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#Area Heisenberg
testo e trasferire le nozioni agli studenti, piuttosto
provo a tradurre quella che è la mia esperienza
nel campo della ricerca scientifica nei
concetti e nel contenuto dei corsi. Perché io
sono convinto del legame intimo tra ricerca
e insegnamento universitario: non dobbiamo
fare l’errore di pensare all’università come alla
naturale successione della scuola superiore.
Il docente universitario ha come compito non
semplicemente insegnare, ma tradurre la
propria esperienza scientifica in insegnamento
per gli studenti. Quindi gli studenti apprendono
‘a fare’ e, con questo taglio, apprendono
sempre ciò che è alla ‘frontiera della conoscenza’.
Per questo, non si tratta di trasferire
conoscenza consolidata, ma nuova conoscenza.
Questo è il grande salto che si fa dal
liceo all’università ed è per questo assolutamente
necessario che un docente universitario
faccia ricerca.
I modelli esteri che guardano alla possibilità
di avere ‘teaching university’ (cioè università
in cui si fa solo insegnamento) sono modelli
perdenti perché la qualità dell’insegnamento
ne risente se il docente non è artefice della
propria conoscenza attraverso la ricerca.
Naturalmente questo si fa con un processo
che va dai primi agli ultimi anni di università,
in cui le conoscenze si spostano sempre più
dal ‘consolidato’ alla ‘frontiera’ sfumandone
sempre di più i confini. Dunque, l’impegno di
un docente sulla ricerca è fondante, è una
delle ragioni d’essere di un docente universitario.
Questa è una principale differenza tra i
modelli ‘tipo-italiano’ e alcuni modelli esteri in
cui c’è una gran divisione tra l’insegnamento
e la ricerca, che viene magari demandata ad
enti di ricerca che non hanno l’insegnamento
tra i propri mandati.
Che impatto ha la ricerca e l’università sul
territorio e la società?
Io mi sono iscritto a questa università nell’83
perché ne ho letto lo Statuto. Lo Statuto di
questa università fu scritto alla fine degli anni
Sessanta e inviterei a rileggerlo ai molti che
parlano di università e del ruolo che essa
dovrebbe avere nel territorio. Quello era uno
Statuto innovativo, tant’è vero che l’Unical per
molti anni era totalmente dissimile per regole
e comportamento interno, partecipazione
democratica, per il modo in cui si gestiva
rispetto alle altre università. L’Unical è nata
grazie ad un’intuizione dei padri fondatori
che vollero un’università dedicata al territorio.
Questo è uno dei motivi che mi ha spinto
a scegliere questa università, perché oltre
alla mia crescita personale e culturale mi
dava la possibilità di assistere alla crescita
del territorio. Nacque come un’università residenziale,
abbiamo infatti ancora oggi il più
grande centro residenziale delle università
italiane per rapporto al numero di studenti.
La nostra residenzialità era voluta per poter
dare (in una regione come la nostra) la possibilità
di studiare ad un gran numero studenti
che altrimenti non avrebbero potuto. Emigrare
per studiare come avviene ancora adesso è
una cosa che discrimina per reddito tra chi
può e chi non può. Questa università è nata
anche con l’obiettivo di dare al territorio un
progresso legato alla conoscenza. Questa
cosa mi convinse molto a 18 anni, idealista
come tutti a quell’età, e decisi di restare qua
invece di spostarmi a Padova dove avevo
inizialmente puntato. Questo è l’inizio, come
l’ho tradotto dopo? Quando poi attraverso un
lungo percorso che mi ha fatto anche conoscere
altre realtà, sono ritornato in Calabria,
quello che ho fatto è stato tradurre questa
spinta iniziale e ideale nella necessità ogni
volta di raffrontarsi al territorio e di mettere
su delle iniziative che potessero non solo far
crescere i miei studenti ma anche avere una
ricaduta. Anche per questo ho iniziato una
serie di progetti con l’ambizione di portare
innovazione basata sulla conoscenza scientifica
e tecnologica sul territorio.
Parlando di territorio abbiamo chiesto al
professore il perché le università italiane
non riescano a trattenere i ricercatori che
esse stesse faticano tanto a formare e se è
solo una mancanza di fondi o c’è dell’altro.
Infatti, secondo i dati del Consiglio Europeo
della Ricerca (ERC) i ricercatori italiani sono
i primi beneficiari di fondi per progetti finanziati
nel 2020, ma le nostre università sono
tra le ultime fra quelle in cui questi soldi
vengono spesi. È l’ennesimo segno di una
‘fuga di cervelli’ ormai generazionale?
Ci dice che, secondo lui, la realtà di solito
è molto più complessa di come ci appare.
È vero, i fondi disponibili per l’Italia e per la
ricerca italiana sono tanti. È anche vero che
la ricerca universitaria italiana non è ancora
strutturata per ottimizzare l’utilizzo di questi
fondi. All’interno delle università, le strutture
che si occupano della progettualità sono
carenti, non strutturali e non esistevano ad
esempio quando mi sono iscritto all’università.
Sono diventati una necessità quando i
fondi strutturali, diciamo ‘automatici’, sono
diminuiti a favore dei fondi per cui è richiesta
una ‘competizione’ tra progetti. Le università
si stanno lentamente attrezzando: l’UNICAL
ha avuto ad esempio la fortuna, più o meno
25 anni fa, di mettere su un ‘Liaison office’, un
ufficio dedicato alla progettualità. A capo di
questo ufficio è stato dal principio nominato
un fisico, il Prof. Barberi, che ha costruito una
struttura che si occupasse della nuova progettualità
a partire dal reperimento dei fondi fino
alla costruzione d’impresa. L’UNICAL non
solo ha il Liaison Office, ma anche un incubatore
di imprese (il TechNest) cioè un luogo
dove le imprese fatte da giovani ricercatori
e laureati possano crescere fino a spiccare
il volo. Esattamente come un nido (nest), si
prova ad incubare le nuove imprese nei primi
tre anni di vita per poi lasciarle camminare
con le proprie gambe una volta pronte. Le
imprese spin-off, le start-up dell’Unical sono
numerose e hanno avuto riconoscimenti interessanti.
Non tutte le università italiane fanno
questo, il tentativo in una terra che non è ricca
di infrastrutture industriali e tecnologiche era
proprio quello di assolvere quel mandato
dello Statuto di cui parlavamo all’inizio e di
avere una ricaduta non solo in termini di nuove
conoscenze, che è fondamentale, ma anche
in termini di nuove attività produttive. Attività
produttive che, in un’epoca di dematerializzazione,
sono diventate forse più semplici:
non abbiamo bisogno di un substrato industriale
per andare a costruire nuove imprenditorialità
sana e pulita ma abbiamo bisogno
di conoscenza e di strutture.
Raffaele Agostino crede che questa sia una
delle scommesse da raccogliere per le nostre
Università. Naturalmente non nasconde che
rispetto a questa traiettoria non tutta l’Università
si muove concorde. Questo però è
nell’ordine delle cose: ci sono diversità e
#Area Heisenberg
34 #palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino
#palinparlacon: Scienza, ricerca e territorio: un rapporto di reazione. Intervista a Raffaele Agostino
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