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Maggio 2020 | Anno III - N. 5 | www.onb.it
Il Giornale dei
Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132
SALUTE ED ECONOMIA
NELL’ITALIA CHE RIPARTE
Riprendono le attvità commerciali in tutto il Paese
nel rispetto delle norme sulla sicurezza sanitaria dei cittadini
Guarda Onb Tv sul sito www.onb.it
o sull’App dell’Ordine dei Biologi
II Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
Ordine Nazionale dei Biologi
Sommario
EDITORIALE
3
Lorsignori
di Vincenzo D’Anna
38
PRIMO PIANO
SALUTE
6
Covid-19, la curva epidemica si sta piegando
dal lato giusto
di Daniele Ruscitti
20
Malattia di Kawasaki. In Italia colpisce
annualmente 14 bimbi ogni 100mila
di Marco Modugno
8
9
10
Qualità dell’aria e Covid-19
di Daniele Ruscitti
Nessun rischio dall’uso di farmaci ipertensivi
di Daniele Ruscitti
Premio GreenCare 2020 ad Alessia D’Angelo
22
24
Impronta digitale microbica: tale madre
tale figlio?
di Chiara Di Martino
È la cellula madre a decidere se la cellula
figlia si dividerà
di Sara Lorusso
11
Siglato il nuovo atto costitutivo dell’Ecba
26
Le malattie professionali tabellate del 2020
di Pasquale Santilio
27
Trovato un gene che causa difetti metabolici
di Carmen Paradiso
28
Panico, ansia, traumi: come il cervello collega
eventi distanti nel tempo
di Chiara Di Martino
12
14
16
18
BIOLOGIA DEL PALAZZO
Coronavirus, il ruolo dell’Oms.
Ecco com’è andata
di Riccardo Mazzoni
Zero burocrazia e riforme strutturali. L’Italia
alla prova della ripartenza
di Riccardo Mazzoni
INTERVISTE
Anna Bagnato e la ricerca sul tumore
alle ovaie
di Carmine Gazzanni
24
78
Il “silenzio assordante” del mare in quarantena
di Carmine Gazzanni
30
32
34
36
38
40
Leggere le emozioni con un radar a onda
continua
di Sara Lorusso
Il gene che controlla l’attività elettrica cerebrale
di Marco Modugno
Malattie neurodegenerative da Trento una
chiave genetica
di Domenico Esposito
Scoperto il gene ZNF398. Consente alle
staminali di restare sempre giovani
di Domenico Esposito
Sport e calvizie: come l’attività fisica incide
sulla perdita di capelli
di Biancamaria Mancini
Il mondo si è fermato, ma non la filiera
agro-alimentare
di Maria Carlotta Rizzuto
Attualità Scienze Contatti
43
44
Riprogrammare le cellule per ringiovanire
di Carla Cimmino
Intelligenza artificiale e dermatologia
di Sara Lorusso
64
BENI CULTURALI
In Vaticano, scoperta una nuova opera
di Raffaello
di Pietro Sapia
65
L’Urlo di Munch “deumidificato”
di Felicia Frisi
STORIA E RICERCA
46
66
Il Corpus Hippocraticum e il suo contributo
al progresso scientifico
di Barbara Ciardullo
46
AMBIENTE
I patriarchi verdi del nostro Paese
di Gianpaolo Palazzo
68
La medicina nell’antichità
di Barbara Ciardullo
SPORT
48
Deforestazione e Amazzonia, così cresce
il rischio pandemie
di Giacomo Talignani
70
Tifosi di cartone, drive-in e proteste a distanza:
l’Europa torna a far gol
di Antonino Palumbo
50
52
53
Smart working, un alleato per la salute
dell’ambiente
di Gianpaolo Palazzo
Il condizionatore funziona senza elettricità
di Gianpaolo Palazzo
L’Ecologia molecolare per salvare la meiofauna
di Pasquale Santilio
72
73
74
L’ultimo ballo (in TV) di Air Jordan
di Antonino Palumbo
Riaprono palestre e piscine: ecco le regole
di Antonino Palumbo
BREVI
LAVORO
54
Il mondo caldissimo che avremo nel 2070
di Giacomo Talignani
76
Concorsi pubblici per Biologi
56
Save the Queen
di Felicia Frisi
SCIENZE
INNOVAZIONE
78
Prevedere l’insorgenza e l’impatto della demenza
di Sara Lorusso
58
Il futuro dell’ultravioletto per sanificare
le mascherine
di Giacomo Talignani
82
Esposizione ripetuta a taglie diverse
e soddisfazione del corpo
di Sara Lorusso
60
In spiaggia con i distanziatori ecosostenibili
di Felicia Frisi
86
Le basi genetiche della malattia di Alzheimer
di Giada Fedri
61
Comunità energetiche per il low-carbon
di Felicia Frisi
ECM
62
Un micro-orto a seimila km dalla Terra
di Pasquale Santilio
90
Rischio biologico da Covid-19
di Giorgio Liguori e Marco Guida
Attualità Scienze Contatti
EDITORIALE
Lorsignori
di Vincenzo D’Anna
Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi
Benché sia sempre più
nota e meritoria l’azione
svolta dai Biologi,
non progredisce di pari
passo la conoscenza
dei loro meriti
nell’opinione pubblica
All’atto della mia elezione come presidente
del Consiglio dell’Ordine
Nazionale dei Biologi e fino ad oggi,
una domanda è inciampata quotidianamente
nei miei pensieri di primo rappresentante
e responsabile politico di una vasta
comunità associativa: che ruolo dobbiamo
reclamare affinché i Biologi e le scienza biologica
abbiano il giusto riconoscimento e
l’apprezzamento che è loro dovuto?
Una scienza, la Biologia, che si avvale di
nuove scoperte in vasti e sconosciuti
orizzonti, che si segnala
con cadenza continua,
all’attenzione della opinione
pubblica, per i problemi che
risolve e le speranze di ulteriori
progressi scientifici che
suscita nel mondo intero. Speranze
di poter allungare e migliorare
la vita della comunità
umana; di curarne le malattie
con diagnosi e terapie genetiche
personalizzate; di proteggere
dalla devastazione di
origine antropica l’ecosistema
mondiale, riducendo l’impatto negativo
dell’ambiente inquinato sul patrimonio genetico
dell’umanità, un danno epigenetico il
cui progressivo ampliarsi minaccia il basilare
principio biologico di conservazione delle
specie e della biodiversità.
E tuttavia, ancorché sia sempre più nota
e meritoria l’azione svolta dai Biologi, non
progredisce di pari passo la consapevolezza
e la conoscenza dei loro meriti, sia nella opinione
pubblica sia presso le istituzioni politiche
e parlamentari. Un ritardo che è certo
imputabile ai profili bassi assunti, in epoche
passate, dall’Onb, nella non adeguata rappresentanza
degli interessi della categoria.
Ma non solo. Certamente è mancato lo spirito
identitario, il sentimento di appartenenza
alla nostra comunità, che tuttora è ancora
scarso tra i cinquantamila iscritti all’Onb,
lo dicono chiaramente anche i sondaggi di
opinione che abbiamo commissionato. Sono
ancora molti gli iscritti che si rifiutano di
rendersi disponibili a dare
un giudizio, un suggerimento,
una critica costruttiva.
La lamentazione e la commiserazione
inconsolabile è
ancora l’elemento distintivo
della espressione caratteriale
dei Biologi Italiani. Sono
migliaia i Biologi che disertano
l’obbligo di iscriversi al
proprio ordine, esercitando
spesso abusivamente l’attività
professionale, sottraendo
a tutti noi risorse economiche
e il peso della rappresentanza
innanzi alle autorità.
Nonostante una politica di costante apertura
e di dialogo attraverso gli strumenti
di comunicazione e informazione realizzati
nell’ultimo biennio, ci sono in giro ancora
molte consorterie, associazioni e gruppi
chiusi che sembrano addirittura distinti e distanti
dalla vita e dalla conoscenza delle molteplici
attività poste in essere dal Consiglio
dell’Ordine. Una frammentazione inspiegabile,
dopo i profondi mutamenti realizzati
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
3
nell’Onb, che crea dispersione, disarmonia,
lontananza e disincanto, indebolendo la capacità
negoziale con il decisore politico.
Nei recenti webinar ai quali ho partecipato,
si sono aperte valide interlocuzioni
con molti di questi gruppi di colleghi ed è
stato avviato un fecondo dialogo che sta sviluppandosi
e approderà certamente a intese.
Nel frattempo, al di là delle nostre colpe
e della diffusa incuria che serpeggia tra
le fila di migliaia di colleghi, dentro e fuori
all’Onb, si deve registrare una disattenzione
e una scarsa conoscenza da parte delle istituzioni
politiche e socio-sanitarie delle istanze
dei Biologi. Una distrazione che non trova
giustificazioni e che va colmata nel più breve
tempo possibile. Non è più accettabile per la
nostra categoria, ormai parificata alle altre
nell’ambito delle professioni sanitarie, che si
possa disconoscere un criterio di pari dignità
e considerazione tra tutte le categorie che
operano nel comparto della sanità.
In queste settimane sono
In queste settimane
sono stato costretto
più volte a intervenire
pubblicamente per
protestare innanzi a
dimenticanze e disparità,
in danno dei Biologi
stato costretto più volte a intervenire
pubblicamente per
protestare innanzi a dimenticanze
e disparità, in danno
dei Biologi, emerse in provvedimenti
di legge. Legislazione
adottata dal Governo,
attraverso la decretazione
d’urgenza, che non lascia
molto spazio ad interventi
da parte dell’Ordine. Norme
adottate per fronteggiare il
Covid-19, ma che non hanno
tenuto conto dell’impegno
e dei meriti di tutte le figure professionali
impegnate sul fronte del contrasto alla epidemia.
C’è stata una lunga fila di omissioni.
Si è cominciato con il reiterare l’annosa disparità
del mancato riconoscimento di borse
di studio agli specializzandi non medici,
aggiungendo solo per i medici altre quattromila
borse di studio. Eppure le provvigioni
governative, stanziate per fronteggiare la
crisi economica conseguente alla chiusura
delle attività produttive, ammonta ad oltre
un centinaio di miliardi di euro, dei quali
alcune decine per il Sistema Sanitario Nazionale.
È ben strano che non si reperiscano
fondi per colmare questa annosa ed odiosa
disparità tra professionisti. Si è proseguito
consentendo agli specializzandi medici, al
terzo anno di corso, di poter partecipare ai
bandi e agli avvisi per copertura di posti nel
SSN, con disuguaglianze per tutte le categorie
non mediche. Ed ancora la disparità di
non citare nel cosiddetto Decreto Cura Italia
i Biologi ospedalieri tra i beneficiari del
premio di produzione per la lotta al Covid
riconosciuto ai medici e finanche ai tecnici
di laboratorio! La saga delle dimenticanze si
conclude con il procedimento di legge a sostegno
alla Scuola, nel quale viene introdotto
ed approvato dal Senato un emendamento
da parte della opposizione leghista, che
riconosce solo a medici, farmacisti e infermieri
l’abbuono, automatico, dei cinquanta
crediti ECM per l’anno in corso.
Unica parentesi positiva, per i nostri
iscritti, è quella di essere stati inseriti nel
DPCM del 9 marzo 2020, in modo che la
categoria possa rientrare tra quelle per le
quali si può procedere con le assunzioni
per scorrimento di graduatoria, per avviso
pubblico oppure concorso per assunzioni
ordinarie e straordinarie previste per la
lotta al Covid-19, oltre ai posti emersi dalla
nuova programmazione dei fabbisogni. Una
parentesi certo felice che sta consentendo a
centinaia di Biologi in tutta
Italia di poter entrare nelle
fila del Sistema Sanitario. Ma
non possiamo né dobbiamo
accontentarci.
Occorre una strategia di
oculata protesta critica che
indichi al decisore politico
la strada dell’equiparazione
dei Biologi alle altre categorie,
forse più note e numerose,
con maggiore peso
politico ed elettorale, ma
non più meritevoli della nostra.
Come realizzare questa
strategia sarà materia di discussione per le
iniziative da intraprendere nel programma
che il Consiglio dell’Ordine si accinge a definire
nell’ultimo scorcio della consiliatura.
Uno scorcio ancora consistente, ma che non
durerà in eterno se il futuro lo aspetteremo
inermi, accettando supinamente uno stato
di semi clandestinità per la nostra comunità.
Non si può certo attendere che le castagne
dal fuoco le tolgano in futuro gli Ordini
Regionali che prenderanno vita attraverso il
decentramento amministrativo che, a metà
dell’anno 2022, prenderà vita.
In questo arco di tempo, bisogna insistere
e stare col fiato sul collo ai governanti e
alle istituzioni ministeriali preposte ad adottare
i provvedimenti legislativi necessari. Insomma,
non bisogna demordere né coltivare
complessi di sudditanza nei confronti di
nessun’altra categoria né degli interlocutori
politici. In fondo, qualcuno dovrà pur dare
la sveglia a Lorsignori.
4 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
INAUGURAZIONE
DELLA SEDE REGIONALE
DI EMILIA-ROMAGNA
E MARCHE DELL’ONB
BOLOGNA*
25 settembre 2020
Ore 10:30
Interventi:
Sen. dott. Vincenzo D’Anna
Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi
Dott. Pietro Sapia
Consigliere tesoriere dell’Onb e delegato
regionale di Emilia-Romagna e Marche
Dott. Massimo Zerbini
Commissario della delegazione
di Emilia-Romagna e Marche
Autorità convenute
*Via Corticella 89/2
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
www.onb.it
5
PRIMO PIANO
di Daniele Ruscitti
Anche se la curva epidemica si
sta piegando dal lato giusto e
tutti i dati relativi all’apertura
del 18 maggio non trasmettono
messaggi preoccupanti, gli italiani dovranno
aspettare ancora qualche giorno per
capire se la tempesta è davvero passata.
L’ipotesi di una ricaduta e di un secondo
pesantissimo lockdown, trattengono i giudizi
positivi sui numeri registrati rispetto
ad una pandemia che in Italia ha già provocato
più di 33mila morti, colpendo più
di 230mila persone.
«I dati ci dicono che la curva si sta piegando
dal lato giusto, anche se a livello globale
siamo ancora in piena pandemia, ma
a leggere i dati di oggi possiamo dire che
il Paese ha retto l’apertura del 4 maggio
- spiega il ministro della Salute, Roberto
Speranza - Avremo bisogno di aspettare ancora
un po’ di giorni perché si consolidino
i dati relativi all’apertura del 18 maggio».
E questo «perché il tempo di incubazione
medio del virus è tra 5-6-7 giorni».
Speranza auspica che il vaccino contro
Covid-19 «arrivi il prima possibile anche
perché la ricerca globale sta facendo
uno sforzo senza precedenti. Ma non c’è
scritto da nessuna parte che c’è una data
certa per il vaccino. Quindi fino ad allora
dobbiamo tenerci pronti per una eventuale
seconda ondata. Un giorno, sconfitto il
coronavirus, aver dotato il Paese di posti
letto aggiuntivi in terapia intensiva ci avrà
resi più forti».
Inoltre, garantisce il ministro, nel giro
di pochi mesi avremo una autonoma produzione
italiana di mascherine, che ci consentirà
di essere pienamente autosufficienti
e indipendenti dal mercato internazionale.
Anche l’epidemiologo Pier Luigi
Lopalco, professore ordinario di Igiene
all’Università di Pisa e alla guida della
task force anti-covid della Regione Puglia,
predica prudenza. Perché ora «è imprevedibile
quello che può essere l’esito di
questa riapertura con poche cautele. Potrebbe
non sviluppare nulla, soprattutto
in quelle regioni in cui la circolazione del
virus, come nelle isole, è molto bassa, così
come potrebbe aver riacceso dei focolai
epidemici ma di questo ce ne accorgeremo
a metà giugno,
non prima».
Intanto le riaperture
continuano,
dopo quelle di palestre,
centri sportivi e
piscine (25 maggio),
il 3 giugno sul tavolo
la mobilità tra le regioni
e da metà giugno cinema e teatri. «Il
mese di giugno è un mese chiave, decisivo
per fare davvero il punto della situazione e
capire quale sarà la nostra nuova normalità,
quale strategia possiamo portare avanti. Al
momento è assolutamente d’obbligo usare
qualche precauzione e cautela, ma io una
ripresa di circolazione del virus come quel-
Il Ministro Speranza: “Fino
a quando non arriva
il vaccino, teniamoci pronti
per una seconda ondata”
la di marzo la escluderei perché ora siamo
preparati. Potremo vedere un aumento dei
casi, una ripartenza della circolazione del
virus, ma l’impatto sulla salute pubblica
non sarà paragonabile a quello che c’è stato
a marzo. Gli ospedali sono pronti, la sorveglianza
sul territorio funziona abbastanza
bene, non è paragonabile
la situazione in
cui siamo ora rispetto
a qualche mese fa:
eravamo sguarniti,
non eravamo preparati.
Abbiamo imparato
tante cose sia su
come cercare il virus
che come curarlo. La situazione è completamente
diversa».
Messaggi di prudenza che si inseriscono
in un quadro sanitario generale che
vede in Italia, su una popolazione residente
di quasi 51 milioni di persone con più
di 18 anni di età, oltre 14 milioni di persone
convivono con una patologia cronica
6 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SALUTE PRIMO PIANO
COVID-19, LA CURVA
EPIDEMICA SI STA PIEGANDO
DAL LATO GIUSTO
Migliorano tutti gli indicatori ma c’è grande
prudenza: giugno è un mese chiave
© Tetiana Shumbasova/www.shutterstock.com
e di questi 8,4 milioni sono ultra 65enni.
È questo il contesto in cui si è diffusa l’epidemia
da Sars-Cov-2, con gli anziani
sorvegliati speciali perché dai dati emerge
che già dopo i 65 anni e prima dei 75, più
della metà delle persone convive con una
o più patologie croniche fra quelle indagate
e questa quota aumenta
con l’età fino a
interessare complessivamente
i tre quarti
degli ultra 85enni, di
cui la metà è affetto
da due o più patologie
croniche.
C’è inoltre un altro
aspetto sul quale rifletter. La paura del
contagio rischia di vanificare gli importanti
risultati ottenuti finora grazie alla prevenzione
anche secondaria, con il pericolo
concreto nel lungo periodo di un aumento
della mortalità soprattutto per alcune neoplasie
come il cancro al seno che, se individuate
precocemente, consentono nel 90
La paura del contagio
ha bloccato gli screening
per altre patologie e rischia
di rallentare la prevenzione
© Prostock-studio/www.shutterstock.com
per cento dei casi la sopravvivenza a 5 anni
senza segni della malattia. Stefania Gori,
presidente della Fondazione Aiom, segnala
che «in Italia nel 2019 le diagnosi di tumore
sono state 371 mila, mille al giorno, grazie
anche alla prevenzione secondaria, ma durante
il lockdown la pandemia ha bloccato
screening, controlli
periodici e moltissimi
esami diagnostici per
individuare il tumore,
come ad esempio
mammografie e Tac,
con una diminuzione
di 20 mila nuove
diagnosi in due mesi.
Un dato molto preoccupante – prosegue
Gori – in linea con quanto già registrato
in alcuni paesi europei, come ad esempio
l’Olanda, e da poco pubblicato su Lancet
Oncology, che nel lungo termine rischia di
compromettere la sopravvivenza, perché la
diagnosi preventiva cambia il destino delle
persone».
Guanti e mascherine?
Mai per terra
Guanti e mascherine non devono
mai essere gettati per terra.
L’Iss ha aggiornato le indicazioni per
lo smaltimento in ambito domestico
e sul luogo di lavoro. Se si è positivi
o in quarantena obbligatoria mascherine
e guanti monouso, come
anche la carta per usi igienici e domestici
(fazzoletti, tovaglioli, carta
in rotoli) vanno smaltiti nei rifiuti
indifferenziati, possibilmente inseriti
in un ulteriore sacchetto. Per le attività
lavorative i cui rifiuti sono già
assimilati ai rifiuti urbani indifferenziati
mascherine e guanti monouso
saranno smaltiti come tali. L’utilizzo
massivo dei dispositivi di protezione
individuale “determinerà un aumento
significativo dei volumi di rifiuti
ed un possibile impatto ambientale
che necessita di adeguate politiche
di governo del ciclo dei rifiuti” spiega
il ministro della Salute, Roberto
Speranza. “La ripresa progressiva
delle ordinarie attività quotidiane e
lavorative deve avvenire nel rispetto
delle necessarie misure precauzionali
tra cui il distanziamento sociale e
l’utilizzo di dispositivi di protezione
individuale”.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
7
PRIMO PIANO
© Arcansel/www.shutterstock.com
Qualità dell’aria e Covid-19
Al via studio epidemiologico Iss-Ispra per cercare eventuali connessioni
Lo studio delle possibili connessioni tra l’epidemia di
Covid-19 e l’esposizione a inquinanti atmosferici, richiede
approcci metodologici basati sull’integrazione
di diverse discipline: l’epidemiologia ambientale e
quella delle malattie trasmissibili, la tossicologia, la virologia,
l’immunologia, al fianco di competenze chimico-fisiche, meteorologiche
e relative al monitoraggio ambientale. Per dare
delle risposte alle numerose ipotesi emerse sul possibile legame
tra Covid-19 e inquinamento atmosferico, l’Istituto superiore
di sanità (Iss) e l’Istituto superiore per la protezione
e la ricerca ambientale (Ispra) con il Sistema nazionale per la
protezione dell’ambiente (Snpa) hanno avviato uno studio epidemiologico
a livello nazionale per valutare se e in che misura
i livelli di inquinamento atmosferico siano
associati agli effetti sanitari dell’epidemia.
L’inquinamento atmosferico aumenta il
rischio di infezioni delle basse vie respiratorie,
particolarmente in soggetti vulnerabili,
quali anziani e persone con patologie
pregresse, condizioni che caratterizzano
anche l’epidemia di Covid-19. Le ipotesi
più accreditate indicano che un incremento
nei livelli di PM rende il sistema respiratorio più suscettibile
all’infezione e alle complicazioni della malattia da coronavirus.
Nel realizzare lo studio, si terrà quindi conto del fatto
che la diffusione di nuovi casi segue le modalità del contagio
virale e quindi si muove principalmente per focolai (cluster)
all’interno della popolazione e si seguiranno approcci e metodi
epidemiologici per lo studio degli effetti dell’inquinamento
atmosferico in riferimento alle esposizioni sia acute (a breve
termine) che croniche (a lungo termine), con la possibilità di
controllo dei fattori socio-demografici e socio-economici associati
al contagio, all’esposizione a inquinamento atmosferico,
L’inquinamento atmosferico
aumenta il rischio di infezioni
delle basse vie respiratorie
nei soggetti vulnerabili
all’insorgenza di sintomi e gravità degli effetti riscontrati tra i
casi di Covid-19.
«L’emergenza sanitaria della Pandemia di Covid-19 è
una sfida per la conoscenza sotto molteplici punti di vista e
non solo quelli oggi centrali sul fronte dei vaccini e delle terapie”
ricorda il presidente dell’Istituto superiore di sanità,
Silvio Brusaferro, sottolineando però che “altri importanti
quesiti di ricerca richiedono sforzi congiunti. Un esempio è
lo studio odierno che mira ad esplorare il possibile contributo
dell’inquinamento atmosferico alla suscettibilità all’infezione
da Sars-CoV-2, alla gravità dei sintomi e degli effetti sanitari
dell’epidemia», questione oggi molto dibattuta in tutto il
mondo.
«Su questo tema - continua Brusaferro
- assieme a Ispra-Snpa, stiamo proponendo
l’avvio di uno studio epidemiologico
nazionale”. “Il presunto legame tra Covid-19
e inquinamento è argomento divenuto
quotidiano nel dibattito mediatico
e non solo, suscitando da più parti teorie
ed ipotesi che è giusto approfondire ed
a cui è doveroso dare una conferma, per
quel che ci riguarda, tecnico-scientifica. Anche per questo
abbiamo aderito con entusiasmo alla proposta di collaborazione
dell’Iss, con cui già dal 2019 condividiamo gli obiettivi
di un Protocollo di Intesa sui temi che riguardano i rapporti
tra ambiente e salute - ha dichiarato il Presidente di Ispra e
Snpa Stefano Laporta. “Metteremo a disposizione le nostre
competenze in materia di qualità dell’aria e di modellistica
ambientale, per comprendere gli eventuali effetti associati
all’epidemia di CoViD-19. Un esempio concreto per fare rete
e integrazione, un’azione congiunta che crediamo potrà supportare
anche percorsi futuri». (D. R.)
8 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
PRIMO PIANO
© Arthur zhi/www.shutterstock.com
Nessun rischio dall’uso di farmaci ipertensivi
Uno studio fuga i dubbi sulla correlazione con il Covid-19
I
farmaci più utilizzati per la gestione dell’ipertensione arteriosa
(Ace-inibitori e sartani) non sono responsabili di
una maggiore esposizione al rischio di infezione da Covid-19
o dell’aggravamento dei suoi sintomi. A sostenerlo
è uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Università
di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Istituto nazionale
dei tumori di Milano (Int) e l’Agenzia Aria (Azienda regionale
per l’innovazione e gli acquisti ), che è stato pubblicato sulla
rivista scientifica New England Journal of Medicine. Una ricerca,
svolta in Lombardia, mettendo a confronto un totale
di 6272 casi di pazienti affetti da grave infezione respiratoria
determinata dal virus Sars-Cov-2 con 30.759 persone sane.
«Gli antagonisti del recettore dell’angiotensina, i cosiddetti
sartani, e gli Ace-inibitori sono tra i
farmaci più utilizzati al mondo come trattamenti
di prima scelta per il controllo di
ipertensione, scompenso cardiaco, malattie
renali croniche e altre patologie cardiovascolari.
Questi farmaci sono capaci di
aumentare l’espressione dell’enzima Ace2,
considerato una porta d’ingresso per i virus
della famiglia Coronavirus e, da qui, è
nata l’ipotesi che i pazienti curati con queste terapie potessero
essere maggiormente a rischio di infezione da Covid-19 –
commenta Giuseppe Mancia,professore emerito all’Università
degli studi Milano-Bicocca – Lo studio ha invece mostrato che
non c’è nessun elemento di evidenza specifico a indicare che
chi è in cura con questi farmaci abbia un rischio diverso di
contrarre il virus rispetto a chi non è in trattamento. È emerso
che, rispetto al gruppo dei controlli, i pazienti affetti da Covid-19
fanno un uso maggiore del 10-13% di Ace-inibitori e
sartani, ma anche di altri antipertensivi, come betabloccanti e
diuretici, e di altri farmaci come gli antidiabetici».
La ricerca italiana è stata
pubblicata sulla rivista
scientifica New England
Journal of Medicine
«Ad ogni caso di Covid-19 sono stati appaiati casualmente
5 controlli della stessa età, sesso e comune di residenza. Le
informazioni sull’uso di farmaci e sui profili clinici dei pazienti
sono stati ottenuti dalla banca dati regionale di assistenza
sanitaria, mentre per tutto il campione è stato utilizzato un
indice di prognosi, con uno score da 0 a 4, dove il valore più
alto indica uno stato clinico peggiore – spiega il professor Giovanni
Corrao del Dipartimento di Statistica e Metodi Quantitativi
dell’Università di Milano-Bicocca - La nostra analisi ha
evidenziato che i pazienti contagiati dal virus hanno un punteggio
più alto nello score e e fanno un uso più frequente di
farmaci antipertensivi, e sono più affetti da malattie cardiovascolari.
Questo suggerisce che le manifestazioni cliniche del
contagio si manifestano prevalentemente
in individui clinicamente fragili, e tra questi
in pazienti affetti da malattie cardiovascolari
e metaboliche. Tuttavia, farmaci
come Ace-inibitori e sartani non sembrano
avere alcun ruolo diretto nel favorire un
maggior rischio di sviluppo o aggravamento
dell’infezione».
Lo studio ha incluso delle sotto-analisi
in modo da prendere in considerazione eventuali differenze
per sesso o per età (soggetti con più di 60 anni contro soggetti
con meno meno di 60 anni), ma in entrambi casi i risultati
sono stati confermati, senza quindi evidenziare differenze significative
tra i diversi gruppi. Inoltre, è stata indagata anche
l’ipotesi che il rischio per i pazienti in terapia con antipertensivi
non fosse solo un aumento della probabilità di essere
contagiati dal virus, ma di sviluppare la sintomatologia in forma
più severa a causa dell’esposizione ai bloccanti del sistema
renina-angiotensina. L’analisi ha smentito anche quest’ultima
ipotesi. (D. R.)
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
9
PRIMO PIANO
Premio GreenCare 2020 ad Alessia D’Angelo
Conferita alla biologa la Medaglia di Riconoscenza Civica
Premio GreenCare riconosce e sottolinea
il valore di chi è impegnato nella cura, creazione,
tutela e valorizzazione delle aree verdi negli spazi
L’Associazione
urbani. L’obiettivo è sensibilizzare gli amministratori
pubblici e i semplici cittadini ad una maggiore attenzione e cura
nei confronti delle aree verdi metropolitane, polmoni di ossigeno
per i cittadini, ma anche importanti luoghi di aggregazione
e svago.
La Medaglia di Riconoscenza Civica è stata assegnata alla
per l’anno 2020 è stata assegnata alla biologa Alessia D’Angelo,
promotrice attiva della richiesta di sospensione di errati interventi
sul verde urbano che avrebbero interessato numerosi
alberi della specie Quercus ilex, leccio, quercia sempreverde
mediterranea scelta spesso per le alberature in ambiente urbano
perché presenta la caratteristica di adattarsi facilmente ad una
vasta gamma di terreni e per essere
una specie idrostabile, presentando
elevata risposta fisiologica in
carenza idrica.
L’intervento, programmato erroneamente
per fine aprile 2020
a Bagnoli, Napoli, avrebbe compromesso
la nidificazione dell’avifauna
e rischiato di danneggiare la
chioma dei lecci che in primavera
hanno crescita vegetativa, rendendo
le piante suscettibili ad attacchi
di patogeni. Inoltre i lecci appartengono
alla famiglia delle fagacee,
specie note per essere allergeniche,
un intervento meccanico cosi invasivo
avrebbe sollecitato la presenza
di pollini nell’aria, causando le ben La biologa Alessia D’Angelo.
note forme di rinite, congiuntivite e asma, sintomi che in piena
emergenza coronavirus non era opportuno stimolare nella popolazione.
Non appare un caso che sia stata una biologa ecologa a farsi
promotrice come professionista e come cittadina della richiesta
di sospensione di tale intervento chiedendo di rinviarlo in stagione
opportuna, con una visione d’insieme in zoologia, botanica
e allergologia che ha permesso un dialogo preciso ed efficace
con Associazioni e Municipalità. Ricordiamo che la definizione
di ecologia classica nasce nel 1866 ad opera dello scienziato e
filosofo tedesco E. Haeckel, e da allora il suo carattere transdisciplinare
ha assunto sempre maggior consapevolezza e completezza.
Oikos logos lo studio della casa, lo studio quindi delle
complesse relazioni che legano gli organismi e gli habitat è cresciuto
di pari passo con le azioni e gli impatti antropici che modicano
continuamente l’ambiente
stesso.
Il titolo di Ecologo è stato
in passato troppe volte confuso
e messo al pari di un ecologista,
un paladino ambientale mosso da
entusiasmo ed empatia, invece il
Biologo Ecologo è un professionista
che integra una visione d’insieme
capace di fare da trait d’union
in diversi campi e gruppi di lavoro
spaziando dalla microbiologia
alla legislazione vigente in campo
ambientale. Con questo riconoscimento
alla biologia, si auspica una
sempre maggior presenza in ambito
pubblico e privato della preziosa
figura del Biologo Ecologo.
10 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
PRIMO PIANO
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Siglato il nuovo atto costitutivo dell’Ecba
In Olanda è stato rinnovato lo statuto dei Biologi d’Europa
Il 7 febbraio 2020, ad Amersfoort, in Olanda, è stato firmato il
nuovo atto costitutivo dell’Ecba, l’Associazione dei Biologi delle
Comunità Europee. La storia dell’Ecba inizia nel 1975, quando
le associazioni di biologi dei diversi paesi della CEE si sono associate
con lo scopo di sviluppare delle relazioni multilaterali tra i diversi
stati europei per consentire un progresso equilibrato delle scienze biologiche,
affinché queste potessero essere presentate in modo chiaro e
comprensibile a industriali, accademici e al grande pubblico. All’Ecba
aderiscono scienziati, accademici, industriali, referenti istituzionali e
liberi professionisti provenienti da Paesi come Austria, Cipro, Belgio,
Germania, Spagna, Grecia, Irlanda, Italia, Norvegia, Portogallo, Svezia,
Turchia e Francia.
L’iniziativa è nata da tre input. Quello del professor Haupt del
Verband Deutscher Biologen (VDBiol) della
L’associazione raccoglie biologi
provenienti da diversi Paesi
europei e afferenti diversi
settori di impiego della biologia
Repubblica federale di Germania, che ha contattato
Dax Copp dell’Institute of Biology (lOB)
del Regno Unito, esplorando le prospettive di
una più stretta integrazione delle attività tra le
associazioni di biologi in Europa.
In questo incontro, avvenuto nella primavera
del 1974 a Londra, si seppe che l’Ordine
Nazionale dei Biologi era in procinto di spostare
le sue attenzioni verso Bruxelles nel tentativo di unificare le associazioni
di biologi professionisti su base europea. Queste iniziative hanno
facilitato la promozione di un’associazione di biologi in Europa. Dopo
un ulteriore incontro a Milano nell’autunno 1974, la “European Communities
Biologists Association (ECBA)” è stata formalmente fondata
nell’ottobre 1975 a Bonn (FRG).
L’Associazione, che vuole rappresentare la biologia e le bioscienze
a livello internazionale, ha lavorato per il sostegno del ruolo dei biologi
in ambito europeo e per la promozione e la cooperazione tra le diverse
associazioni rappresentative della categoria. Il Consiglio direttivo, organo
supremo formato da delegati delle associazioni membri, è presieduto
da Harm Jaap Smit e vede il biologo Corrado Marino come vice
presidente con delega alla biologia clinica e alla sanità.
Questa nomina è scaturita dal lavoro progettuale di Marino
esposto al meeting ECBA, tenutosi in Febbraio ad Utrethc, e ad altri
suoi interventi programmatici illustrati a Bruxelles. «Il lavoro da lui
egregiamente svolto – riporta il comunicato dell’Ecba - deriva da puntuali
programmi intessuti grazie alle indicazioni della Dirigenza del
nostro Ordine Professionale. Un’attività aperta verso la conoscenza
dell’importanza della Scienza ad ogni livello, sia scolastico educativo
sia mediatico; una maggiore coesione tra le svariate attività professionali
della costellazione europea dei Biologi e dei laureati in Scienze;
una capacità di intervento sulla Commissione Europea per una più coerente
e rapida esecuzione delle normative sulle qualifiche professionali
e sulla libera circolazione dei professionisti
in Europa; una attività culturale e scientifica con
convegni da organizzare nelle capitali Europee
anche per portare all’attenzione dei responsabili
politici e della pubblica opinione la nostra categoria
professionale e la sua incisiva valenza nel
tessuto economico e produttivo. L’Ordine dei
Biologi – prosegue il comunicato - potrà erigere
il proprio vessillo in Europa, trasferire ai Colleghi
europei quanto di importante ha saputo fare e ancora farà in Italia.
I Colleghi italiani potranno ricevere informazioni e input in campi di
attività finora ancora non percorsi. L’Ordine Nazionale dei Biologi –
conclude - si avvarrà nelle proposizioni progettuali anche di giovani
Colleghi che vorranno dare il proprio contributo, per apportare in
Europa una ventata di innovazione scientifica e normativa».
Negli anni, l’Associazione ha organizzato numerosi seminari
su argomenti relativi alla biologia. Sono inoltre in progetto programmi
di studio dedicati agli studenti delle scuole primarie e secondarie,
al settore biomedico, dell’alimentazione, della sostenibilità
e dell’energia.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
11
BIOLOGIA DEL PALAZZO
CORONAVIRUS, IL RUOLO DELL’OMS
ECCO COM’È ANDATA
Le accuse di Trump sulla sudditanza alla Cina, la difesa dell’Onu
L’allerta pandemia durerà ancora a lungo
Palazzo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Ginevra).
di Riccardo Mazzoni
La polemica sul ruolo dell’Oms
nell’affrontare la pandemia del
Coronavirus è destinata a durare
per anni, tra i colpevolisti come
Trump che la accusano di aver ritardato
l’allarme per sudditanza al governo cinese,
e chi invece, a livello internazionale, difende
il suo operato. Cerchiamo di ricostruire
i fatti con una ricostruzione il più possibile
obiettiva, riepilogando la cronologia di
questi mesi terribili.
Era partita bene l’Oms, quando a settembre
aveva pubblicato un rapporto intitolato
“Un mondo a rischio”, che parlava di
una possibile, imminente epidemia su scala
mondiale avvertendo i governi sulla possibilità
di un’emergenza sanitaria globale. Il rapporto
era chiaro: “C’è una minaccia molto
reale di una pandemia in rapido movimento
altamente letale, di un agente patogeno respiratorio
che potrebbe uccidere da 50 a 80
milioni di persone e spazzare via quasi il 5
per cento dell’economia mondiale”. Allarme
caduto purtroppo nel vuoto e nel mancato
recepimento da parte di molti governi nazionali,
ma poi è proprio l’Organizzazione mondiale
della Sanità ad essere finita nel mirino
per le falle, i ritardi e le opacità nella gestione
del Covid-19. Il nove aprile, nel mezzo della
bufera e mentre il contagio si diffondeva
pericolosamente nel mondo, è dovuta scendere
in campo la stessa Onu per difendere
il direttore generale dell’Oms Ghebreyesus
dall’accusa dell’amministrazione americana
di essersi piegata agli
interessi della Cina
A settembre scorso, l’Oms
aveva avvertito i governi sulla
possibilità di un’emergenza
sanitaria globale
aiutando Pechino a
insabbiare le prime
notizie sulla pandemia.
Accusa tutta da
dimostrare, ma ci sono
fatti e circostanze che
fanno oggettivamente
riflettere sul funzionamento
della macchina dell’Oms: alcuni medici
di Taiwan, ad esempio, la informarono – a
loro volta inascoltati - di aver scoperto che il
virus si trasmetteva da uomo a uomo. E’ ormai
accertato, poi, che in Cina il primo caso
clinicamente diagnosticato risale al 2 dicembre,
ma che il governo di Pechino ha annunciato
la prima morte solo l’11 gennaio, e resta
dunque il motivato dubbio che in quel mese
cruciale l’interlocuzione tra Oms e Cina sia
stata, per usare un eufemismo, quantomeno
lacunosa. Solo il 28 gennaio, inoltre, l’Oms si
è decisa, dopo ben cinque rapporti tranquillizzanti,
a correggere da “moderata” ad “elevata”
la minaccia dell’epidemia cinese per il
resto del mondo. E la definizione di “pandemia”
per definire l’emergenza è stata data
solo l’11 marzo, quando
era noto ormai da
settimane che l’ondata
epidemica interessava
tutto il globo.
Anche sull’uso
dei test diagnostici,
la posizione iniziale
dell’Oms fu inizialmente
quella di raccomandarli
solo ai casi sintomatici conclamati,
per poi correggersi consigliando
ai governi di effettuare test generalizzati
a tutta la popolazione, a partire dagli
operatori sanitari. Ebbene: i Paesi come
la Corea del Sud o Taiwan che sono andati
per la propria strada con l’uso siste-
12 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
BIOLOGIA DEL PALAZZO
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matico dei tamponi e il tracciamento dei
contatti sono quelli che stanno uscendo
meglio, e con i minori danni anche economici,
dalla pandemia.
Infine, anche sull’uso delle mascherine
le linee guida dell’Oms non sono state
all’altezza di un’organizzazione che ha il
compito istituzionale di tutelare la salute
del mondo, sostenendo che in caso di
persone senza sintomi non c’è il rischio di
contagio e che le mascherine non deve portarle
nessuno, se non gli operatori sanitari
che hanno in cura malati di Coronavirus,
ignorando così il tasso di trasmissione dagli
asintomatici. Un altro passo falso, insomma.
Ora Mike Ryan, capo del programma
di emergenze sanitarie dell’Oms, durante
uno dei briefing sul Coronavirus, ha avvertito
che sarà necessario fare ancora un
lungo cammino per arrivare alla cosiddetta
“nuova normalità”. Non si parla ancora,
dunque, di revocare l’allerta pandemia.
L’Oms non abbasserà il livello di allarme
fino a quando – ha detto - “non disporremo
di un significativo controllo del virus,
di solidi sistemi di sorveglianza e di sistemi
sanitari più forti”.
Come la Chinatown pratese ha dato scacco al Covid-19
I
l governo di Pechino è sul banco degli imputati per il Coronavirus: 122 Stati
membri dell’Onu si sono detti favorevoli a un’inchiesta per fare luce sulle circostanze
e sulle modalità in cui la pandemia si è originata e diffusa dalla Cina al
resto del mondo, non ritenendosi soddisfatti né delle indagini condotte dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità né delle dichiarazioni ufficiali del presidente
Xu Jinping, che ha offerto due miliardi di dollari per la lotta mondiale contro la
pandemia; promettendo di mettere a disposizione di tutti il vaccino, se saranno
gli scienziati di Pechino i primi a svilupparlo. Ma se la Cina è sotto accusa, c’è
un’enclave cinese in Italia, quella di Prato, che ha saputo invece dare il buon
esempio. All’inizio della pandemia Prato, dove vive la seconda comunità cinese
d’Europa, era considerata la città più esposta al rischio Covid a causa dei 2500
cinesi che dovevano rientrare proprio in quei giorni dal Capodanno celebrato in
patria
Gli allarmi si sono moltiplicati di pari passo con le polemiche. Ebbene, Prato
è stata finora uno dei capoluoghi che stanno uscendo meglio dall’emergenza
sanitaria. Questo piccolo miracolo ha però una spiegazione empirica molto precisa,
che deriva sia dai forti legami di solidarietà che caratterizzano le comunità
cinesi sparse nel mondo, sia dall’antica vocazione all’obbedienza: c’è una catena
di comando che ha funzionato alla perfezione e ha organizzato una ferrea cintura
sanitaria per evitare i contagi. Quando il virus è arrivato in Italia la Chinatown
pratese, che brulica sempre di gente dalle sei del mattino fino a mezzanotte, ha
letteralmente chiuso i battenti, diventando d’improvviso, da un giorno all’altro,
un quartiere fantasma. Questo perché c’è stata una regia tempestiva ed oculata
dell’emergenza: decine di famiglie sono state spedite in quarantena sull’Appennino,
in case prese in affitto all’Abetone e a Fiumalbo, e i cinesi rientrati dal Capodanno
sono stati sottoposti a una doppia quarantena: la prima nello Zhejiang,
dove il governo regionale aveva adottato misure rigorose che impedivano l’espatrio,
e la seconda appena rientrati nelle abitazioni pratesi, applicando l’autoisolamento
volontario.
Senza dunque aspettare le indicazioni delle autorità italiane, i cinesi di Prato
hanno importato dalla madrepatria le rigide misure di sicurezza che laggiù hanno
alla fine dimostrato di funzionare: quarantena generalizzata e a turno, ogni tre
giorni, un condomino va a fare la spesa per gli altri nuclei familiari in isolamento.
Non solo: si rientra in casa lasciando fuori scarpe e vestiti e si riducono al minimo
i contatti col mondo esterno, comprese le visite ai parenti, sostituite dalle videochiamate
su Wechat. I cinesi di Prato, insomma, hanno giocato d’anticipo sul
virus attraverso sacrificio, disciplina, solidarietà, autoisolamento e igiene scrupolosa,
un atteggiamento responsabile che ha contribuito a fugare tra i pratesi i
timori sul fatto che le migliaia di rientri dalla Cina potessero trasformare la città
laniera in una zona rossa come quelle lombarde. R.M.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
13
BIOLOGIA DEL PALAZZO
ZERO BUROCRAZIA E RIFORME
STRUTTURALI. L’ITALIA ALLA
PROVA DELLA RIPARTENZA
Gli italiani hanno saputo gestire la pandemia
del Covid-19. Ora il Paese si sta riavviando
La premessa è doverosa: trovarsi
a governare un’emergenza come
quella del Coronavirus non è
stato facile per nessun governo
al mondo, come dimostrano le difficoltà
che stanno incontrando democrazie sperimentate
e solide come Stati Uniti e Gran
Bretagna. È stato uno tsunami a cui tutti
erano impreparati e che sta mettendo a
dura prova la tenuta dei sistemi sanitario,
amministrativo ed economico.
In Europa ne è uscita meglio la Germania,
che ha potuto contare su fondamentali
più solidi. L’Italia ha invece pagato
prima il progressivo smantellamento
della sanità di base, a cui si sono aggiunti
gli errori forse inevitabili della gestione
della prima emergenza, e poi la persistenza
di una burocrazia ossessiva ed invasiva
che ha reso difficile il funzionamento degli
aiuti a un Paese in ginocchio dopo due
mesi di lockdown. Il profluvio di decreti,
Dpcm, ordinanze, direttive, comitati tecnici
e task-forces ha prodotto un imbuto
decisionale, comunicativo e funzionale
che ha finito per penalizzare la stessa volontà
politica del governo.
Non è ammissibile, ad esempio, che
dopo cento giorni dall’inizio dello stato
d’emergenza nazionale ci fossero sono ancora
quattro milioni di italiani che aspettavano
i sostegni del decreto Cura Italia,
tra cassintegrati in deroga e autonomi in
attesa dei 600 euro. Il governo ha accelerato
le procedure col decreto Rilancio, che
però necessita di ben 98 decreti attuativi e
contiene ben 622 rimandi ad altre leggi,
tra le quali un decreto Regio del 1910.
Ci sarebbero voluti da subito sussidi
a fondo perduto, non prestiti alle imprese
già indebitate, peraltro intralciati dalla
pretesa di diciannove documenti e dalla
ritrosia dei funzionari di banca ad elargirli
per il timore di incorrere in inchieste penali.
Certo, lo stanziamento è stato imponente
e all’altezza del momento: 80 miliardi di
euro in grado, si è detto, di movimentarne
400, ma il fattore tempo era cruciale, ed è
stato purtroppo disatteso, mentre altri Paesi
sono stati in grado di far piovere soldi
freschi sui conti correnti in pochi giorni
dall’inizio del blocco
produttivo.
Prendiamo la
cassa integrazione:
alla lacuna dei fondi
mancanti per la cig di
luglio e agosto, con i
titolari delle aziende
costretti dal governo
a non licenziare, si aggiunge un altro grave
problema: per molti lavoratori gli anticipi
dell’Inps arriveranno solo a inizio luglio.
Si tratta di ritardi drammatici per famiglie
già in estrema difficoltà che stentano ad
arrivare a fine mese. Ritardi che purtroppo,
decreto dopo decreto, hanno continuato
ad accumularsi.
Il Covid-19 ha messoa dura
prova la tenuta dei sistemi
sanitario, amministrativo
ed economico
Gli italiani in questi mesi terribili hanno
dimostrato grande senso di responsabilità,
a parte qualche eccesso nelle prime
movide della riapertura: pur sfibrati dalle
autocertificazioni, dai controlli ossessivi
e dai codici Ateco non chiedevano tanto,
chiedevano solo
di poter tornare alla
vita normale magari
con poche regole
chiare e con qualche
soldo in tasca per poter
riaprire le attività.
Invece si sono trovati
divisi tra garantiti e
non garantiti, con milioni di imprese e di
famiglie, di commercianti, di artigiani e di
partite Iva che non hanno visto un euro.
Prima è toccato a medici e infermieri
– a cui è come premio sono arrivate
solo briciole - combattere il virus a mani
nude, e lo stesso destino viene purtroppo
riservato agli operatori economici, molti
14 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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BIOLOGIA DEL PALAZZO
dei quali hanno coraggiosamente riaperto
ma rischiano di trovarsi davanti a un
bivio drammatico: chiudere o fallire. Ci
vuole liquidità vera e non solo promessa
per non far chiudere le aziende e per rimettere
in circolo i consumi, ma in tutti i
decreti non c’è alcun
incentivo a spendere
per il consumatore
finale attraverso detrazioni
per la spesa.
C’è il bonus monopattino,
è vero, ma
forse quei 120 milioni
avrebbero potuto
essere impiegati molto meglio, e c’è il
bonus per le ristrutturazioni, cosa buona
che diventerà ottima se verrà esteso anche
alle seconde case.
Ma prima di tutto bisogna evitare la
desertificazione produttiva del Paese e la
morte di milioni di piccole imprese, dei
negozi storici che costituiscono la linfa
Ora sarà importante evitare
la desertificazione produttiva
del Paese e la morte
delle piccole aziende
vitale dei nostri centri storici. E attenzione:
il dato forse più drammatico è che in
queste settimane l’usura è aumentata del
50%: chi ha lavorato una vita rischia di
vedersi “confiscare” la propria impresa
dalla criminalità a causa dei ritardi dello
Stato nel far arrivare
i sussidi.
Ora che siamo in
piena fase due, è giusto
far rispettare le
regole di sicurezza,
ma serve buonsenso,
non sceriffi o un’infornata
di sessantamila
improvvisati assistenti alla vigilanza
pescati tra i percettori di reddito di cittadinanza
e disoccupati. La sicurezza è una
cosa seria, e già si sono verificati spiacevoli
eccessi durante i controlli operati dalle
forze dell’ordine.
Si devono dunque far rispettare le
norme di precauzione, ma non si può
caricare sul negoziante, sul barista, sul
ristoratore anche l’onere dei controlli.
È l’autorità che fa le leggi e deve farle
rispettare. I commercianti hanno dovuto
già caricarsi sulle spalle le spese per
la sanificazione, ora non possono anche
rischiare maximulte: oltre il danno, si aggiungerebbe
la beffa.
Chi vuol bene all’Italia non può che
auspicare che il decreto Rilancio sblocchi
davvero la situazione, e che i soldi a
pioggia stanziati dal governo arrivino a
destinazione. Poi ci vorrà molto altro: un
piano strategico di investimenti e un forte
progetto riformatore per non disperdere
in altri rivoli assistenziali i finanziamenti
che arriveranno dall’Europa. Ma intanto
va tamponata subito l’emergenza economica
perché in autunno non si trasformi
in rabbia sociale.
Per far questo non servono gli approcci
ideologici: la maggioranza, ad esempio,
ha trovato l’accordo per una sanatoria di
600 mila immigrati: scelta politicamente
legittima ma che non risolve affatto i problemi
del lavoro sommerso e non rilancia
nemmeno l’agricoltura. Gli imprenditori
agricoli avevano chiesto a gran voce i voucher
e i corridoi verdi per far rientrare gli
immigrati stagionali già utilizzati nei precedenti
raccolti, e ora stanno pagando di
tasca loro i voli charter per trasportarli in
Italia e non far marcire i prodotti.
Bisogna quindi cambiare passo: in Italia
c’è prima di tutto un eccesso di leggi,
troppe, illeggibili, che configurano un eccesso
di potere, spesso incomprensibile e
per questo ancora più insidioso. Zero burocrazia
dappertutto, soprattutto per cantieri
e infrastrutture, che sono il vero volano
per la ripartenza del Paese, e più fiducia
a cittadini e imprese. È il momento che chi
governa dimostri di essere all’altezza degli
italiani e del modo con cui hanno saputo
affrontare la pandemia. (R. M.).
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
15
INTERVISTE
ANNA BAGNATO E LA RICERCA
SUL TUMORE ALLE OVAIE
Ogni anno circa 5.300 donne sono colpite
da questo carcinoma
di Carmine Gazzanni
Una donna che lavora e studia con
le donne e per le donne. Anna
Bagnato, responsabile dell’Unità
di modelli preclinici e nuovi
agenti terapeutici dell’Istituto nazionale dei
tumori Regina Elena, grazie anche al fondamentale
supporto dell’Airc da anni porta
avanti la sua battaglia contro il tumore ovarico:
«I numeri – spiega la biologa – ci dicono
che circa una donna su tre sarà colpita da
un cancro nel corso della vita. Un impegno
eccezionale che non può permettersi battute
d’arresto, per contrastare tutti i tipi di cancro
che, solamente nel 2019, in Italia hanno
colpito circa 175 mila donne». E non ci si
può permettere battute d’arresto neanche
nel pieno di una crisi pandemica come quella
che stiamo vivendo. Ma anzi l’emergenza
«smaschera la vulnerabilità dell’intera comunità
e soprattutto delle persone più fragili,
esposte a rischi maggiori. E di fronte a
questi pericoli solo la ricerca scientifica può
prevenire e curare».
Dunque è fondamentale continuare a
sostenere la ricerca?
«Assolutamente sì. Le pazienti beneficiano
oggi dei risultati che i ricercatori
hanno ottenuto grazie a lunghi anni di studi.
La ricerca è l’unica possibilità per un futuro
sempre più libero dal cancro».
Il suo team è quasi tutto al femminile:
donne che lavorano per le donne?
«Il mio team, formato prevalentemente
da ricercatrici, studia i meccanismi che regolano
la crescita e la progressione di un tumore
che colpisce ogni anno circa 5.300 donne:
il carcinoma ovarico. Solamente il 40%
delle donne con carcinoma ovarico curate
in Italia supera il quinto anno dalla diagnosi.
Purtroppo in questo tumore la diagnosi
precoce è ancora difficile e spesso presenta
un alto tasso di recidiva e di resistenza ai
farmaci. Per superare questi problemi, con
il sostegno della Fondazione AIRC, stiamo
cercando di sviluppare nuove combinazioni
© Shidlovski/www.shutterstock.com
terapeutiche capaci di ridurre la resistenza
ai farmaci. La campagna dell’Azalea della
Ricerca della Fondazione AIRC, attiva per
tutto il mese di Maggio, intende sottolineare
una volta di più la centralità della ricerca
scientifica nella battaglia contro il cancro
delle donne».
Perché questa scelta? Ci si è “trovata”
oppure sono intervenute anche altre ragioni?
«La passione per la ricerca inizia tra i
banchi del liceo per proseguire con la laurea
in Scienze Biologiche
e la specializzazione
in Patologia Generale
all’Università
“Sapienza” di Roma.
L’esperienza formativa
più importante
è sicuramente quella
vissuta nei due anni
in Maryland, ai National Institutes of Health
di Bethesda, accanto all’endocrinologo
Kevin J. Catt, che in quel periodo pubblicò
studi importanti sull’endotelina, un peptide
con noto effetto vasocostrittore, di cui
si stavano scoprendo alcune funzioni sulla
regolazione ormonale. In quegli anni ho
condotto importanti studi sulla famiglia dei
recettori accoppiati a proteine G, di cui fa
parte il recettore dell’endotelina, per fattori
di crescita autocrini e paracrini dell’ovaio.
Quegli studi hanno rappresentato le basi
Le pazienti beneficiano oggi
dei risultati che i ricercatori
hanno ottenuto grazie
a lunghi anni di studi
molecolari delle future linee di ricerca volte
allo sviluppo di nuove terapie molecolari nel
carcinoma ovarico».
I mesi di lockdown che abbiamo vissuto
e la lenta ripartenza hanno inciso anche
nella ricerca sul cancro?
«Nei mesi di lockdown abbiamo deciso
di riprogrammare l’attività di ricerca nei
laboratori dell’Istituto che si trovano in un
“open space”, dove non sempre si può lavorare
mantenendo il distanziamento sociale.
Per questo motivo abbiamo deciso di ridurre
sensibilmente le
presenze, rallentando
la ricerca senza fermarla.
Ci siamo trovati
a prendere decisioni
difficili su quali esperimenti
essenziali continuare,
e quali riprogrammare
nei tempi
successivi all’emergenza. A turno alcune
ricercatrici del mio team hanno frequentato
i laboratori proseguendo i loro esperimenti,
per portare avanti in particolare il progetto
di ricerca volto ad identificare nuove vulnerabilità
nelle cellule di carcinoma ovarico
farmaco-resistenti per sviluppare nuove
strategie terapeutiche. La ripresa delle attività
di ricerca in laboratorio ha richiesto una
nuova organizzazione del lavoro. Noi stiamo
affrontando la fase due della pandemia
osservando tutte le indicazioni normative
16 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
INTERVISTE
Nell’immagine grande, un
modello di utero con ovaie in 3D.
Nel riquadro, Anna Bagnato.
della Regione Lazio e del Ministero della
Salute. Tutto il personale presente in laboratorio
utilizza i Dispositivi di Protezione
Individuale (DPI) e continua a mantenere
le distanze di sicurezza, evitando assembramenti
e mettendo in atto tutte le misure di
contenimento di esposizione al virus. Nella
fase 2, abbiamo cercato di ripartire subito a
pieno ritmo mettendo il nostro massimo impegno:
è un dovere nei confronti dei pazienti
oncologici e dei sostenitori della ricerca
finanziata da AIRC».
Viviamo oggi una
incredibile emergenza
che, tuttavia, ha permesso
di comprendere
l’importanza della
ricerca scientifica e
dei finanziamenti a
questa dedicati. Crede
che faremo tesoro di tale situazione?
«Quest’emergenza smaschera la vulnerabilità
dell’intera comunità e soprattutto
delle persone più fragili, esposte a rischi
maggiori. E di fronte a questi pericoli solo la
ricerca scientifica può fornirci strumenti di
prevenzione e di cura. Tutti noi ricercatori
sappiamo bene che il paziente oncologico
affronta una sfida particolarmente difficile
in quest’emergenza e rimane ancora di più
al centro delle nostre ricerche. Per questo
mettiamo la nostra competenza e il nostro
massimo impegno al servizio della società
Purtroppo in questo tumore
la diagnosi precoce è ancora
difficile e c’è un alto tasso
di recidiva
per raccogliere e diffondere informazioni a
beneficio dei pazienti oncologici e dei loro
caregiver, ma affinché la ricerca sul cancro
non si fermi, abbiamo bisogno del continuo
sostegno di tutti. Quest’emergenza ha
fatto comprendere la centralità della ricerca
scientifica, perché nella ricerca risiede la
possibilità di identificare nuovi percorsi di
cura. Credo che proprio in questo periodo
questa convinzione, che in noi ricercatori
è connaturata, è ampiamente condivisa
dall’intera comunità».
Per via del distanziamento sociale
com’è cambiato - e cambierà - nel lavoro in
laboratorio?
«Questo momento di estrema difficoltà
mi ha fatto ancor più capire la vera
natura delle ricercatrici del mio gruppo: i
loro sguardi sopra le mascherine rivelano
la passione, la tenacia ed il coraggio con
cui s’impegnano a dare il meglio di sé nel
portare avanti il proprio lavoro. Non si sono
fermate, continuando a lavorare anche da
remoto, dimostrando
continuamente di
“esserci” e di poter
contare su di loro anche
in questo periodo
dove il tempo sembra
sospeso, consapevoli
che la ricerca non si
può fermare perché il
cancro non aspetta».
Una sorta di voglia di ripartire il prima
possibile…
«Che è condivisa da tutti noi ricercatori.
Ed esprime pienamente i valori e gli ideali di
tutta la comunità scientifica, sempre volta a
porre il paziente oncologico al centro della
ricerca e della cura. Con la riorganizzazione
del lavoro attuata in laboratorio, dobbiamo
fare lo sforzo di ripartire subito per trovare
più in fretta risposte e nuove terapie».
Quali sono i consigli per un paziente
oncologico al tempo del coronavirus?
«La diffusione dell’infezione da Covid-19
ha messo in allarme i pazienti oncologici,
che sono le persone più fragili, maggiormente
esposte al rischio di infezioni e di
complicanze. Durante questa emergenza i
pazienti oncologici devono restare al centro
della cura. Per questo motivo gli Istituti oncologici
si sono riorganizzati, tenendo sempre
al centro la sicurezza del paziente, programmando
visite di follow-up e di screening
su base individuale, o mediante il progetto di
consegna a domicilio di farmaci oncologici e
biosimilari, per limitare i rischi per i pazienti.
Inoltre in quest’emergenza, gli strumenti
digitali possono consentire la presa in carico
del paziente e garantire la continuità di cura.
Il nostro Istituto ha reso disponibile in teleassistenza
(IFOconTeOnline) un servizio
gratuito di consulenza a distanza, per mantenere
con sistemi innovativi, la relazione con il
paziente oncologico».
Chi è
Anna Bagnato nasce a Reggio Calabria,
il 16 maggio 1960. Dopo
la laurea in Scienze Biologiche presso
l’Università Sapienza di Roma nel luglio
1984; fino al 1989 è ricercatrice
presso l’Istituto Nazionale Cancro
Regina Elena (IRE) di Roma. Per due
anni ha lavorato in Maryland, ai National
Institutes of Health di Bethesda,
accanto all’endocrinologo Kevin
J. Catt. Fino al 2008 è stata capogruppo
del laboratorio di patologia molecolare
all’Ire, diventando poi oggi
responsabile dell’Unità di modelli
preclinici e nuovi agenti terapeutici
dell’Istituto nazionale dei tumori Regina
Elena, e uno dei nomi più attivi
tra i ricercatori supportati dall’Airc.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
17
INTERVISTE
Un biologo. Un fotografo. Un nuotatore
subacqueo. Tutte queste
cose insieme. O, più semplicemente,
«un amante del mare che,
dopo più di mille immersione, ancora riesce
a provare una sensazione indescrivibile ogni
volta che sono in profondità». Le foto di Pasquale
Vassallo fanno ormai il giro del mondo
da anni. In ogni parte del globo conoscono
una delle tecniche più complicate, di cui lui è
indiscutibilmente uno dei più bravi: lo split,
ovvero la capacità di immortalare momenti,
situazioni, animali marini, mostrando per
metà il mondo sottomarino e per metà quello
terrestre. «È una modalità che mi piace
molto – racconta Vassallo, con un’incredibile
umiltà – in questo modo riesco a far capire
come ogni cosa sia sempre e comunque parte
di un tutto».
In questa quarantena lei ha avuto la
possibilità di immergersi nonostante il lockdown.
Che “mare” ha trovato?
«Splendido. Attenzione, però: non vorrei
essere frainteso. Per ripulire il mare ci vorrebbe
una quarantena lunga quarant’anni.
Ciò che però mi ha notevolmente sorpreso è
la pulizia soprattutto da un punto di vista di
inquinamento acustico».
Cioè?
«Sicuramente il mare era più pulito con
lo stop alla produzione industriale e a quella
dei ristoranti. Ma è “silenzio assordante” di
alcuni luoghi a lasciare senza fiato. Le racconto
un episodio».
Prego.
«In questo periodo ho fatto diverse immersioni
nella variopinta Marina Corricella,
a Procida, nell’area marina protetta “Regno
di Nettuno”: la consistente riduzione
dell’inquinamento acustico e del traffico da
diporto, il mare delle isole di Ischia, Vivara
e Procida si mostra in ottima salute. Sentivo
solo il rumore degli uccelli, nessuna barca,
nessun rumore “artificiale”. È stato meraviglioso.
E questo spiega perché nelle ultime
IL “SILENZIO ASSORDANTE”
DEL MARE IN QUARANTENA
Intervista al fotoreporter Pasquale Vassallo,
una vita tra mare, natura e biologia
settimane abbiamo letto di delfini che si sono
avvicinati ai porti, di tonni ritrovati in posti
in cui non si vedevano da anni. Gli animali,
nel silenzio della natura, si sentono meno
spaventati. Io per primo sono riuscito a fotografare
in questi giorni il pesce luna: ero sulla
motovedetta della Guardia costiera quando
l’abbiamo visto. Sono
subito sceso in acqua
e l’ho immortalato. E
mi creda: non è facile
essendo un animale
molto veloce e soprattutto
molto sensibile ai
rumori. Merito, come
detto, della notevole
riduzione dell’inquinamento acustico».
Lei ora sta lavorando in varie Aree Marine
Protette. Quando decide di immergersi
e, soprattutto, cosa pensa di trovare ogni
volta?
«In realtà non so mai cosa posso trovare
quando mi immergo. Certo: scelgo dei posti,
degli orari determinati perché posso immaginare
che ci sia questo pesce o questa situazio-
Ciò che però mi ha sorpreso
è la pulizia soprattutto
da un punto di vista di
inquinamento acustico
ne. Ma molto spesso capita che trovo decisamente
altro, anche di inaspettato. E questa è
la meraviglia che si nasconde nel mio lavoro e
che mi spinge ad immergermi sempre».
Qual è l’obiettivo dei suoi scatti? Solo
bellezza estetica o c’è dell’altro?
«Ovviamente non voglio fermarmi al
mero scatto. Non c’è
solo bellezza estetica.
Provo sempre a documentare
un evento.
Ho realizzato diverse
foto per documentare,
ad esempio, la conservazione
degli animali e
la loro capacità di adeguarsi
ad ambienti e situazioni nuove. Anche,
paradossalmente, con l’inquinamento:
ho spesso trovato infradito con granchi che
depongono uova o molluschi che si riparano
sfruttando le lattine. Ovviamente tutto questo
non dovrebbe mai e poi mai accadere, ma
è incredibile la capacità di questi animali di
dare sempre una risposta».
Un approccio biologico, dunque.
18 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
INTERVISTE
«Assolutamente sì. Io ho sempre avuto la
passione per la fotografia e per le immersioni,
ma prima fotografavo ciò che mi piaceva,
spesso non conoscendo a fondo il perché di
quella situazione. Ora, invece, conosco ciò
che fotografo ancor prima di scattare. Proprio
questa volontà mi ha spinto a concludere
gli studi in Biologia.
In questo modo cerco
di dare anche una valenza
scientifica al mio
lavoro, che prima mi
mancava».
Però diciamo la
verità: il suo lavoro
fotografico arricchisce
anche la conoscenza scientifica a sua volta…
«(ride) Le rispondo con le parole che mi
disse una volta un mio professore di Biologia:
“Se non fosse per i fotografi, noi biologi non
conosceremmo molte cose di cui parliamo”.
A me piace aggiungere, però, anche che se
non fosse per i biologi, i fotografi come me
non saprebbero cosa fotografano».
Crede che questo periodo di quarantena
Se non fosse per
i biologi, i fotografi come
me non saprebbero
cosa fotografano
© zoff/www.shutterstock.com
possa insegnarci qualcosa nel rapporto uomo-natura?
«Guardi, a me piace essere ottimista, lo
sono sempre stato. E credo che l’uomo abbia
già avuto prova di cosa voglia dire avere
comportamenti diversi nel rapporto con la
natura. Non guardiamo soltanto alle responsabilità
delle grandi
istituzioni, ma cominciamo
da noi stessi,
cominciamo dai nostri
comportamenti: sono
questi innanzitutto
che devono cambiare.
Se ancora non capiamo
che, ad esempio,
i cotton-fioc che usiamo per la nostra igiene
personale, se buttati nel gabinetto finiscono
in mare e creano enormi problemi agli animali,
significa che c’è ancora tanto da fare.
Da qui, da queste piccole e cattive abitudini,
dobbiamo partire».
Ultima domanda: la prossima immersione
quando è prevista?
«Domani, ovviamente». (C. G.)
Pasquale Vassallo.
Chi è
Fotografo subacqueo, laureato in
produzioni marine presso l’Università
di Napoli “Federico II”,
studioso dell’ecosistema marino,
Pasquale Vassallo nasce a Napoli
nel 1970. Ha imparato sin da piccolo
ad amare il mare e ad immergersi
in apnea alla ricerca di polpi e ricci.
Con il passare degli anni, la passione
per il grande blu, si è evoluta in pura
esplorazione del mondo sommerso.
Le sue foto ed i suoi articoli sono
stati pubblicati su importanti riviste
nazionali e internazionali, tra queste:
National Geographic, Tauchen,
Dive Master, Discovery Magazine,
Le Figarò, GeoMagazine e molte
altre. Numerosi i premi e riconoscimenti
in tutto il mondo, tra cui
il prestigioso “Plongeur d’Or” nel
2011 di Marsiglia.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
19
SALUTE
di Marco Modugno
La Società italiana di pediatria
(Sip), ha pubblicato sul suo sito
una raccolta dati, realizzata da
Alessandra Marchesi e Isabella
Tarissi de Jacobis, di Pediatria Generale e
Malattie Infettive dell’Ospedale Bambino
Gesù, e Mariacristina Maggio, della Clinica
Pediatrica Università di Palermo, sulla
possibile insorgenza della Malattia Kawasaki
in bambini colpiti da Covid-19. Si è
parlato molto della sindrome di Kawasaki
(MK) in queste settimane, una malattia
assai rara, molto comune nei bambini
giapponesi, ma che colpisce in tutto l’emisfero.
In Italia annualmente si contano 14
casi ogni 100mila bambini. Circa l’80% è
sotto i 5 anni, con un picco di incidenza
nei primi 2 anni di vita. È più comune nei
maschi, ed ha un tasso di contagio più elevato
tra fine inverno ed inizio primavera.
Fu descritta per la prima volta nel 1967
dal Giapponese, Tomisaku Kawasaki, pediatra
da cui ha preso il nome.
«Si tratta di una malattia che causa
un’infiammazione della parete di alcuni
vasi sanguigni, in particolare delle arterie
coronarie, che possono dilatarsi in alcuni
tratti causando aneurismi, perciò è fondamentale
eseguire una ecocardiografia.
L’infiammazione si limita da sola nel tempo
- rassicurano le dottoresse - la malattia
può guarire da sola, ma senza una terapia
adeguata i vasi del cuore vengono colpiti
più frequentemente nel 15-25% dei casi».
Si presume che alla base della MK ci
sia una causa scatenante infettiva- si legge
nella FAQ della Sip – data la presenza
di diversi batteri e virus, nei bambini con
MK, ma nessuno responsabile della malattia.
I soggetti con una predisposizione
genetica sono molto più colpiti, lo testimonia
il fatto che è più frequente nella popolazione
asiatica, con una maggiore incidenza
nei fratelli, soprattutto nei gemelli.
MALATTIA DI KAWASAKI
IN ITALIA COLPISCE
ANNUALMENTE 14 BIMBI
OGNI 100MILA
Lo studio della Società italiana di pediatria
spiega le caratteristiche di una patologia rara
Inoltre abbiamo casi di MK in figli di genitori
a loro volta colpiti nell’infanzia. La
MK si manifesta con febbre alta per oltre
5 giorni, variamente associata a congiuntivite
bilaterale, alterazioni delle labbra
e della bocca (arrossamento, secchezza)
eruzione cutanea,
arrossamento del
palmo delle mani e
della pianta dei piedi
e/o gonfiore di mani
e dei piedi, arrossamento
e desquamazione
dell’area del
pannolino, tumefazione
dei linfonodi del collo (monolaterale).
I sintomi hanno durata variabile, anche
molto breve, in alcuni casi si associano
altre manifestazioni della malattia come
(irritabilità, diarrea, vomito, dolori addominali,
interessamento del fegato, delle articolazioni,
della parete e delle valvole del
cuore). La diagnosi, non essendoci un test
Circa l’80% degli affetti dalla
malattia ha meno di 5 anni,
con un picco di incidenza
nei primi 2 anni di vita
specifico - assicurano le studiose- né di
laboratorio né strumentale, è per forza di
cose clinica, basandosi su febbre alta per
oltre 5 giorni associata ai sintomi elencati.
Si parla di forma tipica in presenza di
4/5 sintomi, incompleta se presenta 2/3
sintomi e atipica se ci
sono sintomi diversi.
Trarre una diagnosi
di MK è molto complicato
dato che questi
sintomi non sono
tipici solo di questa
malattia pediatrica.
L’evoluzione nei
bambini con MK è molto variabile, nei
casi dove l’ecocardiografia non mostra
danni delle coronarie o interessamento del
cuore, anche in età adulta non sembrano
avere problemi cardiaci maggiori rispetto
a chi non ha avuto la sindrome.
Gli studi però suggeriscono che la malattia
possa produrre un’alterazione del
20 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
© Immersion Imagery/www.shutterstock.com
SALUTE
metabolismo dei grassi e che i pazienti colpiti
da MK - sottolinea la ricerca pubblicata
sul sito della Sip - abbiano una pressione
arteriosa più elevata, per cui è opportuno
monitorare questi bambini nel tempo.
Dove c’è stato un interessamento
delle coronarie le
alterazioni si modificano
nel tempo: il
50/67% degli aneurismi
coronarici
scompare entro 1-2
anni dall’inizio della
malattia, soprattutto
se aneurismi piccoli
e se il bambino non aveva compiuto
l’anno di età al momento della diagnosi
di MK. Le arterie coronariche in cui persistono
le anomalie possono rimanere dilatate
o restringersi, diventando tortuose
o occludersi.
La principale causa di morte nella
MK è appunto l’infarto miocardico acuto
Tra i sintomi c’è febbre alta,
congiuntivite bilaterale,
eruzioni cutanee e tumefazioni
ai linfonodi del collo
causato da una occlusione trombotica di
un’arteria ristretta o dilatata, proprio per
questo si adotta la terapia con ASA e anticoagulanti
con lo scopo di prevenire questa
occlusione. Per la cura della Sindrome
di Kawasaki, la terapia adotta l’uso di farmaci
volti a diminuire
l’infiammazione,
riducendo i sintomi
più acuti.
Lo scopo principale
è quello di prevenire
la comparsa
degli aneurismi coronarici.
1) Immunoglobuline
endovena (IVIG): rappresentano
il trattamento “protettivo” per
eccellenza per le coronarie: si eseguono
entro il 10° giorno di malattia, dietro consenso
dei genitori e dopo aver eseguito un
prelievo per epatite B, epatite C e HIV. 2)
Cortisone (Metilprednisolone): Si esegue
in casi selezionati (età, indici di flogosi,
interessamento cardiaco) è la somministrazione
di un bolo di cortisone dopo la
prima infusione di Immunoglobuline. 3)
Aspirina (ASA): A dosaggio maggiore (antinfiammatorio),
4 volte al giorno, fino a
48 ore dalla scomparsa della febbre; a dosaggio
minore (antiaggregante), una volta
al giorno, per 8 settimane dall’inizio della
malattia in pazienti senza alterazioni coronariche,
per tempo indefinito nei bambini
con interessamento delle coronarie. Nei
bambini con aneurismi delle coronarie è
necessario associare un farmaco anticoagulante.
Non è possibile poter prevenire con
anticipo la Kawasaki, poiché a tutt’oggi
sono ancora sconosciute le cause – affermano
le dottoresse – però si può intervenire
con immediatezza in presenza di alcuni
sintomi: “In caso di febbre persistente e
altri sintomi, far valutare immediatamente
il piccolo da un pediatra - consigliano le
tre studiose. Nei bambini con diagnosi
certa di MK e in trattamento con aspirina,
evitare contatti con persone affette da varicella
o da influenza per il rischio di sindrome
di Reye. Nei bambini trattati con
immunoglobuline per la MK i vaccini contro
morbillo, rosolia, parotite e varicella
devono essere posticipati di dieci mesi
dopo la somministrazione delle IVIG. È
consigliato vaccinare contro l’influenza i
bambini che hanno avuto la MK e che assumono
aspirina.
Per quanto riguarda l’attività sportiva,
non ci sono restrizioni per i pazienti senza
dilatazione coronarica o con dilatazione
transitoria dopo la sospensione dell’aspirina.
Per gli altri pazienti l’idoneità all’attività
sportiva dovrebbe essere fornita da
Centri con provata esperienza: le restrizioni
sono legate ai risultati dei test di funzionalità
cardio-vascolare- concludono- oltre
che alla terapia in corso (anticoagulanti,
antiaggreganti piastrinici).
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
21
SALUTE
di Chiara Di Martino
Tale madre, tale figlio. L’antico detto
popolare sembra essere valido
anche quando si parla di microbioma
intestinale, cioè quelle comunità
microbiche nell’intestino vitali per la
digestione umana, il metabolismo e la resistenza
alla colonizzazione da parte di agenti
patogeni. Nei neonati e nei bambini fino a
tre anni d’età, la sua composizione cambia
frequentemente. Ma da dove provengono
questi microbi?
Fino a poco tempo fa, gli scienziati erano
stati in grado di analizzare il microbioma
intestinale tra le 500 e le 1.000 diverse
specie batteriche che hanno principalmente
un’influenza benefica: tanto per fare qualche
esempio, stimolano il sistema immunitario,
mantengono la regolare funzionalità
intestinale, agiscono da barriera contro le
infezioni, attivano diverse funzioni metaboliche
utili per la salute, assorbono nutrienti
e minerali. Solo più recentemente i ricercatori
sono stati in grado di identificare singoli
ceppi all’interno di una singola specie usando
potenti strumenti genomici e supercomputer
che analizzano enormi quantità di dati
genetici.
Dagli Stati Uniti, in particolare dalla
University of Alabama at Birmingham, arriva
un nuovo tassello per lo studio di queste
“comunità”: i ricercatori hanno infatti
utilizzato il loro metodo “fingerprint” per
scoprire che un mosaico individualizzato di
ceppi microbici viene trasmesso al microbioma
dell’intestino infantile da una madre
che partorisca attraverso il parto vaginale.
Per arrivare a questo risultato, hanno analizzato
i database metagenomici esistenti di
campioni fecali da coppie madre-bambino,
confrontandoli con la medesima trasmissione
nel topo. Si parla di “impronta digitale”
perché l’insieme dei microrganismi presente
nel tratto gastrointestinale può essere considerato
il nostro secondo codice genetico:
differisce da persona a persona in base all’alimentazione,
allo stile di vita e ad eventuali
farmaci assunti.
«I risultati della nostra analisi dimostrano
che molteplici ceppi di microbi materni
(anche quelli presenti in minore quantità
nella comunità fecale materna) possono essere
trasmessi durante
la nascita per stabilire
una diversa comunità
microbica dell’intestino
infantile - ha affermato
Casey Morrow,
professore emerito del
Dipartimento di Biologia
cellulare, evolutiva
e integrativa dell’UAB -. La nostra analisi
fornisce nuove intuizioni sull’origine dei
ceppi microbici nella complessa comunità
microbica del bambino». Alla ricerca hanno
lavorato anche Hyunmin Koo, del Dipartimento
di genetica e genomica dell’UAB, e
Braden McFarland, assistente professore al
Dipartimento di biologia cellulare, dello svi-
Dalla University of Alabama
at Birmingham, arriva un
nuovo tassello per lo studio
di queste “comunità”
luppo e integrativa dell’ateneo statunitense.
Lo studio ha utilizzato uno strumento
bioinformatico di tracciamento dei ceppi
precedentemente sviluppato presso la UAB,
chiamato “Window-based Similarity Single-nucleotide-variant
o “WSS”. La coppia
madre-figlio non è infatti
il primo oggetto
di ricerca del gruppo,
che ha già esplorato
questa trasmissione
in altre relazioni: nel
2017, hanno scoperto
che i microbi fecali
di un donatore - usati
per trattare i pazienti con infezioni ricorrenti
da Clostridium - sono rimasti nei riceventi
per mesi o anni dopo il trapianto. Nel 2018,
hanno dimostrato che i cambiamenti nel
tratto gastrointestinale superiore attraverso
la chirurgia dell’obesità hanno portato alla
nascita di nuovi ceppi di microbi. Nel 2019,
hanno analizzato la stabilità di nuovi ceppi
22 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SALUTE
IMPRONTA DIGITALE
MICROBICA: TALE MADRE
TALE FIGLIO?
Come avviene la trasmissione
del microbioma intestinale
© Anatomy Insider/www.shutterstock.com
negli individui dopo i trattamenti antibiotici
e, all’inizio di quest’anno, hanno scoperto
che i gemelli adulti, di età compresa tra 36
e 80 anni, condividevano un certo ceppo o
più ceppi per periodi di anni e persino decenni,
dopo aver iniziato a vivere separati gli
uni dagli altri.
Una tendenza
confermata anche da
quest’ultimo studio,
in cui sono stati trovati
diversi modelli
individuali specifici di
condivisione del ceppo
microbico tra madri
e bambini. Tre coppie madre-bambino
hanno mostrato solo ceppi correlati, mentre
una dozzina di bambini presentavano un
mosaico di microbi correlati e microbi non
correlati. È possibile che questi ultimi provenissero
comunque dalla madre, ma in lei
non erano il ceppo dominante e per questo
non erano stati rilevati.
Ora va riconsiderato il
contributo di diversi microbi
materni alla comunità
microbica enterica infantile
© Manjurul Haque/www.shutterstock.com
In un secondo studio, usando un set di
dati di nove donne presi in momenti diversi
durante la gravidanza, è emerso che in sette
donne si sono verificate variazioni di ceppi
nelle singole specie.
«I risultati dei nostri studi supportano
una riconsiderazione
del contributo di diversi
microbi materni
alla comunità microbica
enterica infantile
- ha detto Morrow
-. La costellazione di
ceppi microbici che
abbiamo rilevato nei
neonati ereditati dalla madre era diversa in
ogni coppia madre-bambino. Dato il ruolo
riconosciuto del microbioma nelle malattie
metaboliche come l’obesità e il diabete di
tipo 2, i risultati del nostro studio potrebbero
aiutare per spiegare ulteriormente la
suscettibilità del bambino alle malattie metaboliche
riscontrate nella madre».
La “nuvola” di microbi
impronta digitale microbica è talmente
unica da poter essere uti-
L’
lizzata, potenzialmente, anche… dalla
polizia scientifica: uno studio del 2015
dell’Università dell’Oregon ha infatti
studiato la “nuvola personalizzata” di
microbi lasciata da ogni essere umano,
talmente univoca da poter condurre
al legittimo “proprietario”. Il team di
ricerca ha studiato l’aria di una stanza
sanificata in cui si trovavano 11 persone.
«Ci aspettavamo di rilevare il
microbioma umano nell’aria attorno
a ciascuno, ma siamo rimasti sorpresi
dal riuscire a identificare la maggior
parte degli occupanti della stanza - ha
spiegato all’epoca il primo autore dello
studio James Meadow - provando
per la prima volta che ciascuno emette
la propria nuvola personalizzata di
microbi». Lo studio ha dato risultati
entro le 4 ore dal passaggio di una persona
in una stanza ed è stato condotto
analizzando microbi presenti nel corpo,
per esempio lo streptococco che si
trova in bocca, il propionibacterium e
il corynebacterium che invece abitano
sulla pelle. Il lavoro ha evidenziato
come la chiave per l’identificazione del
singolo individuo sia la diversa combinazione
di questi batteri.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
23
SALUTE
È LA CELLULA MADRE A DECIDERE
SE LA CELLULA FIGLIA SI DIVIDERÀ
L’importante scoperta all’Università del Colorado
sulla persistenza della memoria dei fattori di crescita
Per quarant’anni, ricordano i ricercatori
della University of Colorado
(UC) di Boulder, ogni studente
ha imparato che il fondamentale
processo della divisione cellulare si programma
nella prima fase di vita della cellula
stessa. È quello il periodo in cui si stabilisce
quando e se una cellula nata dalla
divisione della cellula madre a sua volta
genererà altre cellule. Ma uno studio sviluppato
da un team dell’Università del
Colorado e pubblicato sulla rivista Science
apre nuove importanti frontiere su ciò che
sappiamo del ciclo cellulare.
«Abbiamo visto qualcosa di diverso
rispetto a ciò che da tempo è scritto nei
libri sull’argomento», ha spiegato Sabrina
Spencer, autrice senior dello studio e ricercatrice
del dipartimento di Biochimica
dell’università e del BioFrontiers Institute.
I ricercatori hanno scoperto che in realtà
è la cellula madre a determinare se le
sue cellule figlie si divideranno. Una scoperta
arrivata tramite l’utilizzo di moderne
tecnologie di imaging nell’indagine del
ciclo cellulare, che ha ricadute importanti
sull’individuazione di terapie farmacologiche
per il cancro. Per la ricerca sarebbe
decisamente importante comprendere appieno
le cause che determinano la proliferazione
cellulare e, soprattutto, il momento
in cui questa viene decisa. Ne deriverebbe
la possibilità di personalizzare le cure farmacologiche
di contrasto al cancro agendo
anche sulla tempistica della cura stessa.
L’altro punto rilevante dello studio è
relativo alla percezione dei fattori di crescita
e alla loro memoria impressa nella
cellula: le cellule, è stato scoperto, possono
immagazzinare memoria della disponibilità
dei fattori di crescita. «Abbiamo scoperto
che anche bloccando la segnalazione operata
dai fattori di crescita - ha dichiarato
Mingwei Min, primo autore e ricercatore
presso il dipartimento di Biochimica
dell’UC e il BioFrontiers Institute - le cellule
possono percepirla e possono ricordare
quell’informazione per molte ore, fino al
ciclo della cellula figlia».
Il ciclo cellulare è regolato in tutte le
sue dimensioni e qualsiasi interruzione o
errore nel processo può avere effetti importanti.
Le cellule scelgono di dividersi
in base alla quantità di mitogeni (fattori
di crescita) che percepiscono nel loro
ambiente. È la disponibilità di mitogeni a
spingere la duplicazione e la proliferazione
cellulare.
«Le cellule tumorali possono entrare
nel ciclo cellulare anche se non ci sono fattori
di crescita – ha spiegato Spencer – e
questo è parte del motivo per cui proliferano
così tanto: il ciclo cellulare diventa sregolato
e la crescita continua incontrollata».
Una delle innovazioni presentate dallo
studio riguarda il metodo con cui è stato
osservato il processo. Se precedentemente
era sempre stato necessario isolare i fattori
di crescita per sincronizzare il ciclo cellulare,
in questa ricerca sono state utilizzate
tecniche di microscopia timelapse e tecnologie
di tracciamento dello sviluppo cellulare:
così è stato possibile filmare le cellule
in attività in un tempo libero. L’operazione
sarebbe stata impensabile fino a dieci anni
24 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
© Juta/www.shutterstock.com
SALUTE
Capire quando viene decisa la proliferazione
cellulare aiuterebbe a personalizzare le cure
farmacologiche di contrasto al cancro
agendo anche sulla tempistica della terapia
hanno verificato che le cellule figlie non
hanno deciso in autonomia se dividersi,
ma hanno stabilito se impegnarsi o meno
in un nuovo ciclo cellulare immediatamente
dopo la divisione della cellula madre.
«Questo significa - ha aggiunto Spencer -
che la scelta è stata assunta nel precedente
ciclo cellulare, perché le cellule figlie erano
già nate. Possiamo ricavare che, probabilmente,
tutto il rilevamento dell’ambiente
avviene nel ciclo delle cellule madri».
Il passo successivo è stato interrogarsi
sul “quando” la cellula madre decide se le
sue cellule figlie si divideranno.
Per rispondere al quesito i ricercatori
hanno rimosso e sostituito i fattori di crescita
per diverse ore e in diverse fasi del ciclo
della cellula madre.
Hanno così scoperto che quanto più a
lungo i fattori di crescita sono stati rimossi,
tanto meno è risultato probabile che le
cellule figlie si siano divise. Nello specifico,
quando i fattori di crescita sono stati rimossi
per più di nove ore, nessuna delle cellule
figlie si era divisa.
Se dunque le cellule rilevano continuamente
la segnalazione del fattore di crescita,
e non solo nella prima fase dopo la divisione,
i farmaci antitumorali potrebbero
avere una finestra più ampia per rilasciare
effetti terapeutici. (S. L.).
fa, quando pochissimi laboratori potevano
tracciare le cellule e comunque per non più
di due ore. Il gruppo - sono coautori della
ricerca anche Yao Rong e Chengzhe Tian,
del medesimo istituto - utilizzando un metodo
computazionale di tracciamento, è invece
riuscito a tracciare migliaia di cellule
in un arco temporale di 48 ore. L’attività di
una singola cellula è stata fissata in centinaia
di immagini sequenziali.
La sperimentazione condotta nei laboratori
dell’Università del Colorado ha offerto
un tassello importante del funzionamento
di questo meccanismo. Gli scienziati
Il ciclo cellulare nelle scuole
I
l progetto “AIRC nelle scuole”
mette a disposizione una serie
di strumenti e materiali per parlare
di cellule e cancro utilizzando il
linguaggio più adatto all’età degli
studenti. Sul sito dedicato (http://
scuola.airc.it/) è possibile scaricare
gratuitamente i kit a disposizione,
specifici per le scuole di ogni ordine
e grado. Per la scuola dell’infanzia,
per esempio, il kit “Mangioco”
comprende una lezione strutturata
in collaborazione con un pedagogista,
immagini da colorare e alcuni
giochi. Per la scuola secondaria di
primo grado, invece, sono disponibili
proposte di semplici esperimenti
per scoprire il metodo scientifico e
praticare la chimica in cucina. Per
gli studenti delle scuole superiori,
invece, nella sezione dedicata alla
biologia, è possibile accedere a materiale
esplicativo specifico sul ciclo
cellulare e il cancro.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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SALUTE
© Chinnapong/www.shutterstock.com
Le malattie professionali tabellate del 2020
Due le liste esistenti, una per l’agricoltura e una per l’industria
Per poter parlare di malattie professionali tabellate, è
fondamentale la presenza di due condizioni. La prima,
richiede che la patologia sia sopraggiunta nel corso
dell’attività e sempre tenendo conto delle lavorazioni indicate
nelle stesse tabelle Inail. La seconda condizione è quella di
natura temporale (l.c sta per leghe e composti, nda).
Per quanto riguarda il comparto dell’agricoltura, l’Inail riconosce
le malattie provocate da:
• Arsenico e c.; Composti inorganici del fosforo; Composti
organici del fosforo; Derivati alogenati degli idrocarburi alitatici;
Derivati del benzene e omologhi; Composti del rame; Derivati
dell’acido carbammico e tiocarbammico; Composti organici
dello stagno; Derivati dell’acido ftalico e ftalimide; Derivati del
dipiridile; Formaldeide; Zolfo e anidride
Richiedono due condizioni:
che la patologia sia
sopraggiunta durante l’attività
e la natura temporale
solforosa; Olii minerali; Dermatite irritativa
da contatto; Cloracne causata; Asma bronchiale;
Alveoliti allergiche estrinseche con o
senza evoluzione fibrotica; Radiazioni solari
; Rumore; Vibrazioni meccaniche trasmesse
al sistema mano- braccio; Ernia discale lombare;
Sovraccarico biomeccanico degli arti
superiori; Ncylostoma duodenalis.
Quanto detto, vale anche per l’industria, le cui malattie professionali
tabellate Inail 2020 sono quelle causate da:
• Antimonio, l.c; Arsenico, l.c; Carcinoma del polmone;
Berillio, l.c; Cadmio, l.c; Cromo, l.c; Manganese, l.c; Mercurio,
amalgame e c.; Nichel, l.c; Osmio, l.c; Piombo, l.c; Piombo tetraetile
e tetrametile; Selenio, l.c; Stagno, l.c; Tallio, l.c; Uranio e c.;
Vanadio, l.c; Zinco, l.c; Bromo e suoi composti inorganici; Cloro
e suoi composti inorganici; Iodio e suoi composti inorganici;
Fluoro e suoi composti inorganici; Ossido di carbonio; Cloruro di
carbonile o fosgene; Composti inorganici del fosforo; Composti
organici del fosforo; Acido solforico; Solfuro di carbonio; Idrogeno
solforato; N- esano e altri idrocarburi alifatici lineari e ciclici;
Etere di petrolio; Acqua ragia minerale; Idrocarburi aromatici
mononucleari; Esposizione a idrocarburi policiclici aromatici;
Cloruro di vinile; Derivati alogenati o nitrici degli idrocarburi
alifatici; Derivati alogenati o nitrici degli idrocarburi aromatici;
Terpeni; Amine alifatiche e derivati; Amine aromatiche e derivati;
Ammidi; Acido cianidrico, cianuri, nitrili, isocianati; Chetoni e
derivati alogenati; Aldeidi e derivati; Chinoni e derivati; Alcoli,
tioli e derivati alifatici e aromatici; Esposizione per la produzione
di alcol isopropilico; Eteri e loro derivati; Acido carbammico,
acido tiocarbammico, carbammati, tiocarbammati; Esteri organici
e derivati; Esteri organici dell’acido nitrico; Asma bronchiale
con le sue conseguenze dirette; Alveolite allergica estrinseca con
o senza evoluzione fibrotica; Antracosi; Baritosi;
Siderosi; Pneumoconiosi da polveri di
pietra pomice; Malattie da asbesto; Erionite;
Pneumoconiosi da talco (talcosi); Pneumoconiosi
da mica; Pneumoconiosi da caolino;
Pneumoconiosi da polveri di silicati del tipo
argille; Polveri e fumi di alluminio; Metalli
duri; Bissinosi; Broncopneumopatia cronica
ostruttiva; Polveri di legno duro; Polveri
di cuoio; Dermatite allergica da contatto causata da agenti non
compresi in altre voci; Dermatite irritativa da contatto causata
da agenti non compresi in altre voci; Dermatite follicolare da oli
minerali; Cloracne; Dermatite irritativa o mista da fibre di vetro;
Dermatite irritativa o mista da malta cementizia e calcestruzzo;
Ipoacusia da rumore; Vibrazioni meccaniche trasmesse al sistema
mano- braccio; Ernia discale lombare; Sovraccarico biomeccanico
dell’arto superiore; Sovraccarico biomeccanico del ginocchio;
Lavori subacquei ed in camere iperbariche; Radiazioni ionizzanti;
Radiazioni laser; Radiazioni infrarosse; Radiazioni u.v. comprese
le radiazioni solari; Ancylostoma duodenalis. (P. S.).
26 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SALUTE
© Yang Nan/www.shutterstock.com
Trovato un gene che causa difetti metabolici
Si chiama GALNT2 ed afflige sette persone in tutto il mondo
di Carmen Paradiso
Si chiama GALNT2 ed è il nuovo gene, scoperto da un team
di ricercatori italiani, responsabile di una malattia rara. Una
patologia caratterizzata da un grave difetto del metabolismo
è stata oggetto di uno studio, pubblicato sulla rivista scientifica
Brain, realizzato dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù in
collaborazione col Policlinico Universitario di Messina e altri centri
internazionali: in USA (Pennsylvania, Minnesota, California), Germania,
Danimarca, Finlandia ed Egitto.
Lo studio è stato condotto sugli unici sette casi al mondo, noti
al momento. Nel laboratorio di genetica dell’Ospedale Pediatrico
Bambino Gesù è stato isolato il GALNT2 la
cui mutazione è la causa della patologia; da
qui è derivato il nome della stessa: “GAL-
NT2-congenital disorder of glycosylation
(GALNT2-CDG)”. Si tratta di una patologia
congenita a trasmissione ereditaria. Nelle patologie
autosomiche recessive entrambi i genitori
sono portatori sani del gene mutato. Quindi la
trasmissione deve avvenire da entrambi i genitori.
Uno degli esempi è dato dall’albinismo che si manifesta solo in
soggetti omozigoti per questa patologia.
Nel caso della GALNT2-congenital disorder of glycosylation
(GALNT2-CDG) i sette casi accertati provengono da famiglie,
quattro, in cui è stata sia accertata che diagnosticata la patologia.
Inoltre, sono state effettuati gli esami clinici e le indagini genetiche
SNP-array e sequenziamento dell’esoma, anche su due pazienti di
cui uno catalogato nella ricerca come controllo negativo. Il paziente
non manifestava i segni della patologia pur essendo portatore di due
varianti del gene GALNT2 e quindi non presentava i segni dell’alterazione
dell’attività proteica.
La ricerca, condotta dall’ospedale
Bambin Gesù e dal Policlinico
di Messina, è stata pubblicata
sulla rivista Brain
Grazie a questo studio sono state definite le caratteristiche genetica
che hanno evidenziato un ritardo globale dello sviluppo, disabilità
intellettiva con deficit del linguaggio, tratti autistici, epilessia,
anomalie cerebrali, dismorfismi e riduzione dei livelli di colesterolo
HDL. «La scoperta di un gene-malattia è sempre il punto di partenza
per ogni futuro intervento diagnostico e di presa in carico di quella
malattia – ha spiegato il dottor Antonio Novelli, responsabile della
UOC Laboratorio di Genetica Medica dell’Ospedale - La medicina
di precisione, cioè lo sviluppo di protocolli mirati di terapia, non
esisterebbe se non si avesse la possibilità di partire da uno specifico
difetto genetico nei confronti della malattia e dalle vie metaboliche
che vengono alterate dalla mutazione genica. Un percorso che a volte
può consentire di sviluppare molecole o interventi di altra natura
specificamente rivolti a contrastare l’effetto
della mutazione».
La “GLANT2-CDG” rientra nel gruppo
delle malattie metaboliche ereditarie rare
dette “ Disturbi congeniti della glicosilazione
(CDG)”, si tratta di malattie solitamente multisistemiche.
La glicosilazione prevede una serie
complessa di reazioni e coinvolge numerosi
enzimi, uno per ogni specifico passaggio: è sufficiente
che un unico enzima sia carente o funzioni male perché ne
risenta il funzionamento di tutte quelle proteine per le quali la componente
zuccherina è importante. Poiché l’effetto della glicosilazione
avviene su molteplici proteine responsabili di diverse funzioni di
una cellula, un disturbo di tale processo causa la compromissione di
molti organi.
Il ritardo psicomotorio è uno dei segni più frequenti di queste
patologie, oltre a disfunzioni del sistema immunitario, del sistema
endocrino e della coaugulazione. Ad oggi non esistono cure per queste
malattie, ciò che la medicina è in grado di fare è trattare i sintomi
e offrire consulenze genetiche alle famiglie.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
27
SALUTE
Un odore, un suono, anche una
semplice parola: anche a distanza
di molto tempo basta poco, a volte,
per richiamare alla mente un
brutto ricordo e, con lui, gli effetti originari
sulla nostra psiche. Ansia, per esempio, ma
anche attacchi di panico. Perché questo accade
oggi sembra essere un po’ più chiaro
grazie a uno studio dello Zuckerman Institute
della Columbia pubblicato su Neuron.
Tutto è iniziato da un racconto raccolto
dallo psichiatra clinico (coautore dello studio)
Mohsin Ahmed, assistente professore al
Vagelos College of Physicians and Surgeons
della Columbia: una donna cammina per
strada, sente un botto; alcuni istanti dopo
scopre che il suo ragazzo, che le camminava
davanti, è stato colpito da un proiettile. Un
mese dopo la donna si presenta al Pronto
soccorso: i rumori emessi dai camion della
spazzatura, dice, le stanno causando attacchi
di panico.
Il suo cervello sembrava avere formato
una connessione profonda e duratura tra
suoni forti e l’evento traumatico a cui aveva
assistito. Cosa ha scoperto il gruppo di
ricerca? Un meccanismo sorprendente attraverso
il quale l’ippocampo, la parte del
cervello situata nella regione interna del
lobo temporale – considerata la “sede” della
memoria - costruisce “ponti” nel tempo: lo
fa sparando scariche di attività che sembrano
casuali, ma in realtà formano un modello
complesso che, nel tempo, aiuta il cervello
ad apprendere associazioni. Rivelando i circuiti
sottostanti l’apprendimento associativo,
i risultati dello studio gettano le basi per
una migliore comprensione dell’ansia e dei
disturbi legati al trauma e allo stress, come
il panico e i disturbi da stress post-traumatico,
in cui un evento apparentemente neutro
può suscitare una risposta negativa.
«Sappiamo che l’ippocampo è importante
nelle forme di apprendimento che
implicano il collegamento di due eventi che
PANICO, ANSIA, TRAUMI:
COME IL CERVELLO COLLEGA
EVENTI DISTANTI NEL TEMPO
Uno studio dello Zuckerman Institute
della Columbia pubblicato su Neuron
si verificano anche fino a 10-30 secondi di
distanza - ha detto Attila Losonczy, ricercatore
del Mortimer B. Zuckerman Mind
Brain Behaviour Institute della Columbia e
professore di neuroscienze al Vagelos College
of Physicians and Surgeons, autore co-senior
del documento -. Questa capacità è un
fattore chiave per sopravvivere,
ma i meccanismi
che nascono Gli studiosi hanno
si sono finora rivelati
“immortalato” parti
sfuggenti. Con lo studio
di oggi, abbiamo dell’ippocampo durante
mappato i complessi l’esposizione a diversi stimoli
calcoli che il cervello
esegue per collegare
eventi distinti che sono anche separati nel
tempo».
«L’opinione prevalente è che le cellule
dell’ippocampo mantengano un livello di
attività persistente per associare eventi distanti
nel tempo – ha detto Ahmed -. La disattivazione
di queste celle interromperebbe
così l’apprendimento».
Nell’esperimento, gli studiosi hanno
“immortalato” parti dell’ippocampo durante
l’esposizione a due diversi stimoli:
un suono neutro seguito da un piccolo ma
spiacevole sbuffo d’aria, distanti circa 15
secondi. Gli scienziati hanno ripetuto questo
esperimento attraverso diverse prove.
Nel corso del tempo,
si è creata l’associazione
tra i due stimoli.
Usando la microscopia
a due fotoni
avanzata e l’imaging
funzionale del calcio,
hanno registrato
l’attività simultanea
di migliaia di neuroni nell’ippocampo nel
corso di ogni prova per molti giorni. «Con
questo approccio, potremmo simulare,
seppur in modo più semplice, il processo
che il nostro cervello subisce quando impariamo
a collegare due eventi» ha detto Losonczy.
Per trovare un filo ancora più lineare
alle informazioni raccolte, i ricercatori
28 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SALUTE
© BlurryMe/www.shutterstock.com
hanno poi collaborato con neuroscienziati
computazionali che sviluppano strumenti
matematici per analizzare enormi quantità
di dati sperimentali.
«Ci aspettavamo di vedere un’attività
neurale continua e ripetitiva persistente durante
il gap di quindici secondi, un’indicazione
dell’ippocampo
“Enormi” le potenzialità
legate a questa scoperta
per mappare i circuiti
dell’apprendimento
© Tero Vesalainen/www.shutterstock.com
al lavoro che collegasse
il tono uditivo
e il soffio d’aria - ha
detto il neuroscienziato
computazionale
Stefano Fusi, ricercatore
allo Zuckerman
e coautore senior del
documento -. Ma quando abbiamo iniziato
ad analizzare i dati, non abbiamo visto tale
attività».
L’attività neurale registrata durante l’intervallo
era effettivamente scarsa. Solo un
piccolo numero di neuroni si era “acceso” e
sembrava farlo apparentemente a caso. «L’attività
sembra avvenire a intervalli intermittenti
e casuali – ha dichiarato il dottorando
James Priestley, tra gli autori dello studio -.
Per comprendere il meccanismo, abbiamo
dovuto cambiare il modo in cui stavamo
analizzando i dati e utilizzare strumenti progettati
per dare un senso ai processi casuali».
Alla fine, il modello è stato individuato: invece
di comunicare costantemente
tra loro,
i neuroni risparmiano
energia, forse codificando
le informazioni
nelle sinapsi, piuttosto
che attraverso
l’attività elettrica delle
cellule. Un segno di
grande efficienza, da parte del cervello. Le
potenzialità di questa scoperta per mappare
i circuiti coinvolti nell’apprendimento associativo
sono enormi, altrettanto quelle per
esplorare più profondamente i disturbi che
coinvolgono disfunzioni nella memoria associativa,
come il panico e il disturbo da stress
post-traumatico. (C. D. M.)
I numeri
emergenza sanitaria che coinvolge
L’ (anche) il nostro Paese ha messo
a dura prova la stabilità psicologica
di circa il 63% degli italiani, secondo
un’indagine del Consiglio nazionale
dell’Ordine degli Psicologi. Quello
che viene “misurato” oggi, però, è un
fenomeno attestatosi in crescita negli
ultimi anni, anche prima della pandemia
e del conseguente lockdown, che
ne hanno certamente acuito l’espressione.
Un’indagine 2019 dell’Associazione
Europea Disturbi da Attacchi di
Panico (Eurodap) aveva già registrato
un forte aumento di italiani alle prese
con ansia e attacchi di panico: ben il
79% dei soggetti che hanno risposto al
sondaggio aveva avuto, nel mese precedente,
manifestazioni fisiche frequenti
e intense di ansia, mentre il 73% del
campione ha dichiarato di percepirsi
come una persona molto apprensiva. Il
68% ha riferito di vivere con disagio lo
stare lontano da casa o dai luoghi familiari
e il 91% ha dichiarato di avere
non poche difficoltà nel rilassarsi. Secondo
gli esperti, gli attacchi di panico
si manifestano generalmente tra i 15 e
i 35 anni, con un nuovo picco tra i 44
e i 55 anni.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
29
SALUTE
LEGGERE LE EMOZIONI CON UN
RADAR A ONDA CONTINUA
Una ricerca portoghese ha sottoposto dei volontari a un test di
cattura dello stato d’animo a partire dal ritmo del respiro
Dire che un’emozione ci si legge in
volto potrebbe diventare un’affermazione
dal valore scientifico
incontrovertibile. Soprattutto
se, come suggerisce un recente studio
portoghese, toccherà a una tecnologia già
nota e comunemente
in uso l’interpretazione
di ciò che il corpo,
più precisamente il
nostro respiro, prova
a dire di noi e del nostro
stato d’animo.
Uno studio sulla
fattibilità dell’utilizzo
del radar a onda continua per il riconoscimento
delle emozioni è stato sviluppato nel
dipartimento di Elettronica, Telecomunicazioni
e Informatica dell’Università di Aveiro,
in Portogallo. La ricerca, di cui Carolina
Gouveia è l’autrice principale, è stata pubblicata
sul numero di aprile della rivista “Biomedical
Signal Processing
and Control”.
L’indagine ha verificato
la possibilità
di sfruttare le onde
continue nella rilevazione
del segnale
respiratorio dell’individuo,
per poi
strutturare una corrispondenza
quanto più solida tra il segnale
corporeo e l’emozione provata.
Il punto di partenza dello studio è la
consapevolezza che le nostre emozioni siano
risposte adattive a eventi o stimoli esterni
che influenzano il nostro comportamento.
La patologia porta perdita
del contatto con la realtà
e una costruzione
di una vita alternativa
Gli autistici hanno difficoltà
a rispondere alle domande
e a partecipare alla vita
o ai giochi di gruppo
Ed è ormai noto che queste reazioni possano
essere comunicate anche da alcuni indicatori
biologici: ritmo cardiaco, affanno o precisi
movimenti del corpo. Ma, attualmente,
per misurare il comportamento attraverso le
variazioni di questi segnali fisiologici è necessario
fare ricorso
a una strumentazione
che prevede il contatto
con il corpo, basti
pensare all’elettroencefalogramma
o all’elettrocardiogramma.
Inoltre, hanno fatto
notare gli autori dello
studio, proprio il contatto tramite sensori e
la consapevolezza del funzionamento delle
strumentazioni potrebbe influenzare i risultati
della misurazione.
Non è la prima volta che gli scienziati
pensano ai radar per rilevare gli stati emotivi
nelle persone. Alcuni studi recenti
avevano già indagato
la materia, puntando
© sun ok/www.shutterstock.com
a generare algoritmi
capaci di “riconoscere”
le emozioni. Nel
2016, in occasione
dell’International
Conference on Mobile
Computing and
Networking fu presentato
l’utilizzo del radar a modulazione
di frequenza (FMCW) nel monitoraggio
del battito cardiaco durante la visualizzazione
di ricordi racchiusi in immagini
o musica, e collegando il segnale a sensazioni
di gioia, tristezza o rabbia. In questo
caso era stato utilizzato l’algoritmo di
classificazione SVM (Support-Vector Machine),
raggiungendo un livello di accuratezza
del 72,3%.
Due anni dopo, nel 2018, un team
dell’università della California, al summit
Asia-Pacific Microwave Conference
promosso dall’ Institute of Electrical and
Electronics Engineers (IEEE), ha presentato
un’applicazione basata sull’algoritmo
k-nearest neighbors (KNN, un algoritmo
tipico del machine learning, utilizzato nel
riconoscimento dei pattern per classificare
oggetti simili a un oggetto dato come target)
e su un radar CW per la verifica del
segnale respiratorio collegato a quattro
emozioni: gioia, tristezza, paura e uno stato
di neutralità. In questo caso il tasso di precisione
è stato del 67,4%.
Risalgono, inoltre, allo stesso anno altri
studi basati sulla risposta allo stress, in
cui l’algoritmo SVM è stato utilizzato per
provare a distinguere tra stress psicologico
30 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SALUTE
e fisico a partire dalla misurazione del respiro.
La sperimentazione portoghese ha
utilizzato invece una tecnologia diversa: il
radar utilizzato è basato su una tecnologia
chiamata Software Defined Radio (SDR),
che permette, cioè, di realizzare apparati
radio non soltanto grazie all’hardware
ma che sono definiti dal software. Questa
tecnologia è stata sfruttata per rilevare il
respiro, verificando i cambiamenti del suo
ritmo man mano che agli individui coinvolti
venivano mostrati video collegati alle
emozioni da indagare: comici, spaventosi
oppure su un genere neutrale come quello
del documentario.
Per evitare contaminazioni, i nove partecipanti
allo studio erano del tutto ignari
del contenuto che avrebbero visionato e
venivano testati in tre sessioni distinte, una
per ciascuna delle emozioni da “misurare”,
a distanza di una settimana l’una dall’altra.
La sperimentazione, inoltre, ha elaborato
i segnali raccolti con tre algoritmi diversi
SVM, KNN e Random Forest. I segnali respiratori
dei volontari sono stati acquisiti
utilizzando un sistema radar CW chiamato
Bio-Radar, abbinato a un apparecchio di
certificazione dell’acquisizione del segnale.
L’obiettivo del team era verificare
quanto i segnali misurati a distanza possano
essere utilizzati per l’identificazione delle
emozioni. I risultati, hanno spiegato gli
autori della ricerca, sono stati positivi. Dei
tre algoritmi utilizzati, quello più efficace
è stato il Random Forest che ha permesso
di raggiungere una validazione del 65,2%.
A partire da questi risultati, la ricerca
portoghese condivide alcuni spunti
sull’utilizzo futuro del radar a onda continua.
Gli scenari più interessanti appaiono
quelli dell’assistenza a pazienti in cura psicologica:
captarne con maggiore precisione
le emozioni senza ricorrere a indagini
invasive potrebbe essere d’aiuto nei processi
della diagnosi e della cura di molti
disturbi. (S. L.).
L’emotion AI
L
a possibilità di riconoscere le emozioni
è l’obiettivo di numerosi
scienziati che sperano di poter applicare
la rilevazione a distanza del nostro
sentire a svariati campi. Un settore che
su questo punto sta investendo molto
è quello del marketing, per cui prende
sempre più spazio il ricorso all’Emotion
AI. L’obiettivo è sfruttare l’intelligenza
artificiale per riconoscere e
interpretare alcuni segnali di apprezzamento
o disturbo di clienti e potenziali
acquirenti. La cattura dell’emozione
può avvenire attraverso la webcam.
Ma le sperimentazioni di Emotion AI
indagano anche le modulazioni sonore
della nostra voce, per cercare di riconoscere
in un’inflessione un segnale di
potenziale interesse.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
31
SALUTE
IL GENE CHE CONTROLLA
L’ATTIVITÀ ELETTRICA CEREBRALE
Si chiama Foxg1 e può modulare l’attività
dei neuroni della nostro cervello
Una ricerca guidata da SISSA (Scuola
Internazionale Superiore di Studi
Avanzati) di Trieste, Università
di Trento e Istituto di Neuroscienze
di Pisa, ha individuato il gene Foxg1 che ha
la capacità di modulare l’attività elettrica dei
neuroni della nostra corteccia cerebrale, elemento
fondamentale per il funzionamento del
nostro cervello, comportandosi come una vera
e propria manopola molecolare.
Le enormi capacità di questo gene erano
già note ai ricercatori, tanto da venir considerato
un “Master Gene” un gene maestro,
capace di coordinare l’azione di centinaia di
altri geni necessari per lo sviluppo del nostro
sistema nervoso centrale anteriore. Come riportato
da questo nuovo studio, - spiega la
SISSA in un comunicato ufficiale - da questo
gene dipende anche “l’eccitabilità” dei neuroni,
ossia la capacità che essi hanno nel rispondere
agli stimoli, comunicando tra di loro
e svolgendo tutti i compiti loro assegnati. Lo
studio dei ricercatori si è basato su esperimenti
che sono stati condotti su modelli animali e
cellulari dove il gene Foxg1 aveva un’attività
artificialmente alterata: con un’attività che potremmo
definire scarsa, volta a riprodurre una
situazione tipica nei pazienti affetti da una rara
variante della Sindrome di Rett, malattia che
è clinicamente riconducibile ad alcuni aspetti
dello spettro autistico; o altrimenti con un’
attività particolarmente eccessiva, situazione
che si verifica in una specifica variante della
Sindrome di West, con sintomi neurologici
molto importanti come ad esempio una grave
epilessia oppure un severo ritardo cognitivo.
Grazie a queste osservazioni, le deduzioni
avute dagli scienziati della ricerca hanno
potuto avere le loro conferme, il difetto nella
“manopola” si manifesta con un’alterata
attività elettrica del cervello che comporta
conseguenze importanti per l’intero sistema,
in maniera molto speculare a quanto accade
nelle due sindromi sopracitate. «Fare luce su
questo meccanismo - dicono i ricercatori – ci
permette di comprendere più profondamente
il funzionamento del nostro sistema nervoso
centrale sia quando è in salute che in caso di
malattia, passo fondamentale per valutare possibili
futuri interventi terapeutici per fronteggiare
queste patologie».
Questa ricerca condotta sul gene Foxg1,
cronologicamente è quella più recente e si va
a collocare all’interno di una serie di tre studi
riguardanti questo particolare gene, che
sono appunto stati recentemente pubblicati
dai ricercatori della SISSA sulla famosa rivista
scientifica di Neuroscienza “Cerebral Cortex”.
Un progetto iniziato oltre cinque anni
fa, che ha visto coinvolte in prima linea l’equipe
del professor Antonello Mallamaci della
SISSA assieme ai ricercatori del Università
di Trento e l’Istituto di Neuroscienze di Pisa,
con il sostegno della Fondazione Telethon, in
prima linea per la ricerca di cure per malattie
genetiche rare, della Fondazione Francese
“Jerome Lejeune” ed infine della FOXG1 Research
Foundation (FRF).
«Sapevamo che questo gene era importante
per lo sviluppo del sistema nervoso centrale
anteriore» spiega Antonello Mallamaci,
Lo studio consentirà
di approfondire il
funzionameno del nostro
sistema nervoso centrale
32 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SALUTE
Da questo “Master Gene” dipende anche
“l’eccitabilità” dei neuroni, ossia la capacità
che hanno nel rispondere agli stimoli,
comunicando tra di loro e svolgendo
tutti i compiti che gli sono assegnati
professore di Biologia Molecolare presso la
SISSA, che ha ricoperto il ruolo di coordinatore
della ricerca. «Negli studi precedenti, in
effetti, avevamo già messo in luce come fosse
coinvolto nello sviluppo di particolari cellule
del cervello, gli astrociti, come pure dei dendriti
neuronali, che sono le parti delle cellule
nervose che trasportano il segnale elettrico in
arrivo alla cellula. Il fatto che fosse mutato in
pazienti affetti da specifiche varianti delle sindromi
di Rett e quella di West, in cui si assiste,
rispettivamente, a un’insufficiente oppure ad
un’eccessiva attività di questo gene, ci ha fatto
esplorare la possibilità che il suo ruolo fosse
anche un altro. E, da quanto emerso, sembrerebbe
proprio così».
Lo studio avrebbe infatti evidenziato
come nell’attivazione dell’attività elettrica di
Foxg1, venga seguito un circuito positivo,
come spiega ancora il professor Mallamaci:
«Se il gene è molto attivo si registra un aumento
dell’attività elettrica nella corteccia
cerebrale. In più i neuroni, quando sono attivi,
tendono a farlo lavorare ancor di più. Un
processo, insomma, alimenta l’altro. Se però
il gene funziona in maniera abnorme, oppure
si trova in un numero di copie diverso da
due, come avviene nelle sindromi di Rett ed in
quella di West, il punto di equilibrio cambia
e il regime di attività elettrica è alterato. Tutto
questo, oltre a farci capire i meccanismi della
Il prossimo passo sarà
capire il funzionamento dei
geni mediatori, ossia quelli
regolati da Foxg1
patologia, ci dice che Foxg1 funziona proprio
come regolatore chiave dell’attività elettrica
della corteccia cerebrale».
La ricerca non si ferma mai ed il team del
professor Mallamaci è pronto ed ha già ben
chiaro in mente quale sarà il prossimo obiettivo
da raggiungere: occorre capire e comprendere
il ruolo che svolgono i geni mediatori,
ossia alcuni tra i moltissimi geni la cui azione
è regolata dal gene maestro Foxg1. Questa
analisi sarà molto importante per riuscire a
comprendere in modo ancora più dettagliato
come questo gene funzioni sia in condizioni
normali che patologiche. «Posto che trovare
una terapia per queste malattie è difficilissimo,
lavorando così in profondità si potrebbe scoprire,
per esempio, che la maggior parte dei
problemi siano causati proprio da alcuni degli
operatori che Foxg1 regola.
E che quindi si debba concentrare la nostra
attenzione su questi obiettivi, piuttosto
che sul gene maestro, magari utilizzando dei
farmaci che già esistono e che si sono visti essere
utili per rimediare a quegli specifici difetti».
Infine il professore Mallamaci si sofferma ad
analizzare quali potrebbero essere gli aspetti
futuri nel caso si volesse invece andare a correggere
le anomalie a carico del gene Foxg1
con la terapia genica: «Bisogna capire quando
intervenire ossia da che momento in poi
gli effetti patologici dovuti alla mutazione di
tale gene diventano irreversibili. Per sostituire
la copia difettosa con quella corretta
bisogna intervenire prima di quel momento,
il che potrebbe supporre di dover effettuare
una diagnosi e una terapia genica prenatale.
I prossimi passi che compiremo - conclude il
professor Mallamaci – saranno orientati proprio
nella direzione di comprendere più a fondo
tutti questi aspetti». (M. M).
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
33
SALUTE
MALATTIE NEURODEGENERATIVE
DA TRENTO UNA CHIAVE GENETICA
Un meccanismo molecolare per curare
«nel giro di qualche anno» diverse patologie
di Domenico Esposito
La premessa è d’obbligo: serviranno
ancora tempo, ricerca e investimenti.
Ma da oggi i pazienti affetti
da malattie neurodegenerative, e i
parenti che si prendono cura di loro, hanno
una speranza in più da coltivare. Tutto grazie
ai ricercatori dell’Università di Trento,
meritevoli della concessione di un brevetto
valido in Europa
e negli Usa grazie
all’invenzione di un
meccanismo che si
inserisce nell’ampia
ricerca scientifica internazionale
sulle terapie
geniche.
Oggetto delle ricerche
compiute nei
laboratori dell’ateneo di Trento i filamenti
Rna. Quello delle malattie neurodegenerative,
oltre a rappresentare un dramma individuale,
con l’invecchiamento generale
della popolazione costituisce uno dei maggiori
problemi di salute pubblica a livello
globale. Michela Denti, coordinatrice dello
I ricercatori dell’Università
di Trento hanno ottenuto
un brevetto valido in
Europa e negli Usa
studio realizzato dall’Università di Trento,
da più di dieci anni studia quelle a base
genetica. Proprio lei ha spiegato come il
nuovo approccio terapeutico sia stato testato
finora soltanto sulle cellule di laboratorio.
Una precisazione che serve a ribadire
come, prima di cantare vittoria, si debba
porre in essere la fase preclinica, passaggio
indispensabile affinché qualcuno possa decidere
di acquisire il brevetto e dare il via
ad una sperimentazione clinica.
Proprio Michela
Denti giudica il meccanismo
«promettente»
e auspica che nel
giro di qualche anno
possa diventare una
terapia nuova per varie
malattie, sia rare
che diffuse, caratterizzate
da «un’irreversibile
e progressiva perdita di funzionalità
neuronale» e per le quali ad oggi non vi
sono cure. Come detto, al centro degli studi
di Michela Denti e del suo team di ricerca
del Dipartimento di Biologia cellulare,
computazionale e integrata Cibio dell’Ateneo
di Trento c’è il cosiddetto Rna, l’acido
ribonucleico fondamentale nei processi di
decodifica, regolazione ed espressione dei
geni. L’acido ribonucleico è anche la molecola
che recepisce e invia gli input per la
produzione delle proteine.
Ma in cosa consiste l’invenzione che è
valsa all’ateneo di Trento la concessione di
un brevetto? Michela Denti, professoressa
di Biologia applicata, e le ricercatrici Giuseppina
Covello e Kavitha Siva, hanno ideato
una terapia molecolare a base di Rna
per malattie neurodegenerative (denominate
Taupatie), causate da anomalie della
proteina Tau, codificata dal gene Mapt e
correlata alla stabilità dei microtubuli, e
dunque al buon funzionamento di alcuni
processi della memoria. Bersaglio della
terapia diventa proprio l’Rna messaggero
della proteina Tau che è mutato nella malattia.
Così facendo, spiega la dottoressa
Denti, “il filamento di Rna si lega a quello
complementare” e finisce per colpire con
precisione solamente il tratto del filamento
alterato a causa della mutazione dal quale
si origina la malattia.
Un approccio che è possibile grazie al
seguente metodo: «Sviluppiamo molecole
di Rna (siRNAs, short interfering Rna o
34 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
AMBIENTE SALUTE
© Chinnapong/www.shutterstock.com
© Kateryna Kon/www.shutterstock.com
Rna interferente breve, oppure oligonucleotidi
antisenso), che si basano su brevi
sequenze di nucleotidi (tipicamente venti
o meno) in grado di interferire con la sintesi
delle proteine o con il processamento
dell’Rna messaggero. Li utilizziamo come
strumenti terapeutici per ottenere alta efficienza
e specificità nel trattare malattie
geniche. Dopo 20 anni di ricerche, questi
approcci stanno avendo un grande successo
negli ultimi quattro anni come terapie
per malattie genetiche
rare e letali, come
l’atrofia muscolare
spinale, la porfiria
epatica acuta e l’amiloidosi
ereditaria».
L’obiettivo dei
ricercatori è quello
di dare vita ad un
approccio mirato per
una demenza ereditaria precoce, che insorge
entro i 60 anni di età, (la demenza
frontotemporale con parkinsonismo legata
al cromosoma 17), ma il meccanismo molecolare
potrebbe rivelarsi utile anche per
varie patologie dovute ad alterazioni della
proteina Tau.
Al centro degli studi
del team di ricerca c’è l’Rna,
fondamentale nei processi
di decodifica
Basti pensare alla malattia di Huntington,
la distrofia miotonica, ma anche lo
stesso morbo di Alzheimer - malattia complessa,
scatenata da diversi fattori ad oggi
non ancora totalmente chiari e senza cura
- che, al pari della demenza frontotemporale,
fa registrare un accumulo sospetto di
proteina Tau nel cervello delle persone che
ne sono affette.
Giuseppe Caputo della Divisione
Supporto Ricerca scientifica e Trasferimento
tecnologico di UniTrento ha spiegato:
«Per il progetto di Michela Denti,
su cui l’Ateneo ha investito molto in termini
di protezione brevettuale, abbiamo
richiesto a IP Booster, con il supporto di
Hit - Hub Innovazione Trentino, quattro
servizi ad alto valore aggiunto relativi alla
valutazione dell’iter
per garantire al meglio
la protezione
legale dei risultati
della ricerca; l’analisi
di competitors e
concorrenza nel settore
della Rna therapeutics;
la verifica
delle potenzialità
dell’invenzione e del possibile posizionamento
nel mercato per poterla valorizzare
al massimo; infine la consulenza e il
supporto nella negoziazione di accordi di
trasferimento tecnologico che sono alla
base del potenziale utilizzo economico
dei risultati della ricerca pubblica».
Com’è stata possibile la ricerca
La professoressa Denti ha voluto
ricordare chi ha sostenuto la ricerca:
«Un investimento importante
a mio favore è venuto dall’Università
di Trento, che con la Divisione
Supporto Ricerca scientifica e
Trasferimento tecnologico mi ha
accompagnata nella partecipazione
a bandi di finanziamenti su base
competitiva e a tutto l’iter per ottenere
il brevetto». Importante anche
il servizio di consulenza sugli aspetti
applicativi della ricerca biomedica
ottenuto dalla Fondazione per la
Valorizzazione della Ricerca Trentina,
nata per iniziativa della Fondazione
Cassa di Risparmio di Trento
e Rovereto, in collaborazione con il
Dipartimento Cibio di Biologia cellulare,
computazionale e integrata
dell’Università di Trento e con Hit
- Hub Innovazione Trentino. Infine
si è manifestata l’opportunità
di usufruire di servizi avanzati per
l’analisi della proprietà intellettuale
offerti dalla Commissione Europea
attraverso il progetto IP Booster,
per esplorare il mercato potenziale
e valutare il panorama competitivo
sulla tecnologia della terapia Rna.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
35
SALUTE
SCOPERTO IL GENE ZNF398
CONSENTE ALLE STAMINALI
DI RESTARE SEMPRE GIOVANI
Lo identifica un team di ricerca dell’Università di Padova in
collaborazione con l’Università di Torino
36 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
© pinkeyes/www.shutterstock.com
SALUTE
I ricercatori hanno confrontato
il comportamento delle cellule in presenza
o assenza della proteina TGF-beta e isolato
i primi geni che ne erano influenzati
young”, per sempre
giovani. Non si tratta solamente
del ritornello di una nota
“Forever
canzone ma anche dell’effetto
prodotto dal gene ZNF398, identificato per la
prima volta da un team di ricerca guidato da
Graziano Martello dell’Università di Padova,
in collaborazione con l’Università di Torino.
Nello studio, pubblicato sulla rivista Nature
Communications e finanziato dalla Fondazione
Armenise Harvard, si evidenzia l’azione da
conservante che il gene appena scoperto è in
grado di esercitare sulle cellule staminali. La
presenza di ZNF398 rappresenta infatti la cartina
di tornasole per determinare un corretto
funzionamento delle iPS, le cellule staminali
pluripotenti indotte. Ma qual è la loro peculiarità?
La caratteristica principale risiede nella
capacità di dare origine a qualsiasi cellula, indipendentemente
che si tratti ad esempio dei
neuroni o di quelle del fegato.
Le staminali pluripotenti indotte hanno
origine a partire da cellule adulte del corpo
mediante quel processo che prende il nome
di riprogrammazione. Le staminali vengono
per questo motivo considerate una fonte cellulare
preziosa in particolare per le terapie
avanzate di medicina rigenerativa. Per essere
conservate, le cellule staminali vengono solitamente
congelate; quando si tratta di riportarle
ad una temperatura idonea risulta perciò
fondamentale mantenerne la stabilità prima
di riprogrammarle nelle cellule che si desiderano
(ad esempio i neuroni). Ed è proprio in
questo passaggio che si determina la portata
della scoperta del gene ZNF398 ad opera del
team di ricerca guidato da Graziano Martello.
Fino ad oggi, infatti, i metodi impiegati
per la stabilizzazione delle cellule staminali si
erano basati su metodologie empiriche. Nello
specifico, i ricercatori sanno da sempre che
per conservare senza rischi le cellule staminali
scongelate è necessario aggiungere ogni
giorno una particolare molecola che prende
il nome di TGF-beta, che esercita un’azione
da inibitore impedendo alle cellule di differenziarsi.
Questo procedimento, però, prima
dell’identificazione compiuta dall’Università
di Padova in collaborazione con l’Università
di Torino, veniva compiuto senza comprendere
esattamente quali fossero le dinamiche che
consentivano la conservazione delle staminali
stesse. Al team di ricerca padovano, composto
da giovani ricercatori tutti sotto i 40 anni, il
merito di essere riuscito a svelare l’arcano: scoprire
cioè come agisce la proteina TGF-beta
che impedisce la differenziazione delle cellule.
Piccolo indizio: c’entra il gene ZNF398, il
famoso “Forever young” di cui accennavamo
all’inizio. Quando la proteina TGF-beta viene
somministrata, infatti, la reazione che scaturisce
determina l’attivazione del gene di cui
sopra, ribattezzato appunto ZNF398. Come
ha spiegato Graziano Martello del Dipartimento
di Medicina Molecolare dell’Università
di Padova, la scoperta è il risultato di cinque
anni di lavoro. Il coordinatore dello studio ha
precisato che il gene identificato è quello che
da solo consente di mantenere le staminali indifferenziate.
Ma com’è stato possibile arrivare a questa
scoperta così importante per la medicina
rigenerativa? I ricercatori hanno confrontato
il comportamento delle cellule in presenza
o assenza della proteina TGF-beta e isolato
i primi geni che nelle staminali sembravano
risultare influenzati dalla proteina. Ovviamente
sono in tanti, adesso, a chiedersi quali
implicazioni, e soprattutto, quali applicazioni
potrà avere la scoperta compiuta dall’ateneo
patavino in collaborazione con quello torinese.
Sulla questione, il coordinatore del team
di ricerca è stato molto chiaro: lo studio non
servirà a curare una specifica patologia ma
avrà un impatto su tutte le malattie che oggi
vengono studiate grazie alle cellule staminali
pluripotenti. Martello ha rimarcato come
fino a dieci anni fa, a livello internazionale,
fossero pochi i laboratori che lavoravano su
queste cellule, mentre oggi un grande nume-
Una scoperta che aiuterà
i laboratori mondiali
spiegare la metodologia utilizzata
dal team di ricerca che
A
ha portato alla scoperta del gene
ZNF398 sono stati Irene Zorzan e
Marco Pellegrini del Laboratorio
di Biologia delle cellule staminali
pluripotenti dell’Università di Padova
che hanno condotto lo studio.
I ricercatori hanno detto di essere
partiti selezionando un campione
di circa 4.000 geni, ridotti poi a 15
attraverso una serie di validazioni.
Fatto ciò li hanno provati in maniera
sperimentale uno a uno. Per
ciascun gene sono serviti circa due
mesi di lavoro, motivo per cui la fase
di test è durata in tutto quasi due
anni. Al termine degli esperimenti
non c’erano più dubbi: ZNF398
era il gene che stavano cercando.
Questa scoperta permetterà a molti
laboratori in tutto il mondo di migliorare
il processo di mantenimento
delle staminali umane una volta
scongelate. I risultati validati dallo
studio pubblicato valgono anche
nell’ambito della riprogrammazione
delle staminali.
ro di progetti di ricerca si basa proprio sulle
staminali. Questa scoperta consentirà quindi
di conservare meglio le cellule staminali pluripotenti
e controllarne adeguatamente la differenziazione,
offrendo uno strumento potente
ed estremamente affidabile. Il metodo usato
dal team di Martello prende il nome di microfluidica,
tecnologia che porta la firma del
professor Nicola Elvassore del Dipartimento
di Ingegneria Industriale dell’Università di
Padova, che consente di coltivare le cellule in
piccoli tubi di silicone biocompatibile e che di
recente ha dato modo ai ricercatori patavini
di creare per la prima volta cellule staminali
pluripotenti primitive - ovvero simili a quelle
degli embrioni - partendo da cellule adulte.
A guidare il team dell’Università di Torino è
stato Salvatore Oliviero, docente di Biologia
molecolare presso il Dipartimento di Scienze
della Vita e Biologia dei Sistemi e responsabile
della piattaforma di analisi genomiche presso
il Centro Interdipartimentale di Biotecnologie
Molecolari e l’Italian Institute for Genomic
Medicine di Candiolo, ente strumentale della
Compagnia di San Paolo. (D. E.).
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
37
SALUTE
SPORT E CALVIZIE: COME
L’ATTIVITÀ FISICA INCIDE
SULLA PERDITA DI CAPELLI
Quali ormoni possono influenzare negativamente
o positivamente la salute del follicolo pilifero
di Biancamaria Mancini
Sulla perdita dei capelli ci sono diversi
miti da sfatare, una delle credenze
più popolari sostiene che lo
sport possa rappresentare un vero
pericolo per la caduta e l’assottigliamento
del fusto.
Una delle cause più accertate per la
perdita dei capelli nell’alopecia androgenetica
(AGA) è senza
dubbio la predisposizione
genetica, ovvero
la sensibilità personale
agli androgeni:
il testosterone in circolo
si lega all’enzima
5-α-reduttasi di tipo
II, che lo processa
La calvizie ha eziologia
multifattoriale. Oltre alla
genetica ci sono altri fattori
che la influenzano
trasformandolo in
DHT, metabolita che presenta un’affinità
per i recettori androgeni tre volte superiore
a quella del testosterone stesso, risultando
di conseguenza molto più attivo. Sappiamo
però che la calvizie ha eziologia multifattoriale,
quindi oltre alla genetica ci sono altri
fattori che influenzano negativamente questo
processo, rendendolo ancora più acuto.
Tra questi fattori aggiuntivi si annoverano
le abitudini di vita e le attività sportive.
Ne parliamo con la dottoressa Debora
Martinelli, una biologa con vasta esperienza
nel campo tricologico che, in seguito
ad una revisione scientifica relativa al ruolo
dello sport nella calvizie, afferma che
quando si pratica un’attività sportiva viene
prodotta una quantità maggiore di ormoni,
compreso il testosterone, motivo per cui
è facile pensare che
questo possa accelerare,
se non addirittura
innescare, il processo
della calvizie.
Ci sono però alcuni
aspetti che devono
essere chiariti
sottolinea la dott.
ssa Martinelli, come
quello secondo cui i picchi di ormoni prodotti
durante uno sforzo non troppo eccessivo
sono solo momentanei, considerato
che durano circa 2-3 ore e pertanto non
hanno il tempo materiale per creare danni
ingenti ai follicoli. Chiaro è che la situazione
cambia drasticamente se lo sforzo fisico
raggiunge livelli eccessivi e cronici. Inoltre,
se insistere troppo sullo sforzo fisico può
favorire già di per sé una produzione più
elevata di androgeni rispetto ai normali livelli
che l’organismo stesso è in grado di
metabolizzare o degradare, tanto più la situazione
si aggrava se a questo si aggiunge
l’assunzione esogena di sostanze chimiche.
In questi ultimi casi il livello di testosterone
può aumentare di 10 volte, interferendo
con la normale sintesi proteica cellulare,
oltre ad innalzare l’attività della 5-α-reduttasi,
che metabolizza una quantità molto
elevata di DHT.
Tutto ciò, a differenza del normale e
sano sport, influisce concretamente sull’andamento
della calvizie, comportando la
perdita della maggior parte dei capelli anche
per ragazzi molto giovani e dando origine
ad un circolo vizioso da cui risulta poi
difficile trovare una via d’uscita.
Inoltre, uno sforzo eccessivo e prolungato
nel tempo, comporta anche un
aumento della produzione di cortisolo. In
condizioni normali, il cortisolo è un ormone
importantissimo per la regolazione di
diversi processi come il ritmo circadiano, la
quantità di glucosio nel sangue e il mante-
38 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
AMBIENTE SALUTE
Molecola cortisolo.
© F8 studio/www.shutterstock.com
nimento del corpo in uno stato di semi-allerta.
Inoltre, in condizioni di stress acuto
e temporaneo, la sua produzione permette
di mantenere sotto controllo i processi biologici
dell’organismo, influenzando la produzione
di specifici ormoni.
Nel caso in cui però i suoi valori diventino
troppo alti, e per un periodo prolungato,
l’effetto massiccio del cortisolo si ripercuote
su diversi organi, tra cui il follicolo pilifero.
Infatti un livello continuo di cortisolo mobilita
il glucosio presente
nel sangue che
aumenta la glicosilazione
delle proteine,
ne altera la struttura
molecolare, impedendo
loro di partecipare
ai processi di rigenerazione.
In seguito a
uno stress cronico, il
follicolo entra quindi in uno stato di disordine
metabolico, che si traduce in diversi
eventi a catena che portano ad uno stress
ossidativo, ciò inibisce la proliferazione
delle cellule fino ad interrompere la fase di
anagen (crescita attiva). L’interruzione prematura
della fase di anagen innesca un telo-
Un aumento eccessivo e
prolungato del cortisolo si
ripercuote su diversi organi,
come il follicolo pilifero
gen (vecchiaia) precoce con un conseguente
accorciamento del ciclo vitale del capello.
Chiediamo alla dott.ssa Martinelli
come fare a questo punto a poter evitare
accumuli troppo elevati di queste molecole
dannose, e paradossalmente lei ci svela
che un aiuto prezioso può giungere proprio
dallo sport! Infatti, se svolto nel modo
corretto non solo fa bene all’organismo in
generale, ma anche ai nostri capelli, rappresentando
un autentico toccasana anche
nei periodi di stress.
Durante l’attività
fisica infatti, viene
prodotta la serotonina,
il cosiddetto ormone
della felicità,
che svolge un’azione
biologica davvero importante
in quanto
serve a regolare specifiche
funzioni come la temperatura corporea
e la pressione dei vasi sanguigni. Questo
nei follicoli piliferi è fondamentale perché
aumenta l’apporto di nutrienti e ossigeno,
permettendo al follicolo stesso di svolgere
la sua attività nel modo migliore. Inoltre, la
sensazione di benessere che ci conferisce la
produzione di serotonina sarebbe sufficiente
a combattere lo stress eccessivo, ripristinando
così i livelli ottimali di tutte le altre
sostanze coinvolte. In conclusione, lo sport,
se fatto nel modo giusto, non solo non danneggia
i capelli ma anzi, contribuisce alla
loro salute.
Bibliografia
- Melinda A Novak et al. “Hair
Loss and Hypothalamic–Pituitary–
Adrenocortical Axis Activity
in Captive Rhesus Macaques
(Macaca mulatta)” Journal of the
American Association for Laboratory
Animal Science Vol 53, No 3
May 2014 Pages 261–266.
- Daniel W. D. West Stuart M.
Phillips “Associations of exercise-induced
hormone profiles and
gains in strength and hypertrophy
in a large cohort after weight training”
Eur J Appl Physiol (2012)
112:2693–2702.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
39
SALUTE
IL MONDO SI È FERMATO, MA NON
LA FILIERA AGRO-ALIMENTARE
Il lockdown del Paese non ha coinvolto
le attività produttive per la loro natura essenziale
di Maria Carlotta Rizzuto *
*
PhD, in «Teoria del diritto ed ordine giuridico
europeo» presso l’Università Magna
Graecia di Catanzaro.
si ferma, se non
passibile di essere esercitata
in modalità e-lerning; lo sport,
L’educazione
la religione, si arrestano, ammettendo
soltanto quelle manifestazioni
personali esternabili all’interno della propria
abitazione. Lo smart working diviene,
anche in assenza di accordi individuali, la
modalità di espletamento della gran parte
delle attività lavorative 1 . Il quadro disegnato
dai d.P.C.M. 2 è chiaro: misure restrittive
al fine di evitare qualsiasi forma
di assembramento.
Eppure, alcune imprese, quelle che
erogano “servizi essenziali e di pubblica
utilità”, non hanno potuto bloccare
le proprie attività, nonostante lo stato
di emergenza Covid 19, sì che il criterio
adottato ai fini della sospensione o continuazione,
sembrerebbe quello della attribuzione
della qualifica di essenzialità.
Tra di esse, sicuramente, un ruolo cardine
è stato ricoperto dalle imprese agricole
e, in particolare, dalla produzione di
derrate alimentari.
Orbene, se una lettura superficiale
della sopraccitata eccezione la ricondurrebbe
all’ovvietà dell’interesse perseguito
da queste ultime, là dove, come ovvio,
la filiera agro-alimentare è indirizzata a
soddisfare l’interesse primordiale e vitale
dell’uomo all’alimentazione 3 , un’analisi
più attenta potrebbe, però, forse, esporre
qualche elemento di criticità.
In particolare, il significato etimologico
del termine “essentialis” garantirebbe
una siffatta qualificazione
esclusivamente
alle attività indispensabili
e necessarie.
Eppure, una tale
conclusione sembrerebbe,
però, smentita
dal tenore dei
d.P.C.M., nei quali è
possibile individuare,
probabilmente, due diverse attribuzione
di essenzialità. Per un verso, tale
qualificazione è assegnata alle attività tese
ad appagare bisogni improcrastinabili
dell’uomo, quali quello all’alimentazione;
per altro verso, la essenzialità di alcune
attività non sarebbe ad esse intrinseca,
La cura del biologico,
per sua stessa natura,
non potrebbe sopportare
eventuali interruzioni
ma deriverebbe, esclusivamente, dal collegamento
funzionale con le prime. In tal
senso, basti riflettere sulle attività di fabbricazione
di spago, corde, funi e reti, imballaggi
in legno, articoli in gomma.
La definizione di “essenzialità” non
può che divenire ancor più ardua in ambito
agrario, là dove la stessa qualificazione
delle attività dirette e per connessione
subisce continue rivisitazione sì da rendere
sempre più labile il confine tra attività
agricole e industriali.
Ed, infatti, il concetto stesso di “cura
del ciclo biologico”, adoperato per individuare
le attività
agricole dirette 4 , induce
a ritenere essenziale
qualunque
attività funzionale
a quest’ultima e il
cui mancato svolgimento
potrebbe interrompere
il ciclo
stesso. In tale ottica,
anche l’eventuale attività di produzione
di energia rinnovabile si potrebbe considerare
essenziale, allorquando essa sia
necessaria all’espletamento della attività
produttiva principale 5 .
L’essenzialità di una attività, in ambito
agricolo, sembrerebbe, dunque, co-
40 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
AMBIENTE SALUTE
© G-stock studio/www.shutterstock.com
stituire un giano bifronte: indispensabile
per soddisfare l’interesse collettivo all’alimentazione,
ma altrettanto essenziale
per l’oggetto stesso dell’attività, volta
alla cura del ciclo biologico, il quale,
per sua natura, non parrebbe sopportare
eventuali interruzioni. Una conferma, in
tal senso, si rinviene, nella mancata differenziazione,
tra le attività agrarie, di quali
fossero da considerare effettivamente
essenziali ossia dirette alla produzione
di beni di prima necessità. Il blocco, ad
esempio, non ha riguardato le attività
florovivaistiche, concernenti la coltivazione
e la vendita
di piante, fiori e sementi,
giacché fatte
rientrare in quelle
attività di produzione,
trasporto e commercializzazione
di
“prodotti agricoli”,
di cui all’art. 1, comma
1, lettera f), del
Dpcm del 22 marzo 2020. Anche la viticoltura
ha proseguito nello svolgimento
delle proprie attività, nonostante molte
bottiglie fossero rimaste invendute, le
spedizioni tornassero indietro e le botti
fossero ancora piene. Nessuna sospensione
è stata applicata per le attività volte
Si è tenuto a salvaguardare
l’interessa ambientale
e quello alimentare,
tutelando il ciclo vitale
alla produzione di energie rinnovabili,
seppur con la limitazione dell’istallazione
di nuovi impianti fotovoltaici. Numerose
le ordinanze emanate al fine di consentire
agli “agricoltori amatoriali” di esercitare
la cura dei propri prodotti e animali 6 .
Orbene, la statuizione, avente ad oggetto
la continuazione dello svolgimento
di tutte quelle attività che, direttamente
o indirettamente, sono essenziali per garantire,
per un verso, l’interesse collettivo
dell’alimentazione e, per altro verso, la
cura del ciclo biologico, fa affiorare, con
maggiore pregnanza, gli elementi differenziali
tra impresa agricola e commerciale
non riconducibili ad un unicum.
Al di là del bilancio di esercizio, del
rischio di impresa, pur sempre presente
e dal quale non si può prescindere, l’impresa
agraria mira a tutelare ulteriori e
più pregnanti interessi. Intrinsecamente
indirizzata a soddisfare il bisogno dell’alimentazione,
essa è stata, con il tempo,
investita della funzione di tutelare molteplici
altri interessi, i quali sono stati
considerati – in virtù della loro natura di
interessi collettivi o diffusi – prevalenti
rispetto all’interesse individuale del singolo
imprenditore e da bilanciare con
l’interesse alla salute dei lavoratori 7 , i
quali, nonostante l’emergenza sono stati
chiamati, comunque, ad espletare, pur
con tutte le precauzioni e l’applicazione
dei protocolli di sicurezza necessari, le
attività lavorative indispensabili a garantire
la continuazione del ciclo produttivo.
La mancata interruzione, durante lo
stato emergenziale, di attività diverse da
quelle volte a garantire beni di prima necessità,
trova fondamento
negli obiettivi
perseguiti, da tempo,
dai legislatori nazionali
ed europei. I
concetti di economia
circolare, agricoltura
biologica, sviluppo
sostenibile – sempre
più presenti nelle legislazioni
– mirano a realizzare, in modo
equilibrato, l’interesse ambientale e l’interesse
alimentare, secondo un indirizzo teleologico
destinato a preservare, nel complesso,
la tutela del “ciclo vitale”.
In tal senso, proprio la scelta di mantenere
aperte attività produttrici di beni
non essenziali, come quella florovivaistica,
potrebbe suggerire un profilo funzionale
dell’impresa agricola, più accentuatamente
incentrato sulla cura del ciclo biologico
inteso, come ciclo vitale dei prodotti,
il quale, se reciso, sarebbe compromesso
senza margini di ripresa. La intrinseca deteriorabilità
di alcuni beni non può che
richiedere una maggiore attenzione sui
sistemi di protezione e fruizione di questi
ultimi, i quali, una volta sottoposti ad un
cattivo uso, non sarebbero più passibili di
utilizzazione.
La protezione del ciclo vitale in quanto
tale – come categoria più ampia in cui
un ruolo cardine è certamente ricoperto
dalla cura di quello funzionale all’alimentazione
e, dunque, alla vita di ogni essere
umano – sposta, forse, l’attenzione sui
possibili strumenti che il Legislatore potrebbe
predisporre ai fini di una ripresa
economica nazionale. Un percorso in tal
senso è suggerito a livello comunitario: la
promozione di un Green Deal, una serie
di misure volte a rendere più sostenibili e
meno dannosi per l’ambiente la produzione
di energia e lo stile di vita dei cittadini
europei.
L’emergenza Covid, le numerose morti
che, in ogni parte del mondo, si susseguono
a ritmo incessante e si concludono,
a detta del Foscolo, con una “illacrimata
sepoltura”, portano con sé l’insegnamento
che l’uomo sembra prostrarsi dinanzi
ad un microrganismo, lo fa sentire “come
d’autunno sugli alberi le foglie”, gli nega
il valore incommensurabile della libertà
e, probabilmente, segnerà un viatico per
scelte politiche dei sistemi giuridici.
Bibliografia
1. La disciplina del lavoro agile, prevista nella
legge n. 81 del 22 maggio 2017, statuisce,
infatti, agli artt. 18 e ss. che debba sussistere
il consenso del lavoratore. Sul lavoro agile si
vedano A. ALLAMPRESE-F. PASCUCCI,
La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore
“agile”, in Riv. giur. lav., 2017, 307; M.
D’APONTE, La tutela della salute del lavoratore
dopo il Jobs Act, Torino, 2018, 75 e ss.;
R. CASILLO, La subordinazione «agile», in
Dir. lav. merc., 2017, 19; R. GUARINIELLO,
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
41
SALUTE
Lavoro agile e tutela della sicurezza, in Dir.
prat. lav., 2017, 2010; M. PERUZZI, Sicurezza
e agilità: quale tutela per lo smart worker?,
in Dir. sic. lav., 2017, 26. M. MENEGOTTO,
Coronavirus: trasferte, lavoro agile e telelavoro,
in Bollettino ordinario ADAPT, n. 7, 17
febbraio 2020. Ed, ancora, quale afferma che
«il fulcro del d.P.C.M 8 marzo 2020 risiede nel
superamento dell’accordo individuale, quale
fonte di disciplina e organizzazione della modalità
agile di esecuzione del rapporto di lavoro
subordinato, e, quindi, nel passaggio dalla
consensualità all’unilateralità dell’applicazione
del lavoro agile […]in un contesto per così
dire “fisiologico”, il lavoro agile è concepito
come strumento teso a conseguire finalità di
work-life balance. Diversamente, nel quadro
“patologico” dell’emergenza da COVID-19,
esso viene individuato quale strumento privilegiato
per il contrasto e il contenimento – in
specie in ambito lavorativo – del diffondersi
del virus, realizzando attraverso di esso un
bilanciamento tra gli interessi costituzionali
coinvolti: diritto alla salute (art. 32 Cost.) e
diritto al lavoro (art. 4 Cost.)».
2. Il 23 febbraio 2020, a seguito dei primi
focolai registratisi in Lombardia e Veneto, il
Consiglio dei Ministri ha approvato il D.L.
6/2020, poi convertito in legge dalla L. n.
13/2020. Il summenzionato decreto ha dato
il via libera anche all’adozione di tutti i successivi
decreti del Presidente del Consiglio
dei Ministri miranti ad attuare misure di contenimento
in caso di interventi riguardanti più
regioni.
3. Sulle molteplici funzioni svolte dall’impresa
agricola si veda A. QUARANTA, Energie
rinnovabili: la multifunzionalità delle imprese
agricole, in Ambiente & sviluppo, 3/2010,
732; L. COSTATO, A. GERMANÒ, E.
ROOK BASILE (diretto da) Trattato di diritto
agrario, Utet, Torino, 2011, 766; G. MAROT-
TA (a cura di), Nuovi modelli di agricoltura
e creazione di valore, FrancoAngeli, Milano,
2013, 379, secondo il quale «in via di sintesi, si
può dedurre che l’impresa agricola multifunzionale
si caratterizza per tre aspetti essenziali:
a) una spiccata tendenza alla diversificazione
dei servizi che essa offre e all’allargamento
delle funzioni che affiancano l’attività esclusivamente
agricola; b) un forte radicamento
con il territorio su cui insiste l’impresa; c) la
conseguente potenzialità dell’impresa agricola
a generare, attraverso la sua attività di impresa,
“valore sociale”. Tutti e tre gli elementi
descritti postulano un’accentuazione molto
forte del posizionamento dell’impresa agricola
in una ampia rete (network o filiera), che
vede coinvolti non solo altri distinti soggetti
imprenditoriali, ma anche istituzioni locali e
associazioni sindacali e datoriali».
4. Il riferimento al ciclo biologico riprende
una formula utilizzata dalla dottrina al fine di
eliminare la necessaria presenza del fondo per
la configurazione dell’impresa agricola. Ed,
infatti, secondo tale corrente dottrinale l’agrarietà
dell’impresa dipendeva non dalla presenza
o meno del fondo ma dallo svolgimento di
un ciclo biologico concernente l’allevamento
di esseri viventi animali o vegetali, legato direttamente
o indirettamente allo sfruttamento
delle forze e delle risorse naturali che si risolve
economicamente nell’ottenimento di frutti
destinati al consumo sia come tali sia previa
una o più trasformazione v. A. CARROZZA,
Lezioni di diritto agrario, Giuffrè, Milano,
1988, 10; ID., Problemi generali e profili di
qualificazione del diritto agrario, Giuffrè,
Milano, 1975, 75 e ss.; A. GERMANÒ, Proprietà
produttiva ed impresa agricola, in Dir.
e giur. agr., 1/1994, 597; L. COSTATO, Relazioni,
in S. MAZZAMUTO (a cura di) Impresa
agricola ed impresa commerciale: le ragioni
di una distinzione, Jovene, Napoli, 1992, 35
e ss.,.L’allargamento dei confini della nozione
di fondo ha consentito di inserire nel novero
delle attività agricole tutta una serie di attività
che, benché definite come agricole a livello
legislativo, erano state oggetto di dibattito
in dottrina e in giurisprudenza poiché utilizzavano
il fondo come mero supporto e non
certo come oggetto: la serricoltura, già qualificata
come agricola nella L. 3 maggio 1982 n.
203; la funghicoltura, L. 5 aprile 1985, n. 126;
le agroenergie, D.lg. 29 marzo 2004, n. 99 e
D.lg. 27 maggio 2005, n. 101.
5. L’art. 2135 cod. civ. utilizza ai fini della qualificazione
di una attività come connessa il criterio
di prevalenza il quale deve essere inteso
in due diversi modi. In una prima accezione
l’espressione è riferita alla produzione [la c.d.
prevalenza per prodotto,]; mentre, secondo
una seconda applicazione, il suddetto criterio
è riferito alle attrezzature e alle risorse [la cd
prevalenza per attività]. A sua volta, la prevalenza
dei prodotti è stata intesa in due ulteriori
significati, giacché per un verso, il criterio
è stato ancorato a profili di tipo quantitativo,
nel senso di qualificare le attività di trasformazione,
manipolazione, commercializzazione
dei prodotti agricoli come attività agricole per
connessione solamente là dove la produzione
del bene finale sia avvenuta mediante l’uso
prevalente di prodotti della propria impresa
agricola rispetto a quelli acquistati da terzi.
Per altro verso, il secondo significato, ossia
quello di tipo reddituale-valoriale rinvia, invece,
alla prevalenza dell’attività dalla quale
derivi la maggior fonte di guadagno. In tale
ipotesi, la condizione di prevalenza andrà
verificata confrontando il valore normale
dei prodotti agricoli ottenuti dall’attività
agricola principale ed il costo dei prodotti
acquistati da terzi; sarà necessario, però, che,
sui prodotti acquistati dai terzi, intervenga,
comunque, una attività di manipolazione
o di trasformazione [Cass. civ., 10 aprile
2015, n. 7238, in Giustizia Civile Massimario
2015] e che i prodotti, così realizzati, rientrino
nella tipologia di appartenenza dei beni
ottenuti dalla trasformazione dei prodotti
propri [Cass. civ., 22 aprile 2016, n. 8128,
in Giustizia Civile Massimario 2016]. Sul
criterio di prevalenza si vedano, ex multis,
A. ROCCHI, L. SCAPPINI, La misurazione
della prevalenza nelle attività connesse
“di produzione” in agricoltura, in Il fisco,
9/2017, 852; M. BIONE, Imprenditore agricolo,
Dir. priv., in EG, Roma, 16/2003, 7;
F. PREZIOSI, Il regime fiscale delle attività
agricole connesse, in Corr. trib., 2004, 3654;
S. BARUZZI, Reddito agrario: prevalenza
della materia prima in senso fisico quantitativo
e non economico, in Il Fisco, 35/2017,
3378; S. BARUZZI, Reddito agrario: prevalenza
della materia prima in senso fisico
quantitativo e non economico, in Il Fisco,
35/2017, 3378. Sulle energie rinnovabili si
veda per tutti M. GOLDONI, Utilizzazione
di terreni agricoli per la realizzazione degli
impianti energetici: aspetti giuridici, in M.
D’ADDEZIO (a cura di), Agricoltura e contemperamento
delle esigenze energetiche e
alimentari, Giuffrè, Milano, 2012, 39.
6. La possibilità per gli hobbisti agricoli di
potere esercitare la propria attività agricola
amatoriale è stata concessa con l’ordinanza
n. 11 del 24 marzo 2020 della Regione Sardegna;
n. 36 del 14 aprile 2020, della Regione
Toscana; n. Z00029 del 15 aprile 2020, della
Regione Lazio; n. 209 del 17 aprile 2020 della
Regione Puglia; n. 32 del 17 aprile 2020
della Regione Calabria e n. 17 del 18 aprile
2020 della Regione Sicilia.
7. In tal senso, si vedano il “Protocollo condiviso
di regolamentazione delle misure per
il contrasto e il contenimento della diffusione
del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”
del 14 marzo, il cui contenuto è stato
integralmente recepito dal successivo Protocollo
del 24 aprile 2020.
42 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SALUTE
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Riprogrammare le cellule per ringiovanire
Da un articolo pubblicato su “Nature Communications” da Sarkar TJ et al.
di Carla Cimmino
transitoria di alcuni fattori di riprogrammazione
nucleare, tende a promuovere il ringiovanimento
cellulare. L’invecchiamento è caratterizzato da una perdita
L’espressione
graduale della funzionalità di molecole, cellule, tessuti, è
dato dall’accumulo di errori a livello epigenetico che dà come risultato:
regolazione aberrante di geni, esaurimento di cellule staminali,
senescenza e omeostasi de-regolazione di cellule e tessuti. Se si riprogrammasse
il DNA nucleare, si potrebbe riportare le cellule all’età
embrionale. Alcuni esperimenti condotti sui topi hanno dimostrato
che la riprogrammazione anche se transitoria, può migliorare alcuni
aspetti associati all’avanzare dell’età e prolungare
la vita nei topi progeroidi. Sconosciuta è la
modalità secondo la quale tutto ciò potrebbe
essere applicato all’uomo. Lo studio preso in
considerazione in tale articolo, evidenzia che
l’espressione transitoria di fattori di riprogrammazione
nucleare mediata dall’espressione di
mRNA, permette di controllare l’invecchiamento
cellulare, ripristina l’orologio epigenetico,
riduce l’infiammazione nei condrociti, rigenera le cellule invecchiate
in cellule staminali muscolari umane. La riprogrammazione nucleare
delle cellule ha messo in evidenza che se questa è solo transitoria, le
cellule ritorneranno allo stato somatico iniziale. Quindi, se tale riprogrammazione
dura poco, non cancella quello che è il codice epigenetico
della cellula, che ne definisce l’identità cellulare. Ma non è noto se è
possibile riprogrammare in maniera sostanziale e modificare l’età della
cellula stessa prima del Punto di Non Ritorno (PNR).
Ocampo et al., (primi che hanno preso in considerazione tali studi)
hanno dimostrato che la riprogrammazione transitoria può migliorare
l’espressione fenotipica invecchiata nei topi progeroidi. Questi
Lo studio preso evidenzia che
i fattori di riprogrammazione
nucleare permettono di controllare
l’invecchiamento cellulare
però parlano solo in parte della complessità dell’invecchiamento naturale,
essendo questo proprio caratterizzato da un lento e progressivo
accumulo di errori epigenetici. Inoltre, non è stato provato se l’effetto
ringiovanente può essere ottenuto con cellule umane invecchiate naturalmente
e isolate da individui anziani. L’articolo di “Nature Communications”
mette in risalto se l’espressione transitoria dei geni di riprogrammazione
nucleare riesce a migliorare i tipi di invecchiamento
in cellule umane e di topo naturalmente invecchiate.
Sono state paragonate l’espressione transitoria di fattori riprogrammanti
sull’RNA di fibroblasti e cellule endoteliali di soggetti
umani anziani, con l’RNA delle stesse cellule isolate da giovani donatori.
La riprogrammazione nucleare degli iPSC comprende iniziazione,
maturazione e stabilizzazione. Al termine di una riprogrammazione
epigenetica così dinamica e complessa,
dovremmo esserci iPSC pluripotenti e giovani.
Non esiste la prova che un ringiovanimento
cellulare multispettrale possa essere ottenuto
in modo autonomo da cellula umana in cellule
umane isolate da individui naturalmente anziani.
È stato quindi dimostrato, che la riprogrammazione
cellulare transitoria basata su mRNA,
può invertire molto rapidamente segni distintivi
dell’invecchiamento nella fase di iniziazione, quando non è ancora avvenuta
la cancellazione epigenetica dell’identità cellulare. Si nota che
il processo di ringiovanimento si verifica nelle cellule di topo, invecchiate
naturalmente, le cellule malate ripristinano la funzionalità perduta
e le cellule staminali invecchiate preservano la loro identità cellulare.
Sono necessari però ulteriori studi per chiarire il meccanismo
che guida l’inversione del fenotipo invecchiato durante la riprogrammazione
cellulare, allontanandolo dal processo di dedifferenziazione.
I risultati di tale studio rappresentano un passo avanti per capire come
invertire l’invecchiamento cellulare e possono risultare indispensabili
anche per lo studio di malattie correlate all’invecchiamento stesso.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
43
SALUTE
INTELLIGENZA
ARTIFICIALE E
DERMATOLOGIA
Un algoritmo può affiancare gli specialisti
nella diagnosi dei disturbi cutanei
di Sara Lorusso
ha spiegato il professore
Jung-Im Na, del dipartimento
di Dermatologia della
L’obiettivo,
Seoul National University, è fare
in modo che l’intelligenza artificiale non si
sostituisca all’indagine umana, ma ne supporti
le attività per arrivare a diagnosi più
rapide e più precise. È l’orizzonte entro cui
si è sviluppata la ricerca sull’applicazione
e l’allenamento di algoritmi nel riconoscimento
di patologie della pelle, di cui Na è
autore. Lo studio, pubblicato sul Journal
of Investigative Dermatology, è incentra-
44 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
© elenavolf/www.shutterstock.com
SALUTE
Il team coreano ha sviluppato
una rete neurale convoluzionale,
allenata a riconoscere i disturbi della pelle
a partire da un set di immagini
to sull’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale
(AI) in dermatologia: un indirizzo non del
tutto nuovo, ma in questo caso ad avere
particolare rilevanza sono sia la grande
quantità di disturbi cutanei usati per testare
l’algoritmo sia la qualità dei risultati
ottenuti, con un’adesione importante tra
le diagnosi artificiali e quelle affidate all’esperienza
dei medici del settore. Inoltre, a
differenza di sperimentazioni precedenti,
la ricerca è stata diretta ad applicare l’AI in
un contesto reale, simile a quello di normali
visite in studio.
«Negli ultimi tempi - ha spiegato Na
- ci sono stati notevoli progressi nell’uso
dell’AI in medicina. Per problemi specifici,
come la distinzione tra melanoma e
nevi, l’AI ha mostrato risultati comparabili
a quelli dei dermatologi umani. Tuttavia,
affinché questi sistemi siano praticamente
utili, le loro prestazioni devono
essere testate in un ambiente simile alla
pratica reale, che richiede non solo la classificazione
della lesione maligna rispetto
a quella benigna, ma anche la distinzione
del cancro della pelle da numerosi altri disturbi
tra cui condizioni infiammatorie e
infettive».
Il team coreano ha sviluppato un sistema
di intelligenza artificiale basato su una
rete neurale convoluzionale: si tratta di
un’architettura di rete utilizzata soprattutto
nelle applicazioni di visione artificiale e
in cui viene esercitato l’apprendimento automatico.
La rete è stata allenata a riconoscere
i disturbi della pelle a partire da un
set di 220.680 immagini relative a 174 malattie
diverse su individui asiatici e caucasici.
Al termine della procedura l’algoritmo
è stato capace di diagnosticare 134 disturbi
della pelle. Uno dei risultati più interessanti
è stata l’applicazione nella classificazione
multiclasse, che ha portato al suggerimento
di strategie di trattamento appropriate rispetto
al disturbo analizzato.
Le diagnosi artificiali sono state confrontate
con quelle eseguite da 21 dermatologi,
26 specializzandi e 23 potenziali
pazienti. All’avvio della sperimentazione
le risposte dell’algoritmo sono risultate
simili a quelle degli specializzandi, senza
raggiungere l’adesione alle diagnosi fornite
da dermatologi esperti. Dopo un periodo
di funzionamento della rete, grazie
all’assistenza dell’algoritmo, le diagnosi
di malignità fatte dai clinici è migliorata
in precisione dal 77,4% all’86,8%. Anche
nei cittadini comuni la capacità di leggere
la diagnosi maligna è stata supportata.
Senza l’aiuto dell’algoritmo, hanno spiegato
gli autori della ricerca, la metà delle
neoplasie sarebbe sfuggita ai cittadini comuni
coinvolti se questi non fossero stati
visitati da specialisti.
Lo studio firmato da Na e colleghi
mette in guardia da facili esultanze circa
la possibilità di sostituire l’esperienza teorica
e clinica degli specialisti con la lettura
artificiale. In particolare, al momento,
l’algoritmo ha lavorato su precisi criteri di
addestramento, specializzandosi nell’individuazione
del disturbo in base a classificazioni
binarie (per esempio, la selezione
tra nevi o melanoma). Non è automatica,
dunque, la risposta a diagnosi su caratteristiche
del problema diverse da quelle su cui
la rete si è alimentata. L’esempio riportato
è quello di un ematoma dai contorni irregolari
che potrebbe essere segnalato come
carcinoma da un algoritmo addestrato a
specializzarsi sulla malignità. Anche la qualità
dell’immagine potrebbe pregiudicare
l’identificazione del problema, senza contare
che in una situazione reale lo specialista
non si affida alla sola rappresentazione
visiva del disturbo, ma analizza tutta una
serie di informazioni legate all’anamnesi e
al contatto fisico con la lesione della pelle.
Resta, tuttavia, l’alta potenzialità dello
strumento se utilizzato a sostegno e non
Lo schema ABCDE
Senza mai sostituirsi al parere
del medico, ciascuno di noi
può costruire una routine di autovalutazione
delle lesioni della
pelle. È molto importante tenere
sotto controllo macchie e segni,
e imparare a riconoscere alcuni
campanelli d’allarme. La fondazione
AIRC per la Ricerca sul Cancro
ricorda un semplice schema
di osservazione, facile da tenere a
mente e mettere in pratica a casa,
meglio se in un ambiente ben illuminato.
Basta ricordare la sequenza
ABCDE: racchiude le caratteristiche
di una macchia della pelle
che dobbiamo saper riconoscere.
ABCDE è dunque l’acronimo di
asimmetria della macchia, bordo
irregolare, colore molto scuro o
variabile all’interno della macchia
stessa, diametro maggiore dei nei
comuni (circa 6 mm), evoluzione
rapida nel tempo. In presenza di
uno o più di questi segnali, ci ricorda
il vademecum AIRC, è bene
rivolgersi al proprio medico, che
deciderà se richiedere un controllo
specialistico.
in sostituzione della consulenza medica.
Superando l’attuale limitazione collegata
alla necessità che le immagini da analizzare
siano di buona qualità, «prevediamo
che l’uso del nostro algoritmo attraverso
uno smartphone – ha aggiunto Na - potrebbe
incoraggiare il pubblico a visitare
gli specialisti per lesioni come il melanoma
che altrimenti rischierebbero di essere
trascurate». In ambito clinico l’aspettativa
è invece diretta allo sviluppo di un simile
processo di indagine tramite lettura artificiale
a vantaggio delle diagnosi precoci e
di cure sempre più mirate.
Nel frattempo il team coreano ha reso
disponibile sul sito Model Dermatology
(https://modelderm.com/) una demo del
sistema di AI allo scopo esclusivo di ricerca
e non di diagnosi: gli autori, simulando
di agire in un contesto ipotetico di telemedicina,
sperano infatti che l’utilizzo faccia
emergere, e dunque renda risolvibili, nuove
problematiche dell’applicazione del sistema
ai casi reali.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
45
AMBIENTE
I PATRIARCHI VERDI
DEL NOSTRO PAESE
Il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali
ha pubblicato un elenco di oltre 3300 alberi monumentali
Riportano alla memoria miti, leggende,
storie di luoghi e di popoli,
profumano, suonano col
vento, cantano con gli uccelli e gli
insetti, hanno forme particolari. Segnano e
segnalano, soprattutto, il nostro tempo che
passa, cambiando secondo il ritmo circolare
delle stagioni. In Italia, per il Ministero
delle Politiche agricole alimentari e forestali,
sono oltre 3.300 gli alberi censiti nell’elenco
di quelli monumentali, accessibile,
con una semplice richiesta, in formato Shapefile
o Excel. Importabile nei più comuni
programmi Gis (Geographic Information
System), il file permette di visualizzare la
loro distribuzione sul territorio italiano,
assicurando un costante aggiornamento da
parte della Direzione generale foreste del
ministero, grazie alla collaborazione di Regioni,
Province autonome e Comuni.
Il nostro piccolo tour da Nord a Sud
comincia con “S’Ozzastru”, cioè l’olivastro,
quello precisamente di San Baltolu
di Luras vicino al lago Liscia, in provincia
di Sassari. Per molti sarebbe l’albero più
antico d’Italia: supera i quattromila anni
e ancora oggi ospita sotto i suoi rami numerose
pecore al pascolo. Le sue misure
sono: altezza 14 metri e circonferenza della
chioma 23 m. Il tronco, che ne misura
circa 12, presenta nodi e piccole cavità,
come deve avere un vero patriarca della
natura che si rispetti.
Un altro pezzo da novanta è il famosissimo
Castagno dei cento cavalli, un albero
di castagno
plurimillenario, nel
Parco dell’Etna in
territorio del comune
di Sant’Alfio (Ct) nel
cui stemma civico è
raffigurato. Misura
circa 22 m di circonferenza
del tronco,
per 22 m d’altezza.
Nel 2006 l’Unesco l’ha dichiarato Monumento
messaggero di pace, ricordando le
tante persone che nel tempo l’hanno ammirato
e quel mito secondo cui, in una notte
tempestosa, una regina di nome Giovanna
L’iniziativa è stata promossa
in occassione della
ricorrenza della “Giornata
Mondiale della Terra”
sia stata amata da alcuni dei cento cavalieri
del suo seguito, che con lei avevano trovato
rifugio nel tronco.
Risalendo lo Stivale, segnaliamo l’abete
bianco di Malga Fassole ad Avio (Tn). Ha
una caratteristica particolare: il portamento
del fusto che, anziché essere dritto come
di norma si presenta nell’abete bianco, si
divide a circa due metri di altezza in otto
grosse branche formando una specie di
enorme candelabro.
Il nome attribuitogli
è “patriarca del monte
Baldo”. Il legno
morto in alcune parti
ospita molti insetti e
funghi che lì trovano
i loro habitat ideali.
Una chioma così
ampia e articolata,
inoltre, fornisce possibilità di rifugio a numerose
specie di vertebrati, dai micromammiferi
agli uccelli.
La sequoia gigante di Faè a Longarone
(Bl) mostra ai visitatori i segni della
46 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
AMBIENTE
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Sopra, la sequoia gigante di Longarone (Belluno).
A destra, il fico del Bengala del Giardino inglese a
Palermo. Fonte: Ministero delle Politiche agricole
alimentari e forestali.
frana proveniente del monte Toc, che il 9
ottobre del 1963 distrusse il territorio e
moltissime vite umane. Una ferita longitudinale
di cinque metri sul tronco ci fa
capire, infatti, il livello raggiunto in quel
luogo dall’onda d’acqua e fango proveniente
dalla diga. Da allora è il simbolo del
territorio devastato, ma anche rinato. È
conosciuta come “Pianta santa” o “Pianta
dell’Ajal” con un’età stimata di 170 anni,
tale da far ritenere che sia stata una delle
prime importate in Europa.
A San Vito, Monte San Biagio (Lt) il
leccio-sughera convive con un eterogeneo
sottobosco, formato da specie tipiche degli
ambienti mediterranei, quali lentisco, fillirea,
mirto, biancospino e erica arborea. È
stato scelto poiché rappresenta bene i molti
ibridi di quercia presenti in Italia ed è raggiungibile
con uno dei tanti sentieri all’interno
della sughereta. I cipressi di Triboli
a San Quirico d’Orcia (Si) sono una vera e
propria icona del paesaggio toscano, vegetano
isolati su un’altura facente parte di un
gruppo collinare posto tra la Val d’Orcia
e la valle dell’Ombrone. Quella
veduta, celebrata dai pittori della
scuola senese, è stata proclamata
dall’Unesco nel 2004 Patrimonio
mondiale dell’umanità.
Il nostro breve viaggio nell’Italia
dei centenari e secolari si
conclude con l’albero più rappresentativo
della fitogeografia
nel Parco Nazionale del Pollino:
il pino loricato della Grande Porta
a Terranova di Pollino (Pz).
Presente in Italia solo in questa
parte dell’Appennino calabro-lucano
con circa duemila esemplari,
è quanto rimane delle antiche
foreste oro-mediterranee che
nel Terziario coprivano la costa
adriatica meridionale e i Balcani.
L’esemplare che vegeta nel valico tra Serra
di Crispo e Serra delle Ciavole è conosciuto
come il “Solitario”, ha una circonferenza
della base del tronco di 6,5 m, il cimale spezzato
e una chioma dolcemente a bandiera.
Nonostante i suoi 500 anni di età stimata,
mostra ancora intatta la caratteristica corteccia
a squame di serpente e, come tutti gli
altri, aiuta a restituirci quel rapporto con la
natura, unica chiave di cui disponiamo per
aprire la porta che ci separa dalla nostra desiderata
tranquillità. (G. P.).
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
47
AMBIENTE
DEFORESTAZIONE E
AMAZZONIA, COSÌ CRESCE
IL RISCHIO PANDEMIE
Distruggere gli habitat naturali di molti
animali fa salire il rischio “spillover”
di Giacomo Talignani
48 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
AMBIENTE
Per invertire la rotta è necessario
prenderci cura delle nostre foreste
e fermare una deforestazione che
compromettere le vite di migliaia di specie
Abbiamo spezzato la sottile linea
verde. Quella che per anni ha
permesso una sintonia fra uomo
e foreste e che oggi è prepotentemente
in bilico. A causa della deforestazione,
ci avvisano diversi studi internazionali,
oggi aumenta il rischio di nuove pandemie.
Se si distruggono gli habitat gli animali
sono costretti ad entrare nello spazio urbanizzato
e i rischi di
spillover, di salto da
animale all’uomo dei
virus, si moltiplicano.
Per evitare questo e
per invertire la rotta
di una crisi climatica
che accelera, è dunque
necessario prenderci
più cura delle
nostre foreste e fermare una deforestazione
che rischia di compromettere le vite di
migliaia di specie, uomo compreso.
Ad oggi il nuovo rapporto Fao sulle
foreste del mondo ci avverte che la deforestazione
sta rallentando in alcune parti
del Pianeta ma preoccupa seriamente per
i tassi registrati in
Africa e in Sudamerica,
soprattutto in
Amazzonia. La Fao
e l’Unep nella giornata
mondiale della
biodiversità hanno
ricordato come dalle
foreste dipendano la
sicurezza alimentare di milioni di persone,
come forniscano 86 milioni di posti di lavoro
“verdi” e come delle persone che vivono
in condizioni di estrema povertà, il 90 per
cento dipenda proprio dalle foreste come
mezzo di sussistenza, che sia per procurarsi
cibo oppure legna. Persone che, come gli
indigeni dell’Amazzonia, oggi tra deforestazione
e pandemia sono in ginocchio e
La Fao ci informa che il livello
di deforestazione in Afria,
Sudamerica e Amazzonia
è allarmente
Dai polmoni verdi dipende
la sicurezza alimentare
e il posto di lavoro
di milioni di persone
necessitano di aiuti internazionali per non
rischiare di scomparire.
Oltretutto, in questo contesto, come
raccontano appelli che rimbalzano dal Brasile
alla Bolivia, l’emergenza Covid-19 in
Sudamerica sta favorendo diversi taglialegna
e minatori che, approfittandosi della
situazione complicata, stanno devastando
ulteriormente il territorio amazzonico. Da
inizio 2020 ad oggi,
rispetto all’anno scorso,
si conta già il +55
per cento di deforestazione
nell’Amazzonia
Brasiliana che
continua ad essere
sventrata, bruciata e
deforestata. Secondo
l’Inpe (National Institute
of Space Research) nel solo aprile
2020 oltre 405 chilometri quadrati della foresta
pluviale sono stati deforestati, rispetto
ai 248 dell’aprile 2019.
Rispetto a un anno fa nella parte brasiliana
la deforestazione è aumentata sino al
64 per cento. Questo, sostengono attivisti e
associazioni ambientaliste,
è strettamente
collegato alle politiche
del presidente
brasiliano Bolsonaro
che favoriscono l’abbattimento
degli alberi
per riconvertire
i terreni ad uso agricolo,
per sviluppare il settore minerario e
dell’allevamento di bestiame con lo scopo
di favorire l’economia del Paese.
Le cifre preoccupanti per un Brasile
che sta pagando un prezzo altissimo in termini
di vittime per la attuale pandemia da
coronavirus, dovrebbero dunque far suonare
un campanello d’allarme per tutti noi,
ci ricorda uno studio appena pubblicato su
Frontiers in Medicine da un team di scienziati
internazionale.
Nell’analisi “Covid-19: The conjunction
of events leading to the pandemic
and lessons to learn for future threats” un
gruppo di ricercatori francesi e spagnoli riconosce
infatti nuovamente la pericolosità
della distruzione degli habitat naturali e ribadisce
che la chiave per contenere future
epidemie non è temere “il selvaggio”, ma
riconoscere invece che l’attività antropica è
responsabile dell’emergere e del propagarsi
della zoonosi e delle nuove pandemie. Gli
scienziati avvertono anche che o lo sfruttamento
della natura da parte dell’umanità
cambierà oppure ci saranno pandemie più
mortali rispetto a quella in corso.
L’analisi spiega infatti che la distruzione
di foreste e habitat dovrebbe preoccuparci
seriamente: come avvenuto in Asia,
proprio il Sudamerica è oggi uno dei continenti
dove più facilmente potrebbe svilupparsi
lo spillover. Altra zona a rischio, in
futuro, potrebbe essere l’Africa, dove dal
Congo alle zone centrali la deforestazione
avanza.
In generale però, ci dicono i dati del
Global Forest Resources Assessment 2020
della Fao, per fortuna c’è qualche segnale
di speranza in termini di disboscamento,
che in tutto il globo sembra ora muoversi
a ritmi più lenti rispetto al passato: siamo
a 10 milioni di ettari all’anno convertiti in
altri usi dal 2015, in calo rispetto ai 12 milioni
di ettari all’anno dei cinque anni precedenti.
Segnali che dovremmo cogliere e implementare
per ripristinare quella sottile
linea verde in difesa delle nostre preziosissime
foreste che oggi contengono 60mila
specie diverse di alberi, l’80 per cento delle
specie di anfibi, il 75 per cento di quelle
di uccelli o il 68 per cento delle specie di
mammiferi della Terra.
Come ha spiegato il ricercatore italiano
Giorgio Vacchiano della Statale di
Milano, «è importante proteggere foreste
come l’Amazzonia attraverso una cooperazione
internazionale. Le foreste, e
soprattutto quelle tropicali, con un 1 milione
di specie ancora da scoprire, sono
enormi serbatoi di potenziali virus che potrebbero
fare il salto, se noi continuiamo
a mutarne gli equilibri. Non sappiamo,
modificando con la deforestazione le relazioni
uomo-animale, cosa potrebbe accadere,
con il rischio di nuove e devastanti
pandemie. Dobbiamo subito avviare gli
strumenti per proteggerla».
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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AMBIENTE
SMART WORKING, UN ALLEATO
PER LA SALUTE DELL’AMBIENTE
L’Enea registra come il telelavoro nella Pubblica Amministrazione
abbia evitato 8mila tonnellate di CO2 in un anno
di Gianpaolo Palazzo
Il lavoro è cavavoglie, raccontavano i
Toscani, e per l’Enea non solo valorizza
le persone, ma dà una grossa mano
alla sostenibilità ambientale urbana.
In che modo? Basta leggere attentamente
le pagine dell’indagine nazionale “Il tempo
dello Smart Working. La PA tra conciliazione,
valorizzazione del lavoro e dell’ambiente”
durata più di
un anno. Allo studio
hanno aderito, con
oltre 5.500 persone,
ventinove amministrazioni
pubbliche
che, già prima della
pandemia, avevano
fatto partire il lavoro
agile a distanza. È
stato anche realizzato un sondaggio, su base
volontaria, scelto dal 60% del totale coinvolto,
costituito per il 76% da donne e il
24% da uomini.
«Viene presentata - raccontano Marina
Penna e Bruna Felici, due delle ricercatrici
Enea che hanno curato l’analisi - una stima
Il lavoro agile ha ridotto
la mobilità di circa un’ora
e mezza a persona, per un
risparmio di 4 mln di euro
del potenziale di mitigazione di consumi ed
emissioni inquinanti conseguibili attraverso
il lavoro a distanza e l’innovazione organizzativa,
ponendoli in relazione con gli effetti
generati: dallo sviluppo urbano all’efficientamento
della Pubblica amministrazione, al
welfare fino alle tematiche di genere».
Lo smart working ha diminuito la mobilità
quotidiana del campione esaminato
di circa un’ora e mezza in media a persona.
Sono quattro i milioni di euro non spesi in
carburante, mentre i
chilometri risparmiati
arrivano a 46 milioni.
Dati rilevanti solo
pensando alla Capitale
che, secondo l’Inrix
2018 Global Traffic
Scorecard, con quattrocentomila
persone
tra ministeri e amministrazioni
centrali e locali è la seconda al
mondo per ore trascorse in auto, il doppio
di New York, il 12% in più di Londra, il
70% in più di Berlino, il 95% in più di
Madrid. Il beneficio, quindi, è duplice: più
tempo libero e meno traffico, con un taglio
di emissioni e inquinanti che Enea stima in
ottomila tonnellate di CO2, 1,75 t di PM10
e 17,9 t di ossidi d’azoto.
«Del resto - aggiunge Marina Penna - le
conclusioni dell’ultimo rapporto dell’IPCC
(Gruppo intergovernativo sul cambiamento
climatico n.d.r.) sono piuttosto chiare quando
sostiene che saremo in grado di mantenere
il riscaldamento globale ben al di sotto
dei 2° C, rispetto ai livelli preindustriali,
solo se mettiamo in atto modifiche senza
precedenti delle nostre abitudini in tutti gli
ambiti della società, quali l’energia, il territorio
e gli ecosistemi, le città e le infrastrutture,
nonché l’industria».
Con il lavoro a distanza, la mobilità
quotidiana si svolge, nella metà dei casi, in
zone vicine alle abitazioni dei dipendenti
pubblici, il 39% nel quartiere di residenza,
mentre l’8% in luoghi più lontani. Coloro
che si muovono nel proprio rione, usano,
per la maggior parte, la bicicletta o vanno
a piedi. Per spostamenti più lunghi, viene
preferita l’automobile, piuttosto che il
mezzo pubblico, anche per recarsi a pochi
chilometri dal proprio appartamento. Solo
il 15% delle persone intervistate sceglie bus,
treni, metro o tram quando occorra raggiungere
aree molto fuori mano.
50 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
AMBIENTE
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Nel settore sanitario le strutture che
avevano investito su una rete di assistenza
per pazienti con malattie croniche, capace
d’intervenire anche da remoto, hanno dimostrato
il valore aggiunto nell’abilità di
tutelare contatti e cure. «Per uscire dall’emergenza
sanitaria meglio di come ci siamo
entrati, lo smart working andrà compreso,
mantenuto, potenziato e reso più efficace.
Soprattutto nelle grandi città - sottolinea
Marina Penna - in assenza di misure, si
prospetta un massiccio
ricorso al mezzo
privato che offre una
percezione di sicurezza
dal contagio.
Opportunamente
governato a livello
territoriale, il ricorso
allo smart working
consentirebbe, infatti,
di moderare e modulare la domanda di
spostamenti casa-lavoro in modo coordinato
con la programmazione del trasporto
pubblico locale, operazione particolarmente
utile nelle fasi 2 e 3 dell’emergenza Covid-19,
in cui dovremo trovare gli adattamenti
per convivere con il coronavirus».
Allo studio hanno aderito 29
amministrazioni pubbliche,
per un totale di circa
5500 persone
Guardando alla dimensione personale,
il tempo “liberato” dagli spostamenti quotidiani
ci lascia sviluppare relazioni sociali
e dà più spazio all’affettività, alla cura di sé
e delle proprie passioni. Chi, invece, deve
gestire gravi situazioni personali o familiari
percepisce il tempo “liberato” come momento
per l’accudimento, cui si aggiunge
un senso d’isolamento per la mancanza di
dialogo con i colleghi. Per questo gruppo di
persone, il lavoro a distanza ha una natura
ambivalente: da un lato limita le tensioni e
appiana alcune difficoltà quotidiane, dall’altro
non offre opportunità all’individuo per
riacquistare spazi di libertà o di benessere,
anche minimi.
Il passaggio da un’organizzazione “orologio”
a una “organismo”, per usare la metafora
del sociologo
Federico Butera, andrà,
dunque, calibrato
in modo da non
lasciare indietro nessuno.
«Non c’è dubbio
- conclude Bruna
Felici - che il lavoro
agile sia in grado di
migliorare la qualità
dell’ambiente delle nostre città, la vivibilità
di aree urbane decongestionate dal traffico
e anche la rivitalizzazione di quartieri periferici
che sono normalmente svuotati dal
pendolarismo lavorativo verso le aree degli
uffici e delle amministrazioni centrali, come
accade, ad esempio, a Roma».
I dati sulla mobilità
Una stima approssimativa,
estesa a tutti i dipendenti intervistati,
del valore medio per le
percorrenze giornaliere in auto o
con altro mezzo motorizzato dà
come risultato circa 29,8 km evitati
a persona in ogni giorno di
telelavoro e 18,6 nel lavoro agile.
Prendendo in considerazione le
percorrenze annuali, sono stati in
media risparmiati 3.700 km per dipendente
in un anno di telelavoro
e 780 in quello agile. La differenza
nei dati è legata alle caratteristiche
organizzative. Il numero di giorni
di telelavoro oscilla fra due e quattro
alla settimana, mentre nel lavoro
agile tra i tre e i cinque al mese.
Inoltre, il telelavoro è risultato “a
regime” con circa dieci mesi/anno
per dipendente, laddove il lavoro
agile è in fase di adozione con circa
sette mesi/anno e una crescita,
in media, del 148% (2015 - 2018).
Nel valutare le potenziali ricadute
ambientali delle due forme si deve
tener presente che il numero di telelavoratori
nella Pubblica amministrazione
tende ad essere fra il 5
e il 10% dell’organico.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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AMBIENTE
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Il condizionatore funziona senza elettricità
Acqua, sale e sole per una tecnologia di raffrescamento passiva
Nella pubblicità, oltre al classico uomo sudato e in canottiera
bianca, ci hanno provato con le suocere moleste, il
capufficio arrabbiato, le belle donne, gli animali e le case
dal clima perfetto dopo aver istallato questo piuttosto che
quel condizionatore. Spesso, però, per soddisfare la “fame” di aria
piacevolmente fredda, dimentichiamo che quell’oggetto magico, capace
di conciliare il relax o il sonno notturno, impiega fluidi refrigeranti
con un alto impatto ambientale e richiede, inoltre, un elevato
fabbisogno di energia. Come si possono ridurre, allora, i consumi nel
raffrescamento degli edifici? Un gruppo di studiosi del Politecnico
di Torino (SMaLL) e dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica
(INRiM) ha studiato un dispositivo capace di abbassare la temperatura
senza l’utilizzo della corrente elettrica, pubblicando i risultati della
propria ricerca sulla rivista “Science Advances”.
Lo studio è stato condotto
dal Politecnico di Torino
e dall’Istituto Nazionale
di Ricerca Metrologica
Il fresco si diffonde nell’ambiente sfruttando
sempre l’evaporazione di un liquido, come
nei dispositivi tradizionali, ma sono semplicemente
acqua e sale, invece che composti chimici
nemici dell’Ambiente. Al posto di pompe
e compressori, che hanno bisogno di energia e
manutenzione, tutto gira attorno a fenomeni
passivi, processi spontanei come la capillarità o
l’evaporazione. «Far evaporare acqua per ottenere una sensazione di
freschezza è una soluzione nota da millenni, come il sudore che evapora
sulla pelle per raffrescarci o un fazzoletto imbevuto appoggiato
sulla fronte nelle giornate più calde. La nostra idea - spiega Matteo
Alberghini, dottorando del Dipartimento Energia del Politecnico e
primo autore della ricerca - permette d’ingegnerizzare questa tecnologia,
massimizzandone l’effetto e rendendola possibile in qualsiasi
condizione ambientale».
L’acqua pura bagna una membrana impermeabile che la separa
da una soluzione di acqua e sale ad alta concentrazione. Dobbiamo
immaginare quella membrana «come un setaccio con maglie grandi
un milionesimo di metro: grazie alle sue proprietà idrorepellenti,
non viene attraversata dall’acqua liquida, ma solo dal vapore. In questo
modo, l’acqua dolce e salata non si mescolano, mentre il vapore
d’acqua è libero di passare da una parte all’altra della membrana. In
particolare, la differente salinità nei due liquidi consente all’acqua
pura di evaporare più velocemente di quella salata.
Questo meccanismo raffredda l’acqua pura, e può essere amplificato
grazie alla presenza di diversi stadi evaporativi. L’acqua
salata tenderà gradualmente a “raddolcirsi” nel tempo e dunque
l’effetto raffrescante ad attenuarsi; tuttavia, la differenza di salinità
tra le due soluzioni può essere continuamente e in modo sostenibile
ristabilita tramite l’energia solare». Le unità refrigeranti, spesse
pochi centimetri, possono funzionare autonomamente oppure venir
disposte in serie, come accade con le batterie,
impilandole per aumentarne gli effetti. Diventa
possibile, così, tarare la potenza secondo i gusti
di ciascuno. «In futuro - conclude Matteo Alberghini
- potremmo ottenere una capacità di
raffrescamento anche più elevata aumentando
la concentrazione della soluzione salina oppure
ricorrendo ad un design modulare più spinto
del dispositivo».
Il costo di produzione basso, appena qualche euro per ciascuno
stadio, e la semplicità dell’assemblaggio favorirebbero l’installazione
in zone rurali, dove la scarsa presenza di tecnici specializzati
può rendere difficoltose riparazioni e manutenzioni. Altri vantaggi
potrebbero esserci nelle zone ricche di acque ad alta concentrazione
salina, come ad esempio quelle costiere, nelle vicinanze di
grossi impianti di dissalazione oppure in prossimità di saline. Per
ora, comunque, la tecnologia non è ancora pronta per essere commercializzata,
ma ulteriori sviluppi potrebbero farla affiancare agli
impianti già esistenti, riducendo gli sprechi energetici, ma non l’effetto
rinfrescante. (G. P.).
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AMBIENTE
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L’Ecologia molecolare per salvare la meiofauna
La chisura delle spiagge ha favorità un arricchimento della biodiversità
di Pasquale Santilio
Alcuni parchi e aree marine protette conservano spiagge completamente
chiuse all’accesso di turisti al fine di tutelare la
conservazione dell’ambiente e a danno delle attività turistiche,
spesso considerate il volano dell’economia locale degli
ambienti di questo genere. La risposta circa la vantaggiosità e necessità
di tale limitazione è in uno studio internazionale pubblicato sulla
rivista Communications Biology e coordinato dall’Istituto di ricerca
sulle acque del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr- Irsa), in collaborazione
con il Parco Nazionale dell’Asinara, l’Istituto di biomembrane,
bioenergetica e biotecnologie molecolari
(Cnr- Ibiom), l’infrastruttura LifeWatch Italia,
le Università di Sassari, di Modena e Reggio
Emilia ed altri atenei stranieri. I ricercatori hanno
dimostrato, utilizzando tecniche di ecologia
molecolare, che la sabbia delle spiagge ospita in
realtà una sorprendente diversità faunistica costituita
da una miriade di microscopici e bizzarri
animali, la cosiddetta meiofauna, la cui esistenza
può essere minacciata dai turisti che, semplicemente,
camminano sulla sabbia.
Il termine meiofauna, coniato nel 1942 dalla biologa marina
Molly Mare, indica l’insieme di metazoi che abita i sedimenti marini
e d’acqua dolce. Comprende 22 dei 35 phyla animali di cui 5
sono esclusivi della meiofauna stessa: Gastrotrichi, Gnatostomulidi,
Chinorinchi, Loriciferi e Tardigradi. Possiamo distinguere una
meiofauna permanente, costituita dagli organismi che fanno parte
della meiofauna per tutta la durata del loro ciclo vitale e una meiofauna
temporanea, rappresentata dagli stadi giovanili di organismi
che, giunti allo stadio adulto, andranno a far parte della macrofauna.
“Dal punto di vista della biodiversità, spiegano Alejandro Martinez
Il termine meiofauna, coniato
dalla biologa Molly Mare, indica
l’insieme di metazoi che abita i
sedimenti marini e d’acqua dolce
ed Ester Eckert del Cnr- Irsa, il nostro approccio integrato di analisi
faunistiche ed ecologiche con metodi tradizionali e con metodi
basati su DNA prelevato in ambiente ha dimostrato che, anche in
una zona piccola come l’isola dell’Asinara, su un totale di circa 200
specie di invertebrati microscopici rinvenute nelle spiagge si registrano
oltre 80 specie finora ignote. Questi alti livelli di biodiversità
dimostrano quanto ancora poco sappiamo della vita che ci circonda,
soprattutto, per quanto riguarda animali microscopici che vivono
nella sabbia e nei sedimenti. In mancanza di tale conoscenza diventa
impossibile studiare le molteplici funzioni ecologiche fondamentali
quali, la trasformazione, il riciclo e il trasporto della sostanza organica
ai vari livelli della rete trofica, svolte da tale specie e gli impatti
esercitati su di loro dalle attività umane”.
Prosegue Vittorio Gazale, Direttore del
Parco Nazionale dell’Asinara e coautore dello
studio “Dal punto di vista della gestione e conservazione
ambientale, i risultati della ricerca
dimostrano come tenere alcune spiagge chiuse
al pubblico sia una scelta fondamentale per
mantenere elevati livelli di biodiversità, in particolare
per permettere la diversificazione degli
organismi microscopici che vivono nella sabbia
e nei sedimenti marini litorali. Anche spiagge con minima affluenza
turistica hanno dimostrato un cambiamento in vari parametri di ricchezza
e composizione in specie, con un effetto maggiore in spiagge
ad alta affluenza di turisti”.
“Studi come questo, conclude Diego Fontaneto del Cnr- Irsa,
dove la ricerca di base viene applicata a sostegno delle decisioni politiche
in campo ambientale, sono essenziali per fornire le basi di una
corretta elaborazione di adeguati piani di gestione di parchi ed aree
protette volti a limitare l’impatto umano in ambiente e potrebbero
essere usati per comprendere gli effetti ambientali della diminuzione
dell’impatto antropico a causa del lockdown”.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
53
AMBIENTE
Come sarà la Terra fra cinquant’anni?
In diverse parti del mondo
sarà un vero e proprio forno, con
temperature paragonabili a quelle
di un deserto. Dall’India al Pakistan, il
surriscaldamento globale rischia di stravolgere
nel 2070 la vita di 3,5 miliardi di persone
costrette a vivere, in futuro, in zone
paragonabili al deserto del Sahara per condizioni
e temperature. Questo genererà, oltre
alla scarsità di cibo e di risorse, sempre
più rifugiati climatici, persone che saranno
costrette a spostarsi altrove per trovare
condizioni di vita migliori.
Questo scenario, per certi versi apocalittico
ma potenzialmente molto reale,
soprattutto se non riusciremo ad arginare
le emissioni e la conseguente avanzata
della crisi climatica, è stato descritto da
un rapporto apparso sulla rivista scientifica
americana Proceedings of the National
Academy of Science (Pnas) e redatto da
diversi esperti internazionali. Secondo lo
studio in quasi un quinto della Terra il clima
sarà caratterizzato da caldo insopportabile
e un terzo della popolazione mondiale
si ritroverà a vivere in situazioni al limite
della sopravvivenza dato che il caldo avrà
impatti rilevanti su ecosistemi, economie e
vita delle comunità.
Nel documento curato da ricercatori
cinesi, americani ed europei, viene descritto
come ben prima della fine del secolo la
temperatura media crescerà di oltre 3 gradi
e «in alcune aree si potrebbe arrivare a 7,5,
in assenza di azioni di mitigazione». Come
se non bastasse, le temperature elevate si
registreranno probabilmente in zone densamente
popolate e fra le più povere al
mondo, come ad esempio l’India, la Nigeria,
il Pakistan, l’Indonesia e il Sudan, dove
oggi vivono quasi due miliardi di persone e
in futuro probabilmente molte di più. I territori
dove oggi vivono e che vengono usati
per le produzioni agricole e coltivare cibo
IL MONDO CALDISSIMO
CHE AVREMO NEL 2070
Il nuovo studio su Pnas sulla crisi climatica:
l’aumento delle emissioni renderà la Terra invivibile
con l’avanzare della crisi climatica e del
surriscaldamento potrebbero trasformarsi
infatti in territori praticamente inabitabili,
dato che tra calore e siccità sarà sempre più
complesso garantire l’approvvigionamento
a cibo e risorse idriche.
Già oggi, dati
alla mano, purtroppo
siamo lontani dalla Tra cinquant’anni
riduzione di emissioni
di CO2 decisa per
il surriscaldamento globale
esempio negli accordi
di Parigi del 2015. di 3,5 miliardi di persone
rischierà di stravolgere la vita
Se in questo periodo
di lockdown mondiale
dovuto alla pandemia si è registrato un
calo del 17% delle emissioni, questo non
significa e non basta per poter dire che siamo
sulla buona strada: gli obiettivi di contenere
il surriscaldamento a +1,5 gradi, e
anche quello di 2 gradi, sono infatti ancora
lontani dall’essere centrati e nel 2100 potremmo
comunque trovarci con una temperatura
media globale a +3,2 gradi.
Chi oggi abita in zone con temperature
temperate in futuro potrebbe vivere con 20
gradi di media, pari
all’Africa settentrionale,
mentre chi si
trova già in zone con
temperature elevate
potrebbe ritrovarsi
in aree con quasi 30
gradi di media.
Secondo i dati
della ricerca Pnas, basata su una analisi
delle temperature globali negli ultimi 6.000
anni, la fascia di fluttuazioni climatiche ha
una temperatura media annuale di 55.3
gradi Fahrenheit e le colture, gli allevamen-
54 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
AMBIENTE
© Pop Tika/www.shutterstock.com
© Art-sonik/www.shutterstock.com
ti o i sistemi di irrigazione e produzione di
cibo sono sviluppati e progettati all’interno
di questi vincoli di temperature. Fuori
dalle normali condizioni ambientali ci si
ritroverebbe ad operare e vivere in zone
come il Sahara che oggi rappresentano
meno dell’1% della
superficie terrestre
ma che in futuro diventeranno
il 20%,
se non riusciremo ad
abbassare le emissioni
climalteranti.
Il rapido aumento
porterebbe infatti
il 30% della popolazione mondiale ad abitare
in posti con una temperatura media
superiore ai 29 gradi (condizione climatica
che oggi è sperimentata sullo 1% della
superficie delle terre emerse) mentre nel
Lo scenario che si prospetta
porterà, in futuro, scarsità di
cibo, di risorse e sempre più
rifugiati climatici
2070 questa condizione potrebbe riguardare
il 19% della superficie.
«I cambiamenti si manifesterebbero
meno velocemente che con l’attuale pandemia
da Covid-19, ma sarebbero ancor più
deleteri perché alcune zone del Pianeta si
riscalderebbero a livelli
a malapena accettabili
per la sopravvivenza
umana, e non si
raffredderebbero mai
più» ha spiegato Marten
Scheffern dell’Università
di Wageningen,
coordinatore
dello studio assieme a Xu Chi dell’università
di Nanjing. Secondo i ricercatori non
solo milioni di persone sarebbero costrette
a migrare, ma inoltre c’è il rischio che
avvenga presto un possibile spopolamento
delle aree costiere dovuto allo scioglimento
dei ghiacci e il conseguente innalzamento
del livello del mare.
«Visto che le nostre scoperte erano
così rilevanti - ha spiegato Xu Chi dell’Università
di Nanjing - ci siamo presi un anno
in più per verificare attentamente tutte le
supposizioni e i calcoli. Inoltre, abbiamo
deciso di pubblicare tutti i dati e i codici
informatici, per trasparenza e per agevolare
qualunque attività di follow-up da parte
di altri studiosi. Avremo bisogno di un
approccio globale per salvaguardare le generazioni
future dalle significative tensioni
sociali che il cambiamento previsto potrebbe
causare».
Non tutto però è perduto. Per Tim
Lenton, coautore dello studio, climatologo
e direttore del Global Systems Institute
dell’Università di Exeter, «la buona notizia
è che questi effetti si possono ridurre enormemente
nel caso in cui la specie umana
riesca a frenare il surriscaldamento globale.
I nostri calcoli dimostrano che ogni grado
al di sopra dei livelli attuali corrisponde
all’incirca a un miliardo di persone che
finiranno fuori dalla nicchia climatica. È
importante dimostrare i benefici ottenuti
dalla riduzione delle emissioni di gas a effetto
serra in termini di migliori condizioni
di vita per gli esseri umani prima ancora
che in termini monetari». (G. T.).
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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AMBIENTE
© Diyana Dimitrova/www.shutterstock.com
Save the Queen
La campagna di Legambiente per salvare le api dall’estinzione
La giornata mondiale delle api, che si è celebrata lo
scorso 18 ma maggio, ha dato il via alla campagna di
Legambiente “Save the Queen”. Lo scopo è quello
di sensibilizzare istituzioni e cittadini sul tema del rischio
di estinzione delle api.
Fino ad oggi, è stato soprattutto il calo nelle popolazioni
dell’ape da miele domestica a far parlare di sé, ma la nuova
lista rossa europea indica che il 9% di tutte le specie di api del
nostro continente è a rischio di estinzione.
Le api sono preziose impollinatrici, sentinelle ecologiche
e bioindicatori della qualità dell’aria. Sono dieci le azioni
al centro della campagna che ha come simbolo l’ape regina:
creazione di una vera e propria rete di mappaggio capillare
nella penisola per individuare pesticidi e
metalli pesanti attraverso le api, realizzata
in collaborazione con la start up Beeing;
adozione di arnie; più orti urbani; accordi
specifici con aziende agricole per mettere
in campo azioni per tutelare ed incrementare
la presenza di api ed insetti pronubi
nei territori attraverso, ad esempio, la
coltivazione di piante mellifere; campagne
informative rivolte ai cittadini con percorsi didattici e
attività di sperimentazione, coinvolgendo anche il mondo
universitario e della ricerca; pressing sul mondo istituzionale
per chiedere interventi e risposte concrete; creazione di una
rete di Comuni amici delle api; creazione di una rete di Parchi
“Save the queen” messa in campo di azioni economiche
a sostegno diretto di filiere agricole produttive virtuose; realizzazione
di una linea di miele Save the queen, selezionando
apicoltori che operano nel massimo rispetto delle api e degli
ambienti naturali per creare, così, una selezione di mieli italiani
di alta qualità.
L’obiettivo è di raccogliere
un milione di firme
per chiedere all’Ue
a riduzione dei pesticidi
La campagna, realizzata in partnership con Frosta, in prima
linea sul fronte della sostenibilità ambientale e prima azienda
ad aderire a “Save the queen”, e con la partnership tecnica
della start-up Beeing, avrà un suo spazio virtuale specifico,
agricoltura.legambiente.it/save-the-queen, in cui si potranno
trovare informazioni sulle api, ma anche diversi contenuti di
approfondimento, foto e video.
Inoltre, sarà anche possibile firmare la petizione per chiedere
alla Commissione europea di sostenere un modello agricolo
che permetta agli agricoltori sia di tutelare la biodiversità
che di ridurre drasticamente i principi attivi pericolosi utilizzati
in agricoltura, arrivando alla loro totale eliminazione entro
il 2035. La campagna è promossa da una coalizione di 90
organizzazioni in 17 paesi europei con una
compagine molto ampia che vede la presenza
di svariate associazioni con un ruolo
attivo anche in Italia. Obiettivo della campagna
è la raccolta di un milione di firme
entro settembre 2020 allo scopo di chiedere
alla Commissione Europea di adottare
attraverso provvedimenti normativi una
legislazione più efficace nell’ambito della
tutela delle api e degli insetti pronubi, per raggiungere una
riduzione dell’80% dell’utilizzo di pesticidi entro il 2030 e la
loro totale eliminazione entro il 2035.
«Oggi più che mai – spiega Giorgio Zampetti, direttore generale
Legambiente – è importante difendere le api con azioni
di tutela non più procrastinabili, a partire dall’eliminazione
dei principi attivi nocivi come i neonicotinoidi, la diffusione
dell’applicazione di criteri di produzione agroecologici orientati
all’agricoltura biologica e l’adozione di un piano d’azione
per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari che sia orientato
alla tutela della biodiversità». (F. F.)
56 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
INAUGURAZIONE
DELLA SEDE REGIONALE
DI TOSCANA E UMBRIA DELL’ONB
FIRENZE*
3 ottobre 2020 - Ore 10:30
Interventi:
Sen. dott. Vincenzo D’Anna
Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi
Dott.ssa Stefania Papa
Consigliere dell’Onb e delegato regionale
di Toscana e Umbria
Dott.ssa Antonella Gigantesco
Commissario della delegazione
di Toscana e Umbria
Autorità convenute
*Via dei Brunelleschi, 4
www.onb.it
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
57
INNOVAZIONE
IL FUTURO
DELL’ULTRAVIOLETTO
PER SANIFICARE LE
MASCHERINE
Il progresso delle tecnologie al servizio
dell’ambiente e del mondo sanitario
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Probabilmente, finché non si troverà
un vaccino, le mascherine faranno
parte delle nostre vite per molto
tempo. Diventeranno capi protettivi
da indossare ogni giorno forse perfino per
anni, azzardano alcuni studi internazionali.
Oggi, come indicano le disposizioni di legge,
per evitare i contagi legati alla pandemia da
Covid-19 ci stiamo già abituando a portarle
mentre facciamo la spesa, camminiamo, ci
spostiamo, facciamo shopping: praticamente
in ogni occasione, con conseguenti rischi
per l’ambiente se non le sapremo gestire. Alcuni
cittadini infatti, un po’ come accaduto
per la plastica monouso, si stanno abituando
a gettare in natura, una volta usati, guanti e
mascherine.
Se questa cattiva abitudine dovesse
perdurare, con uno studio del Politecnico
di Torino che stima che serviranno sino a
1 miliardo di mascherine al mese, se solo
l’1% dei dispositivi di protezione finisse in
natura ci ritroveremmo con 10 milioni di
mascherine disperse nell’ambiente, pronte a
inquinare i nostri mari. Un dramma, per gli
oceani già soffocati da milioni di tonnellate
di plastica. Ecco perché, per trovare un’altra
via allo smaltimento e per cercare di evitare
possibili danni all’ambiente, ultimamente
si sta ragionando sulla possibilità del riuso
delle mascherine dopo un processo di sanificazione.
Fra i vari modi presi in esame per poter
sanificare e di conseguenza riutilizzare
le mascherine, uno dei più efficaci finora
è quello dei raggi ultravioletti. Soprattutto
quelli più energetici, come i raggi Uv-C,
hanno effetti igienizzanti efficaci solitamente
anche sui virus, anche se siamo ancora in
fase di sperimentazione per capire se davvero
possono essere in grado di “sconfiggere”
sempre il virus Sars-Cov-2 responsabile
dell’attuale pandemia.
Ad esempio, ricercatori delle sedi di
Brera, Merate e Padova dell’istituto nazionale
di astrofisica, in collaborazione con
l’Università di Milano, stanno mirano a sviluppare
dei dispositivi utili alla disinfezione
che non solo potrebbero essere adatti per
sanificare attraverso i raggi le mascherine,
ma addirittura - cosa che è in fase di sperimentazione
- per la
disinfezione dell’aria
e l’inattivazione del
virus Sars-Cov-2.
Al momento si
stanno sperimentando
gli effetti a seconda
dell’esposizione
ai raggi, delle dosi,
delle lunghezze d’onda. Sistemi di sanificazione,
quelli attraverso i raggi Uv, che
potrebbero essere usati anche come disinfezione
per oggetti di uso comune, dalle
banconote agli smartphone.
Il Politecnico di Torino stima
che, nei prossimi tempi,
serviranno 1 miliardo
di mascherine al mese
A Milano, negli ospedali Sacco e San
Raffaele, ma anche a Bergamo, in Piemonte
e in Veneto, sulla scia degli Stati Uniti
hanno sperimentato di recente robot “Light
Strike” che è in grado, usando ultravioletti
allo xeno, di sterminare in pochi minuti
virus, batteri, spore
e funghi e anche il
Sars-Cov-2. Secondo
uno studio effettuato
nel Texas nel Biomedical
Research Institute
questo sistema
è in grado di ridurre
del 99,99% il carico
patogeno su superfici complesse. Funziona
con luce ultravioletta ad alta intensità che
distrugge il Dna dei microrganismi.
Sempre dall’America arriva anche un
sistema capace di sterilizzare e sanificare
58 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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200 mascherine ogni otto minuti proprio
grazie ai raggi Uv. E’ stato sviluppato da
due team di ricercatori del Dipartimento
di elettricità e ingegneria informatica
(ECE) della Lehigh University e del St.
Luke’s University Health Network. Grazie
alle proprietà
Se solo l’1% dei dispositivi di
protezione finisse in natura,
ne ritroveremmo 10 milioni
dispersi nell’ambiente
della luce ultravioletta,
che in questa
fase di pandemia è
stata usata in diversi
contesti, dagli ospedali
sino agli aeroporti,
è stato creato
l’ High-Throughput
Symmetrical and Non-Shadowing Ultraviolet
Sterilization System (sistema di sterilizzazione
ultravioletta simmetrica e non
ombreggiante ad alto rendimento) detto
“Bug Zapper”, capace di causare cambiamenti
radicali nel DNA e nell’RNA di virus
e di altri agenti patogeni.
Potenzialmente, questo sistema, fatto di
una struttura di metallo ottagonale con diverse
fonti di luce, irradiando di ultravioletti
è capace di decontaminare fino a 10mila mascherine
al giorno.
Basati sugli ultravioletti,
ci sono poi diversi
progetti stanno
pian piano diventando
realtà negli States,
come al Rensselaer
Politechnic Institute
di Troy nello Stato di
New York, dove è già stato avviato un sistema
automatizzato che attraverso l’uso degli
ultravioletti sta sanificando migliaia di mascherine,
già riutilizzate dagli operatori.
Anche in Italia ci si muove su questo
fronte. Mentre i comuni (come Roma) cominciano
a prevedere multe salate sino a
500 euro per chi getta a terra i dispositivi
di protezione, dalla Lombardia alla Sicilia
si stanno progettando nuove mascherine in
grado proprio di ridurre l’impatto ambientale:
per esempio modelli con filtri sostituibili
o altri in “gomma”, altre ancora si potranno
sterilizzare in microonde. Oppure,
proprio con l’uso di ultravioletti UV-C e
ozono, ci sono progetti di privati che permettono
la sanificazione in un massimo di
quindici minuti dalle mascherine ai guanti,
passando per altri oggetti di uso comune.
Superati ulteriori test, potremmo presto
vedere in funzione questi macchinari: lo
scopo è quello di unire scienza e tecnologia
per aiutarci a proteggerci dal contagio
e contemporaneamente proteggere l’ambiente.
(G. T.).
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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INNOVAZIONE
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In spiaggia con i distanziatori ecosostenibili
Un brevetto dell’Enea al servizio della sicurezza nei lidi
di Felicia Frisi
Vacanze sì, vacanze no. Il coronavirus impone questo dilemma
quando la stagione estiva è ormai alle porte. In gioco c’è
la salute dei turisti, da far conciliare con il settore balneare
e la sua economia mai così in bilico negli ultimi decenni.
Secondo le linee guida condivise tra Governo e Regioni, bisognerà
garantire una superficie di almeno 10 metri quadrati per ogni
ombrellone. Per stimolare il turismo nella Penisola, i 500 euro del bonus
vacanze rappresenteranno un incentivo invitante.
Ma, intanto, bisogna fare presto per attrezzare correttamente i
litorali. Dal mondo della ricerca arriva una soluzione green per assicurare
il corretto distanziamento sulle spiagge
nella fase post-emergenza Covid-19. L’idea è di
utilizzare la Posidonia oceanica, una pianta marina
che si deposita in grandi quantitativi sugli
arenili mediterranei, per realizzare barriere di
sicurezza ecologiche.
L’innovazione è stata sviluppata dall’Enea
(Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia
e lo sviluppo economico sostenibile) in
collaborazione con l’azienda Ecofibra Design and Technology. Consiste
in pannelli divisori imbottiti con Posidonia, raccolta ed essiccata,
per separare gli ombrelloni e creare dei percorsi di accesso all’acqua,
in linea con l’attuale normativa sanitaria.
«L’utilizzo durante la stagione estiva di questi dispositivi economici,
facilmente riutilizzabili e che possono essere realizzati anche con
materiali 100% naturali, consentirebbe di rendere fruibili in sicurezza
superfici di costa altrimenti non balneabili e di ridurre la dispersione
di aerosol a beneficio della ricettività turistica», spiega Sergio Cappucci
del Laboratorio di Ingegneria sismica e prevenzione dei rischi naturali
dell’Enea, che ha inventato e brevettato il sistema utile anche per
Per realizzare le barriere
viene utilizzata la Posidonia
oceanica, diffusa sugli
arenili mediterranei
stuoie, sdraio, cuscini e altri arredi, in un’ottica di economia circolare,
protezione dell’ambiente e tutela della biodiversità, offrendo nuove
opportunità di sviluppo economico.
Questi prototipi di “separè” ecologici, alti circa 120 cm e larghi
200 cm, sono dotati di telai in acciaio e fodera in plastica riciclata o in
materiali naturali; a fine stagione l’imbottitura può essere semplicemente
svuotata sulla spiaggia dove torneranno a svolgere l’originaria
funzione di protezione dall’azione erosiva provocata dalle onde.
I dispositivi rappresentano inoltre una soluzione al problema
della corretta gestione della Posidonia spiaggiata che occupa molta
superficie, generando cattivi odori: se raccolti insieme ad altri rifiuti,
infatti, i cumuli devono essere smaltiti, con costi ingenti per operatori
e amministrazioni locali che devono provvedere alla loro rimozione.
La Posidonia oceanica è un importante indicatore
dello stato di salute del mare in grado
anche di ridurre i fenomeni di erosione costiera,
produrre ossigeno, contribuire alla conservazione
degli ecosistemi e della biodiversità. La loro
rimozione, oltre a sottrarre quantità elevate di
sabbia alle spiagge, privandole della naturale
protezione dalle mareggiate, sottrae biomassa e
nutrienti importanti per gli ecosistemi costieri,
con conseguente impoverimento della biodiversità. Un recente studio
ha calcolato che la rimozione meccanica di Posidonia spiaggiata,
la cosiddetta “banquette”, in 19 spiagge ha fatto perdere in 9 anni
(2010-2018) un volume di sabbia di oltre 39.000 mc, equivalenti a circa
30.000 tonnellate di sabbia.
Al fine di promuovere l’importanza della Posidonia oceanica e
valorizzare la “banquette”, dal prossimo giugno presso il Parco Nazionale
del Circeo e il Monumento Naturale Palude di Torre Flavia
saranno realizzati due “laboratori a cielo aperto” nell’ambito del progetto
BARGAIN, realizzato da ISPRA, Università di Tor Vergata ed
ENEA, con il contributo della Regione Lazio.
60 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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Comunità energetiche per il low-carbon
L’Italia coordina il progetto europeo eNeuron con Enea
La low-carbon economy è la grande scommessa dei prossimi
anni. Ridurre la CO2 in atmosfera è una missione da
portare a termine per la salute del Pianeta, esposto a cambiamenti
climatici che destabilizzano gli equilibri della vita
terrestre, come li abbiamo conosciuti fino a oggi.
Bisogna sviluppare strumenti innovativi per la gestione ottimale
delle “comunità energetiche” e favorire la transizione verso un sistema
a basso contenuto di carbonio. Questo è l’obiettivo prioritario di
eNeuron, il progetto europeo di Innovation Action (IA) coordinato
dall’Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo
sviluppo economico sostenibile).
Le comunità energetiche sono generalmente costituite da un
insieme di soggetti che, all’interno di un’area geografica ben definita,
sono in grado di produrre, consumare e
Gli altri partner
italiani sono l’Università
Politecnica delle Marche
e la Fondazione Icons
scambiare energia con una governance locale
capace di favorire l’utenza in un’ottica di autoconsumo
e autosufficienza, in linea con il quadro
normativo che si sta definendo in Europa
e in Italia.
Il progetto eNeuron può contare su un finanziamento
di 6 milioni di euro nell’ambito di
Horizon 2020 e coinvolge 17 partner pubblici
e privati di 8 Paesi. Per l’Italia, oltre ad Enea, partecipano l’Università
Politecnica delle Marche e la Fondazione Icons.
In una prima fase è prevista la realizzazione di una piattaforma
attraverso la quale gli utenti del progetto e potranno partecipare attivamente
alla gestione “comunitaria” dell’energia per soddisfare in
modo sostenibile ed efficiente il proprio fabbisogno energetico. In
una seconda fase, l’iniziativa si focalizzerà sull’uso ottimale e sostenibile
dei vettori energetici multipli, considerando priorità sia a breve
che a lungo termine.
«Il progetto intende la comunità dell’energia come un’infrastruttura
integrata per tutti i vettori energetici e vede il sistema elettrico
come spina dorsale, caratterizzata dall’accoppiamento delle reti
elettriche con quelle del gas, del riscaldamento e del raffrescamento,
supportate dall’accumulo di energia nelle varie forme e tipologie,
inclusi i veicoli elettrici e i processi di conversione», spiega Marialaura
Di Somma, ricercatrice presso il Laboratorio Smart Grid e Reti
Energetiche del Centro Enea di Portici e coordinatrice del progetto.
A livello operativo, eNeuron si propone di sviluppare approcci
e metodologie innovativi per progettare e gestire le energy community
in quattro siti pilota in Europa caratterizzati da un’elevata complementarità
tra loro: in Italia nel quartiere Montedago ad Ancona,
in Polonia a Bydgoszcz (mediante il distributore di energia elettrica
polacco “ENEA Operator”); in Norvegia nel laboratorio messo a
disposizione dal distributore di energia elettrica Skagerak; in Portogallo
nella base navale di Lisbona messa a
disposizione da EDP Labelec e dalla Marina
Portoghese.
«Questo progetto si inserisce nel quadro
delle policy europee e nazionali per lo sviluppo
delle comunità energetiche, un tema sempre
più attuale e strategico. In particolare, eNeuron
contribuirà alla realizzazione di strumenti
per la pianificazione di sistemi energetici integrati
in presenza di poli-generazione distribuita e con elevati livelli
di penetrazione di energia rinnovabile», sottolinea Giorgio Graditi,
vice direttore del Dipartimento Tecnologie Energetiche dell’Enea.
«D’altra parte questo progetto consentirà a ENEA di rafforzare
il proprio ruolo a livello europeo nella ricerca in campo energetico,
potendo contare sulle specifiche competenze del Laboratorio Smart
Grid e Reti Energetiche, specializzato in attività di studio, analisi, ricerca
e sviluppo di tecnologie, metodologie e dispositivi per applicazioni
nel settore delle smart grid, delle reti energetiche e impegnato
– conclude Graditi – in attività di ricerca per lo sviluppo di hub-energetici
multi-vettore e comunità energetiche locali». (F. F.)
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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INNOVAZIONE
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Un micro-orto a seimila km dalla Terra
È italiano il progetto per coltivare verdure nello spazio
Si chiama Greencube, è stato progettato da un team scientifico
di studiosi italiani e sarà presente per la prima volta
a bordo di un mini satellite che verrà lanciato in orbita in
occasione del volo inaugurale del vettore ufficiale Vega- C
dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Si tratta di un micro- orto a
6mila Km dalla Terra destinato alla coltivazione di verdure fresche
ad uso e consumo delle future esplorazioni spaziali.
Il prototipo, alla cui realizzazione partecipano l’Enea, l’Università
Federico II di Napoli e l’Università Sapienza di Roma, nel
ruolo di coordinatore e titolare di un accordo con l’Agenzia Spaziale
Italiana (ASI), misura 30x10x10 e si basa su colture idroponiche
a ciclo chiuso in grado di garantire, per i 20 giorni di sperimentazione,
un ciclo completo di crescita di microverdure, selezionate
tra quelle più adatte a tollerare le condizioni
estreme extraterrestri. E’ un Cubesat 3U (tre
unità da 10x10x10 cm). Dal 2003, anno in cui
è stato messo in orbita il primo esemplare,
sono stati lanciati oltre 1200 Cubesat insieme
ad altri nano- satelliti programmati.
Luca Nardi, ricercatore del Laboratorio
Biotecnologie Enea, ha dichiarato: “Il progetto
si inquadra nell’ambito della mission Enea
di trasferire, sia all’industria che alle pubbliche amministrazioni, i
risultati della ricerca scientifica in un’ottica di sviluppo economico
sostenibile, in questo caso attraverso competenze, infrastrutture
e professionalità maturate nella coltivazione in ambienti chiusi e
confinati di ortaggi freschi per uso industriale e in ambienti estremi
come lo spazio. Inoltre, il sistema di coltivazione in orbita consentirà
di massimizzare l’efficienza sia in termini di volume che di consumo
di energia, aria, acqua e nutrienti e durante la missione verrà
affiancato da esperimenti di coltivazione a terra in apposite camere
per poter verificare gli effetti sulle piante oltre che delle radiazioni
anche della bassa pressione e della microgravità”.
Si chiama Greencube
e si basa su colture
idroponiche a ciclo chiuso.Sarà
sperimentato per 20 giorni
Il micro- orto Greencube, alloggiato in un ambiente pressurizzato
e confinato, sarà dotato di un sistema integrato di sensori
hi- tech per il monitoraggio e controllo dei parametri ambientali,
della crescita e dello stato di salute delle piante e, sarà progettato
in modo da trasmettere a terra, in piena e totale autonomia, tutte
le informazioni acquisite, offrendo così la possibilità ai ricercatori
di valutare la risposta delle piante alle condizioni di stress
estremo.
Nardi ha concluso sottolineando che “Il confronto tra i risultati
degli esperimenti ottenuti nello spazio e a terra sarà determinante
per la valutazione della crescita delle microverdure
in orbita e poterle utilizzare come alimento fresco ed altamente
nutriente nelle future missioni”.
Fabio Santoni, coordinatore del progetto,
ha evidenziato che: “Per quanto riguarda
il contributo allo studio dell’Università la Sapienza,
Greencube si inserisce nello sviluppo
di una serie di nanosatelliti universitari,
messi a punto per soddisfare le crescenti necessità
di accesso rapido ed economico allo
spazio da parte della comunità scientifica.
Attualmente, il nostro laboratorio ha in orbita
altri due satelliti e ne sta realizzando altri due nell’ambito di altre
iniziative. La missione Greencube ci consentirà di sviluppare
ulteriormente le nostre capacità tecnologiche, permettendoci di
provare in orbita dei nuovi sistemi di acquisizione e comunicazione
dati e un sistema di propulsione elettrica”.
Il satellite verrà realizzato in due sezioni: due unità saranno
dedicate al sistema di coltivazione e di controllo ambientale che,
oltre alle microverdure e ai sensori, conterrà anche la soluzione
nutritiva e l’atmosfera necessaria; la seconda unità, invece, ospiterà
all’interno del “telaio” del satellite la piattaforma di gestione
e controllo del veicolo spaziale. (P. S.).
62 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
È arrivata Radio Bio
l’emittente online dell’ONB
Sul sito internet www.onb.it
e sull’app per smartphone
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
63
BENI CULTURALI
In Vaticano, scoperta una nuova opera di Raffaello
Si tratta delle Allegorie “Giustizia” e “Cortesia”, realizzate cinque secoli fa
di Pietro Sapia *
*
Consigliere tesoriere dell’Onb, delegato nazionale per le regioni
Emilia Romagna e Marche.
La scelta dei colori tipici
del manierismo e la tecnica
utilizzata hanno permesso di
attribuire il lavoro all’artista
Nel Salone di Costantino della Città del Vaticano sono
state scoperte “Giustizia e Cortesia”, due figure
femminili dipinte a olio riconducibili all’ultima opera
incompiuta e realizzata oltre cinque secoli fa da
Raffaello all’interno della Santa Sede.
L’incarico gli era stato assegnato tra il 1518 e il 1519 da Leone
X Medici, che voleva decorare la sala del Palazzo Apostolico
destinata ai banchetti e ai ricevimenti con le autorità politiche.
Un’operazione enorme, da realizzare in un salone lungo diciotto
metri, largo dodici e alto tredici, dove il pittore
decise di sperimentare la tecnica dell’olio
su muro, tipica della pittura su tavola.
Sulle pareti dovevano essere riprodotti dei
finti arazzi raffiguranti episodi importanti
della vita di Costantino, come la Visione
della Croce o Adlocutio e la Battaglia di
Ponte Milvio. Con la prematura scomparsa
dell’artista, i lavori furono affidati a Giulio
Romano, Giovan Francesco Penni e ad altri
collaboratori della scuola di Raffaello, che terminarono l’opera
con la più sicura tecnica dell’affresco.
L’attribuzione dell’opera all’artista non è stata semplice,
poiché le colle e gli interventi di restauro avvenuti nel corso dei
secoli ne avevano alterato i colori. La lunga e complessa ristrutturazione
delle pareti, condotta dai Musei Vaticani con la collaborazione
dei Patrons of the Arts in the Vatican Museum, ha
evidenziato elementi riconducibili allo stile di Raffaello, come la
scelta dei colori tipici della stagione del manierismo, o come la
tecnica pittorica adottata, quella a tempera grassa e ad olio, che
mette in risalto le trasparenze e le sfumature che caratterizzano
il suo stile. Sotto le due Allegorie, inoltre, sono stati rinvenuti
dei chiodi, che avevano la funzione di ancorare alla parete la
colofonia, ossia la pece greca stesa a caldo e poi ricoperta con
un sottile strano di intonachino bianco, che aveva l’intento di
riprodurre le caratteristiche di una tavola e di garantire di poter
eseguire la pittura ad olio con maggiore sicurezza.
«Il riconoscimento dello stile, della tecnica, dell’attitudine
alla sperimentazione proprie del genio di
Raffaello Sanzio, corroborato dal riscontro
delle fonti storiche e dei risultati delle analisi
scientifiche, hanno portato ad attribuire
al Divin Pittore le allegorie della Iustitia e
della Comitas, le uniche due figure femminili
dipinte ad olio tra gli affreschi del Salone
di Costantino in Vaticano» fa sapere
Vatican News.
«I lavori di conservazione e pulitura
condotti dal 2015 su tre pareti del grande ambiente - prosegue
la nota della mezzi d’informazioni della Santa Sede - consentono
infatti di cogliere nuovi dettagli dell’intero ciclo pittorico, ma
soprattutto di godere appieno della sensazionale scoperta che
sarebbe stata al centro di un convegno internazionale programmato
in Vaticano per lo scorso 20 aprile nell’ambito del cinquecentenario
della scomparsa del grande pittore. L’emergenza
legata al coronavirus ha impedito lo svolgimento del simposio,
ma l’ormai prossima riapertura dei Musei Vaticani consentirà di
ammirare quelle che probabilmente sono le ultime testimonianze
artistiche lasciate dall’Urbinate».
64 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
BENI CULTURALI
L’Urlo di Munch “deumidificato”
La spettroscopia infrarossa suggerisce come proteggere il dipinto
Edward Munch, con “L’Urlo”, ha creato un’icona dell’arte
contemporanea. Sono diversi di dipinti con questo soggetto
realizzati dal pittore norvegese che visse tra la seconda
metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Il capolavoro dipinto nel 1910 è la principale attrazione del
museo di Oslo e finora è stato esposto raramente a causa delle sue
delicate condizioni di conservazione, dovute non solo a cause ambientali,
ma anche alla natura stessa dei pigmenti utilizzati e in conseguenza
dei danni subiti dopo il furto avvenuto nel 2004 che lo ha
sottratto al Museo per due anni.
Una ricerca pubblicata sulla rivista Sciences Advances suggerisce
che la principale causa del degrado dei pigmenti gialli di cadmio,
utilizzati dall’artista, non è la luce, come si potrebbe supporre, ma
l’umidità. La scoperta è frutto di un’indagine
condotta da un team internazionale coordinato
dal Consiglio nazionale delle ricerche. Grazie
all’utilizzo di metodologie spettroscopiche
non-invasive del Cnr Molab, e micro-analisi
presso l’ESFR di Grenoble, si è giunti ad un risultato
che suggerisce le condizioni ambientali
ottimali per esporre l’opera. Bisogna mantenere
livelli di umidità relativa percentuale non
superiori a circa il 45%, con il mantenimento dell’illuminazione ai
valori standard previsti per i materiali pittorici stabili alla luce.
«L’artista», spiega Letizia Monico ricercatrice presso Istituto
di Scienze e tecnologie chimiche “Giulio Natta” del Cnr di Perugia,
«ha miscelato diversi leganti, quali tempera, olio e pastello con
pigmenti sintetici dalle tonalità vibranti e brillanti per creare colori
di forte impatto. Sfortunatamente, l’ampio utilizzo di questi nuovi
materiali rappresenta una sfida per la conservazione a lungo termine
delle opere d’arte del pittore norvegese».
Ma come si presenta la superficie del dipinto sotto la lente scientifica?
«La versione del 1910 mostra evidenti segni di degrado in
Finora è stato esposto
raramente al museo
di Oslo, dove è la principale
(e delicata) attrazione
diverse aree dipinte con gialli di cadmio, una famiglia di pigmenti
costituiti da solfuro di cadmio» spiega la ricercatrice. «L’originale
colore giallo brillante di alcune nuvole del cielo e del collo del soggetto
centrale, appare oggi sbiadito. Nella zona del lago, le dense ed
opache pennellate di giallo di cadmio mostrano invece tendenza a
sfaldarsi».
Le micro-analisi effettuate al sincrotrone (un particolare acceleratore
di particelle) hanno permesso di individuare che l’umidità è
una delle cause principali di degrado dei pigmenti gialli di cadmio
del dipinto. Infatti diversamente da quanto si pensava, la luce ha
un impatto irrilevante sul deperimento di tali pigmenti rivelatisi più
stabili alla fonte luminosa di quanto non siano i gialli di van Gogh
nella serie dei Girasoli, ampiamente analizzati dallo stesso team Molab-Cnr.
«Lo studio del dipinto è stato integrato
con indagini sui provini pittorici di laboratorio
invecchiati artificialmente, preparati utilizzando
una polvere storica ed un tubetto ad olio di
giallo di cadmio appartenuto a Munch, aventi
composizione chimica simile al pigmento giallo
del lago del dipinto. Lo studio mostra che
il solfuro di cadmio originale si trasforma in
solfato di cadmio in presenza di composti contenenti cloro ed in
condizioni di elevata umidità relativa percentuale; ciò accade anche
in assenza di luce», aggiunge Letizia Monico.
La novità dello studio consiste anche nella integrazione di differenti
tecniche d’indagine con un approccio che potrà essere utilizzato
con successo per esaminare altre opere d’arte che soffrono di
simili problemi.
Numerose le istituzioni coinvolte nella ricerca: l’Università degli
Studi di Perugia (Italia), l’Università di Anversa (Belgio), il Bard
Graduate Center di New York (USA), il sincrotrone tedesco DESY
(Amburgo) ed il Munch Museum (Oslo). (F. F.)
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
65
STORIA E RICERCA
di Barbara Ciardullo
Il contributo maggiore del Corpus è
stato quello di avere creato, oltre che
una scienza, anche una terminologia
medica che rimane fondamentale
nei secoli e perdura pure al nostro tempo
(nomi di malattie e termini diagnostici ed
anatomici). Infatti, nel Corpus Hippocraticum
sono già sviluppati i rami basilari
del sapere medico: dalla clinica alla dietetica,
alla chirurgia, alla ginecologia, alla
traumatologia, sino alla malattie mentali.
Il “Corpus” presenta scritti specialistici
e scritti divulgativi, tutti databili tra
il V sec. ed inizi del IV sec. a. C.: leggendo
queste opere, ci rendiamo conto
come la scienza medica si sia servita
della comunicazione scritta, oltre che
dell’insegnamento orale, per informare
e istruire coloro che si affacciavano e intraprendevano
questa professione e per
organizzare un archivio di casi esemplari.
Gli scritti specialistici sono una sorta
di prontuario delle malattie, a proposito
delle quali vengono fornite sintomatologia,
terapia e prognosi.
Ad esempio nei trattati intitolati “Malattie,
affezioni interne, malattie delle
donne” introduce il quadro sintomatologico
con una frase condizionale, cui seguono
descrizione dei sintomi e poi la prescrizione
terapeutica “se il malato si trova
in queste condizioni bisogna fare…” ed,
infine, la previsione sull’esito fausto o infausto.
Insomma, la malattia è vista come
un processo che si evolve nel tempo e a cui
il medico deve rivolgere il proprio intervento.
Tra gli scritti specialistici troviamo
quello intitolato Epidemie, che significa
“soggiorni in città straniere”, dove viene
raccolto materiale clinico dell’attività di
diversi medici: i libri I e III esprimono le
storie cliniche individuali con cui Ippocrate
procede alla descrizione della situazione
climatica e patologica di un luogo
nel corso dell’anno.
IL CORPUS HIPPOCRATICUM
E IL SUO CONTRIBUTO
AL PROGRESSO SCIENTIFIC
Panoramica sull’importante raccolta di scritti
specialistici alla base del sapere medico
Alla base c’è la convinzione che vi
sia un nesso tra i cambiamenti climatici,
la natura dei singoli pazienti e lo sviluppo
delle diverse malattie. Inoltre, vi sono
riflessioni di carattere metodologico, che
sono indicative proprio
della concezione
ippocratica della
medicina, come:
“Nelle malattie mirare
a due scopi: giovare
o almeno non
danneggiare. L’arte
consiste di tre cose:
la malattia, il malato e il medico; il medico
è il servitore della medicina.
E poi bisogna che il malato si opponga
con volontà e caparbietà alla malattia
insieme al medico”. Un altro scritto spe-
Il contributo maggiore
del Corpus è stato quello
di creare un terminologia
medica che perdura
cialistico è quello dal titolo Prognostico:
è interamente dedicato alla possibilità di
prevedere gli sviluppi e gli esiti della malattia.
La prognosi deve essere comunicata
al malato in modo che costui si renda conto
della scienza ed
esperienza del medico
e, quindi, si affidi
alle sue cure. Rispetto
al tradizionale ricorso
alla divinità, in
questo trattato manca
qualsiasi richiamo
ad un rapporto con il
divino: la capacità di argomentare in base
alla valutazione di una natura comune agli
esseri umani, accompagnata dalla valutazione
delle costituzioni individuali che
sono variabili.
66 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
STORIA E RICERCA
O
Gli scritti divulgativi sono rivolti non
solo ad un pubblico specializzato di medici
ma anche ad un pubblico più vasto
e sono frutto di conferenze e convegni.
Molti di questi scritti sono da ricollegare
al dibattito tra le arti
e sulle arti, cioè sulla
validità scientifica
delle singole tecniche
che si sviluppò alla
fine del V secolo a.C.
Tra gli scrittori divulgativi
ne approfondiamo
il contenuto
di qualcuno. Nei trattati intitolati Sull’arte
e L’antica medicina Ippocrate difende la
medicina contro coloro che la accusavano
di essere troppo soggetto al caso: egli si
scaglia contro l’invadenza della filosofia
I testi, specialistici e
divulgativi, sono tutti databili
tra il V secolo e gli inizi
del IV secolo a.C.
nella medicina e denuncia l’errore di quei
medici che si servono di elementi semplificatori
come il caldo, il freddo, il secco
o l’umido per spiegare la malattia. Ippocrate,
risalendo alle origini della medicina,
dimostra che essa
ha una storia ed una
metodologia acquisite
con l’esperienza
e polemizza con i
filosofi come Empedocle
che affermano
come la conoscenza
dell’uomo sia preliminare
alla conoscenza medica: Ippocrate,
invece, sostiene che la medicina studia
le relazioni causali tra dieta, che riguarda
la condizione di vita, e l’uomo. In un altro
scritto divulgativo dal titolo Sulle arie, le
acque e di luoghi, suddiviso in due parti:
medica ed etnografica, Ippocrate evidenzia
i diversi fattori ambientali, che sono
importanti per la salvaguardia della salute
come: orientamento delle città rispetto
ai venti, al sole, alla qualità delle acque,
costituzione climatica nel corso dell’anno.
Il medico deve tenere presenti questi
fattori per pronosticare e curare le malattie
che possono sorgere durante l’anno.
Inoltre, esamina le influenze ambientali
sulla costituzione fisica e morale degli uomini
e fa un paragone tra i popoli dell’Europa
e dell’Asia, concludendo che le differenze
sono dovute al clima ma anche all’
influenza degli usi e delle leggi.
Altro scritto divulgativo è quello dal
titolo Sulla malattia sacra, cioè l’epilessia,
che tradizionalmente veniva attribuita
all’intervento di una divinità e perciò
veniva curata con purificazioni ed incantesimi.
Ippocrate non solo denuncia l’incompetenza
di coloro che credono ad una
tale teoria ma anche la loro crudeltà e irreligiosità
e si impegna ad inserire l’epilessia
nell’insieme delle malattie naturali,
perché anch’essa ha una sua causa, cioè
un’infiammazione che interessa il cervello,
e quindi è curabile.
Infine, come scritto divulgativo è
celebre il giuramento di Ippocrate: fino
all’età moderna i medici hanno iniziato
la loro professione pronunciando tale
giuramento, che sanciva il suo ingresso
all’interno della scuola di medicina. Con
esso il medico si impegnava a rispettare
i principi fondamentali della deontologia
medica, come i doveri verso la professione
stessa e nei confronti del malato.
Inoltre, con questo giuramento il medico
è tenuto al segreto professionale e al rispetto
della privacy del paziente. Questo
giuramento si rendeva e si rende necessario
ancora oggi per combattere ciarlatani
o colleghi privi di scrupoli.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
67
STORIA E RICERCA
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La medicina nell’antichità
I metodi empirici, magici e scientifici della scienza passata
Nella prima fase della medicina greca antica distinguiamo
due filoni: la medicina tradizionale e quella scientifica. La
prima, che era attraversata da metodi empirici e magici,
era praticata da guaritori dediti a stregonerie o esorcismi
e a purificazioni. La credenza popolare era che la malattia fosse originata
da qualche aggressione demoniaca, per cui questi guaritori si
preoccupavano di guarire con erbe, pozioni e pratiche magiche. Già
nell’Iliade omerica incontriamo due eroi-guaritori, Macaone e Podalirio,
che dimostrarono una grande conoscenza dell’anatomia umana.
Questi eroi-guaritori venivano onorati in varie zone della Grecia, dove
i fedeli giungevano per cercare guarigione; in queste stesse zone si sviluppò
una categoria di medici-sacerdoti, il cui maggiore rappresentante,
secondo la tradizione, è stato Asclepio, figlio di Apollo che, successivamente,
fu considerato il dio della medicina
La credenza popolare era
che la malattia avesse origine
da aggressioni demoniache,
curate dai guaritori
ed il nume tutelare dei medici scientifici.
Il culto di Asclepio, introdotto ad Atene nel
420 a.C., trovò una grande diffusione nel mondo
mediterraneo. In suo onore vennero costruiti
santuari che, in definitiva, erano templi ed ospedali.
La città di Crotone, sede di una delle più
autorevoli scuole mediche, ebbe due validi rappresentanti
della categoria dei medici: Democede
ed Alcmeone; del primo ce ne parla lo storico Erodoto quando in
un passo delle sue “Storie” afferma che, partito da Crotone per contrasti
col proprio genitore giunse ad Egina, i cui abitanti, dopo averlo
visto esercitare la propria professione, lo assunsero ufficialmente
come medico pubblico e, poi, anche gli stessi Ateniesi ed il tiranno di
Samo, Policrate. Diventato schiavo del re dei Persiani Dario, che aveva
sconfitto in battaglia Policrate, fu interpellato per curare lo stesso re
da una slogatura con metodi moderati e non traumatici. La guarigione
di Dario gli arrecò grande prestigio presso la corte persiana. L’altro,
medico e filosofo di ispirazione pitagorica, è Alcmeone, vissuto nel
VI sec. a. C., il quale, secondo fonti storiche, è stato il primo a scrivere
un’opera medica. Qui si nota il rapporto dialettico tra medicina
e filosofia, che accompagnerà lo sviluppo dell’arte medica per tutta
l’antichità. Lo storico e pensatore Diogene Laerzio presenta Alcmeone
come un autore vicino alla tradizione della fisiologia. La natura
degli uomini come del cosmo può essere interpretata solo attraverso
segni e congetture: dunque, una conoscenza relativa ed approssimativa,
ma fondata sull’attività razionale unita alla percezione sensibile.
Alcmeone applicò alla fisiologia le stesse spiegazioni portate avanti
dalla tradizione cosmologica di ambito filosofico. L’uomo è composto
da coppie di elementi contrari e la sua salute consiste nell’equilibrio
tra questi elementi, mentre la malattia è determinata da uno squilibrio.
Per esprimere questo pensiero Alcmeone fa ricorso a metafore politiche:
alla salute corrisponde l’isonomia, alla malattia invece la monarchia.
Secondo la tradizione, Alcmeone fu tra i primi ad
effettuare ricerche sull’occhio e a scoprire la funzione
dei nervi ottici. Ma il vero fondatore della
medicina antica è considerato Ippocrate, il cui
nome è diventato celebre in tutta la storia della
medicina fino ai tempi nostri. A lui la tradizione
attribuisce una sessantina circa di scritti che costituiscono
il cosiddetto “Corpus Hippocraticum”.
Non abbiamo molte notizie sulla sua vita, benché
come medico fosse famoso nell’Atene del V secolo e del VI secolo a. C.:
infatti, Aristotele nella sua opera Politica lo definisce “ il grande” di Cos,
un’isola delle Sporadi. Probabilmente era nato proprio a Cos intorno al
460 a. C. e la sua vita di estende forse fino al 370 a. C.: apparteneva alla
stirpe degli Asclepiadi, una famiglia aristocratica, che faceva risalire la
propria genealogia al dio Asclepio e si vantava di discendere da Podalirio,
il medico che abbiamo incontrato nell’Iliade. I privilegi ed il prestigio di
cui godevano gli Asclepia di di Cos sono confermati in seguito da un’iscrizione
nel santuario di Delfi datata al 360 a. C., in cui viene sottolineato che
viene assegnato ai rappresentanti di tale stirpe il diritto di avere precedenza
nella consultazione dell’oracolo, cioè la promantèia. (B. C.).
68 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
INAUGURAZIONE
DELLA SEDE REGIONALE
DI PIEMONTE, LIGURIA
E VALLE D’AOSTA DELL’ONB
TORINO*
20 giugno 2020 - Ore 10:30
Interventi:
Sen. dott. Vincenzo D’Anna
Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi
Dott. Valter Canavero
Delegato regionale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta
Dott. Alessandro Miceli
Commissario della delegazione di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta
Autorità convenute
*Via Alberto Nota, 3
Terzo Piano
www.onb.it
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
69
SPORT
di Antonino Palumbo
La Germania è già andata in gol,
tra tifosi di cartone e cori registrati.
L’Italia attende un “sì” dal governo,
al pari di un’altra dozzina
di Paesi. Semaforo verde per la ripresa del
calcio in Spagna, mentre Belgio, Francia,
Olanda e Scozia hanno preferito chiudere
definitivamente i campionati. Nazione che
vai, pallone che trovi: gran parte dell’Europa
prova a tornare in campo, dopo lo stop
causato dal Covid-19. I più efficienti, manco
a dirlo, sono stati i tedeschi. La Bundesliga
è ripartita il 16 maggio con le solite certezze:
il Bayern di Lewandowski davanti a
tutti, il Borussia Dortmund in scia con i gol
di Haaland, Lipsia irriducibile con quelli di
Werner.
Ricominciata anche la 1. Liga, in Repubblica
Ceca, dove Teplice-Liberec 2-0 è stato
il primo match dopo il lungo digiuno. La
prima partita della Super Liga danese ha invece
fatto ritrovare AGF Aarhus e Randers.
Il tutto, ovviamente a porte chiuse, come in
Germania e finché Covid-19 ci separerà. A
proposito di Danimarca, curiosa l’idea della
capolista Midtjylland, che ha allestito maxi-schermi
nei parcheggi della MCH Arena:
un vero e proprio drive-in dove seguire la
partita ascoltando la cronaca via radio. Per
ora i posti disponibili sono duemila, ma in
caso di successo potrebbero aumentare.
Si gioca in Ungheria, mentre non si è
mai smesso in Bielorussia. Calcio d’inizio
già riprogrammato anche in Polonia (29
maggio), Israele, Lituania e Serbia (30 maggio),
Austria (2 giugno), Portogallo (4 giugno,
ma non in B), Turchia (il 12), Norvegia
(il 16), Russia (il 21).
L’Italia è tra quei Paesi che ha preferito
aspettare l’evolversi di una situazione complicata
da errori e indisciplina, ma ha avuto
l’ok dal Governo per tornare in campo
dal 13 giugno per Coppa Italia e recuperi e
dal 20 giugno per la Serie A. Tra le ipotesi
avanzate dal ministro dello Sport, Vincenzo
TIFOSI DI CARTONE, DRIVE-
IN E PROTESTE A DISTANZA:
L’EUROPA TORNA A FAR GOL
Lo sport professionistico cerca
la normalità, con protocolli di sicurezza
per la salute pubblica
Spadafora, anche l’inserimento nel decreto
campionato di una diretta gol in chiaro. In
precedenza, l’ultimo Dpcm aveva vietato
qualsiasi tipo di evento, anche a porte chiuse,
fino a domenica 14 giugno. La Serie A
dovrà concludersi entro il 2 agosto. Grande
attesa anche tra i
La Germania è ripartita
con i gol del bomber
Haaland. L’Italia
ricomincia a giugno
club di Serie B, dove
il Benevento di Pippo
Inzaghi è in testa con
20 punti di vantaggio
sul Crotone, e di Serie
C. Il consiglio federale
vorrebbe infatti
rimandare in campo
anche le squadre del terzo torneo professionistico
nazionale, malgrado il “No, grazie”
dei club e le proteste dei medici, per i quali
il protocollo sanitario presenta asperità sia
economiche, sia logistiche.
Il protocollo per la ripresa dell’attività,
inviato dalla Figc al governo, comprende la
divisione dello stadio in tre zone, fasce temporali
di gestione del giorno gara, limite al
numero di persone nello stadio (300, 60 dei
quali per gruppo squadra ospiti), specifica
delle categorie e dei gruppi ammessi, organizzazione
viaggi e trasferte, gestione hotel
e spogliatoi, arrivo squadre e arbitri, interviste,
countdown
e inizio partita. Non
ci saranno bambini,
mascotte, foto di
squadra e strette di
mano. In panchina ci
si siederà distanziati e
magari in tribuna, se
c’è accesso diretto al
campo. Si tornerà negli spogliatoi separatamente,
così come divisi saranno i calciatori
sorteggiati per l’antidoping. Tempi duri
per i giocatori avvezze a proteste ravvicinate:
arbitro e guardalinee dovranno godere
della distanza sociale di un metro e mezzo,
nel momento del dialogo. Chi gioca in casa
andrà allo stadio con mezzi ospiti, mentre
70 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SPORT
Il 19enne Erling Haaland, nuova
stella del Borussia Dortmund.
© Nicola Devecchi/www.shutterstock.com
la squadra ospite utilizzerà più pullman.
Resta valido quanto deciso per gli allenamenti
collettivi, con l’individuo colpito
da Covid-19 in isolamento e il resto della
squadra in ritiro per 14 giorni, con possibilità
di allenarsi. E le donne? Non sono
state dimenticate: gli
ultimi sei turni del
massimo campionato
si dovrebbero giocare
da metà luglio.
Il governo spagnolo
ha invece fissato
alla settimana dell’8
giugno la ripresa della
Liga. Attendono il “via libera” dal governo
la Premier League inglese (12 o 20 giugno?)
e i campionati di Azerbaigian, Finlandia,
Grecia, Kazakhistan, Irlanda del Nord, Lettonia,
Romania, Slovacchia, Svezia, Svizzera
e Ucraina.
Fra le altre discipline sportive, annullate
sia l’Eurolega sia l’Eurocup di basket.
La Liga spagnola riprenderà
a giugno. Il basket NBA
forse a luglio. Incertezza per
la ripartenza della F1
La Fisi ha chiesto il rinvio del Mondiale di
sci di Cortina dal febbraio 2021 al febbraio
2022. L’atletica studia nuove modalità per le
competizioni: gare in pista a corsie alternate
fino ai 400 metri, teli di nylon personali
sul cuscino del salto con l’asta e partenze
scaglionate negli 800
metri con microchip
personalizzati, in corse
che di fatto diventano
a cronometro. Il
tennis sembra ancora
lontano dalla ripresa:
la pensano così anche
Roger Federer, che ha
spiegato di non avere motivi per allenarsi, e
l’azzurro Fabio Fognini. Il basket NBA pensa
di ripartire a fine luglio al Disney World
di Orlando. Sul fronte motori, resta a forte
rischio il GP di Silverstone, in programma il
26 luglio: la F1 non rientra infatti tra le eccezioni
per la quarantena di 14 giorni, imposta
a chi arriva nel Regno Unito.
Un Giro in tono minore
Sovrapposizioni “inevitabili”. E un
Giro d’Italia penalizzato dalla coincidenza
con la Liegi-Bastone-Liegi (4
ottobre), la Gand-Wevelgem (l’11),
la Parigi-Roubaix (il 25) e la Vuelta a
Espana (20 ottobre-8 novembre). Il
ciclismo si prepara a ripartire, con la
salute come priorità e una ripresa della
stagione – stravolta dalla pandemia
di coronavirus - legata all’evolversi
della situazione sanitaria mondiale. Il
Giro d’Italia è stato fissato dall’Unione
ciclistica internazionale nell’arco
temporale compreso tra il 3 e il 25
ottobre, escludendo però la partenza
dall’Ungheria. La Milano-Sanremo si
dovrebbe correre l’8 agosto, la Strade
Bianche sette giorni prima, la Tirreno-Adriatico
dall’8 al 14 settembre. Il
31 ottobre sarà il gran giorno del Lombardia.
In tre mesi si cercherà dunque
di recuperare il possibile, anche se gli
atleti saranno costretti a scelte impegnative,
fra cui quella tra la “Tirreno”
e il Tour de France, previsto dal 29
agosto al 20 settembre. I Mondiali su
strada restano in programma in Svizzera
dal 20 al 27 settembre.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
71
SPORT
L’ultimo ballo (in TV) di Air Jordan
“The Last Dance”. La docu-serie dei record per il “dio” del basket
The Last Dance, ovvero l’ultimo ballo. Nella più domestica
delle primavere, dove la TV e internet sono
state vere e proprie ancore di salvezza per chi non è
abituato a trascorrere giorni interni in casa, la serie
Netflix ed ESPN ha rappresentato un vero e proprio evento
anche per chi non segue il basket. Figuriamoci per chi la pallacanestro
la ama e non scorda le memorabili imprese di Michael
Jordan e dei suoi Chicago Bulls negli anni Novanta. The
Last Dance: così coach Phil Jackson battezzò il campionato
1997-1998. Sarebbe stato quello “l’ultimo ballo”, vista l’intenzione
del general manager Jerry Krause di rifondare la squadra
e licenziare l’allenatore. Un ballo indimenticabile, quello del
sesto scudetto della franchigia dell’Illinois e terzo consecutivo,
nell’ultima stagione di MJ23.
Michael Jordan è l’eroe determinato,
perfezionista ai limiti della cattiveria. Il
condottiero che vuole solo vincere, a costo
di mettere pressione a squadra, allenatore
e dirigenza. Arrivando a far male, sia
psicologicamente sia fisicamente. Un eroe
accanto al quale, di volta in volta, si muovono
una serie di coprotagonisti, con i loro
pregi e qualche umano difetto, che in campo lascia il posto a
straordinarie abilità atletiche e tecniche. Doti che hanno visto
MJ23 svettare tra tutti i campioni del basket moderno e non
solo: alto 198 cm per 98 kg di peso, fu ribattezzato “Air”,
per la sua capacità di stare in cielo durante un salto per molti
secondi, come se volasse (ma il manager David Falk lo legò anche
alla prima linea di abbigliamento personalizzata Jordan).
Larry Bird, uno dei più grandi giocatori di basket di sempre,
che condivise con Jordan l’oro olimpico a Barcellona 1992,
dichiarò che “Michael è semplicemente Dio che sta giocando
a pallacanestro”.
Episodio dopo episodio
lo sport diventa uno
strumento per riflettere
sul valore del duro lavoro
Nel racconto di The Last Dance lo sport diventa uno strumento
per riflettere sul valore del duro lavoro, dell’impegno e
della determinazione per raggiungere i propri obiettivi, qualsiasi
essi siano. E pensare che lo stesso Jordan è stato riluttante
a portare avanti il progetto, visto il lato insopportabile e arrogante
del suo carattere che His Airness temeva potesse emergere
dal materiale d’archivio. Nella narrazione, però, l’ultima
parola spetta sempre a Jordan che riesce a risolvere anche le
situazioni più delicate argomentando con le sue ragioni.
Elogi, ma anche musi lunghi. Secondo Jackie MacMullan
di ESPN, tra gli scontenti ci sarebbe Scottie Pippen. Definito,
sì, come compagno di squadra ideale e come il miglior numero
2 di sempre, ma anche egoista in alcuni frangenti delicati
per il team. A Horace Grant non è piaciuto
passare come la talpa dello spogliatoio per
il libro “The Jordan Rules” di Sam Smith,
mentre Craig Hodges non ha gradito la descrizione
di Traveling Cocaine Circus per i
Bulls degli anni Ottanta.
Anche i musi lunghi, però, hanno contribuito
al dibattito e alla curiosità attorno
a una serie inizialmente prevista per giugno,
in tutto il mondo, quasi un gadget di fine stagione aspettando
le Olimpiadi.Ma che è stata anticipata nel periodo della
pandemia, a parziale “consolazione” per gli appassionati di
sport, basket e serie TV di ogni dove. Otto ore di prodotto in
dieci episodi e record su record: battuta anche una certezza
assoluta come “La casa di carta”.
The Last Dance è infatti stato visto per almeno due minuti,
da 23 milioni e 800 mila utenti. Un dato che non comprende
gli Stati Uniti, dove sarà fruibile dal prossimo 19 luglio: facile
immaginare come The Last Dance sia destinata a ballare ancora.
(A. P.)
72 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SPORT
© Netfalls Remy Musser/www.shutterstock.com
Riaprono palestre e piscine: ecco le regole
Il protocollo anti-covid del Governo per fare sport in sicurezza
Dopo i runner, sono tornati ad allenarsi quasi in tutta
Italia anche gli amanti del workout e del nuoto.
Palestre piscine sono state riaperte dal 25 maggio
in tutta Italia con alcune eccezioni: la Lombardia,
che ha optato per la chiusura almeno fino al 31 maggio, e la
Basilicata dove non torneranno in attività prima del 3 giugno.
Il mese prossimo sarà quello “buono” anche per il via libera
all’attività negli impianti sportivi comunali a Bologna e
Palermo, i cui amministratori si son presi più tempo rispetto
al termine “ante quam non” (il 25 giugno, appunto) previsto
dal decreto del 17 maggio. L’attività è ripresa, ovviamente,
con regole molto scrupolose e più dettagliate rispetto a quelle
per le altre attività, dato che palestre, piscine e centri sportivi
sono luoghi il contatto fisico può essere
È prevista la misurazione
della temperatura con
termoscanner, per non far
entrare chi ha più di 37,5°
maggiore.
Sarà norma, d’ora in poi, prenotare
corsi e lezioni, in modo da evitare il più
possibile gli assembramenti e migliorare
la gestione degli spazi. Le novità cominceranno
dall’ingresso: sia in palestra che in
piscina si entrerà con la mascherina. Obbligatorio
anche disinfettarsi le mani all’ingresso
e uscendo, grazie ai dispenser, spesso preferiti ai guanti.
È prevista la misurazione della temperatura con termoscanner,
per non far entrare chi ha più di 37 gradi e mezzo. In
ogni caso, all’ingresso i clienti dovranno firmare un’autocertificazione
sulle proprie condizioni di salute (se hanno contratto
il Covid, se hanno fatto la quarantena) e i gestori delle attività
conserveranno i dati per 14 giorni. In palestra saranno richieste
scarpe ginniche “ad hoc”. Negli spogliatoi si entrerà pochi
per volta (ma alcuni potrebbero restare chiusi), si starà a un
metro di distanza e i vestiti andranno messi nelle proprie borse,
lasciate negli armadietti. Durante gli esercizi i clienti staranno
lontani almeno due metri fra loro, senza obbligo di mascherina,
avendo cura di stare a non meno di un metro quando
non stanno svolgendo attività fisica. Chiaramente, chi va in
palestra eviterà di condividere borracce, bicchieri e bottiglie e
non scambiare con altri utenti asciugamani o accappatoi. Gli
attrezzi e le macchine che non possono essere disinfettati non
devono essere usati.
Ciascun frequentatore delle piscine avrà a disposizione
una superficie di sette metri quadrati (sia in acqua, sia come
superficie di calpestio), mentre dovrà esserci almeno un metro
e mezzo fra sdraio e lettini delle persone, se non sono conviventi.
Gli istruttori di nuoto dovranno avere la mascherina
anche se non a stretto contatto con gli utenti. Un punto,
questo, che ha sollevato obiezioni e riserve
tra molti gestori di piscine, considerando
il caldo che c’è normalmente a bordo vasca
e il rischio che non si senta bene la voce
dell’allenatore. Alle piscine sono richieste
analisi chimiche, oltre alle batteriologiche
e, per tutti vale l’obbligo di disinfezione
degli attrezzi - da quelli in sala pesi ai
galleggianti in acqua - a ogni uso o a fine
giornata se presi solo da un cliente. Il tutto, ovviamente, senza
dimenticare le “classiche” norme di sicurezza igienica in acqua
di piscina: accurata doccia saponata su tutto il corpo prima di
entrare in acqua, uso obbligatorio, della cuffia, divieto di sputare,
soffiarsi il naso e urinare in acqua; obbligo di pannolini
contenitivi per i bambini molto piccoli.
Novità e restrizioni anche per l’accesso alle docce: consentito
a “numero chiuso” o nelle palestre ridotto al minimo,
ad esempio per chi fa sport in pausa pranzo e dovrà tornare in
ufficio. Rientrare sudato o in tuta non fa parte delle abitudini
ideali del buon professionista. (A. P.)
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
73
BREVI
LA BIOLOGIA
IN BREVE
Novità e anticipazioni dal mondo scientifico
a cura di Rino Dazzo
INNOVAZIONE
Cervello: scoperta la molecola che aiuta la memoria
Nel cervello umano è presente una molecola anti-età che aiuta
a conservare intatte la memoria e le funzioni cognitive.
L’hanno scoperta i neuroscienziati del Mit, autori di uno studio
che potrebbe rivelarsi cruciale nella lotta alla demenza senile e
all’Alzheimer. L’enzima Hdac1 (questo il nome della molecola)
è infatti decisivo nella riparazione degli errori che si accumulano
col passare degli anni nel Dna dei neuroni. La sua efficacia diminuisce
con l’avanzare dell’età e di malattie come l’Alzheimer,
ma è possibile potenziarlo. I ricercatori del Mit hanno provato
a disattivarlo nei topi e hanno notato come gli stessi hanno manifestato
problemi di memoria e di orientamento. Utilizzando
un vecchio farmaco, l’exifone, i sintomi sono scomparsi. Piccola
controindicazione: l’exifone era stato ritirato dal mercato per la
sua tossicità al fegato, ora bisognerà studiare un farmaco simile.
© Pathdoc/www.shutterstock.com
AMBIENTE
La matematica per prevedere lo sviluppo delle piante
© lehic/www.shutterstock.com
Prevedere con precisione la crescita di un vegetale e il suo
comportamento è più facile. I ricercatori del Dipartimento
di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, coordinati
da Sabrina Sabatini e in collaborazione con gli studiosi
dell’Università di Utrecht, hanno realizzato un modello computazionale
capace di riprodurre con esattezza le fasi di crescita di
una particolare radice, quella della Arabidopsis thaliana. Nel loro
studio hanno integrato evidenze sperimentali e biologia computazionale,
identificando alcuni dei circuiti molecolari essenziali
nella crescita della radice e sviluppando un programma in grado
di predire il comportamento della pianta in vivo e in varie
condizioni ambientali. Per la realizzazione del modello è stato
fondamentale individuare i network attivi nel differenziamento
cellulare e il ruolo degli ormoni.
74 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
BREVI
RICERCA
Distrofia, individuate le cellule “scudo” dei muscoli
Con la loro attività impediscono la formazione di grasso che,
infiltrandosi tra i tessuti muscolari, indebolisce i movimenti:
sono le cellule ‘scudo’ dei muscoli e a scoprirle è stato un team
internazionale composto anche da studiosi italiani del Laboratorio
di cellule staminali del Centro Dino Ferrari del Policlinico di
Milano, diretto da Yvan Torrente. Queste cellule sono presenti in
modo massiccio nei muscoli sani mentre sono quasi totalmente
assenti in quelli distrofici e questo dettaglio potrebbe rivelarsi
essenziale nell’individuazione di un trattamento efficace per la
distrofia muscolare. Il team, in particolare, studia da anni i meccanismi
alla base della distrofia di Duchenne, la più grave tra le
distrofie: aver identificato le cellule in grado di regolare la formazione
di grasso nel muscolo scheletrico apre la strada a nuove
metodologie di contrasto alla degenerazione dei tessuti.
© Freedom Studio/www.shutterstock.com
ONCOLOGIA
Tumore al seno, ecco l’algoritmo che indica rischi e terapie
© Alejandro_Munoz/www.shutterstock.com
Un algoritmo in grado di calcolare il rischio di metastasi per
le donne con tumore al seno e di orientare gli oncologi nella
scelta della terapia più appropriata: lo hanno messo a punto i
ricercatori dello Ieo (Istituto Europeo di Oncologia) di Milano,
sotto l’egida di Pier Paolo di Fiore e Salvatore Pece e con il contributo
della Fondazione Airc. Il sistema si basa su una combinazione
di dati genetici come StemPrinter, un set di geni costituenti
la firma molecolare del tumore, e clinici come lo stato dei
linfonodi e la dimensione del cancro. Il modello, testato su più
di 1800 pazienti dell’Istituto, si è rivelato in grado di stimare il
rischio di recidive fino a dieci anni, un lasso più ampio rispetto
ai parametri utilizzati comunemente nella pratica clinica, ed è anche
il primo vero strumento capace di indicare il numero esatto e
il grado di aggressività delle cellule staminali del tumore.
BIODIVERSITÀ
Api, una specie su dieci in Europa è a rischio estinzione
Sono essenziali nel 75% delle colture agrarie, quelle che necessitano
di impollinazione, eppure sono a rischio estinzione
e non si fa ancora abbastanza per provare a scongiurare questa
eventualità. Lo dimostrano i dati, impietosi e preoccupanti: una
specie su dieci di api e farfalle europee è a rischio scomparsa,
mentre una specie su tre vede la sua popolazione in costante declino.
Inoltre, secondo uno studio dell’Università di Berna, la
morte di api europee è aumentata fino al 40% negli ultimi anni,
soprattutto d’inverno. Lo scorso 20 maggio si è celebrata la Giornata
mondiale delle api, istituita nel 2017 dall’Onu per sensibilizzare
sull’importanza di questi insetti, e per l’occasione l’Ispra ha
pubblicato il Quaderno ‘Il declino delle api e degli altri impollinatori’
contenente le risposte alle domande più frequenti, dati,
informazioni e concetti sulle politiche da attuare per salvarle.
© Jack Hong/www.shutterstock.com
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
75
LAVORO
Concorsi pubblici
per Biologi
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Analisi
dei Sistemi ed Informatica “Antonio Ruberti” di Roma
Scadenza, 8 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli
e colloquio, per il conferimento di un assegno
professionalizzante per lo svolgimento di attività
di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Biomatematica”
da svolgersi presso l’Istituto di Analisi
dei Sistemi ed Informatica “Antonio Ruberti”
– UOS GEMELLI del CNR che effettua ricerca
nell’ambito del progetto “MOSES – Modelling
Shock in the Experimental Setting” per la seguente
tematica: “Analisi bioinformatica degli
effetti biologici dell’esposizione a campi elettromagnetici”.
Per informazioni, www.cnr.it
(concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Bioscienze
e Biorisorse di Napoli
Scadenza, 11 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli
e colloquio, per il conferimento di n. 01
Assegno di Ricerca “Post Dottorale” per lo
svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area
Scientifica “Scienze Biologiche” da svolgersi
presso l’Istituto di Bioscienze e Biorisorse UOS
di Napoli del CNR che effettua ricerca di base
di biologia nell’ambito del Progetto di Ricerca
dal titolo: “Studio degli effetti inibitori determinati
da self-DNA e dei meccanismi molecolari
ad essi connessi, utilizzando come organismo
modello Caenorhabditis elegan” come da
Contratto di Ricerca commissionato NO SELF
DBA.AD006.035 CUP B68H20000100005 per
la seguente tematica: “Investigate the inhibitory
effects of extracellular self-DNA and the underlying
molecular mechanisms using, as model
organisms, Fungi, Caenorhabditis elegans and
Drosophila melanogaster”. Per informazioni,
www.cnr.it (concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto per la
Protezione Sostenibile delle Piante di Portici (Napoli)
Scadenza, 11 giugno 2020
È indetta una pubblica selezione per titoli,
eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento
di una borsa di studio per laureati, per
ricerche inerenti l’Area scientifica “difesa produzione
primaria” da usufruirsi presso l’Istituto
per la Protezione Sostenibile delle Piante del
CNR, Sede Secondaria di Portici, nell’ambito
del progetto “Migliorcast” Miglioramento della
competitività delle aziende castanicole mediante
applicazione di tecniche innovative di gestione
del prodotto in pre e post-raccolta CUP
B78H19005230008. Tematica: “Messa a punto
di metodiche innovative per la riduzione dell’attività
dei miceti, principali cause di danno nei
castagneti campani con particolare attenzione a
Gnomoniopsis castaneae. Individuare i migliori
mezzi tecnici (fitofarmaci, microorganismi benefici,
estratti vegetali) efficaci nel controllo e contenimento
delle principali patologie del castagneto
con particolare attenzione al fungo causa
del marciume bruno Gnomoniopsis castaneae, in
modo da ottenere a raccolta un prodotto quanto
più sano possibile”. Per informazioni, www.cnr.
it (concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Bioscienze
e Biorisorse di Palermo
Scadenza, 15 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli
e colloquio, per il conferimento di un assegno
di ricerca professionalizzante per lo svolgimento
di attività di ricerca inerente l’Area Scientifica
“Area 07 - Scienze agrarie e veterinarie - AGR/12
- Patologia vegetale “ da svolgersi presso l’Istituto
di Bioscienze e BioRisorse di Palermo del
CNR, che effettua ricerche su “Miglioramento
delle specie e delle produzioni agroalimentari,
forestali e industriali mediante strumenti genetici
e biotecnologici” nell’ambito del progetto di
ricerca POR FESR SICILIA 2014-2020 “Sicily-
Seeds - Metodologie e tecnologie innovative per
il recupero, la moltiplicazione, la valorizzazione e
l’utilizzo di piante spontanee commestibili della
flora siciliana ” per la seguente tematica: “Analisi
genetiche e sanitarie mediante metodi molecolari
avanzati di specie vegetali spontanee commestibili
della flora siciliana e dei patogeni ad esse associati”.
Per informazioni, www.cnr.it (concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto per la Protezione
Sostenibile delle Piante di Avellino
Scadenza, 18 giugno 2020
È indetta una pubblica selezione per titoli,
eventualmente integrata da colloquio, per il
conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati,
per ricerche inerenti l’Area scientifica “chimica/
nutrizionale” da usufruirsi presso l’Istituto di
Scienze dell’Alimentazione del CNR (ISA-C-
NR), di Avellino, nell’ambito del progetto “Migliorcast”
Miglioramento della competitività
delle aziende castanicole mediante applicazione
di tecniche innovative di gestione del prodotto
in pre e post-raccolta CUP B78H19005230008.
Tematica: “Analisi chimiche, microbiologiche
e nutrizionali su campioni di castagne fresche e
processate mediante tecniche innovative”. Per
informazioni, www.cnr.it (concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di
Biologia e Biotecnologia Agraria di Milano
Scadenza, 19 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli
e colloquio, per il conferimento di un assegno di
tipologia professionalizzante per lo svolgimento
di attività di ricerca inerente all’Area Scientifica
07 Scienze agrarie e veterinarie - AGR/07 Genetica
agraria, da svolgersi presso la sede di Milano
dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria
del CNR che effettua ricerche nell’ambito del
Programma di ricerca sPATIALS3 “Miglioramento
delle produzioni agroalimentari e tecnologie
innovative per un’alimentazione più sana,
76 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
LAVORO
sicura e sostenibile”, Bando Call Hub Ricerca e
Innovazione, progetto cofinanziato a valere sulle
risorse POR FESR 2014‐2020 / Innovazione
e competitività, CUP E48I20000020007, per la
seguente tematica: “Identificazione di varietà di
legumi con migliori caratteristiche nutrizionali e
arricchite in composti a valenza nutraceutica”.
Per informazioni, www.cnr.it (concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Biologia
e Biotecnologia Agraria di Milano
Scadenza, 19 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli
e colloquio, per il conferimento di un assegno di
tipologia professionalizzante per lo svolgimento
di attività di ricerca inerente alle Aree Scientifiche
07 Scienze agrarie e veterinarie - AGR/15
Scienze e tecnologie alimentari e 05 Scienze
biologiche – BIO/11 Biologia molecolare, da
svolgersi presso la sede di Milano dell’Istituto
di Biologia e Biotecnologia Agraria del CNR che
effettua ricerche nell’ambito del Programma di
ricerca sPATIALS3 “Miglioramento delle produzioni
agroalimentari e tecnologie innovative
per un’alimentazione più sana, sicura e sostenibile”,
Bando Call Hub Ricerca e Innovazione,
progetto cofinanziato a valere sulle risorse POR
FESR 2014‐2020 / Innovazione e competitività,
CUP E48I20000020007, per la seguente tematica:
“Impiego di tecniche molecolari nell’analisi
genetica e nel fingerprintig genomico per la
rintracciabilità, autenticazione e tracciabilità di
matrici alimentari di origine vegetale e animale”.
Per informazioni, www.cnr.it (concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Scienze
dell’Alimentazione di Avellino
Scadenza, 22 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli
e colloquio, per il conferimento di un “Assegno
Professionalizzante” per lo svolgimento di attività
di ricerca inerente l’Area Scientifica “Biologia”
da svolgersi presso l’Istituto di Scienze
dell’Alimentazione del CNR nell’ambito del
“PROGETTO DI FUNZIONAMENTO ISA” -
DBA.AD005.041 (CUP B36C19000060005), per
la seguente tematica: “Identificazione e caratterizzazione
di biomolecole per la realizzazione di
biosensori ottici”. Per informazioni, www.cnr.it
(concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Chimica
Biomolecolare di Napoli
Scadenza, 23 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli
e colloquio, per il conferimento di un assegno
tipologia B) “Assegni Post Dottorali” per lo
svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area
Scientifica “Chimica e materiali per la salute e
scienze della vita” da svolgersi presso l’Istituto
di Chimica Biomolecolare Sede di Pozzuoli (NA)
del CNR che effettua ricerca scientifica nell’ambito
del Progetto di Ricerca finanziato dalla GW
Pharmaceuticals Lmt. (Project code: CoCRiN6/
GWDP19180) dal titolo “Effetti dei fitocannabinoidi
(THC e / o CBD) e dei composti cannabimimetici
intestinali putativi derivati dal microbiota,
sulla plasticità sinaptica nei topi SYNII-KO, un
modello di disturbo dello spettro autistico: collegamento
tra cannabinoidi, dieta e microbiota
intestinale e disfunzione mitocondriale in ASD”
per la seguente tematica “ Effetti di metaboliti
del microbiota intestinale sulla regolazione della
plasticità sinaptica e del metabolismo energetico
in modelli murini di obesità e autismo”. Per informazioni,
www.cnr.it (concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Biologia
e Biotecnologia Agraria di Milano
Scadenza, 25 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli e
colloquio, per il conferimento di un assegno di tipologia
professionalizzante per lo svolgimento di
attività di ricerca inerente all’Area Scientifica 05
Scienze biologiche - BIO/04 Fisiologia vegetale
e BIO/10 Biochimica, da svolgersi presso la sede
di Milano dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia
Agraria del CNR che effettua ricerche nell’ambito
del Programma di ricerca sPATIALS3 “Miglioramento
delle produzioni agroalimentari e
tecnologie innovative per un’alimentazione più
sana, sicura e sostenibile”, Bando Call Hub Ricerca
e Innovazione, progetto cofinanziato a valere
sulle risorse POR FESR 2014‐2020 / Innovazione
e competitività, CUP E48I20000020007,
per la seguente tematica: “Potenziale allergenico
e anti-nutrizionale delle proteine dei semi di cereali
e legumi: analisi molecolare della variabilità
in cultivar diverse e implicazioni per strategie
biotecnologiche”. Per informazioni, www.cnr.it
(concorsi).
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Biologia
e Biotecnologia Agraria di Milano
Scadenza, 29 giugno 2020
È indetta una selezione pubblica, per titoli
e colloquio, per il conferimento di un assegno di
tipologia professionalizzante per lo svolgimento
di attività di ricerca inerente all’Area Scientifica
07 Scienze agrarie e veterinarie - AGR/15
Scienze e tecnologie alimentari, da svolgersi
presso la sede di Milano dell’Istituto di Biologia
e Biotecnologia Agraria del CNR che effettua
ricerche nell’ambito del Programma di ricerca
sPATIALS3 “Miglioramento delle produzioni
agroalimentari e tecnologie innovative per
un’alimentazione più sana, sicura e sostenibile”,
Bando Call Hub Ricerca e Innovazione, progetto
cofinanziato a valere sulle risorse POR FESR
2014‐2020 / Innovazione e competitività, CUP
E48I20000020007, per la seguente tematica:
“Caratterizzazione di semi, tessuti e germogli di
diverse specie/varietà di lino per il contenuto in
composti bioattivi”. Per informazioni, www.cnr.
it (concorsi).
Università di Bologna “Alma Mater Studiorum”
Scadenza, 4 giugno 2020
Procedura di selezione per la chiamata di un
professore di seconda fascia, settore concorsuale
05/C1 - Ecologia, per il Dipartimento di scienze
biologiche, geologiche e ambientali. Gazzetta Ufficiale
n. 35 del 05-05-2020.
Università del Piemonte Orientale di Vercelli
Scadenza, 4 giugno 2020
Procedura di selezione per la chiamata di un
professore di seconda fascia, settore concorsuale
05/I2 - Microbiologia, per il Dipartimento di
scienze e innovazione tecnologica. Gazzetta Ufficiale
n. 35 del 05-05-2020.
Università Politecnica delle Marche di Ancona
Scadenza, 4 giugno 2020
Procedura di selezione per la chiamata di un
professore di seconda fascia, settore concorsuale
05/E1 - Biochimica generale, per il Dipartimento
di scienze della vita e dell’ambiente. Gazzetta Ufficiale
n. 35 del 05-05-2020.
Università “La Sapienza” di Roma
Scadenza, 11 giugno 2020
Concorso pubblico, per titoli ed esami, per
la copertura di un posto di ricercatore a tempo
determinato e definito, settore concorsuale 07/
D1, per il Dipartimento di Biologia ambientale.
Gazzetta Ufficiale n.37 del 12-05-2020.
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
Scadenza, 11 giugno 2020
Concorso pubblico, per titoli ed esami, per
la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina
laboratorio di genetica medica, a tempo
indeterminato, cui affidare il ruolo di direttore
tecnico Qualified Person, per l’officina farmaceutica
Cell Factory. Gazzetta Ufficiale n. 37 del
12-05-2020.
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
Scadenza, 11 giugno 2020
Concorso pubblico, per titoli ed esami, per
la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina
laboratorio di genetica medica, a tempo
indeterminato, per il Centro di procreazione medicalmente
assistita. Gazzetta Ufficiale n. 37 del
12-05-2020.
Azienda Zero di Padova
Scadenza, 18 giugno 2020
Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la
copertura di 10 posti di dirigente biologo, disciplina
di biochimica clinica, a tempo indeterminato.
Gazzetta Ufficiale n. 39 del 19-05-2020.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
77
SCIENZE
Prevedere l’insorgenza
e l’impatto della demenza
Uno studio britannico prova a validare
per i Paesi a basso e medio reddito
i modelli ideati per le aree più sviluppate
di Sara Lorusso
La demenza, dice l’OMS, è un termine ombrello, un sostantivo
generico utilizzato per diverse malattie che sono
per lo più progressive, colpiscono la memoria, modificano
i comportamenti cognitivi e interferiscono significativamente
con la capacità di una persona di mantenere una vita
quotidiana attiva. Il morbo di Alzheimer è la forma più comune
di demenza e può contribuire al 60-70% dei casi, ma vi sono altre
forme, quali la demenza vascolare o la demenza a corpi di Lewy, i
cui confini sono sempre molto indistinti. Nella maggior parte dei
casi, inoltre, si tratta di forme diverse che spesso convivono.
Tutte le principali ricerche per la creazione di modelli previsionali
sullo sviluppo della demenza sono state finora condotte soprattutto
in Paesi ad alto reddito (high income countries, in sigla
HICs). Eppure è nei Paesi a basso e medio reddito (low and middle
income countries, in sigla LMICs) che si concentra la maggior
parte dei casi di demenza.
Uno studio [1] sviluppato con il coordinamento di Blossom
C.M. Stephan, epidemiologa con formazione in psicologia e statistica,
ora all’Institute of Mental Health di Nottingham, e di
Eduwin Pakpahan, esperto di modelli matematici e statistici per le
scienze economiche e sociali, ricercatore presso il Population Health
Sciences Institute della Newcastle University, ha indagato quei
modelli previsionali pensati per le regioni più ricche del pianeta
e ne ha valutato l’affidabilità in caso di applicazione su contesti
decisamente più poveri. La ricerca sulla previsione del rischio di
demenza nei Paesi a basso e medio reddito, pubblicata ad aprile su
The Lancet Global Health, si è dunque basata sui modelli utilizzati
finora per gli HICs e li ha trasportati su regioni LMIC.
Per portare a termine la verifica, gli scienziati hanno utilizzato
i dati provenienti dallo studio “10/66” [2]. Il 1066 Dementia
Research Group è una comunità di ricercatori che svolgono ricerche
basate sulla popolazione con l’obiettivo di indagare problematiche
quali l’impatto della demenza, l’incidenza di malattie non
trasmissibili e l’invecchiamento nei Paesi a basso e medio reddito.
© AimPix/www.shutterstock.com
78 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
Ed è il nome stesso del gruppo a racchiudere l’orizzonte di ricerca:
“10/66” si riferisce al fatto che due terzi della popolazione (il
66%, appunto) affetta da demenza vive in LIMCs, eppure solo il
10% - forse anche meno - della ricerca basata sulla popolazione
è finora stata condotta in queste regioni del pianeta. Il gruppo fa
parte dell’organizzazione senza scopo di lucro Alzheimer’s Disease
International, ed è coordinato dall’Institute of Psychiatry, Psychology
and Neurosciences del King’s College di Londra. Sul sito dedicato
al progetto è accessibile un vasto dataset anonimo di informazioni
raccolte e sono stati condivisi i protocolli e i questionari
utilizzati nella ricerca.
Sfruttando quei dataset, Stephan e colleghi hanno potuto contemplare
nel proprio studio una platea di 11.143 persone, dai 65
anni in su (fino a 106 anni), nessuna delle quali al basale mostrava
già evidenti segni di demenza. Il campione era composto per il
62,6% da donne e per il 37,4% da uomini.
L’enorme mole di dati analizzata comprende abitanti di Cina,
Cuba, Repubblica Domenicana, Messico, Perù, Portorico e Venezuela
e un arco di tempo di valutazione dell’incidenza della demenza
compreso tra i 3 e i 5 anni. I dataset del progetto 10/66 hanno
dato accesso a campioni che variano da 1.900 a 3.000
persone in tutti i Paesi, con un 80% della popolazione
che ha risposto ai questionari distribuiti. Per il gruppo
di Stephan è stato così possibile accedere a informazioni
sulla famiglia e sulla condizione socio-sanitaria, in abbinamento
a dati relativi alla salute fisica e neurologica. Nel
dataset 10/66 sono comprese anche le risposte di chi ha
accompagnato il paziente nella rilevazione - in genere si
tratta di caregiver, coinquilini o familiari. Solo per la Cina,
non essendo stato possibile raccogliere campione di sangue,
non era disponibile il valore del colesterolo.
Dello studio 10/66 è stato utilizzato anche l’algoritmo
diagnostico: si tratta di un modello che include i punteggi
ottenuti in una serie di test cognitivi riconosciuti, quali
il CSI-D (Community Screening Interview for Dementia)
COGSCORE e il CERAD (Consortium to Establish a Registry
for Alzheimer’s Disease).
Una delle fasi principali dello studio britannico è stata
quella relativa alla selezione dei modelli già utilizzati
in zone HICs: non tutti avrebbero garantito un’adeguata
coerenza della ricerca. E il motivo lo hanno spiegato in
un commento [3] pubblicato nello stesso numero della
rivista, Francisca Rodriguez, del German Center for
Neurodegenerative Diseases (DZNE), e Susanne Roehr,
dell’Institute for Social Medicine, Occupational Health
and Public Health di Leipzig.
Una delle maggiori sfide nella previsione del rischio
di demenza nei LMICs, spiegano le due scienziate, è che
molti metodi di valutazione utilizzati negli HICs non sono
disponibili nelle aree più povere. Basti pensare alle informazioni
ottenute tramite tecniche di imaging [4], che per
quelle zone sono troppo costose o inutilizzabili per l’assenza
di personale qualificato. In scenari simili è necessario
fare affidamento su strumenti di screening che sono
facili da usare e da interpretare.
Secondo dati dell’OMS [5] nel 2015 la demenza ha
colpito 47 milioni di persone in tutto il mondo (circa il
5% della popolazione anziana mondiale), una cifra che
dovrebbe aumentare a 75 milioni nel 2030 e toccare i 132
SCIENZE
milioni entro il 2050. Stime recenti dicono che a livello globale
ogni anno quasi 9,9 milioni di persone sviluppano demenza, praticamente
un nuovo caso ogni tre secondi. Di queste, quasi il 60%
vive attualmente in Paesi a basso e medio reddito, così come la
maggior parte dei nuovi casi (71%) dovrebbe verificarsi nelle stesse
zone svantaggiate.
Un punto di forza dello studio di Stephan e colleghi, sottolinea
il commento, è la ricerca dei soli modelli di previsione del rischio
che abbiano un’applicabilità su larga scala nei LMICs. Inoltre, il
campionamento della popolazione utilizzato nello studio - quello
del progetto 10/66 - comprende anche aree rurali e gruppi di popolazione
delle comunità più povere.
Ad oggi sono stati sviluppati almeno venti modelli per la previsione
del rischio di demenza nei Paesi ad alto reddito, con caratteristiche
differenti per precisione predittiva, differenze metodologiche,
durata dei follow-up, fattori selezionati per definire la
popolazione. Per individuare i modelli che sarebbe stato possibile
traslare senza perdere coerenza, Stephan e colleghi hanno innanzitutto
circoscritto la selezione sulla scorta delle revisioni sistematiche
più recenti a cui gli studi precedenti erano stati sottoposti [6,
Dementia
a public health priority
What are the symptoms?
Difficulties
with everyday
tasks
Who is affected?
50 million people
worldwide
Set to triple
by 2050
Nearly 10 million new
cases every year
One every
3 seconds
2015
50
million
Confusion in
familiar
environments
2030
82
million
2050
152
million
Majority of people who will
develop dementia will be in
low- and middle-income
countries
Difficulty with
words and
numbers
What is the
cause?
Conditions that affect the
brain, such as Alzheimer's
disease, stroke or head injury
What does it cost?
2015
2030
Memory
loss
US$818 billion:
estimated costs to
society in 2015
Changes in
mood and
behaviour
US$2 trillion
Families and friends
provide most of the care
Carers experience physical,
emotional and financial stress
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
79
SCIENZE
La mappa estratta dallo studio di Stephan et al. mette in evidenza i tre modelli che hanno espresso maggiore precisione
nell’applicazione in paesi a basso o medio reddito.
7, 8]. I criteri per la scrematura sono stati quattro: l’esistenza di
informazioni sufficienti per consentire il calcolo dei punteggi di rischio
individuali, la corrispondenza tra le variabili predittive usate
e quelle disponibili nel set di dati dello studio 10/66, l’inclusione
nel modello di rischio di variabili semplici da ottenere (escludendo
quindi i dati di neuroimaging), l’accuratezza predittiva del modello
definita da un indice di concordanza ≥ 0,70.
Ne è derivata una selezione di cinque modelli esistenti
da validare.
Il modello CAIDE (Cardiovascular Risk Factors, Aging, and
Dementia Risk Score), basato su fattori di rischio cardiovascolare,
invecchiamento e demenza era stato testato in Finlandia con lo studio
di Miia Kivipelto e altri. [9]
Il modello AgeCoDe (Study on Aging, Cognition and Dementia)
[10] è stato sviluppato da uno studio tedesco sull’invecchiamento
in relazione a capacità cognitiva e demenza, che ha indagato
principalmente il morbo di Alzheimer.
Il modello ANU-ADRI (Australian National University Alzheimer’s
Disease Risk Index) [11] propone una serie molto ampia
di fattori biologici e ambientali, che vanno dalla massa corporea
al colesterolo, dalla attività fisica svolta all’educazione, ed è stato
testato sia negli Stati Uniti sia in Svezia.
Il modello BDSI (Brief Dementia Screening Indicator) [12]
era stato applicato su ultrasessantacinquenni in diverse indagini
condotte sulla popolazione statunitense.
Il modello BDRM (Rotterdam Study Basic Dementia Risk
Model) [13] era stato testato in Olanda su una popolazione di età
compresa tra i sessanta e i novantasei anni.
Tutti e cinque i modelli sono stati applicati con l’uso della regressione
di Cox. Per l’accuratezza è stato utilizzato l’indice C di
Harrell, un indice di concordanza per i modelli che producono
punteggi di rischio, che è stato fissato a un valore di 0,70. Questo
limite è stato considerato indicativo di una capacità discriminatoria
accettabile. La calibrazione, infine, è stata valutata statisticamente
usando il test di Grønnesby e Borgan.
Il team ha così verificato
ciascun modello in ciascuno dei
Paesi individuati (Cina, Cuba,
Repubblica Domenicana, Messico,
Perù, Portorico e Venezuela)
utilizzando gli algoritmi
di previsione originali.
Al termine dello studio,
1.069 persone risultavano progredite
nella demenza, con un
tasso di incidenza di 24,9 casi
per 1.000 persone all’anno. Il
tasso più elevato si è avuto in
Cina (207 casi; 25,3 ogni 1.000
persone all’anno). A seguire
Repubblica Dominicana (165
casi, pari a 26,3 per 1.000 persone
ogni anno), Venezuela
(155 casi, pari a 29 su 1.000 persone
all’anno), Portorico (153
casi; 27,4 ogni 1.000 persone
all’anno) e Messico (130 casi,
cioè 30,5 ogni 1.000 persone per
anno). In coda, Cuba (182 casi,
pari a 19,5 per 1.000 persone / anno) e Perù (77 casi, pari a 19,3
per 1.000 persone / anno).
Ogni modello, applicato in un contesto socio-economico per
cui non era stato ideato, ha fornito risposte differenti. E non tutti
i modelli presi in considerazione hanno dimostrato di poter essere
trasportati su regioni meno sviluppate. Nello specifico, la ricerca
ha trovato compatibilità per i modelli ANU-ADRI, BDSI e BDRM
mentre hanno funzionato meno i modelli CAIDE e AgeCoDe.
In tutti i Paesi esaminati la capacità discriminatoria dei modelli
CAIDE (0,52 ≤ c ≤ 0,63) e AgeCoDe (0,57 ≤ c ≤ 0,74) è risultata
scarsa. I modelli ANU-ADRI (0,66 ≤ c ≤ 0,78), BDSI (0,62 ≤ c ≤
0,78) e BDRM (0,66 ≤ c ≤ 0,78), spiegano i dati dello studio, hanno
invece mostrato livelli simili di capacità discriminatoria rispetto a
quelle delle coorti originali di sviluppo.
In generale i modelli hanno costantemente funzionato meglio
in Perù e peggio nella Repubblica Dominicana e in Cina.
I tre modelli con la massima precisione predittiva per la demenza
se utilizzati nelle aree LMIC si sono dunque rivelati il BDSI,
il BDRM e l’ANU-ADRI.
In conclusione lo studio ha confermato che non tutti i modelli
di previsione della demenza sviluppati negli HICs possono essere
semplicemente replicati agli LMICs.
Tuttavia, hanno fatto notare gli autori, in attesa di nuovi indici
di rischio e nuove combinazioni di variabili per adattare i modelli
alle aree del pianeta meno sviluppate, lavorare sull’esistente è
necessario ai fini delle politiche di previsione dell’insorgenza della
demenza e di assistenza agli individui che ne vengono colpiti.
Si potrebbe cominciare, suggeriscono, proprio dai modelli che si
sono dimostrati replicabili.
L’urgenza con cui gli autori chiedono di intervenire è il riflesso
di una condizione globale ancora oggi sottovalutata, ma che determina
importanti ricadute sociali ed economiche ovunque nel
mondo. Al punto che l’OMS ha chiesto a tutti gli Stati di intervenire
redigendo il “Piano d’azione globale sulla risposta della sanità
pubblica alla demenza 2017-2025” affinché entro il 2025 almeno
80 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SCIENZE
la metà dei casi di demenza sia diagnosticato, e di conseguenza
affrontato, in almeno la metà dei Paesi.
Una delle chiavi principali per rendere praticabili simili
indirizzi è proprio il lavoro sull’informazione e la riconoscibilità
dei casi.
Nell’ottobre del 2018, in seguito al lancio del programma “Sustainable
Development Goals” (SDGs) delle Nazioni Unite [14] la
rivista The Lancet costituì una commissione dedicata a formulare
una serie di proposte per declinare l’agenda dedicata al tema della
salute mentale globale, cominciando proprio dall’abbattimento
del divario nell’accesso alle terapie di intere popolazioni. Una sfida
che tra gli obiettivi ha quello di ridurre l’enorme carico indiretto
dei disturbi mentali. La commissione delineò un piano di azione
basato su quattro pilastri [15].
In primo luogo, scrivono gli esperti, «la salute mentale è un
bene pubblico globale ed è rilevante per lo sviluppo sostenibile in
tutti i Paesi, indipendentemente dal loro status socioeconomico,
poiché tutti i Paesi possono essere considerati Paesi in via di sviluppo
nel contesto della salute mentale».
In secondo luogo suggerivano di perseguire pratiche cliniche
capaci di tenere conto della diversità e della complessità dei bisogni
collegati al benessere mentale degli individui o delle popolazioni.
Il terzo punto coincideva con la consapevolezza che ogni
individuo è il prodotto unico delle influenze sociali e ambientali a
cui è esposto fin dalla prima infanzia, che si innestano su processi
genetici e del neurosviluppo. Infine, la commissione sottolineava
come la salute mentale fosse un diritto umano fondamentale e, per
questo, richiede un approccio basato sui diritti per tutti.
A questi quattro principi si abbinava la proposta di alcune
azioni mirate al trattamento del disturbo mentale con la stessa
accuratezza e attenzione usata per le malattie fisiche, anche per
ridurne l’impatto sociale ed economico, abbattere lo stigma sociale
collegato, sostenere il ricorso alle tecnologie digitali per la cura e il
monitoraggio. Questo a partire dalla premessa che la fattibilità di
ciascuna sia collegata alla disponibilità di risorse umane e finanziarie
di ciascun Paese e, spesso, delle varie aree di ogni Paese.
Anche il gruppo guidato dalla professoressa Stephan, nella
propria ricerca, ha dovuto porre alcune questioni sulla scarsa omogeneità
di risposte tra le diverse regioni osservate. Sebbene tutti i
siti fossero situati in LMICs, spiegano i ricercatori, i Paesi differiscono
culturalmente e presentano differenze molto profonde rispetto
ai profili di rischio della malattia, agli indicatori del tasso di
mortalità e dell’aspettativa di vita, ai sistemi politici ed economici
(compresa, quindi, la spesa sanitaria in bilancio). Anche tra il Perù
e la Repubblica Dominicana, entrambi Stati dell’America Latina,
emergono distanze notevoli.
L’idea della salute mentale globale è basata ormai su un’ampia
e consolidata letteratura. La ricerca scientifica ha negli anni
dimostrato la forte associazione tra lo svantaggio sociale e la cattiva
salute mentale [16]. Il World Mental Health Surveys, un progetto
collaborativo dell’OMS, dell’Università di Harvard e dell’Università
del Michigan, ha riferito che una persona su cinque con disturbo
depressivo non riceve un trattamento adeguato nei Paesi ad alto
reddito: il dato, nei LMICs scende a uno su ventisette [16].
Di qui, l’auspicio degli autori dello studio che la ricerca svolta
possa almeno stimolare nell’utilizzo di modelli esistenti, seppur
adeguati, per monitorare e prevedere l’insorgenza della demenza
nei luoghi più disagiati del pianeta. In attesa che si possano sviluppare
modelli specifici anche per quei territori del mondo.
Bibliografia
[1] Stephan BCM, Pakpahan E, Siervo M et al, Prediction of dementia
risk in low- and middle-income countries (the 10/66 Study):
an independent external validation of existing models, Lancet Glob
Health. 2020; 8 : e524-e535
[2] The 10/66 Dementia Research Group (https://www.alz.
co.uk/1066/ )
[3] Rodriguez FS, Roehr S, Challenges in dementia risk prediction
in low-income and middle-income countries, Lancet Glob Health.
2020
[4] Kawooya MG, Training for rural radiology and imaging in
sub-Saharan Africa: addressing the mismatch between services and
population., J Clin Imaging Sci. 2012; 2: 37
[5] Global action plan on the public health response to dementia
2017–2025. World Health Organization, Geneva2017 (https://www.who.int/mental_health/neurology/dementia/action_
plan_2017_2025/en/)
[6] Stephan BCM, Kurth T, Matthews FE, Brayne C, Dufouil C,
Dementia risk prediction in the population: are screening models
accurate?, Nat Rev Neurol. 2010; 6: 318-326
[7] Tang EY, Harrison SL, Errington L et al., Current developments
in dementia risk prediction modelling: an updated systematic review.,
PLoS One. 2015; 10: e0136181
[8] Hing Tang EY, Robinson L, Maree Stephan BC, Dementia risk
assessment tools: an update., Neurodegener Dis Manag. 2017; 7:
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[9] Kivipelto M, Ngandu T, Laatikainen T, Winblad B, Soininen H,
Tuomilehto J, Risk score for the prediction of dementia risk in 20
years among middle aged people: a longitudinal, population-based
study., Lancet Neurol. 2006; 5: 735-741
[10] Jessen F, Wiese B, Bickel H et al., Prediction of dementia in
primary care patients., PLoS One. 2011; 6: e16852
[11] Anstey KJ, Cherbuin N, Herath PM, Development of a new
method for assessing global risk of Alzheimer’s disease for use in
population health approaches to prevention., Prev Sci. 2013; 14:
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Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
81
SCIENZE
Esposizione ripetuta a taglie
diverse e soddisfazione del corpo
Uno studio sviluppato ad Oxford indaga l’impatto
di una frequente visualizzazione di forme differenti
sull’ideale fisico delle donne
Il rapporto con l’immagine che si ha del proprio corpo e di
quello altrui è una delle problematiche rilevanti nella diffusione
dei disturbi alimentari (DA), ed è anche uno degli
aspetti più indagati dalla ricerca che lavora su queste malattie
complesse.
I disturbi dell’alimentazione, ricorda il Ministero della Salute
[1], sono più frequenti nella popolazione femminile
che in quella maschile: gli uomini rappresentano
il 5-10% di tutti i casi di anoressia nervosa (AN),
il 10-15% dei casi di bulimia nervosa. L’incidenza
dell’anoressia nervosa è di almeno 8-9 nuovi casi per
100mila persone in un anno tra le donne, mentre per
gli uomini è compresa fra 0,02 e 1,4 nuovi casi.
Il rischio di anoressia nervosa nelle donne è
stimato tra lo 0,3% e l’1% [2]. I disturbi alimentari
sono, inoltre, sempre più riconosciuti come
una causa importante di morbilità e mortalità nei
più giovani.
Proprio sulle donne e sull’incidenza della relazione
con l’immagine corporea si è concentrata buona
parte della letteratura sui DA. In particolare, un
recente studio svolto ad Oxford ha indagato quanto
l’esposizione a corpi di varie forme influenzi la costruzione
dell’immaginario, del giudizio e della consapevolezza
del proprio corpo. Il lavoro [3], coordinato
da Helen Bould del dipartimento di Psichiatria
dell’Università di Oxford, nel Regno Unito, è stato pubblicato
sulla rivista Royal Society Open Science.
La ricerca di Bould e colleghi ha valutato sia la qualità sia la
quantità dell’esposizione, cercando di approfondire alcuni aspetti
del meccanismo di costruzione della propria immagine poco
indagati, a partire proprio dal tempo e dalla varietà dei corpi a
© ronstik/www.shutterstock.com
82 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
cui le donne vengono esposte.
Con uno studio che ha coinvolto un
centinaio di donne, i ricercatori hanno
provato a colmare alcune lacune delle
indagini precedenti basandosi sulla esposizione
multipla e ripetuta in un preciso
arco di tempo. Questo nella consapevolezza
che la sperimentazione ha coinvolto
solo donne (studentesse, ricercatrici)
reclutate nel campus, dunque afferenti a
un medesimo ambiente, senza possibilità
concrete di generalizzare in maniera estesa
i risultati ottenuti.
Tuttavia, l’indagine è particolarmente
interessante perché propone un metodo
più complesso e articolato rispetto a
numerosi studi analoghi sul tema.
L’attualità della problematica sul versante
della salute pubblica è rilevante.
Già nel 2011 una ricerca dell’Università
del Texas [4] sul rischio di insorgenza dei
disturbi alimentari aveva verificato come
l’insoddisfazione del proprio corpo ne
fosse uno dei principali fattori predittori.
In particolare le adolescenti che avevano
mostrato un livello di insoddisfazione del
proprio corpo superiore al 24% erano
sottoposte all’emergere di disturbi alimentari
quattro volte di più (con un 24%
di incidenza rispetto al 6%). La stessa
ricerca aveva segnalato una maggiore incidenza
(di quasi 3,6 volte) dei disturbi alimentari nelle giovani
donne che si cimentavano in diete autoimposte.
Anche il tema dell’obesità è ormai al centro di pratiche e politiche
che cercano di affrontare quello che è riconosciuto come
un problema globale, dalle importanti ricadute di carattere sociale
ed economico. Di qui la necessità di lavorare su uno dei fattori
che incidono sul rischio, la percezione del corpo appunto.
Lo studio di Bould e colleghi parte da una premessa consolidata
secondo cui l’insoddisfazione del corpo è basata su due
componenti: la percezione della propria dimensione e una componente
cognitiva dell’insoddisfazione verso la forma del corpo.
Di qui, l’ipotesi di lavoro: modificando una delle due componenti
dovrebbe, dunque, essere possibile agire sull’effetto. Se si potesse
cambiare la percezione della propria taglia, allora dovrebbe essere
possibile modificare la soddisfazione percepita col cambiare
della stessa.
Per indagare questa possibilità il gruppo ha lavorato sull’esposizione
continua delle partecipanti (5 minuti per due volte al
giorno) a immagini di donne di dimensioni diverse. La ricerca è
stata sviluppata usando il Morphed Photographic Figure Scale
[5], un progetto realizzato da molti degli autori dello studio di
Oxford, con cui sono state costruite otto sequenze di immagini
del corpo femminile, modificate usando tecniche di morphing
per simularne in modo realistico i cambiamenti in base alla variazione
possibile del peso corporeo.
La letteratura da tempo suggerisce che sia possibile cambiare
la percezione della dimensione corporea altrui esponendo l’individuo
da interrogare a corpi “target” di varie taglie: una maggiore
Esempi di stimoli visivi utilizzati nella ricerca: (a) “sottopeso”; (b) “né sovrappeso né sottopeso”; (c) “sovrappeso”.
SCIENZE
esposizione a corpi più sottili porterà l’individuo a stabilire come
“normali” dimensioni più piccole. Viceversa, un’esposizione prolungata
a corpi di taglia grande rende maggiore la dimensione
della taglia “normale”.
L’abitudine a proporre nella ribalta mediatica corpi minuti
e sottili, soprattutto quando il modello di riferimento è quello
della donna, è considerata tra i principali fattori sponsor della
diffusa percezione distorta del corpo. Proprio i meccanismi di
esposizione sono stati spesso indagati per valutare le reazioni che
gli individui mettono in atto [6]. Uno studio dedicato al “volto
mutevole dell’obesità” è stato sviluppato nel 2014 da Eric Robinson
e Paul Christiansen del dipartimento di Scienze psicologiche
dell’Università di Liverpool: la ricerca espose i partecipanti a immagini
di maschi obesi o normopeso per valutare come questo
cambiava successivamente i giudizi sugli uomini in sovrappeso.
In tre tipologie differenti di sperimentazione per valutare il giudizio
generale sull’obesità e i criteri di determinazione del sovrappeso
“accettabile”, la maggiore esposizione all’obesità risultava
collegata a una maggiore accettazione dell’obesità [7]. Negli anni
diversi studi hanno approfondito il tema [8, 9]: la percezione visiva
è fortemente influenzata dall’esperienza e dagli stimoli che
ci circondano. L’esposizione prolungata sollecita un meccanismo
per cui viene distorta la percezione nella direzione opposta dello
stimolo [10].
Uno studio del dipartimento di Psicologia della Macquarie
University di Sydney ha indagato [11] il meccanismo sapendo
che nonostante la ricerca sull’argomento si sia concentrata sempre
su processi socio-cognitivi - ne è un esempio tipico l’interio-
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
83
SCIENZE
rizzazione dell’immaginario “ideale” diffuso dai media - le basi
percettive del fenomeno rimangono in gran parte sconosciute.
Quasi tutti gli studi hanno approfondito la dimensione corporea
in sé, ma in realtà questo dato dipende tanto dal grasso in eccesso
quanto dalla massa muscolare, che sulla salute hanno un impatto
molto diverso.
Tutta questa letteratura già prodotta mostra un limite importante
nella dimensione sempre ridotta del campione usato di volta
in volta come riferimento. Inoltre è molto facile che in queste
tipologie di indagini il soggetto partecipante intuisca l’obiettivo
della domanda e cerchi di rispondere sforzandosi di essere un
“buon soggetto”, ipotizzando in autonomia la risposta migliore e
falsando così il responso.
Lo studio di Bould e colleghi ha provato ad aggirare queste
limitazioni. Sono stati costituiti tre gruppi casuali di donne
che hanno completato un test one-back ogni giorno, due volte
al giorno, per una settimana. Il test, basato su stimoli visivi e comunemente
utilizzato nelle neuroscienze cognitive per misurare
la memoria di lavoro, è stato somministrato mostrando al posto
del comune oggetto visivo neutro (per esempio un quadrato che
compare in varie posizioni di una tabella) alcune immagini di
donne modificate per apparire “sottopeso”, “sovrappeso” o “né
sovrappeso né sottopeso”.
Stando alla letteratura esistente, un allenamento ripetuto
usando “sovrappeso” o “sottopeso” invece di immagini “normali”
avrebbe portato i partecipanti a vedere le immagini dei corpi
di altri come più piccole, e viceversa. Il risultato generale è stato
che per 93 donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni le immagini
di altre donne sono state percepite come più grandi in seguito
all’esposizione a corpi sottopeso (e viceversa).
Il reclutamento delle partecipanti allo studio è avvenuto tramite
call pubblica, passaparola o manifesti nel campus dell’Università
di Oxford. A chi aveva risposto è stato poi chiesto di
compilare un questionario per valutare l’esistenza dei criteri di
inclusione. In particolare era
necessario che le volontarie
avessero un’età compresa tra
18 e 30 anni e un indice di
massa corporea compreso tra
18 e 25 anni kg/m2, calcolato
in base ai dati riportati dalle
partecipanti. Sono state escluse
tutte le donne che soffrivano
(o avevano sofferto) di un
disturbo alimentare o fossero
sottoposte a trattamenti per
disturbi mentali o assumessero
farmaci capaci di agire sul
sistema cognitivo o droghe.
Tra i criteri di esclusione,
inoltre, anche il consumo di
più di 10 sigarette al giorno,
la gravidanza in corso, l’essere
dislessica o celiaca.
C’è stata una prima fase
di addestramento in cui ciascuno
dei tre gruppi ha vi-
© aijiro/www.shutterstock.com
sionato delle immagini per
stabilire la prospettiva visiva
di riferimento.
Nel corso dei test successivi, la prima misurazione coincideva
con la risposta delle partecipanti alla richiesta di indicare la dimensione
del proprio corpo su una scala analogica visiva primaria
(VAS) a 10 punti, da troppo sottile (0) a troppo grasso (10).
Il risultato secondario rifletteva sulla stessa scala la soddisfazione
verso la propria taglia: da molto soddisfatto (0) a molto insoddisfatto
(10).
Per misurare la dimensione corporea percepita negli altri, le
partecipanti hanno valutato una serie di 90 immagini di corpi
femminili [12], simili a quelle utilizzate nella sessione di allenamento,
dovendo rispondere alla domanda: questa donna è sovrappeso,
sottopeso o né sovrappeso né sottopeso?
Ventiquattro di quelle 90 immagini erano state utilizzate nella
sessione di addestramento (otto in ciascun gruppo). Di conseguenza
ciascuna partecipante, durante le fasi di test è stata esposta
a un set di immagini che in parte aveva già visualizzato.
Un ulteriore test ha richiesto l’utilizzo di un avatar che, agendo
sul tablet, poteva essere modificato in punti specifici dell’anatomia,
quali busto o fianchi, per rispondere in modo più preciso
sulla percezione delle dimensioni. L’operazione è stata effettuata
sia sulla propria dimensione sia sulla dimensione ideale: sono state
presentate due immagini, create per avere la stessa altezza della
partecipante, ma l’una con un peso maggiorato del 10%, l’altra
inferiore del 10%. Le partecipanti le hanno modificate secondo
percezione e ideale.
Per tutte le partecipanti inoltre, sono state raccolte informazioni
sulla scala di soddisfazione della forma del corpo, su emozioni
ed affetti, sull’umore e l’autostima, sul livello di istruzione
e l’uso dei media.
A garanzia di maggiore profondità del risultato, le partecipanti
hanno anche valutato aspetti correlati alla dimensione percepita
del proprio corpo, i vestiti per esempio. A tutte è stato
chiesto di valutare un set contenente 60 immagini di abiti, tra co-
84 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SCIENZE
stumi da bagno, pantaloni, cappotti, tubini, assegnando un valore
al livello di confort: nel contesto adeguato, quanto ti sentiresti a
tuo agio con un vestito simile?
Infine, per provare a valutare gli effetti dell’esposizione, durante
la fase preliminare di addestramento, le partecipanti a un
certo punto sono state lasciate sole ed è stata offerta una tazza di
tè o caffè, con una ciotola contenente 100 g di biscotti, dolci e
fiocchi di avena. Per ciascuna partecipante è stata poi misurata la
quantità di cibo consumato.
Il team di ricerca ha comunicato che al termine della sperimentazione
non ha rilevato differenze tra i tre gruppi rispetto alle
scelte dell’outfit o dei biscotti mangiati.
Ma tutti i dati emersi hanno confermato l’influenza dell’esposizione
rispetto alla definizione di un immaginario differente.
Dopo la fase di addestramento con le immagini sottopeso, le
donne hanno giudicato 6,43 immagini in meno come “sottopeso”
e 6,41 immagini in più come “sovrappeso”. Al contrario, in seguito
all’addestramento con immagini di corpi in sovrappeso, le
donne hanno visualizzato 7,42 immagini in più come corpi “sottopeso”
e 5,92 immagini in meno come “sovrappeso”.
Quanto agli esercizi svolti con l’avatar, spiegano gli autori,
l’addestramento con immagini sottopeso ha portato a rivelare
una dimensione ideale più piccola del corpo, rispetto alle partecipanti
che avevano seguito la fase preliminare tramite esposizione
a immagini di corporature normali o in sovrappeso.
In sostanza, la percezione delle dimensioni dei corpi è cambiata
in base alle immagini mostrate durante l’addestramento.
Il risultato che non ha rispettato le previsioni è, invece, quello
relativo alla misurazione delle proprie dimensioni e del grado
di soddisfazione rispetto alla propria corporatura, segnalato attraverso
la modifica dell’avatar. Le partecipanti, ammette il gruppo
di ricerca, contrariamente alle ipotesi iniziali, hanno creato
avatar di dimensioni più ridotte dopo l’allenamento con immagini
sottopeso. Probabilmente - questa l’ipotesi fatta - gli effetti
dell’addestramento sulla percezione delle dimensioni dell’avatar
hanno superato gli effetti dell’adattamento della percezione della
propria dimensione.
Condivisi i risultati, Bould e colleghi nel paper ricordano
come siano urgenti azioni per intervenire sulla prevenzione dei
disturbi alimentari e sulla prevenzione dell’aumento del peso.
Una meta-analisi condotta nel 2011 [2] su 36 precedenti studi
dedicati al tasso di mortalità tra gli individui con disturbi alimentari
aveva verificato come fosse elevato il rischio di mortalità
tra i pazienti, soprattutto nel caso di anoressia nervosa.
Analoga preoccupazione è diretta all’obesità, condizione
che si porta dietro un importante carico negativo sia sulla salute
dell’individuo sia sul contesto sociale, soprattutto rispetto al peso
economico del sistema sanitario e della cura familiare.
Uno studio [13] condotto su quasi 20 milioni di persone distribuite
in 186 Paesi ha rilevato che l’indice di massa corporea
globale standardizzato per età è aumentato da 21,7 kg/m2 nel
1975 a 24,2 nel 2014 negli uomini e da 22,1 kg/m2 nel 1975 a
24,4 kg/m2 nel 2014 nelle donne. La ricerca era stata sviluppata
dall’NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC), una rete di
scienziati che si occupano di salute, distribuiti nelle più prestigiose
università e impegnati nella raccolta dei fattori di rischio delle
malattie non trasmissibili per tutti i Paesi del mondo. Se il trend
continuerà come accaduto per gli anni successivi al 2000, la probabilità
di raggiungere l’obiettivo di un tasso globale accettabile
di obesità nel mondo – si legge nella ricerca dell’NDC-RiisC - è
praticamente pari a zero. La previsione è, invece, peggiorativa:
entro il 2025 la prevalenza globale dell’obesità raggiungerà il
18% negli uomini e supererà il 21% nelle donne; l’obesità grave
supererà il 6% negli uomini e il 9% nelle donne.
Poiché l’insoddisfazione del corpo è un obiettivo potenzialmente
modificabile sia per la prevenzione che per il trattamento,
è necessario agire in questa direzione. (S. L.).
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Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
85
SCIENZE
Le basi genetiche
della malattia di Alzheimer
Nuovi studi sull’argomento hanno
identificato nuovi loci sesso-specifici
utili alla diagnosi precoce
di Giada Fedri
La malattia di Alzheimer (AD) è una patologia neurodegenerativa
progressiva ed irreversibile, circa 44 milioni
di persone nel mondo ne sono affetti o soffrono di una
forma di demenza correlata ad essa, con una previsione
di incremento di circa 4,6 milioni di nuovi casi che potrebbe quasi
raddoppiare entro il 2030 [1], se si considera il costante invecchiamento
della popolazione mondiale e l’aumento dell’aspettativa di
vita nei paesi più sviluppati.
La maggior parte delle
forme di Alzheimer è definita
sporadica, che si manifesta
quindi in assenza di ereditarietà
generazionale e spesso
esordisce dopo i 65 anni. In
altri casi, i sintomi del morbo
si manifestano in età più
giovanile, definiti per questo
pazienti ad esordio precoce,
e le caratteristiche della malattia
cambiano a seconda
del momento della vita in cui
essa si sviluppa. Si ipotizza
che quanto prima la malattia
si presenti tanto più il fattore
genetico sia prevalente infatti,
più della metà dei soggetti
ad esordio precoce ha una base familiare, ereditaria. La trasmissione
della patologia è di tipo autosomico dominante, il che significa
che la mutazione genetica responsabile è trasmessa al 50%
dei figli. Tuttavia, la predisposizione genetica della forma non
mendeliana è considerevole anche per i pazienti con esordio tardivo,
con una stima dell’ereditarietà del 60-80% [2]. Nonostante
anni di ricerche abbiano svelato un gran numero di informazioni
riguardo l’Alzheimer, la maggior parte delle cause rimane un
mistero, in particolare nei
casi di insorgenza sporadica,
dove oltre alla combinazione
genetica si associano i fattori
ambientali e lo stile di vita.
Uno degli obiettivi principali
della ricerca sull’AD è
quello di comprendere l’eziologia
genetica e la sua relazione
con la neuropatologia:
l’esplosione di nuove tecniche
per esplorare il DNA e la biologia
molecolare negli ultimi
due decenni ha illuminato
molti degli enigmi relativi alla
neurodegenerazione. I tentativi
riusciti a metà degli anni
© pathdoc/www.shutterstock.com
‘80 di sviluppare metodi per
86 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
purificare i depositi e gli agglomerati
patologici dal cervello post-mortem
di pazienti affetti da AD, hanno
infatti permesso l’identificazione
della proteina β amiloide (Aβ) come
principale molecola costituente le
placche a livello sinaptico, e la proteine
tau come componente primaria
dei grovigli neurofibrillari; permettendo
inoltre il loro isolamento
e sequenziamento. L’ipotesi che la
malattia sia causata dal graduale
accumulo e aggregazione di Aβ, ha
guidato le prime scoperte genetiche
e ha aiutato a dirigere gli studi verso
la ricerca dei geni causali. Il primo
gene identificato fu il precursore
della beta amiloide (APP), proteina
transmembrana che, clivata da particolari
enzimi denominati secretasi,
porta alla formazione e al deposito
di specifici frammenti di Aβ. In condizioni
normali, l’APP è costitutivamente
prodotto da tutte le cellule
[3] e come monomero, gioca un ruolo importante nella crescita
e nella riparazione dei neuroni, è quindi un fattore fisiologico e
protettivo che potenzia la plasticità sinaptica. Quando mutato invece,
è fortemente coinvolto nell’eziopatogenesi della malattia di
Alzheimer poiché porta ad una produzione anomala di frammenti
di β-amiloide sotto forma di aggregamenti fibrillari, tossici per i
neuroni. Le mutazioni del gene APP sono responsabili del 2-3%
dei casi di Alzheimer a trasmissione familiare, portano alla forma
precoce e quindi più aggressiva della malattia [4]: ad oggi sono
state identificate circa quaranta mutazioni missenso di APP che si
raggruppano quasi tutte in corrispondenza dei siti di clivaggio da
parte dalle secretasi β, γ o α [5], [6].
Una curiosa scoperta fu la localizzazione del gene APP sul
cromosoma umano 21 [31] che spiegò lo sviluppo specifico della
neuropatologia simile all’AD, spesso accompagnata da declino cognitivo,
nei pazienti con trisomia 21 (Sindrome di Down). Tali soggetti
mostrano infatti depositi di Aβ immaturi noti come placche
diffuse già nella seconda decade di vita e successivamente sviluppano
placche neuritiche (amiloidi) mature e grovigli neurofibrillari
indistinguibili da quelle riscontrate in pazienti con AD.
Oltre alle mutazioni, anche le duplicazioni geniche sono state
associate a forme familiari della malattia ad esordio precoce [7],
in particolare di due geni autosomici dominanti: la Presenilina 1 (
PSEN1 ) e la Presenilina 2 ( PSEN2) [8]–[11], proteine che hanno
la funzione di frammentare la proteina amiloide e per questo motivo
il loro alterato funzionamento potrebbe causare l’accumulo di
Aβ. Quest’ultime sono componenti essenziali del complesso delle
γ-secretasi, che catalizzano la scissione delle proteine di membrana,
inclusa l’APP, incrementando la formazione di particolari frammenti
di Aβ e favorendone il loro accumulo [12]. Le alterazioni di
PSEN 1, ad oggi classificate come cinquanta diverse mutazioni,
rappresentano la causa più comune di origine genetica della malattia
di Alzheimer familiare ad esordio precoce (28-60 anni), mentre
sono note solo 3 mutazioni di PSEN2, associate all’eziogenesi sia
precoce che tardiva. Insieme, le mutazioni di PSEN1, PSEN2 e
© Atthapon Raksthaput/www.shutterstock.com
SCIENZE
APP sono responsabili solo del 5-10% dei casi di Alzheimer ad
esordio precoce, ne aumentano il tasso di progressione e la gravità
e attualmente sono gli unici tre geni alla base dei test genetici predittivi.
E per quanto riguarda invece l’esordio tardivo? Finora il principale
candidato è il gene che codifica per l’apoliproteina E (ApoE),
appartenente alla famiglia di proteine che legano e trasportano
i lipidi, prodotte principalmente dal fegato e dai macrofagi nei
tessuti periferici, dove mediano il metabolismo del colesterolo; e
dagli astrociti nel sistema nervose centrale, dove trasportano il colesterolo
nei neuroni e nel cervello. Alcuni studi indicano che nei
casi di AD, la proteina viene clivata da enzimi sconosciuti e che i
frammenti risultanti interagiscono con le proteine del citoscheletro
per formare le tipiche strutture neurofibrillari aggrovigliate [13].
APOE è un gene polimorfico, ha quindi diverse forme alleliche,
e le principali sono ɛ2, ɛ3 ed ɛ4. Studi precedenti hanno dimostrato
come quest’ultima sia responsabile della formazione dei grovigli
neurofibrillari [13] caratteristici del morbo, mentre APOɛ2
e APOɛ3, non sembrano essere connesse ad esso. Al contrario, ci
sono prove che suggeriscono che l’allele ɛ2 possa avere un effetto
protettivo e ritardi l’età di insorgenza [14] mentre è ɛ3, il più comune,
sembra non aumentare né ridurre il rischio.
A livello mondiale, si stima che il 14% della popolazione abbia
il gene APOɛ4, mentre nei pazienti affetti da Alzheimer la percentuale
raggiunge il 61%, indicando una chiara connessione tra la
presenza dell’allele e l’AD. Infatti chi mostra due alleli ε4 ha fino
a 20 volte più rischio di sviluppare l’AD rispetto a chi esprime le
altre forme alleliche [15], per questi motivi è ad oggi il fattore di
rischio più significativo per lo sviluppo di AD [16] con un effetto
dose-dipendente sull’età di esordio [17].
Nonostante l’evidenza accertata dell’APOɛ4 come fattore di
suscettibilità e di rischio per l’AD insorgenza tardiva [18], il suo
valore nella previsione della malattia in ambito clinico è limitato
non solo a causa delle attuali potenzialità terapeutiche ma anche
perché di per se non è né necessario né sufficiente a causare la ma-
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
87
SCIENZE
© Naeblys/www.shutterstock.com
lattia [16], [17]: fino al 75% delle persone eterozigoti per APOE
ɛ4 non sviluppano AD durante la vita e fino al 50% delle persone
affette non esprimono l’allele ɛ4 ad alto rischio [16]; inoltre, i casi
correlati a tale allele rappresentano il 27,3% dell’ereditabilità della
malattia che è in realtà stimata intorno all’80% [19].
Basti pensare che in alcuni casi di Alzheimer familiare ad esordio
tardivo, le mutazioni non sono state trovate in nessuno dei tre
geni. Ciò suggerisce che almeno un altro gene è responsabile, che
per ora non è stato identificato. Enormi sforzi di ricerca a livello
mondiale hanno rilevato loci di rischio genetico aggiuntivi per la
forma geneticamente complessa di AD, è chiaro che comprendere
il ruolo della genetica nella diagnosi e nella previsione del rischio
nell’AD complesso ad esordio tardivo è molto meno semplice, proprio
perché con l’avanzare dell’età aumenta la pressione di altri
fattori esterni oltre alla pura predisposizione genetica, come l’ambiente
e lo stile di vita, il che complica ulteriormente un quadro già
fortemente intricato ed oscuro.
Sono stati identificati altri possibili geni associati all’aumentata
suscettibilità alla malattia, non ancora confermati ufficialmente,
i principali candidati sono: SORL-1 e CH25H (coinvolti nel riciclaggio
e nella trasformazione dell’APP); ACE (implicato nella
regolazione della pressione arteriosa e nella degradazione di Aβ);
GAB2 e la transferrina per il loro ruolo nella formazione degli aggregati
di tau iperfosforilata [20].
La componente genetica stessa è complessa ed eterogenea,
non esiste un singolo modello che spieghi le modalità di trasmissione
della malattia, o come le mutazioni e i polimorfismi genetici
possano interagire tra loro e a loro volta con i fattori ambientali.
Sebbene la conoscenza delle cause genetiche e dei fattori di rischio
dell’AD stia avanzando, sorge la domanda su come tradurre e trasporre
queste intuizioni in migliori strumenti per incrementare la
salute pubblica. L’implementazione più diretta è la ricerca di altri
strumenti per la diagnosi a più ampio spettro. Studi di associazione
genome-wide (GWAS) [20], [21] su larga scala e “l’International
Genomics of Alzheimer’s Project” hanno notevolmente
migliorato le conoscenze relative alle basi genetiche di AD ad
esordio tardivo, identificando almeno 20 loci di
rischio genetico aggiuntivi, tra cui la Clusterina
(CLU), una proteina pleiotropica che potrebbe
essere coinvolta nella patogenesi attraverso
trasporto lipidico, l’infiammazione e influenza
diretta sull’aggregazione Aβ e la sua clearance
dal cervello e la proteina SORL1, coinvolta nel
riciclaggio dell’APP [22]. Le varianti ereditate
di SORL1 analizzate nei casi di AD, sono state
associate significativamente alle forme ad insorgenza
tardiva, anche se si discute se sia un valido
candidato e se sia classificabile come fattore
di suscettibilità piuttosto che come gene deterministico
[22].
Le nuove tecnologie che sfruttano un’ampia
copertura dei marcatori genetici attraverso
studi di associazione a livello dell’intero
genoma, metodi statistici avanzati e progetti
di collaborazione per aumentare il numero di
casi disponibili per lo studio, possono aiutare
a superare alcuni degli ostacoli alla ricerca di
ulteriori geni associati alla malattia. Un gruppo
di ricerca dall’Università di Bonn ha proposto
un interessante approccio di studio, basato sulla
restrizione del campo di ricerca ad altri fattori predittivi dell’influenza
della malattia oltre all’età, tra cui la razza [23], ipertensione
arteriosa [24] e il sesso [25]. E’ proprio sulla selezione di
quest’ultima categoria che si basa il nuovo lavoro, il principio è
quello di focalizzare l’attenzione su un campo più limitato come
l’analisi specifica di genere, partendo dal fatto che le donne hanno
il doppio del rischio di sviluppare l’AD rispetto agli uomini, la
progressione della malattia è più rapida e la neurodegenerazione è
più veloce negli individui di sesso femminile [26]. Al contrario, gli
uomini con AD hanno una mortalità più elevata rispetto alle donne.
Partendo da questi ragionamenti, poche settimane fa il gruppo
di ricerca ha identificato quattro nuovi loci: GRID1 , RIOK3
, MCPH1 e ZBTB7C , che mostrano un’associazione specifica tra
il sesso e lo sviluppo del morbo di Alzheimer [27]. E’ il primo
lavoro di sequenziamento dell’intero genoma associato all’analisi
degli effetti specifici del sesso nell’AD. Il riscontro più convincente
è nel gene ZBTB7C che codifica per un repressore trascrizionale
delle metalloproteasi di membrana (MMP), già sospettate di essere
coinvolte nella neuropatologia dell’AD[28], che ora dimostra
conferire un aumento del rischio di AD nelle donne e protezione
nei maschi. Questo nuovo gene, era già accusato di aumentare la
suscettibilità all’ictus ischemico attraverso la modulazione dell’apoptosi
neuronale [29]. MCPH1 invece, codifica una proteina di
risposta ai danni al DNA, implicata anche nella condensazione dei
cromosomi, nella regolazione dello sviluppo della corteccia cerebrale
fetale e nella neurogenesi [30].
La scoperta interessante è che c’è una differenziazione della
previsione in base al sesso, anche negli altri tre geni scoperti
(MCPH1, RIOK3 e GRID1): specifici alleli infatti conferiscono un
aumento del rischio nelle femmine e protezione nei maschi, effetto
opposto a quello mostrato da ZBTB7C.
Oltre all’identificazione di nuovo materiale di studio ed analisi,
questa scoperta dimostra come lo stesso allele possa avere effetti
diametralmente opposti in base al sesso, e apra nuovi orizzonti rispetto
a quelli studiati finora.
88 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
SCIENZE
Allo stato attuale, lo sviluppo di terapie ottimizzate alla riduzione
degli effetti e dei sintomi della malattia si è concentrato principalmente
sulle prime intuizioni dei meccanismi molecolari e sui
percorsi coinvolti nell’AD. Da decenni la disputa su quale delle
alterazioni, le placche di amiloide extracellulare o la degenerazione
neurofibrillare costituisse il primum movens della malattia divide
i ricercatori, che si sono focalizzati principalmente su queste due
opzioni. La costante scoperta di nuovi aspetti genetici, le ipotesi di
ulteriori processi che mettano in relazione i due contrassegni istopatologici,
l’evidenza di possibili combinazione di più fattori genetici
ed acquisiti, stanno fortunatamente condizionando lo sviluppo
di nuovi quadri degenerativi e meccanismi molecolari alternativi,
aprendo le porte a nuove macro-aree di studio.
Man mano che la comprensione dei geni coinvolti nella malattia
evolve, la capacità di identificare individui a rischio e di soggetti
che potrebbero beneficiare di un trattamento più specifico e di una
prevenzione precoce aumenta. Anche se c’è ancora molta strada
da fare nel campo dell’AD prima che venga chiarito in modo netto
e preciso il quadro patologico, c’è motivo di cauto ottimismo
nella continua scoperta di nuovi protagonisti coinvolti nell’AD e
nell’impatto che la profilazione genetica molecolare può avere nella
decifrazione della biochimica di una patologia così complessa,
nella sua previsione, prevenzione e cura.
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Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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Rischio biologico
da Covid-19
Conoscere i pericoli ai quali il lavoratore è esposto e poterli classificare
in base alla pericolosità è il presupposto fondamentale
per la “messa in sicurezza” dell’individuo e delle sue attività
di Giorgio Liguori * e Marco Guida **
Gli agenti biologici costituiscono una presenza imprescindibile
e costante dell’ambiente nel quale viviamo tant’è
che, secondo alcuni AA, “l’uomo è specie animale che
vive immersa nei microrganismi”.
Nel tempo, gli esseri umani hanno imparato a convivere con la
maggior parte delle specie microbiche, e queste con lui, trovando
diverse soluzioni di pacifica convivenza: indifferenza (vita libera),
commensalismo, saprofitismo, simbiosi.
Se si considera poi che obiettivo primario di tutti gli organismi
viventi è l’evoluzione in termini di miglioramento e diffusione della
specie sul pianeta, con garanzia di progenie fertili, risulta chiaro che
la conflittualità tra specie, costituendo tutt’altro che un vantaggio ai
fini della sopravvivenza, non facilita tale percorso evolutivo.
L’uomo impara da subito, appena dopo la nascita, a convivere
con il microcosmo (colonizzazione) ed a concordare alleanze (commensalismo
e simbiosi mutualistiche) così che molte specie, batteriche,
micotiche, protozoarie, diventano gli “alleati” più fedeli nel
*
Professore Ordinario di Igiene generale e applicata,
Dipartimento di Scienze Motorie e del Benessere, Università
degli Studi di Napoli “Parthenope”.
**
Professore Ordinario di Igiene generale e applicata,
Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Napoli
“Federico II”.
difenderlo dagli insulti infettivi provenienti dall’esterno. Se si considera
la molteplicità e la varietà dei microrganismi oggi conosciuti,
risulta evidente come le specie patogene ne costituiscano solo una
piccola parte, veramente “poca cosa” rispetto a quante presenti sul
pianeta. La patogenicità ed il parassitismo, soprattutto quello obbligato,
rappresentano dunque uno svantaggio ai fini del progetto di
evoluzione di ciascuna specie vivente.
Queste semplici considerazioni rappresentano il presupposto
con il quale è stato affrontato anche dal legislatore il problema dei
rischi infettivi (rischio biologico) sui luoghi di vita e di lavoro. Conoscere
i pericoli, in questo caso gli agenti patogeni ai quali il lavoratore
è esposto, poterli classificare in base ad un gradiente di pericolosità
(patogenicità, contagiosità, disponibilità di presidi farmacologici) e
valutare il livello di esposizione (anche solo potenziale) rappresentano
i presupposti fondamentali per l’implementazione delle strategie,
misure ed azioni orientate alla “messa in sicurezza” del lavoratore e
delle sue attività.
Cos’è la sicurezza?
La mission dell’Igiene è diffondere la cultura della “Salute” quale
bene fondamentale da tutelare e mantenere il più a lungo possibile.
Uno stato di benessere psico-fisico e sociale che può essere reso
migliore anche attraverso l’eliminazione, se realizzabile, la riduzione
ed il contenimento dei molteplici rischi per la salute.
Qual è la differenza tra pericolo e rischio?
Mentre per pericolo si definisce una caratteristica “intrinseca”
di un agente fisico, chimico o biologico capace di arrecare danno
90 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
ECM
ad ospiti umani, per rischio va intesa invece la
probabilità di venirne esposti in condizioni di
vulnerabilità (assenza di misure di prevenzione
e protezione). Quanto più il rischio è elevato,
tanto più probabili saranno gli effetti (i
danni) che ne deriveranno a seguito dell’esposizione.
In altre parole, il danno, così come la
sua gravità, dipendono dalle probabilità che
hanno i percoli di “estrinsecarsi” se non individuati
e contenuti. Il pericolo è una “caratteristica
certa” che bisogna conoscere; il rischio
è una variabile, la probabilità che il pericolo
dia evidenza di sé provocando effetti negativi,
una variabile da gestire nel modo migliore
(risk management).
Il Valore è dunque: Sicurezza uguale
Salute. Sicurezza intesa come salubrità degli
ambienti (sia outdoor che indoor), idoneità Tabella 1.
di strutture, macchine, attrezzature, presidi,
organizzazione del lavoro, ecc. Sicurezza intesa,
anche e soprattutto, come conoscenza di
pericoli-rischi e consapevolezza del ruolo che
ciascun lavoratore, ciascuna persona, può giocare
nel gestire la propria Salute.
Ultima premessa funzionale a ciò che segue
è che la Sicurezza sui luoghi di lavoro deve
essere intesa ed elaborata come “professionalità”.
“La sicurezza è questione culturale, di
approccio alla professione. Spesso siamo noi
stessi artefici della nostra sicurezza e dunque
la garanzia della nostra salute. Non é ammissibile,
né giustificabile affidare la sicurezza solo
alla disponibilità ad investire risorse materiali.
Non ci riusciremmo”.
In tale ottica, la formazione e l’aggiornamento
continuo sulle conoscenze dei pericoli
e delle misure utili a ridurre/contenere i rischi
derivanti dalla potenziale esposizione a questi,
assume un ruolo decisivo ed irrinunciabile ed
un preciso compito al quale il datore di lavoro Tabella 2.
deve assolvere, caricandosi obblighi e responsabilità
ed a cui il lavoratore deve approcciare in modo consapevole
ed atteggiamento positivo.
La valutazione del rischio biologico
Da anni il rischio biologico è normato dal titolo X del D.Lgs
81/08 “Tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, che ha
aggiornato quanto promulgato con il D.Lgs. 626/94 (Titolo VIII -
Rischi da agenti biologici).
In esso, gli agenti biologici potenzialmente pericolosi per i lavoratori
vengono presi in esame secondo la capacità complessiva di
provocare infezione, allergia o intossicazione; sulla base di tali caratteristiche
vengono classificati in 4 gruppi, di cui il quarto assomma
tutte le peculiarità negative (Tabella 1).
Esistono evidenti criticità nel valutare il rischio biologico perché,
al contrario di quanto accade per altri rischi (chimico, fisico, movimentazione
dei carichi, ecc), numerose e interdipendenti tra loro sono
le variabili che entrano in gioco dal momento dell’esposizione a quello
dell’eventuale danno conclamato (malattia). Tra queste vanno distinte
quelle proprie dell’agente biologico (carica infettante, patogenicità e
virulenza), quelle riferite all’ospite umano (età, sesso, costituzione, stato
di salute, efficienza del sistema immunitario, ecc.), nonché ulteriori
variabili correlate alle vie di trasmissione (contagiosità) e all’ambiente
fisico (outdoor/indoor) e sociale (relazioni, comportamenti). La tabella
2 ne riassume le principali criticità.
La principale criticità nell’applicare la metodologia è l’assenza di
valori-soglia; altre di riscontro frequente sono l’insufficienza di dati
epidemiologici e le analogie tra l’accertamento del rischio biologico ed
quello relativo ad altre tipologie di rischio, ad esempio cancerogeno.
Sempre ai fini della valutazione, altro aspetto essenziale è l’identificazione
preliminare delle attività lavorative per le quali è previsto
l’uso deliberato di agenti biologici (rischio noto) rispetto a quelle
per le quali il rischio di esposizione è sporadico e/o imprevedibile
(legato ad imprevisti/incidenti).
Tra queste ultime vanno annoverate, ad esempio, le attività professionali
che comportano un rischio di esposizione per manipolazione
e impiego di materiali biologici potenzialmente contaminati
oppure la presenza di microrganismi nell’ambiente stesso di lavoro
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
91
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(laboratorio biomedico e veterinario). In entrambi i casi, ma soprattutto
per le attività e gli ambienti lavorativi per i quali non è previsto
il contatto diretto con sorgenti di infezione (soggetti e animali malati),
la sottostima del rischio reale è di per sé il rischio maggiore che
si può presentare.
Il laboratorio rappresenta una delle aree a maggior rischio di
trasmissione di agenti infettivi. Secondo dati dell’Istituto Lazzaro
Spallanzani di Roma di qualche anno fa, sarebbero oltre 5.000 i
casi di infezioni segnalate in laboratorio, con una letalità media del
4% circa. L’aumento dei carichi di lavoro e l’introduzione di nuove
tecnologie, verificatisi soprattutto nell’ultimo trentennio, hanno ampliato
in modo significativo la necessità di integrare le tecniche di
processazione dei campioni biologici con le procedure di sicurezza.
Va precisato che la valutazione è solo un momento dell’intera
filiera di “gestione del rischio” che è attività complessa ed articolata
in fasi distinte che, in riferimento a quanto fin qui descritto, possono
essere così riassunte:
- individuazione dei pericoli
- valutazione dei rischi
- adozione delle misure e degli interventi efficaci per il contenimento
(eliminazione/riduzione dei rischi, protezione dall’esposizione).
Nel laboratorio biomedico, le modalità di trasmissione degli
agenti biologici possono essere ricondotte alle seguenti 4 modalità:
1. inalazione
2. ingestione
3. inoculazione
4. contaminazione
Per ciascuna di queste, il legislatore individua una serie di variabili
che entrano in gioco ma delle quali, come mostrato nella Tabella
3, solo 4 devono essere considerate in ogni caso (voci in corsivo sottolineate).
Per quanto attiene la tipologia degli agenti biologici ed i
criteri adoperati per la loro classificazione, il legislatore considera,
come già ricordato in premessa, le seguenti caratteristiche proprie
di ciascun microrganismo: carica infettante, patogenicità e virulenza.
Mentre la patogenicità definisce il meccanismo di azione con cui
Tabella 3.
l’agente biologico può provocare danno in ospiti umani (ad esempio:
produzione di tossine, distruzione di particolari cloni cellulari,
ecc.), la virulenza rappresenta la severità del danno procurato. Si sa
come ceppi diversi di una stessa specie microbica, dotati dell’identico
meccanismo di azione patogena, possano invece avere variabile
grado di virulenza e con differenze anche significative nella valutazione
dell’impatto in termini di morbosità e mortalità (ad esempio,
i virus influenzali)
Le altre tre variabili presenti in tutte e quattro le modalità di trasmissione
(formazione, sistemi di protezione, procedure di lavoro)
attengono invece all’organizzazione e gestione delle attività lavorative,
nonché a precisi obblighi e responsabilità a carico del datore di
lavoro e del lavoratore.
Sulla base di tali elementi e della classificazione delle modalità di
trasmissione degli agenti biologici in 4 gruppi, il legislatore ha realizzato
uno strumento con il quale essere in grado di “classificare oggettivamente”
qualsiasi luogo di lavoro, e conseguentemente, ai fini della
sicurezza, predisporre, organizzare ed intervenire su ambienti e strutture,
impianti e attrezzature, procedure e organizzazione delle attività.
Il punto essenziale resta la classificazione dei microrganismi (i
pericoli) sulla base della quale consegue tutto l’approccio successivo.
A tale scopo, tutti i microrganismi conosciuti per essere causa
potenziale di infezione/malattia nell’uomo vengono ripartiti in classi
(2-4 in Tabella 1) sulla base dei seguenti 3 criteri:
1. patogenicità, ovvero la possibilità di costituire rischio (serio,
per quelli delle classi 3-4) per i lavoratori e causare malattie (gravi,
per quelli delle classi 3 e 4);
2. contagiosità, ovvero la possibilità di diffondere tra i lavoratori
e che, dunque, a seguito del caso primario (caso indice) possano
verificarsene degli altri (focolaio epidemico, epidemia, pandemia).
Anche in questo caso esiste un gradiente: classe 2 microrganismi con
poca attitudine alla propagazione in comunità; classe 3 con probabilità
di propagazione; classe 4, con elevato rischio di propagazione.
3. gestione farmacologia, ovvero la disponibilità di farmaci
efficaci da impiegare ai fini profilattici (sieri e vaccini) e terapeutici
(medicinali). Alla classe 4 appartengono i microrganismi
per i quali tale tipo di approccio è impossibile
perché non disponibili farmaci adeguati.
(Tabella 1).
Nell’allegato XLVII, parte integrante, del D.
Lvo 81/08 (ex allegato XI del D Lgs 626/04) sono
elencati (con riferimento a Genere e specie) tutti
gli agenti biologici delle classi 2, 3 e 4, con indicati,
per ciascuno con lettera maiuscola dell’alfabeto
e 1-2 asterischi, a seconda dei casi, talune
peculiarità. In particolare, alle lettere è attribuito
il significato:
A: agente biologico che può causare possibili
effetti allergici;
D: agenti che possono provocare effetti a distanza
di anni; il datore di lavoro è tenuto a conservare
l’elenco dei lavoratori esposti a tale agente
biologico per almeno 10 anni dalla cessazione
dell’ultima attività comportante la potenziale
esposizione;
T: agente che produce tossina/e;
V: disponibilità di vaccino efficace.
Il doppio asterisco è presente per taluni agenti
classificabili per caratteristiche al Gruppo 3 (vi-
92 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
ECM
rus dell’epatite B e C, virus HIV) ma nei confronti dei quali, non
essendo ad oggi dimostrata la possibile trasmissione per via aerea,
possono venir implementate le misure di biosicurezza previste per
quelli appartenenti alla classe precedente (classe 2).
Nell’allegato XLVII sono riportati in elenco unicamente gli
agenti biologici di cui è noto che possono provocare malattie infettive
in soggetti umani (classi 2-4). Poiché, come descritto, non è applicabile
il concetto di dose (concentrazione integrata sul tempo di
esposizione), anche per capacità di autoreplicazione dei microrganismi,
il parametro che assume maggior significato ai fini preventivi e
di valutazione del rischio è l’esistenza o meno di una carica infettante
minima, cioè il numero minimo di unità biologiche in grado di infettare
il soggetto con esito patologico; essa dipende poi anche dalle
condizioni ambientali e dallo stato di salute del soggetto esposto (in
particolare dalle sue caratteristiche immunologiche). (Figura 1)
È bene ribadire che la classificazione degli agenti patogeni si
basa sull’effetto esercitato dagli stessi sui lavoratori sani e non tiene
conto dei particolari effetti a carico di quei lavoratori la cui sensibilità
potrebbe essere modificata da altre cause quali malattie preesistenti,
uso di medicinali, immunità compromessa, etc.
Il legislatore dunque individua, per ciascuno dei 4 gruppi di
microrganismi, livelli di rischio differente e, in relazione a questi,
4 livelli di bio-contenimento del rischio, da implementare quando
possibile già in fase progettuale, alla luce di quanto emerso e riportato
nel documento di valutazione del rischio biologico.
Per ciascun tipo di laboratorio, classificati anch’essi in 4 classi
corrispondenti a quelle degli agenti biologici cui il lavoratore è potenzialmente
esposto, dovranno essere messe in atto misure di contenimento
individuale (Dispositivi di Protezione Individuale - DPI),
organizzative e di contenimento ambientale, secondo le indicazioni
presentate in Tabella 4.
In questo modo, sulla base dei criteri e della metodologia adoperati,
risulta possibile distinguere per ciascuna tipologia di microrganismo,
e relativo gruppo di appartenenza, il livello di rischio
individuale e collettivo cui sono potenzialmente esposti i lavoratori
(Tabella 5). In relazione a come effettuare la valutazione del rischio
biologico, esistono criteri generali ed a riguardo anche l’Unione Europea
si è espressa anche attraverso documenti tecnici molto recenti.
L’orientamento, in tal senso, è che la valutazione della probabilità e
della gravità di possibili lesioni derivanti da una situazione lavorativa
“a rischio” costituisca il presupposto sulla cui base implementare le
misure di sicurezza più idonee ed adeguate e programmare i tempi
di intervento.
La formula che viene generalmente impiegata è R = P x D nella
quale: R indica il rischio, P la probabilità o la frequenza di accadimento
dell’evento dannoso e D l’entità degli effetti da questo procurati.
La formula conduce a 3 diversi livelli di rischio (alto, medio e
trascurabile) in relazione ai quali viene formulato un giudizio e stabilita
la priorità degli interventi da realizzare (fascia A - urgente; fascia
B - nel medio periodo; fascia C - programmabile).
Il valore del rischio (R) può variare da 1 a 9 in ragione del punteggio
assegnato a D (da 1 a 3) e a P (da 1 a 3) in seguito ai rilievi
effettuati in fase di verifica/sopralluogo presso l’ambiente di lavoro.
Per quanto attiene D, i criteri di attribuzione dello score sono:
1 gli esposti sono in numero limitato e comunque gli effetti
non comportano danni;
2 il fattore di rischio può coinvolgere un numero limitato di
lavoratori e il danno è limitato e reversibile;
3 il fattore di rischio può coinvolgere un numero consistente
* solo per attività di sperimentazione su animali
** disponibile
° se l’infezione è veicolata dall’aria
R = raccomandato
F = facoltativo
Tabella 4. Misure di contenimento individuale, organizzative ed ambientali da implementare in
relazione alla classe di rischio.
di lavoratori e/o il danno essere irreversibile.
I criteri con cui si assegna il punteggio all’indice P sono invece:
1. non sono noti episodi in cui si sia verificato un danno (rischio
trascurabile);
2. il fattore di rischio può provocare un danno solo in circostanze
occasionali. Non sono noti o sono noti solo rari episodi già
verificatisi. Non esiste una correlazione tra l’attività e un migliore
andamento infortunistico e/o di malattie professionali su un periodo
significativo (3-5 anni);
3. il fattore rischio può provocare un danno, anche se non in
maniera automatica o diretta. È noto qualche episodio che, per la tipologia
considerata, ha dato luogo a danno. Esiste una correlazione
tra l’attività e un migliore andamento infortunistico e/o segnalazione
di malattie professionali su un periodo significativo (3-5 anni).
Dalle possibili combinazioni, in applicazione alla precedente
formula, si ricava l’indice R, vale a dire l’entità del rischio e dunque
la fascia di priorità dell’intervento da implementare.
Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
93
ECM
Tabella 5.
Dal punto di vista metodologico, e come indicato chiaramente
nel D.Lgs. 81/08, il datore di lavoro, nel valutare il rischio biologico,
deve pertanto tener conto di tutte le informazioni disponibili relative
alle caratteristiche degli agenti e delle modalità lavorative, con
particolare riferimento alla classificazione riportata nell’allegato XL-
VII o, in assenza di questa, sulla base delle conoscenze disponibili.
Tali informazioni devono essere integrate adeguatamente con i dati
inerenti il processo lavorativo in tutte le sue fasi, i lavoratori esposti,
l’organizzazione della prevenzione, le misure di contenimento
adottate ed il piano di emergenza, nell’eventualità di esposizione ad
agenti biologici di classe III e IV.
A tale scopo va predisposta una check-list sulla cui base esaminare,
per ogni singola realtà lavorativa, tutte le variabili che possono
entrare in gioco. Obiettivo dell’analisi della check-list è individuare
la classe di rischio e conseguentemente valutare l’adeguatezza delle
misure di prevenzione e delle procedure esistenti e, ove necessario,
la necessità di ulteriori misure di prevenzione da adottare.
La valutazione del rischio biologico è dunque attività “di campo”,
che va realizzata mediante sopralluoghi e rilievi
effettuati preliminarmente e periodicamente durante lo
svolgimento delle attività per verificare le effettive condizioni
di lavoro della specifica realtà e comprenderne
appieno le dinamiche.
Non esistono modelli precostituiti né è lecito o
possibile far riferimento esclusivamente a documenti
“standard” (protocolli e procedure) oppure attenersi a
quanto dichiarato da responsabili, preposti e lavoratori.
Per valutare adeguatamente tipologia e livello di rischio
legata ad una specifica attività, necessita che questa sia
vagliata “in loco”, attraverso momenti di analisi e monitoraggio,
considerando prioritariamente gli aspetti organizzativi,
di distribuzione dei carichi lavorativi, delle
mansioni e delle responsabilità.
Tutto quanto fin qui esposto, richiama e rafforza il principio,
per altro già espresso, secondo il quale la sicurezza deve essere, per
ogni realtà e singolo lavoratore, innanzitutto elemento “culturale”
fondato sui principi di conoscenza e consapevolezza, orientata alla
prevenzione e finalizzata alla “professionalità”.
Tabella 6.
Foto 1. Storia naturale di una malattia.
Bibliografia essenziale
Tabella 7. Esempio di check-list per l’individuazione della classe di rischio ai fini della valutazione
del rischio biologico.
- D. Lgs. 9 aprile 2008 n.81. Attuazione dell’articolo 1 della legge 3
agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza
nei luoghi di lavoro. GU n. 101 del 30.4.2008 - Suppl. Ordinario n.108.
- INAIL. Il rischio biologico nei luoghi di lavoro; schede tecnico-informative.
Milano, 2011.
- Frusteri L, De Grandis D, Scarlini F, Pontuale G. Manuale per la
valutazione del rischio biologico. EPC Editore, 2019.
- Direttiva UE 2019/1833 della Commissione del 24.10.2019 che modifica
agli allegati I, III, V e VI della Direttiva 2000/54/CE del Parlamento
Europeo e del Consiglio per quanto riguarda gli adattamenti di
ordine strettamente tecnico. G.U. L279/54 del 31.10.2019.
94 Il Giornale dei Biologi | Maggio 2020
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Chiara Di Martino, Domenico Esposito, Giada Fedri,
Felicia Frisi, Carmine Gazzanni, Marco Guida, Giorgio Liguori,
Sara Lorusso, Biancamaria Mancini, Riccardo Mazzoni,
Marco Modugno, Gianpaolo Palazzo, Antonino Palumbo,
Stefania Papa, Carmen Paradiso, Maria Carlotta Rizzuto,
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