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Vitae 32 - Marzo 2022

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soffio bianco

Roberto Bellini

Da Livorno a Bastia sono necessarie quattro ore e mezzo di traghetto. Giunti in porto, il mar

Tirreno parla un’altra lingua: non il francese, è la lingua còrsa, assimilabile a tanti dialetti d’Italia,

uno straordinario concentrato di espressioni dialettalmente italiane, diverse tra il nord e il sud

dell’isola (qui sono evidenti similitudini con il sassarese-gallurese). Qualcuno ha definito questa

realtà linguistica un “mondo italo-romanzo”.

Che sia così anche per il vino? Se leggiamo la sua storia, è impossibile non trovare nella viticoltura

della Corsica qualcosa che non rimandi all’Italia. A parte i greci, che introdussero la viticoltura,

e i romani che la svilupparono, passarono gli etruschi, i siracusani, poi i pisani (che cacciarono i

saraceni), e ancora i genovesi che buttarono a mare i pisani, e a loro volta ne subirono e ne fecero

di cotte e di crude, mercanteggiandone la proprietà tra banche, ducati e potenti famiglie genovesi.

Due epoche significative per il vino furono quelle pisane e genovesi: ai primi si può assegnare il

merito di aver dato il via al concetto di cru; i genovesi invece impressero la vera spinta vitivinicola,

emanando nel 1572 un decreto che obbligava ogni famiglia a piantare quattro viti. I francesi, che

acquisirono l’isola nel 1758, dettero impulso al comparto, ma con un indirizzo poco rispettoso

dell’ecosistema viticolo locale, che custodiva un patrimonio ampelografico molto particolare.

D’altronde, affermavano gli indipendentisti, la Francia ha sempre trattato la Corsica come un

tappeto, da spolverare ogni tanto, ma sempre tappeto restava. Questo è accaduto anche con la

viticoltura e con la filosofia enologica basata sulla quantità.

Al di là della crisi d’inizio Novecento, che non fu esclusiva dell’isola, e qui fece perdere oltre il 40%

dei vigneti, negli anni ’30 l’enologia si convertì alla produzione di mosti muti per vin de liqueur. Il

tempo sembrò scorrere di disgrazia in disgrazia, tanto che a partire dal 1960, con il rientro dei

còrsi che si erano stabiliti in Algeria e degli esuli francesi (pieds noirs), il governo centrale attuò una

politica di sviluppo dell’agricoltura, viticoltura inclusa. I vignaioli autoctoni però non ebbero gli stessi

aiuti di quelli “importati”, i quali incrementarono a dismisura la produzione di vino, valorizzando

l’aspetto quantitativo, con impiego di vitigni come il carignan, il grenache, il cinsault e l’alicante

bouchet. Così facendo, dal 70% di vitigni locali presenti nelle vigne nel 1960, nel 1968 ne restavano

appena il 13%. La celebrata “nouvelle viticolture” si trasformò in “vin médicin pour le Continent”,

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