WineCouture 5-6/2022
WineCouture è la testata giornalistica che offre approfondimenti e informazione di qualità sul vino e quanto gli ruota attorno. È una narrazione di terroir, aziende ed etichette. Storytelling confezionato su misura e che passa sempre dalla viva voce dei protagonisti, dalle riflessioni attorno a un calice o dalle analisi di un mercato in costante fermento. WineCouture è il racconto di un mondo che da anni ci entusiasma e di cui, con semplicità, vogliamo continuare a indagare ogni specifica e peculiare sfumatura, condividendo poi scoperte e storie con appassionati, neofiti e operatori del comparto.
WineCouture è la testata giornalistica che offre approfondimenti e informazione di qualità sul vino e quanto gli ruota attorno. È una narrazione di terroir, aziende ed etichette. Storytelling confezionato su misura e che passa sempre dalla viva voce dei protagonisti, dalle riflessioni attorno a un calice o dalle analisi di un mercato in costante fermento. WineCouture è il racconto di un mondo che da anni ci entusiasma e di cui, con semplicità, vogliamo continuare a indagare ogni specifica e peculiare sfumatura, condividendo poi scoperte e storie con appassionati, neofiti e operatori del comparto.
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NUMERO 5/6
Anno 3 | Giugno - Luglio 2022
Poste Italiane SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI - In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente previo pagamento resi.
PATRIMONIO SOSTENIBILITÀ
Storie, imprenditori, declinazioni, progetti
P hilippe
Schaus
2
Al giro di boa 2022, come esimersi da tirare un
primo bilancio di un anno che ha preso il via carico
di aspettative. Per il mondo del vino, il calice
è mezzo pieno o mezzo vuoto? I primi 6 mesi dicono
di un settore mai stato vivo quanto lo è oggi,
benché sia funestato da mille difficoltà che le cantine
sono quotidianamente chiamate ad affrontare
e che tutti ben conosciamo. Lo dimostrano le
fiere degli ultimi mesi, da Vinitaly a ProWein, in
cui l’Italia del vino è stata assoluta protagonista.
Lo dimostra la vitalità di incontri e progetti che
Le possibilità nascoste in un benché
si moltiplicano, ribadendo la voglia delle aziende
di raccontarsi ed evolvere. Lo sottolinea un mercato
che sta offrendo segnali e spunti di un futuro
“diverso”. Il vino, infatti, sta mutando pelle. Si
beve meno, ma molto meglio, come certificano i
dati Istat. E come conferma l’annuale studio Mediobanca,
i trend in consolidamento parlano di
premiumizzazione e maggiore attenzione alla sostenibilità.
Già, proprio quella “sostenibilità” che
è filo conduttore di questo numero di WineCouture.
Una parola di cui si è spesso abusato negli
ultimi anni, ma soprattutto che è stata ingabbiata,
confinandola impropriamente alla sola sfera di
pratiche che ricercano un minor impatto sull’ambiente.
Ma sostenibilità significa tanto di più, per
questo abbiamo voluto ridonarle forma e contenuto:
quelli dell’esempio di chi non aspetta, ma
guida. A dimostrare che il calice è mezzo pieno
per il mondo del vino, “benché sia”. Perché, come
insegna lo scrittore Alessandro D’Avenia nel suo
Ciò che inferno non è: “Che meraviglia, il mondo
delle possibilità nascoste in un benché”.
06 Focus on. Viaggio nell’Italia del vino
sostenibile del portfolio Sagna
12 Experience. Contadi Castaldi presenta la
novità Blànc
13 Collection. Da Vinitaly a tavole e scaffali,
una selezione di grandi novità 2022
SOMMARIO
23 Protagonisti. La prima edizione del
Concorso “Miglior Enotecario d’Italia”
25 Champagne. Intervista a Manuel Reman,
nuovo presidente di Maison Krug
29 Champagne. A tu per tu con la Chef de
Cave di Perrier-Jouët, Séverine Frerson
WINECOUTURE - winecouture.it
Direttore responsabile Riccardo Colletti
Direttore editoriale Luca Figini
Cover editor Alice Realini
Coordinamento Matteo Borré
Marketing & Operations Roberta Rancati
Contributors Francesca Mortaro, Andrea Silvello
(founder Topchampagne), Irene Forni
Art direction Inventium s.r.l.
Stampa La Terra Promessa Società Cooperativa
Sociale Onlus (Novara)
Editore Nelson Srl
Viale Murillo, 3 - 20149 Milano
Telefono 02.84076127
info@nelsonsrl.com
www.nelsonsrl.com
Registrazione al Tribunale di Milano n. 12
del 21 Gennaio 2020 - Nelson Srl -
Iscrizione ROC n° 33940 del 12 Febbraio 2020
Periodico bimestrale
Anno 3 - Numero 5-6 - Giugno/Luglio 2022
Abbonamento Italia per 6 numeri: Euro 30,00
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DELLE TERRE
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NEL LABOR ATORIO
DELL’ECCELLENZA,
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4
ON AIR
L’
appuntamento è di quelli da non mancare quando giunge
l’invito. Almeno se si vuole realmente andare in profondità
e comprendere cosa, in maniera fattuale, si stia facendo – e
quanto si possa fare di più ancora – per offrire un futuro al
Pianeta. E quel che stupisce è come l’importante confronto
con alcuni dei più grandi esperti a livello internazionale
in tema di conservazione della biodiversità, preservazione
dei suoli e contrasto al cambiamento climatico, non sia
figlia di un ente pubblico o di un’istituzione governativa,
ma di un gigante privato del lusso. Anzi, più giusto dire: il
gigante del lusso per eccellenza. L’1 e il 2 giugno, ad Arles,
è andata in scena la prima edizione del World Living Soils
Forum organizzato da Moët Hennessy. Al centro della due
giorni di workshop e speech, un nuovo modello di sviluppo
sostenibile da individuare grazie al contributo di tutti,
ma soprattutto senza più attendere “interventi dall’alto”. È,
infatti, una mobilitazione quella cui il gruppo LVMH oggi
chiama il settore wine & spirits, che parte da chi, un privato,
ha deciso di fare della sostenibilità non una, ma “la” sua
priorità. Un tema affrontato scardinando pregiudizi e falsi
miti. A spiegare a WineCouture perché quelle ascoltate
ad Arles sono parole importanti e non “di circostanza”, è
Philippe Schaus, ceo e presidente di Moët Hennessy.
Lei è l’uomo che in Moët Hennessy indica la
strada, ma che è anche chiamato a guardare
i numeri: le molte parole spese sul tema della
sostenibilità, oggi riescono poi a trovare anche
un riscontro effettivo in termini di business?
Ogni singola azione che prendiamo in termini di sostenibilità
non si può affermare che abbia un immediato ROI.
Lo scorso anno abbiamo investito 30 milioni di euro nel
nuovo centro di ricerca e sviluppo Robert-Jean De Vogüé
in Champagne, ma non è dato sapere oggi quale sarà
il ritorno di quell’investimento. Una cosa, però, so per
certo: all’interno del più generale sforzo nel realizzare
prodotti ancora migliori degli attuali e che si posizioneranno
sul mercato a un prezzo ancor superiore, costruire
l’immagine di una azienda responsabile, tanto che sia
verso i propri partner, i consumatori o, non meno importante,
i propri dipendenti, credo fermamente conduca a
un ritorno. Ed è un ritorno d’investimento che si misura
in reputazione, in risultati legati alla preservazione sul
lungo periodo delle nostre terre, in lealtà e fiducia di chi
lavora con noi e in una crescita della qualità di posizionamento
dei nostri brand e dei prodotti. Questi, per me,
sono tutti ritorni soddisfacenti se parliamo di business.
Nel suo speech al World Living Soils Forum, lei
ha sottolineato come nel mondo wine & spirits
il tema della sostenibilità ambientale sia particolarmente
avvertito: ma come fare affinché i
diversi player trovino un’intesa per collaborare
concretamente a riguardo?
La collaborazione può nascere in tanti modi. Un’occasione
di confronto come il nostro World Living Soils
Forum è una di quelle, senza dubbio. Poi ci sono le associazioni
di settore in ciascun Paese, che possono contribuire
a elevare gli standard: così, ad esempio, tutti
insieme possiamo stabilire che si limiti il più possibile
l’uso della chimica o di fermare il ricorso agli erbicidi.
Con questa spinta collettiva a livello internazionale da
parte delle associazioni di settore, tutti nel mondo del
vino e degli spirits si troverebbero in una situazione
in cui sarebbero chiamati ad adeguarsi. E questo forzerebbe
a sedersi attorno a un tavolo per individuare
le modalità per raggiungere obiettivi comuni e identificare
come fare le cose in maniera differente rispetto
a quanto fatto finora. Oggi, però, è l’industria a dover
compiere, a mio avviso, il primo passo e guidare il cambiamento:
non possiamo aspettare che qualcuno faccia
leggi cui doversi poi uniformare. Noi privati, in veste di
protagonisti, dovremmo muoverci con soluzioni all’avanguardia
fin da subito e procedere più velocemente
anche degli stessi interventi legislativi.
Uno sviluppo sostenibile implica non solo un
modo diverso di produrre, ma anche una rivoluzione
nelle modalità di consumo: il mondo
del vino e i consumatori sono pronti a questo
cambiamento?
Quel che nel mondo del vino abbiamo osservato in
questi ultimi anni, a livello globale, è una tendenza da
parte dei consumatori a bere meno, ma più di qualità. E
ricordiamo che anche a noi, in quanto industria, è stata
affidata la responsabilità di promuovere un consumo più
responsabile quando si parla di alcool. C’è dunque una
sostanziale coerenza che lega lo sforzo d’incrementare il
valore dei prodotti – in termini di qualità, di responsabilità
ambientale e anche di prezzi – all’impegno nel favorire
un consumo responsabile. E noi desideriamo che la
gente sia sempre più “epicurea”, si goda le piccole grandi
cose della vita in maniera ragionevole.
Le nuove modalità d’acquisto che stanno
prendendo piede, a iniziare dall’online, quanto
possono contribuire nel mutare i paradigmi
dei consumi?
Il mondo dell’e-commerce, come dimostra perfettamente
il caso di Tannico in Italia, possono giocare un ruolo decisivo
nell’educare il consumatore. Se non sai cosa significhi
vino di qualità o quale sia meglio acquistare, un sito come
Tannico può offrire consigli oggettivi e presentare una panoramica
di quel che il mercato propone. E così si aiuta a
rendere il consumatore sempre più consapevole, in modo
che capisca le differenze tra i prodotti e, nel tempo, elevi
anche il valore dei propri acquisti.
Da sempre, l’immaginario legato alla lotta per la
preservazione dell’ambiente e a sostegno di uno
sviluppo sostenibile vede una sostanziale contrapposizione
tra piccole realtà e grandi società:
ma è realmente così?
C’è da sempre questo falso mito secondo cui le grandi società
sono meno rispettose dell’ambiente rispetto ai piccoli
produttori. Quel che posso dire, dal nostro punto di
vista, è che noi siamo molto focalizzati sul tema. Aggiungo
un’ulteriore considerazione, ma – attenzione – senza volere
“fare a gara” su chi fa di più, perché ogni contributo
aiuta una causa superiore. Mi domando: se non una grande
società, quanti potrebbero organizzare un forum dove
potersi concretamente confrontare sul tema della preservazione
dei suoli? Se non una grande società, quanti potrebbero
investire 30 milioni di euro in un nuovo centro
di ricerca e sviluppo dedicato a incrementare le pratiche
sostenibili? Chi può destinare risorse per l’acquisto d’innovativi
trattori elettrici così da eliminare l’uso di erbicidi?
E chi ha i mezzi per sviluppare pratiche sostenibili su
larga scala? Si pensi che solo Ruinart ha creato un progetto
di agroforestazione su 40 ettari di vigneto: se non si è una
grande società, come si può dare vita a un’iniziativa così?
E non parlo solo di Moët Hennessy: le grandi società, tutte
quante, possono realmente guidare il cambiamento. E
devono dimostrarlo con esempi concreti. Penso al progetto
che stiamo portando avanti in Provenza con Château
Galoupet, una piccola proprietà in cui stiamo investendo
enormi quantità di risorse per trasformarlo in un paradigma
di sviluppo sostenibile: non solo se si guarda la vigna,
ma anche se si parla di forestazione, agricoltura biologica,
preservazione della biodiversità, difesa delle api e tanto
altro ancora. Una piccola azienda non ha i mezzi per fare
tutto questo: noi grandi società possiamo – e dobbiamo
– essere in prima linea. Ma il nostro impegno a guidare il
cambiamento nulla toglie all’enorme sforzo che i business
familiari portano avanti sul fronte della sostenibilità. Poi,
faccio notare come noi grandi società, più di qualunque
altra realtà, siamo costantemente posti sotto una lente
d’ingrandimento: se facciamo qualcosa di sbagliato, immediatamente
ci viene fatto notare. E anche per questa ragione
non abbiamo scelta se non quella di essere esemplari
nel nostro cammino per contribuire alla preservazione
dell’ambiente. Ci sono davvero tanti quesiti che sul tema
ancora non hanno trovato una risposta: così, non dobbiamo
aver paura di dire che tanto c’è ancora da fare e che il
nostro viaggio è solo all’inizio, come dimostra proprio il
confronto al World Living Soils Forum, che ci ha aiutato a
identificare quali siano le giuste domande da porci prima
di poter individuare le migliori soluzioni.
www.winecouture.it
Tutte le sessioni della prima edizione di World
Living Soils Forum organizzato da Moët Hennessy
sono state rese disponibili online. È sufficiente
registrarsi sul sito dell’evento per poter vedere le
registrazioni on demand.
Photo: Gatean Luci
5
“L'INDUSTRIA DEVE
GUIDARE IL CAMBIAMENTO”
Philippe
Schaus
ON AIR
Il gruppo LVMH chiama
il settore wine & spirits
alla mobilitazione, senza più
attendere “interventi dall’alto”.
Intervista a Philippe Schaus,
Ceo e presidente di Moët Hennessy
DI MATTEO BORRÈ
6
FOCUS ON
Viaggio nell’Italia
del vino sostenibile
Dalla Valtellina all’Etna, un percorso tra cantine
e produzioni green del portfolio Sagna
È
un vino sempre più green quello che oggi trova
spazio sulle tavole. Nel corso degli ultimi anni,
infatti, le pratiche di tanti protagonisti del settore,
dai big ai volti emergenti, si sono orientate
verso approcci che ricercano la qualità in bottiglia
attraverso un sempre più consapevole agire in vigna e
cantina. E anche nei consumi, evidente è il trend verso la
ricerca di un vino realmente sostenibile,
in ogni aspetto del suo proporsi.
Tanto che oggi gli studi indicano
come ormai 1 italiano su 2 beva bio,
categoria che vola anche a livello di
vendite online. La sostenibilità si
conferma elemento imprescindibile
tra i valori che supportano gli acquisti,
con specifico riferimento alla
presenza del marchio bio. Ma sostenibilità
è molto più della sola scelta
produttiva incentrata sul biologico o
il biodinamico. Sono tanti i suoi volti
ed è importante comunicarli e condividerli
con proposte capaci di delineare percorsi chiari.
Questa la strategia impostata da Sagna nella sua risposta
ai consumi che mutano e da interpretare: esattamente
quanto fa, fin dalla sua fondazione nel 1928 da parte del
Barone Amerigo Sagna, la società specializzata nell’importazione
e distribuzione di Champagne, vini e distillati
di pregio. Negli ultimi anni, con la quarta generazione
DI MATTEO BORRÈ
della famiglia, la filosofia aziendale di ricercare aziende
familiari in grado di garantire con i loro prodotti qualità,
serietà e continuità nel tempo, ha posto in evidenza la
centralità del fondamentale tema della sostenibilità, che
in fondo è riassunto perfettamente da questa costante
aspirazione all’eccellenza. E così, nel tempo, hanno fatto
il loro ingresso nel portfolio della realtà distributiva di Revigliasco
Torinese cantine che offrono
la possibilità di effettuare un vero
e proprio viaggio nel calice, da Nord
a Sud, nell’Italia del vino sostenibile.
Mamete Prevostini, in Valtellina, si
erge a simbolo della viticoltura eroica
praticata lungo i muretti a secco della
più ampia zona terrazzata d’Europa.
Un territorio unico, dove il Nebbiolo
assume profili caratteristici a seconda
delle differenti aree in cui cresce, oggi
più che mai all’avanguardia. A Postalesio,
sorge la prima cantina certificata
CasaClima Wine di Lombardia,
progettata per lavorare l’uva a caduta naturale su 3 piani,
per una superficie totale di 3000 mq. “È così efficiente
che si può raffreddare con un cubetto di ghiaccio e riscaldare
con un fiammifero”, spiega Mamete Prevostini (in
foto). Parliamo infatti di una cantina a bassissimo consumo
energetico, dove è garantita coibentazione e l’assenza
di ponti termici: la temperatura e l’umidità sono così
mantenute costanti per lo più in modo naturale, condizioni
ideali per la maturazione e la conservazione del vino.
Sono da sempre coltivati a vigna anche i versanti soleggiati
della piccola valle di Cialla. Tanto che quest’isola
felice nella zona Doc Colli Orientali del Friuli ha dato
origine all’omonimo Cru. Un habitat naturale per Verduzzo,
Picolit, Ribolla Gialla, Refosco dal Peduncolo
Rosso e Schioppettino, vitigni della tradizione ancora
oggi custoditi e valorizzati dall’Azienda Agricola Ronchi
di Cialla. Proprio alla famiglia Rapuzzi si deve la rinascita
di Schioppettino e Refosco, tanto che oggi, a conferma
dell’importanza del lavoro compiuto, in uno dei più
importanti vivai vitivinicoli, Rauscedo, si registra la presenza
di una varietà che porta il loro nome. Tra le prime
realtà ad adottare un’agricoltura integrata a bassissimo
impatto ambientale, dal 2015 Ronchi di Cialla è certificata
Biodiversity Friend sul 100% della superficie condotta
e su tutta la produzione. “La stessa filosofia che adottiamo
in vigna ci guida anche durante la vinificazione”, sottolinea
la famiglia Rapuzzi. “È nostra convinzione che il
vino è un prodotto della terra, figlio diretto di una trasformazione
naturale. Pertanto, il nostro ruolo di vinificatori
è quello di seguirlo nel suo preciso percorso di trasformazione
ed affinamento, senza forzarlo e cercando di
privilegiare ed esaltare la tipicità che ci è donata dal Cru”.
Da un unico vigneto, un vino unico: queste le coordinate
che definiscono il progetto di Rodolfo Migliorini
per il Barolo Bussia Pianpolvere Soprano, proposto nella
storica Riserva e dal 2020 in una variante “più giovane”.
La fotografia irripetibile di 9 ettari di vigna che
rappresentano una delle massime espressioni esistenti
del Nebbiolo. E per esaltare ancor più l’impronta del
territorio, la scelta di aderire al progetto Green Experience,
che ha tra gli obiettivi lotta integrata, eliminazione
totale dell’uso di diserbanti, inerbimento dei
vigneti, sovescio, confusione sessuale del vigneto, utilizzo
esclusivo di concimi organici. Tutte pratiche che
contribuiscono a rispettare la terra e il suo ecosistema,
conservando una produzione esclusiva rimasta nei secoli
fedele a quel terroir di cui mostra le migliori virtù.
Ha inizio nel 1974, quando Giuseppe Castiglioni acquisisce
una piccola tenuta dismessa tra le colline di Greve
in Chianti, la storia di Querciabella. Dal primo ettaro
nella soleggiata campagna di Ruffoli, nel tempo l’azienda
si è arricchita di vigneti selezionati in Chianti Classico
e in Maremma, fino a raggiungere gli oltre 100 attuali
a certificazione biologica e condotti secondo i dettami
dell’agricoltura biodinamica al 100% vegana. “Siamo la
prova che garantire l’equilibrio naturale non solo è del
tutto possibile”, evidenzia Sebastiano Cossia Castiglioni,
proprietario della realtà toscana, “ma anche necessario
per produrre vini pregiati che veramente rispettino
il territorio”. Il principio fondamentale alla base della
filosofia di Querciabella è l’equilibrio. “Solo così si possono
produrre vini di alta qualità e dal marcato carattere
territoriale”. E questo per la cantina si traduce nel preservare
la diversità ecologica dell’ecosistema del vigneto
e di ciò che lo circonda, ma soprattutto nel consentire a
ogni vigna di esprimere il suo naturale e pieno potenziale.
Un racconto di biodiversità che sul versante nord dell’Etna,
in contrada Santo Spirito, frazione Passopisciaro,
scrivono coi loro vini anche Mimmo e Valeria Costanzo.
All’interno del Parco Naturale dell’Etna, un palmento
ottocentesco in pietra lavica ha ripreso vita attraverso un
restauro conservativo. Le etichette che vi prendono forma
sono incontro di antiche tecniche di vinificazione e le moderne
tecnologie, tra vasche termoregolate in acciaio inox,
Ovum, botti Stockinger e anfore. Intorno alla cantina, circa
14 ettari di vigneto, con piante condotte in regime biologico
e preparati biodinamici. Viti prefillosseriche, approccio
parcellare, rispetto per il terroir, nessun vitigno internazionale,
ma spazio solo agli autoctoni che hanno reso l’Etna
celebre: questi i pilastri su cui si fonda la produzione di
Palmento Costanzo. Un altro esempio di un vino green,
ma soprattutto radicato nel territorio: perché solo così il
termine sostenibilità si riempie davvero di significato.
Photo: Lidio Vannucchi
8
ZOOM
L’anima autoctona
di Albino Armani
Saper “conservare”, trasmettendo valore al vino.
Due progetti, la salvaguardia di un patrimonio
tra Valle dell’Adige e Alta Grave Friulana
DI MATTEO BORRÈ
re della Terra dei Forti. La salvaguardia dell’identità di
questa terra, collegamento tra il mondo mediterraneo
e quello alpino ed europeo, dagli anni ’80 passa anche
dal progetto con cui Albino Armani ha investito su alcune
varietà reliquia: la “Conservatoria”, eredità della
memoria di una viticoltura antica capace di superare
mode e tendenze. Vitigni antichissimi – 13 sono quelli
ospitati nello speciale vigneto che costeggia la cantina
di Dolcè e lambisce le rive dell’Adige – che riportano in
calice gusti dimenticati, riconducendo al mondo ancestrale
della tradizione del Foja Tonda, vino dal potenziale
immenso, e della uva autoctona Nera dei Baisi. Un
ritorno alle origini del patrimonio ampelografico locale.
Un racconto della Vallagarina trentina cui è restituita
la propria unicità, preservandola dall’estinzione. “Il
Foja Tonda Casetta Valdadige Terradeiforti Doc presenta
una spiccata personalità, a tratti indomita, proprio
come la gente della Vallagarina”, sottolinea Albino
Armani. “Inizialmente si presenta ruvido, ma basta
lasciargli un attimo che si ammorbidisce, restituendo
tutta la bontà e la genuinità del proprio animo”. Discorso
parallelo per la Nera dei Baisi, altro vino antico ma
estremamente moderno nell’animo. “Con il suo colore
rosso rubino brillante ammalia il degustatore”, riprende
il produttore, “andando ad anticipare la freschezza
che si andrà a percepire con tutti i sensi. In bocca, infatti,
è fragrante e regala un perfetto intreccio di acidità e
morbidezza, senza traccia di trama tannica. Un vino di
Sono diverse le sfumature di significato del
termine “conservare”. Si lega al concetto
di “salvaguardare, non fare venire meno”,
ma anche all’atto di “non aver perso, avere
ancora”. E, poi, sempre in scia all’idea del
“durare”, richiama a qualcosa da “preservare, custodire”.
Molteplici sfaccettature del medesimo principio:
lasciare in eredità un patrimonio che non va disperso.
Una ricchezza che può assumere più volti: per
l’universo del vino, sono quelli di un vitigno, di una
tradizione produttiva o della vocazione di un territorio.
“Conservare” è una parola che Albino Armani ha
saputo declinare in numerose azioni, scelte, intuizioni
nel corso degli anni. Lui, che proviene da una famiglia
che da 15 generazioni (dal 1607, per la precisione) è impegnata
a tramandare una delle più antiche storie del
vino tricolore. Una narrazione che affonda le radici in
oltre 400 anni di vigna e di passione di chi, sceso dal
Monte Baldo in Trentino, ha saputo portare la propria
filosofia produttiva prima in Veneto e, poi, in Friuli-Venezia
Giulia. Una girandola di territori, dove mai è venuto
meno lo spirito originario di una realtà che, oggi,
è mosaico variegato che conta 5 tenute di proprietà e un
totale di 370 ettari di vigneto. Terroir che non ammettono
compromessi, dove il principio del “conservare” si
è tramutato in investimenti specifici, dando forma ad
altrettanti interventi nel segno della vera sostenibilità,
quella del fare. A iniziare dal vigneto di “casa”, al cuogrande
beva, con alcolicità misurata”. Una riscoperta,
in un tempo in cui la specificità è l’elemento che eleva.
Un’idea “replicata” con Terre di Plovia nell’Alta Grave
Friulana. Una coppia di vini, cimeli dell’enologia che
conducono alla scoperta della genetica viticola nel suo
inscindibile legame col territorio. A Valeriano, Albino
Armani ha portato il suo modo di lavorare – o meglio,
di guardare – il vitigno, valorizzandone l’identità, sia
genetica sia geografica. Non uno strumento di produzione,
non un pozzo da esaurire, ma un elemento capace
di “conservare” storia, cultura e varietà di un territorio.
“Cosa rende un vino grande con la G maiuscola?”,
il quesito che ha dato il via al progetto realizzato con
Walter Filiputti. “Non il prezzo, non la fama, non i punteggi
della critica, ma la sua capacità di portare il peso
di un’identità e di comunicare il territorio che lo rende
unico, perché nessun posto, nessuna cultura, nessuna
tradizione è replicabile altrove”. E così le varietà internazionali
“best seller” sono state chiamate, in un bianco
e un rosso, a convivere con autoctoni “abbandonati”
della tradizione. Flum Terre di Plovia è omaggio, in lingua
friulana, al fiume: quel Tagliamento che influenza
l’aria e tratteggia la terra della Grave. Un vino dove
predomina lo Chardonnay, reso ancor più elegante
dalla presenza di Friulano e di Sciaglin. Piligrin Terre
di Plovia, invece, è richiamo alla storia di una terra di
passaggio per i pellegrini diretti in Terra Santa. Il Piculit
Neri, lungo il Cammino del Tagliamento, spartisce
il palcoscenico con il Merlot, dando forma a un rosso,
fresco connubio dove il frutto emerge con vitalità. Due
etichette che tutelano la biodiversità di un territorio
aspro come quello dell’Alta Grave Friulana, ridonando
valore a un’intera zona, come ha poi ribadito anche il felice
esperimento del Sauvignon Superiore Tenuta di Sequals
Doc Friuli Grave 2020, così condotta nell’Olimpo
di un universo del vino che è realmente sostenibile.
9
C'è chi diventa sostenibile. E chi della sostenibilità, in ogni sua forma,
ha fatto la propria bandiera fin dalla nascita. Un impegno coltivato,
passo dopo passo, crescendo come azienda e comunità. Un impegno
ora portato anche oltre i confini di “casa”, fin sui Colli Senesi del
Chianti, a seguito dell’acquisizione di Casale III, tenuta in Val d’Elsa,
in questo 2022. Ma a Treviso rimangono le radici. Se Cantina Pizzolato ha festeggiato 12
mesi fa il traguardo dei primi 40 anni di esperienza nel bio, la sua è storia di 5 generazioni
di una famiglia da sempre legata alla terra e ai suoi frutti. Azienda agricola oggi trasformatasi
in una moderna e strutturata holding, sono solo biologiche e Vegan le bottiglie che
produce, avendo scelto fin da principio di seguire la via del bio, certificata dal 1991, agli
albori dei primi regolamenti. Una strada che paga: lo dimostrano i numeri, che parlano di
un fatturato 2021 record oltre i 20 milioni di euro, a evidenza che sostenibilità non è solo
tema di vigna, ma della più ampia buona gestione di una quotidianità che genera il valore.
“Questi numeri”, sottolinea Settimo Pizzolato, co-titolare della società, oggi composta dalla
moglie Sabrina Rodelli e da Federico e Stefania Pizzolato, figli di Settimo, “sono il frutto
di una precisa scelta valoriale: fare della sostenibilità l’asset di riferimento della nostra
intera filiera. Proprio la nostra coerenza su questo fondamentale aspetto sta premiando
un’azienda in continua evoluzione, che asseconda con progettualità le richieste di un mercato
che sembra non seguire più dinamiche stabili e stabilite. Il 2021 è stato l’anno d’inizio
per diventare società benefit e stiamo lavorando per ottenere la certificazione B-Corp
con il nostro team di sostenibilità”. Già, perché l’impegno si coltiva, aggiungendo nuovi
mattoni a una costruzione di cui i vini sono ambasciatori, in ogni dettaglio, di qualcosa “di
più”. Diventare una Società Benefit, infatti, significa, oltre allo scopo di lucro, perseguire
annualmente una o più finalità di beneficio comune, ossia degli obiettivi che abbiano un
effetto positivo (o che ne riducano uno negativo) sulla collettività, sugli stakeholder che
lavorano con l’azienda, sull’ambiente e sui territori. Questi sono passi che, ripercorrendo
le orme nel cammino di Cantina Pizzolato in questi oltre 40 anni, già definiscono filosofia
e progetti della realtà trevigiana. A renderlo ancor più evidente le iniziative che oggi si collocano
al centro del proscenio, per originalità e capacità di trasformare in azioni concrete
proprio quella parola “sostenibilità” da cui si è partiti. La prima è M-Use, racconto di un
nuovo approccio alle forme, con una bottiglia preziosa quanto il suo contenuto. “M-Use”,
infatti, è nome che racchiude in sé svariati significati, spaziando dalla musa, ispiratrice per
eccellenza, al multiuso, risposta a una domanda che l’universo del vino poche volte fino ad
oggi si è posto. Nata nel 2019 come bottiglia in cui design e tradizione vinicola hanno trovato
la sintesi, rappresenta un’evoluzione del concetto stesso della filosofia bio perseguita
da Cantina Pizzolato, che individua così una declinazione sostenibile anche nella “veste”,
uscendo dalla concezione del “vuoto a perdere” ed inaugurando quella di un “vuoto a
guadagnare”, inteso come occasione di nuova vita in forme legate alla quotidianità della
casa o di un locale (la si pensi trasformata in abat-jour o elegante porta candele, ma anche
bottiglia dell’acqua in tavola, per fare qualche esempio). Ma proseguendo oltre l’orizzonte
marcato dalla linea M-Use, il traguardo dei primi 40 anni è stato celebrato nel 2021 con
un ritorno alle origini in un impegno condiviso con i fornitori della cantina. Si tratta del
progetto Back to Basic, gamma di vini capaci di ridurre al minimo l’impatto della filiera
sull’ambiente. Questo significa concretamente: uve, vetro, tappo, capsula, etichetta e cartone
d’imballaggio sostenibili per davvero. Il vino, in primis: biologico e Vegan, frutto di
15 ettari dedicati in cui trovano dimora Raboso Piave, Pinot Nero, Pinot Grigio, Manzoni
Bianco e Chardonnay, i vitigni che definiscono la linea. Il vetro, poi, Wild Glass brevetto
di Estal, la cui miscela è composta per il 94% da materiale riciclato: 100% certificato Pcr
(Post consumer recycled), consente una produzione a impatto ecologico estremamente
ridotto. E ancora, il tappo scelto è il Twin Top Evo di Amorim Cork, in sughero, che permette
di compensare un livello di CO2 pari a 297 grammi. Infine, etichetta e imballo: con
la prima in carta Sabrage 100% riciclata, ottenuta dallo scarto della lavorazione dell’industria
del cotone, e che sfrutta la tecnica del debossing per ridurre al minimo l’uso d’inchiostri,
col colore inciso con lavorazione offset, ossia la meno impattante; mentre il cartone,
stampato con colori a basso impatto ambientale, presenta il 79% di carte riciclate. Perché
sostenibilità è oggi tema di contenuti, ma mai dimenticare l’importanza della forma.
DI MATTEO BORRÈ
L’economia circolare
di Cantina Pizzolato
M-Use, Back to Basic e certificazione benefit: un modello di business
che guarda la forma e non solo il contenuto della parola sostenibilità
INTERNI D’AUTORE
10
NUOVI CODICI
Il coraggio
della concretezza
Da Télos ai Single Vineyard di Tenuta Sant’Antonio,
l’innovazione sostenibile secondo Famiglia Castagnedi
DI MATTEO BORRÈ
Il coraggio di puntare sull’innovazione sostenibile. Da sempre, questo l’imperativo a
guidare Famiglia Castagnedi, realtà vitivinicola veronese d’eccellenza titolare della
storica Tenuta Sant’Antonio. Un coraggio che l’ha condotta a imboccare, fin dalla
nascita, la strada della concretezza, non quella dei proclami. Atti che si tramutano in
pratiche, e soprattutto vini, sostenibili: il frutto di scelte strategiche, messe in opera
nel tempo attraverso investimenti all’insegna dell’efficientamento che, dal vigneto alla
logistica passando per la cantina, non hanno tralasciato alcun passaggio. Perché dietro a
un’etichetta c’è un universo intero. Ci sono azioni che nel quotidiano raccontano di nuovi
sistemi gestionali in comunicazione coi magazzini, dell’attuazione di nuove pratiche sostenibili
figlie di ricerca e innovazione, di macchinari da Industria 4.0, con oltre 3 milioni
di euro investiti per il triennio 2021/2023, in larga parte volti a rendere le operazioni sempre
meno impattanti. Il coraggio della concretezza, infatti, ha i suoi costi, ma altrettanto
importanti sono i ritorni, che si devono misurare. Perché il nuovo impianto di pigiatura,
ad esempio, cambia profondamente la gestione dell’acqua all’interno della cantina, recuperando
gran parte di quanto necessario al suo utilizzo fino ad arrivare a stimare una riduzione
del 60% dell’acqua stessa utilizzata. Oppure, è da citare l’impegno per l’utilizzo di
bottiglie esclusivamente da 500 e 600 grammi, con una riduzione stimata di circa il 30%
del vetro: 3 Kg risparmiati ogni 10 rispetto ai precedenti formati. E, ancora, nel lavoro di
ogni giorno, grazie al nuovo sistema gestionale a essere ridotto notevolmente è il margine
di errore nelle operazioni che scandiscono il quotidiano dell’azienda, permettendo di
concentrarsi sulle attività a maggior valore aggiunto. “Concepiamo la sostenibilità non
solo dal punto di vista ambientale, ma anche sociale ed economico, abbracciando il benessere
del consumatore e il rispetto dell’ambiente e delle persone che lavorano con noi: una
responsabilità sociale verso il territorio e le comunità che vi abitano”, sottolinea Armando
Castagnedi, titolare insieme ai fratelli di Tenuta Sant’Antonio. “Per questo abbiamo avviato
un profondo percorso di evoluzione che ci sta portando verso un approccio sempre
più sostenibile, e lo stiamo facendo in maniera estremamente concreta: abbiamo, infatti,
allocato investimenti che ci porteranno ad avere nuove strutture, un’organizzazione della
logistica più efficiente e delle pratiche in vigneto all’avanguardia, perché senza il coraggio
d’innovare ogni sfida rimarrebbe irrealizzabile”. Così, i prossimi anni per Famiglia Castagnedi
saranno dedicati ad abbracciare sempre più pratiche compatibili con l’ambiente e la
comunità. “Crediamo che solo in questo modo saremo in grado di rispettare e valorizzare
al meglio il territorio”. Quello stesso principio riproposto nel calice, anche in questo caso
grazie a visioni strategiche dalla chiara impostazione. “Il percorso che stiamo portando
avanti incarna i valori che da sempre ci contraddistinguono”, riprende Armando Castagnedi.
“Dalla costante ricerca dell’innovazione e dell’eccellenza al coraggio di investire
per rendere la nostra realtà sostenibile per noi e per il territorio. Tenuta Sant’Antonio,
Télos e Scaia sono 3 espressioni autentiche della nostra visione enologica, accomunati
dalla passione, dall’amore verso la nostra terra e dal profondo rispetto verso il benessere
delle persone. Il successo che stiamo raccogliendo in tutto il mondo ci riempie d’orgoglio
perché ad essere apprezzati non sono solo i nostri vini, ma sono il nostro lavoro quotidiano,
le idee e la forza dei nostri collaboratori”. E l’innovazione paga, come dimostra
in particolare l’avveniristico progetto di sostenibilità Télos, il vino senza solfiti aggiunti,
in conversione biologica e anche certificato Vegan, che si pone l’ambizioso obiettivo di
unire il pieno rispetto dell’ambiente con il benessere delle persone. La linea sta, infatti, vivendo
un 2022 molto positivo, con una crescita in doppia cifra (+10,2%) nei primi 4 mesi
dell’anno sullo stesso periodo 2021 e un aumento marcato per Télos L’Amarone (+69%).
E se il successo passa dalla qualità, non meno decisiva è l’individuazione dell’eccellenza
all’interno di ciascun terroir, come evidenziato dai Single Vineyard di Tenuta Sant’Antonio,
ambasciatori del vino veronese nelle sue due anime simbolo: Valpolicella e Soave.
Anch’essi protagonisti di un importante inizio 2022, parlano del connubio tra impronta
unica dei terreni e savoir-faire. “Puntiamo sempre più all’eccellenza e alla purezza dei nostri
vini, capaci di esprimere con sempre maggior forza l’identità intima di Valpolicella e
Soave”, chiosa Armando Castagnedi. “Siamo infatti convinti che prendersi cura del territorio
ed esprimerne al massimo le caratteristiche siano aspetti fondamentali per uno sviluppo
sostenibile delle comunità”. Perché dietro a un’etichetta c’è un universo intero.
11
Accompagnare la vocazione di una terra, salvaguardandone l’identità,
anche con prese di posizione radicali. Scegliere una strada che punta
sempre in alto, tanto che si parli di qualità del vino, ma ancor prima di
vigna. Già, perché quella di Col Vetoraz è stata fin dalla sua fondazione
una storia intimamente legata a un territorio speciale: le colline di
Valdobbiadene oggi Patrimonio Unesco. Al suo cuore, sul punto più alto del Cartizze,
i 108 ettari più pregiati di vigneto compresi tra San Pietro di Barbozza, Santo
Stefano e Saccol, sorge a quasi 400 metri la cantina. È qui
che nel 1838 si è insediata la famiglia Miotto, votandosi
alla coltivazione della vite. La storia “moderna” di Col Vetoraz
prende però il via nel 1993, quando Francesco Miotto,
assieme all’agronomo Paolo De Bortoli e all’enologo
Loris Dall’Acqua, decide di dare vita all’attuale azienda
vitivinicola, una realtà che ha saputo raggiungere, in pochi
decenni, il vertice della Valdobbiadene Docg con una
selezionata produzione di 1 milione e 250mila bottiglie.
“Seguire scrupolosamente un metodo che preservi l’integrità
espressiva del frutto di partenza è l’unico modo per
riuscire ad ottenere gli equilibri e le armonie naturali che
la vite ci ha donato”: questa è la visione sostenibile che da
sempre anima le scelte di Col Vetoraz, come spiega Loris
Dall’Acqua, amministratore delegato ed enologo dell’azienda trevigiana. Con la
natura che viene accompagnata, di vendemmia in vendemmia, nella sua evoluzione,
senza strappi o forzature, grazie a una filosofia di produzione che sceglie di non
togliere né aggiungere nulla a quanto il grappolo trasmette. Una narrazione rigorosamente
Valdobbiadene Docg, sviluppato per il 20% grazie a uve da vigneti di proprietà
e per la parte restante coi frutti di 72 viticoltori di fiducia, scelti nel corso degli
anni tra coloro che rispettano i precisi criteri qualitativi della cantina e ai quali è
offerta una consulenza agronomica diretta. “Raccogliamo una quantità d’uva nettamente
superiore ai nostri fabbisogni: tra il 30 e il 35% in più”, racconta Dall’Acqua.
“Ed esigiamo che i nostri viticoltori sposino i principi produttivi dell’azienda per
evitare, in fase di imbottigliamento, ogni tipo di addizione al vino. Lavoriamo esclusivamente
con pulizie fisico-meccaniche fin dalla pigiatura e non facciamo ricorso
ad alcun trattamento che possa alterare l’armonia naturale del vino. Sono infatti
convinto che eleganza, armonia ed equilibrio siano la chiave della piacevolezza dei
nostri spumanti”. Principi che nel calice si declinano in interpretazioni
Valdobbiadene Docg che spaziano dal Superiore
di Cartizze al Dry Millesimato, passando per Extra
Brut Ø, Brut ed Extra Dry, fino alle Cuvée 5 Extra Brut e
Cuvée 13 Extra Dry. Etichette che indicano della simbiosi
col territorio d’origine e di un suo scrupoloso ascolto. È
l’orgoglio di un’identità da preservare e valorizzare ciò che
Col Vetoraz mira, infatti, a comunicare. La peculiarità di
una Denominazione: un territorio in cui da 8 secoli si coltiva
la vite e all’interno del quale è nata, nel 1876, la prima
Scuola Enologica italiana. Un anfiteatro naturale dove la
Glera ha trovato il suo habitat ideale. Poi è la comprensione
delle reali potenzialità di ogni singola partita delle uve raccolte
manualmente, a garanzia dell’integrità del frutto e
nel rispetto della pianta, a fare la differenza. E proprio nella selezione per zonazione
passa il messaggio che ha condotto, dalla vendemmia 2017, alla rinuncia definitiva
da parte della cantina trevigiana del termine Prosecco, preferendogli la sola indicazione
Valdobbiadene Docg. “Noi produciamo ciò che siamo”, chiosa Dall’Acqua, “e
in ogni calice dei nostri spumanti ci sono le nostre radici, quelle di una terra che ci
ha visto nascere ed evolvere”. È la storia di un vino con un orizzonte ben preciso: il
traguardo di puntare sempre più in alto.
DI MATTEO BORRÈ
La scelta di puntare in alto
Alla sommità del Cartizze, dove Col Vetoraz ha deciso
di non togliere né aggiungere nulla
a quanto il grappolo trasmette
VISIONI
12
EXPERIENCE
Uno studio in Blànc
Contadi Castaldi firma una nuova cuvée,
figlia di 20 anni di ricerche sul Pinot Bianco. Per
un’interpretazione contemporanea della Franciacorta
DI MATTEO BORRÈ
terreni molto freschi e minerali che conferiscono particolare
energia al vino. Non solo acidità, quindi, ma anche
tempra e carattere. Vigne vecchie, in grado di esprimersi
in maniera chiara, nitida e limpida. Blànc 2018 è attenzione
estrema al dettaglio. “Abbiamo lavorato su tecniche di
natura fisica e non chimica, dalla vigna alla cantina”, spiega
Gian Luca Uccelli. “Abbiamo osservato come il peso specifico,
la densità, il ph, cambiassero anno dopo anno e ci
siamo adeguati ai cambiamenti dell’uva, che sono figli dei
cambiamenti climatici di questi 20 anni. Abbiamo ascoltato
la natura e ci siamo piegati ad essa, cercando di ottenere
il meglio dalle nostre vigne, che hanno un’età media
di 35 anni, radici profonde e forti che scavano nel cuore
della terra, per catturare tutta la mineralità necessaria per
questa cuvée”. Ma cosa rappresenta questo nuovo stadio
nell’evoluzione dell’azienda franciacortina? “Contadi è
una cantina da sempre all’avanguardia, capace di interpretare
i cambiamenti climatici, introdurre nuovi paradigmi
stilistici e anticipare le tendenze legate al mondo food”,
sottolinea l’enologo. “Il nostro Blànc oggi è esattamente la
sintesi di questi fattori: l’interpretazione contemporanea
della Franciacorta. Abbiamo studiato e approfondito, abbiamo
osato e ricercato nelle annate più difficili la chiave
di volta per capire meglio lo Chardonnay, il Pinot Nero e
oggi il Pinot Bianco. Il Blànc è l’evoluzione che si fa vino.
Un vino delicato e raffinato, che riporti ad un’eleganza
moderna, minimale, geometrica e che rappresenti un ragionamento,
un percorso, un viaggio. Nessuna forzatura,
nessuna interpretazione, solo la verità di un vino e del suo
territorio”. È nata una nuova icona in Franciacorta.
C’
è un nuovo nato in casa Contadi Castaldi. Si chiama Blànc
ed è figlio della vendemmia 2018. Ma dietro a nome ed
etichetta si nasconde molto di più, in questa bollicina che
ha fatto il suo esordio in occasione di Vinitaly dopo anni
di studiata “incubazione”. Già, perché quando si parla di
Metodo Classico nulla nasce mai per caso. E la cantina
franciacortina del Gruppo Terra Moretti Vino lo ha voluto
dimostrare una volta di più con questa nuova interpretazione
frutto di un lungo percorso di ricerca e di studio.
Un progetto che nasce da lontano, evoluzione del Soul
Satèn, per un Extra Brut che si distingue per il suo carattere
graffiante e deciso. Ci sono, infatti, voluti 20 anni di
approfondimenti sul Pinot Bianco, a iniziare dal 2002, per
trasformare in realtà questa nuova cuvée, asciutta, pulita e
lineare. “Lo studio effettuato, in 20 anni, con il Soul Satèn,
ci ha dato le indicazioni in merito agli Chardonnay da usare
per un Blànc de Blancs capace di invecchiare ed evolvere
nel tempo”, spiega a WineCouture Gian Luca Uccelli,
storico enologo di Contadi Castaldi. “Una seleziona accurata
di Chardonnay con capacità fuori dal comune uniti al
Pinot Bianco, un vitigno dal carattere complicato, soprattutto
in Franciacorta, ci hanno dato la possibilità di creare
un vino molto teso, che nella vendemmia del 2021 si è rivelato
in tutta la sua bellezza”. Cosa ha ricercato la cantina
franciacortina è presto spiegato. “Il pensiero costante che
ci ha mosso è stata la ricerca della pulizia e della naturalità
estreme, che non potevano essere ottenute con il solo
Chardonnay, ma ci siamo arrivati impiegando il Pinot
Bianco”, riprende Uccelli. “E il Pinot Bianco è un vitigno
dal carattere difficile, che va guardato a vista e studiato a
fondo, ma che se utilizzato nella giusta misura, è in grado
di conferire al vino un’acidità tagliente, che mai avremmo
ottenuto con il solo Chardonnay”. Ed ecco che la trasformazione
prende corpo. “Siamo passati così dall’estrema
morbidezza e complessità del Soul Satèn”, evidenzia l’enologo,
“al cuneo tagliente e alla freschezza del Blànc, un
vino nuovo, accattivante senza essere banale, una bella
soddisfazione”. È una vera e propria selezione quella da
cui Blànc prende vita: “20/37” il moderno geroglifico e
sintesi di questa cuvée. Un calcolo numerico dove il primo
valore sta per il numero minimo di selezioni di vendemmia,
segno distintivo di una scelta lineare, indirizzata a
specifici appezzamenti, mentre la seconda cifra indica un
mosaico di vigne di almeno 35 anni. E si tratta di una ricerca
minuziosa, capillare e mirata, che ogni anno può cambiare
– perché una vendemmia non è uguale ad un’altra
– con un algoritmo deciso dall’azienda, pescando da un
patrimonio di vigne che crescono in ambiti differenti, con
13
Un Vinitaly “Restart”: così è stato definito l’appuntamento andato in scena
dal 10 al 13 aprile scorsi tra i padiglioni di Veronafiere, a sancire il ritorno
ufficiale della manifestazione al suo format originale. Ed è stato un
evidente successo di pubblico e di business quello dell’edizione numero
54, che ha segnato il record storico d’incidenza di buyer esteri in rapporto
al totale ingressi: i 25.000 operatori stranieri (da 139 Paesi) hanno rappresentato
infatti il 28% del totale degli operatori arrivati in fiera, pari a
88.000. Ma è stato un Vinitaly “Restart” non solo per la riapertura delle
porte di stand e padiglioni. Dopo due anni di “incubazione silente”, il reale
ritorno è stato sancito anche dalla passerella di novità che hanno fatto il
loro debutto proprio a Verona. Nelle pagine che seguono ne abbiamo selezionate
alcune destinate al mondo Horeca, in un viaggio tra innovazione
e tradizione, mix di spumeggianti esordi e di colorate interpretazioni di
uvaggi classici o riscoperti. Ecco a voi la Collection di WineCouture dedicata
alle novità più curiose viste a Vinitaly 2022.
COLLECTION
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Un Sangiovese dalla veste candida. Inusuale
alternativa, che oggi si rinnova, in terra di Gallo
Nero. Sangiò Rinascimento Igt Bianco
Lecci e Brocchi rappresenta una nuova visione
aziendale di un vino dedicato a Giovanni,
dove il nome del vitigno vinificato in bianco si
fonde a quello del figlio dei titolari, terza generazione
in cantina: San-Giò. Un simbolo della
realtà di Castelnuovo Berardenga, biologica
dal 2019, nata nel 1970 per volere di Vasco
Lastrucci – detto “il Chiorba” – quando decise
di comprare, dal parroco di Villa a Sesta, il
podere adiacente al Paese, denominato Lecci
e Brocchi. Intenso, complesso e fine al naso,
in bocca il sorso, freschissimo e sapido, regala
una lunga persistenza. Per un vino dall’ampio
margine d’invecchiamento in bottiglia,
cavallo di razza che trova facilmente abbinamenti
a tavola con tutti i tipi di pesce,
formaggi freschi e carni bianche.
COLLECTION
Un simbolo del Brunello e di Montalcino
plasma una nuova storia. E nel calice porta
il risultato di 9 anni di sperimentazione in
collaborazione con l’Università di Pisa. Senza
Solfiti Igt Toscana Rosso 2021 Fattoria
dei Barbi è Sangiovese in purezza, frutto
di un progetto di ricerca che esclude l’uso
dell’anidride solforosa e l’aggiunta di ogni
prodotto chimico. Un volto di Toscana differente
e vino “sola tecnologia aggiunta”. Il
capostipite di una nuova tipicità montalcinese?
Solo il tempo potrà dirlo. Oggi parla
la lingua di una polpa carnosa, con l’aspetto
fruttato a riempire la bocca accompagnato
da una piacevole e balsamica acidità. Ideale
come aperitivo, anche leggermente fresco, ad
accompagnare formaggi freschi a pasta filata
e salumi o verdure grigliate.
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Un’interpretazione più agile e scattante di
quel Vulture che storicamente è patria
di grandi rossi da affinamento. Vino
per tutti i giorni da accompagnare
a primi piatti ricchi, il Bariliott
Aglianico del Vulture Doc
Paternoster è novità che porta
in tavola un omaggio “diverso”
all’agro di Barile, luogo di
nascita della cantina lucana.
Un ritorno alle origini con una
nuova veste per questo 100%
Aglianico, vitigno che si esprime
nelle sue peculiarità fin dal
primo sorso, con la presenza
di un tannino morbido e giovane
a regalare piacevolezza e
bevibilità. Giovane, gioviale,
immediato, dalla buona freschezza
e sapidità al palato che
lo rendono particolarmente
piacevole e succoso, per un primo
incontro con il Vulture e lo
stile Paternoster.
COLLECTION
Autentico, autoctono, biologico, ma soprattutto pronto a sfidare ogni stereotipo:
nasce tra Mazara del Vallo e Trapani, “al sole” come recita – richiamo al dialetto
del luogo – il nome della cantina, il Fiordispina Perricone Rosato Sicilia Doc
Biologico Assuli. Dal cuore di Contrada Carcitella, un’espressione fuori dagli
schemi, innovativa interpretazione in rosa di quel Perricone che è vitigno versatile
tutto da riscoprire, ma soprattutto espressione reale di una Sicilia del vino
nuova e diversa. Gradevole, piacevolmente ambiguo, come il personaggio del
celebre poema cavalleresco Orlando Furioso cui si rifà, Fiordispina è racconto
moderno di una lunga tradizione. Con il suo palato piacevolmente fresco e sapido
è la neonata alternativa di tendenza al “classico” calice, adattandosi a molteplici
abbinamenti e rivolgendosi a chi si dimostra aperto a nuove esperienze di gusto.
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COLLECTION
Una tra le realtà più dinamiche nel panorama
enologico del Conegliano Valdobbiadene conferma
la sua fama con un vino della tradizione,
che unisce alle più moderne conoscenze enoiche
i segreti tramandati da nonno Osvaldo.
Springo Green Conegliano Prosecco Superiore
Docg Brut Nature Sui Lieviti 2021
Le Manzane è spumante sostenibile, con un
basso residuo zuccherino, ma soprattutto richiamo
alla prima versione, “col fondo”, delle
bollicine nate tra le colline Patrimonio Unesco.
Poco più di 4000 le bottiglie realizzate
dalla famiglia Balbinot con le uve provenienti
da un vigneto certificato Sqnpi
nel borgo di San Michele, frazione del
Comune di San Pietro di Feletto.
Filari che poggiano su un terreno
rossastro, ricco di ferro, dalle
caratteristiche uniche capaci
di lasciare un’impronta
nel calice che si traduce in
profumi floreali e delicati.
Mentre le uve raccolte
a settembre inoltrato, in
leggera surmaturazione,
offrono a Springo Green
spessore e intensità. Per
un ritorno al passato, ma
con il sapere di oggi, a
regalare la versione la più
integra possibile del Prosecco
Superiore.
Arriva da Farra di Soligo il nuovo Valdobbiadene Prosecco Superiore
Docg Sui Lieviti Brut Nature 2020 La Farra. Rifermentato in bottiglia,
senza sboccatura, è spumante che rappresenta un ritorno alle origini: alla
forma tradizionale di produzione del vino più bevuto al mondo, qui nella
peculiare interpretazione che le ha voluto dare la cantina dei fratelli Innocente,
Adamaria e Guido Nardi. Armonioso, gradevole e longevo, “Sui lieviti”
è frutto, prodotto in sole 4500 bottiglie, di passione e dedizione, ma
soprattutto del desiderio di mostrare un’altra interessante sfaccettatura del
Valdobbiadene Prosecco Superiore. Una bollicina da maneggiare con cura
prima del servizio, a seconda che la si desideri velata o limpida nel calice, e
che esprime al meglio le sue caratteristiche entro 3 anni dalla vendemmia.
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Una delle più iconiche interpretazioni del savoir-faire enologico di Valdo
nella sua versione originale, edizione speciale che ritorna in occasione delle
celebrazioni per la 40esima vendemmia. Nato nel 1982, il Cuvée di Boj
Valdobbiadene Docg ha rappresentato una delle prime bollicine con dosaggio
Brut sulle colline del Prosecco Superiore. Oggi, questo best-seller capostipite
della rinnovata collezione Atelier, gamma che regala ai segreti del
passato un nuovo futuro, si presenta senza vincoli nella variante omaggio
Cuvée di Boj Vintage Valdo, millesimato dedicato al suo ideatore: Bruno
Bolla. Ed è proprio la ricetta originale a essere riproposta: blend di 75%
Glera e 25% Chardonnay che racconta com’è cambiata stilisticamente nel
corso dei decenni quella che si sarebbe dimostrata un’intuizione di grande
successo. Un ritorno al futuro, grazie al recupero dell’uvaggio degli inizi,
per uno spumante Brut che si spinge oltre il tempo stesso e le convenzioni
attraverso l’unione tra l’eleganza dello Chardonnay e la fresca dinamicità
della Glera. Edizione limitata di poco meno di 12.000 bottiglie, a riaccendere
i riflettori sulla tipicità e l’eccellenza delle uve dell’antica località “valle
dei buoi”, zona vocata dalle straordinarie caratteristiche territoriali situata
nella frazione San Pietro di Barbozza.
COLLECTION
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COLLECTION
Dopo le bollicine, un fermo, per proseguire nel cammino innovativo
intrapreso. L’eclettico e poliedrico Martin Foradori Hofstätter rilancia
con la sua linea di prodotti senza alcol. Il nuovo Steinbock Alcohol Free
Selection Dr. Fischer nasce da un’attenta selezione, in vigna e in cantina,
di uve Riesling Kabinett della Mosella. Poi, a intervenire è l’innovativo
processo di distillazione sottovuoto, che preserva i delicati aromi della
materia prima, eliminando l’alcol contenuto. Non provocazione, bensì
avanguardia. Questo bianco fermo dealcolizzato, infatti, è figlio di un
obiettivo ben preciso: offrire un’alternativa a chi non può o non vuole bere
alcolici. Per non rinunciare alla qualità, in nessun caso.
Una nuova etichetta che colora le “Collezioni” di un delicato rosa provenzale. Un vino elegante
e fresco, ottenuto da uve Schiava e Lagrein, parzialmente dealcolato con un processo naturale
indotto attraverso la tecnica a membrana per osmosi. Rosa Rosé Partially Dealcoholized Cantina
Bolzano è l’ultima novità firmata dall’azienda delle famiglie conferitrici bolzanine. Un nuovo
ambasciatore di Cantina Bolzano, pronto a regalare emozioni primaverili fin dal primo sguardo.
Prodotto in 20.000 bottiglie, con i suoi apprezzabili 9 gradi alcolici, è sintesi perfetta di aromaticità e
moderna eleganza nel bere. Al palato, risulta decisamente equilibrato, per un vino contemporaneo e
gentile, dove l’acidità ben integrata a una buona mineralità dona freschezza al sorso, mentre le note
morbide dell’ottimo connubio tra fiore e frutto gli regalano una bella bevibilità.
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COLLECTION
Storia di 2 territori, limitrofi ma diversi, complementari ma separati: mondi a sé nonostante l’esigua lontananza che li divide, come dimostrano le recenti novità.
È una duplice anima quella di Castello di Luzzano, realtà un po’ lombarda e un po’ emiliana, con l’orizzonte delle colline che delinea e delimita confini, anche
vinicoli. Un racconto di 2 province che oggi si fa più ricco: arrivano, da una parte, la Barbera Oltrepò Pavese Doc 2019 Luzzano 270, dove il numero racconta
dell’altitudine dove trovano dimora le selezionate vigne da cui prende vita, dall’altra il Gutturnio Colli Piacentini Doc Riserva 2017 Romeo, 60% Barbera e
40% Bonarda, classico reinterpretato per una Riserva speciale e dal nome romantico e appassionato, com’era quel contadino cui è stato dedicato. Vini con quel
qualcosa in più, come evidenziano a prima vista anche le loro etichette, sfacciatamente impattanti ed energiche nei colori, firmate dall’eclettico Fabrizio Sclavi.
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COLLECTION
La chiave d’accesso, come immediatamente
evidenzia l’iconica bottiglia, per
comprendere un’idea: di vino e d’impresa.
Three Dreamers Appassimento by Fantini
racchiude in sé la storia stessa di un’azienda
e di tre sognatori: Valentino Sciotti,
Filippo Baccalaro e Camillo De Iuliis. È
da uve Montepulciano d’Abruzzo biologiche
appassite, selezionate nel Vigneto
di Cantalupo, che nasce questo rosso
che “mutua” la tecnica produttiva
dell’Amarone. Nuova ammiraglia
del Gruppo Fantini,
massima espressione della
sua enologia, è vino
carnoso, pieno e ricco,
ben vivacizzato dalla
sapidità e dal perfetto
bilanciamento tra tannini
vellutati e acidità.
Il compagno ideale per
lunghe conversazioni.
Il Virdis Igt Vino Biologico 2021 Pighin è racconto di vitigni resistenti. Nuova avanguardia
di un orizzonte del vino che si amplia. Bianco 100% biologico da un protagonista
della tradizione vinicola friulana, fin nel nome rimanda alla sua anima “green”.
Una produzione dall’elevata sostenibilità ambientale che si fonda sulle varietà Furtai
(base Friulano), Nepis e Ritos (base Sauvignon Blanc), vitigni capaci di resistere a peronospora
e oidio, le due malattie della vite più temute dai viticoltori, non necessitando
di trattamenti. Fresco, minerale, delicato, equilibrato con una leggera sapidità al palato,
al naso Virdis regala note primaverili con un bouquet floreale e leggermente fruttato.
Ideale accompagnamento ad antipasti e primi a base di pesce, uova e formaggi
non stagionati, aumenta di personalità, se ben conservato, in un arco tra i 2 e i 3 anni.
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Cosa ti porti dietro dall’esperienza maturata in
6 anni alla guida di Vivino Italia?
Senza dubbio, l’aver vissuto da protagonista tutto quel
che sta dietro l’avvio di una start-up. E mi riferisco al
più banale senso dell’affermazione: dall’aprire la partita
Iva al conto in banca di una nuova azienda, ma anche
impostare da zero una nuova realtà adattando le linee
guida del format al contesto italiano. Gli anni in Vivino,
per me, hanno rappresentato fin dall’inizio più che le
semplici responsabilità di un country manager: è stato
un vero grande amore per una creatura che ho contribuito
a far crescere. E ancora oggi sono il primo sostenitoa
sottolineare che, proprio in conseguenza dei rapporti
che si sono rinsaldati con le aziende in questo periodo,
mai abbiamo anche solo pensato di approfittare del
momento per domandare più sconti: questo è qualcosa
che ancora ora mi viene riconosciuto e di cui sono fiero.
Archiviato il capitolo Vivino, qual è la nuova
avventura che ti attende?
Torno a vestire i panni dell’imprenditore. Sotto tanti punti
di vista, non vedevo l’ora. Sono entrato in società con
Gilberto Maggi, creatore di Italyorg Sales Management
Srl (in foto, a destra), una delle agenzie di riferimento a
livello nazionale quando si parla di direzione canale e
consulenza nella distribuzione di vino all’interno della
Gdo. Ma la società è anche proprietaria di un’altra realtà,
Centoterre Srl, che detiene suoi brand e di cui mi occuperò
più direttamente. Con questa azienda, siamo noi che
produciamo vini, proponendo nostre etichette e dando
vita anche a progetti di private label. Ma non solo: Centoterre
Srl offre anche quel servizio di direzione canale e
consulenza nella distribuzione che caratterizza Italyorg
Sales Management, ma al mondo dell’online. E così metto
a frutto l’esperienza di questi ultimi 6 anni, cercando al
contempo di far crescere la familiarità dell’universo vino
italiano con il digitale. E questa avventura nasce da un’intuizione
di qualche tempo fa da parte di Gilberto Maggi.
NEW BUSINESS
“L’omnicanalità non
deve far paura”
La sfida dopo Vivino Italia di Mauro Bricolo:
aiutare le cantine ad affrontare le insidie
della gestione di diversi canali, iniziando dall’online
Quale?
Poco più di 5 anni fa, Gilberto Maggi mi ha fatto notare
dinamiche che vedeva in Gdo simili, se non uguali, a quelle
che cominciavano a svilupparsi al tempo nell’online.
Parliamo di pricing, sviluppo commerciale dei prodotti e
margini. Così abbiamo cominciato a collaborare, riproponendo
lo stesso schema della Gdo sull’online. E nel tempo,
questo esperimento ha avuto un successo incredibile,
tanto che alcune delle etichette inserite hanno rappresentato
dei veri e propri best-seller su Vivino. Oggi, la dinamica
funziona anche al contrario: la Grande distribuzione
domanda novità al di fuori dei nomi altisonanti e guarda ai
brand che hanno avuto successo online, dove si può ritrovare
una marginalità corretta per tutti. Infine, Centoterre
svilupperà anche una sua distribuzione, con consegne
al dettaglio sui singoli punti vendita della Gdo: al momento
abbiamo già siglato un’intesa con 2 grandi catene.
D
al 2016, Mauro Bricolo ha guidato l’ingresso di Vivino sul
mercato italiano, plasmando una delle realtà di maggiore
successo in campo digitale nel settore. Oggi, svestiti i panni
del manager, ha scelto d’indossare quelli dell’imprenditore,
dando il via a un progetto che punta a coniugare
l’ambito digitale a quello fisico, il mondo dell’e-commerce
con il retail, il vendere con il produrre e il distribuire.
DI MATTEO BORRÈ
re di quella che ritengo un’invenzione pazzesca, che ha
realmente ampliato gli orizzonti di tanti appassionati.
In termini di risultati, sei soddisfatto di quanto
avete raggiunto con Vivino Italia?
Assolutamente sì. Partendo da zero siamo arrivati tra i
primi 5 player in termini di fatturato annuo, pur avendo
un format totalmente diverso dagli altri e-commerce
presenti sul mercato. Abbiamo sempre lavorato con
flash sale, quindi senza la possibilità di sfruttare i benefici
dell’avere un magazzino. Questa modalità regala
il bello dell’immediato smercio del prodotto, ma preclude
d’intercettare una fetta importante di mercato.
Cosa presuppone operare con le flash sale?
Perdi in termini di fidelizzazione tra consumatore e
prodotto, ma guadagni in ottica di rapporto tra cliente
e azienda: perché l’utente si fida delle tue scelte.
La pandemia che effetto ha avuto sull’online
nel mondo del vino?
Ha portato a un vero e proprio boom, per tutti. Sono
stati anni frenetici. Personalmente li ho vissuti davvero
in prima linea, con le aziende che chiamavano e noi
in Vivino Italia sempre pronti a rispondere alle loro esigenze,
che poi si riassumeva in una: vendere. Così abbiamo
creato occasioni realmente interessanti di business,
tanto per le cantine, quanto per Vivino Italia. E ci tengo
Siete attivi anche nel mondo dello Champagne,
giusto?
Esatto. Abbiamo preso un mandato d’importazione con
un altro best-seller di Vivino. Si tratta del via di un progetto
che abbiamo in mente per portare in Italia, sul canale
online, nuovi brand di Champagne a un costo più
contenuto rispetto a quelli attualmente sul mercato.
Dopo l’online e la Gdo, quando arriverà
il momento di un servizio dedicato al canale
Horeca?
Ci stiamo lavorando, per capire come aiutare in una distribuzione
quelle realtà che sono prive di una rete vendite
sul canale o la vorrebbero ampliare. Ma ci prenderemo
il tempo per fare le cose come si deve. Oggi, davanti alla
scoperta dell’omnicanalità da parte del mondo vino, serve
professionalità per approcciare ogni canale. Noi proprio
questo offriamo: la certezza dei posizionamenti e
di essere ascoltati nei diversi ambiti in cui operiamo.
23
I primi ambasciatori
del vino
Un vero successo il debutto del Concorso
“Miglior Enotecario d’Italia”
organizzato da Aepi in collaborazione con Vinarius
RICCARDO COLLETTI
darsi i partecipanti su varie prove, la collaborazione
dei Consorzi che hanno deciso di aderire e diventare
sponsor della competizione: Consorzio Tutela Vini
dei Colli Orientali del Friuli Ramandolo, Consorzio
Vini Doc delle Venezie, Consorzio Vini Alto Adige,
Consorzio Vino Chianti Classico, Consorzio di Tutela
Vini Cirò e Melissa, Consorzio Vino Toscana, Consorzio
di Tutela Vini del Trentino, Consorzio Tutela
Vini Colli Euganei, Consorzio Tutela Vini Valpolicella
ed Enoteca Regionale del Barolo. E nella finalissima,
Una “prima” di successo. Come testimonia
anche il lungo elenco di padrini
che hanno scelto di tenere a battesimo
questa nuova competizione finalizzata
ad accendere i riflettori sulla figura e la
professionalità dell’enotecario. Ed è il migliore della
categoria quello che ha voluto andare a scovare il
Concorso “Miglior Enotecario d’Italia”. Un contest
organizzato da Aepi (Associazione Enotecari Professionisti
Italiani), in collaborazione con Vinarius (Associazione
Enoteche Italiane) e con il patrocinio del
Mipaaf. Un momento non solo di “sfida”, ma soprattutto
di confronto, nato con l’obiettivo di dare un vero
e proprio palcoscenico alla categoria ambasciatrice
del mondo del vino e dei prodotti alcolici in generale.
“Il concorso punta ad essere un’occasione di dialogo
all’interno della categoria”, aveva sottolineato Francesco
Bonfio, presidente di Aepi, nel lanciare l’iniziativa.
“Un’occasione ad hoc per dare forma ed espressione
di quali sono le reali e molteplici capacità che gli
enotecari professionisti possono mettere in campo”.
E questo si è dimostrato: un’occasione “per celebrare
l’esperienza quotidianamente introdotta da ogni singolo
professionista nella scelta del prodotto, nella capacità
di proposta, nell’attitudine a comunicare con
competenza e disponibilità di dialogo, dimostrando
serietà e grande attenzione alle esigenze del consumatore”.
Fondamentale, nel percorso che ha visto sfiseguita
a momenti di alta formazione possibili grazie
alla partnership con il Comité Champagne e il Consorzio
del vino Brunello di Montalcino, a competere
sono stati 3 finalisti per la categoria bottiglierie classiche
(Filippo Carraretto, Padova, La mia Cantina;
Andrea Lauducci, Ferrara, Enoteca Botrytis; Mattia
Manganaro, Brescia, Biessewine) e altrettanti sfidanti
per la categoria dei pubblici esercizi specializzati nella
mescita di vino e distillati (Luca Civerchia, Jesi Ancona,
Enoteca Rossointenso; Pietro Palma, Prato, To
Wine; Luca Sarais, Milano, Cantine Isola). A emergere
vincitori Luca Sarais dell’enoteca con mescita Cantine
Isola di Milano e Filippo Carraretto della bottiglieria
La Mia Cantina di Padova, incoronati dalla giuria capeggiata
dal giornalista Stefano Caffarri e composta
da Chiara Giovoni, Leila Salimbeni, Cristian Deflorian
e Giuseppe Vaccarini. “Siamo orgogliosi di aver
premiato le competenze, le conoscenze e le capacità di
questi professionisti”, evidenzia Bonfio. “Questo non
è stato solamente un concorso, ma anche un momento
d’incontro per l’intera categoria, un momento di formazione
e miglioramento. Luca e Filippo sono bandiera
di questo mestiere per le loro competenze e per il
loro saper confrontarsi con il cliente, per la loro capacità
di interfacciarsi con i produttori dando precedenza
alla cura del dettaglio e all’ascolto”. Sotto l’egida del
Consorzio della Valpolicella, poi, nominato anche il
Miglior Enotecario d’Italia all’estero, con il premio
andato a Daniele Leopardi dell’Enoteca Tentazioni a
Parigi. “Parigi, dove sei in cima al mondo con gli onori
e gli oneri che ne derivano, è da sempre uno zoccolo
duro per il consumo dei vini francesi: sapere di avere
un professionista capace di rappresentare così bene
l’Italia e i suoi vini all’estero ci fa sicuramente onore”,
riprende Bonfio. Il riconoscimento speciale, promosso
dal Consorzio Chianti Classico, come miglior Under
30 è andato infine a Filippo Carraretto, per un prestigioso
double. Ma tanti sono gli astri nascenti della
categoria che si sono messi in luce, come ribadisce il
presidente Aepi: “Nelle varie fasi del concorso abbiamo
potuto scoprire come le nuove generazioni stiano
dando un approccio nuovo, moderno e dinamico alla
professione e come stiano sempre più diventando dei
veri ambasciatori del vino italiano con grande professionalità.
Abbiamo visto giovani formati, capaci di relazionarsi
con il cliente valorizzando le caratteristiche
di ogni prodotto. I giovani enotecari italiani ci stupiranno
sempre di più, ne sono sicuro”. In alto i calici,
allora, e un brindisi ai primi ambasciatori del vino.
PROTAGONISTI
24
GIRAMONDO
La Provenza in
bottiglia (di plastica)
Château Galoupet lancia un Rosé in PET che mette
in discussione lo status quo nel mondo del vino
DI MATTEO BORRÈ
te percepibile, che sarà confermata appena decideremo
di riporre la bottiglia in frigo, dove occuperà in maniera
ancor più razionale metà dello spazio di una dalla forma
tradizionale. Infine, la curiosità, di comprendere i perché
ci sia spinti così “oltre”: sono pronti il consumatore e chi
vende il vino a una proposta di questo tipo? Su questo
abbiamo interrogato Jessica Julmy, managing director di
Château Galoupet (in foto), che ci ha spiegato gli orizzonti
di un progetto nato in un santuario per la biodiversità
che si pone l’obiettivo rappresentare un modello
per la viticoltura biologica e un faro per la sostenibilità
secondo Moët Hennessy. Château Galoupet, infatti, è
Cru Classé de Provence in transizione verso una gestione
bio dal 2020, che a maggio di quest’anno ha presentato
le sue prime due etichette: Galoupet Nomade 2021,
per l’appunto, e Château Galoupet Cru Classé Rosé
2021. “Château Galoupet è stato acquisito da LVMH 3
anni fa”, spiega a WineCouture Jessica Julmy. “E prima
dell’arrivo di Moët Hennessy è sempre stato un progetto
che ha subito una mancanza d’amore”. Fin da principio,
l’attuale proprietà si è resa conto che i 69 ettari di vigneti
e i 77 ettari di aree boschive protette che si affacciano
sulle isole d’Oro della Costa Azzurra rappresentano un
ecosistema davvero unico nel suo genere. Gli investimenti
per preservare la biodiversità della tenuta rappresentano,
così, parte integrante nel lavoro di creazione del
portfolio vini. “Con Château Galoupet abbiamo scelto
di andare a costruire la nostra propria storia. Non ab-
Parliamo di Rosé. Anzi, di un Rosé ben preciso,
diverso da tutti gli altri. Parliamo di
un Rosé che è specchio di un progetto ben
preciso, rinascita di un Domaine, e anche
di un più generale nuovo corso di Gruppo
nel mondo del vino. Un mondo, però, che non è chiaro
se oggi è pronto ad accogliere questo Rosé che ha scelto
di mettere in discussione lo status quo, presentandosi in
una bottiglia di plastica. Ma c’è di più: una bottiglia diversa
dalle altre anche nell’aspetto, con la sua inusuale
forma piatta. Stiamo parlando di Galoupet Nomade, che
con l’annata 2021 oggi debutta sul mercato. Una novità
sbarcata in Italia grazie a Tannico, dove è in vendita da
inizio giugno a un prezzo al pubblico di 25 euro, e firmata
da quel Château Galoupet che rappresenta una delle
ultime acquisizioni di Moët Hennessy in Provenza, terra
promessa per i Rosé. L’incontro “ravvicinato” tra questa
rivoluzione in rosa e chi scrive avviene in occasione della
prima edizione del World Living Soils Forum, organizzato
dal gruppo LVMH l’1 e il 2 giugno ad Arles (ne potete
leggere alle pagine 4 e 5 su questo numero di WineCouture).
E il primo approccio a Galoupet Nomade non ha
potuto che generare sensazione contrastati. Lo stupore,
immediato, davanti a un prodotto firmato da un brand
del lusso che sceglie un packaging distante da quello che
ne rappresenta il normale percepito e posizionamento. Il
fascino, a fronte di qualcosa di davvero diverso, col suo
design distintivo che attrae e la praticità immediatamenbiamo
dei codici prestabiliti da seguire: siamo partiti da
zero in ogni tappa del percorso, dalla terra al calice”. Un
cammino fondato sull’idea di realizzare un grande vino
di Provenza rispettoso al massimo dell’ambiente. “La
scoperta fatta nell’interrogarci sul come, è stata che possiamo
essere bio o diminuire il nostro utilizzo d’acqua,
ma ciò che resta è che il 40% dell’impronta carbonica di
un vino è rappresentata dal packaging”, sottolinea Jessica
Julmy. “Di conseguenza, se non s’interviene in quest’area
con soluzioni all’avanguardia, si distrugge quanto
fatto in precedenza lungo la filiera”. Così il packaging
ha assunto un ruolo centrale nell’ideazione delle novità
all’esordio. “Per il nostro Cru Classé Rosé abbiamo voluto
fare un grande vino capace di evolvere nel tempo: in
questo caso, il vetro rimane il più nobile e giusto dei materiali
per la conservazione del prodotto. Ma attenzione:
abbiamo lavorato per alleggerire il peso della bottiglia e
abbiamo scelto un vetro ambrato di 499 grammi, che integra
naturalmente il 70% di materia prima riciclata. Ma
se è stupendo proporre un Cru Classé realizzato interamente
con uve di proprietà, l’impatto di una cantina in
termini di sostenibilità rimane trascurabile se non tende
la mano ai vigneron. E questo principio ha dato forma
a Galoupet Nomade, un secondo vino che nasce innanzitutto
da uve conferite. Con questo Rosé non abbiamo
cercato un vino che si prestasse alla lunga conservazione.
Da qui la riflessione su quale, tra le tante opzioni a
disposizione, potesse essere la migliore soluzione in termini
di packaging per diminuire l’impatto ambientale.
Perché utilizzare il vetro, che pesa 10 volte di più, quando
abbiamo a disposizione una bottiglia brevettata di solo
63 grammi, la prima di forma piatta realizzata in PET da
materia prima riciclata Prevented Ocean Plastic raccolta
nelle zone costiere a rischio di inquinamento plastico.
Anche a livello di pallettizzazione si tratta di un’idea sensazionale”.
All’interno della bottiglia troviamo un Côtes
de Provence Aoc, “un blend di Grenache con Cinsaul,
Mourvèdre e Rolle”, spiega Jessica Julmy. “Nel Cru Classé,
con cui non arriveremo a pieno regime produttivo se
non attorno al 2034 per svilupparne la qualità in maniera
adeguata, ritroviamo ancora le uve Grenache, ma poi
abbiamo lavorato molto con il Tibouren, un vitigno della
Provenza che abbiamo deciso di valorizzare, Syrah e
Rolle, vinificati in maniera differente rispetto a quanto
fatto in Galoupet Nomade”. Resta, però, il grand tema:
il consumatore è pronto a una proposta così estrema in
termini di packaging? “Se la soluzione che abbiamo scelto
per Galoupet Nomade è la migliore? Non abbiamo
sufficienti elementi per rispondere oggi. Può esserci una
soluzione migliore? Chi ha un’idea a riguardo, si faccia
avanti. La bottiglia di plastica può risultare culturalmente
una scelta inconsueta in Paesi dalla tradizione vitivinicola
molto forte alle spalle, come la Francia e l’Italia,
ma non lo è assolutamente in altri contesti di mercato,
come il Regno Unito o la Scandinavia, che neanche si
pongono il problema se parliamo di un formato diverso
dal vetro nel vino. Ma è necessario che il mondo del vino
s’interroghi sull’argomento. E lo stesso vale per un altro
tema scottante: il tappo a vite. È ora che il settore affronti
questa conversazione e, poi, il tempo ci dirà”. Château
Galoupet la sua scelta sostenibile l’ha già fatta.
25
Dal 1° aprile, Manuel Reman, dal 2005 una lunga carriera in seno a Moët
Hennessy, ha preso il posto di Margareth “Maggie” Henriquez alla guida
di Maison Krug. Un testimone pesante, quello ricevuto. Ma il nuovo
presidente di Krug ha idee chiare, soprattutto su cosa significhi lavorare
per questa storica Maison, che il prossimo anno taglierà il traguardo dei
primi 180 anni. A due mesi dal suo ingresso in azienda, abbiamo avuto occasione d’incontrarlo
per un faccia a faccia in assoluta libertà, in cui col nuovo numero uno di Krug
abbiamo parlato innanzitutto di mercato italiano e di che inizio d’anno sia stato dopo
il boom del 2021 che ha esaurito le scorte per tutto il mondo Champagne. “È stato un
inizio 2022 estremamente complicato, proprio come la fine dello scorso anno. In Krug,
avremmo la capacità di vendere ancora più bottiglie, perché in cantina lo stock copre i
7 anni dell’affinamento: dunque, sappiamo esattamente i quantitativi a nostra disposizione.
Tuttavia, vendere di più oggi presuppone vedere mancare prodotto in futuro
e non voglio assolutamente che questo accada. Neanche siamo tra quelli che decidono
di diminuire i tempi d’affinamento per aver maggiore prodotto a disposizione per
cavalcare l’onda delle vendite. Perciò, la nostra decisione oggi è di spendere le nostre
energie nella scelta di quale Paese, canale e finanche cliente allocare le bottiglie”. Ma
qual è il “segreto” per vedere crescere le proprie assegnazioni? “Nessun segreto, solo un
criterio: a essere favoriti sono quanti meglio comprendono e interpretano la filosofia di
Krug. Più che un problema, quello della carenza di bottiglie è una frustrazione. Ma è
preferibile questo tipo di frustrazione al dovere rincorrere le vendite: perché è in quella
circostanza che poi si commettono gli errori con promozioni che non costruiscono
nulla in termini di posizionamento sul lungo periodo. In termini di sviluppo, una Maison
come la nostra ritengo debba crescere attorno al 2% l’anno. Poi si giungerà a un
livello in cui occorrerà arrestarsi, perché significherebbe andare oltre quelli che sono
lo spirito e la filosofia stessi dell’azienda”. E l’Italia si può aspettare di vedere arrivare
qualche bottiglia in più di Krug? “L’Italia, in parallelo al Giappone, sono i veri mercati
di Krug. Perché ci sono consumatori che comprendono realmente i nostri Champagne.
E soprattutto hanno un gusto sofisticato che riconosce i prodotti di valore. L’Italia è il
Paese che ha creato il lusso e che coglie, valorizzandolo, quel principio d’artigianalità su
cui si fonda tutta la storia e la filosofia di Krug. Tanto che durante la pandemia, quando
abbiamo dirottato sul mercato italiano scorte di prodotto da altri contesti con trend in
ribasso, la ricezione è stata straordinaria: l’Italia è il Paese che ha avuto la crescita maggiore
nell’ultimo periodo. Dunque, proseguiremo nel sostenere il mercato italiano, che
tra l’altro regala quello che, a mio avviso, è il miglior abbinamento con il nostro Champagne:
Krug e Parmigiano Reggiano”. Qual è il bilancio di Manuel Reman dei primi
giorni in Maison Krug? “Sono stati mesi di grande eccitazione e di tante emozioni. Tutti
noi, all’inizio di una nuova avventura, ci immaginiamo come possa essere il debutto,
ma personalmente non me lo aspettavo di tale intensità. Per far capire: il primo giorno
del mio mandato l’ho passato con Julie Cavil, Chef de Cave di Maison Krug, che ha
presentato l’assemblage della 177ma Édition di Krug Grande Cuvée, creata attorno alla
vendemmia 2021, che poi è stata posta a riposare in cantina. Due giorni dopo, partenza
per la Scozia per l’incontro con i referenti di quasi 100 Krug Ambassade. Infine, al termine
della prima settimana, evento in Maison con un centinaio di nostri storici conferitori.
Dunque, in 7 giorni ho assistito alla creazione del nostro Champagne, incontrato
chi lo racconta nel mondo e conosciuto i partner che, da anche più di un secolo, ci forniscono
le uve per dare vita ai nostri vini: in sintesi, l’Alfa e l’Omega”. Ma c’è qualcosa
che pensa di dover cambiare? “Quando si prendono le redini di un’azienda, se si vede
qualcosa che non funziona è bene immediatamente intervenire per cambiare. Non è
però questo il caso di Krug: non vedo nulla che mi preoccupi. Al contrario: al momento
abbiamo una domanda che supera la stessa produzione. Dalla Scandinavia all’Italia,
la richiesta è una volta e mezza quella attuale. E la Corea, il Giappone e gli Stati Uniti
sono tutti mercati in forte ripresa. Tutti sintomi che la Maison performa bene e che
gli Champagne Krug sono grandemente apprezzati. Non ho, quindi, intenzione di fare
cambiamenti in termini di strategia di brand, ma piuttosto batteremo il ferro proprio in
relazione a questi nostri punti di forza per portare il marchio ancora più lontano”.
DI MATTEO BORRÈ
“L’Italia è il vero mercato
di Krug”
Intervista a Manuel Reman, nuovo presidente della Maison,
che svela il “segreto” per vedere crescere le proprie assegnazioni
CHAMPAGNE
26
CHAMPAGNE
Photo: Cecilia Buonagurelli, Première Italia
Maison De Venoge
tra le stelle (Michelin)
Il tour per l’Italia che celebra Louis XV,
il sovrano con cui nasce la storia moderna dello Champagne
DI ANDREA SILVELLO
Tre appuntamenti con le stelle per un anniversario speciale: “Noblesse oblige”.
Così Maison De Venoge ha scelto una selezione dei più iconici tristellati
Michelin d’Italia – Da Vittorio a Brusaporto, Enoteca Pinchiorri a Firenze
e Uliassi a Senigallia – per celebrare una data storica. Ricorre, infatti,
il 300esimo anniversario dell’incoronazione di Luigi XV, “il Beneamato”,
a re di Francia, avvenuta il 25 ottobre del 1722 a Reims. E proprio a Louis XV Maison
De Venoge ha dedicato, a far data dal lancio del 1995, la sua cuvée più prestigiosa. Ma
cosa lega il sovrano allo Champagne? E perché Maison De Venoge gli ha dedicato la sua
etichetta più preziosa? Perché a Luigi XV di Francia si devono i decreti, del 1728 e del
1735, che resero possibile il trasporto e la vendita del neonato Champagne “saute bouchon”,
dando il via a un’epopea che oggi racconta di 9 milioni 225mila bottiglie spedite
solo in Italia. Per celebrare il “bien-aimé”, Maison De Venoge ha messo a confronto i
gioielli della corona, con sorpresa sul primo millesimato della sua iconica cuvée. Se il
copione degli abbinamenti a tavola è cambiato, secondo la creatività di chi era in cucina
a ogni tappa, nel tour stellato la line up ha regalato solo emozioni. Per scaldare i motori,
o meglio “avvinare i palati”, con gli amuse-bouche una delle ultime novità De Venoge,
il Grand Vin des Princes 2014 Blanc de Blancs: elegante, fresco e minerale, Champagne
100% Chardonnay da uve provenienti da villaggi solo Premier e Grand Cru, 7 anni sui
lieviti, dosato 6 g/l. A tavola, poi, le principali annate della cuvée Louis XV, Grand Cru
50/50 Chardonnay e Pinot Noir: Champagne che hanno in eleganza e precisione il filo
conduttore, a caratterizzare nel migliore dei modi lo stile della Maison. Si parte dall’annata
recente che più sta dando soddisfazioni, la mitica 2012, assaggiata sia in bianco sia
in Rosé. La prima ha lasciato il segno al primo sorso: pronta da bere (e si continuerebbe
senza stancarsi per l’intero pasto), saprà stupire negli anni. Il Rosé mostra un corpo più
importante: la freschezza è unita a bella struttura e carattere. Gli amanti dei Rosé freschi
ne apprezzano ora la facilità di beva, chi ha avuto il privilegio di assaggiare le vecchie
annate non può dimenticare quanto oggi sia la 2006 sia la 2002 rappresentino bevute
straordinarie che uniscono l’eleganza alla struttura e alla leggera ossidazione: si crea
così il bilanciamento magico che posiziona queste bottiglie a un livello altissimo nello
scenario dei Rosé. Il 2012 lo aspettiamo alla sfida del tempo e, siamo certi, non deluderà.
Veniamo così alla 2008, annata mitica in Champagne che in molti considerano la migliore
del nuovo millennio. Tra questa e la 2012, oggi la scelta ricade sulla seconda, ma si può
dire che dopo qualche anno di assaggi (la sboccatura è 2018) la strada evolutiva che il
vino ha preso riposando in bottiglia inizia a dare soddisfazioni: con i grandi Champagne
non bisogna aver fretta. Il trittico finale, con le prime annate della cuvée de prestige, ci
ha incollati alle sedie. Si parte dalla 1996, annata definita “estrema” dall’esperto Alberto
Lupetti, perché l’unica in 300 anni di storia a mostrare alla vendemmia livelli di acidità
e di maturità delle uve incredibilmente alti per la regione. Sboccatura 2020 per Louis
XV 1996, 6 g/l il dosaggio: in bocca l’acidità e la lunghezza sul finale di beva la fanno da
padroni. Il vino è complesso e le note evolutive si sentono. Un ottimo 1996, in linea alle
caratteristiche che oggi esprimono i (migliori) 1996. Per chi scrive, però, il 1995 è il vero
millesimo straordinario degli anni ’90 in Champagne. Con quest’ultima annata assaggiata,
side-by-side, in sboccatura originale (2006) e tardiva (2021) in versione Louis d’Or.
Entrambi i calici hanno un bellissimo colore dorato, bollicina fine, eleganza da vendere.
Perfetto bilanciamento di evoluzione e freschezza. Un naso più evoluto verso note di pan
brioche e caramello per la versione in sboccatura originale, note più fresche e vanigliate
per la tardiva. Assaggiati e riassaggiati, entrambi i dégorgement si confermano straordinari,
tra i migliori Champagne da poter bere oggi. Ma quanto ancora potrà dare negli
anni Louis d’Or: dopo 26 anni sui lieviti, sboccato da solo un anno, è ancora un bambino
che ha bisogno di farsi le ossa con la leggera e continua evoluzione in bottiglia. Grande
e inatteso, a chiusura, l’abbinamento finale ai dessert, che ha stupito. Cordon Bleu Demi-Sec,
dosato 34 g/l, vecchio lotto gelosamente custodito nella cave della Maison, base
1990. Più di 25 anni di evoluzione nelle migliori condizioni in bottiglia. Lo zucchero si
è perfettamente integrato al vino, note di caramello, crema e pasticceria. Bollicina fine
e lunga persistenza in bocca. Se lo avessero servito alla cieca domandando il dosaggio,
la risposta sarebbe stata: “Brut”, o poco più. E questa è la magia dello Champagne .
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5 a EDIZIONE
28
vini devono sedurre sia il palato che l’occhio”. Madame
Clicquot, nel 1818, in rottura con la tradizione,
rivoluziona lo Campagne in rosa creando il primo Rosè
per assemblaggio. Con i vini rossi che la celebre Maison
“Inostri
produceva dai vigneti di Bouzy decide di dare vita a un
mix con i bianchi fermi ed ecco nascere un prodotto destinato all’imperituro
successo. Lo scorso aprile, nella cornice di Identità Golose a
Milano, lo Chef de Cave Didier Mariotti ha presentato il nuovo millesimato
firmato Veuve Clicquot: La Grande Dame Rosé 2012.
I vini contenuti in questo Champagne, vetrina dell’eccellenza
Veuve Clicquot, provengono dagli storici Grand
Cru della Maison. In questa produzione, il Pinot Noir
di Ay, Verzenay, Verzy, Ambonnay e Bouzy trova la
massima espressione verticale: rappresenta oltre il
90% dell’assemblaggio, che viene poi arricchito da
un 10% di Chardonnay proveniente da Avize e Mesnil-sur-Oger.
Il 13% di Pinot Noir vinificato in rosso
che fa parte dell’assemblaggio de La Grande Dame Rosé,
invece, proviene esclusivamente dalla Parcelle Clos Colin, situata
a Bouzy.
La Parcelle Clos Colin è un terroir unico nel suo genere. In termini climatici,
trae vantaggio da un livello superiore di energia luminosa, permettendo
al Pinot Noir di maturare in anticipo. Qui, anche il suolo è
molto diverso dal classico terreno gessoso della Champagne, che permette
ai vini di mantenere la loro raffinatezza. Il suolo della Parcelle
Clos Colin è composto da sabbia ed elementi grossolani, come selce e
Burrstone, una roccia silicea. Questi materiali hanno un effetto drenante
e quindi forti vincoli di disponibilità idrica, favorendo nelle uve la
produzione di tannini e pigmenti molto ricercati nella creazione dei vini
rossi più raffinati. Il terroir, così, produce vini rossi corposi e strutturati
che donano forza e raffinatezza agli Champagne Rosé.
In Veuve Clicquot, la vinificazione dei rossi raggiunge un livello particolarmente
elevato, grazie a una lavorazione paragonabile al metodo
tradizionale utilizzato per i vini di Borgogna. Solo un minimo tra i 7 e
i 9 giorni di criomacerazione a 12°C consente l’estrazione dei tannini
dall’uva e, soprattutto, dai vinaccioli. Questi aiutano a fissare il colore in
modo naturale e svolgono un ruolo essenziale nell’invecchiamento
degli Champagne, che acquisiscono complessità
con il tempo. Ma cosa troviamo nel calice in La Grande
Dame Rosé 2012? Si tratta di uno Champagne che
esprime sin da subito una grande eleganza. Il colore è
rosa granato, con bagliori ramati. Al naso, emergono
note floreali che si evolvono verso una qualità più calda
e speziata. Al palato, le note di frutti rossi e agrumi
s’integrano alla perfezione creando profondità di beva,
lunghezza e freschezza. La complessità del Pinot Noir in
questo caso ha una spalla forte ma allo stesso tempo armoniosa
e delicata. La Grande Dame Rosé 2012 si può bere con piacere
anche adesso, ma si tratta di uno Champagne che saprà evolversi e
arricchirsi anche grazie al passare del tempo.
Un’ultima curiosità. La Maison ha scelto di presentare il nuovo millesimato
in un esclusivo coffret, omaggio al savoir-faire e allo spirito innovativo
ereditati da Madame Clicquot. In maniera inedita, La Grande
Dame Rosé 2012 sarà dunque accompagnata dal Coteaux Champenois
in rosso della cuvée Parcelle Clos Colin della stessa annata, per un’esperienza
degustativa davvero unica.
DI FRANCESCA MORTARO
CHAMPAGNE
Il ritorno (in rosa)
de La Grande Dame
Veuve Clicquot presenta il Rosé 2012 della sua cuvée simbolo
in un’inedita accoppiata col Coteaux Champenois Parcelle Clos Colin
29
Photo: Jean-François Robert
Quanto ci vorrà per definire un “modello Perrier-
Jouët” di viticoltura rigeneratrice?
Tra 6 e 8 anni riusciremo a completare le prime ricerche
e a individuare il metodo di lavoro che meglio possa
rispondere alle nostre esigenze in termini di stile nella
creazione dei vini. Poi sarà adattato, di contesto in contesto,
in funzione delle vigne, a seconda dei suoli e della
composizione dei terreni. Se parliamo di sostenibilità,
però, personalmente trovo fondamentale mantenere
una sostanziale coerenza anche a livello enologico. Per
via del riscaldamento climatico abbiamo vendemmie
che iniziano sempre prima, anche da agosto. E una delle
mie recenti scelte è di lavorare su vini senza malolattica:
da un paio d’anni, facciamo prove in cui li aggiungiamo
in proporzioni limitate agli assemblaggi per cercare
naturalmente un profilo di freschezza. Infine, c’è il non
meno fondamentale aspetto del packaging.
Un elemento che parla direttamente al consumatore
finale del vostro impegno sostenibile.
Esatto. Abbiamo lanciato il nostro eco-box in fibre naturali,
una scatola riciclata e riciclabile dal peso 30% inferiore
alla precedente versione. Esprime perfettamente il nostro
desiderio di avere quella coerenza in tema di sostenibilità
capace di coinvolgere ogni ambito della filiera. E lo stesso
discorso vale anche quando con lo chef di Maison Belle
Époque, Sébastien Morellon, ci confrontiamo sugli abbinamenti
tra vino e cibo: lavoriamo allora sulla stagionalità,
favorendo circuiti corti che coinvolgano fornitori locali.
L’anima
di Perrier-Jouët
L’abbinamento perfetto, tra sostenibilità e viticoltura
rigeneratrice. A tu per tu con Séverine Frerson
M
etti la possibilità di degustare le migliori bollicine francesi
al cuore dell’Avenue de Champagne a Epernay. E di sorseggiare
quel calice all’interno di un giardino dove la natura
incontra la storia, circondati da opere d’arte che sono
richiamo di un’epopea che si perpetua fin dai tempi della
Belle Époque. Metti un invito a scoprire un’icona di stile
senza tempo accompagnati dalla sua attuale artefice, la
Chef de Cave di Perrier-Jouët, Séverine Frerson. Ed ecco
un brindisi trasformarsi in confronto su cosa significhi oggi
essere sostenibili in Champagne, anche negli abbinamenti.
A distanza di 3 anni e mezzo dall’arrivo in Perrier-
Jouët, qual è il suo personale bilancio?
A ottobre saranno già 4 anni da Chef de Cave di Perrier-Jouët
e lavorare per questa importante Maison, tanto
che si parli di storia e arte, quanto della ricchezza del suo
patrimonio enologico, rappresenta davvero il massimo:
ancor più di quanto potessi immaginare quando ho iniziato.
Perrier-Jouët, infatti, è una Maison con un’anima: lo
percepisco ogni volta che percorro i corridoi, che sia del-
DI MATTEO BORRÈ
le cantine o in Maison Belle Époque. Tutto qui ricorda lo
spirito dei fondatori che hanno costruito questi leggendari
edifici in cui ho la fortuna di lavorare ogni giorno. E non
c’è sfondo migliore che potrebbe ispirarmi per nuove creazioni
capaci di perpetuare lo stile floreale che rappresenta
la cifra stilistica di Perrier-Jouët. Personalmente, poi, mi
ritrovo appieno, anche sul lato umano, nei valori su cui la
Maison è stata costruita: quel sentimento di condivisione
e quella volontà di indirizzare tutti insieme gli sforzi nella
medesima direzione per raggiungere l’armonia capace di
legare arte, natura e vino.
Cosa significa sostenibilità per lei e per Perrier-
Jouët?
Per me è davvero l’essenza del pilastro “natura” che è uno
degli elementi fondamentali su cui poggia tutto il lavoro
che portiamo avanti in Perrier-Jouët quotidianamente. Ed
è importante che questo sviluppo sostenibile sia coltivato
con coerenza ogni giorno, dalla vigna al packaging. Non si
deve parlare, infatti, di sostenibilità solo quando si fa riferimento
all’ambito produttivo, ma è un messaggio che va
condiviso fino al cliente finale. In Perrier-Jouët, questo “pilastro”
ha una sua prima e più evidente espressione nel programma
sperimentale di viticoltura rigeneratrice cui abbiamo
dato il via lo scorso anno. Con questa iniziativa stiamo
lavorando e al contempo studiando il suolo per osservarne
le evoluzioni e comprendere meglio di cosa abbia bisogno
per generare ancor più benefici per la vigna.
Parliamo di abbinamenti: qual è quello con lo
Champagne che ama di più a tavola?
È il Blanc de Blancs, a mio avviso, la cuvée più gastronomica.
E in Perrier-Jouët abbiamo la fortuna di presentare la
versione classica e la Belle Époque. Si tratta di vini davvero
magnifici su cui lavorare in tema di abbinamenti, in particolare
se si parla di pesce. Ma un altro accompagnamento
perfetto è coi formaggi: penso a qualche vecchia sboccatura
o millesimato con del Parmigiano o del Comte affinato
a lungo per avere quel grado di salinità che richiama il lato
iodato del vino. Ma mi piace anche giocare con le diverse
texture di ciascun piatto, da quella croccante a quella più
grassa, per rivelare i diversi volti di uno Champagne.
Ma nella ricerca dell’abbinamento preferisce
partire dal vino o dal piatto?
Parto dal vino. Con Sébastien Morellon passiamo molto
tempo a degustare le differenti cuvée per comprendere
l’ossatura di ciascun Champagne. Sempre insieme, poi,
costruiamo l’abbinamento capace di sposare le caratteristiche
peculiari di ciascuna etichetta in termini di floralità,
struttura e texture.
Trovare la giusta combinazione negli abbinamenti,
oggi, è diventato più difficile in un mondo dove
la cucina è sempre più incontro di culture diverse?
Sono nuove esperienze quelle che si fanno cercando di
adattarsi a ciascun Paese. E così si trovano accostamenti
audaci e sorprendenti, come per il manzo, così diffuso
nella cucina statunitense, associato a un rosé coi suoi frutti
rossi. Ma interessante è anche la sfida che regala lavorare
sugli abbinamenti con i piatti orientali, più speziati.
C’è un vino, fuori dalla Champagne, da cui trae
ispirazione nel suo lavoro di Chef de Cave?
Ci sono degli Chardonnay di Borgogna che ricordano la
floralità dello stile Perrier-Jouët. Vi ritrovo quella caratteristica
tensione in cui spiccano i sentori di caprifoglio
e di fiori di tiglio. Ma poi, attraverso
i viaggi, mi piace sempre
molto confrontarmi con le
diverse produzioni locali,
facendomi ispirare proprio
dai differenti approcci che
caratterizzano le diverse regioni
viticole.
CHAMPAGNE
30
Pizza e vino: tra
Fresco di Masi
e Giolina
l’abbinamento è naturale
Isole e Olena è francese:
Epi sbarca in
Chianti Classico
Da Ca’ di Rajo al Friuli:
i fratelli Cecchetto lanciano
Aganis
I fratelli del Raboso conquistano il Friuli. Dall’acquisizione
di una realtà da tempo dismessa nei pressi di Borgo Salariis
a Treppo Grande, in provincia di Udine, nasce Aganis
il nuovo progetto di Simone, Fabio e Alessio Cecchetto,
i giovani alla guida della trevigiana Ca’ di Rajo. Un investimento
pari a 5 milioni di euro per i prossimi 5 anni è
l’impegno economico preventivato per l’avvio della nuova
cantina che punta su varietà autoctone, come Refosco e
Friulano, enoturismo e sostenibilità.
TITOLI DI CODA
Format vincenti e un abbinamento naturale: nel
vero senso del termine. A dare forma a un connubio
che lega i grandi simboli del made in Italy
a tavola, vino e pizza, sono Masi, riferimento
dell’universo Amarone e tra i produttori tricolore
principe nella categoria delle etichette premium,
e Giolina, locale milanese noto per la sua creatività
gourmet e l’animo rock. Una partnership che
lancia un messaggio al mondo, grazie a un’intesa
business e comunicativa per la prima volta strutturata.
L’Italia nel piatto e quella nel calice si ritrovano
in un progetto che mira ad esprime l’anima
innovativa e la competenza tecnica dei due brand,
rispondendo alle nuove abitudini di consumo.
Non a caso, il protagonista attorno cui tutto ruota
è il rivoluzionario Fresco di Masi, innovativa linea
bio “per sottrazione” per cui è stato studiato un abbinamento
ad hoc con le pizze creative di Giolina.
“L’abbinamento pizza e vino è un ottimo sposalizio
e rappresenta il non plus ultra della convivialità
informale”, sottolinea Raffaele Boscaini, direttore
marketing di Masi. Il più naturale degli incontri,
che si declina in bianco e in rosso con Fresco di
Masi. “Una linea di vini bio, vegani, freschi e fruttati,
prodotti per sottrazione, ovvero minimizzando
l’intervento dell’uomo sulla natura”, spiega il
brand ambassador di Masi Agricola, Giacomo
Boscaini (in foto). “Vini capaci d’intercettare le
esigenze delle nuove generazioni, e non solo, tra
cui il consumo low alcol”. Promosso dall’intesa è
un concetto di naturalità tout-court: un tuffo nel
passato, vero e proprio ritorno alle origini, inno
alla contemporaneità. “Quando è nata Giolina”,
spiega Ilaria Puddu (in foto), founder insieme al
socio Stefano Saturnino, “la nostra idea è stata
quella di puntare solo su vini biologici e naturali.
Devo ammettere che il riscontro è stato molto
positivo, tanto è vero che oggi ai tavoli dei nostri
clienti si vendono molti più calici di vino che bicchieri
di birra. Credo che il vino sia in assoluto il
miglior abbinamento per la pizza ed è sempre un
piacere incontrare aziende
che con i loro prodotti
riescono a sposare la
mia idea. Fresco di
Masi è un prodotto
perfetto per la pizza:
sa di casa, di genuinità,
di convivialità”.
I “francesi” del Brunello Biondi-Santi (e dei volti storici
della Champagne Piper-Heidsieck e Charles Heidsieck)
sbarcano in Chianti Classico. Epi, gruppo familiare
indipendente di proprietà e gestito da Christofer
Descours, ha comunicato di aver acquisito da Paolo De
Marchi e famiglia la tenuta Isole e Olena, una delle più
importanti e storiche cantine nella Toscana del Gallo
Nero. De Marchi manterrà il suo ruolo di enologo della
realtà chiantigiana, mentre Giampiero Bertolini, attuale
amministratore delegato di Biondi-Santi, assumerà la
responsabilità operativa diretta di Isole e Olena in qualità
di nuovo AD, occupandosi di entrambe le proprietà.
Le Famiglie Storiche
ricambio al vertice,
le nomine
Pierangelo Tommasi è il nuovo presidente de Le Famiglie
Storiche. Riceve il testimone alla guida del gruppo
da Alberto Zenato, capofila nell’ultimo triennio
dell’Associazione nata nel 2009 e che oggi riunisce 13
storici produttori di Amarone: Allegrini, Begali, Brigaldara,
Guerrieri Rizzardi, Masi, Musella, Speri, Tedeschi,
Tenuta Sant’Antonio, Tommasi, Torre d’Orti,
Venturini e Zenato. Pierangelo Tommasi avrà come vicepresidenti
Giuseppe Rizzardi, dell’azienda Guerrieri
Rizzardi, e Luca Speri, dell’azienda Speri, con Alberto
Zenato e Marilisa Allegrini a comporre il CdA. E novità
anche per L’Antica Bottega del Vino, dal 2010 proprietà
dei membri dell’associazione, al cui vertice arriva
Sabrina Tedeschi: insieme a lei, Francesco Allegrini
è stato nominato vicepresidente, Giacomo Boscaini e
Antonio Cesari consiglieri.
Confcooperative FedAgriPesca:
Carlo Piccinini
nuovo presidente
È Carlo Piccinini il nuovo presidente di Confcooperative
FedAgriPesca. 49 anni, modenese, è uno dei protagonisti
del mondo del vino nel suo incarico di vicepresidente della
cantina sociale di Carpi Sorbara. Piccinini subentra al
numero uno uscente Giorgio Mercuri. Il quadro delle nomine
di Confcooperative FedAgriPesca è completato con
i 4 vicepresidenti Paolo Tiozzo, Giovanni Guarneri, Vincenzo
Patruno e Davide Vernocchi. Il consiglio nazionale
ha inoltre proceduto ad eleggere i presidenti dei comitati
di settore dell’Area Agricola: Luca Rigotti resta in carica
per l’ambito vitivinicolo.
E ancora...
Champagne Experience 2022 ancora a Modena il 16 e
17 ottobre. Vino bio, lo beve un 1 italiano su 2. Lavico: i
2 nuovi volti dell’Etna di Duca di Salaparuta. Export vino
italiano: Q1 spumeggiante, bollicine a fine 2022 oltre il
miliardo di bottiglie. L’Anello Forte: nasce l’associazione
delle vigneron sostenibili delle Langhe. Primitivo di
Manduria: Docg rimandata per il momento. Nobile di
Montepulciano: confermato presidente Andrea Rossi.
Conegliano Valdobbiadene Docg: passo in avanti nella
sostenibilità. Barbera d’Asti: cambia il disciplinare e arriva
la Riserva. Barbaione Metodo Classico: il Sangiovese
è bollicina con Bacci Wines. Lamberto Frescobaldi
nuovo presidente di Unione Italiana Vini. Pinot Nero:
svelati i migliori 10 d’Italia dell’annata 2019. Serena
Wines 1881: 2 bottiglie speciali
per Obiettivo3, gli atleti di Alex
Zanardi. Cantine Giacomo
Montresor: nuo va Riserva
per celebrare 130 anni in
Valpolicella. Mezzacorona, il
mosaico è completo col nuovo
Teroldego Riserva Musivum.
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CONTRADA SANTO SPIRITO
Dalle sabbie vulcaniche
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