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indice
Editoriale
FOCUS
Regia sì, regia no... Parliamone
ANNIVERSARI /1
Pier Paolo Pasolini, un poeta corsaro
ANNIVERSARI /2
A tu per tu con monsieur Molière
APPUNTAMENTO 2023
Sarah Bernhardt, verso il centenario
APPROFONDIMENTO
Quando il teatro incontra l’arte
FESTIVAL
Pillole di Teatro prontro alla finalissima
TERRITORIO
Notizie dai Comitati Provinciali
In Umbria la Festa del Teatro Italiano 2022
Sarà il “giardino d’Italia”, l’Umbria, ad accogliere quest’estate la tradizionale
Festa del Teatro Italiano FITA: un’occasione di incontro tra
appassionati della scena, ma anche di spettacolo e condivisione con
il pubblico. Grande spazio, come sempre, ai giovani, con l’Accademia
del Teatro FITA. Nel prossimo numero vi aggiorneremo su questa
attesa edizione post pandemia.
Addio all’amico Mariano Santin
Si è spento Mariano Santin.
Definirlo un pezzo di storia
della Federazione Italiana
Teatro Amatori è davvero
troppo poco. E non certo per la
“quantità” degli anni da lui
dedicati a FITA a tutti i livelli, da
quello della sua Vicenza a
quella regionale. Ma anche e
soprattutto per la “qualità” di
quell’impegno, per la passione
con la quale si è speso per far
crescere la Federazione, per la
dedizione e la tenacia con le
quali ha portato avanti quella
che per lui era una missione:
avvicinare i giovani e il mondo
della scuola al teatro.
Tra i suoi tanti meriti, questo
riveste certamente un ruolo
particolare. Fin dai tempi di
“Invito alla Prosa”, crocevia di
talenti e passioni, creato a
Vicenza nel 1960 e
trasformatosi nell’esperienza
ancora oggi viva di “Teatro dalla
Scuola”, il premio FITA rivolto ai
laboratori teatrali delle
superiori del Veneto, condivisa
con l'Associazione Teatrale
"Città di Vicenza". Ma passando
per numerose altre iniziative,
tra le quali il concorso di critica
teatrale sempre per le superiori
“La Scuola e il Teatro”, abbinato
al Festival nazionale “Maschera
d’Oro”. E senza dimenticare,
naturalmente, il tanto e il bello
che Santin ha fatto per il teatro
in generale, come ideatore,
organizzatore e collaboratori di
numerose, importanti
manifestazioni.
Per diversi anni era stato attore
filodrammatico di qualità,
partendo dalla compagnia
dell’Enal (dal 1954 al 1960),
passando per il Gad Amici del
Teatro / Gli Istrioni con Otello
Cazzola e arrivando anche a
calcare palcoscenici prestigiosi,
come quello del Festival di
Pesaro e l’Olimpico di Vicenza.
«Con Mariano Santin -
commenta Mauro Dalla Villa,
presidente FITA Veneto - se ne
va un pezzo importante della
nostra storia come
Federazione. È stato tra i
protagonisti, a livello vicentino
e regionale, della storia FITA,
della sua evoluzione nel corso
dei decenni e in particolare
dell'impegno che, attraverso
persone come lui, ha sempre
portato avanti in favore dei
giovani e del mondo della
scuola. Mancherà a tutti noi, ma
il suo esempio di passione,
competenza e dedizione
rimarrà».
«Prima di tutto se ne va un
amico - dichiara Aldo Zordan,
vicepresidente nazionale FITA -.
Abbiamo condiviso tanti anni di
attività intensa e significativa,
soprattutto nell'organizzazione
di manifestazioni rivolte al
pubblico e ancora di più
nell'azione verso le nuove
generazioni, che per lui sono
sempre state una priorità. Si è
speso con generosità per
avvicinare i giovani all'amore
per il teatro e per sensibilizzare
il mondo della scuola
sull'importanza di dare spazio a
questo tipo di attività e di
cultura. È grazie a persone
come lui se tanta strada è stata
fatta in questa direzione».
fitainforma
Bimestrale
del Comitato Regionale Veneto
della Federazione Italiana
Teatro Amatori
ANNO XXXV
giugno/luglio 2022
Registrazione Tribunale
di Vicenza n. 570
del 13 novembre 1987
Direttore responsabile
ANDREA MASON
Direzione e redazione
Stradella delle Barche, 7
36100 VICENZA
tel. 0444 324907
fitaveneto@fitaveneto.org
www.fitaveneto.org
Responsabile editoriale
MAURO DALLA VILLA
Caporedattore
Alessandra Agosti
Grafica
Stefano Rossi
Segreteria
Eleonora Tovo
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EDITORIALE
È davvero ora di cambiamento
Non siamo certo stati con le mani in mano nel
periodo acuto della pandemia e in quello delle
incertezze che lo ha seguito: ora lo possiamo dire.
Se è vero che il repertorio delle compagnie ha
risentito del momento in cui non si poteva o non
si riusciva a effettuare prove, con il risultato che
numerosi lavori in allestimento hanno subito
rallentamenti o rimandi, la macchina federativa
però non solo non si è fermata, ma ha anche
saputo reinventare il suo ruolo proponendo spazi
e temi di cultura che prima non praticavamo.
Diverse le iniziative proposte, anche e
ovviamente con modalità inusuali per il nostro
modo di fare associazione, ma non di meno
interessanti e con risultati a volte inattesi in positvo.
Abbiamo colto il momento che ha portato
tanto scompiglio nella nostra quotidianità
trasformandolo, magari non del tutto
consapevoli, in un qualcosa che ci ha fatti
riflettere sul nostro esistere.
Ora è il momento di andare avanti, proseguire e
incrementare l’attività delle nostre associazioni,
avendo però coscienza che anche il mondo
intorno a noi è cambiato. Cogliamo questo
momento per modificare il modo di fare
associazione e anche il nostro modo di fare
teatro.
Sentiamo spesso dire che il settore dello
spettacolo ha risentito più di altri delle chiusure
imposte dalla pandemia, ed è senz’altro vero,
come è vero che noi ce ne siamo resi
perfettamente conto.
Anche il modo di fare associazione ha subito
conseguenze, pertanto proviamo a fare meglio.
Non necessariamente di più, ma consapevoli che
si può fare anche in modo diverso.
Parliamo di ripartenza, ma non pensiamola
esclusivamente come un riprendere dalle stesse
cose di prima, soprattutto quelle che già
mostravano i segni del tempo.
Abbiamo la fortuna di appartenere ad
associazioni che sono allenate ad assecondare
venti e burrasche e spesso ne escono migliori.
Miglioriamo e aggiorniamo anche il nostro modo
di fare spettacolo e cultura, adeguandoci a
quanto il momento in cui viviamo recepisce con
più favore e necessità. Non è più sufficiente agire
come gruppi di amici motivati da passione, ma
occorre essere sempre più e meglio preparati per
ottenere la condivisione da parte del pubblico.
Da diverso tempo ormai la Federazione ci
propone questi temi che mirano a un
aggiornamento anche culturale del nostro agire. I
congressi tematici degli ultimi anni, i momenti di
formazione e le pagine stesse del nostro
periodico ci offrono delle finestre aperte che
vorrebbero far spaziare la nostra mente a 360
gradi. Approfittiamo di queste opportunità (che
peraltro non costano nulla) per informarci, per
nutrire il nostro pensiero e ampliare le nostre
informazioni. Diventiamo curiosi di vedere che
cosa succede intorno a noi, partecipiamo agli
appuntamenti di cultura e di teatro, non
facciamoci bastare quanto realizziamo con la
nostra compagnia, ma cerchiamo di cogliere le
occasioni che sono proposte per approfondire e
apprendere.
Da diverso tempo abbiamo significative
convenzioni per assistere, a condizioni di favore, a
spettacoli per cartelloni importanti di teatri nella
nostra regione. Facciamo uso di queste possibilità
che ci danno l’opportunità di partecipare con
maggiore frequenza.
Rendiamo disponibili le informazioni ai singoli
soci di ogni associazione anche, se necessario,
sacrificando qualche minuto del prezioso tempo
delle prove.
Spetta a ognuno cogliere le opportunità e i
suggerimenti prospettati per trasmetterli e
amplificarli all’interno della propria associazione.
Buon teatro a tutti.
Mauro Dalla Villa
Presidente FITA Veneto
3
Di regia non si parla mai
abbastanza. O non è che
magari se ne parla anche
troppo? Perché c’è chi si chiede
se abbia ancora senso parlare
di registi e di regia... Proprio da
questo interrogativo ha preso
il via il congresso 2021 di Fita
Veneto, del quale proponiamo
una sintesi come spunto di riflessione
per chi, effettivamente,
si ponga la stessa domanda
o per chi, regista, sia impegnato
in un’analisi sul suo ruolo nei
confronti della compagnia con
la quale opera.
L’appuntamento, svoltosi il 31
ottobre scorso al Teatro Aurora
di Treviso, è stato aperto da
una relazione del presidente
regionale Mauro Dalla Villa e
dai saluti del vicepresidente
nazionale Aldo Zordan, della
presidente provinciale Sladana
Reljic e, a nome del Comune di
Treviso, del consigliere Antonio
Dotto.
La parola è quindi passata ai
relatori Lorenzo Maragoni e Armando
Carrara: il primo regista
e co-autore della compagnia
Amor Vacui nonché protagonista
di numerose altre esperienze
di scrittura e regia, in
particolare con il Teatro Stabile
del Veneto (e tra l’altro fresco
campione mondiale di poetry
Regia sì, regia no...
Parliamone un po’
Roberto Cuppone, Armando Carrara e Lorenzo Maragoni
hanno portato le proprie esperienze e alcune riflessioni
slam, raffnata disciplina letteraria
e performativa insieme);
il secondo attore, autore e regista,
discendente delle celebri
famiglie di teatranti Carrara e
Laurini e con all’attivo una lunga,
brillante e variegata carriera
teatrale.
Con loro, ad animare lo scambio
di opinioni, Roberto Cuppone,
altro nome di spicco della
scena veneta, regista, attore,
autore, docente di Drammaturgia
all’Università degli Studi di
Genova e da anni vicino anche
al mondo FITA Veneto.
Stimolante il dibattito, che ha
visto Maragoni e Carrara, molto
diversi per percorso e formazione,
proporre le proprie
esperienze e riflessioni sul ruolo
del regista.
Roberto Cuppone:
il regista, un fratello maggiore
«Il regista - ha commentato
Cuppone - è una figura assolutamente
strategica: spesso è il
garante stesso della continuità
del gruppo, che pensa al repertorio
e si occupa di creare
le condizioni per produrre lo
spettacolo. Un primo consiglio
al regista, però, è di non sentirsi
necessario, nonostante lo sia.
Il teatro occidentale esiste da
2500 anni, ma in realtà si parla
di regia da un secolo o poco più
e in Italia da ancora meno. Per
quasi tutta la sua storia il teatro
non ha pensato a questa figura
di garante del prodotto spettacolo.
Ci sono sempre state
figure che organizzavano e anche
gli stessi Eschilo, Sofocle ed
Euripide erano autori ma anche
allestitori delle loro tragedie,
però nessuno ha mai parlato
di regia nel loro caso: il teatro
era un rito e quindi nella pratica
c’erano cose che si tramandavano,
non oggetto della libera
scelta individuale del regista.
Nel Medioevo c’era chi organizzava
le sacre rappresentazioni,
che coinvolgevano anche intere
città, ma era appunto più
una questione organizzativa
che altro. Per centinaia di anni,
inoltre, l’organizzatore si metteva
in scena con gli altri (anche
nella tragedia greca, dove
faceva corteo prima e dopo la
rappresentazione): non lavorava
dietro le quinte, secondo
l’idea borghese della regia. In-
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Antonio Dotto e Mauro Dalla Villa Aldo Zordan Mauro Dalla Villa e Sladana Relijc
Roberto Cuppone Armando Carrara Lorenzo Maragoni
somma, nel corso della storia i
“concertatori”, come si diceva
nella commedia dell’arte, sono
sempre esistiti, ma i problemi
con cui si confrontavano erano
il cosa, il quando, il come. L’idea
della regia - ha proseguito Cuppone
- matura sulla fine dell’Ottecento,
e non in Italia, ma in
Francia e in altre parti d’Europa,
con le avanguardie degli inizi
del ‘900, con le grandi fantasie
anche utopistiche dell’epoca,
legate pure ai nuovi mezzi
che venivano avanti, come le
luci (pensiamo a Edward Gordon
Craig o Adolphe Appia).
Arrivavano a concepire così
integralmente la visione dello
spettacolo che alla fine l’attore
diventava quasi di troppo: da
cui, non a caso, la teoria della
“supermarionetta” di Craig».
«Un altro momento centrale
- ha continuato Cuppone
- è stato quello russo, dove la
regia nasce però più come pedagogia,
con personaggi come
Stanislavskij o Mejerchol’d, per
esempio. Ognuno aveva i suoi
“studi” dove portava avanti un
progetto di attore, partendo
dal contrario: costruire un attore
capace di portare avanti
un teatro credibile, perché questo
era l’obiettivo del realismo
dell’epoca, e anche l’attore,
come la scena, doveva essere
autentico, per cui nasce l’immedesimazione,
che prima non
importava affatto agli attori».
Quanto all’Italia, ha ricordato
Cuppone, la regia arriva in ritardo:
«La prima volta che questo
termine è stato pronunciato
- ha spiegato il relatore - sembra
sia stato nel 1934 durante
un Convegno Volta organizzato
da Luigi Pirandello, una sorta di
Stati Generali del teatro di tutta
Europa. Fu allora che questa
parola fu sdoganata in Italia,
quando in Europa era ormai
vecchia. E la prima vera generazione
di registi (dopo gli antesignani
degli Anni ‘20 come
lo stesso Pirandello o Anton
Giulio Bragaglia) è stata quella
del dopoguerra, con i vari Luchino
Visconti, Luigi Squarzina,
Gianfranco De Bosio, Giorgio
Strehler. Quindi abbiamo il regista
come garante del ritorno
di un grande repertorio, della
costruzione di un nuovo pubblico:
potremmo avvicinarlo a
oggi, dopo questi due anni di
distanziamenti. Una generazione,
questa, che ha avuto meriti
enormi, ma che ha interpretato
il proprio ruolo in modo molto
borghese. Quella successiva,
dagli anni ‘60/’70, ci ha scossi
tutti: quella del regista demiurgo,
da Luca Ronconi a Pippo
Delbono, che crea, pensa, progetta,
non più il garante ma
l’autore di quello che avviene
sulla scena».
«Quindi - ha continuato - che
consiglio dare a chi volesse iniziare
a fare il regista o a chi volesse
smettere di farlo (e quindi
farlo bene)? Il vero lavoro di un
regista è rendersi inutile. Piccolo
consiglio, che rubo a Jerzy
Grotowski, uno dei miti della
mia generazione... Quando gli
chiedevano che cos’è il teatro,
diceva: “La cosa più sbagliata è
definirlo per accumulo. Facciamo
il contrario e chiediamoci
cosa non può non essere: può
fare a meno della scenografia?
Sì. Della musica? Sì. Anche del
testo? Sì, può farne a meno.
Dell’attore? No. Dello spettatore?
No. Dunque il teatro è
quello che avviene tra un attore
e uno spettatore. Tutto il
resto è strumento. Facciamo lo
stesso con il regista: cosa non
può non essere? Un fratello
maggiore. È il primo spettatore,
come dice Grotowski. È
il primo sguardo che l’attore
incontra prima di uscire dalla
porta del teatro. Lo studio arriva
dopo. La prima cosa è quella
sincerità dello sguardo per cui
io ti faccio da anticipo del pubblico,
ti dico cosa vedo davvero.
Questa onestà aiuta anche nei
rapporti di compagnia, perché
spesso c’è un po’ di fantasia di
potere in chi gestisce un gruppo,
e in un momento poi così
delicato come quello creativo:
essere regista comporta grosse
responsabilità, non è solo mettete
questo qui e quello lì. Ciò
che serve è vedere delle persone
che crescono, che giocano
insieme con piacere, e cercare
di capire se quella cosa, quando
usciremo da quella porta, verrà
capita allo stesso modo».
continua alla pagina seguente
5
CARRARA
«Il regista deve
fare tutti i gradini
della scala,
dal raddrizzare
chiodi al debutto
come primo
attore; ma poi
scarichi anche
il camion, metti
le luci, monti
la scenografia.
Quando poi ho
smesso, sapevo
la fatica che si fa»
Un riconoscimento ai 195 lettori “Danteschi”
Armando Carrara:
l’esperienza è di scena
«Io vengo dalla vecchia scuola
- ha esordito Carrara -. Quando
ho iniziato a fare teatro io, non
c’era la televisione. Ho debuttato
da neonato, come accadeva
nelle famiglie d’arte. Conosco
anche le filodrammatiche, dove
a mio parere ci sono soprattutto
problemi di drammaturgia.
Il copia incolla che si vede certe
volte è esiziale: non si può
prendere un video e riprodurlo...
dov’è il lato artistico? Si dice
che ci siano le filodrammatiche
di campanile e quelle di cultura:
nelle prime c’è l’aspetto
aggregativo, che è certamente
importante; altre sono profondamente
artistiche... Ma bisogna
rinunciare alla pannellatura,
quando si può, con i salami
dipinti e i mattoni sbrecciati.
Abbandoniamo la “tradizione
veneta” che arriva dalle osterie,
dove non c’è lo studio del
ritmo comico. Nella commedia
dell’arte, invece, il senso comico
è fondamentale e funziona:
è una stoltaggine dal punto di
vista del testo, ma nel ritmo è
sublime e lì sotto c’è l’origine
del teatro europeo».
«Quanto al regista - ha continuato
Carrara - capita che sia
anche impegnato sulla scena.
Ci sono due modi, al riguardo:
quello del narcisismo, e quello
della cultura teatrale. Tantissime
volte ho fatto entrambe le
cose, e spesso anche l’autore.
Ma non per vezzo: per condensazione
di stipendi su una
persona sola. Ovviamente a me
piaceva, ma non ho mai avuto
un atteggiamento da dittatore
con gli attori. Altri con cui abbiamo
lavorato lo sono stati nei
nostri confronti, alcuni veri mostri
sacri. Ma secondo me questo
dipende anche dalla mia
Un doveroso riconoscimento
è andato ai 195 lettori di
“Dantesca 2021”, la maratona
di letture online che al
grande poeta ha reso omaggio
nel settimo centenario
della morte. A Treviso, in
occasione del congresso regionale,
tutti loro sono stati
ringraziati uffcialmente
dal presidente FITA Veneto,
Mauro Dalla Villa, e hanno
ricevuto un attestato di
partecipazione all’iniziativa
che, ricordiamo, è stata
realizzata da giovedì 25 (il
DanteDì) a sabato 27 marzo
2021 (Giornata mondiale del
Teatro), con la registrazione
della lettura di dieci canti
formazione: ho assistito a tutti
gli spettacoli della mia famiglia,
dove gli attori recitavano e poi
cambiavano le scene, proprio
come gli amatoriali. Questo è
un punto di contatto con il teatro
viaggiante dei miei tempi:
entrambi hanno in sé un senso
artistico ma anche sociale,
aggregativo, offrono un modo
per ritrovarsi, per fare comunità.
E chi deve fare regia? Ecco,
nella mia visione il regista deve
fare tutti i gradini della scala,
dal famoso “raddrizzare chiodi”
alla prima battuta, al debutto
come primo attore; ma poi
scarichi anche il camion, metti
le luci, monti la scenografia.
Alla fine, quando ho smesso di
farlo, sapevo la fatica che si fa.
Sapevo che non serve mettere
centomila luci, ma che conta
metterle bene. Chi vuole fare il
regista per me deve fare tutte
le esperienze del teatro, anche
se oggi è molto più diffcile».
«Dalle filodrammatiche - ha sottolineato
Carrara - sono usciti
grandissimi attori e registi, e
non solo perché in questo mondo
si possono fare tutte queste
esperienze, ma perché si può
anche improvvisare, si può derogare
a una regia e questo ti
fa crescere: non si può crescere
come attori se non si passa attraverso
esperienze proprie sul
palcoscenico; e questo in barba
e quelli che ti dicono “tu sei lì e
fai questo”. Non dico che si possa
fare quello che si vuole: ci vogliono
intelligenza e modestia
e, soprattutto, ci vuole la consapevolezza
che se cambi una
cosa, se vai avanti per una certa
strada, questo deve essere utile
allo spettacolo e non al tuo
egoismo, non al tuo narcisismo:
gli attori che lavorano solo per
l’applauso, cancellateli».
della Divina Commedia: il I, il
V, il XXVI e il XXXIII dell’Inferno,
online giovedì 25; il I, il V e
il VI del Purgatorio, online venerdì
26; il X, il XXX e il XXXIII
del Paradiso, online sabato
27. Ciascun canto è stato diviso
in gruppi di terzine, assegnati
per sorteggio ai singoli
partecipanti. In apertura di
ogni canto, commenti sonori
firmati dal compositore Stefano
Maso. La proposta di Dantesca
è stata infine arricchita
dalla lettura di cinque sonetti,
affdati alle compagnie
partecipanti all’evento con il
maggior numero di tesserati.
Tutte le video-letture sono
pubblicate nel canale YouTube
e nel sito Fita Veneto.
L’iniziativa ha ricevuto il patrocinio
della Regione del
Veneto e di FITA nazionale
e l’attenzione di numerose
realtà culturali e associative
venete, tra le quali la Società
Dante Alighieri di Rovigo,
il Comune di Mirano, Pro
Loco, Istituti Scolastici e Università
Popolari della regione,
che hanno appoggiato
l’evento con condivisioni al
proprio interno e attraverso
i rispettivi canali social.
Una risposta creativa alla
pandemia, che nonostante
le mille diffcoltà e preoccupazioni
non ha spento l’amore
per il teatro.
Lorenzo Maragoni:
la regia per vocazione
«Ho iniziato volendo fare l’attore
- ha raccontato Maragoni -
ma senza sentire il fuoco sacro.
Mi trovavo a mio agio, ma non
pensavo di farne una professione,
tant’è vero che mi sono laureato
in Statistica a Padova. Ma
proprio a Padova, all’Università,
mi sono iscritto a un laboratorio
di teatro, memore dell’esperienza
piacevole che avevo
vissuto al liceo. È stato lì che
ho incontrato il regista Giorgio
Sangati e qualcosa è cambiato.
Ho iniziato a pensare che quello
che sapevo sul teatro come
attore non mi bastava, volevo
una formazione diversa, una
“teoria del tutto” teatrale e così
sono entrato all’Accademia del
Teatro Stabile del Veneto, all’epoca
Accademia Palcoscenico.
Ho scoperto la disciplina, il doverlo
fare tutti i giorni come
professione: il piacere continuava
a esserci, come quando
l’avevo fatto nell’amatorialità,
ma c’era una componente lavorativa,
che in parte anche mi
preoccupava; e poi ho capito
che mi piaceva stare sul palco,
ma preferivo guardare, mi interessava
di più capire l’operare
dell’insegnante, il suo processo
verso l’attore (come il fratello
maggiore di cui parlava Cuppo-
6
Gran Premio Veneto 2022: ecco le cinque finaliste
Sono le compagnie Sottosopra di Padova,
Soggetti Smarriti di Treviso, La Calandra di
Vicenza, La Moscheta e G.T. Einaudi-Galilei di
Verona le formazioni che si sfideranno alla quinta
edizione del Gran Premio del Teatro Veneto,
kermesse organizzata da FITA Veneto con in
palio anche un lasciapassare per la finalissima
nazionale.
Sottosopra proporrà El ciacciaron imprudente
di Carlo Goldoni, che la regia di Eleonora Fuser
arricchisce di omaggi ad altre commedie
del veneziano, dal Campiello a La villeggiatura
e La locandiera. Spirito rock e giochi temporali,
invece, ne L’antikuario de La Calandra, libera riscrittura
e regia di Davide Berna da La famiglia
dell’antiquario, sempre di Goldoni. Atmosfera
MARAGONI
«La regia a un certo
punto serve,
anche per la tutela
dell’attore,
perché ti protegge,
ti fa funzionare
con il pubblico».
ne). A quel punto come potevo
diventare regista? C’è una bella
definizione, forse di Peter Brook:
si dice che si è un regista e
si aspetta che gli altri ci credano.
In realtà ho sofferto per
molto tempo la mancanza di
una scuola specifica e proprio
per questo credo sia davvero
importante offrire buone occasioni
di formazione in questo
campo. Nel mio caso, ho scelto
di imparare facendo l’aiuto regista
di altri e lavorando con
dieci miei compagni dell’Accademia
che ci hanno creduto e
mi hanno seguito».
«A quel punto - ha continuato
Maragoni - la domanda: “E cosa
facciamo?” Io arrivavo con l’idea
del regista che prende un testo
e gli dà la sua interpretazione.
La scelta, quasi casuale, è caduta
su Elena di Euripide. Lì ho
imparato dal vivo le diffcoltà,
come fare un adattamento,
come elaborare i personaggi...
E per noi è stato un ottimo
spettacolo, tant’è vero che abbiamo
fatto ben... due repliche.
Per un paio d’anni siamo rimasti
in questa situazione: scegliere
un testo, farlo e avanti così. Il
cambiamento è avvenuto nel
2012: primo, dovevamo creare
uno spettacolo che necessariamente
non avesse più nove
attori in scena ma tre, una cosa
molto dolorosa per noi, ma necessaria,
per cui abbiamo fatto
gruppi più piccoli con i quali
magari portare avanti cose diverse;
secondo, abbiamo scelto
un testo di partenza, molto divertente,
di George Perec: L’arte
e la maniera di affrontare il
proprio capuffcio per chiedergli
un aumento. Iniziamo le prove,
mandiamo il materiale allo Stabile
per il Premio Off (una clip
di 20 minuti) e andiamo avanti;
due settimane prima del debutto
torniamo in sala prove, leggiamo
dove eravamo arrivati e
tutti e quattro ci accorgiamo
che non funziona: non per il
testo, che è bellissimo; ma è lo
stesso che fare Elena, ci stiamo
mettendo al servizio di qualcosa
che non ci appartiene, che
non capiamo neanche fino in
fondo. Abbiamo passato una
giornata a fissare il muro e poi
abbiamo deciso di provare a
riscriverlo con le parole nostre,
con i temi nostri. È stato per
me l’ingresso della drammaturgia
dentro la regia: di che cosa
vogliamo parlare? Partiamo da
noi. Fare drammaturgia e regia
contemporaneamente è faticosissimo.
Noi facciamo scrittura
condivisa: un metodo di lavoro
che non prevede il regista autore
unico e tiranno; si va in scena
sapendo di cosa si vuole parlare
e poi si prova a scrivere delle
cose, a fare improvvisazioni, ma
insieme: drammaturgo, regista
e attori. Da questo materiale (la
cui raccolta richiede circa due
anni di lavoro) tagliamo, montiamo
e cerchiamo di fare spettacoli
che ci convincano, che ci
rappresentino, che ci facciano
sentire che stiamo portando in
scena in qualche modo una parte
di noi che può essere anche
una parte dello spettatore. È
così che siamo passati da “come
faccio a fare un testo” a “di che
cosa vogliamo parlare?”».
Quanto al fatto che il regista
possa anche recitare nello spettacolo
che dirige, Maragoni ha
risposto: «Dipende anche se il
regista è un bravo attore e se
ha le competenze, se sa stare
dentro vedendosi contemporaneamente
anche da fuori.
Io non credo di rientrare nella
categoria. Io sto fuori. Penso
sia una necessità, citando Grotowski,
che il regista sia il primo
spettatore. Serve uno fuori
che si renda conto di cosa sta
succedendo, o con l’esperienza
suffciente per farlo anche
dalla scena. Nel teatro contemporaneo
si sta riassorbendo
sempre più spesso la figura del
regista, mischiandosi con quella
della drammaturgia e della
creazione condivisa di cui parlavo
prima. Ma la regia a un certo
punto serve, anche per la tutela
dell’attore, perché ti protegge,
perché ti fa funzionare con il
parigina con Soggetti Smarriti, alle prese con
La presidentessa di Maurice Hennequin e Paul
Veber, nell’adattamento e per la regia di Mariarosa
Maniscalco. Un classico dello humor anglosassone,
Rumori fuori scena di Michael Frayn, per
l’Einaudi-Galilei, regia di Renato Baldi e Marco
Frassani. La Moscheta, infine, firma Una casa di
pazzi di Roberto D’Alessandro, che tra risate e
intensità racconta una famiglia in crisi.
Lo scorso Gran Premio nazionale è stato vinto
proprio dal Veneto, con Teatroimmagine di Salzano
(Venezia). Quest’anno in gara c’è Teatro Insieme
di Sarzano (Rovigo) ne Le done de casa soa
di Carlo Goldoni, per la regia di Marna Poletto
e Roberto Pinato, di scena sabato 27 agosto a
Colleferro, nel Lazio.
pubblico. Il regista è quello che
ti dice “qui possiamo creare
questa atmosfera, qui sarebbe
bello che lo spettatore sentisse
così, questa battuta così,
questa così, ed eventualmente
cambiamo se durante le repliche
non funziona”: qualcuno
che si prende la responsabilità
di capirlo e di rimettere in prova
una certa cosa. Altrimenti è
un gioco al ribasso, un accontentarsi».
«Infine - ha concluso Maragoni -
sono perfettamente d’accordo
con quello che ha detto Armando
Carrara, che il regista debba
saper fare tutto. Nel sostituire
un nostro attore mi sono ricordato
cosa vuol dire stare in scena
e seguire delle indicazioni, e
di come tante volte io non mi
rendo conto di quello che chiedo
agli attori. Per capire e ricordarsi
questo è necessario farlo.
Per parlare con un tecnico è necessario
sapere cosa fa un tecnico,
quali sono i problemi. Un
regista deve esplorare tutto».
A.A.
7
di Filippo Bordignon
Pier Paolo Pasolini. Poeta
corsaro di un’Italia che non
esiste più. Genio del cinema
per alcuni, talento sopravvalutato
per altri. Una figura
che non cessa di mostrarsi
scomoda e che, nonostante
la glorificazione postuma,
aleggia imprendibile e senza
evidenti continuatori.
Per comprenderlo almeno
un poco una strategia efficace
può essere, più che
Nel centenario
della nascita
lanciarsi a corpo morto sui
manierismi noti alla massa,
focalizzarsi su un dettaglio.
Gli appassionati di film d’essai
non manchino perciò di
procurarsi Il pratone del Casilino,
mediometraggio poco
noto ma assai significativo
per una prima stordente infarinatura
del corrosivo universo
pasoliniano, diretto
da Giuseppe Bertolucci nel
1995 con un Antonio Pivanelli
in stato di grazia come
unico attore; si tratta di un
monologo ricavato dal romanzo
incompiuto Petrolio;
il tema - un’avventura omoerotica
esagerata al punto da
toccare una vorticosità simbolica
che va oltre le banali
questioni sessuali - riassume
effcacemente stile e intenzioni
di uno dei pochi autori
realmente “dannati” partoriti
dal Bel Paese.
Ma chi era, Pasolini? Figlio
marchiato da una quotidianità
borghese al fianco della
mamma Susanna, uomo con
una vita segreta infarcita di
amore mercenario ma, in
primis, intellettuale responsabile
di un’attività pubblica
atta a demolire i tabù e sfidare
quella società italiana
nelle cui contraddizioni egli
stesso giaceva immerso.
Instancabile romanziere,
poeta, saggista, traduttore
di buona qualità per classici
dell’antichità (dal latino all’italiano
per l’Eneide di Virgilio)
e della modernità (tra gli
altri, il francese Andrè Fre-
naud) ma soprattutto arcinoto
regista cinematografico con
opere che ancor oggi sanno
dividere la critica specializzata,
la figura di Pasolini non subisce
battute d’arresto, complice anche
una morte violenta mai del
tutto chiarita, il 2 novembre
1975, la quale lo ha consegnato
alla leggenda come uno dei
pensatori più lucidi e spregiudicati
del secolo scorso.
Qualche titolo imprescindibile:
l’iper neo-realismo nell’esordio
per il mondo della celluloide
con Accattone (’61); l’incasellabile
forma di commedia
simbolista Uccellacci e uccellini
impreziosita dall’ultima apparizione
sul grande schermo di
Totò (’66); la Trilogia della vita,
girata tra il ’71 e il ’74, la quale
ripropone con tinte sensuali ma
godibili il Decameron (Giovanni
Boccaccio), I racconti di Canterbury
(Geoffrey Chaucer) e Il fiore
delle Mille e una notte derivato
dal monumentale Le mille e
una notte di anonimo.
Meno nota la sua esperienza
per il teatro, causata, è proprio
il caso di scrivere, da una
forte emorragia che nel marzo
1966 lo costrinse a letto per un
mese; riletti febbrilmente i Dialoghi
di Platone, Pasolini gettò
in quei giorni di convalescenza
gli impianti del suo corpus teatrale,
una manciata di titoli attualmente
poco rappresentati
sui palcoscenici nazionali ma
non privi di motivi d’interesse.
Lodevole esempio di quell’innovazione
auspicata nello scritto
Manifesto del nuovo teatro,
Calderòn (’66) è l’unica opera
teatrale pubblicata in vita dal
suo autore, rappresentata postuma
solo undici anni più tardi
al Teatro Metastasio di Prato
per la regia di Luca Ronconi e
con Edmonda Aldini tra i protagonisti.
Riscrittura de La vita
è sogno di Pedro Calderòn de la
Barca, il lavoro espone la vita di
Rosaura, lasciando lo spettatore
incerto se le vicende narrate
siano sogno o realtà, il tutto
con importanti incursioni metateatrali
e un finale smaccatamente
politicizzato che porge il
fianco a una certa polverosità.
Dello stesso anno è la tragedia
Affabulazione, parodia dell’Edipo
Re al quale pure si era ispirato
lo stesso de la Barca ne La
vita è sogno. Sofocle è autore
particolarmente amato dal regista,
che qui lo rivitalizza con
un teatro di parola ambientato
nella contemporaneità e
RITRATTO
che sarà rappresentato con un
certo successo da Vittorio Gassman
nel ’77.
Particolarmente significativa è
inoltre l’opera Porcile (’67), da
cui sarà tratta due anni più in
là una discutibile versione cinematografica
con Ugo Tognazzi,
Jean-Pierre Léaud, Anne
Wiazemsky (musa di Jean-Luc
Godard) e un cameo di Marco
Ferreri. La storia è sintetizzabile
nell’impossibile amore
tra Ida, ragazza politicamente
impegnata a sinistra, e Julian,
rampollo dell’alta borghesia incapace
di provare attrazione fisica
se non per i maiali. Nel mezzo
s’intrecciano caoticamente
vicende di fusioni societarie,
giochetti di potere e i trascorsi
nazisti di uno dei personaggi; a
pagare il peso di una colpa non
propria sarà, come spesso accade,
la pedina più debole, quella
disinteressata a schierarsi nel
gioco dell’esistenza.
Vi è poi un approccio indiretto
al teatro, nella trasposizione
cinematografica di classici della
tragedia greca antica quali il
già citato Edipo re (’67), Medea
(’69) e Appunti per un’Orestiade
africana (’70).
Quest’ultimo è in realtà un documentario
che, con il pretesto
di un sopralluogo per scovare
location adatte a una film
sull’Orestea di Eschilo, traccia
un ritratto smaliziato dell’Africa
post-coloniale.
Più interessanti sotto il profilo
artistico sono i primi due titoli.
Su Edipo re un nugolo di attori
di prima grandezza (Franco Citti,
Silvana Mangano, Alida Valli
e Carmelo Bene) si muove a
cavallo tra il mondo della contemporaneità
e quello antico,
raccontando l’edipica colpa del
Pasolini figlio, il tutto secondo
riprese di cinecamera spesso
(continua alla pagina seguente)
PIER PAOL
UN POETA
8
O PASOLINI
CORSARO
9
sgangherate e costumi derivati
più che altro dall’arte
africana. Con Medea il regista
si aggiudica come protagonista
niente meno che la
leggendaria cantante lirica
Maria Callas, confezionando
un’opera la cui sceneggiatura
e i cui dialoghi risultano
abbastanza fedeli al testo
originale. I motivi di stupore
risiedono piuttosto in
riprese talvolta tremolanti,
movimenti di macchina volutamente
sgraziati e in doppiaggi
professionali che, di
per contro, mettono in risalto
la scarsa bravura di alcuni
attori non professionisti posti
in ruoli chiave. Per meglio
palesare il senso di spaesamento
evocato allo spettatore
basterebbe riguardare
una delle scene finali, in cui
uno dei personaggi suona
la lira ma il suono corrisposto
nel doppiaggio è di un
biwa giapponese. Anche
questo, evidentemente, fa
parte dei motivi d’interesse
- qualcuno direbbe, dell’innovazione
- riconosciuti al
nostro. Tuttavia tali “esercizi
di stile” restano, tematicamente
parlando, episodi
sporadici, poiché le energie
del regista sono focalizzate
principalmente sull’analisi
del mondo contemporaneo,
vivisezionato impietosamente
al fine di metterne in
discussione i valori cardine
(si ripeschi il sottovalutato
Teorema, ‘68).
L’acme del pensiero pasoliniano
rispetto alla società
moderna è raggiunto con la
sua opera cinematografica
più estrema, la trasposizione
(fortemente rimaneggiata)
dell’incompiuto romanzo
Le 120 giornate di Sodoma
del marchese de Sade, il cui
titolo viene arricchito dal
regista aggiungendo come
prefisso Salò, indirizzando
quindi il fruitore a un discorso
universale sulle infinite
declinazioni del pensiero fascista.
La pellicola, una vera
e propria sfida alla censura,
uscita postuma nel 1975,
resta ancor oggi una delle
esperienze più disturbanti
nella storia del cinema
mondiale. Il sunto sadeiano
operato dal regista-poeta
dipinge con tratto espressionista
un’attualità in cui il
Potere dominante - rappresentato
da quattro sordidi
uomini che incarnano i poteri
politico, giuridico, economico
e religioso - si attiva per
dimostrare la propria capacità
di dominazione su un gruppo di
giovani uomini e donne. E come
si realizza la distruzione della
psiche per i malcapitati? Attraverso
sevizie connesse al corpo.
Piegando le proprie vittime con
sistematicità, il Potere finisce
in breve tempo per annientare
la capacità di reazione dei suoi
oggetti del desiderio, arrivando
ad annullarne le coscienze e,
con esse, la possibilità non tanto
di adoperarsi per una rivolta
cepibile attraverso una mente
dominata dalla mediocrità,
appannaggio cioè di quel ceto
medio borghese dotato, più
che di ignoranza, di mezza cultura.
Alla base della dominazione
esercitata dal Potere in Salò
o le 120 giornate di Sodoma infatti
non sussiste un piano per
ottenere vantaggi concreti: è la
banale esercitazione della classe
dominante, interessata solo
a confermare la sua natura coercitiva
e il corretto funzionamento
della propria strategia.
Il suo teatro:
poco conosciuto
e frequentato
quanto addirittura di concepire
la possibilità di fronteggiare
l’aguzzino. A impressionare lo
spettatore, dopo pochi minuti
di visione del film, non sono
soltanto le scene di violenza
sessuale o gli episodi scatologici
i quali, nella loro configurazione
volutamente eccessiva
divengono anzi grotteschi ai
limiti della credibilità, quanto
piuttosto la sordida freddezza
con cui il Potere si impone sul
più debole, cioè il cittadino, lasciando
trasparire una sorta di
precisissima strategia applicata
con metodicità “algoritmica”,
diremmo oggi. Un orrore così
disumano, per assurdo, è con-
Ne ha scritto, riflettendo sulla
personalità espressa dal criminale
nazista Adolf Eichmann
durante il processo per crimini
di guerra tenutosi a Israele nel
1962, la filosofa ebrea Hanna
Arendt la quale, nel suo imprescindibile
saggio La banalità
del male, ci ha messi in guardia
rispetto alla possibilità dell’iterarsi
di una situazione in cui
l’oppressione faccia ritorno e
abbia, ancora una volta, il volto
apparentemente bonario del
nostro vicino di casa, chiamato
ad appoggiare una guerra tra
diverse fazioni di una stessa società
per difendere i propri diritti
contro quelli del prossimo.
Qui a sinistra una scena tratta
da Medea
Nell’immagine a centro pagina
un intenso primo piano
di Enrique Irazoqui Levi,
interprete di Cristo
ne Il vangelo secondo Matteo
In basso, Salò
o le 120 giornate di Sodoma
Le innumerevoli speculazioni
intellettuali ai testi pasoliniani
tracciano la mappa di un pianeta
ancora da esplorare, occupata
com’è buona parte dell’intellighenzia
italiana a lasciarne
emergere solo gli elementi politically
correct, ridipingendo la
facciata dell’opera omnia con
un arcobaleno disinteressato a
selezionare un colore piuttosto
che un altro e facendo così di
Pasolini, alla bisogna, un martire
della libertà del pensiero
di sinistra eppure, miracolosamente,
uomo uomo con un
retroterra ramificato nel pensiero
cattolico e nel conservatorismo
destrorso.
Per realizzarne l’inattualità basterebbe
rileggere l’articolo
uscito nel ’74 su Il Corriere della
Sera in cui egli lanciò quell’anatema
a forma di “Io so” poi frenato
dal seguente “Ma non ho
le prove. Non ho nemmeno gli
10
Cosa resta oggi, al netto della retorica,
del lascito pasoliniano sull’Italia
della cultura odierna? Una riflessione
sull’opera di Ciprì e Maresco
indizi”. Ebbene questo ormai
storico esempio di elzeviro non
sarebbe oggidì apostrofato
come puro populismo? “Faccia
i nomi o abbia il buon gusto di
tacere”, si obietterebbe a Pasolini
dai salotti televisivi delle
emittenti di Stato e private. O
immaginiamo invece il nostro
ospitato in un qualsivoglia programma
televisivo di approfondimento
politico durante
il quale, espresso un parere
critico rispetto a un’imminente
riforma della Giustizia, egli
verrebbe prontamente zittito
dai rappresentanti del Governo
in carica, i quali avrebbero da
obiettare “Come può parlare
di giustizia chi nel 1949 venne
imputato per atti osceni in
luogo pubblico e corruzione di
minore anche se, tra cavilli legali
e fruendo d’indulto, se ne
uscì infine assolto?”. Fu proprio
da quelle prime esperienze
con la Giustizia che egli venne
sospeso dall’insegnamento e,
inseguito dalla nomea di pederasta,
scelse di lasciare il Friuli
per trasferirsi nella capitale
con la madre, dedicandosi così
a tempo pieno alla costruzione
di quella professione d’artista
che derivava dagli stravaganti
esempi di Dino Campana e
Oscar Wilde.
Che resta, a 100 anni dalla nascita
(5 marzo 1922) e al netto
della retorica, del lascito pasoliniano
sull’Italia della cultura
odierna? Trascurate le più o
meno riuscite trasposizioni cinematografiche,
televisive e
teatrali che ne ripercorrono la
vita beatificandone il personaggio
(si ripeschi l’emozionante
Pasolini, un delitto italiano di
Marco Tullio Giordana, 1995),
trascurata l’inflazionata lettura/recitazione
delle sue poesie,
trascurati i tributi un tanto ad
anniversario (per dare parvenza
di contenuto e raggranellare
curiosità di pubblico su un soggetto
ancor oggi pruriginoso),
che resta? Nel bianco e nero
saturato delle pellicole di Ciprì
e Maresco alcuni hanno osato
riconoscere una sorta di discendenza;
passando dal Cristo
cencioso de Il Vangelo secondo
Matteo (Pasolini, 1964) alla dissacrazione
di Totò che visse due
volte (Ciprì e Maresco, 1998) è
teso un filo rosso di attori non
professionisti pescati nelle
strade del disagio - quando non
addirittura gravati da una qualche
forma di handicap - che riprendono
parole e vicende
dalle Sacre Scritture contestualizzandole
in un mondo sfregiato
dalla corsa a un progresso
tecnologico illimitato e perciò
disumanizzante. Per entrambi
i film si ricordano incursioni da
parte dei neofascisti nei cinema
dove questi erano in cartellone,
al fine di impedirne la
proiezione e salvaguardare
i valori della tradizione cattolica.
Lo spettacolo teatrale Palermo
può attendere (2002)
dimostra, per la coppia di
cineasti palermitani, che
la dimensione ultima della
loro grandezza non risiede
in questa particolare forma
artistica. Idem per Pasolini,
le cui opere teatrali furono
rappresentate sporadicamente
mentre egli era in
vita e non poterono vantare
quella peculiarità nelle riprese
e nel montaggio che
il suo cinema portò in dono.
Visivamente, l’estetica pasoliniana
è ruvida, apparentemente
grezza, “buona
alla prima”, giocata su volti
caricaturali mediante attori
di borgata talvolta rivelatisi
però superiori alle aspettative
(è il caso del fidato Franco
Citti).
Volendo azzardare una comunque
parziale sintesi
dell’estetica pasoliniana
senza ricorrere alla visione di
quei film che gli fruttarono
un considerevole numero di
aggressioni fisiche, denunce
e querele, consigliamo
l’ascolto del brano musicale
Supplica a mia madre, trasposizione
dell’omonima poesia
contenuta nella raccolta del
1964 Poesia in forma di rosa,
a opera della compositrice e
performer Diamanda Galas.
Gli arpeggi di pianoforte e la
voce straziante della Galas
tratteggiano uno stato di
sospensione dell’essere in
cui: “(…) Sopravviviamo/ ed
è la confusione/ di una vita
rinata fuori dalla ragione”.
La figura della madre è allo
stesso tempo generatrice e
aguzzina di un corpo/anima
flagellati da un desiderio
sordido, da un’esauribile
voglia di emozioni indicibili,
sicché il legame madre-figlio
diviene giocoforza schiavitù
che il figlio è votato a espiare
in un’arte sfacciatamente
catartica. Un viaggio che fu
senza possibilità di ritorno
contro tutto e tutti, anche
contro se stessi, fino all’evocazione
di un gesto risolutivo
che mettesse fine a una
tensione dinamica divenuta
necrofila (Salò sarebbe dovuto
essere il primo tassello
di una trilogia dedicata alla
morte) e dunque contraria
alla vita stessa.
11
CELEBRAZIONI
di Alessandra Agosti
Tra il 2022 e il 2023 Molière
sarà al centro di una doppia serie
di celebrazioni: quest’anno
per il quarto centenario della
nascita, nel 2023 per i 350 anni
dalla morte, avvenuta nel 1673.
Per essere ricordato, amato e
studiato il nostro Molière non
ha certo bisogno di anniversari,
per quanto altisonanti come
questi. Ma l’occasione c’è, e
allora perché non ripercorrere
insieme le sue vicende umane e
artistiche? Qualche anno fa (gli
affezionati lettori di Fitainforma
lo ricorderanno) su queste
stesse pagine gli dedicammo
una monografia della serie Educare
al teatro, che oggi riprendiamo
e ampliamo per rendergli
onore e gloria.
La vita in breve
Jean-Baptiste Poquelin, passato
alla storia con lo pseudonimo
di Molière (ma il significato
del termine rimane un mistero),
fu battezzato il 15 gennaio
del 1622, anno nel quale si suppone
quindi egli sia nato. Quattrocento
anni fa, giusti giusti.
Era figlio di Jean Poquelin, un
artigiano tappezziere molto rispettato
e ben introdotto a corte.
Seguire le sue orme avrebbe
significato per Jean-Baptiste
garantirsi una vita tranquilla e
senza scossoni. Ma il destino
aveva ben altro in serbo per lui.
Senz’altro gli riservò molto
dolore nell’infanzia, sul fronte
degli affetti femminili: Marie
Cressé, la madre, morì quando
il figlio aveva appena dieci
anni e Catherine Fleurette, la
donna che il padre sposò un
anno dopo essere rimasto vedovo,
morì nel 1636. Fortunata
e positiva fu invece la figura di
Louis Cressé, il nonno materno,
che lo portò spesso a vedere le
commedie degli attori italiani e
le tragedie francesi.
Buon anniversario
Il padre lo fece studiare - dal
1635 al 1639 fu al Collège de
Clermont, retto dai Gesuiti - e
Jean-Baptiste concluse diligentemente
i suoi studi giuridici a
Orléans, ottenendo nel 1641 la
Licenza in Diritto. Nel 1637 aveva
anche prestato giuramento
come erede del padre alla carica
di tappezziere di corte.
Ma qualcosa gli rodeva dentro.
Non era di codici e cause che
voleva riempire la propria vita,
né di stoffe o broccati: di assi di
palcoscenico, invece, e di versi
d’amore e d’avventura, di fantasia,
di intrecci e di talento.
Diventerà attore e autore, morendo
persino sul palcoscenico
di tubercolosi, il 17 febbraio
1673 (nel 2023 cadrà quindi
il 350° della sua morte), recitando
Il malato immaginario.
Il divieto di sepoltura in terra
consacrata, all’epoca ancora
valido per gli attori, pare venne
superato per lui grazie all’intercessione
di Luigi XIV in persona,
permettendogli di riposare nel
cimitero di Saint-Eustache.
Attori, vil razza dannata
Quella che Molière sceglieva
per sé nel 1643, si badi bene,
era una vita tutt’altro che facile:
l’attore era ancora considerato
un poco di buono, tenuto
Monsieur Molière!
alla larga dalla società dei bravi
cittadini e dei fedeli, tanto che
- nonostante i toni si fossero di
molto abbassati rispetto a un
passato non poi così lontano -
come abbiamo detto ai tempi
di Molière un attore continuava
a non poter essere sepolto in
terra consacrata, salvo che si
pentisse formalmente almeno
in punto di morte.
Quella che Jean-Baptiste prese
a 21 anni, dunque, trasformandosi
in Molière, fu una decisione
sicuramente sofferta e mandata
giù di traverso dalla sua
famiglia.
Nel 1643 ecco allora l’avvocato
e tappezziere mancato trasformarsi
uffcialmente in attore,
sottoscrivendo con un gruppo
di altri “sciagurati” (tra i quali
l’amante Madeleine Bejàrt, la
cui figlia, Armande, Molière
sposerà nel 1662) l’atto costitutivo
dell’Illustre Théâtre, compagine
destinata peraltro a breve
e incerta vita, dato che nel 1645
sarà sciolta e Molière si farà anche
qualche giorno di prigione
per certi conti non pagati.
In quello stesso anno, però,
Molière non si perse d’animo
e lasciò Parigi, entrando a far
parte della compagnia di Charles
Dufresne, che godeva della
protezione del Duca d’Epernon.
Fu in questa compagnia
che si fece la sua brava gavetta,
girando in lungo e in largo la
12
Nella pagina accanto,
un celebre ritratto di Molière
eseguito nel 1658
da Nicolas Mignard.
Qui a sinistra, il dipinto del 1862
nel quale Jean-Léon Gérôme
immagina Luigi XIV che invita
Molière a cena.
Francia, perfezionandosi come
attore e iniziando ad affnare
anche le sue doti di autore.
Quando Dufresne, nel 1650,
decise di lasciare le scene, Molière
dovette salire di grado
all’interno del gruppo, visto
che alcuni anni più tardi la compagnia
prese il suo nome.
Ma la sfortuna era dietro l’angolo.
Nnel 1653, infatti, la compagine
passò sotto la protezione
del conte de Bourbon, tra
le massime autorità del regno
e celebre per le sue avventure
amorose: un paio d’anni più
tardi, però, il conte improvvisamente
si convertì e tra i suoi primi
atti da buon credente proibì
alla compagnia di utilizzare il
suo nome.
Ancora una volta Molière non
si perse d’animo e nel 1658 incontrò
il fratello del re, il duca
Luigi Filippo d’Orléans: il nobile
gli consentì di dare alla compagnia
il titolo di Troupe de Monsieur
e le assegnò anche una
rendita annua, che peraltro non
fu mai in effetti versata.
Fu però grazie al duca che Molière
e i suoi ebbero l’occasione
di esibirsi per la prima volta a
corte, il 24 ottobre 1658. Al
termine della recita, il Re Sole
in persona autorizzò la compagnia
a stabilirsi a Parigi; da
allora in poi Molière fu un protetto
del re e seppe sfruttare
bene questa sua posizione privilegiata:
egli diede molto al Re
(i testi per i balletti e la musica
che il sovrano amava tanto, ben
più del teatro) e il Re seppe ricompensarlo
concedendogli di
tanto in tanto qualche “sfogo”
(si pensi a Tartuffo) altrimenti
off limits, vista la costante, caparbia
autodifesa messa in atto
dai cortigiani e dal clero. Molière,
in questa partita, si rivelerà
ottimo stratega, paziente
e accorto, consapevole di poter
LE OPERE
PRINCIPALI
ottenere molto, ma non tutto
quello che avrebbe voluto, e
in grado di portare il teatro se
non proprio là dove avrebbe
desiderato, almeno nel punto
più lontano - dalla farsa e dal
teatro dei nobili - al quale gli
era possibile arrivare nella sua
veste di suddito e stipendiato
di Sua Maestà. Una voce fuori
dal coro, insomma, ma che
per tutta la vita riuscì comunque
a salvaguardare i vantaggi
dell’essere un corista.
Un ritratto d’epoca
Luigi Lunari, drammaturgo e
saggista scomparso tre anni
fa, nell’agosto 2019, riporta la
descrizione che del francese
ci ha lasciato Angelique Poisson,
figlia degli attori René e
Thérèse Du Parc, compagni di
palcoscenico di Molière. Così
scrive Angelique: «Egli non era
né troppo grasso né troppo
magro. Di corporatura più grande
che piccola, aveva un nobile
portamento, bello di gambe e
di fianchi: camminava con gravità,
aveva un’aria assai seria, il
naso grosso, la bocca grande,
le labbra spesse, una carnagione
scura, le sopracciglia nere e
marcate». In effetti i tratti sono
proprio quelli del Molière che
conosciamo grazie soprattutto
ad alcuni celebri ritratti.
Quanto al carattere, Lunari
afferma che del suo non si sa
molto; il profilo che ne propone
deriva dall’autodescrizione
che Molière affda alla storia
nell’Improvvisazione di Versailles:
«Un uomo pieno di buon
senso paziente e tollerante,
dotato di un grande autocontrollo
anche nell’infuriare delle
polemiche provocate, a volte,
dalle sue opere».
Lunari va oltre e riflette sul fatto
che quell’autocontrollo potrebbe
dipendere non tanto da
una predisposizione di natura
in tal senso, quanto piuttosto
da “una volontà ferrea”.
A suffragio di ciò, lo studioso
ricorda la satira contro Molière
di tale Boulanger de Chalussay
(del 1670, quindi antecedente
di tre anni la morte del commediografo),
intitolata Elomire
Hypocondre, dove Elomire altro
non è se non l’anagramma di
Molière; il quale Molière, a sua
volta, nel Misantropo, opera
di indiscutibile matrice autobiografica,
definisce il protagonista
Alceste “l’atrabiliare
innamorato” (dove atrabiliare,
ricorda Lunari, sta a indicare «bilioso
e affetto da umor nero»).
Molière ammette quindi di essere
ipocondriaco e bilioso. Ma
perché si era ridotto così? C’è
da dire che la sua vita non era
delle più rilassanti e soddisfacenti,
né sul piano professionale,
né nella sfera privata.
Una moglie troppo giovane
Da scapolo, certamente il capocomico
di bell’aspetto doveva
aver fatto le sue brave conquiste,
soprattutto fra le attrici
che giravano per la compagnia.
Tra queste vale la pena ricordare
Madeleine, prima dei quattro
fratelli Béjart (gli altri erano
Joseph, Louis e Geneviève), orfani
di Joseph e Marie Hervé, e
tutti componenti della compagnia
Molière. A un certo punto,
però, i fratelli Béjart diventarono
misteriosamente cinque,
con l’aggiunta di Armande
(1640/1642-1700), che in realtà
pare fosse figlia di Madeleine e
di un nobile già sposato.
Quando Molière consolidò la
sua relazione con Madeleine
partecipò anche all’educazione
della piccola Armande, di
vent’anni più giovane di lui e
(continua alla pagina seguente)
13
che sotto i suoi occhi si trasformò
in una bella e giovane
donna. Al riguardo così scrive il
primo biografo di Molière, Jean-Léonor
Gallois de Grimarest:
«Questa bambina abituata a
vedere sempre Molière, prese
a chiamarlo marito mio fin
da quando imparò a parlare
(...) Molière passò poi a poco a
poco dai giochi e dagli scherzi
che si possono fare con una
bambina, all’amore più violento
che un’amante possa ispirare».
Quello di Armande e Molière
non fu davvero un matrimonio
felice; ma il commediografo,
che come abbiamo visto doveva
avere una certa tendenza ad
addossarsi la colpa di ogni rovescio,
anche in questo caso individuò
la causa dell’insuccesso
matrimoniale in mancanze sue
piuttosto che in scarso amore e
dedizione da parte della giovane
(troppo giovane) sposa.
Il matrimonio di Molière e Armande,
tra l’altro, aveva suscitato
non poche chiacchiere e
malumori; qualcuno era addirittura
arrivato a sussurrare che
Armande fosse in realtà figlia
dello stesso Molière, facendo
quindi emergere la possibile,
infamante accusa di incesto. La
coppia ebbe tre figli: Luis, nato
nel 1664 e morto a pochi mesi;
Marie Madeleine Esprit, nata
nel 1665 e morta nel 1723; e
Pierre, nato nel 1672 e morto
anch’egli a pochi mesi.
Lavorare per il Re Sole
Veniamo all’aspetto professionale.
La situazione di Molière,
apprezzato e protetto dal
Re Sole, avrebbe fatto gola a
qualsiasi altro autore di teatro
dell’epoca. Ma Molière, al solito,
avrebbe voluto qualcosa
di diverso: quello che gli mancò
sempre, per tutta la vita,
fu la consacrazione come “letterato”,
quindi come autore
tragico. L’essere uno scrittore
di commedie, per quanto acclamate,
lo rendeva infatti un
autore di serie B agli occhi suoi,
del pubblico e soprattutto della
ristretta cerchia dei letterati
puri.
Lo stesso valeva per il suo
impegno come attore: «Meraviglioso,
ma solamente nel
genere ridicolo» e «incapace
di recitare una qualsiasi opera
seria», come puntualmente ricorda
Lunari citando i giudizi di
Tallemant des Réaux e Donneau
de Visé, rispettivamente del
1658 e del 1663.
Anche la già citata Angelique
Poisson, ricorda lo studioso,
lasciò una sua opinione in materia:
«La natura - scriveva la
donna - gli aveva negato quei
Luigi XIV di Borbone (1638 -
1715) salì al trono di Francia nel
maggio del 1643 e vi rimase fino
alla morte, quindi per circa
settantadue anni. Figlio di Luigi
XIII e di Anna d’Austria, figlia del
re Filippo III di Spagna, fu detto
il Re Sole (Le Roi Soleil). Sotto il
suo regno, la Francia consolidò
la propria posizione in Europa,
grazie a precise azioni militari,
e ne divenne il centro culturale.
Particolare attenzione il Re Sole
dedicò infatti alle arti. Tra l’altro
fondò l’Académie Française
e sostenne menti illuminate come
quelle degli autori Molière,
Racine e Jean de La Fontaine e
di musicisti come Jean-Baptiste
Lully. Lo stesso Re Sole decise
la costruzione dell’Hotel
des Invalides, sorta di casa di
riposo e cura per militari feriti
nel corso delle varie campagne;
ampliò anche il Palazzo del
Louvre. Nel 1661, dopo la morte
del primo ministro cardinale
Mazzarino, assunse il potere
del governo direttamente nelle
sue mani. Gli si attribuisce la
frase “Lo Stato sono io”.
doni esteriori così necessari in
teatro, soprattutto per i ruoli
tragici. Una voce sorda, inflessioni
dure, una lingua volubile
che lo portava a precipitare la
declamazione, lo rendevano
sotto questo profilo di gran
lunga inferiore agli attori dell’Hôtel
de Bourgogne, e di
questo egli riuscì a correggersi
solo a prezzo di sforzi continui,
che gli causarono una specie di
singulto che egli ha conservato
fino alla morte, e di cui in determinate
occasioni sapeva anche
trar profitto».
Le porte dell’Empireo, insomma,
sia di quello letterario che
di quello attoriale, non gli furono
mai aperte, un po’ per suoi
limiti naturali, un po’ per la tendenza
all’autodifesa della strettissima
cerchia dei letterati di
più alto livello.
Per tutta la vita, inoltre, Molière
fu logorato dal senso di preca-
rietà che derivava dall’essere
legato a doppio filo ai capricci
del re e della corte: una parola
del sovrano lo poteva portare
sugli altari o gettare nella polvere;
il minimo screzio con un
nobile lo avrebbe potuto far
spazzare via come una briciola
dalla tavola imbandita di Versailles...
Insomma, c’era di che
farsi venire l’ulcera. Per tutta
la vita Molière riuscì comunque
a parare i colpi e a mantenersi
in equilibrio sul filo teso e senza
rete fra la buona e la cattiva
sorte.
Un rovescio, pesante e umiliante,
a dire il vero arrivò: il Re Sole
infatti, per soddisfare l’amatissimo
compositore Jean-Baptiste
Lully (nato Giovanni Battista
Lulli, 1632-1687), inviperito
con Molière perché in un’opera
aveva sostituito le sue musiche
con quelle di un altro compositore,
non ci pensò su due volte
a riconoscergli la proprietà «di
qualsivoglia brano di musica
che egli avrà composto, così
come (si badi bene!) i versi, le parole,
i soggetti, il progetto e le
opere per le quali detti brani di
musica saranno stati composti,
senza alcuna eccezione e per la
durata di trent’anni». In pratica
il compositore diventava proprietario
di tutte le opere che
contenevano anche solo qualche
nota composta da lui, quindi
anche di opere di Molière
come il Borghese gentiluomo o
George Dandin e molte altre.
Un brutto colpo, non c’è che
dire, che dà chiaramente il peso
di quanto e di quanto rapidamente
potesse cambiare il vento
per un artista al soldo della
nobiltà, specie di quella più
alta: un’ultima amarezza che il
destino e il suo Re avrebbero
potuto risparmiare a Molière,
che peraltro morì cinque mesi
dopo quella disposizione.
Ai capricci del Re Molière aveva
dedicato gran parte del suo
talento di scrittore, accondiscendendo
alle sue preferenze
(balletto e musica), castrando
potenziali capolavori per assecondare
le voglie del sovrano e
rinunciando a dedicare tempo
ed energie a lavori di ben altra
levatura. Ricorda Lunari al riguardo:
«In conclusione: nel periodo
del suo maggiore successo
a corte - cioè a dire dal 1664
a poco prima della sua morte
- Molière scrive solo quattro
opere riconducibili senza concessioni
di sorta alla sua più
autentica vocazione di autore:
Il Tartuffo, Il misantropo, George
Dandin e Le donne sapienti».
Ottenne indubbi benefici dalla
protezione del Re, certo. Ma
pagò anche un conto piuttosto
salato.
La sua idea di teatro
Ma guardiamo il rovescio della
medaglia. Molière non sarà stato
dunque portato per il genere
tragico, né come autore né
come attore. Ma è anche vero
che egli - come opportunamente
segnala Lunari - «perseguiva
una recitazione meno convenzionale,
più realistica, più aderente
alla verità psicologica dei
personaggi e delle situazioni».
Che questa sua scelta fosse poi
interpretata come limite, come
incapacità, è naturalmente un
altro paio di maniche. Ma la
considerazione ci è utile per
addentrarci in quella silenziosa
e forse per certi aspetti non
del tutto consapevole idea del
teatro che Molière realizzerà
nel corso della sua carriera artistica:
quella riforma che se nel
francese si manifesta in nuce, in
Goldoni arriverà a più decisa e
consapevole fioritura, aprendo
definitivamente le porte al teatro
borghese.
L’allontanarsi di Molière dallo
stile recitativo del teatro tragico-accademico
corrisponde,
nei suoi testi, a un diverso stile
di scrittura. Ma che cos’ha di
moderno la commedia secondo
Molière? Si basa sulla realtà
e sulla verosimiglianza, è scritta
in prosa e dà ampio spazio alla
psicologia dei personaggi. Le
stesse cose che si potrebbero
dire guardando al teatro riformatore
di Goldoni.
La strada verso questo teatro
“nuovo”, in realtà, era già stata
aperta dalla commedia italiana
del Cinquecento (Machiavelli
fra tutti), ma certamente Molière
compì, su questa strada,
passi importanti, decisivi, soprattutto
con lavori come George
Dandin: quei passi che porteranno
a Goldoni, poi a Cechov,
Ibsen e Strindberg, per arrivare
fino a noi e alle nostre espressioni
artistiche, dal teatro al cinema,
alla televisione.
Ed è in questo quadro che un
ruolo di primo piano rivestirà la
borghesia, quel ceto nascente
all’epoca di Molière e poi in piena
fioritura in quella di Goldoni
che del teatro “nuovo” sarà al
tempo stesso ispiratore e destinatario.
Già abbiamo detto di come Molière
non abbia avuto vita facile
a portare la borghesia e le sue
storie sul palcoscenico in un’età
come quella del Re Sole. Arriverà
anche, talvolta, a parlare della
borghesia in tono negativo:
ma lo farà dando comunque un
colpo al cerchio e un colpo alla
botte, deridendo non tanto il
borghese in sé, ma il borghese
che aspira a un titolo che non
gli compete, a una vita dai tratti
nobiliari che non è la sua.
14
Contese alla Duse
il titolo di “divina”:
due stili differenti,
due impatti diversi
sul pubblico,
ma in comune
un modo personale
di essere “uniche”.
Sarah Bernhardt
... cent’anni dopo
di Alessandra Agosti
Nel 2023 cadranno i cento anni
dalla morte di Sarah Bernhardt,
tra le più iconiche attrici
di tutti i tempi, nata nel 1844 a
Parigi, e qui spirata nel 1923.
Un segno indelebile quello lasciato
da Henriette Rosine Bernard,
questo il suo vero nome,
spesso ricordata insieme alla
collega-rivale italiana, Eleonora
Duse, di quattordici anni più
giovane di lei, l’altra grande “divina”
dell’epoca. Anche detta
voix d’or (voce d’oro; addirittura
una sua collega attrice, Madeleine
Brohan, disse di lei che
nella gola possedeva “un’arpa
naturale”), Sarah iniziò alla
scuola di teatro della Comédie-
Française, allieva non particolarmente
brillante, in verità. Poi
i primi passi all’Odéon, i primi
grandi successi, e l’approdo alla
Comédie Française, per la quale
si misurò tra l’altro con Phèdre
di Racine nel 1874 ed Hernani
di Victor Hugo nel 1877. Salutata
la Comédie Française, che le
stava stretta, iniziò a inanellare
successi in giro per il mondo:
anche negli Stati Uniti, dove
per Thomas Edison registrò su
un cilindro sonoro un brano di
Phèdre. Fu anche direttrice di
due teatri, che rilevò a Parigi: il
Théâtre de la Renaissance, dal
1893, dove quattro anni dopo
recitò anche la Duse; e quello
delle Nazioni, sul cui palcoscenico
fu tra l’altro La signora delle
camelie di Dumas figlio, tra le
sue interpretazioni più celebrate.
Si mosse con intelligenza nel
vivace mondo dell’arte del suo
tempo (in particolare, il pittore
Alphonse Mucha fu autore di
tanti suoi manifesti), comprendendo
la portata di innovazioni
come il cinematografo, con
otto film all’attivo, a partire da
Il duello di Amleto, del 1900, per
la regia di Clément Maurice,
firmando anche alcune sceneggiature.
Come sul versante culturale,
si schierò anche politicamente,
in particolare con Émile
Zola allo scoppio del cosiddetto
“Affare Dreyfus”). Nel 1914
fu decorata con la Legion d’Onore.
Recitò fino in tarda età,
anche dopo l’amputazione di
una gamba. Ebbe un solo figlio,
Maurice Bernhardt, poi divenuto
scrittore, avuto a vent’anni
dal nobile belga Charles-Joseph
Eugène Henri Georges Lamoral
de Ligne (1837–1914); ebbe
diverse relazioni, tra l’altro con
il disegnatore Gustave Doré,
e un drammatico matrimonio
con Aristides Damala, morfinomane:
una relazione brevissima,
ma che la Bernhardt non
interruppe legalmente fino
alla scomparsa dell’uomo, ad
appena 34 anni, nel 1889. Amò
anche alcune donne, come la
scrittrice Lina Poletti e la pittrice
Louise Abbéma.
Ma double vie, La mia doppia
vita, del 1907, è il titolo della
sua autobiografia, ma fu anche
saggista, drammaturga e, come
già detto, sceneggiatrice.
Interessante - sempre per quel
parallelismo “divino” con la
Duse - fu il suo rapporto con
Gabriele D’Annunzio, del quale
rimane un epistolario. D’Annun-
Un celebre ritratto di Sarah Bernhardt firmato dal fotografo parigino Nadar
zio aveva visto nell’attrice francese
la portavoce ideale della
sua arte: era già celebre, era
nata in Francia, Paese che secondo
il Vate era ben più pronto
dell’Italia a capire la sua arte.
Per questo le affdò La città
morta nel 1899, preferendola
NEL 2023 IL CENTENARIO
DELLA NASCITA
DI MARCEL MARCEAU
A proposito di anniversari illustri,
in un prossimo numero
parleremo di un altro grande
artista che sarà celebrato nel
2023: Marcel Marceu, a cento
anni dalla nascita. Francese
di Strasburgo, all’anagrafe
Marcel Mangel, fu allievo di
allievo di Étienne Decroux. Fu
l’inventore del moonwalk, il
passo rivisitato e reso celebre
da Michael Jackson. Ma c’è
molto, molto di più...
alla Duse. Lei, dal canto suo, gli
fornì il suo teatro, La Renaissance,
per la prima mondiale dell’opera,
che la Duse avrebbe rappresentato
in Italia nel 1901, al
fianco di Ermete Zacconi.
La Duse morì un anno dopo la
Bernhardt, nel 1924.
15
UN RAPPORTO INQUIETO
TEATRO
E ARTE
16
Numerosi e complessi
i punti d’incontro
di Filippo Bordignon
“Ti nutri d’immagini
e sei tu stesso un’immagine?
Che pensi di te stesso,
come potrai sussistere?”
(Angelus Silesius)
Foto di Jean-Pierre Dalbéra from Paris, France - Costumes du ballet Parade (Les Ballets russes, Opéra)
CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=24670981
Performance del 1968 del Living Theater al Politecnico di Torino
Da notare lo studente nell’atto di spogliarsi per prendervi parte
Una visione sistemica, olistica
(cioè di completa integrazione
tra il tutto e le varie parti
che lo compongono) del fatto
artistico ha derivato nel corso
della storia umana l’emergere
dell’immagine della realtà
come theatrum mundi, intendendo
con questa locuzione
latina il mondo come palcoscenico
in cui agiamo. L’estetizzazione
di tale concetto ci
ha portati a concepire in primis
l’azione performativa come
veicolo di messaggi slegato dai
vincoli delle tradizionali strutture
fisiche di fruizione artistica
(teatri, sale da concerto,
luoghi normalmente destinati
alla cultura). Non solo. Il pubblico
stesso può essere un pubblico
indiretto, non pagante,
inconsapevole dell’azione nel
suo svolgersi, sicché un’azione
artistica può avvenire improvvisamente
in una strada, in
un’abitazione, in un luogo dove
il solo spettatore può essere,
per assurdo, lo stesso “attore”
dell’azione performativa.
Molto prima dei flash mob che
dilagano sui social, però, si assistette
a un lungo periodo di
incubazione concettuale delle
modalità sopra dette, a opera
di artisti complessi e controversi
che sdoganarono alle folle
modi di intendere l’esperienza
artistica oggi assurti a normalità.
Tra i grandi insegnamenti concessi
a partire dalla prima parte
del Novecento da alcuni dei
suoi personaggi apripista vi è
quello di un’arte multidisciplinare,
totale, fluida nella nobile
eccezione del termine: pittura
incontra musica e diviene
astratta, scultura incontra cultura
e smette di replicare immagini
naturali divenendo forme
impossibili, per non citare
che due esempi tra i tanti oggi
familiari alle masse.
Prima di questa irreversibile
trasformazione si passò giocoforza
attraverso un periodo di
transizione in cui due medium
dialogavano a pari livello senza
che se ne decretasse ancora la
completa fusione (si pensi alle
opere d’arte pittorica di Lele
Luzzati per Paolo Poli, scenografie
a forma di paravento
ancora considerate a supporto
del lavoro teatrale, o l’ambiziosa
collaborazione tra lo scrittore
Jean Cocteau, il compositore
Erik Satie e il pittore Pablo Picasso
in veste di costumista per
la danza- teatro ante litteram
Parade del 1917).
La seconda metà del Novecento
portò alle estreme conseguenze
queste intenzioni
mediante l’esperienza statunitense
del Living Theater grazie
al quale, usando il trampolino
di alcune avanguardie storiche
durate un soffo ma dal lascito
inesauribile (gli eventi dadaisti
promossi nel leggendario locale
zurighese Cabaret Voltaire),
si verificò un primo teorizzato
scardinamento delle tradizioni,
dando forma a un ibrido artistico
dalla chiara connotazione
anarcoide. Non un teatro della
libertà (concetto ascrivibile a
un modello filosofico/politico)
ma della liberazione (concetto
spirituale, metafisico, mistico,
cioè slegato da ogni diktat teologico).
Superati i pur seminali risultati
del teatro di poesia, la coppia
Judith Malina/Julian Beck coniò
un formato di compagnia
teatrale spiantato anche nella
disponibilità di una sede fissa:
le molte cellule operative riconducibili
al Living si diffuse-
(contrinua alla pagina seguente)
17
o negli States e in Europa,
portando il verbo dell’happening,
in cui il qui-e-ora di
derivazione zen (filosofia
orientale esplosa nei Fifties
attraverso la fascinazione
derivata dalla beat generation)
si ciba del situazionismo
Fluxus a beneficio
di una fruizione totale da
parte dello spettatore.
Quest’ultimo è parte integrante
dell’evento, chiamato
non solo a generare un
proprio significato personale
ma anche parteciparvi
attivamente, a rifiutarlo animatamente,
ad abbracciarlo
catarticamente al punto da
venirne trasformato.
Il drammaturgo dell’opera e
i suoi esecutori divengono il
tramite di un progetto ben
più ambizioso che mette
da parte le logiche di puro
intrattenimento o di moralizzazione
coercitiva, schiudendosi
a significati inattesi,
magari addirittura non contemplati
dagli stessi autori.
Gli eventi - perché il termine
“spettacolo” risulta a questo
punto inadatto - possono
giovarsi di location desuete
e magari di un’illuminazione
naturale. Una fabbrica
in disuso con gli scheletri
dei suoi macchinari arrugginiti,
un terreno in piena
campagna o l’ingresso della
sede di un partito politico
avversario a questo genere
di attività vengono impiegati
- talvolta nella mancanza
dei necessari permessi amministrativi
- proprio per la
loro natura anti-istituzionale
e disturbante. L’accecante
luce del giorno o la semioscurità
della notte sortiscono
sensazioni altrettanto
importanti, che l’artista scafato
impiega accettandone
l’incontrollabilità.
Il dilagare europeo di questo
modus operandi provocò
un sostanziale ripensamento
anche nell’ambito
della danza; nella seconda
metà degli anni ‘70, in Germania,
il Tanztheater di Pina
Bausch si appropriò di scenografie/location
e oggetti
di scena dal mondo reale: i
“danzattori” bauschiani fanno
propri gesti della quotidianità
quali corse, cadute,
svenimenti, baci e carezze,
collocati in spazi che vanno
dalla cima di una collina ad
ambienti desertici. Una rivoluzione
che oggi è considerata
la normalità nel settore
Il manifesto di Fluxus, lanciato da George Maciunas nel 1963
Il ritratto quintuplo di Marcel Duchamp, realizzato nel 1917. La composizione
ricorda quella che Umberto Boccioni aveva proposto nel 1908 (Io,
Noi) . La fotografia fu un terreno di sperimentazione molto battutto in
quegli anni: su tutti, ricordiamo Man Ray, amico fraterno di Duchamp,
con il quale condivise varie esperienze artistiche affni alla performance
teatrale, come la creazione dell’alter ego del pittore, Rrose Selavy, e
antesignane della body art, come Tonsura, per la quale Duchamp si rasò
i capelli disegnandovi una stella.
della danza contemporanea ma
che al tempo stupì non poco
per la sua carica dirompente,
per la ferrea volontà di fare con
il corpo tutto ciò che esso consente,
a partire però da gesti
di uso comune, ricchi perciò di
un immediato valore simbolico.
Imperdibile, per testare un
assaggio della poetica in questione,
il film d’essai Pina (2011)
girato dal di lei amico fraterno,
il regista Wim Wenders.
Le azioni della quotidianità
trasfigurate in forma artistica
ebbero in realtà un imprescindibile
teorizzatore nell’artista
concettuale tedesco Joseph
Beuys.
Sfebbrata l’infatuazione per il
regime nazista e risvegliato a
una coscienza sociale dopo un
incidente aereo durante la Seconda
Guerra Mondiale (egli favoleggiò
di essere stato salvato
e curato con rimedi naturali
da un gruppo di nomadi tartari
nella regione della Crimea),
dagli Anni ’60 e fino alla sua
morte nel 1986 egli elaborò
una serie di azioni performative
diversificate, alcune delle quali
lo vedono protagonista e fanno
dell’artista il soggetto-oggetto
della propria speculazione intellettuale.
In I like America and America
likes me (1974) Beuys, munito
di un mantello e un bastone
da passeggio, interagisce con
un coyote; il filmato - facilmente
rintracciabile sul web - ci
racconta l’interazione uomoanimale
spiegando il rapporto
ambivalente del nostro con la
“Land of the Free” che l’aveva
adottato. L’atteggiamento diffidente
dell’animale, che fiuta
sospettoso l’artista e ne mordicchia
il mantello, diviene così
metafora del delicato rapporto
tra Germania e States in maniera
più sottile di tante parole.
In Flitz Tv (1970) viene inscenato
un incontro di box tra Beuys
e lo schermo di un televisore, a
ribadire lo scontro costante tra
realtà e mondo dell’informazione.
Vi è poi un Beuys impegnato sul
versante sociale, quello cioè del
progetto Piantagione Paradise
(1982) realizzato a Bolognano,
in Abruzzo, che ha previsto la
messa in dimora di oltre 7 mila
piante, operazione finalizzata
a ripristinare la biodiversità locale.
Più generalmente, queste
modalità di rappresentazione
della realtà secondo una deformante
lente concettuale sono
condivise con il movimento
Fluxus che, guarda caso, vanta
18
Joseph Beuys fa a pugni con un televisore in “Flitz Tv” del 1970
Foto di Di Lothar Wolleh
Licenza - http://www.lothar-wolleh.de, CC BY-SA 3.0, https://commons.
wikimedia.org/w/index.php?curid=5843258
in uno dei suoi appartenenti, il
pittore Allan Kaprow, l’inventore
del termine “happening”.
Dagli esordi nei seventies e per
un decennio, il Fluxus destabilizzò
l’America benpensante
con azione multidisciplinari che
portarono ad alti livelli artistici
le intuizioni di Marchel Duchamp.
Da questa esperienza derivarono
il proprio successo mediatico
le nuove generazioni, attualmente
riassunte nel nome
arcinoto di Marina Abramovic,
la quale viene spesso e con ingiustificabile
esagerazione indicata
come la “nonna dell’arte
performativa”.
Vero è che, toccando sovente
le tematiche della sessualità, le
sue azioni le hanno attirato un
interesse spesso superiore agli
oggettivi meriti artistici, come
nel caso della rivisitazione della
performance incentrata sulla
masturbazione Seedbed di Vito
Acconci, contenuta in Seven
easy pieces del 2007.
Il rischio della performing art è
che, per sopravvivere nell’interesse
del pubblico, debba alzare
costantemente l’asticella del
senso del pudore, anestetizzando
il pubblico rispetto alla
spettacolarizzazione di azioni
appartenenti alla sfera privata
della persona. Dal bisogno atavico
di misurarsi con le proprie
Qui a destra ancora Beuys in una
foto del 3 aprile 1980, durante
un incontro a Perugia con Alberto
Burri, altro artista sperimentatore,
noto soprattutto per i “sacchi”,
le “combustioni”, i “cretti”
e le opere in cellotex
paure - morte e sofferenza su
tutte - e nel tentativo di restituire
una versione di completo
realismo del teatro francese
Grand Guignol, nella seconda
metà del Novecento si assistette
all’affermarsi di una body art
votata alla sofferenza autoindotta,
in cui il sadismo latente
nello spettatore sposa il masochismo
latente nell’artista.
Un esempio eclatante ci deriva
dalla tormentata personalità
della francese Gina Pane, le cui
azioni di rottura con la morale
comune hanno annoverato auto-ferimenti
con chiodi, lamette,
spine di rose, esteticamente
giustificati come un’immolazione
dell’artista al pubblico, il
quale diviene testimone della
zona meno esplorata del corpo
fisico, quella sottocutanea.
Dai tagli alla tela di Lucio Fontana
a quelli sulle braccia della
Pane assistiamo così a un cambio
di paradigma in cui l’artista
diviene definitivamente oggetto
della propria soggettività.
Una delle immagini più scioccanti
del genere body art è
però imputabile allo statunitense
Chris Burden con l’opera
Trans-fixed: il 23 aprile 1973
l’artista si fece letteralmente
crocifiggere sulla cappotta di
una Volkswagen Maggiolino
ed esporre per due minuti al
pubblico. È in questo contesto
eccessivo e voyeuristico che,
tra la fine degli Anni ’70 e l’inizio
degli ’80, nasce la figura
dell’artista superstar, il cui volto
è massmediaticamente noto
tanto quanto o più delle sue
stesse opere.
La pure sintetica esposizione
di cui sopra rischia d’ingarbugliare
il discorso su un tema,
quello del gesto che si fa arte
al di fuori da logiche teatrali, di
per sé ingarbugliato e tutt’altro
che intuitivo. La ragione principale
di tale complessità sta
nella mancanza di netti confini
di demarcazione tra i vari
medium, fenomeno sul quale
il Novecento ha scientemente
spinto l’acceleratore frantumando
divisioni comunque
semplificanti (nel bene e nel
male), sia per l’artista che per
il fruitore e per la critica specializzata.
Nell’epoca dello
zapping totale - ben evidente
nel nostro vagabondaggio
dalla tv allo schermo del pc e
fino al tablet nell’arco di pochi
minuti - non poteva essere
altrimenti.
Rimedi? Non v’è rimedio per
il paziente affezionato alla
propria patologia.
19
Pronta la rosa dei dodici finalisti
che venerdì 2 settembre si
sfideranno a Rovigo alla finalissima
della seconda edizione del
Festival regionale del monologo
Pillole di Teatro, promosso
da FITA Veneto con i suoi Comitati
provinciali e in collaborazione
con i Comuni ospitanti:
Adria, Bardolino, Cadoneghe,
Concordia Sagittaria, Treviso e
Vicenza.
Alla serata della finalissima,
organizzata con il sostegno di
Fondazione Rovigo Cultura, si
sfideranno dunque: Sara Agostini
della compagnia Magica
Bula ed Ermanna Terzo della
Compagnia Stabile Città Murata,
vincitrici della selezione
per Padova; Alberto Felisati
della compagnia CIC El Canfin
e Maurizio Noce di Proposta
Teatro Collettivo, per la provincia
di Rovigo; Pasqualina
Milano de La Caneva e Maura
Sponchiado di Arte Povera, per
la provincia di Treviso; Grazia
Feroce de La Goldoniana e Serena
Tenaglia de La Bottega,
per la provincia di Venezia; Antonio
Guardalben de La Bottega
delle Arti e Giovanni Vit de
La Graticcia, per la provincia di
Verona; Erica Castiglioni de La
Ringhiera e Massimiliano Parolin
de La Colombara, per la
provincia di Vicenza.
FESTIVAL
Per “Pillole di Teatro”
si vola verso la finale
sulle ali dei monologhi
Nato nel 2020 come iniziativa
provinciale di FITA Rovigo e divenuto
regionale nel 2021, il
Festival in sole due edizioni ha
subito riscosso vivo successo
sia tra gli iscritti FITA del Veneto
sia da parte del pubblico,
che ha seguito con passione le
selezioni regionali ed è ora atteso
alla finalissima. Qui, oltre
a un premio decretato proprio
dagli spettatori, una giuria tecnica
stabilrà il vincitore assoluto
dell’edizione 2022, che conquisterà
di diritto un posto tra
i finalisti di un festival nazionale
del monologo.
A tale riguardo, l’edizione 2021
del concorso ha portato molto
bene al Veneto, dato che il vincitore
della kermesse, Roberto
Pinato della compagnia Teatro
Insieme di Sarzano (Rovigo), ha
vinto anche il Festival Interrogionale
del Monologo promosso
da FITA Umbria e FITA Abruzzo,
con il brano Il professore,
tratto da Giù al nord di Antonio
Albanese.
Dall’alto, a sinistra: Guardalben,
Agostini, Milano, Castiglioni, Noce,
Tenaglia, Parolini, Vit,Terzo, Felisati,
Feroce e Sponchiado
20
DAL TERRITORIO
ROVIGO - Condotto da Armando Carrara
«Io sono Molière»
Sei compagnie in scena
per un percorso teatrale
TREVISO
Sei compagnie teatrali coinvolte
e ventuno attori in scena,
con la collaborazione artistica
del regista Armando Carrara,
per l’adattamento dei testi e
l’allestimento di Io sono Molière,
evento ideato da FITA Rovigo
per celebrare i 400 anni dalla
nascita del grande drammaturgo
francese. Organizzato con il
patrocinio del Comune di Rovigo
- Assessorato alla Cultura
e grazie al sostegno di Fondazione
per lo Sviluppo del Polesine,
lo spettacolo si è tenuto
domenica 29 maggio al Teatro
Duomo e ha concluso la quinta
edizione del Maggio Rodigino
promosso dalla Fondazione.
Da Il malato immaginario a Le
furberie di Scapino, passando
E un appuntamento
anche con Cuppone
Vent’anni da celebrare per Tra
Scuole e Teatro, il più longevo
festival polesano dei laboratori
teatrali dei ragazzi e delle
ragazze, che per l’occasione ha
proposto un’edizione speciale,
inserita nella cornice del Maggio
Rodigino.
Quasi 300 i giovani coinvolti,
con sette spettacoli al Teatro
Duomo dal 16 al 25 maggio. In
chiusura, il 28 maggio al Don
Bosco, due ospiti speciali: Traverso
Teatro, compagnia di giovani
attori professionisti, con lo
spettacolo Presente! e la Scuola
estiva di teatro educazione,con
una dimostrazione di lavoro.
Il Festival è stato organizzato
da FITA Rovigo, Associazione
Nexus, Noi Rovigo e Associazione
Zagreo, in collaborazione e
con il sostegno della Fondazione
Banca del Monte di Rovigo,
la partnership della Fondazione
per lo Sviluppo del Polesine e
Venerdì 22 aprile, nella sala della
Gran Guardia a Rovigo, il docente
universitario, attore e regista
Roberto Cuppone è stato il protagonista
della conferenza-lettura
Elomire estudiant - Molière apper
Le intellettuali: l’omaggio a
Molière si è snodato attraverso
alcune delle sue commedie più
famose, per raccontare anche
aneddoti e curiosità sulla vita e
il contesto storico dell’autore.
La produzione è stata il frutto
di alcuni mesi di formazione e
lavoro che hanno coinvolto sei
compagnie FITA: C.I.C. El Canfin
di Baricetta, Fuori di Scena e I
Girasoli di Rovigo, Proposta Teatro
Collettivo di Arquà Polesine,
Teatro Insieme di Sarzano e
Tic - Teatro Instabile di Creazzo
(Vicenza).
prendista (dei comici italiani),
organizzata da Fita Rovigo Aps
con il patrocinio del Comune -
Assessorato alla Cultura - per ricordare
i 400 anni dalla nascita
di Molière.
Tra Scuole e Teatro: vent’anni insieme
il patrocinio di Comune di Rovigo,
Agita, Ra.Re. e Uilt. Collaborazione
speciale anche con
l’Istituto De Amicis di Rovigo,
in particolare con la classe 3^
ITT e i docenti Alfredo Pierro e
Giuseppe De Biasi. I laboratori
partecipanti sono stati: Istituto
Traverso Teatro
di istruzione superiore Ferrari
di Este; Drama Club del Celio-
Roccati; Ic Rovigo 3 – Scuola
Casalini; secondaria di primo
grado Goldoni di Ceregnano;
Ics di Lendinara; Celio-Roccati
- Gic Giovani in cammino; Nati
dal nulla di Ferrara.
Biblioteca di Silea
e Fita Treviso
per un’estate
tra le pagine
FITA Treviso e Biblioteca di
Silea insieme per Storie sotto
gli alberi, una bella iniziativa
dedicata a famiglie e ragazzi,
inserita nella manifestazione
Qui si legge, organizzata da
undici biblioteche del Polo
BibloMarca a seguito della
vittoria del bando nazionale
Città che Legge - 2022.
Tre gli appuntamenti in programma,
«ideati – spiega Sladana
Reljic, presidente FITA
Treviso - da un gruppo di lavoro
di nostri associati, che si
sono messi in gioco per creare
percorsi di letture animate
con diversi temi, ma tutte
accomunate dal desiderio di
diffondere l’amore per la lettura».
Dopo l’avvio, sabato 9 luglio,
alla Biblioteca “Liberi Pensatori”
di Silea con Una montagna
di libri e parole, in compagnia
di Cappuccetto Verde e
dell’amica Verdocchia, sabato
6 agosto appuntamento
con La natura che danza con
te, al Porticciolo di Sant’Elena
alle 20.30 e alle 21.30.
Infine, sabato 10 settembre,
nel Boschetto Parco dei Moreri,
Salterellando con le favole
sempre in due turni, alle
20.30 e alle 21.30.
Ingresso libero. In caso di maltempo
gli spettacoli potrebbero
subire variazioni.
21
VICENZA
Teatro in Corso 2022
Socialità e leggerezza
per una bella edizione
Un dibattito sulla funzione sociale
della cultura e sul ruolo
del teatro, una maratona di
performance, una scelta di laboratori
e le selezioni per il festival
regionale del monologo
Pillole di Teatro. Questo il carnet
proposto dalla Festa del Teatro
2022 “Teatro In Corso”, iniziativa
promossa venerdì 10 e sabato
11 giugno da FITA Vicenza, già
organizzatrice di manifestazioni
ormai storiche come, tra le
altre, Teatro Popolare Veneto e
TeatroSei.
La Festa si è aperta venerdì 10
giugno al chiostro di San Lorenzo,
con una maratona teatrale
curata da compagnie associate
alla Federazione vicentina,
mentre sabato 11, sempre al
chiostro, si è tenuta la tavola
rotonda Dal teatro amatoriale
al teatro relazionale. La funzione
sociale della cultura ‘tra palco e
realtà’. Alla conversazione sono
intervenuti Nicoletta Martelletto,
vicecaporedattore de Il
Giornale di Vicenza e moderatrice
del dibattito, l’assessore alla
Cultura del Comune di Vicenza,
Simona Siotto, il vicepresidente
nazionale FITA, Aldo Zordan, la
consulente teatrale Annalisa
Carrara, il tessitore sociale e copromotore
di Vicenza Valore
Comunità Guido Zovico e l’imprenditrice
Kety Panni, co-promotrice
di Relazionésimo 2030.
L’incontro ha permesso di ribadire
come la cultura in tutte le
sue forme rivesta una funzione
fondamentale per la società.
La pandemia ha naturalmente
pesato molto anche su questo
fronte, richiedendo un particolare
impegno: sia per superare
la sedentarietà degli spettatori,
dopo tanti mesi di chiusura più
o meno accentuata; sia per consentire
la sopravvivenza anche
economica di artisti e compagni.
Essenziale, quindi, una riflessione
ancora più profonda sulla
funzione sociale del teatro, che
va ben oltre quella culturale.
Ecco perché - è emerso dalla
conversazione - parlare di teatro
relazionale può servire per
ri-connettere le varie funzioni
del teatro che, una volta comprese,
possono spingere persone,
organizzazioni e istituzioni
a scegliere di sovra-investire
22
nella riattivazione del sistema
teatrale, ampliandone e aggiornandone
il senso, il ruolo e la
funzione.
Pesanti le diffcoltà vissute da
tutti i settori durante la pandemia.
Alle esperienze del mondo
dell’informazione riportata da
Martelletto e della pubblica
amministrazione, nelle parole
dell’assessore Siotto, si sono
intrecciate quelle del teatro
amatoriale riportate da Zordan:
un mondo fondamentale sia sul
fronte sociale che su quello economico,
considerando l’indotto
che è in grado di movimentare.
Nella sua doppia veste di donna
di teatro e di organizzatrice,
Carrara ha ricordato al pubblico
le emozioni del recitare
e ha invitato a una riflessione
sulle motivazioni che inducono
Teatro Popolare
Veneto: una trentina
gli appuntamenti
fino a novembre
Bella 23ª edizione
per TeatroSei:
collaborazione
e buoni risultati
Successo per la 23ª edizione
di TeatroSei, rassegna organizzata
tra gennaio e febbraio
dall’Assessorato alla
Partecipazione del Comune
di Vicenza e dal comitato
provinciale FITA, con la collaborazione
delle compagnie
La Ringhiera e Lo Scrigno e
la partecipazione delle Parrocchie
di San Giuseppe e
San Lazzaro. Sei le compagnie
coinvolte: La Moscheta
di Colognola ai Colli (Verona),
Teatrotergola di Vigonza
(Padova), Compagnia
dell’Orso di Lonigo (Vicenza),
Teatroinsieme di Zugliano
(Vicenza), La Ringhiera di
Vicenza e Trentamicidellarte
di Villatora (Padova).
Compie 27 anni Teatro Popolare
Veneto, storica rassegna
organizzata da FITA Vicenza con
il patrocinio di Fita Veneto e il
sostegno dei Comuni ospitanti.
Una trentina le date, in programma
fino al 26 novembre, ma con
un cartellone aperto, al quale
all’impegno teatrale. Stimolante
anche l’intervento di Zovico,
che ha sottolineato il disagio
creato dalla pandemia tra i giovani
e i giovanissimi: un tessuto
di relazioni da ricostruire, sul
quale l’amatorialità può giocare
un ruolo importante. Panni,
infine, ha introdotto il concetto
di “relazionésimo” che muove
la sua azione di imprenditrice e
creatrice di eventi, nella cui formazione
il teatro ha avuto un
ruolo non secondario.
Nel pomeriggio, la Festa è proseguita
con laboratori aperti
alle compagnie FITA e alla cittadinanza
nel quartiere Barche,
dove si trovano le sedi di FITA
Vicenza e Veneto e uno dei
FITA Point della rete nazionale,
spazi di incontro per chi ama il
teatro. Come guide dei laboratori
sono stati coinvolti Michela
Negro per il teatro-danza, Sara
Tamburello per il ritmo teatrale
e Vittorio Savegnago per la
giocoleria.
In serata, di nuovo nel chiostro
di San Lorenzo, selezione provinciale
del festival di FITA Veneto
Pillole di Teatro, con tredici
interpreti sul palco.
potrebbero aggiungersi nuovi
appuntamenti. Una ventina i
Comuni e così pure le compagnie
coinvolte al momento, protagoniste
di un cartellone molto vario.
Aggiornamenti sul programma
sono disponibili nella pagina
Facebook Fita Vicenza.
Tanti cari amici da ricordare
Ci sono degli amici da ricordare, persone che hanno lasciato un
grande vuoto nella famiglia FITA Veneto. In questa pagina dedichiamo
un pensiero particolare a quattro di loro.
Franco Bellin, della compagnia Amici del Teatro di Noventa Vicentina,
scomparso lo scorso gennaio: un “esploratore” del teatro,
maestro per tanti giovani, attore e regista raffnato e già vicepresidente
di Fita Vicenza.
Valerio Dalla Pozza, della compagnia Astichello, segretario e tesoriere
di Fita Veneto: un uomo solare, generoso e pieno di energia,
che ci ha lasciati troppo presto nell’agosto del 2021.
Roberto Puliero, veronesissimo regista e attore della compagnia
La Barcaccia, straordinario interprete goldoniano per tanti anni ai
vertici del teatro amatoriale, se n’è andato nel novembre 2019.
Infine Luigi Lunari, che si è spento improvvisamente nell’agosto
2019, lasciandoci una cospicua eredità sia di copioni sia di saggi
che manterranno vivo il suo geniale spirito in futuro.
COMITATO REGIONALE VENETO
Stradella delle Barche, 7 - 36100 Vicenza
Tel. 0444 324907
fitaveneto@fitaveneto.org
www.fitaveneto.org
Comitato di Padova
Via Gradenigo, 10 - 35121 Padova
c/o Centro Servizi per il Volontariato
Tel. 049 8686849
fitapadova@libero.it
Comitato di Rovigo
Viale Marconi, 5 - 45100 Rovigo
Cell. 349 4297231
fitarovigo@gmail.com
Comitato di Treviso
Sede operativa Via Calmaggiore 10/4
(Palazzo del Podestà) - 31100 Treviso
Cell. 334 7177900
info@fitatreviso.org
www.fitatreviso.org
Comitato di Venezia
Cannaregio, 483/B - 30121 Venezia
Tel. 041 0993768 - Cell. 340 5570051
fitavenezia@libero.it
Comitato di Verona
Via Santa Chiara, 7/B - 37129 Verona
Cell. 328 2263682
verona.fita@gmail.com
Comitato di Vicenza
Stradella delle Barche, 7/a - 36100 Vicenza
Tel. 0444 323837
fitavicenza@libero.it
I «numeri» di Fita Veneto
Conta al proprio interno:
- 1 Comitato regionale
- 6 Comitati Provinciali
- 242 compagnie
- 5000 soci
Organizza il Festival Nazionale Maschera d’Oro
Partecipa all’organizzazione del Premio Faber Teatro
Promuove direttamente o tramite le compagnie associate
più di un centinaio di manifestazioni annue
Le compagnie associate effettuano più di 5.000 spettacoli
annui, molti dei quali rivolti al mondo della scuola, alla
solidarietà e in luoghi dove solitamente è esclusa l’attività
professionistica
Coinvolge più di 1.600.000 spettatori
Per gli studenti delle scuole superiori organizza il concorso
di critica “La Scuola e il Teatro” e il premio per laboratori
teatrali “Teatro dalla Scuola”
Organizza stages, seminari, incontri, corsi di formazione
Pubblica il trimestrale online Fitainforma e il volume annuale
Fitainscena con il repertorio delle compagnie
Svolge un servizio di editoria specifica teatrale e gestisce
una biblioteca di testi e una videoteca
Gestisce il sito internet www.fitaveneto.org
e una pagina Facebook
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