medicina

e filosofia, che accompagnerà lo sviluppo dell’arte medica per tutta

l’antichità. Lo storico e pensatore Diogene Laerzio presenta Alcmeone

come un autore vicino alla tradizione della fisiologia. La natura

degli uomini come del cosmo può essere interpretata solo attraverso

segni e congetture: dunque, una conoscenza relativa ed approssimativa,

ma fondata sull’attività razionale unita alla percezione sensibile.

Alcmeone applicò alla fisiologia le stesse spiegazioni portate avanti

dalla tradizione cosmologica di ambito filosofico. L’uomo è composto

da coppie di elementi contrari e la sua salute consiste nell’equilibrio

tra questi elementi, mentre la malattia è determinata da uno squilibrio.

Per esprimere questo pensiero Alcmeone fa ricorso a metafore politiche:

alla salute corrisponde l’isonomia, alla malattia invece la monarchia.

Secondo la tradizione, Alcmeone fu tra i primi ad

effettuare ricerche sull’occhio e a scoprire la funzione

dei nervi ottici. Ma il vero fondatore della

medicina antica è considerato Ippocrate, il cui

nome è diventato celebre in tutta la storia della

medicina fino ai tempi nostri. A lui la tradizione

attribuisce una sessantina circa di scritti che costituiscono

il cosiddetto “Corpus Hippocraticum”.

Non abbiamo molte notizie sulla sua vita, benché

come medico fosse famoso nell’Atene del V secolo e del VI secolo a. C.:

infatti, Aristotele nella sua opera Politica lo definisce “ il grande” di Cos,

un’isola delle Sporadi. Probabilmente era nato proprio a Cos intorno al

460 a. C. e la sua vita di estende forse fino al 370 a. C.: apparteneva alla

stirpe degli Asclepiadi, una famiglia aristocratica, che faceva risalire la

propria genealogia al dio Asclepio e si vantava di discendere da Podalirio,

il medico che abbiamo incontrato nell’Iliade. I privilegi ed il prestigio di

cui godevano gli Asclepia di di Cos sono confermati in seguito da un’iscrizione

nel santuario di Delfi datata al 360 a. C., in cui viene sottolineato che

viene assegnato ai rappresentanti di tale stirpe il diritto di avere precedenza

nella consultazione dell’oracolo, cioè la promantèia. (B. C.).

68 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


INAUGURAZIONE

DELLA SEDE REGIONALE

DI PIEMONTE, LIGURIA

E VALLE D’AOSTA DELL’ONB

TORINO*

20 giugno 2020 - Ore 10:30

Interventi:

Sen. dott. Vincenzo D’Anna

Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

Dott. Valter Canavero

Delegato regionale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta

Dott. Alessandro Miceli

Commissario della delegazione di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta

Autorità convenute

*Via Alberto Nota, 3

Terzo Piano

www.onb.it

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

69


SPORT

di Antonino Palumbo

La Germania è già andata in gol,

tra tifosi di cartone e cori registrati.

L’Italia attende un “sì” dal governo,

al pari di un’altra dozzina

di Paesi. Semaforo verde per la ripresa del

calcio in Spagna, mentre Belgio, Francia,

Olanda e Scozia hanno preferito chiudere

definitivamente i campionati. Nazione che

vai, pallone che trovi: gran parte dell’Europa

prova a tornare in campo, dopo lo stop

causato dal Covid-19. I più efficienti, manco

a dirlo, sono stati i tedeschi. La Bundesliga

è ripartita il 16 maggio con le solite certezze:

il Bayern di Lewandowski davanti a

tutti, il Borussia Dortmund in scia con i gol

di Haaland, Lipsia irriducibile con quelli di

Werner.

Ricominciata anche la 1. Liga, in Repubblica

Ceca, dove Teplice-Liberec 2-0 è stato

il primo match dopo il lungo digiuno. La

prima partita della Super Liga danese ha invece

fatto ritrovare AGF Aarhus e Randers.

Il tutto, ovviamente a porte chiuse, come in

Germania e finché Covid-19 ci separerà. A

proposito di Danimarca, curiosa l’idea della

capolista Midtjylland, che ha allestito maxi-schermi

nei parcheggi della MCH Arena:

un vero e proprio drive-in dove seguire la

partita ascoltando la cronaca via radio. Per

ora i posti disponibili sono duemila, ma in

caso di successo potrebbero aumentare.

Si gioca in Ungheria, mentre non si è

mai smesso in Bielorussia. Calcio d’inizio

già riprogrammato anche in Polonia (29

maggio), Israele, Lituania e Serbia (30 maggio),

Austria (2 giugno), Portogallo (4 giugno,

ma non in B), Turchia (il 12), Norvegia

(il 16), Russia (il 21).

L’Italia è tra quei Paesi che ha preferito

aspettare l’evolversi di una situazione complicata

da errori e indisciplina, ma ha avuto

l’ok dal Governo per tornare in campo

dal 13 giugno per Coppa Italia e recuperi e

dal 20 giugno per la Serie A. Tra le ipotesi

avanzate dal ministro dello Sport, Vincenzo

TIFOSI DI CARTONE, DRIVE-

IN E PROTESTE A DISTANZA:

L’EUROPA TORNA A FAR GOL

Lo sport professionistico cerca

la normalità, con protocolli di sicurezza

per la salute pubblica

Spadafora, anche l’inserimento nel decreto

campionato di una diretta gol in chiaro. In

precedenza, l’ultimo Dpcm aveva vietato

qualsiasi tipo di evento, anche a porte chiuse,

fino a domenica 14 giugno. La Serie A

dovrà concludersi entro il 2 agosto. Grande

attesa anche tra i

La Germania è ripartita

con i gol del bomber

Haaland. L’Italia

ricomincia a giugno

club di Serie B, dove

il Benevento di Pippo

Inzaghi è in testa con

20 punti di vantaggio

sul Crotone, e di Serie

C. Il consiglio federale

vorrebbe infatti

rimandare in campo

anche le squadre del terzo torneo professionistico

nazionale, malgrado il “No, grazie”

dei club e le proteste dei medici, per i quali

il protocollo sanitario presenta asperità sia

economiche, sia logistiche.

Il protocollo per la ripresa dell’attività,

inviato dalla Figc al governo, comprende la

divisione dello stadio in tre zone, fasce temporali

di gestione del giorno gara, limite al

numero di persone nello stadio (300, 60 dei

quali per gruppo squadra ospiti), specifica

delle categorie e dei gruppi ammessi, organizzazione

viaggi e trasferte, gestione hotel

e spogliatoi, arrivo squadre e arbitri, interviste,

countdown

e inizio partita. Non

ci saranno bambini,

mascotte, foto di

squadra e strette di

mano. In panchina ci

si siederà distanziati e

magari in tribuna, se

c’è accesso diretto al

campo. Si tornerà negli spogliatoi separatamente,

così come divisi saranno i calciatori

sorteggiati per l’antidoping. Tempi duri

per i giocatori avvezze a proteste ravvicinate:

arbitro e guardalinee dovranno godere

della distanza sociale di un metro e mezzo,

nel momento del dialogo. Chi gioca in casa

andrà allo stadio con mezzi ospiti, mentre

70 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SPORT

Il 19enne Erling Haaland, nuova

stella del Borussia Dortmund.

© Nicola Devecchi/www.shutterstock.com

la squadra ospite utilizzerà più pullman.

Resta valido quanto deciso per gli allenamenti

collettivi, con l’individuo colpito

da Covid-19 in isolamento e il resto della

squadra in ritiro per 14 giorni, con possibilità

di allenarsi. E le donne? Non sono

state dimenticate: gli

ultimi sei turni del

massimo campionato

si dovrebbero giocare

da metà luglio.

Il governo spagnolo

ha invece fissato

alla settimana dell’8

giugno la ripresa della

Liga. Attendono il “via libera” dal governo

la Premier League inglese (12 o 20 giugno?)

e i campionati di Azerbaigian, Finlandia,

Grecia, Kazakhistan, Irlanda del Nord, Lettonia,

Romania, Slovacchia, Svezia, Svizzera

e Ucraina.

Fra le altre discipline sportive, annullate

sia l’Eurolega sia l’Eurocup di basket.

La Liga spagnola riprenderà

a giugno. Il basket NBA

forse a luglio. Incertezza per

la ripartenza della F1

La Fisi ha chiesto il rinvio del Mondiale di

sci di Cortina dal febbraio 2021 al febbraio

2022. L’atletica studia nuove modalità per le

competizioni: gare in pista a corsie alternate

fino ai 400 metri, teli di nylon personali

sul cuscino del salto con l’asta e partenze

scaglionate negli 800

metri con microchip

personalizzati, in corse

che di fatto diventano

a cronometro. Il

tennis sembra ancora

lontano dalla ripresa:

la pensano così anche

Roger Federer, che ha

spiegato di non avere motivi per allenarsi, e

l’azzurro Fabio Fognini. Il basket NBA pensa

di ripartire a fine luglio al Disney World

di Orlando. Sul fronte motori, resta a forte

rischio il GP di Silverstone, in programma il

26 luglio: la F1 non rientra infatti tra le eccezioni

per la quarantena di 14 giorni, imposta

a chi arriva nel Regno Unito.

Un Giro in tono minore

Sovrapposizioni “inevitabili”. E un

Giro d’Italia penalizzato dalla coincidenza

con la Liegi-Bastone-Liegi (4

ottobre), la Gand-Wevelgem (l’11),

la Parigi-Roubaix (il 25) e la Vuelta a

Espana (20 ottobre-8 novembre). Il

ciclismo si prepara a ripartire, con la

salute come priorità e una ripresa della

stagione – stravolta dalla pandemia

di coronavirus - legata all’evolversi

della situazione sanitaria mondiale. Il

Giro d’Italia è stato fissato dall’Unione

ciclistica internazionale nell’arco

temporale compreso tra il 3 e il 25

ottobre, escludendo però la partenza

dall’Ungheria. La Milano-Sanremo si

dovrebbe correre l’8 agosto, la Strade

Bianche sette giorni prima, la Tirreno-Adriatico

dall’8 al 14 settembre. Il

31 ottobre sarà il gran giorno del Lombardia.

In tre mesi si cercherà dunque

di recuperare il possibile, anche se gli

atleti saranno costretti a scelte impegnative,

fra cui quella tra la “Tirreno”

e il Tour de France, previsto dal 29

agosto al 20 settembre. I Mondiali su

strada restano in programma in Svizzera

dal 20 al 27 settembre.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

71


SPORT

L’ultimo ballo (in TV) di Air Jordan

“The Last Dance”. La docu-serie dei record per il “dio” del basket

The Last Dance, ovvero l’ultimo ballo. Nella più domestica

delle primavere, dove la TV e internet sono

state vere e proprie ancore di salvezza per chi non è

abituato a trascorrere giorni interni in casa, la serie

Netflix ed ESPN ha rappresentato un vero e proprio evento

anche per chi non segue il basket. Figuriamoci per chi la pallacanestro

la ama e non scorda le memorabili imprese di Michael

Jordan e dei suoi Chicago Bulls negli anni Novanta. The

Last Dance: così coach Phil Jackson battezzò il campionato

1997-1998. Sarebbe stato quello “l’ultimo ballo”, vista l’intenzione

del general manager Jerry Krause di rifondare la squadra

e licenziare l’allenatore. Un ballo indimenticabile, quello del

sesto scudetto della franchigia dell’Illinois e terzo consecutivo,

nell’ultima stagione di MJ23.

Michael Jordan è l’eroe determinato,

perfezionista ai limiti della cattiveria. Il

condottiero che vuole solo vincere, a costo

di mettere pressione a squadra, allenatore

e dirigenza. Arrivando a far male, sia

psicologicamente sia fisicamente. Un eroe

accanto al quale, di volta in volta, si muovono

una serie di coprotagonisti, con i loro

pregi e qualche umano difetto, che in campo lascia il posto a

straordinarie abilità atletiche e tecniche. Doti che hanno visto

MJ23 svettare tra tutti i campioni del basket moderno e non

solo: alto 198 cm per 98 kg di peso, fu ribattezzato “Air”,

per la sua capacità di stare in cielo durante un salto per molti

secondi, come se volasse (ma il manager David Falk lo legò anche

alla prima linea di abbigliamento personalizzata Jordan).

Larry Bird, uno dei più grandi giocatori di basket di sempre,

che condivise con Jordan l’oro olimpico a Barcellona 1992,

dichiarò che “Michael è semplicemente Dio che sta giocando

a pallacanestro”.

Episodio dopo episodio

lo sport diventa uno

strumento per riflettere

sul valore del duro lavoro

Nel racconto di The Last Dance lo sport diventa uno strumento

per riflettere sul valore del duro lavoro, dell’impegno e

della determinazione per raggiungere i propri obiettivi, qualsiasi

essi siano. E pensare che lo stesso Jordan è stato riluttante

a portare avanti il progetto, visto il lato insopportabile e arrogante

del suo carattere che His Airness temeva potesse emergere

dal materiale d’archivio. Nella narrazione, però, l’ultima

parola spetta sempre a Jordan che riesce a risolvere anche le

situazioni più delicate argomentando con le sue ragioni.

Elogi, ma anche musi lunghi. Secondo Jackie MacMullan

di ESPN, tra gli scontenti ci sarebbe Scottie Pippen. Definito,

sì, come compagno di squadra ideale e come il miglior numero

2 di sempre, ma anche egoista in alcuni frangenti delicati

per il team. A Horace Grant non è piaciuto

passare come la talpa dello spogliatoio per

il libro “The Jordan Rules” di Sam Smith,

mentre Craig Hodges non ha gradito la descrizione

di Traveling Cocaine Circus per i

Bulls degli anni Ottanta.

Anche i musi lunghi, però, hanno contribuito

al dibattito e alla curiosità attorno

a una serie inizialmente prevista per giugno,

in tutto il mondo, quasi un gadget di fine stagione aspettando

le Olimpiadi.Ma che è stata anticipata nel periodo della

pandemia, a parziale “consolazione” per gli appassionati di

sport, basket e serie TV di ogni dove. Otto ore di prodotto in

dieci episodi e record su record: battuta anche una certezza

assoluta come “La casa di carta”.

The Last Dance è infatti stato visto per almeno due minuti,

da 23 milioni e 800 mila utenti. Un dato che non comprende

gli Stati Uniti, dove sarà fruibile dal prossimo 19 luglio: facile

immaginare come The Last Dance sia destinata a ballare ancora.

(A. P.)

72 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SPORT

© Netfalls Remy Musser/www.shutterstock.com

Riaprono palestre e piscine: ecco le regole

Il protocollo anti-covid del Governo per fare sport in sicurezza

Dopo i runner, sono tornati ad allenarsi quasi in tutta

Italia anche gli amanti del workout e del nuoto.

Palestre piscine sono state riaperte dal 25 maggio

in tutta Italia con alcune eccezioni: la Lombardia,

che ha optato per la chiusura almeno fino al 31 maggio, e la

Basilicata dove non torneranno in attività prima del 3 giugno.

Il mese prossimo sarà quello “buono” anche per il via libera

all’attività negli impianti sportivi comunali a Bologna e

Palermo, i cui amministratori si son presi più tempo rispetto

al termine “ante quam non” (il 25 giugno, appunto) previsto

dal decreto del 17 maggio. L’attività è ripresa, ovviamente,

con regole molto scrupolose e più dettagliate rispetto a quelle

per le altre attività, dato che palestre, piscine e centri sportivi

sono luoghi il contatto fisico può essere

È prevista la misurazione

della temperatura con

termoscanner, per non far

entrare chi ha più di 37,5°

maggiore.

Sarà norma, d’ora in poi, prenotare

corsi e lezioni, in modo da evitare il più

possibile gli assembramenti e migliorare

la gestione degli spazi. Le novità cominceranno

dall’ingresso: sia in palestra che in

piscina si entrerà con la mascherina. Obbligatorio

anche disinfettarsi le mani all’ingresso

e uscendo, grazie ai dispenser, spesso preferiti ai guanti.

È prevista la misurazione della temperatura con termoscanner,

per non far entrare chi ha più di 37 gradi e mezzo. In

ogni caso, all’ingresso i clienti dovranno firmare un’autocertificazione

sulle proprie condizioni di salute (se hanno contratto

il Covid, se hanno fatto la quarantena) e i gestori delle attività

conserveranno i dati per 14 giorni. In palestra saranno richieste

scarpe ginniche “ad hoc”. Negli spogliatoi si entrerà pochi

per volta (ma alcuni potrebbero restare chiusi), si starà a un

metro di distanza e i vestiti andranno messi nelle proprie borse,

lasciate negli armadietti. Durante gli esercizi i clienti staranno

lontani almeno due metri fra loro, senza obbligo di mascherina,

avendo cura di stare a non meno di un metro quando

non stanno svolgendo attività fisica. Chiaramente, chi va in

palestra eviterà di condividere borracce, bicchieri e bottiglie e

non scambiare con altri utenti asciugamani o accappatoi. Gli

attrezzi e le macchine che non possono essere disinfettati non

devono essere usati.

Ciascun frequentatore delle piscine avrà a disposizione

una superficie di sette metri quadrati (sia in acqua, sia come

superficie di calpestio), mentre dovrà esserci almeno un metro

e mezzo fra sdraio e lettini delle persone, se non sono conviventi.

Gli istruttori di nuoto dovranno avere la mascherina

anche se non a stretto contatto con gli utenti. Un punto,

questo, che ha sollevato obiezioni e riserve

tra molti gestori di piscine, considerando

il caldo che c’è normalmente a bordo vasca

e il rischio che non si senta bene la voce

dell’allenatore. Alle piscine sono richieste

analisi chimiche, oltre alle batteriologiche

e, per tutti vale l’obbligo di disinfezione

degli attrezzi - da quelli in sala pesi ai

galleggianti in acqua - a ogni uso o a fine

giornata se presi solo da un cliente. Il tutto, ovviamente, senza

dimenticare le “classiche” norme di sicurezza igienica in acqua

di piscina: accurata doccia saponata su tutto il corpo prima di

entrare in acqua, uso obbligatorio, della cuffia, divieto di sputare,

soffiarsi il naso e urinare in acqua; obbligo di pannolini

contenitivi per i bambini molto piccoli.

Novità e restrizioni anche per l’accesso alle docce: consentito

a “numero chiuso” o nelle palestre ridotto al minimo,

ad esempio per chi fa sport in pausa pranzo e dovrà tornare in

ufficio. Rientrare sudato o in tuta non fa parte delle abitudini

ideali del buon professionista. (A. P.)

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

73


BREVI

LA BIOLOGIA

IN BREVE

Novità e anticipazioni dal mondo scientifico

a cura di Rino Dazzo

INNOVAZIONE

Cervello: scoperta la molecola che aiuta la memoria

Nel cervello umano è presente una molecola anti-età che aiuta

a conservare intatte la memoria e le funzioni cognitive.

L’hanno scoperta i neuroscienziati del Mit, autori di uno studio

che potrebbe rivelarsi cruciale nella lotta alla demenza senile e

all’Alzheimer. L’enzima Hdac1 (questo il nome della molecola)

è infatti decisivo nella riparazione degli errori che si accumulano

col passare degli anni nel Dna dei neuroni. La sua efficacia diminuisce

con l’avanzare dell’età e di malattie come l’Alzheimer,

ma è possibile potenziarlo. I ricercatori del Mit hanno provato

a disattivarlo nei topi e hanno notato come gli stessi hanno manifestato

problemi di memoria e di orientamento. Utilizzando

un vecchio farmaco, l’exifone, i sintomi sono scomparsi. Piccola

controindicazione: l’exifone era stato ritirato dal mercato per la

sua tossicità al fegato, ora bisognerà studiare un farmaco simile.

© Pathdoc/www.shutterstock.com

AMBIENTE

La matematica per prevedere lo sviluppo delle piante

© lehic/www.shutterstock.com

Prevedere con precisione la crescita di un vegetale e il suo

comportamento è più facile. I ricercatori del Dipartimento

di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, coordinati

da Sabrina Sabatini e in collaborazione con gli studiosi

dell’Università di Utrecht, hanno realizzato un modello computazionale

capace di riprodurre con esattezza le fasi di crescita di

una particolare radice, quella della Arabidopsis thaliana. Nel loro

studio hanno integrato evidenze sperimentali e biologia computazionale,

identificando alcuni dei circuiti molecolari essenziali

nella crescita della radice e sviluppando un programma in grado

di predire il comportamento della pianta in vivo e in varie

condizioni ambientali. Per la realizzazione del modello è stato

fondamentale individuare i network attivi nel differenziamento

cellulare e il ruolo degli ormoni.

74 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


BREVI

RICERCA

Distrofia, individuate le cellule “scudo” dei muscoli

Con la loro attività impediscono la formazione di grasso che,

infiltrandosi tra i tessuti muscolari, indebolisce i movimenti:

sono le cellule ‘scudo’ dei muscoli e a scoprirle è stato un team

internazionale composto anche da studiosi italiani del Laboratorio

di cellule staminali del Centro Dino Ferrari del Policlinico di

Milano, diretto da Yvan Torrente. Queste cellule sono presenti in

modo massiccio nei muscoli sani mentre sono quasi totalmente

assenti in quelli distrofici e questo dettaglio potrebbe rivelarsi

essenziale nell’individuazione di un trattamento efficace per la

distrofia muscolare. Il team, in particolare, studia da anni i meccanismi

alla base della distrofia di Duchenne, la più grave tra le

distrofie: aver identificato le cellule in grado di regolare la formazione

di grasso nel muscolo scheletrico apre la strada a nuove

metodologie di contrasto alla degenerazione dei tessuti.

© Freedom Studio/www.shutterstock.com

ONCOLOGIA

Tumore al seno, ecco l’algoritmo che indica rischi e terapie

© Alejandro_Munoz/www.shutterstock.com

Un algoritmo in grado di calcolare il rischio di metastasi per

le donne con tumore al seno e di orientare gli oncologi nella

scelta della terapia più appropriata: lo hanno messo a punto i

ricercatori dello Ieo (Istituto Europeo di Oncologia) di Milano,

sotto l’egida di Pier Paolo di Fiore e Salvatore Pece e con il contributo

della Fondazione Airc. Il sistema si basa su una combinazione

di dati genetici come StemPrinter, un set di geni costituenti

la firma molecolare del tumore, e clinici come lo stato dei

linfonodi e la dimensione del cancro. Il modello, testato su più

di 1800 pazienti dell’Istituto, si è rivelato in grado di stimare il

rischio di recidive fino a dieci anni, un lasso più ampio rispetto

ai parametri utilizzati comunemente nella pratica clinica, ed è anche

il primo vero strumento capace di indicare il numero esatto e

il grado di aggressività delle cellule staminali del tumore.

BIODIVERSITÀ

Api, una specie su dieci in Europa è a rischio estinzione

Sono essenziali nel 75% delle colture agrarie, quelle che necessitano

di impollinazione, eppure sono a rischio estinzione

e non si fa ancora abbastanza per provare a scongiurare questa

eventualità. Lo dimostrano i dati, impietosi e preoccupanti: una

specie su dieci di api e farfalle europee è a rischio scomparsa,

mentre una specie su tre vede la sua popolazione in costante declino.

Inoltre, secondo uno studio dell’Università di Berna, la

morte di api europee è aumentata fino al 40% negli ultimi anni,

soprattutto d’inverno. Lo scorso 20 maggio si è celebrata la Giornata

mondiale delle api, istituita nel 2017 dall’Onu per sensibilizzare

sull’importanza di questi insetti, e per l’occasione l’Ispra ha

pubblicato il Quaderno ‘Il declino delle api e degli altri impollinatori’

contenente le risposte alle domande più frequenti, dati,

informazioni e concetti sulle politiche da attuare per salvarle.

© Jack Hong/www.shutterstock.com

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

75


LAVORO

Concorsi pubblici

per Biologi

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Analisi

dei Sistemi ed Informatica “Antonio Ruberti” di Roma

Scadenza, 8 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli

e colloquio, per il conferimento di un assegno

professionalizzante per lo svolgimento di attività

di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Biomatematica”

da svolgersi presso l’Istituto di Analisi

dei Sistemi ed Informatica “Antonio Ruberti”

– UOS GEMELLI del CNR che effettua ricerca

nell’ambito del progetto “MOSES – Modelling

Shock in the Experimental Setting” per la seguente

tematica: “Analisi bioinformatica degli

effetti biologici dell’esposizione a campi elettromagnetici”.

Per informazioni, www.cnr.it

(concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Bioscienze

e Biorisorse di Napoli

Scadenza, 11 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli

e colloquio, per il conferimento di n. 01

Assegno di Ricerca “Post Dottorale” per lo

svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area

Scientifica “Scienze Biologiche” da svolgersi

presso l’Istituto di Bioscienze e Biorisorse UOS

di Napoli del CNR che effettua ricerca di base

di biologia nell’ambito del Progetto di Ricerca

dal titolo: “Studio degli effetti inibitori determinati

da self-DNA e dei meccanismi molecolari

ad essi connessi, utilizzando come organismo

modello Caenorhabditis elegan” come da

Contratto di Ricerca commissionato NO SELF

DBA.AD006.035 CUP B68H20000100005 per

la seguente tematica: “Investigate the inhibitory

effects of extracellular self-DNA and the underlying

molecular mechanisms using, as model

organisms, Fungi, Caenorhabditis elegans and

Drosophila melanogaster”. Per informazioni,

www.cnr.it (concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto per la

Protezione Sostenibile delle Piante di Portici (Napoli)

Scadenza, 11 giugno 2020

È indetta una pubblica selezione per titoli,

eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento

di una borsa di studio per laureati, per

ricerche inerenti l’Area scientifica “difesa produzione

primaria” da usufruirsi presso l’Istituto

per la Protezione Sostenibile delle Piante del

CNR, Sede Secondaria di Portici, nell’ambito

del progetto “Migliorcast” Miglioramento della

competitività delle aziende castanicole mediante

applicazione di tecniche innovative di gestione

del prodotto in pre e post-raccolta CUP

B78H19005230008. Tematica: “Messa a punto

di metodiche innovative per la riduzione dell’attività

dei miceti, principali cause di danno nei

castagneti campani con particolare attenzione a

Gnomoniopsis castaneae. Individuare i migliori

mezzi tecnici (fitofarmaci, microorganismi benefici,

estratti vegetali) efficaci nel controllo e contenimento

delle principali patologie del castagneto

con particolare attenzione al fungo causa

del marciume bruno Gnomoniopsis castaneae, in

modo da ottenere a raccolta un prodotto quanto

più sano possibile”. Per informazioni, www.cnr.

it (concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Bioscienze

e Biorisorse di Palermo

Scadenza, 15 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli

e colloquio, per il conferimento di un assegno

di ricerca professionalizzante per lo svolgimento

di attività di ricerca inerente l’Area Scientifica

“Area 07 - Scienze agrarie e veterinarie - AGR/12

- Patologia vegetale “ da svolgersi presso l’Istituto

di Bioscienze e BioRisorse di Palermo del

CNR, che effettua ricerche su “Miglioramento

delle specie e delle produzioni agroalimentari,

forestali e industriali mediante strumenti genetici

e biotecnologici” nell’ambito del progetto di

ricerca POR FESR SICILIA 2014-2020 “Sicily-

Seeds - Metodologie e tecnologie innovative per

il recupero, la moltiplicazione, la valorizzazione e

l’utilizzo di piante spontanee commestibili della

flora siciliana ” per la seguente tematica: “Analisi

genetiche e sanitarie mediante metodi molecolari

avanzati di specie vegetali spontanee commestibili

della flora siciliana e dei patogeni ad esse associati”.

Per informazioni, www.cnr.it (concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto per la Protezione

Sostenibile delle Piante di Avellino

Scadenza, 18 giugno 2020

È indetta una pubblica selezione per titoli,

eventualmente integrata da colloquio, per il

conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati,

per ricerche inerenti l’Area scientifica “chimica/

nutrizionale” da usufruirsi presso l’Istituto di

Scienze dell’Alimentazione del CNR (ISA-C-

NR), di Avellino, nell’ambito del progetto “Migliorcast”

Miglioramento della competitività

delle aziende castanicole mediante applicazione

di tecniche innovative di gestione del prodotto

in pre e post-raccolta CUP B78H19005230008.

Tematica: “Analisi chimiche, microbiologiche

e nutrizionali su campioni di castagne fresche e

processate mediante tecniche innovative”. Per

informazioni, www.cnr.it (concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di

Biologia e Biotecnologia Agraria di Milano

Scadenza, 19 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli

e colloquio, per il conferimento di un assegno di

tipologia professionalizzante per lo svolgimento

di attività di ricerca inerente all’Area Scientifica

07 Scienze agrarie e veterinarie - AGR/07 Genetica

agraria, da svolgersi presso la sede di Milano

dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria

del CNR che effettua ricerche nell’ambito del

Programma di ricerca sPATIALS3 “Miglioramento

delle produzioni agroalimentari e tecnologie

innovative per un’alimentazione più sana,

76 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


LAVORO

sicura e sostenibile”, Bando Call Hub Ricerca e

Innovazione, progetto cofinanziato a valere sulle

risorse POR FESR 2014‐2020 / Innovazione

e competitività, CUP E48I20000020007, per la

seguente tematica: “Identificazione di varietà di

legumi con migliori caratteristiche nutrizionali e

arricchite in composti a valenza nutraceutica”.

Per informazioni, www.cnr.it (concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Biologia

e Biotecnologia Agraria di Milano

Scadenza, 19 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli

e colloquio, per il conferimento di un assegno di

tipologia professionalizzante per lo svolgimento

di attività di ricerca inerente alle Aree Scientifiche

07 Scienze agrarie e veterinarie - AGR/15

Scienze e tecnologie alimentari e 05 Scienze

biologiche – BIO/11 Biologia molecolare, da

svolgersi presso la sede di Milano dell’Istituto

di Biologia e Biotecnologia Agraria del CNR che

effettua ricerche nell’ambito del Programma di

ricerca sPATIALS3 “Miglioramento delle produzioni

agroalimentari e tecnologie innovative

per un’alimentazione più sana, sicura e sostenibile”,

Bando Call Hub Ricerca e Innovazione,

progetto cofinanziato a valere sulle risorse POR

FESR 2014‐2020 / Innovazione e competitività,

CUP E48I20000020007, per la seguente tematica:

“Impiego di tecniche molecolari nell’analisi

genetica e nel fingerprintig genomico per la

rintracciabilità, autenticazione e tracciabilità di

matrici alimentari di origine vegetale e animale”.

Per informazioni, www.cnr.it (concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Scienze

dell’Alimentazione di Avellino

Scadenza, 22 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli

e colloquio, per il conferimento di un “Assegno

Professionalizzante” per lo svolgimento di attività

di ricerca inerente l’Area Scientifica “Biologia”

da svolgersi presso l’Istituto di Scienze

dell’Alimentazione del CNR nell’ambito del

“PROGETTO DI FUNZIONAMENTO ISA” -

DBA.AD005.041 (CUP B36C19000060005), per

la seguente tematica: “Identificazione e caratterizzazione

di biomolecole per la realizzazione di

biosensori ottici”. Per informazioni, www.cnr.it

(concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Chimica

Biomolecolare di Napoli

Scadenza, 23 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli

e colloquio, per il conferimento di un assegno

tipologia B) “Assegni Post Dottorali” per lo

svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area

Scientifica “Chimica e materiali per la salute e

scienze della vita” da svolgersi presso l’Istituto

di Chimica Biomolecolare Sede di Pozzuoli (NA)

del CNR che effettua ricerca scientifica nell’ambito

del Progetto di Ricerca finanziato dalla GW

Pharmaceuticals Lmt. (Project code: CoCRiN6/

GWDP19180) dal titolo “Effetti dei fitocannabinoidi

(THC e / o CBD) e dei composti cannabimimetici

intestinali putativi derivati dal microbiota,

sulla plasticità sinaptica nei topi SYNII-KO, un

modello di disturbo dello spettro autistico: collegamento

tra cannabinoidi, dieta e microbiota

intestinale e disfunzione mitocondriale in ASD”

per la seguente tematica “ Effetti di metaboliti

del microbiota intestinale sulla regolazione della

plasticità sinaptica e del metabolismo energetico

in modelli murini di obesità e autismo”. Per informazioni,

www.cnr.it (concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Biologia

e Biotecnologia Agraria di Milano

Scadenza, 25 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli e

colloquio, per il conferimento di un assegno di tipologia

professionalizzante per lo svolgimento di

attività di ricerca inerente all’Area Scientifica 05

Scienze biologiche - BIO/04 Fisiologia vegetale

e BIO/10 Biochimica, da svolgersi presso la sede

di Milano dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia

Agraria del CNR che effettua ricerche nell’ambito

del Programma di ricerca sPATIALS3 “Miglioramento

delle produzioni agroalimentari e

tecnologie innovative per un’alimentazione più

sana, sicura e sostenibile”, Bando Call Hub Ricerca

e Innovazione, progetto cofinanziato a valere

sulle risorse POR FESR 2014‐2020 / Innovazione

e competitività, CUP E48I20000020007,

per la seguente tematica: “Potenziale allergenico

e anti-nutrizionale delle proteine dei semi di cereali

e legumi: analisi molecolare della variabilità

in cultivar diverse e implicazioni per strategie

biotecnologiche”. Per informazioni, www.cnr.it

(concorsi).

Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Biologia

e Biotecnologia Agraria di Milano

Scadenza, 29 giugno 2020

È indetta una selezione pubblica, per titoli

e colloquio, per il conferimento di un assegno di

tipologia professionalizzante per lo svolgimento

di attività di ricerca inerente all’Area Scientifica

07 Scienze agrarie e veterinarie - AGR/15

Scienze e tecnologie alimentari, da svolgersi

presso la sede di Milano dell’Istituto di Biologia

e Biotecnologia Agraria del CNR che effettua

ricerche nell’ambito del Programma di ricerca

sPATIALS3 “Miglioramento delle produzioni

agroalimentari e tecnologie innovative per

un’alimentazione più sana, sicura e sostenibile”,

Bando Call Hub Ricerca e Innovazione, progetto

cofinanziato a valere sulle risorse POR FESR

2014‐2020 / Innovazione e competitività, CUP

E48I20000020007, per la seguente tematica:

“Caratterizzazione di semi, tessuti e germogli di

diverse specie/varietà di lino per il contenuto in

composti bioattivi”. Per informazioni, www.cnr.

it (concorsi).

Università di Bologna “Alma Mater Studiorum”

Scadenza, 4 giugno 2020

Procedura di selezione per la chiamata di un

professore di seconda fascia, settore concorsuale

05/C1 - Ecologia, per il Dipartimento di scienze

biologiche, geologiche e ambientali. Gazzetta Ufficiale

n. 35 del 05-05-2020.

Università del Piemonte Orientale di Vercelli

Scadenza, 4 giugno 2020

Procedura di selezione per la chiamata di un

professore di seconda fascia, settore concorsuale

05/I2 - Microbiologia, per il Dipartimento di

scienze e innovazione tecnologica. Gazzetta Ufficiale

n. 35 del 05-05-2020.

Università Politecnica delle Marche di Ancona

Scadenza, 4 giugno 2020

Procedura di selezione per la chiamata di un

professore di seconda fascia, settore concorsuale

05/E1 - Biochimica generale, per il Dipartimento

di scienze della vita e dell’ambiente. Gazzetta Ufficiale

n. 35 del 05-05-2020.

Università “La Sapienza” di Roma

Scadenza, 11 giugno 2020

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per

la copertura di un posto di ricercatore a tempo

determinato e definito, settore concorsuale 07/

D1, per il Dipartimento di Biologia ambientale.

Gazzetta Ufficiale n.37 del 12-05-2020.

Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona

Scadenza, 11 giugno 2020

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per

la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina

laboratorio di genetica medica, a tempo

indeterminato, cui affidare il ruolo di direttore

tecnico Qualified Person, per l’officina farmaceutica

Cell Factory. Gazzetta Ufficiale n. 37 del

12-05-2020.

Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona

Scadenza, 11 giugno 2020

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per

la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina

laboratorio di genetica medica, a tempo

indeterminato, per il Centro di procreazione medicalmente

assistita. Gazzetta Ufficiale n. 37 del

12-05-2020.

Azienda Zero di Padova

Scadenza, 18 giugno 2020

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la

copertura di 10 posti di dirigente biologo, disciplina

di biochimica clinica, a tempo indeterminato.

Gazzetta Ufficiale n. 39 del 19-05-2020.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

77


SCIENZE

Prevedere l’insorgenza

e l’impatto della demenza

Uno studio britannico prova a validare

per i Paesi a basso e medio reddito

i modelli ideati per le aree più sviluppate

di Sara Lorusso

La demenza, dice l’OMS, è un termine ombrello, un sostantivo

generico utilizzato per diverse malattie che sono

per lo più progressive, colpiscono la memoria, modificano

i comportamenti cognitivi e interferiscono significativamente

con la capacità di una persona di mantenere una vita

quotidiana attiva. Il morbo di Alzheimer è la forma più comune

di demenza e può contribuire al 60-70% dei casi, ma vi sono altre

forme, quali la demenza vascolare o la demenza a corpi di Lewy, i

cui confini sono sempre molto indistinti. Nella maggior parte dei

casi, inoltre, si tratta di forme diverse che spesso convivono.

Tutte le principali ricerche per la creazione di modelli previsionali

sullo sviluppo della demenza sono state finora condotte soprattutto

in Paesi ad alto reddito (high income countries, in sigla

HICs). Eppure è nei Paesi a basso e medio reddito (low and middle

income countries, in sigla LMICs) che si concentra la maggior

parte dei casi di demenza.

Uno studio [1] sviluppato con il coordinamento di Blossom

C.M. Stephan, epidemiologa con formazione in psicologia e statistica,

ora all’Institute of Mental Health di Nottingham, e di

Eduwin Pakpahan, esperto di modelli matematici e statistici per le

scienze economiche e sociali, ricercatore presso il Population Health

Sciences Institute della Newcastle University, ha indagato quei

modelli previsionali pensati per le regioni più ricche del pianeta

e ne ha valutato l’affidabilità in caso di applicazione su contesti

decisamente più poveri. La ricerca sulla previsione del rischio di

demenza nei Paesi a basso e medio reddito, pubblicata ad aprile su

The Lancet Global Health, si è dunque basata sui modelli utilizzati

finora per gli HICs e li ha trasportati su regioni LMIC.

Per portare a termine la verifica, gli scienziati hanno utilizzato

i dati provenienti dallo studio “10/66” [2]. Il 1066 Dementia

Research Group è una comunità di ricercatori che svolgono ricerche

basate sulla popolazione con l’obiettivo di indagare problematiche

quali l’impatto della demenza, l’incidenza di malattie non

trasmissibili e l’invecchiamento nei Paesi a basso e medio reddito.

© AimPix/www.shutterstock.com

78 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


Ed è il nome stesso del gruppo a racchiudere l’orizzonte di ricerca:

“10/66” si riferisce al fatto che due terzi della popolazione (il

66%, appunto) affetta da demenza vive in LIMCs, eppure solo il

10% - forse anche meno - della ricerca basata sulla popolazione

è finora stata condotta in queste regioni del pianeta. Il gruppo fa

parte dell’organizzazione senza scopo di lucro Alzheimer’s Disease

International, ed è coordinato dall’Institute of Psychiatry, Psychology

and Neurosciences del King’s College di Londra. Sul sito dedicato

al progetto è accessibile un vasto dataset anonimo di informazioni

raccolte e sono stati condivisi i protocolli e i questionari

utilizzati nella ricerca.

Sfruttando quei dataset, Stephan e colleghi hanno potuto contemplare

nel proprio studio una platea di 11.143 persone, dai 65

anni in su (fino a 106 anni), nessuna delle quali al basale mostrava

già evidenti segni di demenza. Il campione era composto per il

62,6% da donne e per il 37,4% da uomini.

L’enorme mole di dati analizzata comprende abitanti di Cina,

Cuba, Repubblica Domenicana, Messico, Perù, Portorico e Venezuela

e un arco di tempo di valutazione dell’incidenza della demenza

compreso tra i 3 e i 5 anni. I dataset del progetto 10/66 hanno

dato accesso a campioni che variano da 1.900 a 3.000

persone in tutti i Paesi, con un 80% della popolazione

che ha risposto ai questionari distribuiti. Per il gruppo

di Stephan è stato così possibile accedere a informazioni

sulla famiglia e sulla condizione socio-sanitaria, in abbinamento

a dati relativi alla salute fisica e neurologica. Nel

dataset 10/66 sono comprese anche le risposte di chi ha

accompagnato il paziente nella rilevazione - in genere si

tratta di caregiver, coinquilini o familiari. Solo per la Cina,

non essendo stato possibile raccogliere campione di sangue,

non era disponibile il valore del colesterolo.

Dello studio 10/66 è stato utilizzato anche l’algoritmo

diagnostico: si tratta di un modello che include i punteggi

ottenuti in una serie di test cognitivi riconosciuti, quali

il CSI-D (Community Screening Interview for Dementia)

COGSCORE e il CERAD (Consortium to Establish a Registry

for Alzheimer’s Disease).

Una delle fasi principali dello studio britannico è stata

quella relativa alla selezione dei modelli già utilizzati

in zone HICs: non tutti avrebbero garantito un’adeguata

coerenza della ricerca. E il motivo lo hanno spiegato in

un commento [3] pubblicato nello stesso numero della

rivista, Francisca Rodriguez, del German Center for

Neurodegenerative Diseases (DZNE), e Susanne Roehr,

dell’Institute for Social Medicine, Occupational Health

and Public Health di Leipzig.

Una delle maggiori sfide nella previsione del rischio

di demenza nei LMICs, spiegano le due scienziate, è che

molti metodi di valutazione utilizzati negli HICs non sono

disponibili nelle aree più povere. Basti pensare alle informazioni

ottenute tramite tecniche di imaging [4], che per

quelle zone sono troppo costose o inutilizzabili per l’assenza

di personale qualificato. In scenari simili è necessario

fare affidamento su strumenti di screening che sono

facili da usare e da interpretare.

Secondo dati dell’OMS [5] nel 2015 la demenza ha

colpito 47 milioni di persone in tutto il mondo (circa il

5% della popolazione anziana mondiale), una cifra che

dovrebbe aumentare a 75 milioni nel 2030 e toccare i 132

SCIENZE

milioni entro il 2050. Stime recenti dicono che a livello globale

ogni anno quasi 9,9 milioni di persone sviluppano demenza, praticamente

un nuovo caso ogni tre secondi. Di queste, quasi il 60%

vive attualmente in Paesi a basso e medio reddito, così come la

maggior parte dei nuovi casi (71%) dovrebbe verificarsi nelle stesse

zone svantaggiate.

Un punto di forza dello studio di Stephan e colleghi, sottolinea

il commento, è la ricerca dei soli modelli di previsione del rischio

che abbiano un’applicabilità su larga scala nei LMICs. Inoltre, il

campionamento della popolazione utilizzato nello studio - quello

del progetto 10/66 - comprende anche aree rurali e gruppi di popolazione

delle comunità più povere.

Ad oggi sono stati sviluppati almeno venti modelli per la previsione

del rischio di demenza nei Paesi ad alto reddito, con caratteristiche

differenti per precisione predittiva, differenze metodologiche,

durata dei follow-up, fattori selezionati per definire la

popolazione. Per individuare i modelli che sarebbe stato possibile

traslare senza perdere coerenza, Stephan e colleghi hanno innanzitutto

circoscritto la selezione sulla scorta delle revisioni sistematiche

più recenti a cui gli studi precedenti erano stati sottoposti [6,

Dementia

a public health priority

What are the symptoms?

Difficulties

with everyday

tasks

Who is affected?

50 million people

worldwide

Set to triple

by 2050

Nearly 10 million new

cases every year

One every

3 seconds

2015

50

million

Confusion in

familiar

environments

2030

82

million

2050

152

million

Majority of people who will

develop dementia will be in

low- and middle-income

countries

Difficulty with

words and

numbers

What is the

cause?

Conditions that affect the

brain, such as Alzheimer's

disease, stroke or head injury

What does it cost?

2015

2030

Memory

loss

US$818 billion:

estimated costs to

society in 2015

Changes in

mood and

behaviour

US$2 trillion

Families and friends

provide most of the care

Carers experience physical,

emotional and financial stress

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

79


SCIENZE

La mappa estratta dallo studio di Stephan et al. mette in evidenza i tre modelli che hanno espresso maggiore precisione

nell’applicazione in paesi a basso o medio reddito.

7, 8]. I criteri per la scrematura sono stati quattro: l’esistenza di

informazioni sufficienti per consentire il calcolo dei punteggi di rischio

individuali, la corrispondenza tra le variabili predittive usate

e quelle disponibili nel set di dati dello studio 10/66, l’inclusione

nel modello di rischio di variabili semplici da ottenere (escludendo

quindi i dati di neuroimaging), l’accuratezza predittiva del modello

definita da un indice di concordanza ≥ 0,70.

Ne è derivata una selezione di cinque modelli esistenti

da validare.

Il modello CAIDE (Cardiovascular Risk Factors, Aging, and

Dementia Risk Score), basato su fattori di rischio cardiovascolare,

invecchiamento e demenza era stato testato in Finlandia con lo studio

di Miia Kivipelto e altri. [9]

Il modello AgeCoDe (Study on Aging, Cognition and Dementia)

[10] è stato sviluppato da uno studio tedesco sull’invecchiamento

in relazione a capacità cognitiva e demenza, che ha indagato

principalmente il morbo di Alzheimer.

Il modello ANU-ADRI (Australian National University Alzheimer’s

Disease Risk Index) [11] propone una serie molto ampia

di fattori biologici e ambientali, che vanno dalla massa corporea

al colesterolo, dalla attività fisica svolta all’educazione, ed è stato

testato sia negli Stati Uniti sia in Svezia.

Il modello BDSI (Brief Dementia Screening Indicator) [12]

era stato applicato su ultrasessantacinquenni in diverse indagini

condotte sulla popolazione statunitense.

Il modello BDRM (Rotterdam Study Basic Dementia Risk

Model) [13] era stato testato in Olanda su una popolazione di età

compresa tra i sessanta e i novantasei anni.

Tutti e cinque i modelli sono stati applicati con l’uso della regressione

di Cox. Per l’accuratezza è stato utilizzato l’indice C di

Harrell, un indice di concordanza per i modelli che producono

punteggi di rischio, che è stato fissato a un valore di 0,70. Questo

limite è stato considerato indicativo di una capacità discriminatoria

accettabile. La calibrazione, infine, è stata valutata statisticamente

usando il test di Grønnesby e Borgan.

Il team ha così verificato

ciascun modello in ciascuno dei

Paesi individuati (Cina, Cuba,

Repubblica Domenicana, Messico,

Perù, Portorico e Venezuela)

utilizzando gli algoritmi

di previsione originali.

Al termine dello studio,

1.069 persone risultavano progredite

nella demenza, con un

tasso di incidenza di 24,9 casi

per 1.000 persone all’anno. Il

tasso più elevato si è avuto in

Cina (207 casi; 25,3 ogni 1.000

persone all’anno). A seguire

Repubblica Dominicana (165

casi, pari a 26,3 per 1.000 persone

ogni anno), Venezuela

(155 casi, pari a 29 su 1.000 persone

all’anno), Portorico (153

casi; 27,4 ogni 1.000 persone

all’anno) e Messico (130 casi,

cioè 30,5 ogni 1.000 persone per

anno). In coda, Cuba (182 casi,

pari a 19,5 per 1.000 persone / anno) e Perù (77 casi, pari a 19,3

per 1.000 persone / anno).

Ogni modello, applicato in un contesto socio-economico per

cui non era stato ideato, ha fornito risposte differenti. E non tutti

i modelli presi in considerazione hanno dimostrato di poter essere

trasportati su regioni meno sviluppate. Nello specifico, la ricerca

ha trovato compatibilità per i modelli ANU-ADRI, BDSI e BDRM

mentre hanno funzionato meno i modelli CAIDE e AgeCoDe.

In tutti i Paesi esaminati la capacità discriminatoria dei modelli

CAIDE (0,52 ≤ c ≤ 0,63) e AgeCoDe (0,57 ≤ c ≤ 0,74) è risultata

scarsa. I modelli ANU-ADRI (0,66 ≤ c ≤ 0,78), BDSI (0,62 ≤ c ≤

0,78) e BDRM (0,66 ≤ c ≤ 0,78), spiegano i dati dello studio, hanno

invece mostrato livelli simili di capacità discriminatoria rispetto a

quelle delle coorti originali di sviluppo.

In generale i modelli hanno costantemente funzionato meglio

in Perù e peggio nella Repubblica Dominicana e in Cina.

I tre modelli con la massima precisione predittiva per la demenza

se utilizzati nelle aree LMIC si sono dunque rivelati il BDSI,

il BDRM e l’ANU-ADRI.

In conclusione lo studio ha confermato che non tutti i modelli

di previsione della demenza sviluppati negli HICs possono essere

semplicemente replicati agli LMICs.

Tuttavia, hanno fatto notare gli autori, in attesa di nuovi indici

di rischio e nuove combinazioni di variabili per adattare i modelli

alle aree del pianeta meno sviluppate, lavorare sull’esistente è

necessario ai fini delle politiche di previsione dell’insorgenza della

demenza e di assistenza agli individui che ne vengono colpiti.

Si potrebbe cominciare, suggeriscono, proprio dai modelli che si

sono dimostrati replicabili.

L’urgenza con cui gli autori chiedono di intervenire è il riflesso

di una condizione globale ancora oggi sottovalutata, ma che determina

importanti ricadute sociali ed economiche ovunque nel

mondo. Al punto che l’OMS ha chiesto a tutti gli Stati di intervenire

redigendo il “Piano d’azione globale sulla risposta della sanità

pubblica alla demenza 2017-2025” affinché entro il 2025 almeno

80 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SCIENZE

la metà dei casi di demenza sia diagnosticato, e di conseguenza

affrontato, in almeno la metà dei Paesi.

Una delle chiavi principali per rendere praticabili simili

indirizzi è proprio il lavoro sull’informazione e la riconoscibilità

dei casi.

Nell’ottobre del 2018, in seguito al lancio del programma “Sustainable

Development Goals” (SDGs) delle Nazioni Unite [14] la

rivista The Lancet costituì una commissione dedicata a formulare

una serie di proposte per declinare l’agenda dedicata al tema della

salute mentale globale, cominciando proprio dall’abbattimento

del divario nell’accesso alle terapie di intere popolazioni. Una sfida

che tra gli obiettivi ha quello di ridurre l’enorme carico indiretto

dei disturbi mentali. La commissione delineò un piano di azione

basato su quattro pilastri [15].

In primo luogo, scrivono gli esperti, «la salute mentale è un

bene pubblico globale ed è rilevante per lo sviluppo sostenibile in

tutti i Paesi, indipendentemente dal loro status socioeconomico,

poiché tutti i Paesi possono essere considerati Paesi in via di sviluppo

nel contesto della salute mentale».

In secondo luogo suggerivano di perseguire pratiche cliniche

capaci di tenere conto della diversità e della complessità dei bisogni

collegati al benessere mentale degli individui o delle popolazioni.

Il terzo punto coincideva con la consapevolezza che ogni

individuo è il prodotto unico delle influenze sociali e ambientali a

cui è esposto fin dalla prima infanzia, che si innestano su processi

genetici e del neurosviluppo. Infine, la commissione sottolineava

come la salute mentale fosse un diritto umano fondamentale e, per

questo, richiede un approccio basato sui diritti per tutti.

A questi quattro principi si abbinava la proposta di alcune

azioni mirate al trattamento del disturbo mentale con la stessa

accuratezza e attenzione usata per le malattie fisiche, anche per

ridurne l’impatto sociale ed economico, abbattere lo stigma sociale

collegato, sostenere il ricorso alle tecnologie digitali per la cura e il

monitoraggio. Questo a partire dalla premessa che la fattibilità di

ciascuna sia collegata alla disponibilità di risorse umane e finanziarie

di ciascun Paese e, spesso, delle varie aree di ogni Paese.

Anche il gruppo guidato dalla professoressa Stephan, nella

propria ricerca, ha dovuto porre alcune questioni sulla scarsa omogeneità

di risposte tra le diverse regioni osservate. Sebbene tutti i

siti fossero situati in LMICs, spiegano i ricercatori, i Paesi differiscono

culturalmente e presentano differenze molto profonde rispetto

ai profili di rischio della malattia, agli indicatori del tasso di

mortalità e dell’aspettativa di vita, ai sistemi politici ed economici

(compresa, quindi, la spesa sanitaria in bilancio). Anche tra il Perù

e la Repubblica Dominicana, entrambi Stati dell’America Latina,

emergono distanze notevoli.

L’idea della salute mentale globale è basata ormai su un’ampia

e consolidata letteratura. La ricerca scientifica ha negli anni

dimostrato la forte associazione tra lo svantaggio sociale e la cattiva

salute mentale [16]. Il World Mental Health Surveys, un progetto

collaborativo dell’OMS, dell’Università di Harvard e dell’Università

del Michigan, ha riferito che una persona su cinque con disturbo

depressivo non riceve un trattamento adeguato nei Paesi ad alto

reddito: il dato, nei LMICs scende a uno su ventisette [16].

Di qui, l’auspicio degli autori dello studio che la ricerca svolta

possa almeno stimolare nell’utilizzo di modelli esistenti, seppur

adeguati, per monitorare e prevedere l’insorgenza della demenza

nei luoghi più disagiati del pianeta. In attesa che si possano sviluppare

modelli specifici anche per quei territori del mondo.

Bibliografia

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risk in low- and middle-income countries (the 10/66 Study):

an independent external validation of existing models, Lancet Glob

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co.uk/1066/ )

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in low-income and middle-income countries, Lancet Glob Health.

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2017–2025. World Health Organization, Geneva2017 (https://www.who.int/mental_health/neurology/dementia/action_

plan_2017_2025/en/)

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Dementia risk prediction in the population: are screening models

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PLoS One. 2015; 10: e0136181

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assessment tools: an update., Neurodegener Dis Manag. 2017; 7:

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Tuomilehto J, Risk score for the prediction of dementia risk in 20

years among middle aged people: a longitudinal, population-based

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primary care patients., PLoS One. 2011; 6: e16852

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population health approaches to prevention., Prev Sci. 2013; 14:

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Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

81


SCIENZE

Esposizione ripetuta a taglie

diverse e soddisfazione del corpo

Uno studio sviluppato ad Oxford indaga l’impatto

di una frequente visualizzazione di forme differenti

sull’ideale fisico delle donne

Il rapporto con l’immagine che si ha del proprio corpo e di

quello altrui è una delle problematiche rilevanti nella diffusione

dei disturbi alimentari (DA), ed è anche uno degli

aspetti più indagati dalla ricerca che lavora su queste malattie

complesse.

I disturbi dell’alimentazione, ricorda il Ministero della Salute

[1], sono più frequenti nella popolazione femminile

che in quella maschile: gli uomini rappresentano

il 5-10% di tutti i casi di anoressia nervosa (AN),

il 10-15% dei casi di bulimia nervosa. L’incidenza

dell’anoressia nervosa è di almeno 8-9 nuovi casi per

100mila persone in un anno tra le donne, mentre per

gli uomini è compresa fra 0,02 e 1,4 nuovi casi.

Il rischio di anoressia nervosa nelle donne è

stimato tra lo 0,3% e l’1% [2]. I disturbi alimentari

sono, inoltre, sempre più riconosciuti come

una causa importante di morbilità e mortalità nei

più giovani.

Proprio sulle donne e sull’incidenza della relazione

con l’immagine corporea si è concentrata buona

parte della letteratura sui DA. In particolare, un

recente studio svolto ad Oxford ha indagato quanto

l’esposizione a corpi di varie forme influenzi la costruzione

dell’immaginario, del giudizio e della consapevolezza

del proprio corpo. Il lavoro [3], coordinato

da Helen Bould del dipartimento di Psichiatria

dell’Università di Oxford, nel Regno Unito, è stato pubblicato

sulla rivista Royal Society Open Science.

La ricerca di Bould e colleghi ha valutato sia la qualità sia la

quantità dell’esposizione, cercando di approfondire alcuni aspetti

del meccanismo di costruzione della propria immagine poco

indagati, a partire proprio dal tempo e dalla varietà dei corpi a

© ronstik/www.shutterstock.com

82 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


cui le donne vengono esposte.

Con uno studio che ha coinvolto un

centinaio di donne, i ricercatori hanno

provato a colmare alcune lacune delle

indagini precedenti basandosi sulla esposizione

multipla e ripetuta in un preciso

arco di tempo. Questo nella consapevolezza

che la sperimentazione ha coinvolto

solo donne (studentesse, ricercatrici)

reclutate nel campus, dunque afferenti a

un medesimo ambiente, senza possibilità

concrete di generalizzare in maniera estesa

i risultati ottenuti.

Tuttavia, l’indagine è particolarmente

interessante perché propone un metodo

più complesso e articolato rispetto a

numerosi studi analoghi sul tema.

L’attualità della problematica sul versante

della salute pubblica è rilevante.

Già nel 2011 una ricerca dell’Università

del Texas [4] sul rischio di insorgenza dei

disturbi alimentari aveva verificato come

l’insoddisfazione del proprio corpo ne

fosse uno dei principali fattori predittori.

In particolare le adolescenti che avevano

mostrato un livello di insoddisfazione del

proprio corpo superiore al 24% erano

sottoposte all’emergere di disturbi alimentari

quattro volte di più (con un 24%

di incidenza rispetto al 6%). La stessa

ricerca aveva segnalato una maggiore incidenza

(di quasi 3,6 volte) dei disturbi alimentari nelle giovani

donne che si cimentavano in diete autoimposte.

Anche il tema dell’obesità è ormai al centro di pratiche e politiche

che cercano di affrontare quello che è riconosciuto come

un problema globale, dalle importanti ricadute di carattere sociale

ed economico. Di qui la necessità di lavorare su uno dei fattori

che incidono sul rischio, la percezione del corpo appunto.

Lo studio di Bould e colleghi parte da una premessa consolidata

secondo cui l’insoddisfazione del corpo è basata su due

componenti: la percezione della propria dimensione e una componente

cognitiva dell’insoddisfazione verso la forma del corpo.

Di qui, l’ipotesi di lavoro: modificando una delle due componenti

dovrebbe, dunque, essere possibile agire sull’effetto. Se si potesse

cambiare la percezione della propria taglia, allora dovrebbe essere

possibile modificare la soddisfazione percepita col cambiare

della stessa.

Per indagare questa possibilità il gruppo ha lavorato sull’esposizione

continua delle partecipanti (5 minuti per due volte al

giorno) a immagini di donne di dimensioni diverse. La ricerca è

stata sviluppata usando il Morphed Photographic Figure Scale

[5], un progetto realizzato da molti degli autori dello studio di

Oxford, con cui sono state costruite otto sequenze di immagini

del corpo femminile, modificate usando tecniche di morphing

per simularne in modo realistico i cambiamenti in base alla variazione

possibile del peso corporeo.

La letteratura da tempo suggerisce che sia possibile cambiare

la percezione della dimensione corporea altrui esponendo l’individuo

da interrogare a corpi “target” di varie taglie: una maggiore

Esempi di stimoli visivi utilizzati nella ricerca: (a) “sottopeso”; (b) “né sovrappeso né sottopeso”; (c) “sovrappeso”.

SCIENZE

esposizione a corpi più sottili porterà l’individuo a stabilire come

“normali” dimensioni più piccole. Viceversa, un’esposizione prolungata

a corpi di taglia grande rende maggiore la dimensione

della taglia “normale”.

L’abitudine a proporre nella ribalta mediatica corpi minuti

e sottili, soprattutto quando il modello di riferimento è quello

della donna, è considerata tra i principali fattori sponsor della

diffusa percezione distorta del corpo. Proprio i meccanismi di

esposizione sono stati spesso indagati per valutare le reazioni che

gli individui mettono in atto [6]. Uno studio dedicato al “volto

mutevole dell’obesità” è stato sviluppato nel 2014 da Eric Robinson

e Paul Christiansen del dipartimento di Scienze psicologiche

dell’Università di Liverpool: la ricerca espose i partecipanti a immagini

di maschi obesi o normopeso per valutare come questo

cambiava successivamente i giudizi sugli uomini in sovrappeso.

In tre tipologie differenti di sperimentazione per valutare il giudizio

generale sull’obesità e i criteri di determinazione del sovrappeso

“accettabile”, la maggiore esposizione all’obesità risultava

collegata a una maggiore accettazione dell’obesità [7]. Negli anni

diversi studi hanno approfondito il tema [8, 9]: la percezione visiva

è fortemente influenzata dall’esperienza e dagli stimoli che

ci circondano. L’esposizione prolungata sollecita un meccanismo

per cui viene distorta la percezione nella direzione opposta dello

stimolo [10].

Uno studio del dipartimento di Psicologia della Macquarie

University di Sydney ha indagato [11] il meccanismo sapendo

che nonostante la ricerca sull’argomento si sia concentrata sempre

su processi socio-cognitivi - ne è un esempio tipico l’interio-

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

83


SCIENZE

rizzazione dell’immaginario “ideale” diffuso dai media - le basi

percettive del fenomeno rimangono in gran parte sconosciute.

Quasi tutti gli studi hanno approfondito la dimensione corporea

in sé, ma in realtà questo dato dipende tanto dal grasso in eccesso

quanto dalla massa muscolare, che sulla salute hanno un impatto

molto diverso.

Tutta questa letteratura già prodotta mostra un limite importante

nella dimensione sempre ridotta del campione usato di volta

in volta come riferimento. Inoltre è molto facile che in queste

tipologie di indagini il soggetto partecipante intuisca l’obiettivo

della domanda e cerchi di rispondere sforzandosi di essere un

“buon soggetto”, ipotizzando in autonomia la risposta migliore e

falsando così il responso.

Lo studio di Bould e colleghi ha provato ad aggirare queste

limitazioni. Sono stati costituiti tre gruppi casuali di donne

che hanno completato un test one-back ogni giorno, due volte

al giorno, per una settimana. Il test, basato su stimoli visivi e comunemente

utilizzato nelle neuroscienze cognitive per misurare

la memoria di lavoro, è stato somministrato mostrando al posto

del comune oggetto visivo neutro (per esempio un quadrato che

compare in varie posizioni di una tabella) alcune immagini di

donne modificate per apparire “sottopeso”, “sovrappeso” o “né

sovrappeso né sottopeso”.

Stando alla letteratura esistente, un allenamento ripetuto

usando “sovrappeso” o “sottopeso” invece di immagini “normali”

avrebbe portato i partecipanti a vedere le immagini dei corpi

di altri come più piccole, e viceversa. Il risultato generale è stato

che per 93 donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni le immagini

di altre donne sono state percepite come più grandi in seguito

all’esposizione a corpi sottopeso (e viceversa).

Il reclutamento delle partecipanti allo studio è avvenuto tramite

call pubblica, passaparola o manifesti nel campus dell’Università

di Oxford. A chi aveva risposto è stato poi chiesto di

compilare un questionario per valutare l’esistenza dei criteri di

inclusione. In particolare era

necessario che le volontarie

avessero un’età compresa tra

18 e 30 anni e un indice di

massa corporea compreso tra

18 e 25 anni kg/m2, calcolato

in base ai dati riportati dalle

partecipanti. Sono state escluse

tutte le donne che soffrivano

(o avevano sofferto) di un

disturbo alimentare o fossero

sottoposte a trattamenti per

disturbi mentali o assumessero

farmaci capaci di agire sul

sistema cognitivo o droghe.

Tra i criteri di esclusione,

inoltre, anche il consumo di

più di 10 sigarette al giorno,

la gravidanza in corso, l’essere

dislessica o celiaca.

C’è stata una prima fase

di addestramento in cui ciascuno

dei tre gruppi ha vi-

© aijiro/www.shutterstock.com

sionato delle immagini per

stabilire la prospettiva visiva

di riferimento.

Nel corso dei test successivi, la prima misurazione coincideva

con la risposta delle partecipanti alla richiesta di indicare la dimensione

del proprio corpo su una scala analogica visiva primaria

(VAS) a 10 punti, da troppo sottile (0) a troppo grasso (10).

Il risultato secondario rifletteva sulla stessa scala la soddisfazione

verso la propria taglia: da molto soddisfatto (0) a molto insoddisfatto

(10).

Per misurare la dimensione corporea percepita negli altri, le

partecipanti hanno valutato una serie di 90 immagini di corpi

femminili [12], simili a quelle utilizzate nella sessione di allenamento,

dovendo rispondere alla domanda: questa donna è sovrappeso,

sottopeso o né sovrappeso né sottopeso?

Ventiquattro di quelle 90 immagini erano state utilizzate nella

sessione di addestramento (otto in ciascun gruppo). Di conseguenza

ciascuna partecipante, durante le fasi di test è stata esposta

a un set di immagini che in parte aveva già visualizzato.

Un ulteriore test ha richiesto l’utilizzo di un avatar che, agendo

sul tablet, poteva essere modificato in punti specifici dell’anatomia,

quali busto o fianchi, per rispondere in modo più preciso

sulla percezione delle dimensioni. L’operazione è stata effettuata

sia sulla propria dimensione sia sulla dimensione ideale: sono state

presentate due immagini, create per avere la stessa altezza della

partecipante, ma l’una con un peso maggiorato del 10%, l’altra

inferiore del 10%. Le partecipanti le hanno modificate secondo

percezione e ideale.

Per tutte le partecipanti inoltre, sono state raccolte informazioni

sulla scala di soddisfazione della forma del corpo, su emozioni

ed affetti, sull’umore e l’autostima, sul livello di istruzione

e l’uso dei media.

A garanzia di maggiore profondità del risultato, le partecipanti

hanno anche valutato aspetti correlati alla dimensione percepita

del proprio corpo, i vestiti per esempio. A tutte è stato

chiesto di valutare un set contenente 60 immagini di abiti, tra co-

84 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SCIENZE

stumi da bagno, pantaloni, cappotti, tubini, assegnando un valore

al livello di confort: nel contesto adeguato, quanto ti sentiresti a

tuo agio con un vestito simile?

Infine, per provare a valutare gli effetti dell’esposizione, durante

la fase preliminare di addestramento, le partecipanti a un

certo punto sono state lasciate sole ed è stata offerta una tazza di

tè o caffè, con una ciotola contenente 100 g di biscotti, dolci e

fiocchi di avena. Per ciascuna partecipante è stata poi misurata la

quantità di cibo consumato.

Il team di ricerca ha comunicato che al termine della sperimentazione

non ha rilevato differenze tra i tre gruppi rispetto alle

scelte dell’outfit o dei biscotti mangiati.

Ma tutti i dati emersi hanno confermato l’influenza dell’esposizione

rispetto alla definizione di un immaginario differente.

Dopo la fase di addestramento con le immagini sottopeso, le

donne hanno giudicato 6,43 immagini in meno come “sottopeso”

e 6,41 immagini in più come “sovrappeso”. Al contrario, in seguito

all’addestramento con immagini di corpi in sovrappeso, le

donne hanno visualizzato 7,42 immagini in più come corpi “sottopeso”

e 5,92 immagini in meno come “sovrappeso”.

Quanto agli esercizi svolti con l’avatar, spiegano gli autori,

l’addestramento con immagini sottopeso ha portato a rivelare

una dimensione ideale più piccola del corpo, rispetto alle partecipanti

che avevano seguito la fase preliminare tramite esposizione

a immagini di corporature normali o in sovrappeso.

In sostanza, la percezione delle dimensioni dei corpi è cambiata

in base alle immagini mostrate durante l’addestramento.

Il risultato che non ha rispettato le previsioni è, invece, quello

relativo alla misurazione delle proprie dimensioni e del grado

di soddisfazione rispetto alla propria corporatura, segnalato attraverso

la modifica dell’avatar. Le partecipanti, ammette il gruppo

di ricerca, contrariamente alle ipotesi iniziali, hanno creato

avatar di dimensioni più ridotte dopo l’allenamento con immagini

sottopeso. Probabilmente - questa l’ipotesi fatta - gli effetti

dell’addestramento sulla percezione delle dimensioni dell’avatar

hanno superato gli effetti dell’adattamento della percezione della

propria dimensione.

Condivisi i risultati, Bould e colleghi nel paper ricordano

come siano urgenti azioni per intervenire sulla prevenzione dei

disturbi alimentari e sulla prevenzione dell’aumento del peso.

Una meta-analisi condotta nel 2011 [2] su 36 precedenti studi

dedicati al tasso di mortalità tra gli individui con disturbi alimentari

aveva verificato come fosse elevato il rischio di mortalità

tra i pazienti, soprattutto nel caso di anoressia nervosa.

Analoga preoccupazione è diretta all’obesità, condizione

che si porta dietro un importante carico negativo sia sulla salute

dell’individuo sia sul contesto sociale, soprattutto rispetto al peso

economico del sistema sanitario e della cura familiare.

Uno studio [13] condotto su quasi 20 milioni di persone distribuite

in 186 Paesi ha rilevato che l’indice di massa corporea

globale standardizzato per età è aumentato da 21,7 kg/m2 nel

1975 a 24,2 nel 2014 negli uomini e da 22,1 kg/m2 nel 1975 a

24,4 kg/m2 nel 2014 nelle donne. La ricerca era stata sviluppata

dall’NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC), una rete di

scienziati che si occupano di salute, distribuiti nelle più prestigiose

università e impegnati nella raccolta dei fattori di rischio delle

malattie non trasmissibili per tutti i Paesi del mondo. Se il trend

continuerà come accaduto per gli anni successivi al 2000, la probabilità

di raggiungere l’obiettivo di un tasso globale accettabile

di obesità nel mondo – si legge nella ricerca dell’NDC-RiisC - è

praticamente pari a zero. La previsione è, invece, peggiorativa:

entro il 2025 la prevalenza globale dell’obesità raggiungerà il

18% negli uomini e supererà il 21% nelle donne; l’obesità grave

supererà il 6% negli uomini e il 9% nelle donne.

Poiché l’insoddisfazione del corpo è un obiettivo potenzialmente

modificabile sia per la prevenzione che per il trattamento,

è necessario agire in questa direzione. (S. L.).

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Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

85


SCIENZE

Le basi genetiche

della malattia di Alzheimer

Nuovi studi sull’argomento hanno

identificato nuovi loci sesso-specifici

utili alla diagnosi precoce

di Giada Fedri

La malattia di Alzheimer (AD) è una patologia neurodegenerativa

progressiva ed irreversibile, circa 44 milioni

di persone nel mondo ne sono affetti o soffrono di una

forma di demenza correlata ad essa, con una previsione

di incremento di circa 4,6 milioni di nuovi casi che potrebbe quasi

raddoppiare entro il 2030 [1], se si considera il costante invecchiamento

della popolazione mondiale e l’aumento dell’aspettativa di

vita nei paesi più sviluppati.

La maggior parte delle

forme di Alzheimer è definita

sporadica, che si manifesta

quindi in assenza di ereditarietà

generazionale e spesso

esordisce dopo i 65 anni. In

altri casi, i sintomi del morbo

si manifestano in età più

giovanile, definiti per questo

pazienti ad esordio precoce,

e le caratteristiche della malattia

cambiano a seconda

del momento della vita in cui

essa si sviluppa. Si ipotizza

che quanto prima la malattia

si presenti tanto più il fattore

genetico sia prevalente infatti,

più della metà dei soggetti

ad esordio precoce ha una base familiare, ereditaria. La trasmissione

della patologia è di tipo autosomico dominante, il che significa

che la mutazione genetica responsabile è trasmessa al 50%

dei figli. Tuttavia, la predisposizione genetica della forma non

mendeliana è considerevole anche per i pazienti con esordio tardivo,

con una stima dell’ereditarietà del 60-80% [2]. Nonostante

anni di ricerche abbiano svelato un gran numero di informazioni

riguardo l’Alzheimer, la maggior parte delle cause rimane un

mistero, in particolare nei

casi di insorgenza sporadica,

dove oltre alla combinazione

genetica si associano i fattori

ambientali e lo stile di vita.

Uno degli obiettivi principali

della ricerca sull’AD è

quello di comprendere l’eziologia

genetica e la sua relazione

con la neuropatologia:

l’esplosione di nuove tecniche

per esplorare il DNA e la biologia

molecolare negli ultimi

due decenni ha illuminato

molti degli enigmi relativi alla

neurodegenerazione. I tentativi

riusciti a metà degli anni

© pathdoc/www.shutterstock.com

‘80 di sviluppare metodi per

86 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


purificare i depositi e gli agglomerati

patologici dal cervello post-mortem

di pazienti affetti da AD, hanno

infatti permesso l’identificazione

della proteina β amiloide (Aβ) come

principale molecola costituente le

placche a livello sinaptico, e la proteine

tau come componente primaria

dei grovigli neurofibrillari; permettendo

inoltre il loro isolamento

e sequenziamento. L’ipotesi che la

malattia sia causata dal graduale

accumulo e aggregazione di Aβ, ha

guidato le prime scoperte genetiche

e ha aiutato a dirigere gli studi verso

la ricerca dei geni causali. Il primo

gene identificato fu il precursore

della beta amiloide (APP), proteina

transmembrana che, clivata da particolari

enzimi denominati secretasi,

porta alla formazione e al deposito

di specifici frammenti di Aβ. In condizioni

normali, l’APP è costitutivamente

prodotto da tutte le cellule

[3] e come monomero, gioca un ruolo importante nella crescita

e nella riparazione dei neuroni, è quindi un fattore fisiologico e

protettivo che potenzia la plasticità sinaptica. Quando mutato invece,

è fortemente coinvolto nell’eziopatogenesi della malattia di

Alzheimer poiché porta ad una produzione anomala di frammenti

di β-amiloide sotto forma di aggregamenti fibrillari, tossici per i

neuroni. Le mutazioni del gene APP sono responsabili del 2-3%

dei casi di Alzheimer a trasmissione familiare, portano alla forma

precoce e quindi più aggressiva della malattia [4]: ad oggi sono

state identificate circa quaranta mutazioni missenso di APP che si

raggruppano quasi tutte in corrispondenza dei siti di clivaggio da

parte dalle secretasi β, γ o α [5], [6].

Una curiosa scoperta fu la localizzazione del gene APP sul

cromosoma umano 21 [31] che spiegò lo sviluppo specifico della

neuropatologia simile all’AD, spesso accompagnata da declino cognitivo,

nei pazienti con trisomia 21 (Sindrome di Down). Tali soggetti

mostrano infatti depositi di Aβ immaturi noti come placche

diffuse già nella seconda decade di vita e successivamente sviluppano

placche neuritiche (amiloidi) mature e grovigli neurofibrillari

indistinguibili da quelle riscontrate in pazienti con AD.

Oltre alle mutazioni, anche le duplicazioni geniche sono state

associate a forme familiari della malattia ad esordio precoce [7],

in particolare di due geni autosomici dominanti: la Presenilina 1 (

PSEN1 ) e la Presenilina 2 ( PSEN2) [8]–[11], proteine che hanno

la funzione di frammentare la proteina amiloide e per questo motivo

il loro alterato funzionamento potrebbe causare l’accumulo di

Aβ. Quest’ultime sono componenti essenziali del complesso delle

γ-secretasi, che catalizzano la scissione delle proteine di membrana,

inclusa l’APP, incrementando la formazione di particolari frammenti

di Aβ e favorendone il loro accumulo [12]. Le alterazioni di

PSEN 1, ad oggi classificate come cinquanta diverse mutazioni,

rappresentano la causa più comune di origine genetica della malattia

di Alzheimer familiare ad esordio precoce (28-60 anni), mentre

sono note solo 3 mutazioni di PSEN2, associate all’eziogenesi sia

precoce che tardiva. Insieme, le mutazioni di PSEN1, PSEN2 e

© Atthapon Raksthaput/www.shutterstock.com

SCIENZE

APP sono responsabili solo del 5-10% dei casi di Alzheimer ad

esordio precoce, ne aumentano il tasso di progressione e la gravità

e attualmente sono gli unici tre geni alla base dei test genetici predittivi.

E per quanto riguarda invece l’esordio tardivo? Finora il principale

candidato è il gene che codifica per l’apoliproteina E (ApoE),

appartenente alla famiglia di proteine che legano e trasportano

i lipidi, prodotte principalmente dal fegato e dai macrofagi nei

tessuti periferici, dove mediano il metabolismo del colesterolo; e

dagli astrociti nel sistema nervose centrale, dove trasportano il colesterolo

nei neuroni e nel cervello. Alcuni studi indicano che nei

casi di AD, la proteina viene clivata da enzimi sconosciuti e che i

frammenti risultanti interagiscono con le proteine del citoscheletro

per formare le tipiche strutture neurofibrillari aggrovigliate [13].

APOE è un gene polimorfico, ha quindi diverse forme alleliche,

e le principali sono ɛ2, ɛ3 ed ɛ4. Studi precedenti hanno dimostrato

come quest’ultima sia responsabile della formazione dei grovigli

neurofibrillari [13] caratteristici del morbo, mentre APOɛ2

e APOɛ3, non sembrano essere connesse ad esso. Al contrario, ci

sono prove che suggeriscono che l’allele ɛ2 possa avere un effetto

protettivo e ritardi l’età di insorgenza [14] mentre è ɛ3, il più comune,

sembra non aumentare né ridurre il rischio.

A livello mondiale, si stima che il 14% della popolazione abbia

il gene APOɛ4, mentre nei pazienti affetti da Alzheimer la percentuale

raggiunge il 61%, indicando una chiara connessione tra la

presenza dell’allele e l’AD. Infatti chi mostra due alleli ε4 ha fino

a 20 volte più rischio di sviluppare l’AD rispetto a chi esprime le

altre forme alleliche [15], per questi motivi è ad oggi il fattore di

rischio più significativo per lo sviluppo di AD [16] con un effetto

dose-dipendente sull’età di esordio [17].

Nonostante l’evidenza accertata dell’APOɛ4 come fattore di

suscettibilità e di rischio per l’AD insorgenza tardiva [18], il suo

valore nella previsione della malattia in ambito clinico è limitato

non solo a causa delle attuali potenzialità terapeutiche ma anche

perché di per se non è né necessario né sufficiente a causare la ma-

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

87


SCIENZE

© Naeblys/www.shutterstock.com

lattia [16], [17]: fino al 75% delle persone eterozigoti per APOE

ɛ4 non sviluppano AD durante la vita e fino al 50% delle persone

affette non esprimono l’allele ɛ4 ad alto rischio [16]; inoltre, i casi

correlati a tale allele rappresentano il 27,3% dell’ereditabilità della

malattia che è in realtà stimata intorno all’80% [19].

Basti pensare che in alcuni casi di Alzheimer familiare ad esordio

tardivo, le mutazioni non sono state trovate in nessuno dei tre

geni. Ciò suggerisce che almeno un altro gene è responsabile, che

per ora non è stato identificato. Enormi sforzi di ricerca a livello

mondiale hanno rilevato loci di rischio genetico aggiuntivi per la

forma geneticamente complessa di AD, è chiaro che comprendere

il ruolo della genetica nella diagnosi e nella previsione del rischio

nell’AD complesso ad esordio tardivo è molto meno semplice, proprio

perché con l’avanzare dell’età aumenta la pressione di altri

fattori esterni oltre alla pura predisposizione genetica, come l’ambiente

e lo stile di vita, il che complica ulteriormente un quadro già

fortemente intricato ed oscuro.

Sono stati identificati altri possibili geni associati all’aumentata

suscettibilità alla malattia, non ancora confermati ufficialmente,

i principali candidati sono: SORL-1 e CH25H (coinvolti nel riciclaggio

e nella trasformazione dell’APP); ACE (implicato nella

regolazione della pressione arteriosa e nella degradazione di Aβ);

GAB2 e la transferrina per il loro ruolo nella formazione degli aggregati

di tau iperfosforilata [20].

La componente genetica stessa è complessa ed eterogenea,

non esiste un singolo modello che spieghi le modalità di trasmissione

della malattia, o come le mutazioni e i polimorfismi genetici

possano interagire tra loro e a loro volta con i fattori ambientali.

Sebbene la conoscenza delle cause genetiche e dei fattori di rischio

dell’AD stia avanzando, sorge la domanda su come tradurre e trasporre

queste intuizioni in migliori strumenti per incrementare la

salute pubblica. L’implementazione più diretta è la ricerca di altri

strumenti per la diagnosi a più ampio spettro. Studi di associazione

genome-wide (GWAS) [20], [21] su larga scala e “l’International

Genomics of Alzheimer’s Project” hanno notevolmente

migliorato le conoscenze relative alle basi genetiche di AD ad

esordio tardivo, identificando almeno 20 loci di

rischio genetico aggiuntivi, tra cui la Clusterina

(CLU), una proteina pleiotropica che potrebbe

essere coinvolta nella patogenesi attraverso

trasporto lipidico, l’infiammazione e influenza

diretta sull’aggregazione Aβ e la sua clearance

dal cervello e la proteina SORL1, coinvolta nel

riciclaggio dell’APP [22]. Le varianti ereditate

di SORL1 analizzate nei casi di AD, sono state

associate significativamente alle forme ad insorgenza

tardiva, anche se si discute se sia un valido

candidato e se sia classificabile come fattore

di suscettibilità piuttosto che come gene deterministico

[22].

Le nuove tecnologie che sfruttano un’ampia

copertura dei marcatori genetici attraverso

studi di associazione a livello dell’intero

genoma, metodi statistici avanzati e progetti

di collaborazione per aumentare il numero di

casi disponibili per lo studio, possono aiutare

a superare alcuni degli ostacoli alla ricerca di

ulteriori geni associati alla malattia. Un gruppo

di ricerca dall’Università di Bonn ha proposto

un interessante approccio di studio, basato sulla

restrizione del campo di ricerca ad altri fattori predittivi dell’influenza

della malattia oltre all’età, tra cui la razza [23], ipertensione

arteriosa [24] e il sesso [25]. E’ proprio sulla selezione di

quest’ultima categoria che si basa il nuovo lavoro, il principio è

quello di focalizzare l’attenzione su un campo più limitato come

l’analisi specifica di genere, partendo dal fatto che le donne hanno

il doppio del rischio di sviluppare l’AD rispetto agli uomini, la

progressione della malattia è più rapida e la neurodegenerazione è

più veloce negli individui di sesso femminile [26]. Al contrario, gli

uomini con AD hanno una mortalità più elevata rispetto alle donne.

Partendo da questi ragionamenti, poche settimane fa il gruppo

di ricerca ha identificato quattro nuovi loci: GRID1 , RIOK3

, MCPH1 e ZBTB7C , che mostrano un’associazione specifica tra

il sesso e lo sviluppo del morbo di Alzheimer [27]. E’ il primo

lavoro di sequenziamento dell’intero genoma associato all’analisi

degli effetti specifici del sesso nell’AD. Il riscontro più convincente

è nel gene ZBTB7C che codifica per un repressore trascrizionale

delle metalloproteasi di membrana (MMP), già sospettate di essere

coinvolte nella neuropatologia dell’AD[28], che ora dimostra

conferire un aumento del rischio di AD nelle donne e protezione

nei maschi. Questo nuovo gene, era già accusato di aumentare la

suscettibilità all’ictus ischemico attraverso la modulazione dell’apoptosi

neuronale [29]. MCPH1 invece, codifica una proteina di

risposta ai danni al DNA, implicata anche nella condensazione dei

cromosomi, nella regolazione dello sviluppo della corteccia cerebrale

fetale e nella neurogenesi [30].

La scoperta interessante è che c’è una differenziazione della

previsione in base al sesso, anche negli altri tre geni scoperti

(MCPH1, RIOK3 e GRID1): specifici alleli infatti conferiscono un

aumento del rischio nelle femmine e protezione nei maschi, effetto

opposto a quello mostrato da ZBTB7C.

Oltre all’identificazione di nuovo materiale di studio ed analisi,

questa scoperta dimostra come lo stesso allele possa avere effetti

diametralmente opposti in base al sesso, e apra nuovi orizzonti rispetto

a quelli studiati finora.

88 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


SCIENZE

Allo stato attuale, lo sviluppo di terapie ottimizzate alla riduzione

degli effetti e dei sintomi della malattia si è concentrato principalmente

sulle prime intuizioni dei meccanismi molecolari e sui

percorsi coinvolti nell’AD. Da decenni la disputa su quale delle

alterazioni, le placche di amiloide extracellulare o la degenerazione

neurofibrillare costituisse il primum movens della malattia divide

i ricercatori, che si sono focalizzati principalmente su queste due

opzioni. La costante scoperta di nuovi aspetti genetici, le ipotesi di

ulteriori processi che mettano in relazione i due contrassegni istopatologici,

l’evidenza di possibili combinazione di più fattori genetici

ed acquisiti, stanno fortunatamente condizionando lo sviluppo

di nuovi quadri degenerativi e meccanismi molecolari alternativi,

aprendo le porte a nuove macro-aree di studio.

Man mano che la comprensione dei geni coinvolti nella malattia

evolve, la capacità di identificare individui a rischio e di soggetti

che potrebbero beneficiare di un trattamento più specifico e di una

prevenzione precoce aumenta. Anche se c’è ancora molta strada

da fare nel campo dell’AD prima che venga chiarito in modo netto

e preciso il quadro patologico, c’è motivo di cauto ottimismo

nella continua scoperta di nuovi protagonisti coinvolti nell’AD e

nell’impatto che la profilazione genetica molecolare può avere nella

decifrazione della biochimica di una patologia così complessa,

nella sua previsione, prevenzione e cura.

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Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

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Rischio biologico

da Covid-19

Conoscere i pericoli ai quali il lavoratore è esposto e poterli classificare

in base alla pericolosità è il presupposto fondamentale

per la “messa in sicurezza” dell’individuo e delle sue attività

di Giorgio Liguori * e Marco Guida **

Gli agenti biologici costituiscono una presenza imprescindibile

e costante dell’ambiente nel quale viviamo tant’è

che, secondo alcuni AA, “l’uomo è specie animale che

vive immersa nei microrganismi”.

Nel tempo, gli esseri umani hanno imparato a convivere con la

maggior parte delle specie microbiche, e queste con lui, trovando

diverse soluzioni di pacifica convivenza: indifferenza (vita libera),

commensalismo, saprofitismo, simbiosi.

Se si considera poi che obiettivo primario di tutti gli organismi

viventi è l’evoluzione in termini di miglioramento e diffusione della

specie sul pianeta, con garanzia di progenie fertili, risulta chiaro che

la conflittualità tra specie, costituendo tutt’altro che un vantaggio ai

fini della sopravvivenza, non facilita tale percorso evolutivo.

L’uomo impara da subito, appena dopo la nascita, a convivere

con il microcosmo (colonizzazione) ed a concordare alleanze (commensalismo

e simbiosi mutualistiche) così che molte specie, batteriche,

micotiche, protozoarie, diventano gli “alleati” più fedeli nel

*

Professore Ordinario di Igiene generale e applicata,

Dipartimento di Scienze Motorie e del Benessere, Università

degli Studi di Napoli “Parthenope”.

**

Professore Ordinario di Igiene generale e applicata,

Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Napoli

“Federico II”.

difenderlo dagli insulti infettivi provenienti dall’esterno. Se si considera

la molteplicità e la varietà dei microrganismi oggi conosciuti,

risulta evidente come le specie patogene ne costituiscano solo una

piccola parte, veramente “poca cosa” rispetto a quante presenti sul

pianeta. La patogenicità ed il parassitismo, soprattutto quello obbligato,

rappresentano dunque uno svantaggio ai fini del progetto di

evoluzione di ciascuna specie vivente.

Queste semplici considerazioni rappresentano il presupposto

con il quale è stato affrontato anche dal legislatore il problema dei

rischi infettivi (rischio biologico) sui luoghi di vita e di lavoro. Conoscere

i pericoli, in questo caso gli agenti patogeni ai quali il lavoratore

è esposto, poterli classificare in base ad un gradiente di pericolosità

(patogenicità, contagiosità, disponibilità di presidi farmacologici) e

valutare il livello di esposizione (anche solo potenziale) rappresentano

i presupposti fondamentali per l’implementazione delle strategie,

misure ed azioni orientate alla “messa in sicurezza” del lavoratore e

delle sue attività.

Cos’è la sicurezza?

La mission dell’Igiene è diffondere la cultura della “Salute” quale

bene fondamentale da tutelare e mantenere il più a lungo possibile.

Uno stato di benessere psico-fisico e sociale che può essere reso

migliore anche attraverso l’eliminazione, se realizzabile, la riduzione

ed il contenimento dei molteplici rischi per la salute.

Qual è la differenza tra pericolo e rischio?

Mentre per pericolo si definisce una caratteristica “intrinseca”

di un agente fisico, chimico o biologico capace di arrecare danno

90 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


ECM

ad ospiti umani, per rischio va intesa invece la

probabilità di venirne esposti in condizioni di

vulnerabilità (assenza di misure di prevenzione

e protezione). Quanto più il rischio è elevato,

tanto più probabili saranno gli effetti (i

danni) che ne deriveranno a seguito dell’esposizione.

In altre parole, il danno, così come la

sua gravità, dipendono dalle probabilità che

hanno i percoli di “estrinsecarsi” se non individuati

e contenuti. Il pericolo è una “caratteristica

certa” che bisogna conoscere; il rischio

è una variabile, la probabilità che il pericolo

dia evidenza di sé provocando effetti negativi,

una variabile da gestire nel modo migliore

(risk management).

Il Valore è dunque: Sicurezza uguale

Salute. Sicurezza intesa come salubrità degli

ambienti (sia outdoor che indoor), idoneità Tabella 1.

di strutture, macchine, attrezzature, presidi,

organizzazione del lavoro, ecc. Sicurezza intesa,

anche e soprattutto, come conoscenza di

pericoli-rischi e consapevolezza del ruolo che

ciascun lavoratore, ciascuna persona, può giocare

nel gestire la propria Salute.

Ultima premessa funzionale a ciò che segue

è che la Sicurezza sui luoghi di lavoro deve

essere intesa ed elaborata come “professionalità”.

“La sicurezza è questione culturale, di

approccio alla professione. Spesso siamo noi

stessi artefici della nostra sicurezza e dunque

la garanzia della nostra salute. Non é ammissibile,

né giustificabile affidare la sicurezza solo

alla disponibilità ad investire risorse materiali.

Non ci riusciremmo”.

In tale ottica, la formazione e l’aggiornamento

continuo sulle conoscenze dei pericoli

e delle misure utili a ridurre/contenere i rischi

derivanti dalla potenziale esposizione a questi,

assume un ruolo decisivo ed irrinunciabile ed

un preciso compito al quale il datore di lavoro Tabella 2.

deve assolvere, caricandosi obblighi e responsabilità

ed a cui il lavoratore deve approcciare in modo consapevole

ed atteggiamento positivo.

La valutazione del rischio biologico

Da anni il rischio biologico è normato dal titolo X del D.Lgs

81/08 “Tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, che ha

aggiornato quanto promulgato con il D.Lgs. 626/94 (Titolo VIII -

Rischi da agenti biologici).

In esso, gli agenti biologici potenzialmente pericolosi per i lavoratori

vengono presi in esame secondo la capacità complessiva di

provocare infezione, allergia o intossicazione; sulla base di tali caratteristiche

vengono classificati in 4 gruppi, di cui il quarto assomma

tutte le peculiarità negative (Tabella 1).

Esistono evidenti criticità nel valutare il rischio biologico perché,

al contrario di quanto accade per altri rischi (chimico, fisico, movimentazione

dei carichi, ecc), numerose e interdipendenti tra loro sono

le variabili che entrano in gioco dal momento dell’esposizione a quello

dell’eventuale danno conclamato (malattia). Tra queste vanno distinte

quelle proprie dell’agente biologico (carica infettante, patogenicità e

virulenza), quelle riferite all’ospite umano (età, sesso, costituzione, stato

di salute, efficienza del sistema immunitario, ecc.), nonché ulteriori

variabili correlate alle vie di trasmissione (contagiosità) e all’ambiente

fisico (outdoor/indoor) e sociale (relazioni, comportamenti). La tabella

2 ne riassume le principali criticità.

La principale criticità nell’applicare la metodologia è l’assenza di

valori-soglia; altre di riscontro frequente sono l’insufficienza di dati

epidemiologici e le analogie tra l’accertamento del rischio biologico ed

quello relativo ad altre tipologie di rischio, ad esempio cancerogeno.

Sempre ai fini della valutazione, altro aspetto essenziale è l’identificazione

preliminare delle attività lavorative per le quali è previsto

l’uso deliberato di agenti biologici (rischio noto) rispetto a quelle

per le quali il rischio di esposizione è sporadico e/o imprevedibile

(legato ad imprevisti/incidenti).

Tra queste ultime vanno annoverate, ad esempio, le attività professionali

che comportano un rischio di esposizione per manipolazione

e impiego di materiali biologici potenzialmente contaminati

oppure la presenza di microrganismi nell’ambiente stesso di lavoro

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

91


ECM

(laboratorio biomedico e veterinario). In entrambi i casi, ma soprattutto

per le attività e gli ambienti lavorativi per i quali non è previsto

il contatto diretto con sorgenti di infezione (soggetti e animali malati),

la sottostima del rischio reale è di per sé il rischio maggiore che

si può presentare.

Il laboratorio rappresenta una delle aree a maggior rischio di

trasmissione di agenti infettivi. Secondo dati dell’Istituto Lazzaro

Spallanzani di Roma di qualche anno fa, sarebbero oltre 5.000 i

casi di infezioni segnalate in laboratorio, con una letalità media del

4% circa. L’aumento dei carichi di lavoro e l’introduzione di nuove

tecnologie, verificatisi soprattutto nell’ultimo trentennio, hanno ampliato

in modo significativo la necessità di integrare le tecniche di

processazione dei campioni biologici con le procedure di sicurezza.

Va precisato che la valutazione è solo un momento dell’intera

filiera di “gestione del rischio” che è attività complessa ed articolata

in fasi distinte che, in riferimento a quanto fin qui descritto, possono

essere così riassunte:

- individuazione dei pericoli

- valutazione dei rischi

- adozione delle misure e degli interventi efficaci per il contenimento

(eliminazione/riduzione dei rischi, protezione dall’esposizione).

Nel laboratorio biomedico, le modalità di trasmissione degli

agenti biologici possono essere ricondotte alle seguenti 4 modalità:

1. inalazione

2. ingestione

3. inoculazione

4. contaminazione

Per ciascuna di queste, il legislatore individua una serie di variabili

che entrano in gioco ma delle quali, come mostrato nella Tabella

3, solo 4 devono essere considerate in ogni caso (voci in corsivo sottolineate).

Per quanto attiene la tipologia degli agenti biologici ed i

criteri adoperati per la loro classificazione, il legislatore considera,

come già ricordato in premessa, le seguenti caratteristiche proprie

di ciascun microrganismo: carica infettante, patogenicità e virulenza.

Mentre la patogenicità definisce il meccanismo di azione con cui

Tabella 3.

l’agente biologico può provocare danno in ospiti umani (ad esempio:

produzione di tossine, distruzione di particolari cloni cellulari,

ecc.), la virulenza rappresenta la severità del danno procurato. Si sa

come ceppi diversi di una stessa specie microbica, dotati dell’identico

meccanismo di azione patogena, possano invece avere variabile

grado di virulenza e con differenze anche significative nella valutazione

dell’impatto in termini di morbosità e mortalità (ad esempio,

i virus influenzali)

Le altre tre variabili presenti in tutte e quattro le modalità di trasmissione

(formazione, sistemi di protezione, procedure di lavoro)

attengono invece all’organizzazione e gestione delle attività lavorative,

nonché a precisi obblighi e responsabilità a carico del datore di

lavoro e del lavoratore.

Sulla base di tali elementi e della classificazione delle modalità di

trasmissione degli agenti biologici in 4 gruppi, il legislatore ha realizzato

uno strumento con il quale essere in grado di “classificare oggettivamente”

qualsiasi luogo di lavoro, e conseguentemente, ai fini della

sicurezza, predisporre, organizzare ed intervenire su ambienti e strutture,

impianti e attrezzature, procedure e organizzazione delle attività.

Il punto essenziale resta la classificazione dei microrganismi (i

pericoli) sulla base della quale consegue tutto l’approccio successivo.

A tale scopo, tutti i microrganismi conosciuti per essere causa

potenziale di infezione/malattia nell’uomo vengono ripartiti in classi

(2-4 in Tabella 1) sulla base dei seguenti 3 criteri:

1. patogenicità, ovvero la possibilità di costituire rischio (serio,

per quelli delle classi 3-4) per i lavoratori e causare malattie (gravi,

per quelli delle classi 3 e 4);

2. contagiosità, ovvero la possibilità di diffondere tra i lavoratori

e che, dunque, a seguito del caso primario (caso indice) possano

verificarsene degli altri (focolaio epidemico, epidemia, pandemia).

Anche in questo caso esiste un gradiente: classe 2 microrganismi con

poca attitudine alla propagazione in comunità; classe 3 con probabilità

di propagazione; classe 4, con elevato rischio di propagazione.

3. gestione farmacologia, ovvero la disponibilità di farmaci

efficaci da impiegare ai fini profilattici (sieri e vaccini) e terapeutici

(medicinali). Alla classe 4 appartengono i microrganismi

per i quali tale tipo di approccio è impossibile

perché non disponibili farmaci adeguati.

(Tabella 1).

Nell’allegato XLVII, parte integrante, del D.

Lvo 81/08 (ex allegato XI del D Lgs 626/04) sono

elencati (con riferimento a Genere e specie) tutti

gli agenti biologici delle classi 2, 3 e 4, con indicati,

per ciascuno con lettera maiuscola dell’alfabeto

e 1-2 asterischi, a seconda dei casi, talune

peculiarità. In particolare, alle lettere è attribuito

il significato:

A: agente biologico che può causare possibili

effetti allergici;

D: agenti che possono provocare effetti a distanza

di anni; il datore di lavoro è tenuto a conservare

l’elenco dei lavoratori esposti a tale agente

biologico per almeno 10 anni dalla cessazione

dell’ultima attività comportante la potenziale

esposizione;

T: agente che produce tossina/e;

V: disponibilità di vaccino efficace.

Il doppio asterisco è presente per taluni agenti

classificabili per caratteristiche al Gruppo 3 (vi-

92 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020


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rus dell’epatite B e C, virus HIV) ma nei confronti dei quali, non

essendo ad oggi dimostrata la possibile trasmissione per via aerea,

possono venir implementate le misure di biosicurezza previste per

quelli appartenenti alla classe precedente (classe 2).

Nell’allegato XLVII sono riportati in elenco unicamente gli

agenti biologici di cui è noto che possono provocare malattie infettive

in soggetti umani (classi 2-4). Poiché, come descritto, non è applicabile

il concetto di dose (concentrazione integrata sul tempo di

esposizione), anche per capacità di autoreplicazione dei microrganismi,

il parametro che assume maggior significato ai fini preventivi e

di valutazione del rischio è l’esistenza o meno di una carica infettante

minima, cioè il numero minimo di unità biologiche in grado di infettare

il soggetto con esito patologico; essa dipende poi anche dalle

condizioni ambientali e dallo stato di salute del soggetto esposto (in

particolare dalle sue caratteristiche immunologiche). (Figura 1)

È bene ribadire che la classificazione degli agenti patogeni si

basa sull’effetto esercitato dagli stessi sui lavoratori sani e non tiene

conto dei particolari effetti a carico di quei lavoratori la cui sensibilità

potrebbe essere modificata da altre cause quali malattie preesistenti,

uso di medicinali, immunità compromessa, etc.

Il legislatore dunque individua, per ciascuno dei 4 gruppi di

microrganismi, livelli di rischio differente e, in relazione a questi,

4 livelli di bio-contenimento del rischio, da implementare quando

possibile già in fase progettuale, alla luce di quanto emerso e riportato

nel documento di valutazione del rischio biologico.

Per ciascun tipo di laboratorio, classificati anch’essi in 4 classi

corrispondenti a quelle degli agenti biologici cui il lavoratore è potenzialmente

esposto, dovranno essere messe in atto misure di contenimento

individuale (Dispositivi di Protezione Individuale - DPI),

organizzative e di contenimento ambientale, secondo le indicazioni

presentate in Tabella 4.

In questo modo, sulla base dei criteri e della metodologia adoperati,

risulta possibile distinguere per ciascuna tipologia di microrganismo,

e relativo gruppo di appartenenza, il livello di rischio

individuale e collettivo cui sono potenzialmente esposti i lavoratori

(Tabella 5). In relazione a come effettuare la valutazione del rischio

biologico, esistono criteri generali ed a riguardo anche l’Unione Europea

si è espressa anche attraverso documenti tecnici molto recenti.

L’orientamento, in tal senso, è che la valutazione della probabilità e

della gravità di possibili lesioni derivanti da una situazione lavorativa

“a rischio” costituisca il presupposto sulla cui base implementare le

misure di sicurezza più idonee ed adeguate e programmare i tempi

di intervento.

La formula che viene generalmente impiegata è R = P x D nella

quale: R indica il rischio, P la probabilità o la frequenza di accadimento

dell’evento dannoso e D l’entità degli effetti da questo procurati.

La formula conduce a 3 diversi livelli di rischio (alto, medio e

trascurabile) in relazione ai quali viene formulato un giudizio e stabilita

la priorità degli interventi da realizzare (fascia A - urgente; fascia

B - nel medio periodo; fascia C - programmabile).

Il valore del rischio (R) può variare da 1 a 9 in ragione del punteggio

assegnato a D (da 1 a 3) e a P (da 1 a 3) in seguito ai rilievi

effettuati in fase di verifica/sopralluogo presso l’ambiente di lavoro.

Per quanto attiene D, i criteri di attribuzione dello score sono:

1 gli esposti sono in numero limitato e comunque gli effetti

non comportano danni;

2 il fattore di rischio può coinvolgere un numero limitato di

lavoratori e il danno è limitato e reversibile;

3 il fattore di rischio può coinvolgere un numero consistente

* solo per attività di sperimentazione su animali

** disponibile

° se l’infezione è veicolata dall’aria

R = raccomandato

F = facoltativo

Tabella 4. Misure di contenimento individuale, organizzative ed ambientali da implementare in

relazione alla classe di rischio.

di lavoratori e/o il danno essere irreversibile.

I criteri con cui si assegna il punteggio all’indice P sono invece:

1. non sono noti episodi in cui si sia verificato un danno (rischio

trascurabile);

2. il fattore di rischio può provocare un danno solo in circostanze

occasionali. Non sono noti o sono noti solo rari episodi già

verificatisi. Non esiste una correlazione tra l’attività e un migliore

andamento infortunistico e/o di malattie professionali su un periodo

significativo (3-5 anni);

3. il fattore rischio può provocare un danno, anche se non in

maniera automatica o diretta. È noto qualche episodio che, per la tipologia

considerata, ha dato luogo a danno. Esiste una correlazione

tra l’attività e un migliore andamento infortunistico e/o segnalazione

di malattie professionali su un periodo significativo (3-5 anni).

Dalle possibili combinazioni, in applicazione alla precedente

formula, si ricava l’indice R, vale a dire l’entità del rischio e dunque

la fascia di priorità dell’intervento da implementare.

Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020

93


ECM

Tabella 5.

Dal punto di vista metodologico, e come indicato chiaramente

nel D.Lgs. 81/08, il datore di lavoro, nel valutare il rischio biologico,

deve pertanto tener conto di tutte le informazioni disponibili relative

alle caratteristiche degli agenti e delle modalità lavorative, con

particolare riferimento alla classificazione riportata nell’allegato XL-

VII o, in assenza di questa, sulla base delle conoscenze disponibili.

Tali informazioni devono essere integrate adeguatamente con i dati

inerenti il processo lavorativo in tutte le sue fasi, i lavoratori esposti,

l’organizzazione della prevenzione, le misure di contenimento

adottate ed il piano di emergenza, nell’eventualità di esposizione ad

agenti biologici di classe III e IV.

A tale scopo va predisposta una check-list sulla cui base esaminare,

per ogni singola realtà lavorativa, tutte le variabili che possono

entrare in gioco. Obiettivo dell’analisi della check-list è individuare

la classe di rischio e conseguentemente valutare l’adeguatezza delle

misure di prevenzione e delle procedure esistenti e, ove necessario,

la necessità di ulteriori misure di prevenzione da adottare.

La valutazione del rischio biologico è dunque attività “di campo”,

che va realizzata mediante sopralluoghi e rilievi

effettuati preliminarmente e periodicamente durante lo

svolgimento delle attività per verificare le effettive condizioni

di lavoro della specifica realtà e comprenderne

appieno le dinamiche.

Non esistono modelli precostituiti né è lecito o

possibile far riferimento esclusivamente a documenti

“standard” (protocolli e procedure) oppure attenersi a

quanto dichiarato da responsabili, preposti e lavoratori.

Per valutare adeguatamente tipologia e livello di rischio

legata ad una specifica attività, necessita che questa sia

vagliata “in loco”, attraverso momenti di analisi e monitoraggio,

considerando prioritariamente gli aspetti organizzativi,

di distribuzione dei carichi lavorativi, delle

mansioni e delle responsabilità.

Tutto quanto fin qui esposto, richiama e rafforza il principio,

per altro già espresso, secondo il quale la sicurezza deve essere, per

ogni realtà e singolo lavoratore, innanzitutto elemento “culturale”

fondato sui principi di conoscenza e consapevolezza, orientata alla

prevenzione e finalizzata alla “professionalità”.

Tabella 6.

Foto 1. Storia naturale di una malattia.

Bibliografia essenziale

Tabella 7. Esempio di check-list per l’individuazione della classe di rischio ai fini della valutazione

del rischio biologico.

- D. Lgs. 9 aprile 2008 n.81. Attuazione dell’articolo 1 della legge 3

agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza

nei luoghi di lavoro. GU n. 101 del 30.4.2008 - Suppl. Ordinario n.108.

- INAIL. Il rischio biologico nei luoghi di lavoro; schede tecnico-informative.

Milano, 2011.

- Frusteri L, De Grandis D, Scarlini F, Pontuale G. Manuale per la

valutazione del rischio biologico. EPC Editore, 2019.

- Direttiva UE 2019/1833 della Commissione del 24.10.2019 che modifica

agli allegati I, III, V e VI della Direttiva 2000/54/CE del Parlamento

Europeo e del Consiglio per quanto riguarda gli adattamenti di

ordine strettamente tecnico. G.U. L279/54 del 31.10.2019.

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Chiara Di Martino, Domenico Esposito, Giada Fedri,

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Stefania Papa, Carmen Paradiso, Maria Carlotta Rizzuto,

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