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Indice
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#Editoriale
Palin: la reazione del
sommerso
#Area
Pasolini
#Ritratti:
Pier Paolo Pasolini
4
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Le nuove voci: la reazione di
Igiaba Scego
Storie di rifiuti e reazioni
Iliade, Orgoglio e pregiudizio,
Il barone rampante.
#PalinParlaCon:
Librerie ‘reazionarie’ e dove
trovarle.
Intervista a Giorgio
Santangelo, co-fondatore
della libreria indipendente
«La confraternita dell’uva» di
Bologna
Reagire all’inevitabile:
Demostene, voce di un ribelle
o di un illuso?
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33
39
43
#Area
Heisenberg26
#Ritratti:
Werner Karl Heisenberg
Reazione all’umano. Anche
le macchine provano
sentimenti?
#PalinParlaCon:
Scienza, ricerca e territorio:
un rapporto di reazione.
Intervista a Raffaele
Agostino, docente di Fisica
dell’Università della Calabria
5g, radiazioni e reazioni
sull’uomo.
Una reazione ci salverà
#Bootleg
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Il signor G, Giorgio Gaber
e il teatro canzone. eazione
all’umano. Quando ‘canzone’
fa rima con ‘reazione’
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72
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#Area
54
Warhol
#Ritratti:
Andy Warhol
La rosa reazionaria: Gulabi
Gang e Nishtha Jain
#PalinVisita:
La Galleria de’ Foscherari
#PalinParlaCon:
Quando l’arte reagisce alla
pandemia.
Intervista a Lorenzo Balbi,
direttore del MAMbo – Museo
di Arte Moderna di Bologna
Reazione come nuova
definizione artistica dell’essere
e dell’agire
Pubblica reazione artistica
Dissenso e provocazione.
La strategia reazionaria del
“purché (non) se ne parli
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89
94
#Area
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Gramsci
#Ritratti:
Antonio Gramsci
Reagire dal basso. Il potenziale
dei piccoli borghi e la lezione
di Riace
#PalinParlaCon:
Continuare a muoversi per
ottenere il diritto di restare
fermi. Palin parla con Andrea
Costa di Baobab Experience
Quando un fruttivendolo ha
cambiato il mondo. La storia di
Mohamed Bouazizi
Minoranze: le conseguenze
del non appartenere
#Progetto
100
Grafico
Gabriele Conte
2
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Palin:
reazióne s. f. [der. di reagire, secondo il modello del rapporto agire-azione].
– Azione che si oppone ad altra azione. Da questo sign. centrale e generale si articolano i varî sign.
che la parola assume nell’uso comune e come termine di molte scienze e tecniche.
1. Nell’uso comune: a. L’atto o il comportamento con cui si reagisce, si risponde a un’offesa, a una
violenza, a cosa che si ritiene non giusta
La reazione dei nostri tempi è qualcosa di
difficile da definire. Negli ultimi mesi l’impressione
generale sembra quella di non aver un
punto preciso di direzione, come quando si
entra in galleria; o quando si è disperatamente
alla ricerca di qualcosa e pur scavando non
si va mai oltre uno spesso strato di superfici.
Ma siamo anche all’interno di una strana
congiuntura storica, la quale vede il termine
Reazione porsi come una categoria su cui
è urgente riflettere. Il soggetto riposizionato
dei nostri tempi produce una ridistribuzione
in senso più democratico della stessa possibilità
di esprimersi e parlare.
‘To speak’, in questo senso, vuol dire ‘agire’ in
uno spazio di segni sociali riconosciuti e riconoscibili
(oltre che interpretabili). Assistiamo,
d’altra parte, a una collocazione incerta che
origina un sentimento di perenne sospensione,
identità ambigue e multiple, propense
allo straniamento sociale e alla lontananza
dagli incidenti quotidiani, che ribadiscono
nella condizione di ‘straniero’ un’ineluttabile
colpevolezza, anche in chi appare perfettamente
integrato.
Illustrazione di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_
Scritto da Massimo Salvati
La reazione del sommerso
È nelle pieghe e nei grumi della Storia, che
possiamo trovare tutte quelle micro-storie
(con la s minuscola e che unite formano la
vera Storia) i cui echi e rimandi riescono a restituire
esempi di reazioni e rifiuti, ribelli portatori
di un riesame storico dei propri modelli,
per migliorarli.
A questo proposito, sull’emersione di nuove
voci, portatrici di un riesame storico-culturale,
pronte a sfidare le coordinate delle topologie
affermate, Derobertis [1] ha scritto che più
che parlare di una rimozione del passato, si
dovrebbe intendere l’argomento come una
«forma di disseminazione ignorata ma capillare
di ricordi privati e di memorie di singoli
gruppi che non hanno avuto accesso o voce
nel discorso pubblico», la quale è altamente
pervasiva nella storia coloniale e post-coniale
italiana ad esempio.
Con tutta probabilità la Reazione che abbiamo
davanti, scoglio o iceberg il cui semplice
tocco potrebbe affondare la nostra nave, o
meglio barcone, di certezze, si configura come
qualcosa di difficile e poco semplificabile. La
stessa comprensione del nostro presente, e
l’eterogeneità costitutiva che lo caratterizza,
sono stati passaggi cruciali e che abbiamo
tentato di cogliere.
Analizzando le parti sociali chiamate a prendere
coscienza delle nuove possibilità di
esprimersi, noi di Palin ci siamo interrogati
sulle opportunità inedite di esprimersi del
subalterno, le sembrano possibilità oggi non
troppo lontane dal realizzarsi.
Perciò, noi di Palin, con le nostre microvisioni
del reale, abbiamo cercato di cercare, studiare,
analizzare le varie possibilità di reazione, rifiuto,
cambiamento che l’attuale congiuntura storica
sembra suggerire. Quel processo di livellamento
preconizzato all’inizio degli anni
Duemila, non si è concluso nella costrizione
di uno spazio planetario ‘liscio’. Al contrario,
esso si configura come un insieme di processi
complessi e contradditori, in cui la riorganizzazione
del mercato mondiale come ambito di
riferimento delle operazioni fondamentali del
capitale è costretta a misurarsi con molteplici
resistenze e attriti, i quali danno luogo a una
profonda eterogeneità di formazioni spaziali,
economiche, politiche, sociali e culturali.
Un insieme di temi trasversali: la crisi della
forma moderna di stato a fronte dei processi
globali contemporanei, le tensioni a cui
vengono sottoposti concetti politici fondamentali
(per esempio quello di cittadinanza),
il rilievo costitutivo dei movimenti migratori
e più in generale delle pratiche di mobilità
per il mondo in cui viviamo, l’esigenza di
ripensare la categoria di ‘forza lavoro’ ( e il
problema della sua ‘produzione’), lo spiazzamento
dello sguardo rispetto alla centralità
indiscussa dell’Europa e dell’Occidente,
la nostra stessa capacità di percepire uno
spazio aggregativo di contro all’emergenza
sanitaria.
Questi e altri temi sono indagati da Palin con
un metodo che punta a far emergere le formidabili
tensioni che segnano l’attuale congiuntura
storica a livello mondiale, puntando
sulle inedite risposte delle resistenze, delle
reazioni e delle tensioni locali, come capaci
di rimettere in gioco lo schematismo immobile
dei nostri tempi.
Note:
[1] Derobertis, Roberto (a cura di), Fuori centro, Percorsi postcoloniali nella letteratura italiana,
Aracne, Roma, pp. 57-71.
4 Palin: La reazione del sommerso
Palin: La reazione del sommerso
5
Illustrazione di Antonio Cammareri, @_elenamuti_
Palin incontra Pasolini, che usa la
letteratura per raccontare la realtà.
Con lui Palin scopre che il mondo là fuori
è fatto di parole, storie e racconti, capaci
di creare nuovi universi.
Quest’area tratta quindi di Letteratura
e realtà, cercando di indagare il mondo
letterario nella sua più ampia accezione,
attraversando modernità e antichità,
linguistica e letterature straniere, senza
porsi limiti nelle sue esplorazioni.
Per amare la cultura occorre una forte vitalità.
Perché la cultura è un possesso: e niente necessita di una più
accanita e matta energia che il desiderio di possesso.
Pier Paolo Pasolini
Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_
Illustrazioni di: Roberto Stefanelli, @bertorex
#Area Pasolini
Pier Paolo
Pasolini
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»
(Sono un uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo)
L’espressione è pronunciata da Cremete, personaggio di una commedia latina di Terenzio, ma
è Pasolini che sembra proferirla.
Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922
– Roma, 2 novembre 1975) è scrittore, poeta,
giornalista, drammaturgo, filosofo, traduttore,
saggista, critico ma soprattutto altro:
uno e plurimo al tempo stesso, uomo a sé
e intellettuale versatile e “alieno”. In una
società che ama dettare canoni di omologazione,
Pasolini si interroga sulle motivazioni
e sulle conseguenze, imponendosi di
andare controcorrente e captare tutte le
sfaccettature più intime dell’umana natura,
i vizi e le virtù, l’intelletto e la forza, l’indole e
le debolezze, le luci e le ombre. Come forse
nessun altro prima, Pasolini sembra quasi
essere un “profeta culturale” e al contempo
possessore dell’enorme capacità di veicolarla
a chiunque, scavallando classi sociali
e pregiudizi. Amante della geografia dell’animo
umano, Pasolini è anche un grande
viaggiatore nella realtà, sul doppio binario
tra mondo esterno e mondo interiore,
mettendo in connessione l’uno con l’altro.
Studioso e “attualizzatore” del passato,
riesce a mettere mano a materia letteraria
lontana secoli rendendola viva e pulsante,
specchio di quel continuo teatro unico che
è l’esistenza. L’esistenza, che possiede
e utilizza un suo proprio linguaggio che
lui riplasma e traduce nella sua contemporaneità
e con i suoi nuovi linguaggi.
Un uomo che osserva, analizza e conosce
l’uomo, un intelletto e una sensibilità ai quali
l’umano non può sfuggire e, di conseguenza,
non può essere estraneo.
8
#Ritratti: Pier Paolo Pasolini
Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego 9
Scritto da Massimo Salvati
LE NUOVE VOCI:
La reazione di
Igiaba Scego
Igiaba Scego, attraverso la sua ultima opera, La linea del colore (Bompiani 2020), conferma la necessità
di ripensare delle categorie che oggigiorno suonano sempre più come solchi, o linee divisorie, tra
Noi e l’Altro.
#Area Pasolini
La riscrittura del nostro passato, soprattutto
quello del passato recente, fa parte di un’esigenza
dettata dal riemergere di storie e microstorie
disseminate nella memoria collettiva.
Ne consegue che molte voci di nuova generazione
abbiano ‘preso la parola’, secondo nuove
e inedite possibilità di esprimersi, sulle tracce
di un famoso saggio della filosofa Gayatri
Spivak, Can the subaltern speak? (1988); e
sembrano rievocare un passato a noi sconosciuto,
diverso, quasi ‘sommerso’ della nostra
coscienza storica:
Sono cosa? Sono chi? Sono nera e italiana.
Ma sono anche somala e nera.Allora
sona Afro italiana? Italo africana? Seconda
generazione? Incerta generazione? Meel kale?
Un fastidio? Negra saracena? Sporca negra?
Non è politicamente corretto chiamarla così,
mormora qualcuno dalla regia. Allora come
mi chiameresti tu? Ok, ho capito, tu diresti di
colore. Politicamente corretto, dici. Io lo trovo
umanamente insignificante. Quale colore di
grazia? Nero? O piuttosto marroncino? Cannella
o cioccolato? Caffè? Orzo in tazza piccola? Sono
un crocevia, mi sa. Un ponte, un equilibrista,
una che è sempre in bilico e non lo è mai. Alla
fine, sono solo la mia storia. [1]
La scrittrice Igiaba Scego, con la sua opera,
rimanda alla percezione di un continuo frazionamento
di sé stessa davanti a interlocutori
italiani che misurano ogni micro-segmento
di adesione allo standard italico, o a quello
di provenienza somala, che è emblematica
del proprio consapevole spacco di coscienza,
squarcio verticale, che divide la soggettività
dell’individuo, rilevando come pure esistono,
e coesistono, elementi plurimi che coabitano
l’unicità del soggetto: risorse, immaginari e
linguaggi accompagnano il divenire di identità
mai statiche, le quali, come nella metafora
narrativa di Scego, corrispondono alla
presa di consapevolezza del «sono solo la
mia storia».
Il titolo del libro è, come la stessa Scego definisce,
«un omaggio (e citazione diretta) a
W.E.B Du Bois. La linea del colore è quella
che ancora divide, ma per Lafanu Brown
assume anche un altro significato, è la linea
della sua arte, quella della sua emancipazione».
È un viaggio verso la propria storia
quello che Scego descrive: una narrazione
che si muove a ritroso verso le pieghe del
proprio passato, delle radici della propria
coscienza storica.
Nella sua narrativa, la Scego riflette spesso
sul meticciato, sull’ ibridismo, il cui status,
misto con i ‘confini confusi’, è una condizione
che si iscrive nella medesima identificazione
corporea di fronte allo specchio. La sua opera,
benché sia inizialmente inserita nella letteratura
della migrazione, e soprattutto nelle scritture
della cosiddetta seconda generazione
degli scrittori migranti, dovrebbe invece
essere esaminata alla luce della letteratura
postcoloniale dove la stessa esperienza del
migrante, con le possibilità narrative offerte
dall’avere un ‘punto dal basso’ (Gilroy) diventano
identificative di dinamiche sociali folkloricamente
italiane, le quali sono indice di ulteriori
potenzialità narrative delle ‘nuove voci’:
I nobili romani erano pieni di debiti, ma non
rinunciavano ai loro salamelecchi regali e
a quelle orrende conversazioni sul niente.
Betsabea la portava da quei nobilastri perché
si esercitasse sui volti. «Sono una ben strana
umanità,» le diceva complice. «Hanno facce
da museo. Ti potrai esercitare molto facendo
il tratto a questo circo delle meraviglie». E così
per mesi, che poi erano diventati anni, Lafanu
Brown era stata convocata in quei mastodontici
palazzi, che alla prima occasione erano stati
venduti ai nuovi padroni di Roma, i piemontesi,
per farci stazione e piazze di passaggio. Ma se
i nobili lasciano a desiderare – puzzavano di
porte chiuse e paure ancestrali –, le loro ville
erano invece un autentico splendore. [2]
Notiamo come lo sguardo antropologico sia
ribaltato definitivamente. Il soggetto subalterno
assume la stessa possibilità di parlare,
to speak (Spivak), e di giudicare le pratiche
del mondo circostante. Non in modo ‘selvaggio’
e disarticolato, ma con una critica che è
emblematica di una rovinosa caduta delle
antiche famiglie nobiliari, in virtù dello stesso
cambiamento dei tempi.
La storia delle deportazioni e la storia dello
squarcio verticale della coscienza del ‘Negro’
appartengono a una configurazione storica
in cui lo spazio socio-culturale cosmopolita,
ibrido e decolonizzato, come quello di Scego,
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Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego
Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego 11
può essere pensato dalle diverse comunità
nere come background culturale comune
su cui ricreare identità culturali e politiche
alternative: è ciò che Gilroy ha indicato nel
concetto di «Atlantico nero» [3] , ossia lo sfondo
su cui si è costruita la black diaspora.
Baby Sue mi ha dato una ciocca dei suoi
capelli. Mi ha detto: «Lanciala nell’acqua. Lì
in quell’oceano tetro come la notte sono state
gettate mia sorella e mia madre. Non so come
sono sopravvissuta a vederle soffrire sotto il
peso di quegli uomini orribili. Non è umano
vedere la propria madre o la propria sorella
umiliata in quel modo. Non le ho viste morire. I
loro corpi sono stati riempiti dall’alito di troppi
uomini, e dopo che si sono divertiti abbastanza
le hanno gettate agli squali. Sono morte sotto
il peso di quelle bestie, ma io so che sono lì.
In quel mare hanno creato un’altra vita. Ogni
tanto le vedo in sogno».
La memoria della schiavitù, del colonialismo,
della diaspora, del meticciato, attivamente
preservate quali vive risorse intellettuali
nella cultura narrativa e sociale, suggeriscono
un modo di rispondere alla «dialettica
dello spaesamento» (Glissant) mirando a
scrivere storie che non partano da un punto di
vista eurocentrico, per narrare come le culture
dissidenti della modernità dell’Atlantico
nero abbiano sviluppato e cambiato questo
mondo frammentato, contribuendo con
enormi risorse alla salute morale del nostro
pianeta e delle sue aspirazioni democratiche [4] .
Senza pretendere di dare una risposta a
queste domande, le quali richiederebbero
molte più trattazioni di quelle realizzabili in
questa sede, limitiamoci a notare come la
presa di coscienza di autori migranti e provenienti
dalle ex-colonie abbia iniziato a mettere
in questione il canone della letteratura italiana
e l’identità che su di esso si fonda, non senza
provocare reazioni difensive in un Paese nel
quale, grazie all’opera (recente però) di storici
e romanzieri [5] , il colonialismo comincia a non
essere più considerato marginale.
Un modo per evadere da quella «violenza
epistemica» (Spivak) sembrerebbe quella
di ricacciare ogni linea divisoria, ogni muro
o Vetro che fornisce e incoraggia lo specchio
dell’abbruttimento e della negazione
sull’Altro. Le nuove possibilità offerte dalle
esperienze inedite di congiunzione culturale
e di meticciato sembrano fornire altrettante
soluzioni per poter osservare, da una
realtà nuova, una micro porzione del reale non
mediata dallo sguardo bianco, non filtrata dal
vetro della nostra cultura di europei.
#Area Pasolini
Fonti:
[1] Scego, La mia casa è dove sono, Loescher, Torino 2012, pp. 33 s.
[2] I. Scego, La linea del colore, Bompiani, Milano 2020, p. 25.
[3] P. Gilroy, The Black Atlantic: l’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Milano
2019
[4] op. cit. p.47.
[5] Cfr., tra gli altri, D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche d’occupazione dell’Italia
fascista in Europa 1940-1943, Bollati Boringhieri, Torino 2003; V. Perilli, Miti e smemoratezze del
passato coloniale italiano, in «Controstorie», n. 1, 2008, http://www.controstorie.org/content/
view/8/32/; N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna
2002; C. Raimo, Contro l’identità italiana, Einaudi, Torino 2019.
#Area Pasolini
12 Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego
Le nuove voci: La reazione di Igiaba Scego
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Scritto da Daniele Costantini
#Area Pasolini
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante
Storie di rifiuti
e reazioni
Achille rifiuta di entrare in guerra fino alla morte di Patroclo, che scatena la sua reazione, un impeto
di rabbia funesta che custodisce in grembo un amore profondo.
Elizabeth rifiuta la proposta di matrimonio di Mr. Collins, e il suo rifiuto nasconde e palesa la reazione
nei confronti di un sistema maschilista e patriarcale all’interno del quale le donne non hanno il
minimo potere decisionale.
Cosimo di Rondò rifiuta un piatto di lumache salendo, per reazione, su di un albero. Reagendo così
non solo alle imposizioni di suo padre ma anche al sistema nobiliare, con le sue pratiche, le usanze e le
vuote apparenze. Cosimo rifiuta di leggere la sua vita come un ordine precostituito fatto di regole da
rispettare e domande da non porsi, e reagisce costruendosi una sua personale dimensione di libertà.
Tre esempi di rifiuto, tre storie di reazione.
Una reazione è, riportando dall’enciclopedia
Treccani, un «atto o comportamento con
cui si risponde a un’offesa, a una violenza e
simili». L’atto di risposta, quindi, a un’azione
che potrebbe arrecare danno al soggetto
spinto a reagire.
dalla cultura vigente nella sua epoca, dall’adesione
o dalla reazione al proprio contesto
sociale e, fondamentale, da un avvenimento
improvviso e non prevedibile.
Achille
#Area Pasolini
Non di rado un atto di reazione è legato a
un rifiuto, il quale potrebbe sia coincidere
con la reazione stessa (reagire ad un ordine
rifiutandosi di eseguirlo), sia esserne il fattore
scatenante (il rifiuto di un’alleanza può scatenare
una crisi diplomatica).
Analizzando tre casi letterari di re-azione
tra loro diversi, si nota come ognuno di essi
venga determinato dall’indole del protagonista,
La guerra di Troia è in pieno svolgimento. I
Greci assediano la città nemica ormai da
tempo, in un continuo susseguirsi di battaglie
tra guerrieri feroci e divinità partigiane.
Accade però, ad un certo punto, che qualcosa
s’incrini tra le fila achee. Agamennone, il
re condottiero, costretto a liberare la schiava
scelta per sé dopo l’ultimo assedio al villaggio
vicino (essendo lei figlia di un sacerdote di
Apollo e per questo protetta dal dio) sceglie
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Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni 15
affascinato dai discorsi epici di Ulisse. Decide
così di appropriarsi delle armi e dell’armatura
di Achille – all’insaputa di questi – e di recarsi
sul campo di battaglia. Lì, alla vista di quello
che sembra Achille, si scatena il panico. Ettore,
principe di Troia e condottiero del suo esercito,
lo affronta, convinto di trovarsi di fronte
all’invincibile guerriero, e lo uccide.
#Area Pasolini
Quando la notizia dell’accaduto raggiunge
Achille, la sua reazione è incontrollata.
#Area Pasolini
di rimpiazzarla con la schiava che era stata
assegnata ad Achille, il più valoroso e temuto
dei combattenti, figlio di un uomo e di una
dea nonché condottiero dell’esercito più spietato
tra tutti gli eserciti: quello dei mirmidoni.
Così Achille, ferito più nell’orgoglio che nella
sfera degli affetti, si ritira, adirato, dalla battaglia.
I dissapori fra lui e Agamennone affondavano
le radici in avvenimenti più antichi,
per cui l’episodio della schiava Briseide è
soltanto la celebre goccia che fa traboccare
il vaso. A quel punto, comunque, la situazione
dell’esercito greco, senza Achille e i mirmidoni,
si complica terribilmente. Vani sono tutti
i tentativi di convincere il Pelide a tornare a
combattere, finanche quello di Ulisse, il più
abile oratore, che porta messaggi di scuse
e promesse di ricche offerte da parte del re
pentito. Achille è irremovibile nella sua ira.
In quei giorni di astinenza dalla lotta però, che
lo inducono addirittura a riflettere sull’inutilità
di una tale guerra (e in fondo della guerra in
generale), non è solo. Patroclo, suo cugino e
secondo numerose ricostruzioni anche suo
amante, trascorre il tempo con lui, ed essendo
egli più giovane e inesperto, e il suo nome
ancora totalmente sconosciuto ai nemici, resta
Torna così a combattere con furia inaudita
persino per la sua fama, e trucida decine
e decine di soldati troiani fino ad arrivare al
cospetto di Ettore. Lo sfida, e quello, consapevole
di andare incontro a morte certa,
rassegnato, accetta la sfida. Achille vince
e, ancora in preda alla sua ira disumana, fa
scempio del cadavere del nemico, legandolo
alla sua biga e trascinandolo lungo il
perimetro delle mura della città.
La storia va poi avanti come sappiamo, ma
è interessante qui capire il meccanismo alla
base della reazione di Achille. Dentro la sua
reazione c’è, infatti, la rabbia per l’oltraggio
subìto, l’incontrollabile desiderio di vendetta
ma, soprattutto, il senso di colpa per non
essere stato in grado di proteggere, conservare
e preservare quell’affetto che aveva, a
ben vedere, tutti i tratti dell’amore. Perciò la
sua violenta reazione è, in fondo, l’espressione
del suo profondo amore per Patroclo,
manifestato con l’atto per lui più naturale, il
combattimento, e con l’unico strumento che
padroneggia perfettamente: la spada. È, in
altre parole, la manifestazione più spontanea
e sincera dell’amore verso l’unica persona che
probabilmente avesse mai davvero amato.
Lui, che combatte solo per sé stesso, e che
sempre e solo per sé stesso smette addirittura
di farlo (è dopo aver subìto un affronto
personale che si ritira), in quell’occasione non
si batte per la gloria degli eroi e per l’immortalità
del nome, ma lo fa, per la prima volta, in
nome di qualcun altro. Reagisce per vendetta
e si batte per amore.
Inutile dire che la reazione di Achille indirizzerà
in modo decisivo l’andamento del conflitto.
Senza di essa i Greci avrebbero concretizzato
l’ipotesi che già si stava facendo largo prima
del suo intervento: girare le navi e tornare a
casa.
Ma la reazione di un uomo che ha perso
l’amore può valere così tanto da decidere le
sorti di una guerra.
Elizabeth
Quando in Orgoglio e pregiudizio, il romanzo
più conosciuto di Jane Austen, Mr. Collins si
reca a casa Bennet per chiedere la mano di
Elizabeth, secondogenita di cinque sorelle,
non può immaginare, per quella che è la
mentalità sua e più in generale di tutta una
società, di stare andando incontro a un secco
rifiuto.
Siamo nell’Inghilterra rurale di inizio XIX
secolo, e il matrimonio all’epoca, e fino a
molti anni più tardi, è un’istituzione in ogni
senso fallocentrica, o meglio ‘fallodiretta’:
è l’uomo a scegliere la donna da sposare, è
l’uomo a proporre il matrimonio ed è l’uomo,
infine, a svolgere l’indiscusso ruolo di capofamiglia.
Per questo Mr. Collins intende la sua
visita a casa Bennet più come una formalità
che come un’incognita da risolvere. Dice,
infatti, di essersi recato nell’Hertfordshire con
il preciso intento di scegliersi una moglie e
che la fortunata risulta essere, dopo attente
valutazioni parentali ed economiche, proprio
Elizabeth. Solo che lei, Elizabeth, ragazza
brillante e consapevole, declina l’offerta
mostrandosi assolutamente non intenzionata
a sposarlo.
Rifiuto, quindi. E la reazione? La reazione c’è
poco dopo, quando Collins mostra quanto
poco valgano le parole della ragazza alle sue
orecchie. Dice infatti:
Quando avrò l’onore di parlarvi la prossima
volta di questo argomento spero di ricevere
una risposta più positiva di quella che adesso
mi avete concessa, sebbene sia lungi da me
l’accusarvi di crudeltà, dato il costume del vostro
sesso di respingere un uomo alla sua prima
proposta, e forse voi stessa avete già detto
abbastanza da incoraggiare i miei propositi,
con tutta la delicatezza dell’animo femminile.
Elizabeth è comprensibilmente incredula
davanti a una comunicazione tanto ìmpari,
e replica:
Davvero, Mr. Collins, [...], mi sconvolgete
immensamente. Se quanto vi ho detto può
sembrarvi una forma di incoraggiamento, non
so davvero come esprimere il mio rifiuto perché
voi possiate convincervi che sia davvero tale.
Il rifiuto coincide qui con la reazione, e non
esprime in questo caso soltanto la volontà
di non sposarsi con un uomo che a stento
conosce e per il quale non prova nulla, ma
incarna un primo baluardo di resistenza al
sistema patriarcale da sempre in vigore in
16 Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
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Occidente e non solo. Le parole che veicolano
questo primo fuoco di resistenza e rivolta
sono d’una veemenza e una bellezza rare:
la propria personale felicità.
Cosimo
sono inesperti di galateo e buone maniere
e gli adulti li richiamano in continuazione, li
umiliano e li puniscono. In un tale clima di
dissapori e ripicche, succede un giorno che
Cosimo rifiuti un piatto di lumache, scelto
come simbolo del potere genitoriale e dell’insopportabile
arroganza della sorella maggiore.
Il narratore infatti informa:
Il modo in cui le lumache eccitavano la
macabra fantasia di nostra sorella, ci spinse,
mio fratello e me, a una ribellione, che era
insieme di solidarietà con le povere bestie
straziate, di disgusto per il sapore delle lumache
cotte e d’insofferenza per tutto e per tutti, tanto
che non c’è da stupirsi se di lì Cosimo maturò
il suo gesto e quel che ne seguì.
Ai ripetuti ordini minacciosi del padre, Cosimo
reagisce salendo su un albero del loro giardino
e promettendo al suo nobiliare genitore,
e al resto del mondo, che da lì non sarebbe
più sceso.
Calvino intesse poi una trama fantastica e
fuori dal tempo, ricca di personaggi e situazioni
diverse, alcune improbabili, altre del tutto
assurde, ma la promessa fatta da Cosimo,
la decisione di fare della sua reazione una
ragione di vita, non verrà mai meno. Il giovane
infatti su quegli alberi crescerà, scoprirà
l’amore in Viola, condurrà rivolte e conoscerà
Voltaire attraverso uno scambio di lettere.
Senza scendere mai a terra. Il rifiuto delle
logiche aristocratiche e nobiliari, dell’etichetta
mondana, della costruzione di un’immagine
artefatta di sé e della sua famiglia, sarà ciò
che gli permetterà di vivere davvero la sua
vita, in maniera intensa e istintiva: libera. E
mai rinuncerà alla sua libertà, mai scenderà a
contraddirsi. Tanto che alla fine, ormai vecchio,
quando l’inevitabile morte avrebbe potuto da
un momento all’altro buttarlo giù, come un
corpo ormai spento che si abbandona alla
forza di gravità, Cosimo si aggrappa a una
mongolfiera e, arrivato a sorvolare il mare, si
lascia cadere nell’infinità dell’acqua. Che non
è, e mai sarà, terra.
Una reazione come rifiuto alla prigionia, una
reazione per la libertà.
Amore, felicità, libertà: quando sui tre vocaboli
più abusati vengono edificate storie di
reazioni del tutto prive di retorica.
#Area Pasolini
Vi ringrazio ancora e ancora per l’onore che
mi avete fatto con la vostra proposta, ma
accettarla per me è assolutamente impossibile.
I miei sentimenti me lo vietano sotto ogni aspetto.
Posso esprimermi più chiaramente di così?
Non consideratemi adesso come una donna
raffinata che si diverte a stuzzicarvi, ma come
una creatura razionale, che dice la verità dal
più profondo del suo cuore.
Dopo questa conversazione nulla farà
cambiare idea alla giovane donna, né l’insistenza
ottusa del goffo pretendente, né i deliri
di sua madre, né – soprattutto – la paura che
a quel tempo attanagliava la maggior parte
delle ragazze della sua età, quella cioè di
rimanere nubili, non scelte come mogli e
future madri da alcun uomo.
Altra storia di ribellione, altra storia di reazione.
In fondo, in modi ogni volta diversi, si può
forse affermare che rifiuto, reazione e ribellione
siano tra loro legati, a volte disposti in
un rapporto di causa/effetto-conseguenza,
altre addirittura sovrapposti per formare un
unico processo che ha, sempre, una direzione
controcorrente.
Cosimo Piovasco di Rondò, protagonista de Il
barone rampante di Italo Calvino, ha dodici
anni, vive nel Settecento ed è figlio del ricco
e conosciuto barone di Rondò. A raccontare
la sua storia è suo fratello, di quattro anni più
piccolo di lui.
Fonti:
[1] Omero, Iliade, trad. it. G. Tonna, Garzanti 2014
[2] J. Austen, Orgoglio e pregiudizio, trad. it. M. La Russa, Feltrinelli 2018
[3] Calvino, Il barone rampante, Mondadori 2016
#Area Pasolini
Il rifiuto di Elizabeth, e la successiva reazione
alla prepotenza maschile, è un atto che scardina
dal basso il conglomerato obsoleto dei
valori sette-ottocenteschi.
Una reazione per l’autoaffermazione e per
Tutto inizia quando i due fratelli cominciano
a essere ammessi a tavola, durante i pasti,
insieme al resto della famiglia (in precedenza
avevano sempre mangiato nella loro stanza);
la breve convivenza durante pranzi e cene
però crea ben presto tensioni: i due fratelli
18 Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
Iliade, Orgoglio e Pregiudizio, Il Barone Rampante. Storie di rifiuti e reazioni
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#Area Pasolini
Scritto da Sibilla Fontanella
Librerie ‘reazionarie’
e dove trovarle
Intervista a Giorgio Santangelo, co-fondatore della libreria
indipendente «La confraternita dell’uva» di Bologna
Palin parla con Giorgio Santangelo, giovane proprietario e co-fondatore de ‘La Confraternita dell’Uva’,
libreria indipendente bolognese nonché luogo di scambio e di scoperta, che incarna perfettamente
lo spirito della città. Un contenitore trasparente, all’interno del quale i numerosi ed eterogenei elementi
di colore culturale possono essere visti, avvicinati, studiati da ogni angolazione.
Gli aperitivi letterari, la scoperta di prodotti
agroalimentari di qualità, le presentazioni
di libri, la passione per la letteratura e per
l’editoria indipendente sono elementi che
trovano, tutti, spazio in un progetto coraggioso
che risponde al nome di ‘La Confraternita
dell’Uva’, fondata cinque anni fa da Giorgio
Santangelo e Antonio Ciavarella nel centro
storico di Bologna.
Nell’ultimo anno, le librerie indipendenti come
quella di Giorgio e Antonio hanno dovuto riorganizzarsi,
riscoprire altri modi per perseguire
i propri obiettivi: anche la cultura vive
e si nutre attraverso le idee di imprenditori
che riescono a slegare il prodotto che
offrono dall’impossibilità fisica di aprire i
propri spazi.
È proprio nell’ottica di capire le interazioni tra
piattaforme digitali, librerie indipendenti e fedeltà
ai propri valori che Sibilla Fontanella ha deciso di
rivolgere alcune domande a Giorgio Santangelo.
Qual è il percorso che ha portato all’apertura
della libreria indipendente?
La libreria nasce dall’incontro e dalla
volontà di Giorgio Santangelo (io) e
Antonio Ciavarella nel dicembre 2016.
Ci chiamiamo ‘La confraternita dell’uva’ perché
questo nome ci sembrava l’ideale per raccontare
la nostra realtà: libreria e wine bar
insieme, scaffali ricolmi di libri e ottimi vini.
Inoltre, John Fante è il mio scrittore preferito
e quindi è una sorta di tributo alla sua memoria
e alla sua produzione.
Probabilmente avrete risposto centinaia
di volte alle curiosità di chi ricerca un significato
nella scelta del nome ‘Confraternita
dell’Uva’: come è possibile coniugare l’idea
di fondo e le sensazioni che racconta Fante
– che trovano difesa e territorio sicuro nello
spirito del vostro locale/libreria – con
la situazione presente che vi trovate ad
affrontare?
Portare avanti tutt’oggi questa mission è
più difficile, da un anno a questa parte ospitare
gente è complicato. Ci siamo però subito
mossi in modo da venire incontro al bisogno
delle persone che ci frequentano: organizzando
consegne a domicilio di libri, bottiglie,
veri e propri pacchetti aperitivo, regali e ceste.
Se la comunità non può venire in libreria, è la
libreria che va dalla comunità!
Librerie come servizi essenziali. Durante il
periodo di confinamento dello scorso anno
e poi nei mesi successivi, avete avvertito
il disagio di quelli che erano vostri clienti
abituali? Si sono avvicinati all’universo delle
librerie indipendenti anche nuove figure?
Le librerie sono state dichiarate attività
essenziali solo in un secondo momento e,
durante il lockdown di marzo 2020, sono state
chiuse. Le consegne a domicilio e le spedizioni
in tutta Europa ci hanno permesso di
avvicinarci a chi ci conosceva già ma anche
ad aprirci a tante nuove persone. Ricordo che
è capitato, alla riapertura, che una signora che
aveva ricevuto un pacchetto regalo da parte di
una persona cara durante il lockdown, venne
poi a in libreria spinta dalla curiosità di conoscerci.
Alla stessa maniera c’è gente che continua
a comprare i nostri libri a distanza, anche
senza essere mai venuta tutt’ora in libreria.
Da un po’ di tempo è attiva la piattaforma
Bookdealer.it. Cos’è cambiato grazie a
questo nuovo sistema?
Il mondo editoriale durante il lockdown non
è stato fermo e ha fatto tesoro della lezione
imparata da tante e tante librerie che, in tutto
lo Stivale, hanno deciso di non arrendersi alle
chiusure lavorando a distanza. Da questo
contesto sono nate alcune realtà, tra cui a
fine agosto 2020 Bookdealer.it, alla quale
abbiamo subito aderito.
Un portale che ha facilitato le nostre consegne
e spedizioni dandoci la struttura e la facilità
di un e-commerce. La differenza principale
è l’etica che c’è dietro.
Acquistando da questo portale, sarà una libreria
de te scelta a farti recapitare il libro, facendo
sì che il prezzo intero del libro finisca direttamente
nelle tasche della libreria. Inoltre, i libri
ti vengono consigliati dai librai stessi e non
da un algoritmo. L’unica maniera per scoprire
nuovi libri fuori dalla propria comfort zone.
Un circuito virtuoso che ci permette tutt’oggi
di spedire ovunque e competere contro i
colossi dell’e-commerce mondiali. Ne siamo
davvero felici.
Per approfondire la storia della ‘Confraternita
dell’uva’ si possono trovare altre letture interessanti
su About Bologna e ZERO oltre che
rimanere aggiornati seguendo le pagine
Facebook e Instagram!
Per approfondire la storia della ‘Confraternita
dell’uva’ si possono trovare altre letture interessanti
su About Bologna e ZERO oltre che rimanere
aggiornati seguendo le pagine Facebook
e Instagram!
#Area Pasolini
20 #palinparlacon: Librerie reazionarie e dove trovarle. Intervista a Giorgio Santangelo
#palinparlacon: Librerie reazionarie e dove trovarle. Intervista a Giorgio Santangelo
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Scritto da Martina Cofano
REAGIRE ALL’INEVITABILE:
Demostene, voce di un
ribelle o di un illuso?
Uno dei problemi politici più grandi del IV secolo a.C. solleva un interrogativo attuale: è più reazionario
chi avversa l’inevitabile o chi ribalta un modello passato per costruirne uno inedito?
Se la grecità costituì un vessillo in età arcaica
e classica, le carte avrebbero iniziato a mescolarsi
nel pre-ellenismo [1] con l’ascesa di Filippo
(fig.1, nell’illustrazione dell’arch. Panaiotis
Kruklidis) al trono di Macedonia nel 360 a.C..
Non il suo debutto, ma di sicuro l’inizio di un
grosso affare, la rivalità con Atene, ormai eclissata
nel microcosmo delle città-stato: dopo
lotte, episodi di diplomazia e persino una
pace, Filippo intraprese l’inevitabile guerra,
ma Atene non fece nulla per impedire la sua
avanzata. A nulla servì la ribellione: Filippo
sbaragliò gli Ateniesi e i complici Tebani
nella battaglia di Cheronea del 338 a.C..
La sua reazione a un dominio inevitabile e a
una grandiosa evidenza fu però assai singolare:
egli sognava non il potere della Grecia
tutta, ma il ripristino dell’Atene egemone. Le
Filippiche pronunciate contro il suo avversario
risultano dunque più la testimonianza di
un nostalgico parolaio, una «true lie» [3] , che
una fonte storica senza diaframmi.
C’è da dire che le posizioni dell’oratore ateniese
non furono sempre le stesse: se in un primo
periodo egli promosse istanze pacifiste, tuttavia
non andò mai nella direzione di una conciliazione
totale.
#Area Pasolini
Sono questi i prerequisiti che servono –
almeno in questa sede – per immergersi
nella ristretta schiera di voci che fino alla fine
si oppose al dominio, non velleitario e ormai
fattuale, del crudele, barbaro, violento Filippo.
Demostene (fig. in copertina, nella rappresentazione
del pittore ottocentesco Eugène Delacroix),
ateniese e di famiglia facoltosa, oratore per antonomasia,
non si stancò mai di sostenere la sua
democrazia: ad Atene il destino aveva assegnato
un ruolo, che al suo tempo era minacciato
da un tiranno «nemico della libertà» [2] .
La definizione di bàrbaro (lat. barbarus, da gr.
βαρβάροςβαρβάροςος) sintetizza la ‘geniale’ invenzione
greca per designare l’altro, uno straniero
per due volte e per questo in simmetrica antitesi
rispetto all’uomo greco. Essa costituisce
uno dei pilastri della reazione demostenica,
contestuale alla valorizzazione dell’imperialismo
ateniese: per lui Filippo «non solo non
è un greco e con i Greci non ha niente a che
fare, ma non è nemmeno un barbaro di un
paese da dove è bello dire di essere originari,
ma è un maledetto macedone (ὀλέθρουὀλέθρου
Μακεδόνος), di un paese da cui un tempo non
22
Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?
Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso? 23
propina un modello inedito e migliorante
(un modello antitirannico secondo i filomacedoni
Diodoro, Speusippo ed Isocrate); ne
consegue che chi non sia disposto a lasciare
il presente nel passato, sta sacrificando le
proprie intenzioni in una battaglia persa in
partenza. Dunque Demostene incarna in
sé la sincerità di un eroe romantico portatore
di sentimenti e ideali collettivi; ma l’altra
faccia della medaglia è un’incapacità di
fondo di dare ascolto alla storia.
Se Demostene fu promotore di una reazione
alla novità (Filippo), era un ribelle o un conservatore
illuso? Un ribelle o un conservatore
idealista? In sostanza: guardò più al passato
o al futuro della sua Atene?
Ai posteri l’ardua sentenza.
#Area Pasolini
Fonti:
#Area Pasolini
si riusciva a comprare neanche uno schiavo
decente!» [4] .
La sua resistenza si fece espressione di un
grande ‘a priori’: Atene e Sparta – immeritevoli,
perché incapaci di gestire il proprio
possesso – sarebbero comunque state un’alternativa
migliore rispetto a quello «schiavo
o figlio scambiato» (δοῦλος ἢ ὑποβολιμαῖος) che
è Filippo. I Macedoni però, pur memori della
precedente condizione schiavile, erano i nuovi
ricchi e Demostene sembrava ignorare tutti
i cambiamenti a cui la Grecia era andata
incontro nel corso di un secolo.
Resta, la sua, una coscienza dei valori antichi
e la strenua difesa della democrazia: ma
sui piatti di una bilancia pesa di più un sogno
passatista o un rischio all’avanguardia? Quella
di Demostene fu davvero reazione o soltanto
il tentativo di ripristinare qualcosa di astorico,
senza valore di circostanza?
Un filone della critica ha riconosciuto a Demostene,
al di là della qualità innegabile in fatto di oratoria,
una linea d’azione giusta[5], ma inapplicabile
per la forza dell’avversario. La scuola tedesca
ha posto l’accento sull’impatto negativo
di un’opposizione inutile, ostacolo all’unificazione
del mondo greco e all’eliminazione
del particolarismo delle città-stato.
Gli antichi – si sa – sono stati maestri, se non
di ideali, almeno di interrogativi sostanziosi.
E la vicenda del Demostene che Drerup definisce
un miope, richiama alla memoria un
grande problema: quando si reagisce, si è
più illusi o idealisti? La risposta è complessa,
individuale, troppo poco univoca per dare a
questa brevissima trattazione la parvenza di
un finale chiuso.
È forse una questione di adesione a paradigmi
più o meno consolidati dell’eroe-reazione,
che pure va storicizzato: il ribelle del IV
secolo è sicuramente Filippo, che propone/
[1] Si intenda la periodizzazione canonica lato sensu e si assuma l’inizio dell’ellenismo coincidente
con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), secondo la definizione di Droysen.
[2] G. Squillace, L’ultimo intervento di Filippo II in Tessaglia nella propaganda macedone e
antimacedone, Milano, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore,
2000.
[3] G. Mader, Fighting Philip with Decrees: Demosthenes and the Syndrome of Symbolic Action,
Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2006.
[4] Demosth. 9. 31.
[5] Tesi di H. Schaefer.
Guido Cortassa (cur.), Demostene. Filippiche, Garzanti, 1996.
Francesco Lamendola, Demostene il megalomane
Gottfried Mader, Fighting Philip with Decrees: Demosthenes and the Syndrome of Symbolic Action,
in «The American Journal of Philology», Autumn, 2006, Vol. 127, No. 3 (Autumn, 2006), pp. 367-386
Manuela Mari, Bastardi senza gloria. Filippo II e i Macedoni in Demostene IX 30-31, in M. Capasso
(cur.), Cinque incontri sulla cultura classica, in «I Quaderni di ‘Atene e Roma’» 5, 2015, 117-133.
Antonietta Porro, Walter Lapini, Claudia Laffi, Letteratura greca. Storia, autori, testi. L’età classica.,
Loescher, 2017
Giuseppe Squillace, L’ultimo intervento di Filippo II in Tessaglia nella propaganda macedone e
antimacedone, in «Aevum», Gennaio-Aprile 2000, Anno 74, Fasc. 1 (Gennaio-Aprile 2000), pp. 81-94
24 Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?
Reagire all’inevitabile: Demostene, voce di un ribelle o di un illuso?
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Illustrazione di Gabriele Conte, @gabriele_conte88
Palin ha incontrato anche Heisenberg.
Con lui Palin scopre che il mondo può
sempre essere scoperto e visto con occhi
nuovi, in un continuo interscambio di
posizioni: dal cosmo alle particelle.
Quest’area tratta quindi di Scienza, in
tutto ciò che ci circonda, dall’immensità
dell’Universo al più piccolo atomo,
cercando di dare una visione di insieme,
senza relegare l’argomento scientifico a
qualcosa di unicamente accademico, ma
di interesse comune.
La scienza naturale non descrive semplicemente, interpreta la
natura: è una parte dell’interfaccia tra la natura e noi stessi.
Werner Karl Heisenberg
Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_
Illustrazioni di: Dalila Amendola,
@dalila.amendola
#Area Heisenberg
Werner Karl
Heisenberg
Scienza, politica e vita privata. La vita di
Werner Karl Heisenberg, scienziato tedesco
attivo nella prima metà del secolo scorso e
divenuto famoso per la conquista del premio
Nobel nel 1932 “per la creazione della meccanica
quantistica”, fu caratterizzata da una
serie d’infiniti compromessi fra le regole e
i pregiudizi del regime nazista e la necessità
di difendere la propria vita e la propria
carriera.
La Germania è stata per anni il più importante
centro culturale per lo sviluppo delle
maggiori teorie nell’ambito della fisica, almeno
fino al momento della salita al poter di Hitler
che costrinse molti scienziati ebrei e non
solo a fuggire via dal paese pur di non rinnegare
le proprie origini e la propria scienza. Si,
perché la scienza stessa fu messa in discussione
in quegli anni e fu ridotta a mero mezzo
di promozione politica del regime, tanto
che insorse addirittura il rifiuto verso l’astrazione
di quella che venne definita “scienza
ebraica” in contrapposizione alla fisica tedesca
in diretto contatto con la natura. Si trattava
principalmente della teoria della relatività
di Einstein colpevole di non essere stata
concepita da sangue ariano. Fu proprio per
questo che Heisenberg, sostenitore di tale
teoria, fu definito dal collega premio Nobel
(nel 1905) e sostenitore nazista, Lenard < spirito dello spirito di Einstein>> e il settimanale della SS “Das Schwarze Korps” in suo riferimento scrisse dei < Wissenschaft>> (Ebrei bianchi nella scienza) considerandoli ancora più subdoli e pericolosi degli ebrei veri. Solo allora lo scienziato, pur di non lasciare la sua amata terra, decise di rinnegarsi, aderire al programma nucleare nazista e litigare con altri grandi colleghi come nel caso di Bohr. Nonostante ciò la Germania, orfana di alcune delle menti più brillanti del secolo, fallì miseramente, oggi possiamo anche aggiungere: per fortuna! 28 #rubricaritratti: Werner Karl Heisenberg Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti? 29 Scritto da Alfredo Petrella #Area Heisenberg REAZIONE ALL’UMANO. ANCHE LE MACCHINE PROVANO SENTIMENTI? #Area Heisenberg Compreresti un’automobile il cui pilota automatico potrebbe scegliere di sacrificare te per salvare la vita di due passanti? E se provassi affetto per loro, o se fossero invece i responsabili di ciò che sta per succedere? L’etica dell’intelligenza artificiale è, sin dagli albori di quest’ultima, un tema estremamente dibattuto dagli addetti ai lavori, ma spesso eclissato dalle mirabolanti imprese compiute dai sistemi intelligenti agli occhi del grande pubblico. Uno dei settori più promettenti e più esposti allo stesso tempo è la robotica, che negli ultimi anni è passata dal cercare disperatamente di evitare cadute rovinose alle proprie creazioni, al produrre ballerini di Rythm&Blues più abili del 70% della popolazione mondiale, come dimostra il video pubblicato dalla Boston Dynamics alla fine dello scorso anno [1] . Come ci insegna lo zio Ben di Spider-Man! però, «da un grande potere derivano grandi responsabilità» [2] , e le innumerevoli applicazioni delle nuove tecnologie non fanno eccezione: uno dei tratti distintivi degli esseri intelligenti, infatti, è la capacità di reagire agli stimoli esterni sulla base dei dati acquisiti e processati in tempo reale, ed è così che l’enorme vantaggio di poter programmare un sistema veloce nel prendere decisioni seguendo schemi prestabiliti costringe i produttori a chiedersi, d’altro canto, quali debbano essere tali schemi. Tutto ciò sta già accadendo attorno a noi. Pensiamo ai software per il riconoscimento delle emozioni: bisogna sapere che hanno raggiunto performance sorprendenti, come risulta particolarmente chiaro, ad esempio, sul sito di MorphCast [3] (sul quale ci si può divertire gratuitamente e senza temere per la propria privacy) e che presto saranno implementate in robot umanoidi che si interfacceranno con noi in modo più efficace e vario, a seconda del nostro stato d’animo. Come vi sentireste se il vostro nuovo robot da compagnia, percependovi un po’ giù di tono, vi offrisse uno di quei dolci al pistacchio che ordinate una volta al mese su Amazon, e reagisse prenotando a sorpresa un pranzetto per due al ristorante di sushi nel quale avete incontrato per la prima volta il vostro attuale partner, approfittando di un buco in comune nella vostra agenda personale? Forse il vostro morale si risolleverebbe, ma a quale prezzo? E se quel pranzo aveste voluto farlo dal messicano a un isolato da casa, che non è su JustEat, e rivedere un amico di vecchia data che non seguite sui social? Che domande, avreste potuto sicuramente parlarne al vostro assistente digitale! Ma quante, di tali informazioni, si è disposti a condividere con l’azienda produttrice, al fine di rendere più soddisfacente il servizio ricevuto? Il messicano non ha l’all you can eat, vero, ma non è questo il punto. Proviamo così: concentriamoci sui veicoli a guida autonoma. Se ne parla moltissimo, ma stupisce ogni volta ricordare che in media, ogni giorno, più di 3500 persone perdono la vita a causa di incidenti stradali, la maggior parte dei quali dovuti a distrazioni del conducente o a infrazioni del codice della strada, prima su tutte la guida in stato di ebbrezza [4] . L’inquinamento provocato dall’elevato numero di veicoli e dalle strutture e infrastrutture destinate a ospitarli, inoltre, verrebbe notevolmente ridotto se, invece di avere centinaia di veicoli privati fermi in un parcheggio per buona parte della giornata, un esiguo numero di mezzi pilotati da un’intelligenza artificiale soddisfacesse i bisogni di più passeggeri, in base alla sua posizione attuale e alle richieste ricevute, e gli spazi superflui venissero adibiti alla costruzione di parchi e alla produzione di energia rinnovabile. Dove si nascondono le responsabilità qui? Nella scelta della reazione che ci aspettiamo venga assunta dal nostro pilota automatico nel caso in cui dovesse gestire una situazione non ordinaria o, addirittura, mai affrontata prima da nessun altro veicolo con cui abbia mai interagito. Facciamo un passo indietro e ripartiamo da un classico esperimento mentale di filosofia etica, formulato negli anni Settanta: il 30 Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti? Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti? 31 Scritto da Filippo Dodero #Area Heisenberg #Area Heisenberg problema del carrello ferroviario [5] . Nella sua formulazione più semplice, esso prevede la presenza su delle rotaie di un tram che non può essere arrestato e si dirige verso cinque persone che non avrebbero scampo; l’unica alternativa che ci viene fornita è la possibilità di azionare un deviatoio che reindirizzi il tram verso una persona, anch’essa impossibilitata ad evitare il peggio, risparmiando le prime cinque. Chiaramente, il quesito non prevede una risposta corretta, ma è estremamente utile per riflettere sul fatto che situazioni simili potrebbero effettivamente verificarsi, seppur con una probabilità molto più bassa rispetto a quella di incidente oggi. Assumendo, poi, che ciò non accada nel caso in cui il sistema sia implementato in modo Fonti: particolarmente efficiente, altri quesiti sorgono spontanei: ad esempio, è possibile comunicare al veicolo che ci si trova in una condizione di emergenza e richiedere che alcune norme vengano violate per perseguire un bene più alto? A quali condizioni? Se si trattasse di condizioni di salute, il veicolo sarebbe in grado di verificarle e, eventualmente, fornire primo soccorso? Qual è il giusto compromesso tra efficacia ed etica? A queste e a molte altre domande cerca di rispondere la cosiddetta Machine Ethics (etica delle macchine), introducendo il concetto di Artificial Moral Agent (soggetto artificiale dotato di morale) e adattando i princìpi giuridici al mondo dell’Artificial intelligence [6]. .. Ma questa è un’altra storia, riservata ai più curiosi. Spero che il sushi sia stato all’altezza delle 4.73 stelle su 5 del ristorante, le foto di quegli uramaki sembrano davvero invitanti ma negli ultimi 13 giorni le recensioni sono peggiorate dello 0.012%... Per stasera messicano con Max allora? Cucino volentieri io! Ah, un ultima cosa, mi imbarazza chiedertelo, ma sto imparando: selezioneresti dal menù la lingua parlata dal gatto? Non riesco a rilevarla automaticamente. [1] Do you love me? [2] Stan Lee (testi), Steve Ditko (disegni); Spider-Man!, in The Amazing Spider-Man n. 15, Marvel Comics, agosto 1962. [3] Morphcast [4] Road Traffic Injuries and Deaths—A Global Problem, in Center of Disease Control and Prevention [5] Trolley problem, in Wikipedia [6] Ethics of Artificial Intelligence and Robotics, in Stanford Encyclopedia of Philosophy Palin parla col professor Raffaele Giuseppe Agostino, docente di fisica presso l’Università della Calabria. Non mi fare domande difficili a cui non saprei rispondere. È in questi toni informali che inizia l’intervista a Raffaele Giuseppe Agostino, docente di Fisica sperimentale della materia all’Università della Calabria, che ha da sempre visto la sua crescita formativa legata in maniera imprescindibile alla crescita del territorio. Noi di Palin lo abbiamo intervistato per scoprire non solo il suo attento punto di vista sulla ricerca in Italia ma soprattutto ciò che c’è alla base: una forte passione per il proprio lavoro, per la Scienza e per il proprio territorio. Partiamo dalle presentazioni: Lei è un professore conosciuto nel Dipartimento di Fisica dell’Università della Calabria. Si presenti anche ai lettori di Palin. Allora, io sono un Professore di Fisica Sperimentale della Materia. Mi occupo da sempre di problemi legati alle superfici. All’opinione pubblica è chiaro cosa sia l’astrofisica o la fisica delle particelle, mentre la Fisica Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione Intervista a Raffaele Agostino, docente di Fisica dell’Università della Calabria delle Superfici potrebbe essere un concetto che sfugge. In realtà tutto quello che abbiamo intorno, che vediamo e tocchiamo tipicamente lo facciamo per mezzo della sua superficie. Noi vediamo il colore della superficie di un oggetto, non del corpo. Moltissimi fenomeni che avvengono nel nostro quotidiano sono legati alle proprietà delle superfici e c’è una Scienza apposta, la Scienza delle superfici, che se ne occupa. Cosa vuol dire essere un professore di Fisica in un’università italiana (e calabrese) in termini di mansioni, obiettivi, ricerca, ecc.? Questa domanda è molto complessa, perché i compiti di un docente universitario ormai sono molti e diversificati. La parola ‘docente’ rimanda principalmente all’insegnamento e sicuramente io insegno (NdA come a dire ‘e sicuramente l’insegnamento è una grossa parte del mio mestiere’): fisica di base ai matematici, laboratorio di elettromagnetismo e fenomeni ondulatori ai fisici. Quello che faccio però non è semplicemente prendere i libri di 32 Reazione all’umano. Anche le macchine provano sentimenti? #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino 33 #Area Heisenberg testo e trasferire le nozioni agli studenti, piuttosto provo a tradurre quella che è la mia esperienza nel campo della ricerca scientifica nei concetti e nel contenuto dei corsi. Perché io sono convinto del legame intimo tra ricerca e insegnamento universitario: non dobbiamo fare l’errore di pensare all’università come alla naturale successione della scuola superiore. Il docente universitario ha come compito non semplicemente insegnare, ma tradurre la propria esperienza scientifica in insegnamento per gli studenti. Quindi gli studenti apprendono ‘a fare’ e, con questo taglio, apprendono sempre ciò che è alla ‘frontiera della conoscenza’. Per questo, non si tratta di trasferire conoscenza consolidata, ma nuova conoscenza. Questo è il grande salto che si fa dal liceo all’università ed è per questo assolutamente necessario che un docente universitario faccia ricerca. I modelli esteri che guardano alla possibilità di avere ‘teaching university’ (cioè università in cui si fa solo insegnamento) sono modelli perdenti perché la qualità dell’insegnamento ne risente se il docente non è artefice della propria conoscenza attraverso la ricerca. Naturalmente questo si fa con un processo che va dai primi agli ultimi anni di università, in cui le conoscenze si spostano sempre più dal ‘consolidato’ alla ‘frontiera’ sfumandone sempre di più i confini. Dunque, l’impegno di un docente sulla ricerca è fondante, è una delle ragioni d’essere di un docente universitario. Questa è una principale differenza tra i modelli ‘tipo-italiano’ e alcuni modelli esteri in cui c’è una gran divisione tra l’insegnamento e la ricerca, che viene magari demandata ad enti di ricerca che non hanno l’insegnamento tra i propri mandati. Che impatto ha la ricerca e l’università sul territorio e la società? Io mi sono iscritto a questa università nell’83 perché ne ho letto lo Statuto. Lo Statuto di questa università fu scritto alla fine degli anni Sessanta e inviterei a rileggerlo ai molti che parlano di università e del ruolo che essa dovrebbe avere nel territorio. Quello era uno Statuto innovativo, tant’è vero che l’Unical per molti anni era totalmente dissimile per regole e comportamento interno, partecipazione democratica, per il modo in cui si gestiva rispetto alle altre università. L’Unical è nata grazie ad un’intuizione dei padri fondatori che vollero un’università dedicata al territorio. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto a scegliere questa università, perché oltre alla mia crescita personale e culturale mi dava la possibilità di assistere alla crescita del territorio. Nacque come un’università residenziale, abbiamo infatti ancora oggi il più grande centro residenziale delle università italiane per rapporto al numero di studenti. La nostra residenzialità era voluta per poter dare (in una regione come la nostra) la possibilità di studiare ad un gran numero studenti che altrimenti non avrebbero potuto. Emigrare per studiare come avviene ancora adesso è una cosa che discrimina per reddito tra chi può e chi non può. Questa università è nata anche con l’obiettivo di dare al territorio un progresso legato alla conoscenza. Questa cosa mi convinse molto a 18 anni, idealista come tutti a quell’età, e decisi di restare qua invece di spostarmi a Padova dove avevo inizialmente puntato. Questo è l’inizio, come l’ho tradotto dopo? Quando poi attraverso un lungo percorso che mi ha fatto anche conoscere altre realtà, sono ritornato in Calabria, quello che ho fatto è stato tradurre questa spinta iniziale e ideale nella necessità ogni volta di raffrontarsi al territorio e di mettere su delle iniziative che potessero non solo far crescere i miei studenti ma anche avere una ricaduta. Anche per questo ho iniziato una serie di progetti con l’ambizione di portare innovazione basata sulla conoscenza scientifica e tecnologica sul territorio. Parlando di territorio abbiamo chiesto al professore il perché le università italiane non riescano a trattenere i ricercatori che esse stesse faticano tanto a formare e se è solo una mancanza di fondi o c’è dell’altro. Infatti, secondo i dati del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) i ricercatori italiani sono i primi beneficiari di fondi per progetti finanziati nel 2020, ma le nostre università sono tra le ultime fra quelle in cui questi soldi vengono spesi. È l’ennesimo segno di una ‘fuga di cervelli’ ormai generazionale? Ci dice che, secondo lui, la realtà di solito è molto più complessa di come ci appare. È vero, i fondi disponibili per l’Italia e per la ricerca italiana sono tanti. È anche vero che la ricerca universitaria italiana non è ancora strutturata per ottimizzare l’utilizzo di questi fondi. All’interno delle università, le strutture che si occupano della progettualità sono carenti, non strutturali e non esistevano ad esempio quando mi sono iscritto all’università. Sono diventati una necessità quando i fondi strutturali, diciamo ‘automatici’, sono diminuiti a favore dei fondi per cui è richiesta una ‘competizione’ tra progetti. Le università si stanno lentamente attrezzando: l’UNICAL ha avuto ad esempio la fortuna, più o meno 25 anni fa, di mettere su un ‘Liaison office’, un ufficio dedicato alla progettualità. A capo di questo ufficio è stato dal principio nominato un fisico, il Prof. Barberi, che ha costruito una struttura che si occupasse della nuova progettualità a partire dal reperimento dei fondi fino alla costruzione d’impresa. L’UNICAL non solo ha il Liaison Office, ma anche un incubatore di imprese (il TechNest) cioè un luogo dove le imprese fatte da giovani ricercatori e laureati possano crescere fino a spiccare il volo. Esattamente come un nido (nest), si prova ad incubare le nuove imprese nei primi tre anni di vita per poi lasciarle camminare con le proprie gambe una volta pronte. Le imprese spin-off, le start-up dell’Unical sono numerose e hanno avuto riconoscimenti interessanti. Non tutte le università italiane fanno questo, il tentativo in una terra che non è ricca di infrastrutture industriali e tecnologiche era proprio quello di assolvere quel mandato dello Statuto di cui parlavamo all’inizio e di avere una ricaduta non solo in termini di nuove conoscenze, che è fondamentale, ma anche in termini di nuove attività produttive. Attività produttive che, in un’epoca di dematerializzazione, sono diventate forse più semplici: non abbiamo bisogno di un substrato industriale per andare a costruire nuove imprenditorialità sana e pulita ma abbiamo bisogno di conoscenza e di strutture. Raffaele Agostino crede che questa sia una delle scommesse da raccogliere per le nostre Università. Naturalmente non nasconde che rispetto a questa traiettoria non tutta l’Università si muove concorde. Questo però è nell’ordine delle cose: ci sono diversità e #Area Heisenberg 34 #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino 35 #Area Heisenberg #Area Heisenberg ben vengano, l’importante è che ci sia una spinta verso qualcosa di innovativo che sia anche un contrasto alla fuga dei cervelli. La cosa che più ci fa star male in generale è notare che molte persone scelgono direttamente di andare all’università fuori in base alle maggiori possibilità lavorative future. Questa è un’emigrazione che va a beneficiare direttamente l’economia di altri posti: uno studente calabrese che va a studiare in un’università del Nord contribuisce all’economia del Nord ancora prima di iniziare a lavorare lì. Abbiamo un travaso di risorse mentali ed economiche dal Sud al Nord e questa è una cosa che fa molto male. Non importa quando avviene ma questo trasferimento di energie, di intelligenze e risorse materiali è qualcosa che sta continuamente impoverendo, immiserendo in tutti i sensi la nostra Regione. Lei invece è uno di quelli che sono rimasti. Cosa l’ha spinta a fare questa scelta e cosa consiglia a chi vuole intraprendere una carriera universitaria? Io mi sono convinto nel tempo che il principio fondante di ogni ricercatore è la passione, lo traduco dicendo che nulla è difficile quando qualcosa ti piace. Seguire le proprie passioni, seguire la propria capacità di agire e di portare qualcosa di nuovo, avere la coscienza di fare, di dire, di scrivere è l’unica base da cui partire. Ho visto colleghi che partivano da conoscenze di base limitate, cito sempre come la prima laureata del mio corso, adesso ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, proveniva da quella che era negli anni ‘80 la scuola magistrale, dove la matematica, la fisica che io avevo fatto e molte altre cose non erano state affrontate, eppure la sua volontà, la sua capacità, la sua passione ha portato lei ad essere la prima e la migliore del corso. Questo è solo un esempio ma ne potrei citare tanti per dire che le difficoltà che si hanno nello studio e nell’affrontare la ricerca che consegue lo studio, vengono superate quando si ha passione verso una cosa e quello che mi fa tristezza e vedere molti ragazzi, magari brillanti e con ottimi voti, che alla fine delle superiori non sanno cosa fare. Vedo un capitale sprecato, dei talenti inespressi. Quelli che scelgono semplicemente ingegneria o economia come grandi contenitori per dire «vabbè, poi tanto decido dopo», secondo me fanno una scelta perdente. Ho visto molte persone che hanno cambiato corso di studio al primo anno di università, che si sono resi conto che la loro passione era tutt’altra: non erano più sotto il giogo della famiglia o della società, e quindi avevano la possibilità di tirar fuori le proprie tendenze per poi riuscire. L’importante è scoprire la propria passione e cavalcarla, poi è abbastanza semplice: semplice non vuol dire facile, significa che si riescono a superare gli ostacoli, non che gli ostacoli non ci siano. Il professore ha anche parlato dei due lavori di ricerca di cui va più fiero: Il primo è l’aver visto che, in alcune condizioni, l’impossibile diventa possibile. Normalmente uno dei vettori di energia che costituirà il nostro futuro che è l’idrogeno, è un gas difficile, perché per raccoglierne una quantità sufficiente per riscaldare o far andare un’auto elettrica, come la Mirai della Toyota, ce n’è bisogno in quantità così grande che è difficile compattarla in un piccolo spazio. É leggero, poco denso, ma questo significa che c’è bisogno di grandi volumi da portarti dietro. È stato tentato di risolvere questo problema in vari modi. Ciò che il mio gruppo di ricerca ha fatto, riuscendoci, è stato andare a vedere cosa succede alle molecole di idrogeno, che sono di dimensione del miliardesimo di metro, quando vengono confinate in spugne, strutture che hanno pori della dimensione delle molecole stesse. Come a dire, vediamo se l’effetto sull’acqua di una spugna posso ottenerlo anche per l’idrogeno. La scelta è stata trovare, produrre e inventare spugne di dimensione nanometrica e poi andare a indagare il loro comportamento. Quello che abbiamo scoperto è che l’idrogeno condensa sulle superfici di questi pori e raggiunge densità simili a quelle dell’idrogeno liquido che si ottiene normalmente a -250° centigradi. Avere scoperto che questa cosa può essere ottenuta a temperature molto superiori, permette di avvicinare quel traguardo tecnologico di avere grandi quantità di idrogeno, quindi grandi quantità di energia, in piccoli spazi. Un bel risultato di cui vado fiero, perché il percorso ha visto anche l’ideazione e la realizzazione totale, dalla meccanica all’elettronica, al software, degli strumenti che servono a realizzare questo esperimento. Un inciso, la società spin-off DeltaE di questa università (fondata dal prof. Agostino e altri tre colleghi nel 2000) opera nel campo della produzione di prototipi ancora adesso, a distanza di ventuno anni ed è fra le più longeve d’Italia. Opera e costruisce per il Politecnico di Milano, per la KAUST in Arabia Saudita, per università belghe e via dicendo. Come ricaduta non c’è solo il risultato della ricerca ma c’è anche la capacità di sviluppare nuova metodologia e costruire nuova strumentazione: nuova conoscenza porta la capacità di costruire nuovi strumenti, nuovi strumenti portano ancora nuova conoscenza. Secondo risultato, l’aver contribuito a far nascere nell’Università della Calabria, unica università in Italia, un’infrastruttura di ricerca che si chiama STAR. Infrastrutture di ricerca in Italia ce ne sono poche e sono a gestite dal CNR (Consiglio Nazionale di Ricerca) o dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, insomma grandi enti di ricerca. STAR è un innovativo progetto realizzato nell’Università della Calabria, un’infrastruttura di ricerca sui materiali tramite sorgente di raggi-X duri per la diagnostica per immagini ad alta risoluzione.” Il professore ci tiene a spiegare come sia un progetto che si estende al di fuori anche dell’ambito puramente fisico, si potrebbe dire che STAR è dotata di una super macchina fotografica e un super microscopio al contempo, capaci di realizzare immagini 3D ad altissima risoluzione di oggetti che spaziano da sistemi biologici o medici, a reperti di beni culturali o a materiali avanzati per le ingegnerie e le nanotecnologie e tutto questo in maniera non invasiva o distruttiva, mostrando, per esempio, risultati eccellenti e del tutto senza precedenti utilizzando la tecnica della tomografia a contrasto di fase. STAR è un’Infrastruttura di ricerca di carattere multidisciplinare. Accanto alla sorgente di raggi X sono nati 6 laboratori per l’erogazione di servizi di ricerca. I campi di interesse vanno dalle scienze (Fisica, Chimica, Biologia, …) all’Ingegneria (meccanica, 36 #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino 37 telecomunicazioni, informatica, elettronica, …). Si vuole offrire agli utenti provenienti da altri enti di ricerca o dalle imprese, la possibilità di affrontare problemi complessi, quelli che tipicamente richiedono un approccio esteso a più materie o campi di studio. Il professor Agostino si occupa anche di materiali porosi per la cattura e l’immagazzinamento di gas quali metano, carbonio e in particolare idrogeno. Alla nostra domanda su come funzionano e su che impatto avrebbe lo sviluppo di tale tecnologia sull’ambiente ha risposto: La conversione verde, quella che stiamo affrontando come Europa, ha bisogno di avere laboratori che conoscono gli effetti dell’idrogeno sui materiali. Questo processo di trasformazione tecnologica è ancora non concluso, ma l’obiettivo di utilizzare un combustibile che ha come risultato l’emissione di acqua è sicuramente qualcosa che potrebbe risolvere una serie di problemi di inquinamento nelle grandi città e centri industriali. Non pensiamo all’idrogeno solo sulle automobili, il grosso del consumo energetico non è quello del trasporto: il grosso delle emissioni di gas serra viene da processi industriali. Questo è qualcosa che presuppone una serie di studi sulla fisica dell’interazione delle molecole dei materiali che è la fisica di base e che è quella che lo ha sempre appassionato. Si tratta di avere capacità tecnologica e guardare come questa possa essere trasferita sul territorio che abbiamo intorno. Su questo argomento, un grande player nazionale, un’industria nazionale che si chiama RINA (Registro Italiano Navale, Centro Sviluppo Materiali), una società per azioni multinazionale con sede principale in Italia, ha realizzato insieme all’UNICAL un laboratorio per la validazione dei materiali per l’idrogeno. Se questa cosa cresce ci saranno giovani ricercatori che potranno restare a fare il proprio mestiere in Calabria, e se ci sarà un indotto sarà naturalmente locale. Tutto questo senza però chiudersi a localismo e all’autarchia; insomma, guardare a traguardi più ampi, non fermarsi al fatto che se non c’è la siderurgia in Calabria non bisogna occuparsi della sua conversione green. #Area Heisenberg #Area Heisenberg 38 #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo 39 Scritto da Filippo Dodero #Area Heisenberg 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo #Area Heisenberg Le radiazioni elettromagnetiche sono sempre intorno a noi, ma non sono tutte uguali. Potremmo dire che ci sono tante radiazioni e altrettanti quesiti: che differenza c’è fra le radiazioni? Quali sono i rischi per la salute dell’uomo? È vero ciò che si dice sulla nuova connessione dati 5G? Quanto c’è di scientificamente provato? Radiazione. Per chiunque mastichi un po’ di vocabolario scientifico, questo è un normale e innocuo termine d’uso. Allargando però il suo raggio a quella che è la maggioranza delle persone, ci si rende conto dello scetticismo che incute nella mentalità di molti: solo a sentirlo pronunciare la mente va subito ai disastri nucleari di Chernobyl e della bomba atomica di Hiroshima, sfociando a volte persino in errate credenze popolari o addirittura logiche complottistiche. Risulta perciò importante fare una distinzione per comprendere questa diversità di punti di vista. Partiamo proprio dalla definizione di radiazione: Fenomeno di emissione e propagazione di energia secondo raggi che costituiscono il percorso di corpuscoli o la direzione di onde. In particolare: R. radioattive, radiazioni ionizzanti emesse da nuclei atomici quando subiscono trasformazioni strutturali, spontanee o provocate da reazioni nucleari. Radiazioni sono quindi quei fenomeni, del tutto comuni all’esperienza umana come lo è la semplice luce, tra cui sono comprese anche le radiazioni radioattive (dette anche ionizzanti), altamente pericolose per gli organismi biologici e che possono generare danni sia somatici che a livello genetico. Il mondo in cui viviamo è da sempre costituito dall’unione di materia e radiazione. Se oggi potessimo vedere tutte le onde elettromagnetiche intorno a noi, ci renderemmo conto che tra radio, televisioni, satelliti e via dicendo, ci troviamo immersi in un enorme campo di radiazioni, capaci o meno di interagire con la materia. La domanda che sorge spontanea è se tali interazioni possano causare danni biologici e se ciò dipende principalmente dall’energia trasportata o anche dalla durata del tempo di esposizione. Nel 2019 è iniziata la distribuzione globale della rete a consumo dati di quinta generazione per la telefonia mobile: in breve, il tanto discusso 5G. Si narra di uccelli morti nelle regioni di installazione delle antenne, aumento dei casi di autismo, addirittura di un legame con il coronavirus e di un Bill Gates malvagio che mira allo sterminio di massa. Ma quanto c’è di vero in tutto ciò? Anche in questo caso la cattiva informazione ha facilmente prevalso su quella scientifica (e corretta) ma per smentirla basta semplicemente informarsi sulle bande di frequenza utilizzate per controllare se corrispondono a quel range nocivo di radiazioni ionizzanti. La rete 5G è suddivisa in tre bande di frequenza al variare dell’area di copertura: bassa da 694 e 790 MHz, media da 2,5-3,7 GHz e alta da 25-39 GHz. Da un semplice confronto con lo spettro elettromagnetico si nota immediatamente che siamo nell’intervallo delle onde radio: nulla di particolarmente allarmante quindi, considerando che radio, televisioni ma anche le reti wireless funzionano con lo stesso tipo di radiazioni. Queste non presentano un’energia sufficiente da modificare direttamente gli elementi che costituiscono gli esseri viventi. Sia chiaro a questo punto che chi diffonde notizie contro l’uso del 5G tramite Internet sta già peccando di mancanza di coerenza. Va precisato, però, che esiste effettivamente un fenomeno definito ‘elettrosmog’ riguardante l’indagine dei danni dovuti a tipi di radiazione non ionizzante, che sono stati dimostrati in condizioni di forte intensità; anche se, escludendo gli incidenti sul lavoro, per ora nessuno è mai stato sottoposto ad emissioni così elevate. Questi studi per ora non hanno portato a risultati così chiari ed evidenti, per cui si è scelta una strada precauzionale e nel febbraio 2000 l’ORNI (Organizzazione sulla protezione da Radiazioni Non Ionizzanti) 40 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo 41 #Area Heisenberg ha imposto dei limiti massimi per l’esposizione a breve termine delle persone, rivolgendosi con tale legge principalmente ai grandi impianti elettrici. In casi limite come questi ultimi, gli effetti causati sono, per le radiazioni a più bassa frequenza, disfunzioni a livello delle cellule nervose o muscolari e in rari casi – anche se non c’è una certezza – rischio di leucemia infantile, mentre per le alte frequenze gli effetti sono principalmente di tipo termico, associati quindi all’aumento della temperatura corporea. Per fare un esempio concreto, una chiamata di diversi minuti al cellulare va a influenzare la temperatura dei tessuti ma solo nella zona della testa intorno all’orecchio e solo di qualche frazione di grado. In pratica, ci si riscalda molto di più prendendo il sole al mare. Insomma, il progresso tecnologico ci ha messo a disposizione sempre più mezzi e strumenti in vari ambiti e a vari livelli, soprattutto a livello medico, aziendale e di ricerca, ma questo vuol dire sottoporre la società a un numero di radiazioni sempre maggiore che, se non controllato, potrebbe avere conseguenze spiacevoli sul lungo termine. Nonostante ciò, come si è visto, esistono studi anche nel senso opposto ed è a quelli che bisogna fare riferimento quando si parla di danni alla salute dell’uomo, senza credere a tutto ciò che si legge in giro che non si basi su evidenza di tipo scientifico, perciò logisticamente non attendibile. C’è quindi da prestare attenzione alle radiazioni, giusto, ma anche alle reazioni. Fonti: AA.VV., L’elettrosmog nell’ambiente, Ufficio federale dell’ambiente UFAM, 2005, p. 56 Diana Restrepo, Salud mental de los cardiólogos intervencionistas: Estrés ocupacional y consecuencias mentales de la exposición a radiación ionizanteMental health of interventionist cardiologists: Occupational stress and consequences of exposure to ionising radiation, «Revista Colombiana de Cardiología», 2020 #Area Heisenberg Theodore S. Rappaport, Robert W. Heath, Jr., Robert C. Daniels e James N. Murdock, Millimeter Wave Wireless Communications, Prentice Hall, 2014 42 5G, radiazioni e reazioni sull’uomo Una reazione ci salverà 43 Scritto da Alessandro Rossi #Area Heisenberg UNA REAZIONE CI SALVERÀ Per chi è nato e cresciuto in una società consapevole, anche se sorda, dell’emergenza ambientale e climatica, immaginare il futuro ha sempre corrisposto a immaginare una società sostenibile, pulita, armonica. Il futuro presuppone ormai la necessità di cambiare paradigma energetico: meno consumi, emissioni e sprechi, più energie rinnovabili, recupero dei rifiuti, maggiore efficienza. Recentemente anche le classi politiche sembrano essersene accorte, e in tutto il mondo si cercano soluzioni. Ma la società globale ha bisogno di una reazione decisa per raggiungere l’obiettivo… e forse la reazione è stata trovata! #Area Heisenberg Lentamente, negli ultimi anni, i popoli e la politica si stanno accorgendo di quanto sia urgente cambiare modello energetico, e in tutto il mondo si assiste a un’accelerazione nella produzione di energie rinnovabili. Ma cos’è precisamente l’energia rinnovabile? Possiamo davvero sperare di soddisfare il nostro bisogno energetico solo grazie ad essa? Innanzitutto, le fonti di energia dette ‘rinnovabili’ sono tutte quelle che possono, appunto, rinnovarsi all’interno della scala temporale umana, essendo pressoché inesauribili. Energie a basso impatto ambientale e senza rischi per la salute umana e l’ecosistema. Purtroppo, però, possono non essere abbastanza. Le più importanti energie rinnovabili (eolica, idroelettrica, solare) coprono in Europa soltanto il 10% circa del fabbisogno energetico comunitario. Per ambire all’indipendenza dalle fonti non rinnovabili e inquinanti come i combustibili fossili e nucleari dovremmo decuplicarne la produzione. È un’impresa titanica, soprattutto se si pensa al fatto che l’Europa è uno dei continenti più all’avanguardia dal punto di vista della sostenibilità energetica, con eccellenze sparse in tutto il Continente [1][2] . L’intenzione non è quella di sminuire la necessità e l’utilità delle fonti rinnovabili che sono anzi fondamentali. Hanno solo bisogno di una piccola mano, così piccola da risiedere appunto nel più piccolo elemento presente in Natura: l’idrogeno. L’idrogeno (H2) ha attirato l’attenzione, ormai da qualche decennio, per via della sua enorme disponibilità (è l’elemento più presente nell’Universo) e per la sua grande potenzialità come vettore energetico. È usato questo termine, invece del più comune fonte di energia, perché in effetti non è l’idrogeno in sé e per sé a produrre energia, ma le reazioni esotermiche che può generare. In altre parole, ‘bruciare’ idrogeno dà energia proprio come la combustione di carburanti come il petrolio. Il dispositivo abile a far reagire l’idrogeno e a convertirlo in energia è chiamato cella a combustibile al cui interno avviene una semplicissima ossidoriduzione – come quelle che si studiano al liceo – rappresentabile attraverso due reazioni parziali: • Ossidazione dell’idrogeno all’anodo: H2→2H++2e- • Riduzione dell’ossigeno al catodo: ½O2+2H++2e-→2H2O Il guadagno di energia detta ‘libera’ a seguito di queste reazioni sarebbe pari a circa 237 kJ/ mol (kiloJoule per moli d’acqua prodotta) che, se convertito in voltaggio, equivale a circa 1.23 44 Una reazione ci salverà Una reazione ci salverà 45 #Area Heisenberg Cella a combustibile ‘PEM’ V. Se questi numeri suonano un po’ oscuri, si può ragionare in termini di calore emesso durante la reazione: l’idrogeno emetterebbe tre volte più calore del petrolio [3] . In più, la produzione sarebbe totalmente non inquinante in quanto, come si vede dalle reazioni in alto, l’unico prodotto sarebbe della semplice acqua pura (H2O). Un altro punto a favore delle celle a combustibile rispetto ai tradizionali motori a scoppio alimentati da combustibili fossili consisterebbe nell’efficienza: la cella a combustibile è un motore elettrico e, in quanto tale, non incorrerebbe nelle limitazioni imposte dal Ciclo di Carnot come nel caso dei motori termici come quello a scoppio, il cui rendimento è limitato dalle temperature in ingresso e in uscita. Questo porterebbe le celle a combustibile a rendimenti al di sopra del 50% e, in alcuni casi, fino all’80% mentre i motori a benzina e diesel si attestano più o meno tra il 30 e il 40% (per le temperature a cui operano). Pila - Motore a scoppio. Fonte: Treccani.it I condizionali appena usati sono però d’obbligo in quanto l’idrogeno è un combustibile difficile da trattare in tutte le fasi della produzione energetica, come la sintesi dell’idrogeno stesso, il suo immagazzinamento (storage), il trasporto e infine la reazione chimica capace di produrre energia (in copertina) per realizzare ciò che viene chiamato comunemente ciclo dell’idrogeno. Da almeno tre decadi la comunità scientifica si sforza quotidianamente di ottimizzare ogni passo del ciclo, riunendo competenze che vanno dalla chimica pura all’ingegneria energetica, dalla scienza dei materiali agli impianti elettrici industriali. Efficienza voltaggio. Fonte: Treccani.it La reazione stessa infatti trova nella riduzione dell’ossigeno una sorta di barriera da superare piuttosto significativa, chiamata in gergo barriera di potenziale, che ne limita il rate (tasso di reazione). Questa proprietà purtroppo ne abbassa le reali prestazioni, arrivando a generare voltaggi tra lo 0.6 e 0.9 V o anche minori in caso di correnti elettriche più elevate. Per mitigare il problema, il catodo conduttivo nella cella va arricchito con catalizzatori che ne aumentino la reattività (abbassino insomma la barriera di potenziale) e quindi le prestazioni. I metalli nobili come il platino, ad esempio, hanno un’ottima efficacia in tal senso, ma sono così costosi da costringere gli addetti ai lavori a grandi sforzi per ridurre al minimo gli sprechi (economici e ambientali). Anche l’utilizzo dell’idrogeno, elemento principale coinvolto nel ciclo, non è privo di inconvenienti. Come poter convogliare, immagazzinare e trasportare infatti l’elemento più leggero e reattivo dell’Universo? È così poco denso che un serbatoio di idrogeno pressurizzato ha una capacità energetica di circa sette volte minore di un serbatoio di pari volume pieno di benzina! Questa sua caratteristica tuttavia non è eccessivamente limitante in particolari applicazioni di ‘grandi dimensioni’, come i grandi impianti industriali o i motori di un aereo, mentre potrebbe essere assolutamente sconveniente applicare un serbatoio di idrogeno in un’autovettura di modeste dimensioni. Infine, altri problemi di infiammabilità e cattura vanno tenuti in considerazione tramite l’uso di materiali porosi ed ignifughi. Soprattutto, però, sta creando grossi problemi la sintesi dell’idrogeno in maniera sostenibile. L’obiettivo comune è quello di isolare l’idrogeno dall’acqua (per completare così il ciclo, essendo l’acqua anche il prodotto finale) in una reazione chiamata elettrolisi utilizzando energia rinnovabile, come l’eolica o la solare. L’idrogeno prodotto in questa maniera è chiamato idrogeno verde ed è l’obiettivo numero uno nelle agende politiche di tutti i Paesi avanzati, tanto da essere citato anche dal nostro Fonti: nuovo Ministro alla Transizione Ecologica Roberto Cingolani nel suo primo discorso alle Camere [4] . L’idrogeno verde corrisponde per ora solo al 2% di quello prodotto, che viene per il resto principalmente ottenuto tramite sintesi dai combustibili fossili: idrogeno grigio o blu. Ovviamente, questi altri ‘colori’ dell’idrogeno hanno un impatto ambientale significativo che non può essere sostenuto. L’ultimo passo da compiere è proprio questo: implementare fonti di energia rinnovabile combinandole con la produzione di idrogeno per ottenere finalmente un ciclo globale di produzione energetica totalmente pulito, sostenibile e praticamente inesauribile; obiettivo sempre più vicino grazie alla drastica riduzione dei costi di produzione delle energie rinnovabili [5] . Nonostante i problemi elencati, la ricerca scientifica ci ha portati ad un passo dall’obiettivo. Di fronte all’epocale problema ambientale, siamo riusciti a reagire e trovare quella che sembra una via d’uscita. La nostra salute, il nostro stile di vita e tutto il pianeta possono essere salvati. Raccolta differenziata dopo raccolta differenziata, pannello fotovoltaico dopo pannello fotovoltaico, reazione dopo reazione. [1] Fuel cells and Hydrogen Joint Undertaking [2] Anmar Frangoul, Orsted to link a huge offshore wind farm to ‘renewable’ hydrogen production, CNBC, 1/04/2021 [3] World Nuclear Association [4] Cingolani l’ambiguo, tra idrogeno verde e fusione nucleare, «Il manifesto», 17-03-2021 [5] I ‘colori’ dell’idrogeno nella transizione energetica, EAI ENEA 2/2020 [6] The Future of Hydrogen – seizing today’s opportunities, Report by the IEA #Area Heisenberg 46 Una reazione ci salverà Una reazione ci salverà 47 Scritto da Salvatore Bruno Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ #Bootleg è l’angolo di Palin Magazine dedicato alla musica. Arricchito di mese in mese da tematiche, artisti e storie e collegato a una playlist, è lo specchio musicale del magazine. Perché sì, anche la musica è cultura e possiede un linguaggio universale, di cui Palin non ha potuto fare a meno Fine anni Sessanta, Italia. Anche il Bel Paese conosce il clima delle contestazioni studentesche e operaie, la rivoluzione sessuale, nonché la ‘madre di tutte le stragi’: la strage di Piazza Fontana, evento che diede inizio a quelli che sarebbero passati alla Storia come gli ‘anni di piombo’, anni di estremismo violento. Nel frattempo, sullo sfondo mondiale avvenivano altri eventi epocali come la morte del presidente Kennedy e l’assassinio di Martin Luther King in America, la «primavera di Praga», lo sbarco sulla Luna e la guerra in Vietnam. È stato un periodo carico di tensione, al di là degli avvenimenti politici e non, che conosciamo, e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po’ una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo. È con queste parole che, nel 1993, Giorgio Gaber racconta in un’intervista la nascita del teatro canzone, genere innovativo e di fusione tra la musica e il teatro, al quale dà vita insieme all’amico pittore e paroliere Sandro Luporini. Il signor G non è (più) un cantante né uno dello spettacolo, bensì un uomo comune, diviso tra dubbi e contraddizioni come qualsiasi suo altro simile, oltre a essere il titolo dell’omonimo album del 1970 del rinnovato Giorgio Gaber. Ciò che caratterizza le nuove vesti e la nuova poetica dell’artista milanese è un linguaggio schietto e privo di retorica, specchio di un’anima anarchica e stretta nelle convenzioni sociali; un personaggio nel mirino del quale ci sono l’ipocrisia, il moralismo intellettuale, Gaber e Luporini preparano il debutto de Il Grigio nel 1988. Foto di Enrica Scalfari. Dall’account Facebook della Fondazione Giorgio Gaber. le ideologie precostituite, il conformismo di massificazione che tramuta l’uomo in automa facciata e le istituzioni spesso stantìe, in un’eco e mero consumatore. Quelle del signor G non continua tra ‘personale’ e ‘politico’ in una possono quindi che essere canzoni volutamente provocatorie e senza filtri, che vanno ricerca dell’individuo a scapito dell’uomo come ‘soggetto politico’. Il signor G si fa, consapevolmente e inconsapevolmente, spectenimento da pochi minuti. La si potrebbe oltre il concetto stesso di ‘canzone’ di intratchio e modello generazionale che inse- scambiare per ironia o satira – e di fatto lo è gue una libertà estrema, fuori dal consumismo e dalle logiche, dai meccanismi della – ma è anche una fortissima volontà di sfuggire alla banalità e all’alienazione dettata 48 Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ 49 #Bootleg Luptati con prorem et harior sum fugitas dit officium sum solut faccae voluptatem accae. Et lacepero inctur? Orum imus etum fuga. Boratius eatam eaque volum es porrorati rerior soluptatur aut fugia dellab in eos re nimodia tenderit aut eum, volor sequi doloris distiis voluptatet hicto quae dolorem facil iustrum vende eos sam alita voluptat mos voloria int eum voluptaturi dolenem ex et hicimin rem dolorrum corrovi tatentis nusam sum et adia de nosandae seceruptatus molenderovid eium voluptiost, eumquaecus, officim fuga. Aximusdamet perovit ionsedi re vero invendandunt liquia porit harchillaut assimus, ut ute volore commolutesti dolo iducit arit latur rae. Et as et etur, tora qui dolupta tisquat usciis nihicabo. Quis et fuga. 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Linguaggio, musica e teatro si fondono e diventano sfogo di disillusione, utopia e disincanto ma anche voglia di scrollarsi di dosso alcune speranze e talune certezze per indossarne altre. In un periodo come gli anni Settanta, e più in generale nella storia della musica italiana, Giorgio Gaber è sempre inequivocabilmente la voce fuori contesto e priva di filtri che sfugge a ogni genere di etichetta. Non è un caso che per moltissimi, artisti e non, il signor G sia un mito artistico di riferimento e i suoi testi ancora di profonda attualità. Siamo onesti: quante volte oggi ci capita di uscire da una sala concerto e da un teatro consapevoli di aver ricevuto una lezione catartica per noi stessi? Sembra che, per rispondere a questa domanda, basti dare un’occhiata – e un ascolto – a qualche nuova leva della canzone italiana contemporanea. A partire dall’ormai noto Willie Peyote, rapper torinese sempre vicino alla critica sociale e con il gusto della provocazione, ispirato proprio dall’insegnamento di Gaber. In Metti che domani, brano del suo penultimo disco Sindrome di Tôret, cita proprio il suo maestro: Libertà è partecipazione Ma anche il maestro vedesse in che situazione siamo adesso cambierebbe posizione. In un’intervista al «Corriere» di qualche anno fa il rapper dice: Se tutti parlano tanto per dire la loro non è vera partecipazione. Di Gaber condivido l’approccio non giudicante. Solo su un tema prendo posizione diretta: l’antifascismo è la linea di confine. Ancora oggi, il rapper non ha perso il gusto per l’anticonformismo privo di compromessi. Gaber per me è stato un maestro, e soprattutto perché mi sembra molto attuale. Attuale nelle tematiche e attuale nei sentimenti, e forse tutti noi abbiamo bisogno di vivere certi sentimenti e certe emozioni nella musica italiana. Io vivo Gaber come un nonno, quindi mi piace pensare a questa figura così familiare e mitica e avercela intorno a me ogni tanto, quando scrivo una canzone. Così racconta invece Cimini, giovanissimo cantautore della scuderia Garrincha, esibitosi al Piccolo Teatro di Milano in occasione dell’ultima edizione dell’evento Omaggio a G – Io ci sono, sei serate dedicate a Gaber per la manifestazione Milano per Gaber conclusasi il 23 marzo scorso. Sul palco, ad alternarsi con altri giovani artisti del panorama italiano anche N.A.I.P., all’anagrafe Michelangelo Mercuri, l’eclettico polistrumentista divenuto famoso nell’ultima edizione di X-Factor, che dell’artista maneghino dice: A me Gaber ha insegnato tanto, mi ha illuminato tantissimi punti bui della comprensione mia e della società, e nonostante siano passati gli anni è uno di quei casi in cui le sue parole valgono sempre. A chi vuole fare luce consiglio Gaber perché lui ha fatto fare a me luce. Lo scorso gennaio, ospite di Far finta di essere sani, format digitale per una serie di incontri virtuali con artisti contemporanei, N.A.I.P. si era già espresso su Gaber attraverso il brano I borghesi: Ho scelto questo brano perché lo trovo più che mai attuale; si parla dell’ imborghesimento e delle classi sociali, molto definite negli anni ’60 e ’70 ma che, a mio parere, sono riemerse nuovamente durante la pandemia che stiamo attraversando. Ascoltando il brano mi sono inoltre reso conto di alcune somiglianze linguistiche col racconto che faccio io nelle mie canzoni. Ascoltare Gaber per i giovani di oggi può voler dire trovare un secondo padre. Bene, alla domanda di prima non si può quindi che rispondere con autentico ottimismo: nonostante la società e il periodo in cui viviamo, è ancora possibile ascoltare musica e imparare. Imparare su di noi e magari reagire alla contemporaneità, ponendoci vecchie e nuove domande. Anche negli anni Venti del Nuovo Millennio. Giorgio Gaber, intanto, continua a fare da maestro. #Bootleg Link e video consigliati: Milano per Gaber, giovani artisti sul palco per l’evento «Omaggio a G-Io ci sono», in «Corriere», 19/03/2021 Far finta di essere sani, il nuovo format di Fondazione Gaber: ospite di questa puntata N.A.I.P. artista rivelazione di X-Factor che sceglie e commenta “I Borghesi” del Signor G, in «Spettacolinews», 15/01/2021 Milano per Gaber 2019 - incontro con Willie Peyote Far Finta Di Essere Sani ...con N.A.I.P., “I borghesi” Bibliografia: Manfredi, Roberto, Skan-zo-na-ta. La canzone umoristica e satirica italiana da Petrolini a Caparezza, Prefazione di Alberto Tonti, Skira, 2016 Foto nella pagina precedente proveniente dall’account Facebook ufficiale della Fondazione Giorgio Gaber #Bootleg Cimini sul palco del Piccolo Teatro di Milano. Dal profilo Instagram ufficiale @ancoramegliocimini 52 Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ Il signor G, Giorgio Gaber e il teatro canzone. Quando ‘canzone’ fa rima con ‘reazione’ 53 Illustrazione di Claudia Corso, @aetnensis Palin incontra anche Warhol. Con lui Palin scopre nuovi linguaggi dell’arte, imparando che le astrazioni sono veicoli potenti per invadere lo spazio percettivo. Quest’area tratta quindi di Arte, in tutte le sue forme e declinazioni, al di là di ogni possibile categorizzazione, al fine di indagare il mondo artistico in ogni sua forma: scultura, pittorica, musicale, teatrale e così via. Tutte le cose sono nell’aria, conta solo chi le realizza Andy Warhol Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_ Illustrazioni di: Andrea Innocenti, @monsayk_art Scritto da Martina Trocano #Area Warhol 56 “Sarebbe fantastico se altre persone si mettessero a fare serigrafie in modo che nessuno possa sapere se un’opera è mia o di qualcun altro” Andy Warhol personaggio eccentrico, controverso in grado di scuotere e rivoluzionare totalmente il mondodell’arte. Siamo nel 1962 e Warhol dipinge trentadue quadri rappresentanti lattine di zuppa Campbell, sostenendo che il cibo in scatola costituiva un degno soggetto artistico per una generazione ossessionata dal business. Con le lattine di zuppa si attuò la trasformazione dell’arte in bene di consumo. Nello stesso anno, basandosi su fotografie realizzate in studio a scopo pubblicitario, inizia a realizzare serigrafie di personaggi celebri: Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Elvis Presley e Jackie Kennedy. Si concentra, in seguito, sulla rappresentazione di tragedie realmente avvenute: Five Deaths, ad esempio, mostra degli adolescenti in abiti da festa vittime di un incidente d’auto; Suicide- Fallen body, l’opera più famosa della serie, dalla foto di cronaca di Robert C. Wiles, rappresenta una Andy Warhol modella gettatasi dall’Empire State Building e finita sul tettuccio di una limousine, per l’espressione serena del volto e la compostezza dal corpo, nonostante il volo dall’86° piano dell’edificio la fotografia è stata rinominata “The most beautiful suicide”. Dopo aver raggiunto la celebrità Warhol torna alla realizzazione di stampe che avevano per oggetto beni di consumo: la Coca-Cola, Brillo Box, altre latine di zuppa Campbell. Il suo studio, nel frattempo, prendeva il nome di “The Factory” di fatto sottintendendo che l’arte poteva essere prodotta con tecniche industriali, in catena di montaggio, proprio come i beni di consumo frutto della società capitalista che rappresentava, assunse degli assistenti per trasformare le foto in serigrafie, in seguito commissionò il lavoro a stamperie esterne. Andy Warhol deve il suo posto nella storia dell’arte al fatto di aver scardinato l’autorialità delle opre d’arte e all’utilizzo di mezzi di produzione di massa. #Ritratti: Andy Warhol LA ROSA REAZIONARIA: Gulabi Gang e Nishtha Jain Cosa accade dall’altra parte del pianeta? In India le donne stanche di un sistema corrotto da decenni, si ribellano utilizzando come simbolo il colore rosa, Nishtha Jain narra splendidamente la storia della Gulabi Gang attraverso lo strumento cinematografico. Fra i luoghi comuni più infantili, emerge che il rosa viene identificato come il colore delle ‘femminucce’. Questo non è certamente quello che pensano le attiviste della Gulabi Gang (gulabi infatti significa rosa) un gruppo di donne militanti che opera in tutto il territorio dell’India settentrionale, proponendosi come scopo la difesa delle donne vittime di soprusi e ingiustizie. Una delle loro caratteristiche è difatti quella di indossare l’abito tradizionale, il sari, proprio di colore rosa; un abito che ha una origine molto antica, risalente al VI secolo a.C. Come si legge nell’articolo de «La Stampa» del 27 febbraio 2008, la Gulabi Gang «è considerata una delle gang più agguerrite e temute dell’India settentrionale: rapida e feroce, si sposta tra i villaggi e le campagne brandendo coltellacci e bastoni, e togliendo il sonno a ufficiali di polizia e proprietari terrieri. Urla, minacce, pugni, impiegati terrorizzati, caserme assaltate». Tuttavia non nasce come movimento violento: usano come primo strumento l’indagine e il dialogo, e solo se l’individuo utilizza la violenza rispondono a loro volta con la stessa. Accade spesso, infatti, che vengano attaccate e che per difendersi rispondano con il laathis, il ramo di bambù divenuto simbolo di questa battaglia. In media, nel subcontinente indiano vengono commesse 92 violenze ogni ventiquattr’ore, ma gli esperti ritengono che molte di esse non vengano neanche segnalate. La reazione che si è avuta dinanzi a un sistema fortemente patriarcale è stato l’attivismo politico della Gulabi Gang mostrato nell’omonimo film di Nishtha Jain del 2012. In quali termini, quindi, si pone il cinema d’autore? Qual è la sua reazione all’imponente violenza patriarcale? Jain, classe 1965, è una regista indiana di fama internazionale e la sua reazione artistica si è occupata di indagare proprio quell’attivismo ‘rosa’ in uno splendido documentario disponibile sulla piattaforma Cinema Politica. Il film si interroga su esperienze riguardanti violenza di genere, caste e classi sociali, ed esplora il politico nel personale scoprendo i La rosa reazionaria: Gulabi Gang e Nishita Jain 57 diversa e con un maggiore impatto se la si mette a confronto con il cinema di registi come Paolo Sorrentino. Il lungometraggio è un ottimo esempio di inchiesta cinematografica che, attraverso una serrata analisi, mette a fuoco problemi e aspetti della condizione femminile in India, quali lo sfruttamento fisico e ideologico a cui il patriarcato ancestrale sottopone la donna. l’uso dell’arte cinematografica? Al di fuori delle porte del mondo occidentale vi sono delle realtà che non stenteremmo a definire primitive, con una forte accezione negativa. Il ruolo del cinema – e dell’arte in generale – è quello di reagire mostrando e registrando, al fine di creare un discorso critico sulle realtà circostanti, e infine gettare un seme per il cambiamento. #Area Warhol L’occhio della regista si configura come reazione a un determinato sistema immobile da anni. Come reagire se non direttamente denunciando con Questo è il ruolo delle forme d’arte degne di questo nome. Fonti: Ramesh Prasad Mohapatra, Fashion Styles of Ancient India: A Study of Kalinga from Earliest Times to Sixteenth Century Ad, Publishing Corporation, 1992, p. 35 Geraldina Colotti, Violenza di genere, impotenza del patriarcato, «Il Manifesto», 25 novembre 2014 All’India la maglia nera di peggior paese al mondo per le violenze sulle donne, «Il Messaggero», 24/12/2019 Bernie Mak, Cinema Politica Screening Review : The Gulabi Gang, «Graphite Publications», 29/01/2015 Nandini Krishnan, Nishtha Jain on documenting the Pink Sari Revolution, sify.com, 14/02/2014 #Area Warhol sistemi della classe privilegiata. Spesso, quando si parla di documentario, si pensa a qualcosa di didascalico, a un personaggio affascinante come Alberto Angela che presenta e spiega la realtà. Lo sguardo di Jain invece nella regia quasi scompare, diviene trasparente e persino antropologico: il suo occhio scruta, provoca e condanna un sistema innegabilmente corrotto da decenni. Il film si apre con campi lunghi e la fotografia è attenta e studiata come il suo bilanciamento di colori, ma non si distoglie mai dalla realtà e non teme di mostrare immagini forti come il corpo carbonizzato di una donna vittima di omicidio. Il gruppo di eroine mostrato nel film ha scisso l’opinione internazionale tra sostenitori e non. Tuttavia, in un mondo in cui la corruzione è la regola e non l’eccezione, appare quasi superfluo schierarsi a favore di queste donne coraggiose, nella misura in cui, laddove non arrivi la mano della giustizia, arriva l’individuo singolo che, utilizzando l’educazione, il dialogo e la dialettica, cerca di trovare una soluzione ai drammi quotidiani. La reazione della regista è la medesima delle componenti della Gulabi Gang, un gruppo di donne stanche di soffrire e soccombere silenziosamente. La pellicola è tra le prime indagini cinematografiche sulla condizione femminile in India analizzata nei suoi diversi aspetti economici, sociali, psicologici, di costume. Il tipo di immagini a cui è abituato il grande pubblico occidentale appartiene a quella società definita ‘dei consumi’; un’immagine capitalistica, fredda, edulcorata e piena di contraddizioni. I meccanismi del capitalismo sfruttano i Paesi dove la manodopera costa meno e uno di questi è proprio l’India. Le patinate immagini di Marilyn Monroe o Belen Rodriguez imposte dall’industria culturale sono molto lontane dalle diapositive proposte da Jain; quelle di donne impaurite, maltrattate, in una realtà drammaticamente 58 #Ritratti: Andy Warhol #Ritratti: Andy Warhol 59 #Area Warhol La Galleria de’ Foscherari #Palinvisita la Galleria de’ Foscherari di Bologna attraverso le parole di Francesco Ribuffo. Francesco Ribuffo dirige, insieme a Bernardo Bartoli ed Elena Ribuffo, la Galleria d’arte de’ Foscherari di Bologna, fondata negli anni Sessanta da Enzo Torricelli al quale si uniscono in seguito nella direzione Franco Bartoli e Pasquale Ribuffo. Fin dall’inizio fedele al proprio programma articolato in due filoni d’ indagine strettamente connessi: l’attenzione alla tradizione criticamente consolidata da un lato e l’interesse per la ricerca e la sperimentazione dall’altro. Krizia Di Edoardo ha intervistato Francesco Ribuffo per Palin Magazine. In quale contesto nasce la Galleria de’ Foscherari, ed in che modo si afferma in una scena attiva e vitale come quella degli anni Sessanta in Italia? La Galleria de’ Foscherari nasce nei primi anni Sessanta, in un momento in cui erano già conclamate le espressioni letterarie ed artistiche prodotte dalla rivisitazione delle avanguardie. Sono anche gli anni in cui si intravedono quei fermenti sociali, soprattutto giovanili, che sarebbero poi esplosi nella seconda metà del decennio. È dunque nell’ambito Scritto da Krizia Di Edoardo dell’affermarsi delle neoavanguardie, che la de’ Foscherari pone le basi della propria identità culturale, avviando un intenso programma di mostre, articolato lungo due direttrici strettamente connesse. Da un lato la riproposta della ‘tradizione del nuovo’, cioè una letterale rivisitazione delle avanguardie storiche nella loro sostanza criticamente consolidata, dall’altro l’attenzione alla ricerca sperimentale che proprio allora manifestava particolare vivacità e tendeva ad identificarsi con la neoavanguardia. Il biennio 1967/68 risulterà particolarmente significativo: vengono allestite le mostre di otto tra i più significativi artisti pop italiani (Angeli, Festa, Fioroni, Kounellis, Pascali, Schifano e Tacchi), poi una importante esposizione di Domenico Gnoli e una grande rassegna della Pop newyorkese. Ma non ci si è limitati ad individuare nella Pop una delle esperienze più alte della neoavanguardia, l’interesse è andato oltre con la mostra dedicata all’Arte Povera curata da Germano Celant nel febbraio del 1968. Dalla nascita della Galleria de’ Foscherari fino al 1989 i cataloghi pubblicati sono stati la sede di un dibattito teorico sull’arte, diretto da Pietro Bonfiglioli, che ha ospitato gli interventi di grandi critici d’arte, quali Barilli, Arcangeli, Celant e grandi artisti, quali Pistoletto e Guttuso. Ad oggi il dibattito critico intorno all’arte contemporanea è ancora così vivido? In che modo è cambiato? Fu proprio la mostra ‘Arte Povera’ a indurre Pietro Bonfiglioli a spingere più a fondo sul concetto di confronto teorico sull’arte, coinvolgendo i più prestigiosi e combattivi critici italiani del tempo. Il dibattito fu ininterrotto, pur con qualche inevitabile discontinuità, tra il 1965 e l’emblematico 1989. Dopo quella data, il dibattito critico ha segnato il passo, poiché si era consolidata l’idea di quella che Francis Fukuyama aveva definito la ‘fine della storia’, ovvero il trionfo definitivo ed irreversibile del connubio democrazia-capitalismo che da lì in poi avrebbe dominato l’esistenza umana. In questo orizzonte l’arte non può sfuggire alla sua oggettivazione come merce ed il denaro diviene l’unico valore simbolico; in questo contesto l’esercizio della critica non trova più spazio ed il mercato diviene il luogo in cui si negoziano tutti i valori, economici e simbolici. Forse è presto per dirlo, ma ritengo che con la pandemia del 2020 si siano manifestati fenomeni che possano suggerire che la fase storica inaugurata con il 1989, sia giunta alla conclusione e che ci avviamo ormai verso la fine della fine della storia. Se questo porterà ad una rinascita della critica e dell’arte è presto per dirlo, ma sicuramente molti interrogativi sono gettati sul tavolo. Negli anni Sessanta abbiamo figure di galleristi che collaborano strettamente con gli artisti, come Iris Clert in Francia o, in ambito italiano, l’esempio di Fabio Sargentini. Attualmente, invece, come si pone la figura del gallerista accanto all’artista? È importante conoscerlo personalmente? Fino a quando la società è mossa da una radicale richiesta di rinnovamento, artisti, galleristi e pubblico si possono incontrare in un terreno comune, rappresentato proprio da questa comune istanza. Con il tramonto di tale #Area Warhol 60 La Galleria de’ Foscherari La Galleria de’ Foscherari 61 rinnovato. È ancora troppo presto per poter comprendere la portata dei cambiamenti che sono in atto, la pandemia deve ancora toccare il picco, ma già certi fenomeni sono rilevabili. È la fine della fine della storia, l’equilibrio è spezzato, un mondo sta morendo, un mondo nuovo sta sorgendo. Intendo qui il mondo come comunità, come orizzonte di senso entro in cui l’umanità vive e si organizza. Pensiamo ad esempio al mondo nel quale abbiamo vissuto gli ultimi decenni, dove tutto succedeva sulla superficie, sulla pelle del mondo divenuto immagine. Non è forse l’invisibile che oggi a dare forma alla nostra vita? Un mondo che sorge è destinato sempre a manifestarsi prima sotto forma artistica, non perché gli artisti siano avanti, ma per il motivo opposto, per il carattere originario dell’opera d’arte. Io ho sempre creduto che interrogare il destino sia il compito dell’arte di ogni tempo. Ritengo dunque compito della Galleria e più in generale di coloro che operano nel campo artistico, possa essere quello di mettersi in ascolto, di accogliere l’altro, inteso non come ente con cui porsi in competizione, ma come parte di se stessi, con cui scoprire ed inventare nuove possibili relazioni. #Area Warhol #Area Warhol prospettiva e con l’affermarsi dell’idea della fine della storia e del neo liberismo economico, questo terreno comune non esiste più. I rapporti umani sono regolati dal modello del mercato. L’altro diviene dunque il concorrente rispetto al quale chiunque deve cercare di prevalere. Come sono cambiate le relazioni con il pubblico? Il contesto culturale degli anni Sessanta era caratterizzato, come abbiamo detto, da forze sociali che chiedevano un radicale rinnovamento della società ed in quel periodo il pubblico dell’arte era certamente formato dalla borghesia interessata all’acquisto di opere, ma anche da un ceto intellettuale che si sentiva coinvolto in quelle istanze di rinnovamento sociale che si esprimevano con forza nel campo artistico. Con la restaurazione, cominciata con il Sessantotto e consolidatasi con gli anni Ottanta, l’istanza avanguardista dell’unione arte-vita si è rovesciata in identità dell’arte con il mondo, un mondo trasformato in infinito arsenale di merci. L’oggetto artistico non è più merce in quanto arte, ma al contrario diviene arte in quanto merce. E tutte le merci entrano nel campo dell’estetica. Il pubblico diventa di massa mentre il ceto intellettuale perde il suo ruolo sociale e si disperde. La Galleria de’ Foscherari come ha reagito ed affrontato la situazione COVID-19? Ricevo questa domanda nel momento in cui Bologna torna zona rossa, come un anno fa. La stagione è identica, l’aria è tiepida, il sole splendente, la città, vuota e silenziosa, è bella. Rispetto ad un anno fa tanti sono stremati economicamente e psicologicamente, le gallerie i musei, i cinema ed i teatri sono chiusi. Per ora si naviga a vista, cercando di sopravvivere, ma consapevoli che l’approdo sarà in un mondo differente e profondamente 62 La Galleria de’ Foscherari La Galleria de’ Foscherari 63 Scritto da Krizia Di Edoardo artisti che raccontavano le opere in mostra; il secondo canale dedicato alla collezione permanente; il terzo canale era dedicato a Giorgio Morandi con approfondimenti, piccoli saggi, la parole di alcuni testimoni, documenti d’archivio; il quarto canale era il dipartimento educativo. L’ultimo canale era dedicato agli ospiti invitati dal museo a lasciare come uno degli obiettivi di un museo relegata spesso solo all’ideazione di mostre. Grazie al Nuovo Forno del Pane, questo il nome del progetto, è stata possibile invece la creazione di una vera e propria comunità fisica. Nuovo Forno del Pane Foto Valentina Cafarotti e Federico Landi Courtesy Istituzione Bologna #Area Warhol Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo - Museo di Arte Moderna di Bologna. Palin parla con Lorenzo Balbi, direttore artistico del MAMbo, il Museo di Arte Moderna di Bologna. #Area Warhol Il settore artistico rientra tra quelli più duramente colpiti dalle misure anti-Covid19. Ed è in questo clima che, insieme a teatri e cinema, anche i musei hanno reagito reinventandosi e proponendo soluzioni alternative di fruizione grazie alla capacità organizzativa di chi ci lavora. Krizia Di Edoardo ha intervistato Lorenzo Balbi, direttore artistico del MAMbo – Museo di Arte Moderna di Bologna. È da più di un anno che conviviamo con la pandemia da Covid-19. In che modo i musei, in particolare il MAMbo, hanno reagito? Più di un anno fa la situazione di emergenza ci ha colto alla sprovvista. A febbraio avevamo appena inaugurato una mostra collettiva dal titolo AGAINandAGAINandAGAINand, quando Emilia-Romagna, insieme a Veneto e Lombardia, vennero chiuse per un primo lockdown. Non era mai successo niente di simile in 45 anni di attività del museo, per cui ci siamo trovati a far fronte a una situazione del tutto imprevista e imprevedibile da un giorno all’altro. In quella prima settimana abbiamo deciso subito di reagire tentando di rendere i contenuti della mostra che avevamo in atto fruibili al pubblico: abbiamo quindi deciso insieme all’artista islandese Ragnar Kjartansson, nonché protagonista con la sua opera Bonjour nella sala centrale del MAMbo, di proporre uno streaming live di quell’opera sui canali social del museo, quasi a permettere di sbirciare dal buco della serratura e avere la possibilità di ingaggiare nuovi pubblici, mantenendo viva l’attenzione sulla mostra (2 minuti di MAMbo 17. Ragnar Kjartansson). Dopo una piccola riapertura, abbiamo dovuto chiudere in modo perentorio e senza un’aspettativa di breve durata. A quel punto abbiamo adottato una seconda linea di reazione: 2 minuti di MAMbo in lockdown, un nuovo format di brevi video, appunto di 2-3 minuti, massimo 3 e mezzo, simbolicamente dal martedì alla domenica, giorni di apertura del museo. Questi brevi erano orientati secondo cinque canali tematici: il primo sulla mostra in corso, con gli Nuovo Forno del Pane Foto Valentina Cafarotti e Federico Landi Courtesy Istituzione Bologna Musei una loro testimonianza. Ad oggi i due minuti di MAMbo sono diventati un format proprio del museo divenendo i 2 minuti di MAMbo Extended, approfondimenti più lunghi su tematiche relative al museo. Il terzo e più appariscente tentativo di reazione è stato pensato e proposto all’inizio di aprile 2020, quando fu chiaro che sarebbe stato impossibile pensare di fare attività aperte al pubblico. Si è deciso di utilizzare lo spazio del museo non più come spazio espositivo ma come spazio di produzione artistica. Sono stati selezionati tredici artisti che hanno potuto usufruire del museo come spazio di lavoro, ripensando di fatto il ruolo del MAMbo nell’idea di quella creazione di comunità citata MuseiNuovo Forno del Pane Foto Valentina Cafarotti e Federico Landi Courtesy Istituzione Bologna Musei In che modo si evolverà il progetto Nuovo Forno del Pane? Il Nuovo Forno del Pane non cesserà la propria attività perché l’idea del museo di un dipartimento permanente che si occupi di produzione artistica è sempre stato un mio obiettivo anche pre-pandemia. Questa è stata l’occasione per varare in grande stile questo progetto che continuerà la sua azione con nuovi artisti, ovviamente, e altri stimoli. Nell’ottica di riallestire gli spazi, con varie 64 #palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi #palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi 65 appunto, vasi e fiori finti di seta che l’artista dipingeva, potendo fare la combo tra modello e opera che solo noi possiamo permetterci. Questo focus è stato disallestito e ora ne è stato inaugurato uno che mette al centro il tema della produzione pittorica di Morandi, quindi i materiali della sua produzione e curiosità legate al suo modo tecnico di intendere la pittura. Inoltre, sempre nell’ottica di mediazione culturale e riscoperta delle collezioni, è stata ideata un’app che offre possibilità di percorso personalizzate in base ai visitatori, che siano singoli, in coppia o in gruppi e famiglie. un’analisi più approfondita perché siamo stati aperti per diversi mesi. In un’estate anomala senza turisti, il pubblico è stato composto prevalentemente da persone provenienti dalla città metropolitana o della regione. Se nel 2019 eravamo circa 1000 visitatori a settimana nel 2020 ne abbiamo avuti 600- 650 che è un ottimo risultato considerando che nel 2019 di quel 1000-1200 un buon 60% erano turisti. Certo, i dati sono fortemente plasmati dalla situazione contingente di emergenza. Speriamo non più verificabile. Come si pone in relazione alle normative anti-Covid attinenti ai musei? #Area Warhol #Area Warhol riaperture a singhiozzo, come è cambiato il percorso di visita del museo? Lo spazio delle mostre temporanee non è visitabile da febbraio 2020, mentre al pubblico è stato sempre aperto, quando è stato possibile, dal 19 maggio al 4 novembre e di nuovo da due settimane ad oggi la parte della collezione permanente. Al primo piano due spazi sono stati adibiti a luoghi di mostre temporanee: la project room del MAMbo ha ospitato una mostra su Castagne matte a cura di Caterina Molteni che metteva insieme delle opere mai viste dalla collezione dei depositi del museo con opere provenienti da altri musei dell’istituzione Bologna Musei. Il tema molto attuale legata alla ritualità alla scaramanzia dei piccoli riti domestici e questa mostra fa parte di un ciclo di mostre che si chiama ‘RE COLLECTING’ sull’idea di riappropriarsi delle collezioni perché in qualche modo questo sarà il futuro dei museo , cioè ripartire dalle proprie collezioni, in dialogo con la comunità locale. Giocoforza perché il turismo sarà fortemente penalizzato e il primo pubblico di riferimento è il pubblico di prossimità, più vicino al museo. Offrendo a delle persone che probabilmente hanno già visto quel museo una nuova modalità di visita, nuove chiavi di lettura e nuovi accostamenti a partire dalle opere della collezione. A queste mostre nella project room si collegano anche quelle fatte nell’ultima sala del percorso del museo Morandi in cui abbiamo allestito un primo focus, dedicato ai fiori del maestro bolognese, in cui erano stati accostati un numero eccezionale di dipinti a tema floreale della nostra collezione con, Non mi piace dire che la pandemia è stata un’opportunità, perché è stata ed è un’immane tragedia per la nostra generazione, ma ciò che è successo è che di fronte ad una situazione molto negativa, ma sicuramente eccezionale, si ha avuto modo e tempo di pensare a modelli diversi dando quell’idea di adattabilità. Il museo non più pensato come edificio che conserva degli oggetti ma come centro culturale in grado di offrire delle risposte alla comunità. In che modo è mutato il pubblico, in termini numerici? È difficile fornire una stima sui visitatori perché abbiamo aperto e chiuso diverse volte, per cui i dati lasciano il tempo che trovano. Ad esempio, le ultime due settimane abbiamo aperto da martedì a venerdì con un pubblico possibile decisamente ridotto. Tra un lockdown e l’altro, invece, si può fare Io non ho mai criticato né criticherò le decisioni; se ci dicono di rimanere chiusi è giusto ed è un provvedimento necessario per contenere la pandemia. Questa volta, tuttavia, è più complicato capire le ragioni per cui non si possa riaprire durante il weekend, anche perché tra un lockdown e l’altro abbiamo dimostrato di saper reagire dotandoci dei sistemi necessari per poter riaprire al pubblico in totale sicurezza, e non sono mai stati segnalati focolai o problemi provenienti da un’eccessiva frequentazione di spazi culturali. Critico, inoltre, il costante stato di incertezza per cui questa settimana non si sa cosa avverrà di noi la prossima quindi questo ci impedisce di fare una programmazione seria e sensata. Per assurdo per noi sarebbe più facile un provvedimento che ci faccia rimanere chiusi fino ad aprile piuttosto che farci riaprire a singhiozzo. Questo ci impedisce programmazione e lungimiranza perché per noi è un danno notevole in termini di lavoro ed economici. Intervista realizzata il 15 febbraio 2021 Immagine in copertina: Direttore artistico MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna Foto Claudio Cazzara 66 #palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi #palinparlacon: Quando l’arte reagisce alla pandemia. Intervista a Lorenzo Balbi 67 Scritto da Ilaria Monarini #Area Warhol Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire Ruota tutto intorno a una nuova idea di reazione e soprattutto di rivoluzione. Germano Celant parla dell’Arte Povera come di un’azione povera sottolineando il senso eteronomo dell’attività artistica come di una «possibile strategia socio-culturale, in cui processo eversivo e gnoseologia giungono alla frantumazione del sistema di dittatura industriale». L’arte si trasforma in un teatro di azioni povere non strumentalizzabili, in cui l’eteronomia dell’arte è la sua vera povertà. #Area Warhol La storia dell’arte insegna che all’atto creativo ogni autore si è sempre approcciato in qualche misura reagendo, condizionato dal contesto sociale del suo tempo. Nell’era della contemporaneità, l’Arte Povera può essere considerata uno dei movimenti che ha fondato la propria ragion d’essere proprio sul principio di reazione. A mettere in luce questo nuovo modo di vedere e pensare è stata la Galleria de’ Foscherari di Bologna, nel febbraio del 1968, con l’inaugurazione della seconda mostra a livello mondiale dedicata a un linguaggio espressivo teorizzato dal noto critico Germano Celant, purtroppo scomparso lo scorso anno. Per Arte Povera si ritrovarono Gilberto Zorio, Alighiero Boetti, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Luciano Fabro, Giovanni Anselmo, Emilio Prini, Gianni Piacentino e Mario Ceroli. Un evento che fornì l’occasione di un dibattito fra i più importanti e partecipati, a cura di Pietro Bonfiglioli. Di quel tempo di contestazione, dal maggio parigino agli scontri tra studenti e polizia a Valle Giulia a Roma, alle piazze d’Europa e in America occupate da rivolte pacifiste contro la guerra in Vietnam, gli artisti hanno dimostrato una profonda presa di coscienza, facendo propri i valori umani e l’ansia di libertà e giustizia sociale che in quel preciso momento della Storia stava animando specialmente una generazione nuova di studenti e di lavoratori. Si è imposta una nuova visione dell’arte: non più solo estetica ma materiale, non isolata Inaugurazione della mostra “Arte Povera”, 1968 Galleria de’ Foscherari. Courtesy Galleria de’ Foscherari 68 Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire 69 #Area Warhol Emilio Prini Ipotesi sullo spazio totale Courtesy Galleria de’ Foscherari rispetto al contesto sociale, ma anzi capace di interagire provocatoriamente con esso. Provare oggi a rivisitare l’esposizione alla de’ Foscherari, a mezzo secolo di distanza da quell’evento, può aiutare a mettere a fuoco quella stessa ansia di reazione, ma soprattutto di rivoluzione, che sembra animare più di una scena figurativa del nostro tempo; la stessa che in Pistoletto si faceva riconoscere con gli specchi con l’intento di ricreare fenomenologicamente noi e il nostro io. La realtà si fa dunque strada nello specchio e diventa la prima possibilità di reazione per stabilire un rapporto univoco tra l’arte e la vita. Il mondo non è più un modello da seguire e sente quindi l’esigenza di farsi coinvolgere esclusivamente dal suo movimento presente, creando opere senza un’aspettativa codificata. Con Ipotesi sullo spazio totale, Prini si crea una propria area – vuota, firmando la stanza di una galleria e appropriandosi del contenitore. Ritroviamo una serie di punti e di proiezioni plastico-volumetriche della sua percezione. Si parla di una reazione mentale, dove l’idea diventa molto più importante del manufatto e rende la presenza fisica dell’opera un motivo scatenante di movimento, di pensiero negli spettatori, trasmettono in tutto e per tutto la loro voglia di inventare e sperimentare. A seguire c’è Paolini, che con le bandiere, le tele, i quadri, racconta la sua ricerca personale improntata sull’analisi dei fondamenti costitutivi della creazione artistica; con Merz, la luce al neon da medium dissociante passa a elemento segnico associante, creando insiemi di lavori formati da bottiglia, giglio, bicchiere, meccanismo, neon, oppure bottiglia, tubo, plexiglas, neon, assemblaggi autonomi senza una particolare storia, volti a rappresentare la sua visione del mondo. Ceroli, invece, abbraccia la scultura (il legno è il suo materiale) portandola in scena come manifestazione macroscopica di una sua libertà inventiva e poetica. Si parla ancora di autonomia con Piacentino, con le sue composizioni difficili da collocare, sfuggevoli ed essenziali. Kounellis dalla pittura passa a un’idea di libertà dell’uomo e delle cose, e così anche Fabro, che si mostra libero dall’esterno, concentrandosi su nuove suggestioni mentali per l’artista e per il visitatore, grazie a materiali figurativi coinvolgenti. Si appoggiano reagendo a nuovi contenuti e c’è la necessità di un’arte non statica ma performativa. L’Arte Povera si mostra, dunque, come materia vitale e in continuo divenire. Prende forma grazie alle energie degli artisti, rendendo invisibile ma percepibile la loro essenza. Anche Boetti affida il lavoro allo spettatore, vuole che la viva; nell’opera Pietre e lamiere, ad esempio, usa materiali «che ostentano solo il loro ‘farsi’», per denotare lo stupore di ogni azione inventata o reperita nuovamente per la prima volta, quale il taglio, l’incastro, l’accumulo, la creazione dei segni associativi, la scoperta di una decorazione già «in natura». Imprevedibilità, reazione, espressività, ciò che mostra Zorio. A lui dell’immagine interessa la forza dei materiali e la possibilità di combinazione che crea positive conflittualità e tensioni piene di energia. Infine, con Anselmo scopriamo opere mutabili, che si formano nell’istante in cui vengono montate e che mirano ad una corrispondenza tra forze equivalenti, quali l’uomo e la natura, giungendo così ad un grado elevatissimo di concentrazione. Una mostra che si conclude con l’inizio di un cambiamento che prosegue tutt’oggi, in cui le installazioni diventano finalmente attive con lo spettatore. Fonti: Vittorio Boarini, Il notiziario della Galleria de’ Foscherari 1965-1989, Galleria de’ Foscherari, 2019. Pietro Bonfiglioli, Arte Povera quaderno n 1 Ed Galleria de’ Foscherari, Presentazione di un dibattito, 1968. De’ Foscherari www.defoscherari.com Giulio Paolini, in Castello di Rivoli 09 - ARTE POVERA - L’estetica dell’ordinario - Germano Celant Alighiero Boetti Pietre e lamiere Courtesy Galleria de’ Foscherari #Area Warhol 70 Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire Reazione come nuova definizione artistica dell’essere e dell’agire 71 Scritto da Annalisa Foglia #Area Warhol Pubblica Reazione Artistica #Area Warhol Quanto può un’opera d’arte coinvolgere il pubblico? Se la valutassimo attraverso parametri estetici (e soggettivi) all’interno di un museo, non riusciremmo di certo a quantificarlo. Se invece i parametri fossero ben altri e l’opera venisse resa pubblica, imponendosi quindi come elemento costitutivo di uno spazio urbano, la reazione generale degli avventori sarebbe nettamente diversa. L’arte site-specific risponde esattamente al secondo caso e, di fatto, sia in Europa sia in America, ha avuto la sua ragion d’essere in termini di coinvolgimento. Nell’ambito dell’arte pubblica, in particolar modo quella site-specific, il pubblico assume un ruolo centrale in quanto non si limita a essere spettatore ma diventa parte attiva. Alcuni progetti di arte pubblica a cura di grandi artisti hanno innescato delle reazioni inaspettate e decisive da parte del pubblico, della comunità, come dimostra l’opera che è divenuta l’emblema del rinnovato e complesso rapporto tra artista e pubblico: Tilted Arc (in copertina Richard Serra, Tilted Arc, 1979-1999). Nel 1981 l’artista statunitense Richard Serra realizzò per la Federal Plaza di New York un’opera site-specific; il suo lavoro divenne parte integrante della piazza in questione ridefinendola strutturalmente e concettualmente. L’organizzazione della piazza stessa venne modificata profondamente in quanto l’arco (lungo 37 m, alto 3,7 m e dello spessore di 6,7 cm) attraversava l’intero sito. L’opera era stata commissionata all’artista nel 1979, esattamente venti anni dopo Richard Serra fu costretto a distruggerla in seguito a una profonda reazione della comunità del luogo. Le accuse mosse contro Tilted Arc furono molteplici e non solo di carattere estetico o artistico: tra gli oppositori c’era chi sosteneva che l’opera fosse psicologicamente oppressiva e un esperto della sicurezza sottolineò come tale scultura impedisse la sorveglianza totale della piazza favorendo graffiti e azioni vandaliche. Le udienze del 1985 etichettarono Tilted Arc «as an arrogant and highly inappropriate assertion of a private self on public grounds» [1] . La rimozione dell’opera è diventata, negli anni successivi, il simbolo di una reazione collettiva per il recupero di spazio pubblico da parte di una comunità che fino a quel momento non era mai stata così unita. Un altro caso singolare è quello a opera, o per meglio dire non-opera, di Daniel Buren a Weimar. Un testo su tale intervento artistico ha come titolo La Piazza mai costruita – un fallimento di successo, in riferimento al progetto dell’artista per la Rollplatz della città tedesca. In occasione della nomina di Weimar come Capitale della Cultura Europea per l’anno 1999, fu invitato nella cittadina tedesca Daniel Buren per la realizzazione di un’installazione in una piazza a sua scelta. L’artista francese scelse Rollplatz, un parcheggio a cielo aperto che avrebbe voluto trasformare in una piazza all’italiana, un luogo di incontro non per auto ma per cittadini. Il progetto di Buren sarebbe stato inaugurato in occasione della grande manifestazione temporanea, ma avrebbe assunto un carattere permanente che avrebbe modificato per sempre l’assetto urbanistico, estetico e concettuale della città. Organizzando una riunione a cui era stata invitata tutta la cittadinanza di Weimar, Buren espose il suo progetto pubblicamente con l’intento di arricchirlo attraverso le considerazioni o le obiezioni che avrebbero manifestato gli abitanti. La partecipazione fu alta soprattutto perché molti dei partecipanti erano già venuti a conoscenza del progetto dell’artista attraverso la pubblicazione di un render non autorizzato su un giornale locale. Naturalmente le reazioni e le prese di posizione furono varie e ci furono numerose obiezioni sia per la viabilità che per aspetti tecnici. La partecipazione continuò a essere elevata: si formarono due schieramenti ben distinti tra i favorevoli e i contrari. Il fervore culturale della città si manifestava in maniera costruttiva e creativa. Ad esempio: I sostenitori del progetto rivelarono invece una vivace creatività. Durante alcune sedute del Consiglio Comunale riuscirono a sgombrare il Rollplatz dalle macchine parcheggiate e organizzarono delle performance in cui veniva simulata l’installazione delle steli, posizionando persone di diversa altezza nell’assetto della griglia progettata da Buren: nel centro i bambini e nella periferia gli uomini più alti con i figli sulle spalle. [2] 72 Pubblica Reazione Artistica Pubblica Reazione Artistica 73 #Area Warhol L’ampio dibattito attorno all’opera si concluse con la proposta di realizzare lo stesso progetto in un’altra piazza, offerta che venne rifiutata da Buren, mentre Rollplatz mantenne il suo ruolo di parcheggio automobilistico. Le reazioni intorno all’opera di Buren continuarono e, nella notte tra il 31 dicembre 1998 e il 1 gennaio 1999, un gruppo di cittadini piantò, forando il manto stradale della piazza in questione, 200 alberi di Natale; inoltre, nell’estate del 1999, fu organizzata una piccola festa in piazza durante la quale venne presentato un disegno parietale rappresentante Rollplatz con l’installazione di Buren dal titolo Questo sarebbe stato il vostro premio. Sia Piazza che Tilted Arc non rappresentano un successo in termini materiali, formali e tangibili per l’arte pubblica; nessuna delle due opere esiste a New York come a Weimar. Quello che accomuna questi lavori di due dei più grandi artisti contemporanei nel campo dell’arte site-specific è il risultato ottenuto in termini di reazione e coinvolgimento sociale. Fonti: [1] M. Kwon, One place after another. Site-specific Art and Locational Identity, MIT Massachusetts Institute of Technology, Cambridge 2002 [2] Julia Draganovic (a cura di), La Piazza mai costruita – un fallimento di successo, in E. Cristallini (a cura di) L’arte fuori dal museo. Saggi e interviste, Gangemi editore, 2008 Suzanne Lacy (edited by), Mapping the terrain. New Genre Public Art, Bay Press, 1994 Performance svoltasi presso la Rollplatz di Weimar in occasione del progetto Piazza ad opera di Daniel Buren, 1998. 74 Pubblica Reazione Artistica Pubblica Reazione Artistica 75 Scritto da Stefano Laddomada #Area Warhol Dissenso e provocazione. La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli” #Area Warhol “Don’t feed the troll” (Non alimentare il troll) è un’espressione familiare soprattutto ai nativi digitali in cui il troll, demoniaca creatura delle fiabe scandinave, diventa l’utente di internet che trova piacere nell’alimentare una polemica e provocare il proprio interlocutore. Lontanamente da quanto si possa credere, anche il mondo dell’arte ha conosciuto i suoi troll con l’Entartete Kunst, l’ ‘arte degenerata’, nel pieno periodo di propaganda nazista. Così come in ogni fiaba scandinava che si rispetti, anche il web ha i suoi trollt: quelli buoni, ossia semplici utenti dal dubbio senso dell’umorismo che durante un’accesa discussione, per esempio sotto l’ultimo post del Presidente del Consiglio, chiedono delucidazioni sulla preparazione dell’ orata all’acqua pazza, e i troll cattivi, creature subdole e fameliche che si confondono nella selva dell’internet e che si cibano della rabbia e delle reazioni altrui per tornaconto personale e ai quali è meglio non dar da mangiare. Il trabocchetto che ci viene teso da quest’ultimi è a volte così velato da trarre in inganno anche il più abile dei leoni da tastiera. Sembrerebbe quindi naturale pensare che i troll siano frutto di usi e conseguenze della rete, in cui lo spazio digitale viene condiviso da tutti e in cui ognuno coltiva determinati gusti, certezze e interessi che comunica con il mondo virtuale generando conflitti e discussioni su siti e social. Questo tipo di atteggiamento, tuttavia, non vede la sua origine nell’era di Internet ma è un fenomeno che esiste da ben più tempo con dinamiche simili; lo stesso mondo dell’arte ha dato vita a episodi degni dei più fastidiosi troll dell’epoca contemporanea. Il caso che più di tutti spicca è quello della cosiddetta Entartete Kunst, l’arte definita ‘degenerata’, che i più appassionati di arte e storia ricorderanno come un movimento controverso e sadico. Nel 1937, durante il picco di potere del Terzo Reich, il ministro della Propaganda Joseph Goebbels decise di sfruttare le opere confiscate dalle truppe naziste a artisti etichettati come sovversivi per comporne una mostra composta da più di 600 pezzi, con lo scopo di una intenzionale denigrazione nei confronti di tutti gli stili (soprattutto moderni) e le rappresentazioni in contrasto al Reich. L’atto di censurare gli artisti e tutti coloro che in un qualsiasi altro modo decidevano di comunicare il proprio dissenso, venne ripensato e riadattato successivamente dal ministro della Propaganda per comporre quella che potremmo definire oggi una bacheca di haters: sminuire l’altro, il diverso, per rafforzare la propria identità e la propria visione, un atto di cattivo gusto che ricorda, neanche così difficilmente, un uso contemporaneo dei social network da parte di alcuni utenti. La mostra, della quale fecero parte, tra le altre, opere di Klee, Chagall, Dix, Kandinsky e Picasso, venne accompagnata da didascalie e slogan provocatori, in un ambiente scarsamente illuminato e reso volutamente inospitale e tedioso. Inizialmente esposta a Monaco di Baviera, la mostra divenne in seguito itinerante e attraversò undici città tra Germania e Austria. Il biglietto per visitarla era gratuito così da coinvolgere il maggior numero di persone in questo spiacevole teatrino dell’orrido. Nonostante la Storia si sia poi giustamente ritorta contro il regime nazista e una parte delle opere sia comunque riuscita ad essere valorizzata –grazie anche alla scoperta della collezione Gurlitt di pochi anni fa – nei musei di tutta Europa, quest’episodio dimostra la tragica attualità di un comportamento e di un fenomeno risalente non solo al periodo di digitalizzazione in cui siamo ormai destinati a vivere, ma ad un modo di agire insito nell’uomo con origini quasi sicuramente primitive. Lo scherno suscitato Fonti: dal dissenso è ormai una pratica ‘propagandistica’ di uso comune soprattutto per chi fa delle proprie idee l’unico, inconfutabile valore da contemplare, con totale noncuranza delle possibili sfaccettature delle credenze e delle abilità altrui, cancellando gradualmente lo spirito critico dei propri sostenitori. In un periodo che premia i trend topic, il dissenso costante a portata di schermo è una pratica in cui il troll, sapendo di trollare, banchetta quotidianamente senza mai saziarsi, spinto dalle interazioni e dai commenti sia dei suoi sostenitori che dei suoi dissidenti, generando così un circolo vizioso di fastidiosi botta e risposta basati su nient’altro che una provocazione. Spuntarla è difficile ma non impossibile; è necessario non inciampare sui contenuti pensati per istigarci, tenersi strette le proprie briciole di speranza (e la propria arte) e impegnarsi a sfruttarle per un nutrimento più sano e morale, in primis per noi stessi. http://www.artspecialday.com/9art/2021/01/27/arte-degenerata-censura-1937/ https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/entartete-kunst-mostra-nazista-arte-degenerata https://www.treccani.it/enciclopedia/entartete-kunst/ https://www.youtube.com/watch?v=eDPQW5aP9Rc 76 Dissenso e provocazione. La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli” Dissenso e provocazione. La strategia reazionaria del “purché (non) se ne parli” 77 Palin incontra anche Gramsci. Con lui Palin scopre che per indagare nel vasto mare della storia bisogna partire dalle singole increspature delle onde, intendere ogni evento nella sua specificità sociale. Quest’area tratta quindi di Sociopolitica, dallo studio delle disuguaglianze ai nuovi confini della contemporaneità, cercando di offrire uno sguardo molteplice e aperto su ogni aspetto che costituisce il mondo come lo conosciamo oggi. Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà. Antonio Gramsci Ritratto di Krizia Di Edoardo, @_elenamuti_ Illustrazioni di: Claudia Corso, @aetnensis #Area Gramsci Meticcio, ma orgogliosamente italiano, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci ha camminato sulla penisola scrivendo e ragionando, finché ne ha avuto le forze. Gramsci aveva grande consapevolezza della sofferenza della vita che si era scelto, ma chiaramente vedeva degli obiettivi più alti, uno scopo più importante e così scrive il 10 maggio 1928 alla madre, prima della condanna a vent’anni di reclusione: «La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.» Antonio Gramsci Ma prima del carcere, prima di una consapevolezza così profonda, Gramsci era un bambino dato per morto, per le condizioni di salute che avevano portato la madre a comprargli una bara a quattro anni. Ma lui cresce e aiuta la famiglia lavorando in un catasto sardo, mentre il padre è in carcere. A 15 anni riesce ad iscriversi al ginnasio e diventa uno studente modello, appassionato di scienze umanistiche, storia e politica. All’università di Torino conosce Togliatti, ha Bartoli come insegnante e lega il proprio nome a quello di altri grandi. Con la Prima Guerra Mondiale inizia a scrivere per giornali socialisti, quali l’«Avanti», ma dopo gli avvenimenti sindacali e le sommosse operaie del ’20, si avvicina alle idee bolsceviche di Lenin. Il suo legame con la Russia lo porta anche a incontrare sua moglie, la violinista Julka Schucht, con la quale avrà i figli Delio e Giuliano. Inoltre, nel 1921, nasce il Partito Comunista e lui ne sarà leader, anche se per poco. Solo cinque anni più tardi la sua vicenda politica si stravolge: l’8 novembre 1926, violando l’immunità parlamentare, viene arrestato e condannato a vent’anni di carcere. Ma la sua attività intellettuale e politica continua, con i colloqui-lezioni durante l’ora d’aria e con i Quaderni del carcere, interrotti nel 1935, a causa delle condizioni di salute. Solo nel 1937 passò dalla libertà condizionata alla piena libertà, ma ormai era gravemente malato, e morirà nello stesso anno. eatis maximus quam repedit expe vendend itincta tempor reribus, qui dolorestota sam, sum adipsan imolorepedis rempore vent alia pellaborum fuga. Ut as molorro te id quo explicimil ipicides exero que si aut pra sitatur, coriatur? Tatur sam, ut volupit aspient istiasime non nonsect empore por acipit lautet molorep erferionsed moluptatur apite verumenis autat re dem se molecea quia porit ut laut alic te volesci llaborepudi odionse dissitionse imodiatiam nullabo. Ximoluptae sit est, comnis solum, to velectatenet volupta que net dempore ratur? Optiasi oditibusant harum re, quam, to volorro bea cum quistru mendern atiassi magnatibusam exped eos eius, sum quianim agnihit optis suntist, velicietur sumquatae nullibercil min esti rempore rchitis et perae ped quia illessedit ommodit maior mintia ni que pratecatem di beaquiat unt dignatemquo quat pore si sunt, volendio. Solorro estibus. Ed erum rehendelicid mosapedist, ut landes dolupic ipsant mi, ipsa aciandi tiusciet qui reriberrum et alit es quisqui optaerio te pos suntionsed est, ut pelit vende doluptium aut volor asinctemodit quos atecerio commo erferiae nati disquaes pro odis idelecusamet rem ut apiscie ndaernatem ius et volorem volut optios eate omniene cus sam aut volles earume asperum venis eturemqui omni comnist unt, ant alia nosto del elisitium untiatquia vent auta denim con re dolesendam, comnime dese volum sitatat endit et omni utatemporia qui non repra simaximin nosa con repudae reperum que re quam, comnihil molut audi dolent volorpore ipsant labore sitint, od et abo. Sectur aut imin num in parum quatet aut reicte odit et volupturia aut am reruntus, sinti con con num re, cus re plandicia volores tiaeresequis dunt in essimos solore, volut aut et quunt. Ciis dollupt iorehent. Imet dipisto tatur? 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Samus ea sinia volorum, tori anima apidicitatur seni aut aut enimillaut quis maxim que optat et liqui dolorum alitate mporeprovid quid ut volupta volori doleste porit venempeles et adisquam, asperent omnis aut impores net andam quisciassit modit, abor aborrupta sunt doluptatus et qui alibus dolor accum fugitaspero corporitatia nossi senitibusam commoste perrum et min nestiistrum aditae plam ra sum acea dunt. #Area Gramsci 80 #Ritratti: Antonio Gramsci #Ritratti: Antonio Gramsci 81 Scritto da Tommaso Bassi #Area Gramsci REAGIRE DAL BASSO Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace Il paradosso ‘case senza persone – persone senza casa’ è senza dubbio tra le grandi contraddizioni del nostro tempo. Il caso di Riace è riuscito a scardinare questa dicotomia, mostrando il potenziale ruolo dei piccoli borghi italiani, oggi rivalutati alla luce della pandemia. #Area Gramsci Il sociologo John Holloway, nel suo libro Crack Capitalism, usa una metafora suggestiva per indicare un’alternativa alla visione rassegnata al dominio del paradigma neoliberista. L’autore parla di una stanza le cui quattro pareti lentamente avanzano verso il centro, rimpicciolendosi lentamente. Coloro che sono all’interno si dividono tra chi discute su come disporre l’arredamento e chi si concentra sul trovare delle fessure e degli spiragli nelle mura, cercando di individuarli per poi allargarli. Stando ben attenti a non cadere nel romanticismo della lotta o nell’utopia, seguire l’appello di Holloway, concentrandosi quindi sull’agire (e reagire) umano in un mondo che appare dominato da forze incontrollabili e deterministiche, può rivelarsi un utile esercizio intellettuale nonché un’ottima pratica quotidiana. La Riace che Mimmo Lucano ha contribuito a creare si avvicina molto a questo concetto, coniugando il resistere al reagire, trovando le fratture nei muri per poi trasformarle in porte. L’ex sindaco di Riace, infatti, ha risposto a fenomeni globali tramite piccole azioni locali, cercando di raggiungere quella che lui stesso ha definito una «utopia della normalità». Il borgo calabrese si è proposto come un esperimento di innovazione sociale nato dalle contingenze del nostro tempo, mettendo in campo politiche sociali e di accoglienza ora studiate in tutto il mondo. Lefebvre avrebbe probabilmente definito il borgo calabrese in questione un’ eterotopia, «uno spazio dell’altro» vale a dire uno di quegli «spazi liminali ricchi di possibilità» originati da una forma auto-organizzata di partecipazione. Questo tipo di spazi rimettono in discussione il concetto di diritto alla città – in questo caso diritto al borgo – teorizzato dall’autore francese, percorrendo la logica della riappropriazione dei luoghi e della loro autodeterminazione. Ciò che colpisce del caso di Riace è il modo in cui si sia riuscito a scardinare la dicotomia urbano-rurale, centro-periferia, rendendo quel piccolo borgo una periferia al centro del mondo, trasformando una comunità rurale sempre più svuotata e isolata in una società complessa e poliglotta. Si potrebbero dare diverse chiavi di lettura del modello Riace, o focalizzarsi su diversi esempi virtuosi emersi grazie al lavoro di Lucano e dei suoi collaboratori. Quello su cui si prova interesse a soffermarsi, tuttavia, è il modo in cui due temi apparentemente distinti (ma in realtà profondamente connessi) come il sottoutilizzo del patrimonio immobiliare e i flussi migratori siano stati combinati nella pratica risultando in una soluzione da prendere ad esempio. Per contestualizzare meglio questi fenomeni è necessario allargare un attimo il focus. Uscendo dal borgo e guardando alla Calabria, si scopre che è la regione con il più alto rapporto case vuote-abitanti, con 450.000 abitazioni vuote all’attivo. Questi dati risultano ancora più inaccettabili se si pensa che la regione in questione è la stessa in cui si trova l’insediamento informale di San Ferdinando, dove le persone vivono in condizioni inammissibili e rischiose. Se allarghiamo ancora l’obiettivo e lo puntiamo sull’intero stivale, ritroveremo le stesse contraddizioni accompagnate dallo stesso paradosso: case senza persone e persone senza casa. Si stima infatti che in Italia siano circa sette milioni le case vuote, più o meno un quarto del patrimonio immobiliare complessivo. Le ragioni di ciò sono diverse, e variano da contesto a contesto. Tuttavia, è possibile delineare almeno due tendenze ricorrenti. Nelle grandi città, in molti casi, la speculazione edilizia e la pressoché inesistenza di una politica per l’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP) creano le condizioni per un patrimonio immobiliare inaccessibile e quindi sottoutilizzato. Nei borghi e nelle aree rurali, invece, le case sono vuote a causa dell’esodo verso le città, dove si spera di trovare servizi e opportunità assenti nelle realtà che ci si lascia alle spalle. Nell’attuale fase pandemica si sente spesso parlare di un’inversione di tendenza, di un ritrovato bisogno dello spazio, del verde, della natura, e di un nuovo interesse verso le aree rurali e montane del territorio. Negli oltre cinquemila piccoli comuni italiani una casa su tre è vuota, e già molte regioni e amministratori si stanno operando per attirare nuovi abitanti. La direzione sembra essere quella di puntare sulla flessibilità del mondo del lavoro e sullo smart working, rivolgendosi quindi ad un determinato target della popolazione appartenente a una classe media con un 82 Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace 83 Scritto da Tommaso Bassi #Area Gramsci #Area Gramsci certo potere di acquisto, probabilmente già in possesso di un’abitazione in un’area urbana, e attirata dal paesaggio e dai vantaggi dell’area pulita. Se ci si muoverà in questo senso, tuttavia, l’occasione per contribuire a ridurre la forbice tra case vuote e abitanti, nonché la forbice delle diseguaglianze sociali, verrà ancora una volta sprecata. Non basta riempire le case ma serve, come ci insegna il caso di Riace, avere una visione per questi luoghi abbandonati che rimetta al centro la comunità e l’economia locale. In tal modo sarebbe Fonti: John Holloway, Crack Capitalism, Palgrave Macmillan, 2010. possibile garantire una vita dignitosa e gettare le basi per la costruzione di una collettività ritrovata, stimolata da chi davvero ha bisogno di un tetto e si trova in difficoltà economica. Mai come oggi, un tempo in cui il dibattito sul futuro dei piccoli comuni è attivo, il caso Riace va discusso e compreso, partendo dagli ideali che lo hanno mosso e che, implicitamente, hanno messo in evidenza le contraddizioni di un sistema economico che genera case vuote e senzatetto. Henri Levebvre, La révolution urbaine, Editions Gallimard, 1970. Mimmo Lucano, Il fuorilegge: La lunga battaglia di un uomo solo, Feltrinelli, 2020. Laura Cavestri, Recuperare i borghi d’Italia può valere 2 miliardi, «Il Sole 24 Ore», 31/08/2020 Alberto Ziparo, Case vuote abbandonate al degrado, la soluzione è il riuso sociale, «Il Manifesto», 16/02/2019 Alberto Ziparo, Un paese di case vuote. Un quarto del patrimonio abitativo è sottoutilizzato, «Il Manifesto», 2/09/2017 Palin parla di diritti dei migranti e libertà di movimento con Andrea Costa, coordinatore di Baobab Experience a Roma. Baobab Experience è un’associazione nata nel 2015 che da anni presidia un insediamento informale dietro alla stazione Tiburtina di Roma, offrendo prima accoglienza a chi fa tappa nella capitale. Lì dormono in maniera fissa decine di persone invisibili alle istituzioni italiane ed europee. Come raccontano nel loro sito, l’associazione nasce dall’idea di garantire la libertà di movimento a tutti e di rivendicare i diritti di chi, a causa di forze maggiori, è costretto ad abbandonare la propria terra in cerca di un altrove più sicuro. Palin incontra Andrea Costa, coordinatore di Baobab Experience, per cercare di capire cosa significa fare attivismo sul territorio facendo i conti con i risvolti materiali prodotti dalle mancanze del sistema di accoglienza italiano ed europeo. Ogni mese qui a Palin affrontiamo un tema che cerchiamo di approfondire sotto diversi punti di vista, quello di questo mese è reazione. L’esperienza di Baobab Experience nasce in reazione a cosa? Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi Intervista ad Andrea Costa di Baobab Experience Si può tranquillamente dire che Baobab Experience nasce come reazione, se vuoi quasi impulsiva e di cuore, ad un’ingiustizia. Per ingiustizia intendo centinaia di persone abbandonate per strada con le istituzioni che fanno finta di non vederle perché se lo facessero dovrebbero adottare un progetto di accoglienza e quindi un investimento economico. Per questo nasce Baobab, dall’unione di una serie di persone che cominciano ad organizzarsi per portare aiuto e solidarietà a queste persone che vivono ditro la stazione Tiburtina a Roma. Seguendovi si viene a conoscenza dei numerosi sgomberi che l’insediamento dietro alla stazione tiburtina ha subito dal 2015 a oggi. Materialmente come avvengono questi sgomberi? Che alternativa viene offerta? Guarda questa domanda è perfetta perché proprio stamattina all’alba è avvenuto il trentottesimo sgombero. Non viene offerta nessuna alternativa, sono sgomberi parziali: li prendono, 84 Reagire dal basso. Il potenziale dei piccoli borghi e la lezione di Riace #palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa 85 #Area Gramsci li portano in questura e poi li rilasciano la sera. Quindi è proprio un gesto simbolico, anche perché sono persone già schedate e segnalate. Devono fare vedere che hanno tutto sotto controllo. Buttano quello che trovano, coperte, materassini e le poche cose che questi ragazzi hanno ma poi la sera saranno costretti a tornarci, finché non si troverà un centro di accoglienza o un luogo in cui possano stare. Noi non demordiamo mai, nemmeno dopo la giornata di oggi, continuiamo a portare avanti le nostre richieste rivendicazioni e qualcosa abbiamo ottenuto, per qualcuno riusciamo a trovare un tetto. il punto è che gli arrivi continuano, sono addirittura raddoppiati rispetto all’anno scorso, anche nel periodo invernale. In più, anche se i decreti Salvini sono stati superati le centinaia di persone messe in strada da questi decreti sono ancora lì, non è che questa cosa è retroattiva. Il danno è stato fatto. A proposito di questo, voi portate avanti, tramite sit-ins e manifestazioni, le istanze dei migranti rivendicando la tutela dei loro diritti. Come pensate vada affrontata la tematica delle migrazioni per garantire una vita dignitosa a queste persone? Queste persone sono state escluse da un circuito di vita regolare, dalla possibilità di trovare un lavoro, un appartamento o un percorso formativo. Il problema non viene affrontato alla radice e si ragiona solo nella logica di misure emergenziali. Qualsiasi governo che agisca razionalmente e con buon senso dovrebbe capire che investire in accoglienza significa investire in sicurezza, perché si toglierebbero da situazioni estreme e di povertà persone già vulnerabili e disperate per il viaggio traumatico che hanno affrontato. Recentemente abbiamo avuto il piacere di intervistare Michele Lapini (link all’intervista a Lapini), un fotografo freelance che ci ha raccontato le condizioni drammatiche e le violenze che subisce chi tenta il ‘Game’ in Bosnia. Siete attivi anche lungo le frontiere Italiane ed Europee? Ti ringrazio per la domanda perché questo tema è molto legato all’attività di Baobab Experience in quanto, occupandoci di migranti in transito, abbiamo molto focalizzato i nostri sforzi su quelli che poi in Europa, e verso l’Europa, sono stati i transiti di migranti. È un anno e mezzo che facciamo missioni in Bosnia e stiamo anche mettendo in piedi un progetto molto grosso a Ventimiglia, dove fino a due settimane fa c’erano 50 migranti e oggi ce ne sono 300. Noi lo sappiamo bene anche perché spesso partono da Roma provenendo dal sud del paese. Va detto che a Ventimiglia si incontra la rotta mediterranea con la rotta balcanica, ovvero le persone che tentano il Game in Bosnia e Croazia, per poi attraversare la Slovenia ed entrare nel territorio italiano tagliando da oriente ad occidente il settentrione del nostro paese per poi provare ad entrare in Francia e raggiungere il nord Europa. Qual è la situazione attuale al vostro presidio dietro la stazione Tiburtina? Ora ci sono circa 120 persone, ma dipende… c’è il giorno che ne arrivano 40 e ne partono 20. Diciamo che i numeri oscillano tra 70 ai 130. Devo dire che in questo periodo di pandemia il nostro lavoro è stato più duro, intanto perché abbiamo voluto continuare a non far mancare niente a queste persone e siamo stati quindi esposti al rischio di contagio, e poi per la difficoltà di muoversi e fare missioni all’estero. In più il Covid, come abbiamo visto, colpisce le fasce più deboli e non protette, anche se fortunatamente noi abbiamo avuto pochissimi casi. Però ecco diventa tutto più difficile, anche con gli arrivi, in quanto sappiamo che quando li comunichiamo, facendo sapere a chi di dovere che sono arrivate persone, nei (pochi) casi in cui accettano qualcuno bisogna assicurare un periodo di quarantena, test e via dicendo. Diciamo che è una difficoltà in più scaricata su chi fa tutto ciò come volontario. La mia impressione è che la narrazione sui migranti sia fitta di stereotipi e generalizzazioni, senza riportare la complessità delle diverse situazioni e trattando i migranti come un grande gruppo omogeneo, attribuendogli spesso connotazioni negative. Cosa ne pensi? Noi l’abbiamo sempre detto, la percezione che si ha in Italia e anche in Europa delle migrazioni è dovuta alla narrazione che se ne fa, ed è una narrazione assolutamente dopata. Tu puoi fare mille ricerche sociologiche, ma i migranti non sono un’entità astratta, sono persone che scappano da delle situazioni, se noi continuiamo a considerarli dei numeri, confrontando gli arrivi di quest’anno con l’anno scorso, producendo diagrammi e proiezioni, non ne usciamo. I migranti sono persone, con nomi, cognomi, sogni, pregi e difetti. A chi porta avanti la narrazione dei migranti come malintenzionati non bisogna rispondere che i migranti son tutti buoni, i migranti sono cattivi e sono buoni. C’è di tutto, come in Italia e in ogni altro paese del mondo. Non è che c’è una percentuale più alta di imbroglioni, ladri o criminali rispetto ad altri gruppi. Dobbiamo ricominciare a considerarli persone uscendo da stereotipi tendenzialmente negativi, ma pure dallo stereotipo dei migranti tutti buoni e carini. Se non si fa questo non se ne esce e ci si ritrova a parlare dei migranti esattamente come si parla delle periferie, ci sogno gli angeli e i demoni, non è così, né nelle periferie né tra i migranti. Dobbiamo essere capaci di ribaltare questo tipo di narrazione. L’agenda politica e la narrazione sui migranti ce la siamo fatti dettare dal populismo, dalla demagogia, e ora siamo costretti a rincorrere, a giustificarci quasi. Dobbiamo fare lo sforzo di comprendere un fenomeno, partendo dal capire chi abbiamo davanti. Ci si trova di fronte ragazzi che studiavano all’università nei loro paesi e che interrompono il loro percorso per anni. Così si buttano via cervelli e risorse facendole rimanere in un limbo, magari in Libia o sotto il giogo dei trafficanti. Pensi sia possibile mettere a sistema diverse lotte, penso per esempio al femminismo, ai movimenti ambientalisti, al diritto alla casa e ai diritti dei migranti, tramite una visione di insieme che accomuni le diverse istanze? Mi fa piacere che proprio oggi mi fai questa domanda perché proprio oggi abbiamo festeggiato la vittoria dei riders di JustEat che hanno conquistato il contratto, la tredicesima e gli straordinari. L’abbiamo festeggiato come abbiamo festeggiato l’abolizione dei decreti #Area Gramsci 86 #palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa #palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa 87 #Area Gramsci Salvini. Un altro esempio può essere la lotta per la casa, che in questa città vede i migranti, o meglio ex-migranti, visto che vivono qui da anni ormai, come assoluti protagonisti. Chiaramente sono loro adesso in quelle fasce che più devono darsi da fare per lottare per avere una casa. Questo è solo un esempio per farti capire come queste lotte siano intrecciate, e probabilmente ci si deve sforzare di più per far comunicare meglio queste diverse istanze in maniera sinergica, cosa che non tutti hanno ancora capito bene. A mio parere la lotta per i diritti dei migranti è sicuramente centrale perché intorno ad essa si potrebbero unire e ritrovare tante lotte apparentemente distanti. Noto un divario sempre più ampio tra i problemi affrontati dai soggetti che sono presenti e calati nel territorio, come Baobab Experience, e l’agenda politica istituzionale. Secondo te cosa possono fare i soggetti attivi sul territorio per colmare questo divario? È necessario scendano loro stessi in politica? Intanto è una domanda molto interessante e da un milione di dollari. Io posso dirti che quello che sono riuscito a fare in questi sei anni di coordinatore di Baobab nella mia esperienza precedente in politica non l’avevo mai fatto, ma anche perché la politica non mi avrebbe mai lasciato quello spazio. Io mi auguro che le nostre istanze possano essere rappresentate nuovamente. Questo non significa che devi mettere in lista uno che si occupa di immigrazione, uno di verde e via dicendo, ma che si devono creare delle liste che sappiano rappresentare il quartiere, o la città, e le sue contraddizioni. Detto ciò, noi come Baobab collaboriamo spesso con persone che coprono cariche politiche. Ti posso fare l’esempio dell’amico ed europarlamentare Pietro Bertone, il medico di Lampedusa che ha salvato centinaia di persone in mare. Con lui abbiamo collaborato diverse volte e lo abbiamo anche stimolato a fare una missione in Bosnia. Quello che la società civile può fare è questo, stimolare la classe politica. Intanto cominciamo con quello, poi vediamo. #Area Gramsci Fonti: Foto prese dal profilo Facebook di Baobab Experience 88 #palinparlacon: Continuare a muoversi per ottenere il diritto di restare fermi. Intervista ad Andrea Costa Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi 89 Scritto da Luca Speziale #Area Gramsci Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo La storia di Mohamed Bouazizi La reazione di singoli esseri umani all’efferata e incontrastata ferocia del mondo ha determinato la caduta di regimi, l’inclinazione dei mercati internazionali, crisi di valori e una serie di effetti e fenomeni macroscopici. #Area Gramsci Può il battito delle ali di una farfalla in Brasile scatenare un tornado in Texas? era il titolo di un articolo con il quale il matematico Edward Lorenz si presentava al centotrentanovesimo meeting dell’American Association for the Advancement of Sciences nel 1972. L’illustre matematico è ricordato per essere il creatore della Teoria del caos e del famoso Effetto farfalla, ovvero la nozione secondo la quale variazioni minuscole nelle condizioni iniziali di un sistema complesso producono effetti molto più grandi a lungo termine. Piccole azioni apparentemente insignificanti creano reazioni dagli effetti giganteschi e incontrollati: ovviamente, Lorenz applicava la sua teoria ai fenomeni scientifici come il meteo o la statistica, ma è evidente invece come questo effetto farfalla abbia avuto conseguenze ben più note nella storia umana e, si potrebbe dire, anche nella quotidianità stessa. Si pensi a quando un monaco inchiodò al portone di una chiesa di Wittenberg un foglietto con alcuni enunciati e il cuore dell’Europa bruciò come non mai; oppure a quando una sarta afroamericana rimase seduta al suo posto su un autobus a Montgomery non cedendolo a un passeggero bianco; a quando un manipolo di giovani coloni buttò in segno di protesta delle casse di tè; si pensi anche a quella marcia durata settimane terminata con un pugno di sale nelle mani di un giovane indiano. La storia dell’umanità è piena di eventi microscopici, apparentemente privi di significato, eppure catalizzatori di cambiamenti storici. La reazione di singoli esseri umani all’efferata e incontrastata ferocia del mondo ha determinato la caduta di regimi, l’inclinazione dei mercati internazionali, crisi di valori e una serie di effetti e fenomeni macroscopici. Un vero e proprio tornado causato dal battito di ali di piccole farfalle. Una di queste storie è quella di Tarek el-Tayeb Mohamed Bouazizi, conosciuto più semplicemente come Mohamed Bouazizi. Il 4 gennaio 2021 è stato il decimo anniversario della morte 90 Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi 91 nuovamente teatro di manifestazioni dovute all’aggravarsi della situazione socio-economica e all’epidemia mondiale di Covid-19. Oggi va ricordato, va ricordata la sua reazione, il suo coraggio e la sua disperazione, un binomio che molto spesso accompagna la reazione al cambiamento e forse una delle vere costanti che andrebbe inserita all’interno della funzione della Teoria del caos e dell’Effetto farfalla così da capire realmente com’è possibile che azioni tanto piccole cambino il mondo intero. #Area Gramsci Fonti Osman El Sharnoubi, Martyr’ Muhammad Bouazizi’s Birthday remembered on Twitter, Ahman Online, 29/03/2011 American Association for the Advancement of Sciences Mohamed Bouazizi, Channel 4 Remembering Mohamed Bouazizi, Al Jazeera Proteste in Tunisia #Area Gramsci di Mohamed, un uomo che ha contribuito a cambiare la storia di questo secolo. Mohamed Bouazizi era un venditore di frutta e verdura nelle strade della Tunisia, veniva da una famiglia di umili origini e conobbe in prima persona la brutalità del mondo, in particolare quella del mondo tunisino. La storia è semplice: tutte le mattine il ragazzo, per mantenere la famiglia, spingeva la sua carriola di verdure comprate per rivenderle. Un giorno la polizia gli sequestra la merce e le bilance (forse chiesero dei soldi che Mohamed rifiutò di dare), e dopo aver discusso in municipio con altri funzionari, non ricevette indietro la sua merce. Così Mohamed, dopo una vita passata in balia della brutalità e della corruzione di questo mondo, comprò della benzina e si diede fuoco dinanzi al municipio. Potreste pensare: «beh… uno dei tanti», e avreste anche ragione, se non fosse che con l’immolazione di Mohamed Bouazizi il mondo cambiò. Il gesto dell’umile fruttivendolo colpì allo stomaco la gente in Tunisia e di lì a poco scoppiarono le manifestazioni del gennaio 2011, quelle che passarono alla storia come la Rivoluzione dei gelsomini. Queste manifestazioni avrebbero portato alla primavera araba, alla caduta o alla mutazione dei regimi in nord Africa, alla caduta di Gheddafi e al fenomeno delle attuali migrazioni, le fluttuazioni del mercato petrolifero e la riorganizzazione dell’economia del nord Africa e nella penisola arabica. Non sappiamo se Mohamed Bouazizi, Martin Lutero, Rosa Parks, Mahatma Gandhi e gli altri artefici della Storia immaginassero a cosa avrebbe portato il loro ergersi, più o meno consciamente, dinanzi alle ingiustizie del mondo; non sappiamo se si aspettassero questi risultati, però ci sono stati, e ancora oggi permangono nella Storia. Un fruttivendolo, un prete, una sarta, un gruppo di coloni, uno studioso, persone comuni che hanno deciso di reagire, spesso pagando per le loro azioni. L’ultima parte della storia di Mohamed, infatti, non è un lieto fine: il giovane venditore morì il 4 gennaio 2011 all’ospedale di Ben Arous con ustioni gravi su oltre il 90% del corpo; inoltre, a dieci anni dalla sua morte, la Tunisia è 92 Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi Quando un fruttivendolo ha cambiato il mondo. La storia di Mohamed Bouazizi 93 Scritto da Meron Shawel #Area Gramsci Minoranze: le conseguenze del non appartenere La non appartenenza è la dimensione centrale del disagio vissuto dagli individui parte di una minoranza. In questa analisi vediamo come la speranza di un miglioramento della condizione delle minoranze passi necessariamente dalla presa di coscienza delle dinamiche di oppressione e da una reazione collettiva, contro la discriminazione passiva e interiorizzata. [In collaborazione con Francesca Puntillo, dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche] Non si può risolvere il disagio delle minoranze se prima non si comprende in che modo il loro naturale bisogno di appartenere viene leso. abbandonati o come la richiesta di non esprimere la propria identità, nasconderla in nome del mantenimento di una pace fittizia. #Area Gramsci L’appartenenza è fondamentale per l’uomo: significa sentirsi inclusi e apprezzati per il proprio valore individuale in un determinato contesto. Quando si appartiene si viene accettati nel pieno della propria identità, qualunque essa sia, e ci si sente liberi di esprimerla. Significa non sentirsi soli, poter partecipare attivamente come membro della propria comunità, sentirsi connessi a tutti gli altri. Franz Fanon, nel suo saggio di psicoanalisi Pelle nera, maschere bianche (1952), analizza con precisione tali meccanismi nel caso dell’uomo di colore, comunque applicabili a tutte le minoranze. Chi fa parte di una minoranza può andare incontro al sentimento di non appartenenza in due contesti: quello familiare e quello sociale. In quello familiare l’esclusione si presenta come il non essere accettati, l’essere Nell’ambito sociale, invece, si parla di discriminazione sistematica, pregiudizi che vengono portati avanti a livello collettivo – talvolta apertamente, talvolta in modo più subdolo –, bullismo, assenza del riconoscimento di pari diritti, e nel peggiore dei casi persecuzione e violenza nei confronti della minoranza in questione. Quindi, mentre nel primo caso si ha a che fare con dinamiche che coinvolgono individui all’interno di nuclei familiari, nel secondo tali dinamiche avvengono a livello collettivo e possono coinvolgere gli organi dello Stato. Naturalmente i due ambiti non sono affatto separati: se non vi fosse pregiudizio a livello sociale e sistemico, difficilmente ne esisterebbe uno a livello familiare. Prendiamo il caso della comunità LGBTQ+: i suoi membri sperimentano molto spesso un esplicito rifiuto in entrambi gli ambienti. L’allontanamento dalla propria famiglia da una 94 Minoranze: le conseguenze del non appartenere Minoranze: le conseguenze del non appartenere 95 costo di una penosa esclusione. Egli si sente cronicamente ‘di troppo’, ‘l’Altro’, e non sa dare valore alla propria identità perché nessun altro sembra averlo mai fatto. La sua vita, attraversata da tale sentimento di non valore, è uno sforzo per ottenere quell’accoglienza che gli è stata negata attraverso la conformità. Così, per paura di venire nuovamente abbandonato, egli abbandona se stesso. presa di coscienza della propria ‘diversità’, con la pretesa che essa venga rispettata e accolta. Questa è una reazione non solo più sana, ma anche più utile al fine del concreto raggiungimento del proprio benessere. Anzi, si può dire che mentre la prima descritta sia una non-reazione (poiché caratterizzata dalla passività), questa sia una reazione vera e propria. #Area Gramsci #Area Gramsci parte e il trattamento ricevuto dalla società dall’altra non fanno altro che ricordare loro che ciò che sono non è che una devianza, qualcosa di ‘diverso’ dal ‘normale’, una stranezza o persino il sintomo di una patologia. Di recente, nelle direttive per le vaccinazioni anti-Covid rilasciate dall’Asl 5 di La Spezia si leggeva fra i soggetti considerati ‘con comportamenti a rischio’ «omosessuali, tossicodipendenti e soggetti dediti alla prostituzione». La Regione Liguria, dopo le polemiche sollevate in particolare dalla menzione ingiustificata degli omosessuali, si è scusata e ha poi dichiarato che tali linee guida fossero state riprese direttamente da quelle del Ministero della Salute. Se già era grave che ciò fosse emerso a livello regionale, è ancora più preoccupante che all’origine del problema vi fossero direttive nazionali. Il copia-incolla acritico che sarebbe stato alla base di questo errore è il sintomo di pregiudizi che ancora resistono anche fra i membri delle istituzioni; è semplicemente inaccettabile che in documenti ufficiali si parli di comportamenti a rischio in relazione ad un orientamento sessuale che nulla ha a che fare con l’effettivo stile di vita di un individuo. Dunque, riprendendo l’analisi sulla natura della non appartenenza, il risultato che si ottiene è un sentimento di solitudine, isolamento e soprattutto abbandono. Si finisce così per avvertire la propria identità come non apprezzata, non pienamente valida, e di conseguenza non ci si sente sicuri nell’esprimerla. Ci si domanda quindi: qual è la reazione di un individuo quando il suo bisogno di appartenere viene negato? Fanon si sofferma nell’analizzare l’influenza che la condizione di abbandono ha su un individuo, e su come gli impedisca di esprimersi autenticamente. Non essendosi mai sentito accolto per quello che è, ‘l’abbandonico’ non crede di poter essere se stesso se non a Passivizzandosi, si fanno propri inconsciamente tutti quei giudizi per cui si è sofferto, e si finisce per partecipare anche direttamente alla propria stessa oppressione. Si pensi a quanto è comune vedere donne fare victim-blaming (colpevolizzazione della vittima) nei confronti di altre donne che hanno subìto una violenza sessuale, spostando sulla vittima la responsabilità dell’esperienza traumatica vissuta; è evidente che per una donna sia controproducente rinforzare quella stessa mentalità che non le permette di sentirsi al sicuro nel camminare da sola per strada. Ma d’altronde come si può difendere il proprio valore – in questo caso di donna – se semplicemente non lo si conosce? Fanon intende proprio questo quando, parlando della liberazione dell’uomo di colore, insiste su come questa debba significare innanzitutto liberazione da se stesso, smettendo di essere «schiavo dei propri archetipi»; è necessario che si rigettino tutti i pregiudizi che si sono interiorizzati o che ci si è arresi a credere veri pur di sentire meno la sofferenza del sentimento di appartenenza negato. Le lotte per l’affermazione dei diritti delle minoranze non sono affatto espressione di questo atteggiamento passivo, ma anzi di un giustificato risentimento che spinge a farsi attivamente partecipi della propria liberazione. Di contro, in questa ‘seconda fase’, poiché si è imparato a conoscere il proprio valore, si è anche in grado di provare una legittima rabbia verso chi lo ha ignorato. Dunque, in opposizione allo sforzo di conformarsi per ottenere l’accettazione, vi è la piena Non è certamente scontato che un individuo riesca a maturare fin da subito la coscienza del valore della propria identità e a difenderla in un ambiente ostile, ma nel momento in cui ci riesce può finalmente mettersi in contatto con i membri della propria stessa minoranza o di altre minoranze (intersezionalità) e coniugare lo sforzo di cambiare lo status quo. Solo con la nascita di questa coscienza prima individuale e poi collettiva sono pensabili i processi di liberazione. Una liberazione che avviene per ‘gentile e spontanea concessione’ della maggioranza, infatti, non è sufficiente, perché non è il risultato di una reale dialettica: essa sarà avvenuta attraverso le stesse dinamiche di potere che pongono le minoranze in una posizione di soggezione e dipendenza. Il tema dell’appartenenza aiuta a leggere e comprendere in modo più profondo la natura delle lotte e del malcontento espresso dalle minoranze, poiché ne costituisce il punto centrale. Il gay pride non è – come spesso si sente dire – un semplice show, un’inutile spettacolarizzazione della realtà queer: esso è, al contrario, una reazione diretta all’oppressione. Difendere l’orgoglio gay significa respingere la mentalità per cui essere gay dovrebbe essere motivo di vergogna. Analogamente, mostrare apertamente le identità queer in tutte le loro sfaccettature è la reazione ad una realtà che suggerisce di nasconderle o che le ignora. Insomma: finché ci si continuerà a lamentare del gay pride se ne continuerà anche a confermare la necessità. Allo stesso modo, lo slogan Black Lives Matter 96 Minoranze: le conseguenze del non appartenere Minoranze: le conseguenze del non appartenere 97 non è che la risposta ad una realtà che sembra affermare il contrario e, se ci si chiede perché le proteste contro il razzismo siano sfociate talvolta in violenza e caos, la risposta è ancora una volta da cercarsi nell’esasperazione del non appartenere e del non sentirsi al sicuro. Pur non essendo questa una giustificazione all’uso della violenza, è certamente una chiave di lettura della realtà. Impossibile esaurire in questa sede tutto ciò che ci sarebbe da dire sul tema delle minoranze: si è cercato di mettere in luce come un concreto miglioramento della condizione delle minoranze passi necessariamente da una loro netta presa di coscienza delle dinamiche di oppressione e da un’attiva reazione a queste ultime. Come visto, limitarsi a sperare in un futuro migliore è ancora sintomo di un atteggiamento passivo che contribuisce ben poco a modificare nella sostanza il presente. Come più efficacemente espresso da Fanon: Ogni problema umano richiede di essere considerato a partire dal tempo. Ma se la libertà consiste nel non farsi vittima del passato al fine di poter costruire un avvenire, è solo nel presente che questa libertà può esercitarsi, e/o questo avvenire rischia di perdere ogni significato reale nel momento in cui cessa di essere a misura di un’esistenza umana. Il postulare una salvezza futura delle minoranze o in generale dell’umanità non apporta alcun rimedio alle disgrazie che essi vivono nel presente. Pertanto, diventa vitale la ricostruzione di una nuova prospettiva in cui vengano riscritti i fondamenti, muovendo dall’interrogazione sull’umano e sull’uomo in relazione con gli altri. Solo in questo modo è possibile pensare ai processi di liberazione. #Area Gramsci Fonti: Marco Lignana Matteo Macor, ‘Omosessualità comportamento a rischio Covid’. L’incredibile documento è del Ministero della Salute e non della Asl di Spezia, «La Repubblica», 11/02/2021 Fanon F., Pelle nera, maschere bianche, Edizione ETS, 2015. #Area Gramsci 98 Minoranze: le conseguenze del non appartenere Minoranze: le conseguenze del non appartenere 99 Reazione fisica Gabriele Conte Riemergi, galleggi, reagisci. Ma cosa ti salva dalla possibile rapina del nulla? Perché dopotutto, dopo tutto quello che hai passato, la spinta che il mondo può darti sarà sempre uguale a quanta forza ti darai per emergere. Prendi la rincorsa, raccogli il coraggio. La tua forza è quella dei gesti leggeri, ma grandi. E non sai quanta acqua riuscirai a spostare. Giovane Concept Artist italiano,nasce a Palermo e affronta un percorso di studi che si conclude con una laurea biennale, nel 2014, in scenografia all'Accademia di Belle Arti di Bologna, dove vive e lavora come concept artist/illustratore freelance. Reazione Reaction Social, foto, like. Ma quanti sono? Anche se non riesci a liberarti dal migliore degli amici, anche se riconosci le catene della #reaction, come reagisci alla vista del cuore ? Io, come te, sono dipendente dalla dose quotidiana della sola insulina che calma il mio mare. Post, tap, like. La paranoia del doppio tocco. Reazione emotiva Reazione, reagire, rivivere. Cosa porta i tuoi occhi al di là della sofferenza? Come riesci a superare la delusione? Cosa resta di tutta quella sete? La rinascita, la primavera, i fiori che sbocciano. Il mondo è nelle tue mani, ricordalo. Riscattati, dibattiti, reagisci. Ché alla fine del tunnel arriva sempre un bel panorama, e al di là della linea dell’orizzonte c’è ancora luce Reazione chimica Subisci, reagisci, ma come riesce un corpo a reagire a tutto?Il tuo “ormone del buonumore” sarà il ritrovare gli altri quando tutto sarà finito. Intanto fermenti, scalci, vuoi uscire. La boccia è troppo stretta e tu sei ancora in formazione, in carica. Ti hanno detto di cibarti di tutto ma tu hai deciso di reagire alla tempesta con una tazza di serotonina calda, che gusti in attesa del risveglio nel mondo. Reazione Natura Erba che ricresce, che reagisce. Rigermina da se stessa nonostante tutto. E noi? Qualsiasi cosa accada e nonostante tutto, il rizoma della mia pianta è l’invisibile alla vita che il sottoterra nasconde. La Natura è parte di noi e anche nei momenti devastanti apparteniamo ai suoi frangenti. La società arborescente canta e suona l’arrivo di nuove genti. 100 #ProgettoGrafico: Gabriele Conte #ProgettoGrafico: Gabriele Conte 101