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GRENELLE ·
Joseph Conrad
Vittoria
Un racconto delle isole
Come tutti gli scolari sanno in questa era scientifica, esiste
una relazione chimica molto stretta tra carbone e diamanti.
È questa la ragione, credo, per cui alcuni alludono al carbone
quando parlano di “diamante nero”. Entrambe queste materie
prime rappresentano ricchezza; ma il carbone è una forma di
proprietà più difficile da trasportare. C’è, da questo punto di
vista, una deplorevole mancanza di concentrazione nel carbone.
Pensate, se una miniera di carbone potesse essere messa nella
tasca di un panciotto − ma non si può! Allo stesso tempo, il carbone,
il bene supremo dell’epoca in cui siamo accampati come
viaggiatori sconcertati in un hotel sgargiante e affatto riposante,
ha un fascino tutto particolare. E suppongo che queste due
considerazioni, quella pratica e quella spirituale, abbiano impedito
a Heyst − Axel Heyst − di andare via.
La Tropical Belt Coal Company andò in liquidazione. Il
mondo della finanza è un mondo misterioso in cui, per quanto
possa sembrare incredibile, l’evaporazione precede la liquidazione.
Prima il capitale evapora, quindi la società va in liquidazione.
Si tratta di una fisica molto innaturale, ma spiegano la
persistente inerzia di Heyst, di cui noi “là fuori” eravamo soliti
ridere tra di noi, ma non con inimicizia. Un corpo inerte non
può nuocere a nessuno, non provoca ostilità, non vale la pena
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Vittoria. Un racconto delle isole
deriderlo. In alcuni casi, certo, potrebbe costituire un ostacolo,
ma questo non si poteva dire di Axel Heyst. Egli non era d’impiccio
a nessuno, come se fosse appollaiato sulla vetta più alta
dell’Himalaya, e da questo punto di vista si faceva notare. Tutti
in quella parte del mondo lo conoscevano, dimorando sulla sua
piccola isola. Un’isola non è che la cima di una montagna. Axel
Heyst, appollaiato immobile su di essa, era circondato, invece
che dall’imponderabile oceano tempestoso e trasparente d’aria
che si fonde nell’infinito, da un mare tiepido e poco profondo;
un’emanazione senza passione delle grandi acque che
abbracciano i continenti di questo globo. I suoi visitatori più
frequenti erano le ombre, le ombre delle nuvole, che alleviano
la monotonia del sole spento e opprimente dei tropici. Il suo
vicino più prossimo − sto parlando ora di cose che mostrano
una sorta di animazione − era un vulcano indolente che
fumava debolmente tutto il giorno con la testa appena sopra
l’orizzonte settentrionale, e di notte alla sua stessa altezza, tra
le stelle limpide, un rosso opaco bagliore, che si espandeva e
collassava spasmodicamente come la punta di un gigantesco
sigaro aspirato a intermittenza nel buio. Anche Axel Heyst era
un fumatore; e quando si rilassava nella sua veranda con il suo
sigaro smussato, l’ultima cosa prima di andare a letto, emetteva
nella notte lo stesso tipo di bagliore e delle stesse dimensioni
di quell’altro a tante miglia di distanza.
In un certo senso il vulcano gli faceva compagnia nella notte
piena di ombre – spesso troppo fitte, si potrebbe pensare, per far
passare una ventata d’aria.
Raramente c’era abbastanza vento da far volare una piuma.
La maggior parte delle sere dell’anno Heyst avrebbe potuto sedersi
fuori con una candela nuda per leggere uno dei libri lasciati
dal suo defunto padre. Non sarebbe stata una cosa cattiva. Ma
non lo fece mai. Paura delle zanzare, molto probabilmente. Né
fu mai tentato dal silenzio di rivolgere casuali commenti al bagliore
del vulcano che gli teneva compagnia. Non era pazzo. Carattere
strano: sì, si sarebbe potuto dire, e in effetti era stato detto;
ma c’è un’enorme differenza tra le due cose, lo consentirete.
prima parte
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Nelle notti di luna piena il silenzio attorno a Samburan −
l’“isola rotonda” delle carte − era sbalorditivo, e nell’ondata
di luce fredda Heyst poteva vedere i suoi immediati dintorni
che avevano l’aspetto di un insediamento abbandonato invaso
dalla giungla: tetti sfocati che si affacciavano su una bassa
vegetazione, ombre rotte di recinti di bambù nella lucentezza
dell’erba alta, qualcosa di simile a un pezzo di strada ricoperto
di vegetazione che s’inclinava tra boschetti esausti verso la
riva a solo un paio di centinaia di metri di distanza, con un
pontile nero e un mucchio di qualcosa piuttosto scuro sul suo
lato non illuminato. Ma l’oggetto che maggiormente spiccava
era una gigantesca lavagna sollevata su due pali e presentava
a Heyst, quando la luna superava quel lato, le lettere bianche
“TBC Co.” in una fila alta almeno due piedi. Erano le iniziali
de Tropical Belt Company, i suoi datori di lavoro – i suoi ultimi
datori di lavoro, ad essere precisi.
Secondo i misteri innaturali del mondo finanziario, essendo
il capitale della TBC Company evaporato nel corso di due
anni, la società andò in liquidazione, una liquidazione forzata,
credo, non volontaria. Non c’era nulla di forzato nel processo,
in ogni caso. Era lento, e mentre la liquidazione − a Londra e
ad Amsterdam − seguiva il suo languido corso, Axel Heyst,
indicato nel prospetto aziendale come “responsabile ai tropici”,
rimase al suo posto a Samburan, la prima stazione di rifornimento
della compagnia.
E non era semplicemente una stazione di rifornimento. C’era
una miniera di carbone, lì, con uno sperone sul fianco della
collina a meno di cinquecento metri dal pontile traballante e
dall’imponente lavagna. L’obiettivo della compagnia era stato
quello di ottenere tutti gli affioramenti sulle isole tropicali e
sfruttarli localmente. E, Dio solo lo sa, ci sono stati molti affioramenti.
Era stato Heyst a trovarne la maggior parte in questo
angolo della cintura tropicale durante i suoi vagabondaggi
senza una meta precisa, ed essendo uno scrivano sollecito nello
scrivere lettere, aveva scritto pagine e pagine su di essi ai
suoi amici in Europa. Almeno, così si disse.
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Vittoria. Un racconto delle isole
Dubitavamo che avesse sogni di ricchezza, per se stesso,
quanto meno. Ciò che maggiormente lo interessava, apparentemente,
era il «passo avanti», come lo chiamò, nell’organizzazione
generale del mondo. Fu udito da oltre un centinaio di persone
nelle isole parlare di un «grande passo avanti per queste regioni».
Il gesto convinto della mano che accompagnava la frase suggeriva
la grande spinta propulsiva impressa alle zone tropicali. La
fine cortesia dei suoi modi lo rendeva persuasivo, o comunque
metteva tutti a tacere, almeno per un po’. A nessuno importava
discutere con lui quando parlava in quel modo esagitato. La sua
sincerità non poteva nuocere a nessuno. Non c’era pericolo che
qualcuno prendesse sul serio il suo sogno di carbone tropicale, e
che senso poteva avere offendere i suoi sentimenti?
Così ragionavano gli uomini dei rinomati uffici commerciali
a cui egli aveva accesso come una persona che veniva dall’Est
con lettere di presentazione − e anche modeste lettere di credito
− alcuni anni prima che questi affioramenti di carbone iniziassero
a spuntare nel suo discorso giocosamente cortese. Fin dal
primo momento ci fu qualche difficoltà a metterlo a fuoco. Non
era un viaggiatore. Un viaggiatore arriva e parte, va da qualche
parte. Heyst non partiva. Una volta incontrai un uomo − il
direttore della filiale dell’Oriental Banking Corporation a Malacca
− al quale Heyst esclamò, senza alcuna connessione con
nulla di particolare (era nella sala da biliardo del club): «Sono
incantato da queste isole!».
La buttò lì così, all’improvviso, a propos des bottes, come dicono
i francesi, e mentre ingessava la sua stecca. E forse era una
sorta di incantesimo. Ci sono più incantesimi di quanti i vostri
banali maghi di oggi abbiano mai sognato.
In parole povere, un cerchio con un raggio di ottocento miglia
disegnato intorno a un punto nel Borneo settentrionale era
nel caso di Heyst un cerchio magico. Sfiorava appena Manila, ed
egli era stato visto lì. Sfiorava Saigon, e lui era stato visto anche
lì una volta. Forse questi erano i suoi tentativi di evasione. In tal
caso, erano fallimenti. L’incantesimo deve essere stato di quelli
indecifrabili. Il direttore − l’uomo che ascoltò l’esclamazione
prima parte
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− era stato così colpito dal tono, dal fervore, dal rapimento, da
quello che preferite, o forse dalla sua incongruenza che aveva
raccontato il fatto a più di una persona.
«Un tipo strano, quello svedese», fu il suo unico commento;
ma questa è l’origine del nome “Heyst l’incantato” che alcuni
compagni affibbiarono al nostro uomo.
Aveva anche altri nomi. Nei suoi primi anni, molto prima
che diventasse così calvo sulla parte alta della testa, andò a consegnare
una lettera di presentazione al Sig. Tesman della Tesman
Brothers, una ditta di Sourabaya – una ditta di prim’ordine. Bene,
il signor Tesman era un vecchio gentiluomo affabile e benevolo.
Non sapeva cosa pensare di quel visitatore. Dopo avergli detto
che desideravano rendere il suo soggiorno tra le isole il più piacevole
possibile, e che erano pronti ad aiutarlo nei suoi piani, e
così via, e dopo aver ricevuto i ringraziamenti di Heyst − il solito
tipo di conversazione che ben conoscete – cominciò a chiedergli
con un tono lento e paterno: «E voi siete interessato a…?».
«Fatti», interruppe Heyst con la sua voce cortese. «Non c’è
niente che valga la pena sapere se non fatti. Fatti concreti! Solo
fatti, signor Tesman».
Non so se il vecchio Tesman fosse d’accordo con lui o no,
ma deve averne parlato in giro, perché, per un certo periodo, il
nostro uomo si guadagnò l’appellativo di “Fatti concreti”. Ebbe
la singolare fortuna che i suoi detti gli rimasero attaccati e divennero
parte del suo nome. Successivamente navigò attorno
al Mar di Giava in alcune golette commerciali dei Tesmans, e
poi sparì a bordo di una nave araba, in direzione della Nuova
Guinea. Rimase così a lungo in quella parte periferica del suo
cerchio magico che fu quasi dimenticato prima di prendere di
nuovo la via del mare in una piroga 1 indigena piena di vagabondi
Goram, bruciato di nero dal sole, magrissimo, con i capelli
assai radi e una cartella di disegni sotto il braccio. Li mostrava
volentieri, ma era molto riservato per qualsiasi altra cosa. Aveva
avuto un «periodo divertente», diceva.
1 Praho nel testo.
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Vittoria. Un racconto delle isole
Un uomo che va in Nuova Guinea per divertimento… Beh!
Più tardi, anni dopo, quando le ultime vestigia della giovinezza
erano sparite dal suo viso insieme a tutti i capelli dalla
parte superiore della sua testa, e la sua coppia di baffi orizzontali
rosso-oro era cresciuta fino a raggiungere proporzioni davvero
nobili, un certo uomo bianco poco raccomandabile gli affibbiò
un epiteto. Posando con una mano tremante un lungo bicchiere
svuotato del suo contenuto − pagato da Heyst − disse, con quella
deliberata sagacia che nessun semplice bevitore di acqua ha mai
raggiunto: «Heyst è un puffetto gentiluomo. Puffetto! Ma è un
ut… uto… utopista».
Heyst era appena uscito dal luogo di ristoro pubblico dove
veniva pronunciata questa dichiarazione. Utopista, eh? Sulla
mia parola, l’unica cosa che gli sentii dire che avrebbe potuto
influire sul punto fu il suo invito al vecchio McNab stesso. Voltandosi
con quell’atteggiamento improntato a una fine cortesia,
modulando la voce, che era la sua caratteristica evidente, aveva
detto con delicata giocosità: «Venite a dissetarvi con noi, signor
McNab!».
Forse era quello il motivo. Un uomo che poteva proporre,
anche scherzosamente, di placare la sete del vecchio McNab
doveva essere un utopista, un inseguitore di chimere; perché
Heyst, quanto a ironia, davvero ne aveva poca. E, forse, questo
era il motivo per cui egli generalmente piaceva. In quell’epoca
della sua vita, nella pienezza del suo sviluppo fisico, della sua
mole robusta, marziale, con la testa calva e i lunghi mustacchi,
assomigliava ai ritratti di Carlo , di avventurosa memoria.
Tuttavia, non c’era motivo di pensare che Heyst fosse in qualche
modo un uomo disposto a menare le mani.
Un viaggio nei sentimenti più profondi di un uomo che
non ha mai conosciuto la violenza o l’amore e che è costretto
a difendere la sua vita e quella della giovane donna di cui
è innamorato dall’irruzione del male.
Un vicenda intensa, in un’ambientazione esotica, tra le
rovine di un passato coloniale che grava sulle coscienze,
immersi in una natura densa di presagi e perturbanti
presenze in cui si rispecchiano le inquietudini di un’età
attraversata da una crisi profonda. Un romanzo diverso, che
riprende alcuni motivi già presenti negli altri capolavori di
Conrad e che si avvicina alla sensibilità e ai temi affrontati
nelle opere dei più grandi scrittori europei dei primi del
Novecento.
J C è lo pseudonimo del romanziere inglese di origine
polacca Teodor Josef Konrad Korzeniowski (Berdicev, all'epoca in
Polonia, oggi in territorio ucraino, 1857-Bishopsbourne, Kent, 1924).
La sua famiglia apparteneva alla nobiltà terriera della Polonia, allora
sotto il dominio russo e il padre, fervente patriota, subì l’esilio
politico. Alla sua morte, spinto da un irresistibile impulso per la vita
di mare, a soli diciassette anni iniziò la sua avventura, prima nella
marina mercantile francese e poi in quella britannica. Dopo
vent’anni di viaggi, divenuto cittadino inglese, si dedicò all’attività
letteraria, incoraggiato da alcuni scrittori suoi amici: Galsworthy,
Wells, Ford Madox Ford, Edward Gamett. Tra le sue opere più
importanti, scritte in inglese, la sua terza lingua, dopo il polacco e il
francese, che affrontano i temi comuni al Decadentismo europeo,
ricordiamo, La follia di Almayer (1895), Lord Jim (1899-1900 pubblicato
a puntate sul Blackwood's Edinburgh Magazine), Cuore di tenebra
(1899), Nostromo (1904), La linea d’ombra (1906), Con gli occhi dell'occidente
(1911), Vittoria (1915).
traduzione di Giuseppe Pascarelli
€ 14,00