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360 | Settembre - 2020

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York. L’unica possibilità per lo sfortunato protagonista,

interpretato da Tom Hanks, risulta

essere il Terminal di transito dei voli internazionali,

dove è praticamente condannato a restare

fino al termine della guerra, data l’imbarazzante

inaccettabilità della sua pratica e la

mancanza di voli per il rimpatrio. Dunque, la

storia si avvicenda seguendo la vita del protagonista

tra un gate in ristrutturazione, dove allestito

un letto e dei mobili di fortuna egli passa

le ore notturne, e tutti i vari duty free shops

del terminal, dove Viktor interagisce con il via

vai continuo dei passeggeri e con gli impiegati

stessi al JFK, tra cui nascono amicizie, amori,

ed anche bische dove si scommettono gli

oggetti smarriti dei viaggiatori. L’intreccio di

rapporti che si sviluppa trasversalmente tra le

innumerevoli realtà dell’aeroporto è essenziale

per l’evoluzione durante i 130 minuti di pellicola

di un atmosfera calorosa ed empatica che

accoglie l’osservatore e corona un finale commovente

da in cui ci si sente avvolti.

Sorprendentemente, “The Terminal”, sotto la

regia di Steven Spielberg nel 2004, non è il risultato

di una fervida immaginazione, bensì

è una rivisitazione basata su una storia vera,

di cui il protagonista, un iraniano di nome

Merhan Kamiri Nasseri, privo di documenti

(passaporto e visto, dichiarati rubati) nel 1988,

ha trascorso 18 anni della sua vita all’aeroporto

CDG (Charles De Gaulle) di Parigi, proprio

presso un terminal facendo della sua casa, una

panchina, e della sua famiglia, gli impiegati

dell’aerostazione francese. Senza proseguire

tanto dettagliatamente nella storia di questi, il

film va menzionato anche per ulteriori motivi,

come un cast d’eccezione già al tempo della

ripresa, con attori principali come Tom Hanks,

Catherine Zeta Jones e Stanley Tucci, che

avevano già ottenuto un certo nome. Un altro

elemento che ricorre, e che collega altre pellicole

di Spielberg è l’utilizzo di un non-luogo

per il set, difatti questo aeroporto, spazio

anonimo ed omogeneo sembra accompagnare

la trama della perdita dell’identità nazionale,

rappresentata dal colpo di stato e dalla consegna

del passaporto al momento del primo diniego

all’ingresso. Sembra che durante tutto il

suo periodo di permanenza nel JFK, si venga a

creare una bolla, in cui il protagonista aspetta

di trovare, una soluzione, ma anche una parte

di se stesso.

Inoltre, è notevole per l’osservatore seguire il

film dal punto di vista del capo della sicurezza

dell’aeroporto JFK, Stanley Tucci, che si alterna

a quello dominante del protagonista. Infatti,

questa scelta permette di percepire una prospettiva

meno emotiva, più grigia, descrivendo

la situazione creatasi come un “problema burocratico”

da gestire attraverso il regolamento

ed i vari protocolli, mettendo in secondo

piano l’empatia con la situazione scomoda del

protagonista. Questo aspetto è sicuramente accentuato,

con il fine chiaro, di criticare quella

burocrazia che viene utilizzata o prevista per

la gestione di casi anomali, in un settore dove,

ci sono insidie dietro ogni angolo di fronte ai

quali i cittadini si trovano spesso ad essere impotenti

e non possono fare altro che aspettare

un elemento di cambiamento o un intervento

statuale difficilmente aspettabile.

Proprio il termine “aspettare” acquisisce un

particolare valore nel film, innanzitutto perché

la sua declinazione è molto frequente, ed

in secondo luogo perché il motto stesso dell’intera

opera può essere racchiuso nella frase “life

is waiting”. Ogni personaggio, principale ed

incidentale, si trova nella posizione di dover

aspettare qualcosa o qualcuno, dall’inserviente

che vorrebbe chiedere la mano di un agente ed

aspetta da Viktor informazioni per poter fare

la proposta perfetta, alla stupenda Catherine

Zeta Jones, che attende una chiamata al cercapersone

per poter tornare tra le braccia di

una sua fiamma, a Stanley Tucci, che attende

da capo di sicurezza una promozione, condizionata

al buon andamento del suo ufficio.

Infine, proprio Viktor Navorsky, che per rea-

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