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York. L’unica possibilità per lo sfortunato protagonista,
interpretato da Tom Hanks, risulta
essere il Terminal di transito dei voli internazionali,
dove è praticamente condannato a restare
fino al termine della guerra, data l’imbarazzante
inaccettabilità della sua pratica e la
mancanza di voli per il rimpatrio. Dunque, la
storia si avvicenda seguendo la vita del protagonista
tra un gate in ristrutturazione, dove allestito
un letto e dei mobili di fortuna egli passa
le ore notturne, e tutti i vari duty free shops
del terminal, dove Viktor interagisce con il via
vai continuo dei passeggeri e con gli impiegati
stessi al JFK, tra cui nascono amicizie, amori,
ed anche bische dove si scommettono gli
oggetti smarriti dei viaggiatori. L’intreccio di
rapporti che si sviluppa trasversalmente tra le
innumerevoli realtà dell’aeroporto è essenziale
per l’evoluzione durante i 130 minuti di pellicola
di un atmosfera calorosa ed empatica che
accoglie l’osservatore e corona un finale commovente
da in cui ci si sente avvolti.
Sorprendentemente, “The Terminal”, sotto la
regia di Steven Spielberg nel 2004, non è il risultato
di una fervida immaginazione, bensì
è una rivisitazione basata su una storia vera,
di cui il protagonista, un iraniano di nome
Merhan Kamiri Nasseri, privo di documenti
(passaporto e visto, dichiarati rubati) nel 1988,
ha trascorso 18 anni della sua vita all’aeroporto
CDG (Charles De Gaulle) di Parigi, proprio
presso un terminal facendo della sua casa, una
panchina, e della sua famiglia, gli impiegati
dell’aerostazione francese. Senza proseguire
tanto dettagliatamente nella storia di questi, il
film va menzionato anche per ulteriori motivi,
come un cast d’eccezione già al tempo della
ripresa, con attori principali come Tom Hanks,
Catherine Zeta Jones e Stanley Tucci, che
avevano già ottenuto un certo nome. Un altro
elemento che ricorre, e che collega altre pellicole
di Spielberg è l’utilizzo di un non-luogo
per il set, difatti questo aeroporto, spazio
anonimo ed omogeneo sembra accompagnare
la trama della perdita dell’identità nazionale,
rappresentata dal colpo di stato e dalla consegna
del passaporto al momento del primo diniego
all’ingresso. Sembra che durante tutto il
suo periodo di permanenza nel JFK, si venga a
creare una bolla, in cui il protagonista aspetta
di trovare, una soluzione, ma anche una parte
di se stesso.
Inoltre, è notevole per l’osservatore seguire il
film dal punto di vista del capo della sicurezza
dell’aeroporto JFK, Stanley Tucci, che si alterna
a quello dominante del protagonista. Infatti,
questa scelta permette di percepire una prospettiva
meno emotiva, più grigia, descrivendo
la situazione creatasi come un “problema burocratico”
da gestire attraverso il regolamento
ed i vari protocolli, mettendo in secondo
piano l’empatia con la situazione scomoda del
protagonista. Questo aspetto è sicuramente accentuato,
con il fine chiaro, di criticare quella
burocrazia che viene utilizzata o prevista per
la gestione di casi anomali, in un settore dove,
ci sono insidie dietro ogni angolo di fronte ai
quali i cittadini si trovano spesso ad essere impotenti
e non possono fare altro che aspettare
un elemento di cambiamento o un intervento
statuale difficilmente aspettabile.
Proprio il termine “aspettare” acquisisce un
particolare valore nel film, innanzitutto perché
la sua declinazione è molto frequente, ed
in secondo luogo perché il motto stesso dell’intera
opera può essere racchiuso nella frase “life
is waiting”. Ogni personaggio, principale ed
incidentale, si trova nella posizione di dover
aspettare qualcosa o qualcuno, dall’inserviente
che vorrebbe chiedere la mano di un agente ed
aspetta da Viktor informazioni per poter fare
la proposta perfetta, alla stupenda Catherine
Zeta Jones, che attende una chiamata al cercapersone
per poter tornare tra le braccia di
una sua fiamma, a Stanley Tucci, che attende
da capo di sicurezza una promozione, condizionata
al buon andamento del suo ufficio.
Infine, proprio Viktor Navorsky, che per rea-
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