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360 | Settembre - 2020

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La nostra protagonista nasce nel 1919 ad Ulassai,

Ogliastra, nella Sardegna rurale, ed è una

bambina gracile e schiva ma fortunata quanto

basta da avere alle spalle una famiglia benestante,

così da potersi garantire una formazione.

Per tutti gli anni dell’infanzia crescerà

sola con la sua matita, educandosi a un riserbo

e ad un’introspezione che, a Cagliari (dove

sarà mandata per proseguire gli studi) le garantiranno

la triste fama di disadattata e di introversa

con difficoltà di apprendimento e socializzazione.

La ragazza però non si abbatte e

decide di iscriversi al Liceo Artistico di Roma.

Ed è proprio dalla Città Eterna che inizia il

suo ‘nostos’.

Da Roma a Venezia, Maria conosce i grandi

artisti dello scenario italiano del dopoguerra,

cresce sia personalmente che professionalmente,

affermandosi anche come insegnante.

C’è però un rumore bianco che fa da sottofondo

ai suoi giorni di donna libera e di artista di

successo, un logorio incessante che la sovrasta

e le rende difficile trovare un canale espressivo

efficace per materializzare il suo mondo interiore:

la nostalgia per la sua isola, fatta di miti

e tradizioni, di profumi e di sapori mediterranei,

di fili di telaio. Ecco quindi che a più di

cinquant’anni riparte per la Sardegna, con la

rinnovata consapevolezza che la vera originalità

sta in chi riconosce e valorizza le proprie

origini. Quello che ora esce dalle mani di Maria

non ha più nulla a che fare con i manufatti

della giovinezza o con le opere dei suoi

maestri; cambia la materia con cui interagisce

e le sue creazioni sono dei…telai, che vengono

disposti per tutto il paese in modo da unire le

case, gli edifici pubblici, gli alberi. Il simbolo

che sceglie non solo non è casuale ma è forte:

il telaio è lo strumento di lavoro della donna

che tesse, ma anche macchina del tempo, che

unisce il passato col presente, la tradizione con

la tecnologia.

Ma vediamo in cosa realmente consiste la sua

opera, definita come forma di arte relazionale.

Come ho già accennato, la performance richiede

che ogni casa del paese sia legata alle vicine

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con dei fili, fili fissati poi alla montagna che

sovrasta il paese, ad indicare l’irriducibile connessione

tra persone e cose, ma anche la staticià

del passato, roccia inscalfibile, ed il dinamismo

del presente. Certo, la metafora cozza

con la realtà: ci sono antipatie che durano da

decenni, rancori fatti di sangue e faide; far passare

un ‘segno di pace’ tra case dove la gente

non si parla è fuori discussione.

Maria però cerca di mediare e alla fine trova il

giusto compromesso: le cause tra cui c’è armonia

saranno attraversate da un nastro a cui è

legato un pane segno di condivisione e amore,

mentre tra le altre il nastro sarà teso come tesi

sono i rapporti. Comunque il legame c’è ed è

indistruttibile, come un ago che “entra ed esce

da qualcosa, lasciandosi dietro un filo, segno

del suo cammino che unisce luoghi ed intenzioni.”*

La nostra protagonista è vicina a quei giovani

che sono nati in una dimensione piccola da cui

vogliono affrancarsi; il conflitto che si avverte

con le proprie origini sembra infatti il necessario

prezzo da pagare per assicurarsi un modesto

angolo di libertà in una città, in cui le prospettive

di vita sono ben più allettanti di quelle offerte

dal paese o dalla cittadina di provincia. La

nostalgia interviene poi su quella ripugnanza

iniziale ed edulcora anche i ricordi più amari,

creando un ponte tra passato e presente, rendendo

il confronto con l’identità meno duro.

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