Gente di Fotografia #72

72

Sì! Desidero sottoscrivere un abbonamento a 

Gente di Fotografia con la seguente modalità: 

❑ Abbonamento 4 numeri € 64,00 + 1 libro omaggio o 1 numero arretrato + 

contributo fisso spese di spedizione di € 6,00 = € 70,00 

❑ Abbonamento 8 numeri € 128,00 + 2 libri omaggio o 2 numeri arretrati + 

contributo fisso spese di spedizione di € 10,00 = € 138,00 

ed. 72 

ITALIA 

www.gentedifotografia.it 

Allego copia della ricevuta di pagamento eseguito tramite: 

❑ 

❑ 

❑ 

Bonifi co bancario su c/c intestato a Editoriale Moda s.r.l. 

Banco BPM Ag. 3 Modena - IBAN IT 34 X 05034 12903 000000004952 

: visitare il sito www.gentedifotografi a.it alla sezione “abbonamenti” 

C/C Postale n. 11238417 intestato a 

Editoriale Moda s.r.l. - Via Giardini 476/N - 41124 Modena 

Nome ........................................................................................................................................... 

Cognome...................................................................................................................................... 

Indirizzo ........................................................................................................................................ 

CAP................... Città............................................................................................ Prov................ 

e-mail ........................................................................................................................................... 

Tel. ...................................................................................................... data.................................. 

❑ 

❑ 

❑ 

Non desidero ricevere il libro o l’arretrato omaggio 

Scelgo in omaggio il libro o l’arretrato e mi accollo il 

contributo spese di spedizione di € 6,00 

Scelgo in omaggio i libri o gli arretrati e mi accollo il 

contributo spese di spedizione di € 10,00 

Barrare, per la scelta dei libri, la casella corrispondente 

❑ Con i suoi occhi ( T. Siracusa) 

❑ Sulle ali della farfalla (E. La Bianca) 

❑ Guardami dentro (G. Interlandi - R. Strano) 

❑ Labirinti (Vincenzo Mirisola) 

❑ Ritratti al plurale (V. Marzocchini) 

❑ Natura (Francesco D’Alessandro) 

❑ Napoli Mare (Carlo Desideri) 

❑ Passi (Franco Ferro) 

❑ Riva (Carlo Desideri) 

❑ A 20 millimetri dal mondo (Marco Cuppini) 

❑ Sila (Autori Vari) 

❑ Attorno a una poesia di Mario Giacomelli (V. Marzocchini) 

❑ Somewhere (Luisa Menazzi Moretti) 

Questo coupon deve essere inviato via posta a: 

Editoriale Moda s.r.l. 

Via Giardini 476/N - 41124 Modena 

oppure trasmesso via e-mail a: abbonamenti@gentedifotografia.com 

I suoi dati fanno parte dell'archivio elettronico di Editoriale Moda s.r.l. nel rispetto del GDPR 

REGOLAMENTO EUROPEO 16/679. Non saranno oggetto di comunicazione o diffusione a terzi. È nel 

Suo diritto richiedere la cessazione e/o l'aggiornamento dei dati in nostro in possesso. 

Yes! I wish to subscribe to Gente di Fotografia magazine: 

❑ Europa € 85 (4 issues) 

❑ 

❑ 

America € 90 (4 issues) 

Rest of the world € 105 (4 issues) 

I attached proof of payment: 

❑ 

❑ 

Bank transfer to Editoriale Moda s.r.l. 

Banco BPM Ag. 3 Modena - Italy 

IBAN IT 34 X 05034 12903 000000004952 - Swift code: BAPPIT21413 

: visit the website www.gentedifotografi a.it/en/abbonamenti 

(english version) 

ed. 72 

WORLDWIDE 

First name .................................................................................................................................... 

Last name..................................................................................................................................... 

Address ........................................................................................................................................ 

Zip-Code................. City................................................................................ Country.................. 

e-mail ........................................................................................................................................... 

Phone number ................................................................................. date..................................... 

Please send completed form by mail to: 

Editoriale Moda s.r.l. - Via Giardini 476/N - 41124 Modena (Italy) 

or by e-mail to: abbonamenti@gentedifotografia.com 

Your personal information is part of Editoriale Moda s.r.l.'s electronic database and handled in full 

compliance with EU GDPR REGULATION PRIVACY 16/679. This information will not be the object 

of communications and/or will be shared with third parties. You have the right to request that we stop 

and/or update the data in our possession. 

SCEGLI SUL SITO 

I LIBRI OMAGGIO

ABBONATI a 

Metti a fuoco i tuoi vantaggi 

72 

ANNO XXIV - N.71 - € 14,00 

ANNO XXIV - N.70 - € 14,00 

73 

Formula VANTAGGIO 

Risparmio immediato di € 8,00 

4 numeri € 64,00 invece di € 72,00 

+ 1 libro omaggio o 1 arretrato 

Nessun numero perso. Prezzo bloccato. 

(+ contributo spese postali € 6,00) 

Formula FEDELTÀ 

Risparmio immediato di € 16,00 

8 numeri € 128,00 invece di € 144,00 

+ 2 libri omaggio o 2 arretrati 

Nessun numero perso. Prezzo bloccato. 

(+ contributo spese postali € 10,00) 

Informazioni: Uffi cio Abbonamenti Tel. +39 059 340533 - abbonamenti@gentedifotografi a.com

GENTE DI FOTOGRAFIA 

Numero 72, Marzo 2019 

Anno XXV, 

Periodico iscritto al ROC n. 5867 

Casa Editrice 

GENTE DI FOTOGRAFIA EDIZIONI 

Editoriale Moda s.r.l. 

Via Giardini 476/N 

41124 Modena 

Sede amministrativa 

Via Giardini 476/N - 41124 Modena 

Tel. +39 059 340 533 

info@gentedifotografia.com 

Redazione 

Viale della Vittoria, 180 

92020 Grotte (AG) 

redazione@gentedifotografia.com 

Ufficio Abbonamenti 

Melissa Bosi 

Tel. +39 059 340 533 

abbonamenti@gentedifotografia.com 

Stampa: 

Formagrafica - Carpi (MO) 

Editore e Amministratore 

Ettore Zanfi 

Direttore Responsabile 

Giovanni Taglialavoro 

© Tutti i diritti riservati 

Periodico Trimestrale di cultura fotografica 

distribuito per abbonamento, 

nelle librerie specializzate. 

Notizie e materiale da pubblicare 

possono essere inviati a Gente di 

Fotografia, Viale della Vittoria 180, 

92020 Grotte (AG). La redazione non 

è responsabile delle fotografie e dei 

testi inviati per la pubblicazione. L’unica 

responsabilità è degli autori. Il materiale 

non espressamente richiesto non viene 

restituito e l’invio implica il consenso 

alla libera pubblicazione. Tutto il lavoro 

redazionale e le collaborazioni a Gente di 

Fotografia sono a titolo gratuito. L’editore 

garantisce la massima riservatezza dei dati 

forniti dagli abbonati e in suo possesso. 

Gli interessati hanno in ogni caso diritto 

di richiederne gratuitamente la veritica, la 

rettifica o la cancellazione nel rispetto del 

GDPR REGOLAMENTO EUROPEO 16/679. 

Abbonamento annuale 

per 4 numeri 

Italia €. 64 

Europa €. 85 

America €. 90 

Resto del mondo €. 105 

Prezzo singola copia: €. 18,00 

Prezzo arretrati singola copia: €. 14,00 

Direttore 

Franco Carlisi 

Vice Direttore Scientifico 

Alessandra Ciarcia 

Vice Direttore Editoriale 

Antonella Monzoni 

Coordinatore Editoriale 

Giusy Randazzo 

Comitato Editoriale 

Dario Carere, Luigi Cavagnaro, Saverio Ciarcia, 

Leonardo Distaso, Andrea Ferroni, Salvatrice L. Graci, 

Sergio Labate, Oscar Meo, Pippo Pappalardo 

Comitato scientifico 

Salvatore Bartolotta (UNED de Madrid) 

Alberto Giovanni Biuso (Università degli Studi di Catania) 

Saverio Ciarcia (Università degli Studi di Napoli Federico II) 

Milagro Martín Clavijo (Universidad de Salamanca) 

Vittorio Iervese (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) 

Sergio Labate (Università degli Studi di Macerata) 

Oscar Meo (Università degli Studi di Genova) 

Ines Testoni (Università degli Studi di Padova) 

Simona Venezia (Università degli Studi di Napoli) 

Hanno collaborato a questo numero: 

Fabiola Di Maggio, Giovanna Gammarota, 

Emanulele E. Mariani, Debora Randisi, 

Alessandro Trabucco 

Tutti i testi sono sottoposti a Peer Review 

Direttore Artistico 

Luca Manfredi 

Progetto Grafico 

Silvia Manfredi 

Partner Editoriale 

Antonio Carloni

72 

© Olga Shpak 

Editoriale 

Franco Carlisi 08 

Portfolio 

Olga Shpak 

NATURA MORTA CON PERSONE 10 

Saverio Ciarcia 

Snezhana Von Büdingen 

LINEA DI CONFINE 22 

Sergio Labate 

Ciro Battiloro 

NEL MICROCOSMO 

DEL RIONE SANITÀ 32 

Oscar Meo 

Enrico Genovesi 

NOMADELFIA – FAMIGLIA 

DI FAMIGLIE 42 

Dario Carere 

Valentina Casalini 

INCREDIBLY CLOSE 49 

Debora Randisi 

Michele Di Donato 

THE SOUND OF SILENCE 56 

Giusy Randazzo 

Pierfranco Fornasieri 

SECONDE STORIE 62 

Alessandra Ciarcia 

Lucia Sekerková Bláhová 

LE STREGHE DEL TERZO 

MILLENNIO 70 

Saverio Ciarcia 

Close Up 

Franco Carlisi intervista 

MICHELE SMARGIASSI 79 

Retrospettiva 

VITTORE FOSSATI 

E LA FOTOGRAFIA COME 

APPARENZA 84 

Giovanna Gammarota 

Libri 

Lorenzo Castore 

EWA & PIOTR 88 

Pippo Pappalardo 

Samuele Bianchi, 

Simone Letari 

Simona Lunatici 

SEDIMENTO 96 

Alessandro Trabucco 

Giuseppe Mastromatteo 

HUMANSCAPE 104 

Salvatrice L. Graci 

Carlo Riggi 

RAREFACTION 112 

Fabiola Di Maggio 

Mostre 

Jamie Diamond, 

Elena Dorfman 

SURROGATI. UN AMORE IDEALE 

CREATURE PROUSTIANE 118 

Alberto Giovanni Biuso 

Pentti Sammallahti 

DES OISEAUX 128 

Emanuele E. Mariani 

Premi 

PREMIO VOGLINO 2018 

IV EDIZIONE 132 

Emanuele E. Mariani 

Fiere 

MIA PHOTO FAIR 2019 140 

7 GENTE di FOTOGRAFIA

EDITORIALE 

Dovendo realizzare un’intervista scritta per la rubrica Close 

Up, cercavo domande ingenue per stimolare in cambio 

risposte interessanti. Tiravo fuori, nonostante lo spirito di 

abnegazione, concetti dall’aria ordinaria e dimessa. Idee 

usurate che mi tornavano in mente solo per contraddirle. 

E domande che non esigevano alcuna risposta. Forse perché 

l’argomento da trattare –la fotografia– quando pensi di 

averlo afferrato, si disfa tra le mani. Ma ancor più perché, 

con gli anni, il dubbio si è insinuato nella compattezza delle 

mie idee, mi ha reso sempre meno impermeabile alle incertezze, 

più fragile nelle mie convinzioni e mi ha costretto 

a ridefinirmi. Ho finito così per indossare sempre meno gli 

stivali del categorico preferendo alle affermazioni stentoree, 

alle battute efficaci l’inferenza di un ragionamento, di un 

discorso documentato. Riconosco in questa debolezza una 

delle più deleterie inclinazioni del mio carattere. Infatti, 

guadagnerei sicuramente nella considerazione altrui se anziché 

sospendere il giudizio per intervenuti ragionevoli dubbi, 

mi abbandonassi secondo la consuetudine del momento 

alla sicumera più esclamativa. Oppure, se potessi trattare le 

passioni, le fisime, le increspature salutari del pensiero con 

parole addomesticate e con esse avere certezze da spendere. 

È la grande questione del rapporto tra le parole e la vita. 

Lo so. Me ne faccio una colpa. Ma, in questo caso, ho delle 

attenuanti: scrivo in uno stato di letargica sospensione con 

soprassalti di disobbedienza isterica quando, mio malgrado, 

mi ritrovo a pensare secondo la spiccia disinvoltura del 

“pensiero comune” avendo come unici interlocutori una tastiera 

impaziente e lo schermo del computer. 

Voglio comunque tranquillizzare il lettore: alla fine, l’intervista 

risulta molto interessante grazie alla qualità dell’intervistato. 

Tuttavia, tornando alla mia esperienza vorrei contraddire 

una vulgata giornalistica: pare che realizzare un’intervista 

metta un fremito di eccitazione voyeuristica. Sarà. Nel mio 

caso me ne viene un tedio da serrarmi gli occhi in segno di 

resa incondizionata alle narcotiche e ondulatorie perplessità 

del pensiero. Mi vedo così, per un tempo indefinito, sonnambulo 

funambolo in precario equilibrio sulla corda che 

oscilla tra il dubbio e la verità, prima di riaprire gli occhi 

sulla mia immagine specchiata dallo schermo in pausa. Incredulo, 

non mi riconosco. Com’è possibile che la mia immagine 

mentale che è sempre ferma, nella realtà si sia così 

radicalmente trasformata? E queste parentesi qui? Quando, 

precisamente, sono comparse? Che mi sia consumato per 

l’insistenza in un lavoro così ingrato? C’è qualcosa che è rimasto 

immobile. Gli occhi, dicono. Pare che i bulbi oculari 

rimangano tal quali. Solo più profondi, più intensi. Il tempo 

ci usura e spesso ci migliora in un processo di invecchiamento 

ed evoluzione. 

Siamo in divenire. Persino la lingua si evolve. Lo asseriva 

già Dante Alighieri. Ed è vero. Tutto evolve. Il cambiamento 

è in noi. Nel tempo che siamo. Anche la bellezza muta, condizionata, 

come sosteneva Umberto Eco, dai canoni sempre 

nuovi dell’epoca in cui viviamo. Se non fosse così non potremmo 

più parlarne e finiremmo per negarla o assolutizzarla 

con affermazioni che «si fondano sulla presunzione della 

oggettività e immutabilità del valore estetico» 1 . 

Tutto scorre, lo sappiamo dal tempo della scuola. Ci muoviamo 

insieme a tutto ciò che ci circonda. E se la fotografia è 

GENTE di FOTOGRAFIA 8 - EDITORIALE

il risultato del rapporto del fotografo col mondo, ovviamente 

questa relazione non può essere mai statica, neutrale. 

Un mio amico fotoreporter da oltre venti anni sostiene di 

muoversi all’interno delle coordinate bressoniane; condanna 

la democratizzazione degli istanti che rende retorica tanta 

fotografia e ribadisce l’importanza del momento decisivo. Come 

dargli torto. Tuttavia quando qualcuno definisce belle le sue 

fotografie, si difende. Convinto com’è che la fotografia debba 

essere buona e basta. Chissà se Henri Cartier Bresson approverebbe. 

Anche adesso che dalle sue foto sono quasi sparite 

le forme e il mosso ha invaso la scena, il mio amico si ostina 

ad assolutizzare il buono come unica categoria estetica ascrivibile 

alla fotografia. Insomma, alla sua fotografia è accaduto 

quel che è successo a me davanti allo specchio. È cambiata 

dando rappresentazione ai mutamenti del suo aspetto, della 

sua psiche, della sua visione del mondo, in maniera silente e 

impercettibile mentre lui continua a scomodare Bresson. 

Si evolve la fotografia come la bellezza. E si adatta a un cambiamento 

della società senza precedenti che non è solo evoluzione 

tecnologica ma riguarda anche i comportamenti, le 

pratiche relazionali, le forme di percezione e di conoscenza. 

Rafforza la sua presenza nella nostra vita –la fotografia– moltiplicando 

i suoi significati, i suoi usi, i suoi obiettivi. E se pure 

la vediamo sempre più attestata nella rappresentazione della 

finzione, del verosimile, continuiamo a riconoscerle un rapporto 

privilegiato con il reale. Solo che la percezione di quello 

che noi chiamiamo “reale” oggi è cambiata. L’evoluzione 

della tecnica ha permesso di allargare i confini del reale che 

ora straripa nel virtuale. C’è qualcuno qui disposto ad affermare 

che il virtuale non sia reale? E se si obietta che il reale 

è il concreto, be’, bisognerebbe allora rispondere che l’amore 

è astratto eppure è quanto di più reale esista. Viviamo un 

presente che si è fatto molteplice e frantumato nei mutevoli 

presenti ai quali si può ricondurre la nostra esperienza concreta 

e nello stesso tempo virtuale. Viviamo un qui e là che 

sono sullo stesso piano, sono lo stesso spazio in cui abitiamo. 

Confidiamo nel flusso infinito di immagini cui siamo sottoposti 

per poterci avvicinare di più al mondo mentre in realtà ce 

ne allontana confinandoci in un’astrazione dal concreto che 

ci disorienta e nel contempo ci affascina e ci rapisce. 

La fotografia si è fatta contagiare da questo desiderio diffuso 

di superare il perimetro del concreto. Non è più copia del reale 

e forse non lo è stata neanche quando ha preteso di esserlo. 

È essa stessa una forma nuova del reale, consustanziale alla 

nostra esperienza di vita, concreta e virtuale insieme. 

E questa rivista? Anche Gente di Fotografia si evolve e si avvia 

verso un nuovo corso con una veste grafica rinnovata e 

con una più ricca proposta di contenuti; determinata a stare 

dentro il presente in maniera problematica e analitica, senza 

fantasie di fuga. Se la fotografia è un universo mutevole dai 

confini fluidi e labili che chiede di essere esplorato e abitato, 

in questo universo ci muoveremo senza mete precise o mappe 

tracciate. Conosceremo percorsi provvisori, rotte inesplorate, 

giri a vuoto e approdi utopici, nell’isola che non c’è. 

Franco Carlisi 

1 

U. Eco, Opera aperta (1962), Bompiani, Milano 2009, p. 88. 


PORTFOLIO 

NATURA MORTA CON PERSONE. Gli inglesi la 

di SAVERIO CIARCIA 

chiamano still life, letteralmente “vita 

immobile”, per noi è invece natura morta. 

L’italiano infatti non sottolinea l’aspetto fenomenico immediato, 

ma la causa prima, il fatto cioè che la stasi completa, assoluta, 

corrisponde alla morte. La vita è, all’opposto, movimento, continuo 

divenire: lo sosteneva Eraclito e lo ricordava più di recente 

Luciano De Crescenzo in un suo aureo libretto di qualche anno 

fa. La natura morta è comparsa relativamente tardi nell’arte 

OLGA 

SHPAK 

occidentale, alla fine del 

Cinquecento. Fino ad allora, 

dagli affreschi romani alle 

pale d’altare provenienti 

dalle Fiandre, dalle rapide 

pennellate stese sull’intonaco fresco alla finissima esecuzione 

a olio dei quadri fiamminghi, la natura si era limitata a costituire 

il prezioso tappeto su cui disporre i personaggi e fermare 

gli eventi: Fauni e Ninfe, Madonne e Santi, Angeli svolazzanti e 

Agnelli mistici avevano calpestato leggeri o sorvolato in gloria 

prati formati da sottili fili d’erba e fiori più o meno simbolici, la 

cui puntigliosa identità serviva soltanto a creare la cornice più 

adatta alla pia celebrazione di tanto compunti committenti. 

GENTE di FOTOGRAFIA 10 

PORTFOLIO

© Olga Shpak 


Caravaggio ha l’ardire di porre in primo piano, protagonista assoluto 

proprio all’altezza degli occhi, un cesto di frutta in parte 

appassita e con il baco che dall’interno 

già insidia silenzioso la mela: segno evidente 

di un disfacimento ormai avviato, 

in cui la ricchezza di frutti (e di vita) è 

già irrimediabilmente compromessa e 

cela in sé, come dato costitutivo originario, 

un destino di morte. Alla sua Canestra 

di frutta si aggiungono “più” o meno 

nello stesso “periodo” le alzate con frutti 

e fiori soffusi di malinconia di Fede Galizia, 

gli strumenti musicali con spartiti 

stropicciati di Evaristo Baschenis e gli 

ironici “ritratti” di Giuseppe Arcimboldi. 

Oggi con still life si intende anche una tecnica 

fotografica consistente nel disporre 

oggetti inanimati su sfondi artificiali o 

superfici naturali in modo da creare giochi 

di forme e di luci. 

Tutto questo è ben noto: ma che a qualcuno 

potesse venire in mente di realizzare 

nature morte usando persone vive non 

era affatto scontato. Olga Shpak, giovane 

fotografa russa di Novosibirsk, prova a 

trasformare i suoi modelli in elementi immobili 

di una rappresentazione che non 

vuol essere un ritratto in senso tecnico 

e tradizionale, ma un fermo immagine 

di ermetiche scenografie teatrali. Tanto 

più che raramente le foto riguardano 

i singoli, più spesso sono molti i soggetti 

contemporaneamente coinvolti in scene 

di gruppo. Le figure appaiono “congelate” 

in pose artificiose, senza alcun chiaro 

legame psicologico tra l’una e l’altra, 

non suggeriscono un racconto, magari 

bruscamente interrotto e, soprattutto, 

non comunicano le qualità interiori degli 

individui coinvolti: perciò queste pose 

statiche non sono, per l’autrice, “ritratti”. 

Racconta Olga, in una recente intervista, 

che vide da bambina una foto de La 

Pietà di Michelangelo, un primo piano 

del volto della Vergine: quel viso di Madonna 

così giovane, dolce ed espressivo 

le è rimasto impresso e forse ancora tenta 

inconsciamente di riprodurre nei suoi 

scatti, scrutando nello sguardo delle sue 

modelle, quel volto, quella profonda e 

segreta armonia. Racconta anche altro: 

che adora la pittura, la scultura e il cinema 

(il suo regista preferito è Ingmar 

Bergman) e che sognava di fare la ballerina. 

Nel balletto, sono le scene di gruppo 

ad attirarla, quelle in cui molti corpi si 

muovono in perfetta sincronia. Ama gli 

spazi ristretti in cui la luce, naturale o 

artificiale che sia, disegna letteralmente 

i soggetti. E controlla con maniacale 

precisione ogni dettaglio delle inquadrature. 

Olga è una perfezionista: il suo 

è un lavoro di squadra, in cui ciascuno, 

dalla truccatrice allo stilista, deve saper 

interpretare il modo in cui lei immagina 

l’insieme del quadro e la sua minuziosa 

cornice. Non ama trucchi e costumi semplici: 

sa per innata sensibilità, e per ragioni 

professionali, che esiste un linguaggio 

preciso del corpo, un linguaggio fatto di 

“segni” anche fortemente simbolici. E sa 

che, superato il livello dei colori direttamente 

applicati alla pelle, il nostro corpo 

lo proteggiamo e lo decoriamo attraverso 

gli abiti: che non solo definiscono i ruoli, 

ma sono capaci di raccontare intere esistenze. 

Senza voler scomodare l’autorità 

di McLuhan (operazione non priva di rischi, 

come sottolineava anni fa l’ironia di 

Woody Allen) e la sua tesi “il medium è 

il messaggio”, proviamo solo per un momento 

a ricordare una delle scene finali di 

Valmont, magnifico film di Miloš Forman 

tratto dal romanzo Le relazioni pericolose di 

Choderlos De Laclos. Il film è ambientato 

nella Francia opulenta e decadente 

degli anni immediatamente precedenti 

la Rivoluzione, tra lussuosi salotti aristocratici 

e sfarzose tenute di campagna. 

Nel fastoso matrimonio finale, celebrato 

addirittura nella cappella reale di Versailles 

alla presenza dei sovrani, il regista 

si sofferma sul prezioso abito indossato 

dal maturo sposo, il conte di Gercour, 

in raso blu arricchito da pesanti fasce e 

da ricami scintillanti in oro. È un abito 

che racconta il potere e la sua ostentata e 

ricercata appariscenza, l’incolmabile distacco 

tra popolo e nobili, un mondo ormai 

al tramonto che continua a danzare 

sulla tolda di una nave che affonda. Ma 

anche oggi la moda, come insegna Vogue 

insieme con le consorelle prestigiose riviste 

di settore, racconta il nostro tempo, 

le nostre aspirazioni e persino le nostre 

idiosincrasie. Vi meravigliate se vi dico 

che la Shpak è un’apprezzata fotografa di 

moda? Che è per lavoro abituata a trattare 

con truccatrici, parrucchieri, stilisti e 

costumisti? Che le ambientazioni e i vestiti 

li sceglie e, soprattutto, li paga da sé: 

perciò non ci dorme la notte, al pensiero 

del più piccolo errore? 

Da tanto lavoro ecco infine emergere 

sontuose sinfonie barocche impreziosite 

da misteriosi echi botticelliani: pose estatiche 

di fanciulle con abiti inghirlandati 

che fanno tutt’uno con i mazzi di fiori disposti 

nei vasi o sul tavolo alla maniera 

sapiente di Chardin, con i tagli diagonali 

e le increspature delle tovaglie di lino 

appena stese e ancora fresche di bucato; 

sguardi persi nel vuoto, che non si incontrano 

mai e sono dunque incapaci di generare 

un qualunque effettivo dialogo, a 

dispetto persino dei reciproci gesti bloccati 

a mezz’aria. Il viso di una modella delicato 

e terso, ma cosparso di lentiggini, le 

labbra socchiuse accanto al giallo intenso 

di una cotogna, così matura da mostrare 

già qualche piccola imperfezione; palme 

rivolte all’insù di giovani corpi avvolti in 

teli da bagno, intenti a fissare un pesce 

privo di vita con un atteggiamento d’abbandono, 

che ricorda La Morte di Marat 

di Jacques-Louis David. Ma anche corpi 

ignudi, dalle plastiche forme scultoree, 

che sembrano voler riprodurre il capolavoro 

futurista di Umberto Boccioni, Forme 

uniche nella continuità dello spazio. Membra 

vigorose, eppure contorte in abbracci 

che non nascondono tumefazioni e ferite, 

del corpo e dell’anima, persino i segni dei 

fori prodotti dagli aghi di siringhe, dolorosamente 

esposti da un Cristo alla colonna 

che assurge a icona terribile di una delle 

piaghe peggiori del nostro tempo: nel silenzio, 

il baco continua a scavare. 

GENTE di FOTOGRAFIA 12 - PORTFOLIO

© Olga Shpak 


GENTE di FOTOGRAFIA 14 - PORTFOLIO 

© Olga Shpak

© Olga Shpak 



© Olga Shpak

© Olga Shpak 


© Olga Shpak 


PORTFOLIO

© Olga Shpak 



© Olga Shpak

© Olga Shpak 


PORTFOLIO 

LINEA DI CONFINE. Ci sono tanti sguardi con cui 

di SERGIO LABATE 

ammirare questo progetto fotografico 

di Snezhana Von Büdingen. La prima 

volta che mi ci sono soffermato, ho pensato semplicemente 

che ciò che è l’oggetto –se mai vi è un oggetto della fotografia– 

di queste foto sia il gioco nascosto tra l’esterno e 

l’interno. In questo caso viene sinotticamente mostrato ciò 

che l’esterno 

custodisce 

e annuncia. 

Ciò di cui è fatto. 

L’esterno appunto: 

qualcosa che si mostra e mostrandosi non mostra ciò per cui 

si mostra. In un gioco quasi kantiano, la fotografia qui svela 

l’in sé del fenomeno, ciò che si annuncia in ciò che appare 

ma che, proprio per questo, non appare. Così la sinossi 

diventa poesia. Perché ciò che appare confonde le acque, 

dissimula, si presenta per quel che è: una mera finzione, 

nient’altro che questo. Non c’è alcuna continuità tra l’annuncio 

dell’esterno e ciò che l’interno contiene. Alcuna misura, alcuna 

logica. Quel che ci attende dentro non è come ci si aspetta che 

sia. Il rapporto tra l’esterno e il suo interno è di totale estraneità. 

C’è una linea che li unisce, nella foto. 


PORTFOLIO

© Snezhana von Büdingen, dalla serie Khrushchevka 

Ma quella linea non è una soglia, è 

un confine. Non unisce ciò che immaginiamo 

separato, ma separa ciò che 

immaginiamo (o semplicemente ogni 

volta speriamo) unito. Un’architettura 

delle nostre stesse vite, si potrebbe definire. 

Ma poi, d’improvviso, ho pensato che 

queste foto si potrebbero guardare al 

contrario. Da destra a sinistra, dall’interno 

all’esterno. Rovesciando un primato 

gnoseologico che assegna invece 

alla nostra interiorità il posto nascosto, 

il ruolo mistico di ciò che è essenziale, 

l’in sé di cui il mondo è solo un indizio. 

Che funziona come se l’anima degli 

edifici fossero le case, l’anima delle 

case le stanze, l’anima delle stanze i 

corpi. Non che rovesciare tutto questo 

serva a cambiare il risultato. Se anche 

cerchiamo l’in sé del nostro interno nelle 

sue sembianze esterne, quel che resta 

è quella linea che frattura. Un affanno 

che non abbandona il nostro corpo, 

anche se cerchiamo di rianimarlo 

dandogli una forma, un carattere, una 

spiritualità. Finiamo per non riconoscerlo 

se non a stento e in qualche raro 

momento in cui l’unità di noi stessi ci 

ferisce nella sua instabile perfezione. 

Finiamo per non riconoscerci. Ma se 

anche il risultato non si modifica, c’è 

una forma di liberazione (o, più semplicemente, 

di sorpresa) che lo sguardo 

al contrario percepisce in queste foto. 

Uscire per un attimo dalla frustrazione 

dell’interiorità. Pensare il mondo 

al contrario: cercare l’essenziale nella 

superficie, annusare il nostro in sé nei 

nostri corpi e non più nella nostra anima. 

Risalire il gioco dell’universo da noi 

stessi alle nostre stanze e poi alle case e 

poi, alla fine o all’inizio, a ciò che appare 

nel mondo. Semplicemente per quel 

che è. Non c’è niente di nascosto in noi 

stessi e nel mondo. E ciò che non si vede 

annuncia ciò che già si vede, che è già 

annunciato al nostro sguardo. La miseria 

stessa del mondo appare adesso 

come il suo tutto. 

Non so quale dei due sguardi sia più 

vero e soprattutto se ve ne sia uno più 

vero e magari più giusto. Quel che so è 

che solo l’arte può accostare ciò che è 

destinato a restare sempre separato. La 

fotografia appare qui nella sua misura 

compassionevole, come uno sguardo di 

dio posato sulle case e capace di rendere 

compresente ciò che il nostro sguardo 

misero non sa fare. Far vedere ciò 

che possiamo solo guadagnare con uno 

sforzo d’immaginazione, un salto dentro 

il visibile che si nasconde nei nostri 

occhi chiusi. Non c’è nulla di più poetico 

della realtà, si direbbe. Persino nella 

profonda e decadente Russia. 














PORTFOLIO 

NEL MICROCOSMO DEL RIONE SANITÀ. 

di OSCAR MEO 

Dalle foto scattate da Ciro 

Battiloro nel napoletano Rione 

Sanità emergono evidenti le qualità affettive dei 

popolani che lo abitano, la loro fragilità esistenziale, 

l’intensa risonanza corporea della situazione 

emotiva specifica. 

Ricorrendo a un termine utilizzato da Gilles 

Deleuze in Cinéma I per illustrare le caratteristiche 

della cinematografia espressionista, potremmo 

dunque parlare, a proposito della viva reminiscenza 

del naturalismo neorealista presente in 

Battiloro, di un’“immagine–affezione” nella quale 

si fondono espresso ed espressione. Alla matura 

impostazione stilistica del giovane fotografo 

napoletano contribuiscono due scelte tecniche 

percosì dire “inattuali”: l’analogico e il bianco e nero. 

Se il primo ha il pregio di conferire alle foto un calore 


PORTFOLIO

© Ciro Battiloro, dalla serie Sanità 


singolo essere umano respinto ai margini 

della storia e della società si fa paradigma 

archetipico di un’unica realtà planetaria. 

Dal portfolio-reportage di Battiloro sul 

microcosmo “Rione Sanità” emerge anche 

lo spaccato locale di una fase di trapasso 

storico: ai volti segnati dal vissuto 

personale dei nativi si alternano quelli dei 

nuovi reietti, gli immigrati. In un ambiente 

urbano degradato e contrassegnato dalla 

novità dell’intreccio multietnico rimane 

comunque qualcosa di antico e immutaattento 

e partecipe, grazie al secondo esse assumono, oltre alla 

finezza e all’intensità del modellato, un carattere di eventi “as- 

soluti”, sottratti alla spazio-temporalità 

ordinaria in cui sono immersi. 

L’immediatezza dell’istantanea, che riconduce 

Battiloro nel filone della migliore 

straight photography, fa trasparire 

– trasversalmente rispetto al “qui e ora” 

del “momento decisivo” – l’eternità del 

gesto, l’espressività caratteriale, il bisogno 

di amorevole intimità. Per loro tramite, e 

grazie all’approccio delicato di Battiloro, 

un che di poetico, e dunque di universale, 

si fa strada nella prosaicità della vita 

di questa povera gente, che, se non si nasconde 

totalmente o parzialmente avvinghiandosi 

in un abbraccio consolatore, 

mostra volti dolenti e rassegnati o marcati 

dall’ironia e dall’autoironia di chi ha molto 

vissuto e patito, ma tutti dignitosamente 

spontanei e indifesi, anche quando si 

mettono in posa. Ma di universalità si può 

parlare anche in un secondo senso: se è 

vero che – come le famiglie infelici di Tolstoj 

– ciascuna famiglia povera è disgraziata 

a modo suo, è anche vero che ogni 



ile: i gesti, le posture, la spontaneità della 

manifestazione affettiva. Riaffiora così il 

valore universale delle foto: non concedendo 

nulla a un tribalismo autoreferenziale, 

e immergendosi invece con rispetto, 

quasi in punta di piedi, nella realtà quotidiana 

dei suoi soggetti, Battiloro assume 

una chiara posizione morale e civile e si 

riallaccia alla tradizione che, in alcune 

interviste, egli stesso rivendica come sua 

(cfr.: www.plsmagazine.com/ciro-battiloro; 

www.lindiependente.it/intervista-a-ciro-battiloro-il-fotografo-dietro-sanita). 

Ne 

fanno parte, fra gli altri, Antonio Biasiucci 

(che è stato il suo maestro), Sebastião Salgado, 

Josef Koudelka e Eugene Richards. 

Diversamente da questi ultimi, tuttavia, 

Battiloro non esibisce direttamente la potenza 

del negativo: la violenza, la patologia, 

la morte. Vi è, semmai, un richiamo 

indiretto, e perciò simbolico, alla fatica 

del vivere e alla quotidiana esperienza del 

male e del disagio, quelle stesse che si intravvedono 

dietro le quinte del teatro di 

Eduardo (e non solo della commedia di 

cui il Rione Sanità è eponimo). La tradizione 

cui Battiloro fa riferimento si allarga 

dunque fino a ricomprendere le testimonianze 

“oggettive” di alcuni grandi 

fotografi della prima metà del Novecento, 

da August Sander a Walker Evans, i 

quali, con i loro ritratti di diseredati e di 

relitti umani, gettarono una luce sul lato 

oscuro delle “umane sorti e progressive”, 

sulle ampie voragini di emarginazione e 

di deriva collettiva che si aprirono in tempi 

difficilissimi; quelle stesse voragini che 

oggi si aprono nel mondo globalizzato e 

tecnologicamente interconnesso, a provare 

ancora una volta che la nottata dell’umanità 

stenta a passare. 








PORTFOLIO



© Ciro Battiloro, dalla serie Sanità

PORTFOLIO 

© Enrico Genovesi, dalla serie Nomadelfia 


PORTFOLIO

NOMADELFIA – FAMIGLIA DI FAMIGLIE 

l’esperienza di Temporary Home, che anni fa lo guidò 

nelle abitazioni improvvisate e asfittiche di persone in 

difficoltà, il fotografo toscano ci offre piccoli scorci 

della celebre comunità cattolica e autogestita di 

Nomadelfia, fondata nel ’48 da don Zeno Saltini; lo fa 

con la raccolta Nomadelfia – una famiglia di famiglie. 

Le poche centinaia di persone di questa comunità, 

rinunciando al denaro e alla proprietà privata, conducono 

uno stile di vita ispirato agli atti degli Apostoli, 

considerandosi l’un l’altro fratelli e sorelle, e si occupano 

autonomamente dell’educazione dei bambini, molti 

dei quali sono degli orfani da esse presi volentieri in 

affido. Producendo da sé la maggior parte dei beni primari, 

gli abitanti di Nomadelfia non hanno bisogno di 

negozi, ma solo di magazzini che distribuiscono cibo e 

vestiti secondo necessità. Le famiglie vengono sciolte e 

ricomposte ogni tre anni, cosicché il senso di comunità 

rimanga vivo tra tutti, e tutti possano considerarsi 

familiari gli uni degli altri. Genovesi ci mostra piccoli modi 

DARIO CARERE 

Enrico Genovesi torna ad occuparsi 

di spazi, case, comunità. Dopo 


menti di quotidianità della comune, in un bianco e nero malinconico 

e “primitivo” dove la luce, quasi sempre diurna, illumina 

aspetti salienti della “proposta”, come 

Don Zeno Saltini stesso definì Nomadelfia. 

L’obiettivo ha immortalato alcuni 

degli elementi più interessanti della comunità, 

concentrandosi in particolare sui 

bambini che grazie a Nomadelfia hanno 

trovato una mamma e un papà. Come già 

in Temporary Home, Genovesi è più cronista 

che artista; ma, pur se mirate alla pura 

testimonianza piuttosto che all’effetto 

emotivo, alcune foto sorprendono per la 

loro eloquente espressività. Ad esempio, 

splendida l’immagine di un gruppo familiare 

in lontananza che intraprende un 

nuovo spostamento, e, in primo piano, un 

veicolo ricolmo di oggetti preparati per il 

viaggio. Con questo solo scatto scopriamo 

immediatamente che l’idea di proprietà, 

di casa “nostra”, è aliena per i nomadelfi, 

che naturalmente preferiscono il diritto 

d’uso al possesso certificato da terzi. Ciò 

che è tuo è tale finché ti serve, finché ne fai 

uso (così come la famiglia è l’insieme delle 

persone che ti hanno allevato amandoti). 

La condivisione è il fondamento stesso 

della Costituzione di Nomadelfia, e coloro 

che ricevono introiti dall’esterno sono 

tenuti ad affidarli alla presidenza, così che 

possano servire a distribuire beni equamente. 

Parafrasando un grande poeta: le 

cose che i nomadelfi non possiedono sono 

solo quelle di cui non hanno bisogno, e 

questa foto ne riassume la filosofia di vita. 

Credo però che le foto più interessanti siano 

quelle relative alla preparazione di uno 

dei tanti spettacoli itineranti organizzati 

dai nomadelfi, che coinvolgono, naturalmente, 

anche molti bambini. Un’immagine 

rapisce lo sguardo di uno dei piccoli 

protagonisti nel “camerino”, intento a 

indossare il costume di scena. Questa 

piccola stanza piena di bimbi emozionati 

colpisce proprio per il senso di comunità 

in essa racchiuso: questo dettaglio di un 

teatro (col che si intende naturalmente anche 

la danza) costruito da tutti gli abitanti 

di uno stesso villaggio, rimanda a un’idea 

di vita collettiva incredibilmente distante 

dalla nostra aiuola consumista, dove lo 

spettacolo non è che una breve parentesi 

tra la “scatola casa” e la “scatola lavoro”. 

È questa, per me, la chiave di volta di Nomadelfia. 

Il nostro mondo di scatole stagne 

non si rispecchia nella folla dei bimbi in 

costume che si apprestano ad entrare in 

scena, né tantomeno nello spettacolo che 

attraversa tante piazze italiane al fine di 

raccogliere fondi per la comunità. Per la 

persona che utilizza denaro, il lavoro è 

qualcosa di diverso; essa non ha comunità, 

e lo spettacolo non è che la necessaria 

distrazione alla sua reiterata fatica. 

Genovesi ha colto nel segno, mostrandoci 

il teatro itinerante di Nomadelfia; in esso 

vediamo espressi, insieme, l’amore fraterno 

degli abitanti devoti e un’idea salubre e 

“alternativa” di partecipazione familiare. 









PORTFOLIO 

INCREDIBLY CLOSE. I toni caldi che emergono nel gioco 

DI DEBORA RANDISI 

di luce e ombra, sembrano smorzare le rigide 

linee degli edifici. Ed è come se conferissero 

loro una certa rotondità. Quasi, si potrebbe dire, una certa 

umanità. E le luci artificiali della sera scaldano i cuori di questi 

giganti urbani: sono i battiti di cuore di chi li abita. In effetti a 

pensarci non sembrano affatto palazzi della periferia di 

Milano, ma quasi dei giganti buoni che si scagliano nel cielo, 

posando con garbo 

ed eleganza tra la 

superstite vegetazione 

che abita ancora 

la città, immersi in 

un silenzio surreale. Il progetto fotografico Incredibly close di 

Valentina Casalini è una passeggiata autunnale all’imbrunire 

per il quartiere QT8 della periferia di Milano. Non la solita 

periferia, dove l’evocazione stessa della parola “periferia” ci 

catapulta in un batter di ciglia nel degrado e nel disagio 

sociale tipico dei margini della città. Di quasi ogni città. La 

narrazione di Casalini è quella di una periferia diversa, 

riscattata. È una passeggiata percorsa a passo lento e sicuro, 

con un respiro forte e quieto. Siamo all’interno della residenza 

UP - Urban People, progetto sostenuto dal Comune di Milano, 


PORTFOLIO

© Valentina Casalini, dalla serie Incredibly close 

organizzato in collaborazione con le associazioni 

Bjcem e Fluxlab. Un quartiere 

costruito dopo il 1947, da un progetto 

concepito durante l’ottava edizione della 

mostra di design della Triennale di 

Milano e firmato dall’architetto Piero 

Bottoni. Un progetto sperimentale che, 

ancor oggi, rappresenta uno dei migliori 

risultati architettonici e urbanistici 

dal secondo dopoguerra in Italia. Il risultato 

infatti è quello di una periferia 

che abbatte i luoghi comuni dell’insicurezza 

e della marginalità sociale e che 

si riappropria dell’abitare nella sua dimensione 

umana positiva, in cui lo spazio 

collettivo è anche lo spazio di casa, 

in cui il giardino è il giardino di tutti. 

Dove le foglie degli alberi accarezzano 

le finestre come tendaggi pregiati. Dove 

architettura e ambiente stringono un 

patto di alleanza e tentano di superare 

il loro perenne rapporto antitetico. 

Nelle fotografie di Casalini anche la 

street art, linguaggio artistico giovane 

e ribelle, nella sua dirompenza, sembra 

farsi accettare e diviene quasi espressione 

di bellezza, integrandosi con 

equilibrio nell’ambiente circostante. 

Valentina Casalini, classe 1987, nasce a 

Trento, ma presto lascia casa per vivere 

in altre città. Dai suoi lavori –che hanno 

raggiunto anche il Nord America–, 

emerge un forte interesse per il paesaggio 

urbano, per l’aspetto alienante della 

città contemporanea, per la poesia 

che a volte celano certi scorci, perfino 

certi quartieri austeri. Nel fare ciò, nel 

ritrarre dunque la complessità della realtà 

urbanistica moderna, si pone esattamente 

a cavallo di un’immaginaria 

linea di confine, come a stare con un 

piede al di là della linea –immersa nella 

realtà–, ed uno al di fuori esterna ad 

essa. La fotografia è per lei dunque mezzo 

straordinario per cogliere, nell’ordinario 

dello spazio moderno, la poesia, 

il sentimento, l’inquietudine che scaturiscono 

dallo scambio tra la dimensione 

fisica ed architetturale, materica e concreta, 

che caratterizza i luoghi, e tutto 

ciò che trascende la fisicità dello spazio, 

ovvero l’aspetto immateriale, sociale, 

valoriale che l’uomo vi riversa. QT18 

non è dunque solo un quartiere sperimentale, 

ma anche una dimensione, 

una percezione dell’ambiente, un modo 

di relazionarsi alla città, alla comunità. 

Qui è periferia. Qui è ancora Milano, 

ma l’odore della campagna non è così 

lontano come quello del mare. 



© Valentina Casalini, dalla serie Incredibly close











PORTFOLIO 

THE SOUND OF SILENCE. Come stiamo su questa 

di GIUSY RANDAZZO 

Terra. Dentro una bolla che ci impedisce 

di vedere, sentire, comprendere in modo 

totale, lucido, unico, indipendente. Di sapere. Impediti da 

un velo di Maya crediamo tuttavia di sapere, di sentire, di 

vedere, di comprendere. Invece respiriamo e basta. Tutto 

il resto è un’incredibile menzogna che raccontiamo a noi 

stessi mentre ci beiamo in questa sacca amniotica in cui 

continuiamo a rannicchiarci sempre più impauriti. 

E facciamo. 

Lavoriamo, 

parliamo, scriviamo, 

ridiamo, ci divertia 

mo, ma sempre al 

di qua della vita. In realtà siamo impediti. Disabili. Questa 

davvero la disabilità che racconta Di Donato nel suo portfolio 

The Sound of Silence? Volti che sembrano volersi liberare 

dall’oscurità intrattenuta dal velo che ne imprigiona 

lo slancio vitale. Respiri strangolati. Un’esistenza che urla 

il proprio diritto a esserci? Quelle sagome umane –troppo 

umane– dicono altro. Raccontano la differenza tra l’io e il 

tu. Per il nostro io meschino, loro –i disabili– sono quel tu. 

L’altro. Urlano mestamente contro l’ingiustizia del tempo 


PORTFOLIO

© Michele Di Donato, dalla serie The sound of silence 


che ha dato allo spirito un cuore d’asino –il cammello nietzscheano, 

per dirla con precisione– e al tu quello del fanciullo. 

«Perché non basta la bestia da soma, che 

a tutto rinuncia ed è piena di venerazione? 

[…] Ma ditemi, fratelli, che cosa sa 

fare il fanciullo, che neppure il leone era 

in grado di fare? Perché il leone rapace 

deve anche diventare un fanciullo? Innocenza 

è il fanciullo e oblio, un nuovo 

inizio, un giuoco, una ruota ruotante da 

sola, un primo moto, un sacro dire di sì. 

Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, 

occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito 

vuole la sua volontà, il perduto per il 

mondo conquista per sé il suo mondo» 1 . 

Ma poi, lo stesso tempo ha attrezzato l’io 

e il tu diversamente, impedendo al fanciullo 

di divenire ciò che è. Di Donato 

racconta di questo tu che non è mai disperato, 

piuttosto, come l’uomo in rivolta, 

sa di essere un Sisifo che non smette di 

spingere il masso su per la cima. Sa lucidamente 

che è in questo presente, radicato 

nel passato e aperto al futuro, che in 

quest’attimo eterno e nel suo fluire; che in 

quest’istante inafferrabile; che in questa 

durata totalmente aderente al corpomento 

2 sta la forma della sua libertà. L’unica 


libertà possibile nello spazio costretto e 

ristretto che impone il tempo quando si fa 

ambiente, educazione, abitudine, natura. 

La libertà è un fatto: l’atto che si compie 

in situazione. Affinché si dia però libertà, 

è necessario cogliersi come durata e aderire 

alla durata che noi siamo, aderire a 

quest’io profondo che si nasconde all’io 

superficiale che agisce credendosi un intero. 

«Gli scatti di The Sound of Silence sono essenze 

di dolore che riflettono sofferenze e 

disagi nascosti, invisibili e non detti, che 

tuttavia si vedono e si sentono e, per questo, 

non lasciano lo spettatore indifferente. Le 

disabilità sono esperienze psico-fisiche 

chiaramente oscure, vere e proprie “crisi 

della presenza”, per dirla con Ernesto De 

Martino. Eppure, da questi stalli neri Di 

Donato estrae una luminosità, una forma 

per il loro riconoscimento, per la loro ricezione 

e comunicazione, in sintesi, per la 

loro risoluzione» 3 . 

La risoluzione, che individua Fabiola Di 

Maggio, è proprio questa libertà che si 

espone, che emerge, che vuole, che si fa 

ottimismo della volontà, pur nel pessimismo 

dell’intelligenza. Così si è liberi 

anche nella prigionia che Di Donato racconta. 

E si è liberi anche quando veli, orpelli, 

schermi e caligine e buio e nebbia e 

bagliori vorrebbero impedire di vedere e 

di sentire e di vivere percependo. Anche 

noi, anche quell’io che non sa pronunciare 

quel sacro dire di sì alla vita, che vede 

nell’altro –nel tu– la disabilità che lui stesso 

ha dentro, che lui stesso ha consapevolmente 

creato intorno al sé come un muro 

di cinta che lo esclude dalla vita; anche 

noi, immergendoci nella narrazione di Di 

Donato, ci scopriamo sì liberi da e tuttavia 

comprendiamo –in un’illuminazione che 

procede immediata da quel bianco e nero 

che guarda in modo originario all’esistenza 

stessa nella sua primordiale volontà di 

vivere– che non siamo mai stati liberi per. 

Tranne per crearci altri muri, altre catene, 

altre oppressioni, altre schiavitù, altre 

barriere, altri ostacoli che chiamiamo ripari, 

fortificazioni, baluardi necessari –inevitabili– 

per essere in questa società liberi dal 

senso di colpa. E davvero non riusciamo a 



vederli. Ci condizionano, ci fanno muovere, 

ci indicano dove e come vivere, ci 

automatizzano, ci impediscono di essere 

liberi e, di conseguenza, di lasciare emergere 

l’io profondo che sa di noi quel che 

noi stessi non sappiamo più. Rompiamo 

un altro incanto in tal modo: quello tra 

l’io e il tu, tra l’io e il mondo che in origine 

erano in comunione. Questa grande 

assente –la libertà per– genera un’altra 

assenza: quella della felicità. Lo sosteneva 

anche Freud quando affermava che 

dobbiamo pagare un prezzo per il progresso 

civile: la perdita della felicità che 

è dovuta all’aumento del senso di colpa. 

Nasciamo dunque tutti già disabili. Inneschiamo 

la bomba che ci fa implodere: la 

mortifera oppressione di un’autoaggressione 

che si compie per adattarci a questa 

civiltà incivile che chiama progresso 

ciò che è involuzione. Il prezzo non è 

soltanto la felicità. Il prezzo siamo noi. 

Noi, tutt’interi. 

«La libertà individuale non è un frutto 

della civiltà. Essa era massima prima che 

si instaurasse qualsiasi civiltà. […] La libertà 

subisce delle limitazioni ad opera 

dell’incivilimento» 4 

Possiamo essere liberi dunque? Liberi per? 

E liberi proprio in questa società incatenante? 

Una forma di libertà è possibile, sì. È 

possibile quando aderiamo totalmente a 

noi stessi, quando il corpo e gli atti e la 

mente –la durata reale, il tempo, insomma– 

che noi siamo li intuiamo per come 

essi sono: compenetrati, connaturati, 

immedesimati, congenerati. Unificati su 

un’unica linea di tiro che mira all’esistenza 

stessa e che in ogni situazione ci restituisce 

a noi stessi. E per quanto si tratti 

di una libertà incatenata, essa -nella sua 

unica possibile forma di essere- ci rende 

artisti: creativi autori della nostra vita. 

Liberi per impedire a Edipo di accecarsi 

di nuovo. Liberi per essere in comunione 

col tu. Liberi per vedere nella disabilità 

dell’altro la nostra disabilità e nello spazio 

di azione comune la forma della sua 

libertà e la forma della nostra libertà. Liberi 

per divenire fanciulli e pronunciare 

il sacro sì alla vita. 

Non sono dunque poche le ragioni per 

dire di sì anche alle fotografie di Di Donato. 

Al suo suono del silenzio, un ossimoro 

che genera altri ossimori. Opposti che 

raccontano la vita, che sono la vita. Voci 

silenziose si elevano dalle immagini. Non 

urla. Lontani lamenti che ci scuotono. Il 

silenzio ci intrappola. Ma noi ascoltiamo, 

ascoltando noi stessi. Così scopriamo 

la forma della nostra libertà incatenata 

e se ci amiamo davvero, se davvero 

siamo innamorati di noi stessi a tal punto 

da temere la morte, allora –pur dentro 

il perimetro limitato in cui siamo– decidiamo 

lo scatto e ritorniamo a noi stessi. 

Liberi per. 

Note 

1 

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per 

tutti e per nessuno (Also sprach Zarathustra. Ein Buch 

für Alle und Keinen), a cura di G. Colli e M. Montinari, 

Adelphi, Milano 2008, «Delle tre metamorfosi», 

pp. 24-25. 

2 

Il neologismo “corpomente” è di Alberto 

Giovanni Biuso e si trova per la prima volta in: 

La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci, 

Roma 2009. 

3 

F. Di Maggio, The Sound of Silence. Visioni fotoespressionistiche 

della disabilità, presentazione della 

mostra di Michele Di Donato. 

4 

S. Freud, Il disagio della civiltà (Das Unbehagen 

in der Kultur), trad. di E. Sagittario, in «Opere», 

a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, 

Torino 1989, vol. 10, p. 586. 






PORTFOLIO 

SECONDE STORIE. Il punto massimo della vita di un 

di ALESSANDRA CIARCIA 

uomo è diventare una sintesi di se stesso, 

darsi in modo essenziale, sottraendo tutto 

ciò che non occorre al racconto del proprio mondo, del proprio 

spazio di intimità così come della propria estensione in 

uno spazio esterno. Questo punto d’arrivo può collocarsi in qualunque 

momento dell’esistenza umana, non occorre aspettare 

la vecchiaia. La fotografia di Pierfranco Fornasieri ruba gentilmente, 

com’egli stesso dice, certi attimi di sospensione in cui 

qualcuno o qualcosa 

rappresentano 

un crocevia a cui 

giungono strade 

precedenti e da cui 

si diramano strade successive, altre. Le persone che abitano le 

immagini non sanno nulla di tutto questo, ignorano che le loro 

storie, una volta racchiuse negli scatti, sono ormai le storie di 

tutti, storie in divenire o già accadute, storie con un finale noto 

o sfuggente, un finale che può declinarsi in mille modi, quanti 

sono gli occhi di chi osserva. È la presenza dell’osservatore che 

completa la narrazione solo abbozzata dall’autore, che dà un senso 

a queste “Seconde storie”. Una mano, che sembra essere infantile, 

si affaccia nel mezzo delle ante di un portone per aprirle 


PORTFOLIO

© Pierfranco Fornasieri, dalla serie Seconde storie 


o forse per chiuderle del tutto. Viene da una striscia di nero impenetrabile, 

è riuscita a portare in salvo il suo delicato candore; 

ed il contrasto con il legno vecchio e rugoso 

del portone ne accresce la tenerezza. Il 

legno è protagonista anche in una seconda 

immagine, nella forma del tronco increspato 

di un albero, a ridosso del quale 

un nastro sgualcito stringe un crocefisso. 

Un po’ più in basso, una piccola cornice 

chiara è seminascosta dal fiocco del nastro 

e sembra contenere un uccellino rintanato 

in uno degli anfratti del tronco. È 

antichità il legno, casa, rifugio da toccare 

con mano, materia sempre viva che cela 

e tutela l’equilibrio miracoloso della vita 

e risplende della sua dimensione mistica. 

“Uccelli migratori - anche la casa dove 

sono nato è oggi il tetto di una notte” recita 

un haiku giapponese. Ebbene, dove 

sarà diretta la donna addormentata su 

un divano che pare collocato all’interno 

di una stazione? Avrà trovato sollievo dalla 

stanchezza sostando su un provvisorio 

giaciglio, per poi riprendere il suo viaggio, 

proprio come l’uccello migratore con un 

tetto di fortuna? Non si dirige verso qualche 

meta, ma è in paziente attesa l’uomo 

in equilibrio su tre tubi d’acciaio, accovacciato 

su di un trespolo privo della seduta. 

I tubi sono il prolungamento e la trasmutazione 

dei suoi arti snelli. Egli osserva 

il mare dalla terraferma con attitudine 

monumentale: la fissità del suo sguardo e 

la certezza immobile del suo stare esaltano 

la dinamicità della scena e l’esperienza 

sensibile che facciamo del suo corpo, 

pur non toccandolo. “A volte i miei baci 

vanno su quelle navi gravi, che corrono 

per il mare verso dove non giungono. Mi 

vedo già dimenticato come queste vecchie 

ancore. I moli sono più tristi quando attracca 

la sera”. 1 I versi di Neruda fanno 

compagnia alla donna solitaria, seduta tra 

due basse e robuste colonne per ormeggio, 

e il cui pensiero è sulla nave che corre 

verso dove non giunge. Ciò che è racchiuso 

nel silenzio del giovane in primo piano, 

in profondo raccoglimento, erompe pochi 

metri più in là, sotto forma di acqua 

spruzzata energicamente da una tubatura 

rotta per strada; dalla bellezza dell’ombra 

che riflette e basta a se stessa, si passa 

all’attaccamento alla vita, luminoso, di un 

bambino che spalanca la bocca accanto al 

getto d’acqua come se cercasse il latte dal 

seno materno. Possiamo alzare gli occhi 

al cielo, come il bambino nello scantinato, 

sotto all’unica fonte di luce, ammirarne 

l’incommensurabilità, negli squarci che 

si aprono al di là delle strutture e degli 

elementi architettonici, e ritrovare il cielo 

nelle radici, nelle persone. Persone impegnate 

a salire e a scendere scale, persone 

che camminano seguite o precedute dalla 

propria ombra, che passeggiano da sole 

nel vuoto delle arcate o che conversano 

rivolte verso l’uscio di casa. Lo specchio 

rotto è senza tempo, fissa qualcosa di nascosto 

al nostro sguardo, qualcosa di non 

riflesso sulla sua superficie segmentata. È 

uno psicologo della condizione umana. 

1 

Pablo Neruda, Venti poesie d’amore e una canzone disperata, 

a cura di G. Bellini, Passigli Editore s.r.l., Firenze, 

1996 





© Pierfranco Fornasieri, dalla serie Seconde storie






PORTFOLIO 

LUCIA SEKERKOVÁ 

BLÁHOVÁ 


PORTFOLIO

LE STREGHE DEL TERZO MILLENNIO. 

di SAVERIO CIARCIA 

Le streghe son tornate 1 : o forse non 

erano mai davvero andate via. E si sono 

evolute e messe prontamente al passo con i tempi. La vecchia 

e cara sfera di cristallo è stata soppiantata da internet 

e dai social media. Le nuove streghe fioriscono soprattutto 

in Romania. Ma come è nato l’incontro tra una trentenne 

fotografa slovacca, Lucia Sekerková Bláhová, con il magico 

mondo delle streghe rumene? Lucia è cresciuta nella famiglia 

cristiana di un piccolo villaggio della Slovacchia, in una 

società ossessionata da regole che proibivano qualunque 

contatto con il mondo dell’occulto, che, come noto, promana 

da Satana in persona. Persino gli oroscopi erano proibiti, 

perché i genitori temevano malefici influssi sulla sua tenera 

vita. Ma il frutto proibito è sempre il più dolce. Avendoli comunque 

letti di nascosto, Lucia scopre che, nonostante gli 

oroscopi, non le è mai successo nulla di male. Perciò, divenuta 

adulta, e con la stessa curiosità che aveva da bambina, 

ha deciso di indagare il mondo oscuro delle Vrăjitoare, letteralmente 

le ”streghe”, visitando in Romania le più famose, 

a cui, da cavia impenitente, ha subito lasciato ispezionare il 

palmo stesso delle sue mani. Sono soprattutto le donne e in 

particolare le anziane di etnia Rom quelle che praticano 


questo antico mestiere, associato, da generazioni, a esasperata 

religiosità e a poteri soprannaturali. Si tratta in genere di donne 

legate a gruppi nomadi che vagano per i 

territori europei. In Slovacchia, la comunità 

rom valacca è relativamente piccola e 

i casi di predizione della fortuna piuttosto 

rari, ma in Romania, dove il gruppo rom 

è molto più ampio, l’uso è particolarmente 

vivo: era dunque necessario spostarsi 

nella terra d’elezione per studiare il fenomeno 

in profondità. Alla sua ricerca, durata 

oltre quattro anni e finanziata da una 

università slovacca, Lucia ha chiamato a 

collaborare una sua amica etnologa, Ivana 

Šusterová, allo scopo di documentare, 

tra scienza e arte, un fenomeno complesso, 

approfondendo in particolare i cambiamenti 

radicali impressi dalla tecnologia 

contemporanea a secolari tradizioni. 

Le sue fotografie ci mostrano quali vesti 

abbia ormai assunto la stregoneria del 

XXI secolo: le streghe sono diventate 

abili imprenditrici e la stregoneria stessa 

si è trasformata in una fiorente e redditizia 

pratica contemporanea, caratterizzata 

dalla creativa estetica delle Vrăjitoare posta 

a mezza strada tra misticismo e spettacolo, 

curiosità e scetticismo. 

Una volta i chiromanti i potenziali clienti 

dovevano andarseli a cercare per strada, 

in un continuo defatigante vagabondaggio: 

oggi il primo incontro avviene molto 

più rapidamente sul web, le streghe hanno 

un po’ tutte una propria pagina Facebook, 

spesso con migliaia di visualizzazioni, 

e pubblicano video-rituali molto popolari. 

I legami di parentela sono molto importanti 

per i rom, anche per le streghe, che 

preferiscono al lavoro individuale la collaborazione 

con gli appartenenti alla più 

ristretta cerchia familiare. Quello che colpisce 

è la fusione tra aspetti caratteristici 

delle comunità emarginate e il sincretismo 

tipico del cristianesimo rispetto ad altri 

movimenti religiosi e culturali. Le Vrăjitoare 

sentono il loro lavoro come un “dono”, 

un’abilità che Dio ha loro concesso, una 

dote posseduta sin dalla nascita. Dall’età 

di sette anni, le ragazze iniziano a osservare 

le madri e le nonne che lavorano con 

i clienti e sono da esse attentamente osservate, 

giacché non tutte hanno il dono 

della predizione. Solo dopo un lungo apprendistato, 

protratto per diversi anni, le 

giovani possono avviare una propria attività 

autonoma, a seconda delle proprie 

capacità. 

Fino al 1989, sotto il regime comunista di 

Ceausescu, la magia era vietata e i praticanti 

arrestati. Oggi il fenomeno dilaga e 

vede donne sempre più giovani impegnate 

nel farsi ogni possibile pubblicità. 

C’è da chiedersi come sia possibile che, nel 

nostro mondo pervaso di scienza e tecnologia, 

questa pratica ancestrale possa tanto 

agevolmente e rapidamente proliferare: 

nonostante anche in Romania larga parte 

della società giudica i chiromanti bugiardi 

e truffatori (tra le presunte vittime persino 

una star della televisione rumena), altri 

continuano a cercare il loro aiuto. Molti 

rumeni hanno addirittura inviato messaggi 

sul profilo Facebook della giovane fotografa, 

chiedendo un consiglio e una raccomandazione 

per una strega affidabile. 

Nello stesso tempo, i nomi di varie streghe 

compaiono regolarmente nei rapporti di 

polizia, con accuse di ricatti e manipolazioni 

ai danni di gente più o meno sprovveduta. 

I rituali sono sempre complicati: 

il cliente deve avere la testa coperta da un 

tessuto bianco, perché non deve vedere 

cosa fa esattamente la strega. A far ricorso 

alla magia sono soprattutto donne giovani 

di età compresa tra 25 e 30 anni, incerte 

sul proprio futuro o con alle spalle matrimoni 

falliti, o anche genitori con figli problematici, 

che soffrono di insonnie e fobie. 

Non esiste un preciso tariffario reperibile 

sui siti web: certo consultare una strega, 

sia telefonicamente sia, tanto più, di persona, 

costa caro. E si vede: un lusso ostentato 

caratterizza le faraoniche residenze 

di molte famose streghe. Mobili sfarzosi, 

appariscenti, ricoperti di vernici dorate e, 

dovunque, oggetti d’oro massiccio o rifiniti 

in oro; abiti vistosi, trucco pesante, camicie 

leopardate: scene che, a noi italiani, 

dovrebbero ricordare immagini recenti di 

litorali un tempo imperiali. 

Le Vrăjitoare per il loro lavoro usano, oltre 

a immancabili carte o tarocchi, molti 

strumenti e oggetti, tutti invariabilmente 

presentati come vecchi, preziosi, ereditati 

e unici: dalle conchiglie alle bambole, alle 

croci e a immagini di Gesù e della Vergine 

Maria. Lavorano anche con elementi 

naturali: acqua, fuoco, animali, erbe e 

fiori, rigorosamente raccolti, all’alba, in 

luoghi segreti e selvaggi, lontani dalla civiltà, 

salvo quando non siano purtroppo 

costrette a ripiegare sul cortile dietro casa 

nel centro della capitale. E con i diversi 

ingredienti producono medicamenti e talismani 

protettivi, pozioni buone per gli 

incantesimi d’amore e pozioni contro il 

fascino. 

In realtà, queste donne forniscono supporto 

ai loro clienti: nei momenti di bisogno, 

possono alleggerire il peso delle responsabilità, 

ascoltarli e persino dare loro 

quell’affetto e quel sostegno morale che 

magari non è giunto dai loro cari. 

C’è chi intende usare solo la magia bianca 

e non vuole ferire gli altri: non usa incantesimi, 

ma preghiere, crede in Dio e si fa 

ritrarre a mani giunte come in preghiera. 

Maria Campina è l’autoproclamata regina 

di questo tipo di magia: la corona d’oro 

che mostra orgogliosa sul suo capo è simbolo 

di indiscusso prestigio; un oggetto 

d’oro è del resto una specie di amuleto per 

i Rom valacchi, che credono nel suo magico 

potere di protezione dal male. 

Una famiglia esegue rituali vicino al fiume 

alla periferia della città durante una festa 

che celebra l’eterna vittoria della vita sulla 

morte, la fine dell’inverno e l’inizio della 

primavera. La giovane strega Monika non 

perde l’occasione per farsi un selfie con il 

suo iPhone mentre stringe una croce, prima 

che la cerimonia abbia inizio. 

E, in Italia, che succede? In attesa di una 

politica rigorosa che impedisca per il futuro 

sconvenienti contaminazioni ed effetti dannosi 

causati da operatori stranieri, ancorché 

europei, possiamo tirare un primo sospiro 

di sollievo: predicatori, predittori, imbonitori, 

guaritori e truffatori autoctoni fortunatamente 

non ce ne sono. Ma non bisogna 

comunque abbassare la guardia: come Caravaggio 

insegna, si fa presto a trasformare 

la “buona” in “cattiva” ventura. 2 


© Lucia Sekerková Bláhová, dalla serie Vrăjitoare 

1 

“Tremate, tremate, le streghe son tornate!” era uno degli slogan più diffusi 

del movimento femminista degli anni ‘70. Ma Le streghe son tornate è anche 

il titolo di un film del 2013 scritto e diretto da Álex de la Iglesia (in originale: 

Las brujas de Zugarramurdi). Zugarramurdi è una piccola località basca della 

regione di Xareta in Navarra, a pochi chilometri dal confine francese, nota 

per il magnifico paesaggio di pini e castagni che la circonda e per un’imponente 

grotta naturale scavata dall’acqua. Zugarramurdi è però conosciuta 

soprattutto perché, agli inizi del XVII secolo, l’Inquisizione mandò a processo 

53 persone del villaggio, 31 accusate stregoneria, le restanti di eresia. 

Delle 31 persone accusate di stregoneria, sei, un uomo e cinque donne, furono 

poi mandate al rogo. 

2 

Buona ventura si intitola un dipinto a olio su tela (115x150 cm) realizzato dal 

Caravaggio tra il 1593 ed il 1594 e conservato nella Pinacoteca Capitolina 

di Roma. Una variante del dipinto è oggi esposto al Louvre. Il quadro ritrae 

una zingara che, mentre legge la mano a un giovane cavaliere, gli sfila abilmente 

l’anello nuziale che porta al dito. 











© Lucia Sekerková Bláhová, dalla serie Vrăjitoare

CLOSE UP 

FRANCO CARLISI INTERVISTA 

MICHELE SMARGIASSI 

Franco Carlisi - Delle riviste di fotografia oggi presenti sul 

mercato italiano cosa pensa? Quale idea si è fatto e quale giudizio 

si sente di dare dal punto di vista dell’impegno, della 

qualità e del ruolo socio-culturale che esse svolgono o dovrebbero 

svolgere? 

Michele Smargiassi - Senza offesa per nessuno, vedo molte riviste 

che sono gallerie d’arte o negozi di materiale fotografico, 

spesso un misto fra le due cose. Entrambe utili, per carità, se fatte 

bene. Ma il lettore di fotografia ne esce come il socio di un club 

di esteti all’inseguimento del leggendario progetto, o di tecnomaniaci 

ossessionati dal megapixel. Del resto, in Italia la fotografia 

non è mai riuscita a farsi considerare un campo della cultura, ma 

solo una specie di bricolage creativo come l’uncinetto, o una professione 

tecnicamente accessoriata. Riviste di cultura fotografica 

anche eccellenti ne abbiamo avute e 

ne abbiamo, ma sono lette da poche 

“ 

decine di persone e soffrono a volte 

di un eguale e contrario complesso 

di separatezza accademica. Una 

rivista di fotografia che non voglia 

essere solo un bollettino di aggiornamento 

professionale per galleristi 

o fotografi di matrimonio dovrebbe 

rendere popolari e maneggevoli gli 

strumenti più aggiornati per comprendere 

cosa sta accadendo all’iconosfera 

contemporanea. Forse 

non dovrebbe essere, in effetti, una 

rivista “di fotografia”, ma di cultura 

visuale. Sogno una rivista di critica 

visuale applicata alle immagini che 

incontriamo nella vita quotidiana, 

una rivista curiosa, non presuntuosa, non esoterica, irriverente, 

anche polemica, piena di esempi, capace di applicare strumenti 

di lettura sofisticati, in modo semplice e perfino divertente, alla 

Instagram di un politico, alla pubblicità di un pannolino, al selfie 

di un ragazzino e perfino, guarda un po’ cosa arrivo a dire, alla 

mostra di un artista fotografo. 

La parola più importante 

è fotografico, che non indica 

semplicemente “la fotografia” 

(parola dall’estensione ambigua 

tra oggetto, pratica, disciplina, 

tecnica) ma un campo 

della cultura visuale di cui la 

fotografia è un elemento particolare 

e specifico 

” 

Lei ha chiamato il suo blog Fotocrazia, con un sottotitolo: 

Evoluzioni e Rivoluzioni nel Futuro, nel Presente e nel Passato 

del fotografico. Un titolo, come osservava Eco, è molto 

spesso una precisa indicazione di volontà programmatica, 

a meno che non sia volutamente ambiguo e fuorviante. Nel 

suo caso, il titolo è anticipazione di un preciso obiettivo o 

orientamento critico e concettuale? 

Mi sembrava un sottotitolo sufficientemente vago per non porre 

dei limiti alla rubrica. La parola più importante è fotografico, che 

non indica semplicemente “la fotografia” (parola dall’estensione 

ambigua tra oggetto, pratica, disciplina, tecnica) ma un campo 

della cultura visuale di cui la fotografia è un elemento particolare 

e specifico: quello che affida la relazione umana allo scambio di 

immagini prelevate dal mondo reale attraverso un protocollo tecnico 

a cui è stata convenzionalmente 

attribuita la capacità di condividere lo 

sguardo che ciascuno di noi getta sul 

mondo. È questa la dimensione della 

fotografia che mi affascina, che cerco 

di comprendere leggendo i libri di chi 

ne capisce più di me, rendendo poi 

accessibili quei libri a un pubblico di 

lettori non necessariamente fotografi 

o fotomani. Mi ritengo un divulgatore 

di buoni pensieri non miei. 

Esiste ancora oggi un “potere” della 

fotografia? Lei stesso si definisce fotocrate: 

in che senso? 

Eccome se esiste. Chiunque si presenti 

nello spazio pubblico usando 

le immagini esercita un potere. Ho 

chiamato il mio blog Fotocrazia perché ogni fotografia include 

la possibilità dell’esercizio di un potere. Potere della fotografia, 

potere sulla fotografia, potere con la fotografia. Nessuna fotografia 

è ingenua, nessuna è innocente; anche se molte possono 

essere utili. Quel che conta è prendere bene le misure. Se conosci 

la fotografia, non può farti troppo male. Può addirittura 


aiutarti a comprendere il mondo. Se la lasci fare, se la sottovaluti, 

ti fregherà. Vorrei presuntuosamente che il mio blog 

aiutasse qualcuno a non farsi fregare. Neanche da me, ed è 

per questo che avverto il lettore che anche io, avendo accesso 

ai media, esercito un potere, sono un fotocrate. 

Di recente, recensendo un libro di Ferdinando Amigoni, in 

un articolo apparso sul suo blog il 5 novembre 2018, lei 

tocca il tema dei misteriosi e ancora attuali rapporti tra 

fotografia e magia. Ma, lei dice, ciò che lega la fotografia 

al soprannaturale non è solo la sua origine chimica, quanto 

la “sopravvivenza dell’aura”, che caratterizza l’opera 

d’arte classica e che Walter Benjamin prevedeva sarebbe 

scomparsa nell’era della sua riproducibilità tecnica: il collegamento 

impalpabile è invece rimasto e si è in qualche 

modo rinforzato. Di qui la sua conclusione: la fotografia 

ha ricoperto il mondo di quella stessa magia, da cui intendeva 

liberarlo. Più che scomodare la magia, non sarà più 

semplicemente che le fotografie che emozionano, che bucano 

lo schermo della frettolosa e superficiale osservazione, 

restano come le loro consorelle del passato, vere e proprie 

opere d’arte? E come opere d’arte continuano a svolgere la 

loro difficile missione? 

Per favore, liberiamoci di questa parola vuota e infestante, 

emozione. Che vuole spiegare tutto e non significa niente. Che 

ha banalizzato il nostro rapporto ultramillenario con il potere 

delle immagini riducendolo a una specie di piccola estasi 

orgasmica. Con le fotografie, come con le immagini, in generale, 

abbiamo una relazione che in una certa misura sfugge 

alle spiegazioni razionali, perché pesca nelle profondità della 

nostra risposta di specie, biologica e culturale, alla visione. 

Questo aspetto non verbalizzabile del nostro rapporto con le 

immagini è stato definito giustamente magico, perché magiche 

sono tutte le apprensioni del mondo che accorciano in modi 

non spiegabili le relazioni tra cause ed effetti. Altra cosa è ridurre 

la fotografia a estetica e l’estetica a una estatica, solo 

perché non si sa, non si riesce a comprendere che cosa sia davvero 

la novità antropologica della fotografia nella storia delle 

immagini. 

Il suo blog è molto seguito. Il linguaggio è preciso, scorrevole, 

e persino a tratti elegante: insomma, non mancano i 

segni di una buona, solida cultura. Da qualche parte lei ha 

detto di aver già pubblicato oltre 1.400 articoli: ci sarebbe 

materia per più di un robusto saggio a stampa. Come mai 

ha deciso di attivare un blog, piuttosto che scrivere libri? 

Be’, qualche libro l’ho scritto, per la verità. Ma è vero che da 

alcuni anni ho preferito questo formato di scrittura intermittente, 

frammentaria, flessibile, interattiva che è un blog, che 

considero una specie di taccuino di lavoro in pubblico. Del 

resto, sono un giornalista, non un accademico né uno scrittore, 

la forma breve dell’articolo mi è entrata sotto la pelle e ci 

sono affezionato. Comunque, con l’aiuto di Ganesh protettore 

delle imprese difficili, qualche altro libro ce l’ho in mente, e 

arriverà. 

Sul suo blog le polemiche non mancano. Una in particolare 

si è sviluppata, dopo il 26 ottobre 2018, in riferimento ad 

uno dei suoi temi, pare, prediletti: il rapporto stretto, e non 

sempre consapevole, che lega il fotografo alla propria macchina 

da ripresa. Lei sostiene in sostanza che l’operatore, 

anche quando immagina di costruire da sé gli strumenti 

per il suo lavoro espressivo, ne resta inevitabilmente contaminato 

e condizionato. Ma è un po’ come dire che la lingua, 

se è viva, ci condiziona nel nostro modo di esprimerci 

e persino di ragionare e noi, a nostra volta, attraverso l’uso, 

continuamente la modifichiamo, selezionando, oscurando 

e arricchendo lessico e sintassi. Più che ripetitivo o usurato, 

non le sembra che l’argomento risulti alla fine piuttosto 

improduttivo? Non le sembra che l’eventuale maggiore o 

piena consapevolezza che leghi l’autore all’apparato tecnologico, 

per quanto interessante sul piano teorico, non aiuti 

un granché né il pubblico a decifrare (e giudicare) le immagini 

fotografiche, né gli autori a migliorarsi? 

Non mi sembra che quella consapevolezza sia stata raggiunta. 

Lo dimostrano proprio le vaste irritazioni che suscita ogni mio 

articolo che ricordi quanto la “volontà” degli apparati fotografici 

sia ingombrante, invadente e difficile da riconoscere, 

ancorché da domare. Sono del tutto convinto che non rendersi 

conto della competizione/collaborazione con l’apparato fotografico 

(che è un meccanismo più denso, programmato, molto 

più complesso di un pennello o di un tubetto di colore, per 

quanto il discorso valga anche per questi) porti il produttore 

di immagini a diventare (ho imparato da Vilém Flusser) funzionario 

esecutore di volontà a cui neppure si rende conto di 

obbedire, e costringa il destinatario di quelle immagini a consumarle 

(appunto, esteticamente-estaticamente) fraintendendole, 

senza rendersi conto di quello che le immagini vogliono 

da lui, diventandone vittima. Altro che argomento usurato: 

per qualcuno il problema neppure esiste. Non c’è servo più 

subalterno di chi crede di esser padrone. 

Lei ha affrontato anche il tema della semiologia applicata 

alla fotografia. La semiologia, almeno per quanto riguarda 

il linguaggio dell’architettura, non sembra aver prodotto 

in passato grandi risultati. Lei non crede che approcci più 

concreti e interni alla disciplina (in questo caso alla fotografia) 

possano risultare più produttivi di tante brillanti 

ma astratte elucubrazioni? Non ritiene che, inquadrata in 

uno sforzo comune tendente a “fare scuola”, anche la semiologia 

possa contribuire ad aumentare l’effettiva cultura 

visuale che tutti evocano, ma pochi concretamente si sforzano 

di realizzare? 

Studiare come funziona il campo del fotografico non serve per 

aiutare i fotografi a fare foto più emozionanti, se proprio questa 

è la loro massima aspirazione. Si rendano conto i fotografi 

“artisti” a caccia di emozione che “fare belle foto” non è il destino 

unico della fotografia e che insegnargli a produrle non è 

la missione sovrana di chi la studia. La fotografia fa molte altre 

cose per gli esseri umani, si intromette nelle loro vite, trasmette 

messaggi, porta informazioni, registra dati, interpreta spazi, 

suggerisce opinioni e comportamenti, esprime sentimenti privati, 

consente di integrare le relazioni personali e pubbliche... 

In una parola, è materiale di base della fenomenologia sociale. 

Semiologi, ma anche antropologi, storici della mentalità, sociologi, 

iconologi, studiano la fotografia così come qualsiasi 

altro aspetto della nostra vita comunitaria: per capire come 

funziona il mondo. Non per allestire belle mostre. 

Spiegare perché determinate immagini siano “efficaci” (e 

perché no, emozionanti) non sarà la missione di chi le studia 

(peccato), ma sarebbe comunque bello se coinvolgesse 

GENTE di FOTOGRAFIA 80 - CLOSE UP

anche chi quelle immagini le produce per mestiere: può 

apparire paradossale, ma penso che siano proprio le cose 

che lei elenca a creare nell’osservatore il coinvolgimento, 

l’emozione … Ma passiamo alla prossima domanda: lei 

definisce i fotografi “fotografanti”, con il participio presente 

del verbo fotografare. A pensar male, sembrerebbe quasi 

un modo per etichettare dei praticanti o praticoni senza né 

arte né parte, spesso inconsapevoli dei propri limiti e dei 

limiti che la macchina pone al proprio operare, semplice 

conseguenza di un programma predisposto che consente 

solo esiti previsti: la vecchia storia tra forma e materia, 

potenza e atto. Ci può spiegare le ragioni della scelta di 

quel termine? 

Fotografante è il participio presente del verbo fotografare. È il 

vocabolo più neutro che si possa trovare per definire chiunque 

compia l’atto del fotografare. Siamo 

“ 

tutti fotografanti quando facciamo clic. È 

il grado zero della soggettività fotografica. 

Le questioni di consapevolezza che dice 

lei cominciano dopo. Escogitai quella parola 

esasperato dalle ridicole polemiche, 

che non finiscono mai, su chi abbia il diritto 

di definirsi “fotografo”. Di solito, chi 

solleva questa polemica ritiene che sia un 

vocabolo da riservare in esclusiva ai professionisti, 

accampando il falso parallelo con 

definizioni professionali regolate da leggi e 

procedure di accesso come chirurgo o avvocato. 

La mia personale opinione è che 

sia fotografo chiunque riservi alla fotografia 

un posto importante nella propria vita. 

Ovviamente, si può essere buoni o cattivi 

fotografi (sia professionisti che non). Ma anche questo giudizio 

di valore non può essere uguale per tutti e modellato su criteri 

che appartengono esclusivamente alle categorie della produzione 

artistica. 

Sempre nel suo blog lei ha più volte recensito molti bravi 

autori, fotografi e non. Mi sembra molto semplice chiederle 

come si riconosce un grande autore, perché immagino 

che sia facile riconoscere la bravura di un Pellegrin o di un 

Salgado. A noi interessa sapere come lei sa di trovarsi di 

fronte a un bravo autore, non ancora affermato, non ancora 

sul palcoscenico dei nomi noti. 

Non sono un talent scout. Per fortuna non mi è richiesto di 

scovare bravi autori. Francamente non so neppure bene se 

esista la categoria dei “bravi autori” in generale. Mi sembra 

una epistemologia ingenua, o interessata. Autori di cosa? 

Non ho metri di misura comuni con cui comparare Gursky e 

Nachtwey. Dovremmo finirla di pensare che la fotografia come 

campo culturale sia come ce la rappresentano gli stand di Paris 

Photo. Una galleria di cornici col cartellino del prezzo. 

Ci sono autori per cui la dicotomia tra fotografia di reportage 

e fotografia artistica è superata. Pur essendo dei 

reporter, alcuni fanno emergere una cifra stilistica che è 

propria dell’artista. Secondo lei è ancora utile categorizzare 

la fotografia? 

Ci sono fotografi nati nella tradizione e nel linguaggio del 

fotoreportage che, nella crisi conclamata dell’editoria di informazione, 

hanno pensato comprensibilmente di virare le 

proprie carriere sul mercato dell’arte. Ovviamente, essendo 

cambiati canali e funzioni del proprio lavoro, è cambiato anche 

il loro linguaggio. Trovo legittimo che lo facciano, tranne 

quando cercano di far credere che nulla è cambiato, o che il 

loro lavoro possa passare tale e quale dalle pagine di un newsmagazine 

alle pareti di una galleria senza che il messaggio 

ne soffra. Non è questione di categorie astratte. È questione di 

funzioni sociali. Se ti dai un compito e scegli un destinatario, 

dovrai anche scegliere modi di lavorare e linguaggi adeguati, 

che possono rivelarsi inadeguati e anche ingannevoli per altri 

scopi e destinatari. Se scegli di fare il giornalista visuale, per 

quanto le immagini abbiano un modo di funzionare diverso 

dalle parole, il tuo ruolo è quello del giornalista: fornire al lettore 

elementi di conoscenza, filtrati dal tuo sapere e dalla tua 

sensibilità ma comunque raccolti sul campo, affinché il lettore 

si formi una propria idea del mondo, e su quella base prenda 

decisioni consapevoli per la 

Ci sono fotografi nati 

nella tradizione e nel 

linguaggio del fotoreportage 

che, nella crisi 

conclamata dell’editoria di 

informazione, hanno 

pensato comprensibilmente 

di virare le proprie carriere 

sul mercato dell’arte 

” 

propria vita e per quella di 

tutti. La missione di un artista, 

per quanto vaga sia questa 

categoria di umani, non 

è questa. Può essere perfino 

in conflitto con questa. 

C’è un versante della fotografia 

perfettamente aderente 

all’arte contemporanea 

che preferisce l’idea 

all’opera: fotografie, spesso 

definite “concettuali”, 

che sono l’apologia del 

nulla. Per meglio dire, riporto 

le parole di Gregorio 

Botta: “Se è il discorso sull’arte- e cioè la parola, il sottotitolo, 

la spiegazione- a donare lo statuto di arte all’opera, 

la sensazione è che spesso il discorso si faccia prevalente, 

e si divori l’opera”. Come fare a evitare una caduta nel nichilismo 

fotografico che spesso trova schiere di “critici” 

compiacenti disponibili ad accreditarla? Si può ragionare 

sulla fotografia per come si fa con l’arte contemporanea? 

Concettuale è parola logorata da un uso generico e spesso beffardo, 

ormai inservibile. Doveva indicare un modo di fare arte 

che chiede al destinatario di risalire ai processi mentali messi 

in azione dall’artista, dei quali cui l’opera è solo un esito materiale, 

un indizio. È diventata sinonimo di criptico, cervellotico 

e vuoto, in qualche caso con una certa ragione. Penso si possa 

utilizzare la fotografia per fare arte concettuale, per quanto la 

referenzialità della fotografia rappresenti una sfida (di fronte a 

una fotografia la prima e spesso unica domanda è “sì, ma che 

cos’è?”). Temo che il problema, come suggerisce lei, riguardi 

la fotografia d’arte perché riguarda tutta quanta l’arte contemporanea: 

che da un secolo ormai si interroga solo su cosa 

sia l’arte, e magari a suo tempo fece bene a farsi la domanda, 

a uscire dall’ingenuità, ma diciamo che sarebbe una bella cosa 

se, raggiunto qualche risultato in questa autoanalisi, o disperando 

di raggiungerne, l’arte tornasse a interrogarsi su cos’è 

il mondo. La fotografia partiva ben piazzata per farsi questa 

domanda, potrebbe ricominciare lei. 

La nostra rivista propone autori e correda i loro portfolio con 

articoli critici. Riteniamo infatti che la prospettiva di un pensatore 

spesso, per formazione, apparentemente lontano dalla 

fotografia ma desideroso di trovare un piano di scambio, 


appresenti una singolare lettura di quel racconto fotografico, 

senza quindi voler esser la sola possibilità di decodifica. Che 

cosa ne pensa dell’utilità del testo a corredo di un portfolio o 

anche di una sola fotografia? 

Mi pare che questa sia una domanda sull’utilità della critica 

d’arte. Che mi guardo bene dal mettere in discussione. Quello 

del critico è però un mestiere del sistema culturale, utile e 

necessario per il pubblico se non diventa una forma di sacerdozio 

esoterico o una forma d’arte parassita. Se invece la domanda 

è: i fotografi-artisti devono scrivere attorno al proprio 

lavoro?, credo che una risposta valida universalmente non sia 

possibile. Il testo di accompagnamento può essere un aiuto 

alla libera decifrazione come una imposizione autoritaria di 

significato. Considero però ingenua la convinzione che, come 

le barzellette, “se la devi spiegare hai fallito”. Qualsiasi oggetto 

visuale, artistico o meno, ci giunge all’interno di contesti 

discorsivi. Puoi solo decidere se vuoi intervenire in quei contesti, 

o lasciare che siano organizzati da 

altri. Col rischio di fraintendimenti e 

strumentalizzazioni. 

“ 

Buono e Bello, due idee platoniche 

che hanno molto a che fare con la 

fotografia. Fino a ieri era soltanto 

la buona fotografia ad avere credito. 

Non possiamo però misconoscere il 

valore della bellezza insita nel linguaggio 

e quindi nella capacità di 

veicolare il messaggio. Eppure rimane 

una categoria di difficile accettazione 

in ambito fotogiornalistico. 

Lei che ne pensa? 

Io sto dalla parte della maestra dei 

miei figli, che vietò di usare l’aggettivo 

bello nei temi. Bello è un aggettivo assoluto, chiuso, soporifero 

e paraculo, assopisce il dovere di chiederci perché qualcosa 

ci piace, annegandolo nell’insindacabile giudizio di gusto, e 

ci esenta dalla fatica di spiegarlo agli altri. Mentre buono è un 

aggettivo dialettico, aperto, che sollecita un riempimento: una 

fotografia può essere buona solo in rapporto a uno scopo, una 

intenzione, una funzione, e dunque ci costringe a chiederci 

cosa il fotografo voleva fare, per cosa, e per chi. 

Le maestre vanno sempre rispettate, a prescindere. Ancora 

una domanda. Tante, ma non troppe, sono le Storie della 

fotografia: essenziali o enciclopediche, per generi o per 

correnti artistiche, per aree geografiche o, addirittura, per 

riconoscimenti o premi. E ancora cerchiamo un modo qualitativamente 

alto di fare storia della fotografia. C’è una 

difficoltà oggettiva nella materia, oppure è difficile confrontarsi 

con la varietà di rappresentazioni pressoché infinita 

del tempo e dello spazio? Dobbiamo augurarci una storiografia 

che sappia distinguere tra storia delle fotografie e 

storia dei fotografi? 

No, io mi auguro una storiografia del fotografico che finalmente 

la smetta di raccontarci solo storie di fotografie e di 

fotografi. Vorrei leggere prima o poi una storia dell’esperienza 

fotografica, come l’ha invocata più volte Geoffrey Batchen. Una 

storia della fotografia come nuova forma del sentimento del 

mondo. E come nuovo linguaggio per la condivisione di quel 

sentimento. Per una storia della fotografia come questa servirebbero 

più antropologi, filosofi, semiologi, iconologi, storici 

Quelle due foto furono, 

ciascuna per molti mesi, 

l’unica cosa che possedevo 

dei miei figli; la mia immaginazione 

(a volte anche 

i miei sogni) le animava, 

ricavando da loro più di 

quanto legittimamente 

potessero dare 

” 

della mentalità e studiosi di cultura visuale che critici nel senso 

artistico estetico letterario (che per me sono il problema e non 

la soluzione). Una storia del genere farebbe finalmente giustizia 

dell’abbaglio saccente di chi continua a tentare di espellere 

le nuove dimensioni del fotografico (la condivisione via Web 

soprattutto) dalla storia della fotografia. 

Potrebbe indicare tre immagini, appartenenti alla storia 

della fotografia, particolarmente importanti per lei? E motivarne 

la scelta? 

Mi è stata già fatta questa precisa domanda in passato. Il numero 

tre sembra avere un fascino magico, cabalistico... Mi 

lasci dare la stessa risposta di allora. Le fotografie davvero importanti 

nella nostra vita non sono mai fotografie pubbliche. 

Sono sempre immagini private, investite di significati, relazioni, 

echi che solo poche persone, forse una sola, possono decifrare. 

Per questo mi permetto di scimmiottare Roland Barthes 

e scelgo tre fotografie che non posso 

mostrare, giacché in realtà non 

sono davvero mie: sono solo affidate 

a me, che non ne possiedo la disponibilità 

morale. Posso però parlarne. 

Due di esse sono ritratti dei 

miei due figli. La prima è una fototessera 

in bianco e nero, la seconda 

un banale fotocolor. Non ne conosco 

neppure gli autori. I miei figli 

li ho visti per la prima volta così, 

in queste immaginette insufficienti 

e infedeli, congelate e penosamente 

mute, prima di poterli raggiungere 

ed abbracciare e poi portare 

a compimento le pratiche burocratiche 

per adottarli. Quelle due foto 

furono, ciascuna per molti mesi, l’unica cosa che possedevo 

dei miei figli; la mia immaginazione (a volte anche i miei sogni) 

le animava, ricavando da loro più di quanto legittimamente 

potessero dare; molto di quel carico emotivo è rimasto 

intriso nelle loro fibre, trasformandole in oggetti sacri. Ma per 

me, solo per me. La terza fotografia la scattai io, ai miei genitori, 

come souvenir di una gita al lago di Carezza, premendo 

il bottone della Voigtländer di papà nel preciso istante in cui mia 

madre avvertiva la prima fitta del male che in breve tempo me 

l’avrebbe rubata: in quel rettangolo c’è la sua smorfia di sorpresa 

e di dolore, c’è lo sguardo interrogativo e preoccupato 

di mio padre, che pure se ne sarebbe andato poco prima di lei; 

c’è la mia inconsapevolezza adolescente del dramma che incombeva, 

già pronta a trasformarsi in senso di colpa ogni volta 

che avrei riguardato quell’immagine dura e violenta, l’immagine-soglia, 

l’immagine crinale tra adolescenza e maturità, tra 

spensieratezza e rimpianto. Spero che questa risposta abbia 

fatto capire la mia idea di cosa sia, nel profondo, la fotografia, 

e di cosa faccia agli esseri umani. 

A dire il vero, speravo parlasse di tre o anche più fotografie 

da stampare a corredo del testo dell’intervista. La sua risposta 

è stata, comunque, molto coinvolgente. 

GENTE di FOTOGRAFIA 

82 - CLOSE UP

30 marzo | 2 giugno 2019 

sponsor

RETROSPETTIVA 

VITTORE FOSSATI 

E LA FOTOGRAFIA COME APPARENZA 

di GIOVANNA GAMMAROTA 

La scorsa estate vidi una piccola mostra 

di fotografia, curata da Ivan Catalano, 

presso spazio Isole a Torino dal titolo 

Il Tanaro a Masio. L’esposizione presentava 

una serie di immagini scattate da 

Vittore Fossati, fotografo alessandrino, 

lungo il tratto del fiume Tanaro che 

interessa il territorio di Masio, nella 

provincia di Alessandria. Le fotografie 

mostravano un paesaggio dove sembrava 

non esserci nulla da vedere. In 

realtà, attuando l’esercizio di una lenta 

e costante osservazione, l’occhio dello 

spettatore viene trasportato da quelle 

che l’autore chiama apparenze. Le fotografie 

di paesaggio sono delle apparenze, 

dice Fossati, sono come si manifestano 

all’occhio del fotografo in quella situazione. 

Ma cos’altro c’è oltre ciò che si vede? 

In un suo intervento sulla fotografia 

di Luigi Ghirri, Fossati cita una frase 

tratta dal diario di Edward Weston che 

ritrae il tronco di una palma sottolineando 

che si tratta della fotografia di un 

tronco d’albero più qualcos’altro ma 

non sa dire cos’è questo qualcos’altro. 

Dunque l’apparenza è intangibile e si 

manifesta attraverso l’alchimia scaturente 

dalla relazione che si stabilisce tra 

chi guarda la realtà e la realtà stessa. 

Un altro aspetto non scontato che 

emerge da queste fotografie è la “costanza” 

del luogo a voler esistere, alla 

stessa stregua di qualsiasi altro essere 

vivente. Questo accade non soltanto 

nei luoghi di natura, come è ovvio che 

sia, ma anche negli ambienti urbani, 

ogni spazio esiste autonomamente. 

È per questo che un luogo non è mai 

uguale a se stesso: esso è come l’autore 

lo fotografa con il suo sguardo ed è 

come il fruitore lo vede quando guarda 

la fotografia. 

Vittore Fossati con Il Tanaro a Masio 

sceglie di esplorare una porzione molto 

piccola di territorio eppure la molteplicità 

di suggestioni che tale porzione è 

in grado di offrirgli è sconfinata. Cos’è 

allora la realtà? Osservando le immagini 

di questo lavoro capiremo che la realtà 

in termini assoluti non esiste. Esiste 

la realtà che dimora nello sguardo 

di ciascuno perché, come scrive Robert 

Adams, fare fotografie è una questione 

personale, quando non lo è, i risultati 

non sono convincenti. 

Qualche anno fa incontrai Vittore Fossati 

a Milano, da tempo lo rincorrevo 

per ottenere un’intervista, ricordo che 

mi rispose “non ho niente da dire”. 

Non si trattò di un atteggiamento snob, 

tutt’altro, intendeva esattamente che 

non c’era nulla da dire sulla fotografia. 

Disse anche che sarebbe stato necessario 

abolire per un po’ tutte le immagini 

e finanche i libri fotografici, per riuscire 

a pulire il proprio sguardo. Un po’ 

quello che asseriva Pier Paolo Pasolini 

quando, negli anni Settanta, affermò 

che bisognasse abolire la televisione 

per almeno vent’anni affinché le menti 

potessero tornare a pensare. Nel caso 

di Fossati l’intento fu il medesimo: egli 

mi stava dicendo cosa occorresse fare 

affinché i nostri occhi tornassero a vedere 

da soli e potesse nuovamente emergere 

l’immagine come apparenza. 

Le sue fotografie scattate lungo le rive 

del fiume Tanaro – al mattino prima 

di recarsi al lavoro, in una dimensione 

non forzata da un progetto preciso, 

utilizzando il tempo necessario – fanno 

diventare lo sguardo un atto quotidiano. 

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa 

può mai esserci di particolare in uno 

stesso luogo tanto da doverlo fotografare 

ogni giorno? A chi si pone questa 

domanda non si può far altro che rispondere 

con un’altra domanda: hai 

mai guardato con i tuoi occhi? 

GENTE di FOTOGRAFIA 84 - RETROSPETTIVA

© Vittore Fossati 







GENTE di FOTOGRAFIA 86 - RETROSPETTIVA



© Lorenzo Castore, dal libro Ewa & Piotr

LIBRI 

LORENZO CASTORE 

“EWA & PIOTR” 

di PIPPO PAPPALARDO 

Sono le fotografie di un tempo, o meglio, del tempo trascorso 

tra un fratello e una sorella. Sono le foto dei loro volti di adulti, 

della loro casa, dei loro momenti di gioia (pochi), dei loro momenti 

d’inquietudine (tanti). 

Le foto parlano della loro solitudine, dei loro giorni, e di una casa 

assai modesta, certamente misera, laddove si abita e da dove ci si 

può allontanare dal mondo e dalle sue convenzioni sociali; sicuramente 

è una casa abitata e, forse, un po’ “lasciata andare” ma è 

disponibile alla convivenza con cani, gatti, ombre, sorrisi, sospiri, 

pianti (tanti!). Il mondo degli altri vi si ferma, in maniera assolutamente 

naturale, alla soglia dell’uscio e, se entra, si confonde 

con la sospensione di ogni attesa, qualunque sia la sua durata. Il 

fotografo vi entrerà per anni. 

È il racconto fotografico di un incontro, anzi, di una ricerca, di un 

inseguimento e, poi, fondamentalmente, di una scoperta (forse, di 

tante scoperte). 

Il protagonista dell’incontro è, in prima persona, Lorenzo Castore 

che scopre Ewa e il fratello, con le loro storie; che trasforma 

l’ansiosa curiosità di conoscere e capire in un esistenziale confronto, 

alla luce del quale prova a verificare la sostanza e la natura 

delle troppe domande che, ormai, giorno dopo giorno, gli affollano 

la mente così come le immagini che gli si parano davanti agli 

occhi. La fotografia diventa l’involontario strumento con il quale 

registrare un diverso dialogo, una “diversa” relazione affettiva, 

costruita non sul semplice desiderio di aiutare o di ascoltare un 

bisogno ma di essere devoto a un unico imperativo: guardarsi 

negli occhi, ascoltare. 

Le domande e le risposte, tra loro, sono evidenti: non vanno 

chiedendo idee o certezze per essere giustificate o spiegate. Il 

fotografo lascia che siano gli sguardi, i gesti, le 

luci, le ombre a iniziare un racconto, a recuperare 

una memoria, a condividere un’esperienza 

umana. Umana “per una bellezza inaspettata, 

per il piacere di identificarsi in tutto, per rendersi 

conto che niente si fa da soli, per quello 

che non si sa, per ciò di cui non si può dire”. 

Lorenzo Castore 

Ewa & Piotr 

Pagine 200 

Formato: 22x30,5 cm 

Editore: Les Editions Noir 

sur Blanc 

Pagina dopo pagina, meglio ancora, immagine dopo immagine, 

il diario di questa eccentrica vicenda ci si rivela come nel dramma 

“Aspettando Godot” di Samuel Beckett, quando, cercando di 

capire il vaniloquio apparente dei protagonisti, si finisce per penetrare 

nella loro umanità e si avverte la sensazione di averli da 

sempre conosciuti. 

La poetica di Beckett, invero, trapassa agevolmente nello stile del 

nostro autore che rende testimonianza dello straordinario rapporto 

creativo ed esistenziale vissuto con due giganti della nuova 

narrativa fotografica: ci riferiamo a Michael Ackerman e Anders 

Petersen, di quest’ultimo il nostro Castore recupera la ripresa fotografica 

a breve distanza, quasi epidermica; di Ackerman, invece, 

la sapiente drammaticità del bianco nero reso graficamente 

espressivo (e sullo sfondo potremmo leggere un certo Marc Asnin 

con il classico “Uncle Charlie”). Ma, poiché il nostro fotografo non 

si è limitato a raccontare solo con le sue fotografie ma ha risolutamente 

introdotto nell’operazione rappresentativa anche vecchie 

immagini fotografiche trovate o realizzate dai medesimi protagonisti, 

ed altro ancora, la proposta contenuta nel presente lavoro 

assume una natura meta-fotografica, ricollegabile alle poetiche 

cinematografiche dell’Europa dell’Est (siamo pur sempre a Cracovia). 

Ci piace, allora, sottolineare come, dopo la bella prova dell’esordio 

editoriale “Nero”, laddove l’immagine concepita dal fotografo, 

avvertiva ancora l’urgenza di confrontarsi con le parole 

dei suoi compagni di avventura e di poesia; dopo che la matura 

qualità espressiva di “Paradiso” emancipava l’artista da ogni vincolo 

stilistico o accademico, nel presente lavoro 

possiamo riconoscere un’assoluta originalità del 

“pensare per immagini” e, conseguentemente, 

raccontare, di là dal documento o della mera testimonianza. 

Anche nel recentissimo libro “Ultimo 

domicilio” di questa maturità espressiva (ma preferisco 

chiamarlo bisogno espressivo) c’è traccia. 


© Lorenzo Castore, dal libro Ewa & Piotr 


PORTFOLIO

© Lorenzo Castore, dal libro Ewa & Piotr



PORTFOLIO





PORTFOLIO





PORTFOLIO

LIBRI 

SAMUELE BIANCHI 

SIMONE LETARI 

SIMONA LUNATICI 

SEDIMENTO 

di ALESSANDRO TRABUCCO 

“Andai nei boschi perché desideravo vivere con 

saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e 

per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva 

da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che 

non ero vissuto.” 

Henry David Thoreau - Walden, ovvero Vita nei boschi, 1847 

Guardo divenire immagine © Sedimento 

Samuele Bianchi 

Simone Letari 

Simona Lunatici 

Sedimento 

Pagine 100 

Formato: 21x28 cm 

Editore: Gente di Fotografia 

In un’epoca come quella presente, nella quale la vita vissuta (intesa 

come esperienza diretta delle cose) sempre più è delegata a 

strumenti ed accessori tecnologici capaci, da una parte, di amplificare 

ed estendere le possibilità di conoscenza del mondo, 

dall’altra, di isolare il singolo individuo in una sorta di campana 

di vetro digitale, la condivisione effettiva di un progetto fotografico 

collettivo risulta estremamente significativo ed anche stimolante 

da un punto di vista interpretativo e critico. È ciò che 

hanno compiuto, nel corso di più di due anni, Samuele Bianchi, 

Simone Letari e Simona Lunatici, realizzando un nutrito numero 

di scatti fotografici in luoghi naturali (l’alveo di un fiume, 

una cava di marmo e una pineta), senza avere specifici propositi 

documentativi o ambientalistici, esplorati con assiduità e in ogni 

situazione meteorologica. 

Con il nome Guardo divenire immagine i tre autori realizzano una 

raccolta d’immagini fotografiche con l’obiettivo di definire una 

geografia visiva dei luoghi presi in esame attraverso un tracciato 

scandito da un flusso temporale rallentato, costituito da un paziente 

dialogo tra il proprio ritmo interiore e le suggestioni che 

la natura è stata in grado di suscitare, semplicemente vivendola 

con partecipazione emotiva. L’esperienza di condivisione dei tre 

autori è radicale, mantenendo l’autonomia dei singoli punti di 

vista, ma senza specificare la paternità di ogni scatto, una scelta 

che non influenza le loro personalità stilistiche e la libertà di 

movimento di ciascun fotografo nei percorsi affrontati. 

Il risultato è una serie d’immagini che potremmo definire “naturalistiche”, 

ma che si distaccano da una volontà 

estetizzante fine a se stessa, privilegiando uno 

sguardo selettivo dei luoghi, sedimentato nel tempo 

e nello spazio. 

Sedimento è il titolo di questo libro fotografico 

dedicato a Guardo divenire immagine, nome 

scelto per sottolineare l’equivalenza tra il 

lento processo di accumulazione di materiale 

solido sulla superficie terrestre e quello visivo ottenuto 

dai fotografi attraverso un’osservazione attiva e partecipata. 

Uno degli aspetti di questo “rapporto tra gli sguardi” è la presenza 

di fotografie che potrebbero sembrare, ad una prima e superficiale 

osservazione, la ripetizione dello stesso punto di vista 

e che, invece, dimostrano l’effettivo scarto stilistico tra gli autori, 

come fossero “dittici eterozigoti”, apparentemente simili ma differenti 

nella forma e nella personale interpretazione. 

La sequenza delle immagini riportate nel libro sembra tracciare 

quindi più un percorso interiore (o meglio, interiorizzato) piuttosto 

che una normale passeggiata tra i boschi, un attraversamento 

fisico che si trasforma in un’esperienza sensoriale completa. 

I tre autori aggiungono alle immagini 

realizzate con le loro fotocamere 

un momento creativo reso possibile 

dall’utilizzo delle “Cartafoto da 

viaggio” ideate dal fotografo Pietro 

D’Agostino. Sono fogli di carta fotosensibile 

che gli autori posano sul 

suolo dei luoghi attraversati ricoprendoli 

con foglie, rami e pietre, o 

semplicemente ponendoli nelle vicinanze 

di elementi vegetali in modo 

che quelle forme, disposte un po’ 

casualmente, o le ombre delle piante, lascino le loro tracce indelebili 

sulla superficie della carta. E la natura 

diviene creatrice d’immagini –sembra un paradosso 

ma sembrano proprio fotografie astratte, 

soffuse e suggestive– gli autori scelgono solo i 

luoghi, le modalità e i tempi di esposizione, la 

luce impressiona la superficie liscia della carta 

fotosensibile lasciando per sempre traccia di sé 

del suo passaggio. 


GENTE di FOTOGRAFIA 98 - LIBRI



GENTE di FOTOGRAFIA 100 - LIBRI 

Guardo divenire immagine © Sedimento







© Giuseppe Mastromatteo, dal libro Humanscape

LIBRI 

GIUSEPPE 

MASTROMATTEO 

HUMANSCAPE 

di SALVATRICE L. GRACI 

Dalle immagini alle parole e viceversa. 

Tra le uscite editoriali del settore fotografico più interessanti del 2018 

vi è sicuramente Humanscape, un libro fotografico che celebra il 

lavoro di Giuseppe Mastromatteo, curato da Benedetta Donato 

che firma anche l’intervista all’artista. Duecento illustrazioni 

intercalate da contributi di personaggi illustri, confezionate elegantemente 

da Silvana Editoriale. Nella pubblicazione ritroviamo 

tutti i lavori di Mastromatteo, dai più recenti ai più lontani. Non 

si tratta di mera autocelebrazione: alle immagini dell’artista italiano 

si alternano quelle di altri fotografi che ne hanno influenzato 

l’opera. Un dialogo formato da parole e da immagini. E quest’ultime, 

infine, creano un nuovo linguaggio che fa delle figure immortalate 

non un oggetto esposto per la mera contemplazione ma 

qualcosa che esprime vitalità: un divenire che cambia, non con il 

tempo, ma attraverso la sensibilità di chi osserva che viene attratto 

o respinto dalle immagini creando un’energia binaria. L’opera 

d’arte in sé, da un punto di vista materiale, può essere considerata 

finita, ma si instaura un dialogo tra l’autore, in questo caso Mastromatteo, 

e il fruitore dell’opera. E ancor più se consideriamo 

le diverse espressioni artistiche in divenire: l’arte contemporanea 

offre grandi possibilità, per esempio le istallazioni, o le performance, 

come quelle della celeberrima Marina Abramović di cui proprio 

Mastromatteo e Benedetta Donato parlano nell’intervista che accompagna 

e sostiene il racconto fotografico. Ma mi chiedo: un 

lavoro di questo tipo ha bisogno di parole che lo 

accompagnino o che lo sostengano? Nella nota di 

presentazione della casa editrice Silvana si legge: 

“Il volume, composto da un ricco corpus di 110 

fotografie insieme a testimonianze, contributi e 

immagini, si inserisce a pieno titolo nel dibattito 

della cultura visiva internazionale, grazie anche 

Giuseppe Mastromatteo 

Humanscape 

Pagine 256 


Editore: Silvana Editoriale 

ad una foto-intervista che rappresenta il cuore del progetto: un 

dialogo tra l’autore e la curatrice […] attraverso le ispirazioni, 

gli incontri, gli aneddoti”. A ben leggere, non si tratta dunque di 

un libro fotografico o, almeno, non solo di questo. Le parole che 

spiegano l’arte e le immagini che creano dialogo. Forse la dissertazione 

su Marina Abramović non è altro che la prova di come 

l’arte, nel senso più alto del termine, non si crei limitazioni e di 

come le varie forme artistiche si fondano, si contrappongano, si 

respingano e a volte – come in questo caso - si sostengano e giustifichino 

a vicenda. 

Altro aspetto interessante riguarda lo “sguardo”, il proprio, quello 

dell’artista, quello del soggetto dell’opera d’arte. Racconto per 

immagini, dicevamo, tutto decodificato dalle parole che a volte 

intervengono per spiegare, altre per aggiungere o sottrarre, altre 

ancora per veicolare un messaggio che nella sovrabbondanza iconografica 

del mondo contemporaneo rischia di essere risucchiato 

e confuso o, peggio, banalizzato. Negli ultimi decenni gli studiosi 

di semiotica si sono confrontati sulla cosiddetta “svolta iconica del 

contemporaneo” a volere sottolineare la preminenza delle immagini 

sul testo scritto ma, nel caso di Mastromatteo il tutto sembra 

trovare un fortunato equilibrio. Non è chiaro se la scelta sia stata 

determinata dalla casa editrice o dalla curatrice che attraverso 

l’intervista sembra volere riaffermare il ruolo del 

testo come essenziale per spiegare l’evoluzione 

dell’artista. 

Forse, semplicemente, se teniamo in considerazione 

che un’immagine non è verità, le parole 

scritte rappresentano un supporto che fanno 

dell’immagine stessa una testimone della realtà. 


© Giuseppe Mastromatteo, dal libro Humanscape 
















© Carlo Riggi, dal libro Rarefaction

LIBRI 

CARLO RIGGI 

RAREFACTION 

di FABIOLA DI MAGGIO 

Il carattere eccessivamente stereotipato e l’irreale perfezione 

che le fotografie oggi manifestano soprattutto attraverso i social 

network -nonché la loro smisurata quantità- ha portato lo psicanalista 

siciliano Carlo Riggi a cercare e comunicare con le sue 

fotografie un modo per sottrarsi a un’invasione iconica perturbante. 

La via indagata e proposta da Riggi consiste nella struttura 

stessa della fotografia che, attraverso la forma, comunica inevitabilmente 

anche il suo contenuto. Da questa esplorazione, che lo 

ha impegnato per cinque lunghi anni, nasce il volume Rarefaction, 

una raccolta di sessantanove fotogrammi che esprime ampiamente 

l’inventiva dell’autore. Il libro contiene scatti non tematici, dei 

quali solo alcuni presentano una figurazione quasi perfettamente 

nitida e realistica. La maggior parte delle immagini sono, al 

contrario, attimi di sottrazione visuale che, attraverso il mosso o 

lo sfocato forgiati dalla luce, tendono verso il dileguamento della 

forma: metafora dell’annichilimento degli esseri umani, ridotti 

sempre più a mere apparenze, la quale si traduce simbolicamente 

in astrazione, allusione, illusione. In una parola: rarefazione. Ed 

è proprio in questa “riduzione” fotografica che Riggi condensa la 

sua critica contro la vigente narcosi della visione, lasciando a ciascun 

osservatore di poter intravedere e vivere l’aspetto emozionale 

che ogni fotogramma possiede. Scenari fantastici e surreali, forme 

della memoria e del desiderio, spazi anonimi e periferici, a tratti 

distopici, sostengono l’assetto di un bianco e nero 

diradato, a volte impalpabile e soffice, a volte più 

saturo e compatto. 

La trama della rarefazione non è dunque solo 

una questione di rappresentazione o di analisi 

iconica. Essa delinea un’intenzione estetica particolare, 

il suggerimento ad ambire a nuove visioni 

Carlo Riggi 

Rarefaction 

Pagine 162 


Editore: EBS Print 

della bellezza in un’era dove essa viene abusata, privata della sua 

essenza, piegata ai bisogni commerciali, alle tendenze della moda, 

alla ricezione istantanea e collettiva. Questa ossessione per l’incanto 

e lo stupore a tutti i costi, per l’appariscenza ingannevole 

che abbaglia subito e facilmente, tra tutte le arti chiama per prima 

in causa proprio la fotografia, la cui aura, quanto più si nutre di 

eccezionalità e sbalordimento, tanto più appare impersonale, convenzionale, 

insignificante, passeggera. 

La rarefazione di Riggi diventa così un’opportunità concettuale 

per interrogarsi sul sentimento della fotografia, quella passione 

irrefrenabile che si pone nel farla, nel trasmetterla e nel goderne. 

Quel senso di bellezza tenue e accessoria che impregna le fotografie 

di Riggi è eversivo e in controtendenza rispetto alle dinamiche 

che governano oggi molta fotografia, in parte anche “d’autore”. 

La fotografia, come ogni immagine artistica, non è né più né 

meno che un sentimento d’amore. È ricerca e conseguimento di 

piacere da parte di autori e spettatori. È una forma di idealizzazione 

e appagamento visuale a cui non interessa possedere e 

mostrare una bellezza tanto straordinaria quanto ipocrita e precaria. 

Essa si limita “semplicemente” a innestare un contatto, a 

provocare emozioni, a ricercare significati oltre l’apparenza. Nel 

fascino incerto e ammaliante, velato e reale di 

un paesaggio, di un ricordo, di un pensiero, di 

un volto, di un racconto, di un cammino, di un 

riflesso, di un’aspirazione, di un’impressione e 

spesso di una previsione, la fotografia, come la 

neve, soffice e lieve, sopravviene. Come una giostra 

continua a girare sul mondo. 




© Carlo Riggi, dal libro Rarefaction 







MOSTRE 

Jamie Diamond, Elena Dorfman 

CREATURE PROUSTIANE 

di ALBERTO GIOVANNI BIUSO 

Jamie Diamond, Elena Dorfman 

Surrogati. Un amore ideale 

21 febbraio/ 22 luglio 2019 

Osservatorio Fondazione Prada 

Galleria Vittorio Emanuele II 

Milano 

L’Altro è questa bambola. Nelle nostre 

mani. Le mani del desiderio. Un desiderio 

grande al punto da costruirsi il proprio 

amore, l’oggetto che appare come 

promessa di luce e però come ombra 

svanisce nei sentieri del divenire. Questi 

corpi di bimbi o di femmine, queste 

bambole adulte o bambine, sono lo stesso 

sogno. È vano ogni tentativo di dare 

torto a Proust e a Choderlos de Laclos: 

«Ce charme qu’on croit trouver dans les 

autres, c’est en nous qu’il existe; et c’est 

l’amour seul qui embellit tant l’objet 

aimé» 1 . 

Nella bambola questa verità assume l’evidenza 

della forma, la sostanza di una 

materia sempre docile e che però sempre 

si nega. Una materia fatta di plastica 

e di silicone, di sensazioni all’apparenza 

morbide e pulite. Ma che rimane 

fredda al fondo poiché è fatta di miraggio 

riflesso ombra. Luce che si plasma e 

che ritorna dopo che la torcia della passione 

ne ha modellato i contorni. Ma 

dentro quella forma, nulla. Nulla al di 

fuori dei pensieri che il sentimento crea. 

Che crea questo bisogno tutto umano di 

essere amati. 

Elena Dorfman e Jamie Diamond mostrano 

la sostanza d’inganno che intesse 

i sentimenti, di coppia o materni che 

siano. Perché l’amore è sempre il bisogno 

di riversare sull’Altro -compagno, 

figlio, madre, amante, moglie- l’amore 

che vorremmo e che non abbiamo ricevuto. 

Nella passione di coppia l’Altro 

non è soltanto una disgrazia che ci 

cade dentro il cuore. Non è soltanto un 

enorme spreco di tempo e di tristezza. 

Di parole e di soldi. Di speranza e di 

lacrime. L’Altro, semplicemente, non 

è. Mai. L’Altro è la bambola che costruiamo 

pezzo a pezzo e poi tutto in 

una volta. Costruiamo quel significato 

unico e inimitabile delle parole che l’Altro 

ha scritto o detto. Costruiamo quel 

sorriso e la sua dolcezza promettitrice 

di felici universi di piacere. Costruiamo 

quella passione fremente ed esclusiva. 

Costruiamo quel progetto comune di 

vita, come dicono gli attempati amanti 

dimentichi del furore. Costruiamo le 

sue cosce il culo e il sorriso, la gioia che 

cosce culo e sorriso ci danno. 

Costruiamo soprattutto la speranza, 

il più insidioso dei sentimenti, il più 

malvagio. Vanamente infatti nutriamo 

la speranza di incontrare una creatura 

non proustiana. Una donna o un uomo 

che “non diminuiscano di temperatura 

al ribollir dell’altro ma come opera alchemica 

rimangano sempre nell’incandescenza 

bianca dell’oro puro”. Detto 

in termini più comprensibili, donne o 

uomini che continuino ad amare pur 

essendo amati assai. Anche questo sarebbe 

una creatura non proustiana, 

soprattutto questo. E invece anche l’ultima 

illusione, quella che ci aveva dato 

la certezza che sì finalmente abbiamo 

avuto dagli dèi il dono di una creatura 

capace di smentire Proust, si rivela 

una certezza che inizia a scemare, che 

comincia a scendere dal cuore come si 

scende dal letto nelle mattine noiose di 

una domenica senza luce. 

Anche Diamond e Dorfman danno ragione 

a Proust, che ragione ha sempre. 

Che si tratti di Forever mothers o di Still 

Lovers, l’amore ideale è sempre un surrogato 

d’amore. Perché la creatura così 

tanto elogiata stimata lodata ascoltata 

desiderata e amata si rivela proustiana 

sino al midollo e all’ultimo capezzolo. 

Non esistente, insomma, se non nella riflessa 

tenerezza dell’amore che le avevamo 

senza risparmio regalato. Dilapidato. 

Scialacquato. Sperperato. Disperso. 

Dissipato. Sprecato. Sempre così sempre 

così la va’. 

L’Altro è la bambola che il nostro cuore 

plasma, che plasma il desiderio infinito 

dell’amore. E quando la statua l’illusione 

e il triste inganno si disperdono come 

vento, nulla più rimane tra le mani ma 

soltanto la nostalgia dell’Altro che non 

c’è, dell’Altro che mai è stato. E di noi 

che quel sogno abbiamo amato. Si ama 

sempre questo nulla, infine. 

1 

«L’incanto che crediamo di trovar negli altri, è in noi che abita: ed è soltanto l’amore a rendere così splendente l’oggetto amato» (Pierre Choderlos de Laclos 

Les liaisons dangereuses, 1782, lettre CXXXIV). 

GENTE di FOTOGRAFIA 118 - MOSTRE

© Jamie Diamond - Mother Marilyn, 2012 - da “Forever mothers” 

Archival pigment print - 81x101,5 cm - Courtesy of the artist 

© Jamie Diamond - Mother Cherry, 2018 - da “I promise to be a good mother” 

Archival pigment print - 81x101,5 cm - Courtesy of the artist

© Jamie Diamond - 4.12.12, 2012 - da “I promise to be a good mother” 


© Jamie Diamond - Mother Brenda, 2012 - da “Forever mothers” 


GENTE di FOTOGRAFIA 120 PORTFOLIO

© Jamie Diamond - Mother Kyla, 2012 da “Forever mothers” 


© Jamie Diamond - 5.28.12, 2012 - da “I promise to be a good mother” 

Archival pigment print - 76x101,5 cm - Courtesy of the artist

GENTE di FOTOGRAFIA 122 - MOSTRE 

© Elena Dorfman - Sidore 4, 2001 da “Still Lovers” 

Chromogenic print mounted on aluminum - 76x75,5 cm - Courtesy of the artist

© Elena Dorfman - CJ 3, 2002 - da “Still Lovers” 

Chromogenic print mounted on aluminum - 75,6x75,6 cm - Courtesy of the artist 



© Elena Dorfman - CJ & Taffy 5, 2002 - da/from “Still Lovers” 

Chromogenic print mounted on aluminum - Courtesy of the artist

© Elena Dorfman - Ginger Brook 4, 2001 - da/from “Still Lovers” 

Chromogenic print mounted on aluminum - Courtesy of the artist 



© Elena Dorfman - Galatea 4, 2002 - da “Still Lovers” 

Chromogenic print mounted on aluminum - 75,6x75,6 cm - Courtesy of the artist

© Elena Dorfman - Lily 1, 2004 - da “Still Lovers” 

Chromogenic print mounted on aluminum - 75,6x75,6 cm - Courtesy of the artist 



© Pentti Sammallahti, dalla serie Des Oiseaux

MOSTRE 

PENTTI SAMMALLAHTI 

DES OISEAUX 

di EMANUELE E. MARIANI 

La Galleria dell’Incisione, ente bresciano 

che dal 1972 è specializzato 

nel settore della grafica mitteleuropea 

compresa tra Ottocento e Novecento, 

sabato 2 febbraio 2019 ha inaugurato la 

mostra Des oiseaux. L’esposizione rimarrà 

fruibile fino a domenica 17 marzo. Il 

soggetto ispiratore dell’evento è il nuovo 

libro del fotografo finlandese Pentti 

Sammallahti che dà titolo alla mostra 

(Éditions Xavier Barral, 2018). Il tema, 

come recita il comunicato di diffusione 

dell’iniziativa, trae spunto dalla più 

vasta rappresentazione dell’“animale 

allegorico per eccellenza”. Difatti, accanto 

a questa nuova rassegna di fotografie 

di Sammallahti, saranno esposti 

disegni, acquarelli, stampe e altre 

fotografie e sculture, dando spazio ad 

autori sia storici che contemporanei: 

da Andrea Collesano, Vanni Cuoghi, 

Giuseppe Gallizioli, Armida Gandini, 

Quentin Garel, Ernst Moritz Geyger, 

Fausto Gilberti, Giorgio Maria Griffa, 

Michael Kenna a Franco Matticchio, 

Andrea Micheli, Louis Moe, Karl Moser, 

Richard Müller, Andrea Pedrazzini, 

Marta Roberti, Felice Tosalli, Joseph 

Uhl, Velasco Vitali e molti altri. 

Gli uccelli da sempre popolano l’umana 

fantasia grazie alle loro caratteristiche 

innate. Se in essi si esprime ciò che 

per natura è negato all’uomo, ovverosia 

il poter volteggiare con libertà per 

le altezze più remote, Sammallahti ne 

restituisce il carattere integrato ad una 

Pentti Sammallahti 

Des Oiseaux 

2 Febbraio/17 Marzo 2019 

Galleria dell’Incisione 

Brescia 

natura, anche deforme e manipolata, 

che continua comunque ad accoglierli. 

Adesso poggiano e nidificano sulle 

linee dell’alta tensione di un paesaggio 

attraversato da esigenze peculiarmente 

antropomorfe (Przevorsk, Poland, 

Stampa alla gelatina ai sali d’argento 

2005); successivamente, appaiono 

quasi in primo piano e al contempo 

sullo sfondo cupo dei residui meccanici 

dell’affannoso umano industriarsi 

(Võruma, Stampa alla gelatina ai sali 

d’argento, 2004). In un’altra immagine 

(Dehli, India, Stampa alla gelatina 

ai sali d’argento, 1999) uno stormo fa 

quasi tutt’uno, sostituendolo, col fogliame 

assente dell’albero ormai spoglio 

e morente. Quest’ultimo, accomodante, 

ne ospita tuttavia il passaggio, 

mentre si accingono a lasciarlo coralmente, 

all’unisono, in armonia figurale 

e di movimento, per proseguire il volo e 

migrare verso nuovi orizzonti. 

Grazie a questi ed altri scatti diviene 

palese il legame che da sempre il mondo 

ornitologico intrattiene con la natura, 

per quanto sfruttata e deformata, e 

con la sua ciclicità ritornante. Se difatti 

fu una sorta di invidia della loro condizione 

di libertà – o forse la rappresentazione 

del desiderio che essa suscita 

– e che gli uccelli da sempre sanno 

restituire con i loro movimenti ad ispirare 

Paul Valery nel dire che “bisogna 

essere leggeri come uccelli e non come 

la piuma”, il filosofo tedesco Friedrich 

Nietzsche, strenuo amante delle metafore 

ornitologiche e del volo, come il 

suo profeta ispiratore Zarathustra, affermava 

che “le parole più quiete portano 

la tempesta” e che i “pensieri che 

incedono con passi di colomba guidano 

il mondo” (Za II, KSA 4/189). 

Dal mondo poetico, lirico e musicale 

sino a quello filosofico e letterario 

le immagini del librarsi degli uccelli, 

della loro leggerezza ma anche della 

sapienza e della capacità rapace che 

possono indicare in similitudine, dischiudono 

un campo simbolico vastissimo 

che, come nelle intenzioni della 

Galleria dell’Incisione con l’organizzazione 

della mostra Des oiseaux, da sempre 

interroga i principali contenuti del 

vivere di uomini e donne. Ossia la loro 

reciproca sensibilità nel sapersi accostare 

rispettosamente alla natura, nel 

sapere veramente riconoscere i tratti di 

continuità che li legano ad essa, la loro 

ancestrale tensione ad una condizione 

di libertà adesso obnubilata dal minaccioso 

incombere di gravami apportati 

dal mondo sociale. Ma anche il saper 

farsi leggeri per raggiungere, nonostante 

ogni fattore o valore veramente 

o falsamente ostativo, le reali altezze 

dello spirito e della conoscenza. 



© Pentti Sammallahti, dalla serie Des Oiseaux 


PREMI 

PREMIO VOGLINO 2018 - IV EDIZIONE 

di EMANUELE E. MARIANI 

La quarta edizione del Premio Voglino, 

anno 2018, si è conclusa con numeri da 

record. Il premio è stato istituito da Cecilia 

Pratizzoli e da un gruppo di amici 

che sostengono il progetto editoriale fotografico, 

ma anche grazie alla famiglia 

Voglino ed è dedicato alla memoria di 

Alessandro Voglino, fondatore di HF 

distribuzione, la prima azienda in Italia 

dedita alla vendita, per corrispondenza e 

on line, dell’editoria fotografica. 

Il concorso, ospitato come tappa del Premio 

di Fotografia Etica di Lodi, è oggi finalizzato 

alla valorizzazione e alla diffusione 

della cultura fotografica italiana ed è 

quindi rivolto a tutti gli autori, fotografi 

e artisti che vivono in Italia. Ciò nell’intento 

di poter fare emergere, accanto ai 

fotografi affermati, i giovani talenti. 

In tal modo viene offerto ai partecipanti 

un orizzonte di diffusione delle loro 

opere di carattere internazionale nonché 

diverse opportunità presso centri d’arte, 

gallerie, redazioni e le migliori agenzie di 

fotografi. Quest’anno il gruppo dei venti 

professionisti del mondo della fotografia 

che ha formato la giuria di valutazione, 

cimentandosi in oltre trecento letture 

portfolio, è stato composto da: Leonello 

Bertolucci, Michele Borzoni, Manila 

Camarini, Chiara Capodici, Sara Emma 

Cervo, Claudio Corrivetti, Niccolò Fano, 

Renata Ferri, Laetitia Ganaye, Eefje Ludwig, 

Teodora Malavenda, Francesco 

Merlini, Gabriele Micalizzi, Emanuela 

Mirabelli, Antonella Monzoni, Ceciclia 

Pratizzoli, Rocco Rorandelli, Vittorio 

Scheni, Francesca Serravalle, Pietro 

Ventani e Stefano Vigni. Il ricco montepremi, 

ammontante a 12.000 euro, è stato 

la posta in gioco. Un’opportunità per 

proseguire sulla strada della professione 

arricchendo, per i giovani emergenti, il 

proprio curriculum e la propria formazione. 

Grazie all’interazione delle diverse 

competenze, sostanziata da un fondamentale 

intento civico ed etico veicolato 

dalla tessitura costante di nuovi legami 

esplorativi e di significato con il mezzo 

fotografico, è stato instaurato un intenso 

confronto di prospettive che ha costituito 

un’opportunità di crescita reciproca. 

Dopo una prima selezione di sessanta 

finalisti, poi inseriti nella piattaforma 

Italian Collection, sono stati proclamati i 

vincitori. 

Il Premio Voglino 2018 – Miglior Portfolio 

è stato assegnato a Le Sentinelle di Claudia 

Gori, fotografa pratese specializzata 

presso il Centro Sperimentale di Fotografia 

Adams di Roma e laureata in Editoria 

e Scrittura (Giornalismo) presso l’Università 

La Sapienza. Il Premio Giovane 

Talento è andato a Sanità di Ciro Battiloro, 

giovane di Torre del Greco laureatosi in 

Filosofia presso l’Università Federico II 

di Napoli, mentre il Premio Dummy Photobook 

è andato a Mari El, A pagan beauty 

di Raffaele Petralla, già vincitore del premio 

di Fotografia Etica nel 2016. 

Grazie alla recente creazione dell’Accademy 

Network e all’attiva collaborazione 

di Maurizio Cavalli, direttore dell’Istituto 

Italiano di Fotografia di Milano, 

il Premio Borsa di Studio è stato assegnato 

alla ventunenne bielorussa di stanza 

a Bari Karymava Hulnaza, la quale in 

virtù di un portfolio ricco di progetti ha 

attratto positivamente l’attenzione della 

giuria e in particolar modo grazie al lavoro 

Unrooted. Già specializzata con un 

corso accademico in fotografia presso la 

scuola Mohle e impegnata nelle più varie 

esperienze professionali, con questa borsa 

di studio del valore di 7.900 euro Hulnaza 

potrà frequentare gratuitamente il 

secondo anno del Corso Biennale dell’Istituto, 

implementando ulteriormente le 

proprie competenze tecniche. 

Il Premio Fotografia Etica è stato assegnato 

a Gabriele Cecconi per il suo reportage 

The Wretched and the Earth, che racconta 

la drammatica condizione della popolazione 

musulmana Rohingya a Cox’s 

Bazar, nel sud del Bangladesh. Già provata 

dalla terribile ondata di violenze da 

parte dell’esercito del Myanmar, questa 

minoranza deve lottare anche con le precarie 

condizioni di una vita sempre più 

segnata dalla profonda crisi ambientale e 

dagli effetti che questa ha su ecosistema, 

salute della comunità e, quindi, stessa so- 


© Raffaele Petralla, da Mari El, A pagan beauty 


pravvivenza. Il suo lavoro sarà esposto, 

a ottobre 2019, all’interno della prossima 

edizione del Festival della Fotografia 

Etica. 

Ai vincitori delle prime due categorie 

sono stati assegnati degli altri premi in 

denaro, rispettivamente di 1000 e 500 

euro, spazi dedicati fra media partner 

e comunicazione del Premio Voglino e 

la produzione e distribuzione di mostre 

all’interno del circuito Italian Photography 

Network. A Raffaele Petralla, 

infine, la produzione e distribuzione del 

libro fotografico con la Casa Editrice Voglino. 

Il lavoro di Claudia Gori è stato premiato 

per il tema oggetto delle sue vivaci 

rappresentazioni dal tono più che 

realistico: l’elettrosensibilità in Italia. 

Una nuova esigenza di adattamento, in 

gran parte innaturale e causa di ancora 

indefiniti disturbi, si affaccia con la diffusione 

su vasta scala delle tecnologie 

informatiche di trasmissione dei dati. 

In tal modo, anche a causa della tecnologia 

wireless, la popolazione mondiale 

risulta oggi esposta in modo sempre 

crescente ai campi elettromagnetici ad 

alta frequenza emessi dalle ormai note 

apparecchiature come cordless, cellulari, 

tablet e ripetitori ad essi associati. Tra 

i disturbi causati dall’elettrosensibilità 

(EHS) che L’OMS (World Health Organization) 

stima presenti in oltre il 3% 

della popolazione mondiale si annoverano: 

cefalee, insonnia, debolezza, deficit 

di concentrazione, disturbi uditivi, visivi 

e dell’equilibrio. Nonostante questo tipo 

di disagio psico-fisico tutto moderno e 

legato al “progresso tecnologico” non sia 

una patologia ufficialmente riconosciuta 

dall’OMS, la fotografa pone in rilievo 

lo stato di isolamento protettivo e istintuale 

che, come difesa, i soggetti che ne 

soffrono mettono in atto modificando 

radicalmente le loro abitudini ed il loro 

stile di vita. Questi sono le “Sentinelle” 

che danno titolo al portfolio presentato 

e che vengono ritratte nel loro stato di 

solitudine estrema, tanto quanto le apparecchiature 

elettroniche che ne fanno da 

controparte, nell’intento di schermarsi e 

proteggersi da forze invisibili che alterano 

già visivamente il senso del proprio 

stare naturalmente al mondo. Così se, da 

un lato, la tecnica dischiude le potenzialità 

di comunicazione e le informazioni 

grazie ad essa possono viaggiare in 

modo istantaneo, dall’altro, secondo la 

prospettiva sociale e psicologica cara a 

Gori, già nominata nel 2016 per la Joop 

Swart Masterclass del Word Press Photo, 

ostacola la normale fruizione tanto del 

mezzo quanto dell’ambiente circostante. 

Lo sfondo determinato dal significato 

etico degli scatti è dettato quindi da 

una sensibilità che evidenzia l’esigenza 

di protezione a fronte del dischiudersi 

dell’artificiale, di un umano che non sa 

riconoscere, in modo adeguato e preventivo, 

le grosse ricadute in termini di 

“disturbo” dei suoi più recenti ritrovati 

informatici e tecnologici. 

Ciro Battiloro, il Giovane Talento del 

Premio Voglino 2018 ha invece conquistato 

l’attenzione della giuria per la sensibilità 

e la cura con la quale ha saputo 

guardare e immortalare le vite che abitano 

il rione Sanità di Napoli: un rione 

nato nel XVI secolo per famiglie nobili 

e aristocratiche e poi divenuto uno dei 

più poveri e ghettizzati di Napoli, a causa 

della costruzione da parte dei francesi 

del Ponte della Sanità (Ponte Maddalena 

Cerasuolo) e della conseguente esclusione 

dalla vita della città. 

Raffaele Petralla ha invece conquistato 

la giuria per l’elevata qualità e la buona 

articolazione della bozza editoriale presentata, 

avente a tema una ricerca sulla 

popolazione russa dei Mari. Essi vivono 

in unità simbiotica con una natura che 

a sua volta esercita una forza benefica 

al limite tra il divino e il magico. E che 

dunque conserva il ruolo che rivestiva sin 

dai più arcaici culti di cui la popolazione, 

passata forzatamente alla cristianità per 

volere di Ivan il Terribile, rende tutt’oggi 

testimonianza serbandone ampie tracce. 

I recenti fatti politici, come la fondazione 

dei Soviet, la nascita dell’Unione 

Sovietica e poi la guerra fredda, hanno 

notevolmente intaccato queste forme di 

vita e di culto con i loro rituali sacrificali, 

costringendo molti Mari alla disoccupazione 

e all’emigrazione verso le grandi 

città. Un viaggio, quello di Petralla, che, 

rappresentato in maniera oltremodo realistica 

nella cattura di forme e figure in 

pieno movimento, consente di accedere 

sia alle origini della civilizzazione che a 

un’etica contadina originaria non ancora 

scalfita e intaccata dal progresso. 

Karymava Hulnaza, vincitrice del Premio 

Borsa di Studio, dispiega infine, sempre su 

un piano fortemente morale ed etico, il 

suo progetto “Unrooted”, delimitando, 

grazie a immagini toccanti e concepite 

in uno stile monocromatico volutamente 

denso e dalle tinte decise, un’altra 

dimensione del viaggio: quello dei bambini 

e delle bambine bielorusse costretti 

ad abbandonare le loro origini per essere 

adottati da famiglie italiane. Il valore del 

progetto sta nell’aver individuato e posto 

a fuoco entrambi i poli di quello che si 

configura, in virtù dello sradicamento e 

del disorientamento affettivo e valoriale 

che ne discende, come un groviglio emozionale 

da affrontare, sciogliere e conoscere 

in virtù di una vera dedizione amorosa. 

Allo spaesamento dei più piccoli si 

aggiunge il senso di disagio dei genitori 

adottivi, spesso incapaci di leggere all’interno 

di comportamenti dettati da una 

lontananza e da una connaturata nostalgia 

che si caratterizza come tratto emotivo 

fondamentale e del tutto proprio di 

chi si allontana, per qualsivoglia motivo, 

dalla propria terra. 

Nella riflessione sul conflitto interiore 

che caratterizza il processo di adozione, 

la stessa fotografa pare ritrovare un 

point d’union tra la propria vita in Italia e 

la propria terra d’origine, posizione del 

tutto privilegiata per poter affrontare e 

descrivere il fenomeno. Le immagini rimandano 

così anche al tema di una genitorialità 

nuova, a quella capacità mai 

esauribile dell’umano di custodire e procreare 

anche se in modi differenti e traslati, 

alla possibilità di coltivare legami 

forti e vicendevolmente animati da comprensione 

e dedizione, aspetti che, soli, 

costituiscono un vero amore. 

GENTE di FOTOGRAFIA 134 - PREMI

© Gabriele Cecconi, da The Wretched and the Earth © Gabriele Cecconi, da The Wretched and the Earth 


© Karymava Hulnaza, da Unrooted 


GENTE di FOTOGRAFIA 136 - PREMI




GENTE di FOTOGRAFIA 138 - PREMI 

© Claudia Gori, da Le sentinelle - Elettrosensibilità in Italia

© Claudia Gori, da Le sentinelle - Elettrosensibilità in Italia 

© Claudia Gori, da Le sentinelle - Elettrosensibilità in Italia 


FIERE 

MIA PHOTO FAIR 2019 

Fiera Internazionale d’Arte 

dedicata alla fotografia 

e all’immagine in movimento 

Mia Photo Fair 2019 

dal 22 al 25 Marzo 

The Mall - Porta Nuova 

Milano 

A ribadire il rapporto ormai consolidato 

con la città di Milano, anche quest’anno 

il MIA Photo Fair, fiera internazionale 

ideata e diretta da Fabio e Lorenza 

Castelli e dedicata alla fotografia d’arte 

in Italia, aprirà i battenti dal 22 al 25 

marzo 2019 a Milano, nel quartiere di 

Porta Nuova, presso il centro The Mall. 

Anche questa IX edizione vedrà come 

Main Sponsor BNL Gruppo BNP Paribas 

e come ulteriori Sponsor Eberhard & 

Co. e Olympus. Sono ben 85 le gallerie 

selezionate dal comitato scientifico composto 

da Fabio Castelli, Gigliola Foschi, 

Roberto Mutti e Enrica Viganò. Si tratta 

di gallerie per un terzo provenienti dall’estero, 

cui vanno aggiunti i 50 espositori 

coinvolti in progetti speciali, editoria e 

progetti a 4 mani, che portano il numero 

complessivo degli espositori a 135. 

Negli ultimi anni MIA Photo Fair è senza 

dubbio cresciuta, sia come contenitore 

espositivo, sia come piattaforma 

culturale, focalizzando l’interesse dei 

visitatori, siano essi appassionati di fotografia, 

addetti ai lavori o investitori, 

italiani e stranieri. 

Quest’anno la manifestazione si presenta 

con una nuova immagine coordinata, 

firmata dal fotografo norvegese Rune 

Guneriussen (Kongsberg, 1977), le cui 

opere sono presenti in numerose mostre 

personali e collettive negli USA, in Cina 

e in vari paesi europei. Uno dei temi centrali 

della sua ricerca fotografica è rappresentato 

dall’importanza di comprendere 

e conservare il giusto equilibrio nel 

rapporto tra uomo e natura. Una tavola 

rotonda, dal titolo Broken Nature, organizzata 

nell’ambito della XXII Esposizione 

Internazionale della Triennale di Milano, 

è prevista per domenica 24 marzo, 

con la presenza del fotografo norvegese. 

Dal 1° marzo al 1° settembre inoltre si 

terrà, sempre alla Triennale di Milano, 

Design Takes on Human Survival, sullo stato 

attuale dei difficili legami tra uomo e ambiente 

naturale. 

Alla collaborazione con OLYMPUS si 

deve poi la mostra Dialoghi visivi. Fotografie 

della Collezione Castelli, che disegnerà attraverso 

19 immagini suddivise in quattro 

sezioni un percorso espositivo che si 

snoda nei diversi ambiti di indagine fotografica, 

dal reportage alla natura morta, 

dall’architettura alla moda e alla sperimentazione 

fotografica. 

Per ricordare Leonardo da Vinci nel 

500esimo anniversario dalla morte, con 

il supporto di Eberhard & Co. Saranno 

inoltre esposti alcuni fogli riprodotti dal 

Codice Atlantico, conservato in originale 

alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. 

I fogli sono stati selezionati da Edoardo 

Zanon del “Centro Studi Leonardo3” 

di Milano, con lo scopo di illustrare gli 

studi leonardeschi sulla prospettiva e 

sull’ottica. 

La Corea del Sud è il paese ospite di 

MIA Photo Fair 2019. Sarà presentata 

per l’occasione una serie di lavori di 

alcuni dei più importanti artisti coreani 

della nuova generazione, con l’intento di 

promuovere il talento dei giovani fotografi 

e avvicinare il pubblico all’attuale 

realtà dell’arte contemporanea coreana. 

Anche l’architettura e il design saranno 

al centro dell’attenzione di MIA Photo 

Fair 2019. Parte non a caso quest’anno il 

premio MIA Photo Fair Fotografia d’Architettura, 

in partnership con lo Studio G*AA 

di Attilio Giaquinto e ArtPhotò di Tiziana 

Bonomo, che punta a documentare il 

dialogo costante tra fotografia e architettura 

e la capacità della fotografia di illustrare 

e interpretare i cambiamenti della 

realtà. All’interno di MIA Photo Fair si 

terrà, inoltre, una edizione speciale di 

RICORDI?, format creato da Settimio 

Benedusi per sottolineare l’importanza 

del ritratto fotografico stampato, con lo 

scopo di recuperare la fotografia su carta, 

con la sua duratura capacità di interagire 

con le persone e con l’ambiente e 

di favorire un ritorno al ritratto fotografico 

d’autore. I primi 100, tra quanti si 

prenoteranno (tra qualche settimana) sul 

sito ricordistampati.it, potranno avere un 

foto-ritratto in tempo reale: le foto saran- 

GENTE di FOTOGRAFIA 140 - FIERE

© Nicola Malnato, The Importance of Breathing - Dreaming a Whale, 2016, lambda print on dibond and plexi, 

53,5 x 80 cm, edizione: 2/10, Courtesy the artist 

© Isabella Accenti, Further, 2018, Mixed technique - 100% cotton paper - 350 gr., 50 cm x 50 cm, 

Unique artwork (1), Courtesy Isabella Accenti

no infatti scattate durante il MIA Photo 

Fair in un set all’interno dello stand 

“Benedusi per HP” e subito stampate e 

incorniciate in diretta. 

Agli artisti mediamente affermati che 

intendono confrontarsi direttamente 

con esperti del collezionismo di livello 

internazionale è invece rivolto CO- 

DICE MIA, ormai alla sesta edizione: 

sulla base di una attenta lettura dei 

portfolio presentati sarà selezionato un 

ristretto gruppo di soli 30 autori, che 

potranno incontrare importanti collezionisti 

e curatori di collezioni. 

Proposta MIA è invece il titolo della sezione 

dedicata a fotografi indipendenti 

selezionati dal comitato scientifico, che 

si presentano per la prima volta al mondo 

delle gallerie e al grande pubblico. 

Tra le molte altre iniziative previste 

durante il MIA Photo Fair, su cui, per 

ragioni di spazio, non è possibile minutamente 

soffermarsi, una menzione 

speciale merita tuttavia il format Arte 

e Scienza, sui rapporti tra la fotografia 

d’arte e le diverse branche della scienza, 

quest’anno focalizzato sul tema delle 

neuroscienze e sviluppato in collaborazione 

con l’Università Vita-Salute San 

Raffaele di Milano. Sono previsti lunedì 

25 marzo due incontri con la partecipazione 

di figure accademiche dell’area 

umanistica e scientifica che discuteranno 

di arte, neuroscienze e filosofia. 

L’area dedicata all’Editoria presenterà 

infine espositori selezionati per il secondo 

anno dalla curatrice anglo/francese 

Magali Avezou tra case editrici internazionali, 

editori indipendenti e librerie 

specializzate. Notizie su programmi 

culturali, eventi e conferenze dedicate 

al mondo dell’arte e della fotografia potranno 

essere comunque ricercate sul 

sito www.musement.com o tramite il sito 

www.miafair.it. 

© Andrea Colzani, Formeurbane Milano 1, 2018, 

digitale/stampa digitale in plexiglass, 105X70 cm, Courtesy l’artista 

© Susy Cagliero, Futuro naturale, 2019, fotografia stampa alta qualità su dibond e sotto 

plexi, 105x70 cm, edizione 1 di 7 (+ 1pa), Courtesy Maiocchi15 Artgallery Milano 

© Giulio di Sturco, Ganges India, 2014, Giclée print on fine art 

matt paper, 40 x 50, Courtesy Podbielski Contemporary 

© Ákos Major, Snow fences near Dunaföldvár, Hungary, 2018, 

Medium format digital photography Archival pigment ink print, 

64 x 80 cm (84 x 100 cm framed), edizione 2/5 + 1 AP, Courtesy Ákos Major 


© Liu Bolin, ART BOOKS N°2, 2018, stampa a getto d’inchiostro, cm 90x120, edizione 6, Courtesy Boxart, Verona 

© Erwin Olaf, The Gym, 2004, c-print, 22 x 31 cm, edizione 14/15, Courtesy Metroquadro 


GENTE di FOTOGRAFIA 144 - FIERE 

© Diego Ibarra Sánchez, BLUE Lebanon EXILE, 2016, Stampa digitale, 60x90 cm, edition 1/5, 

Courtesy Diego Ibarra Sánchez/ Raffaella De Chirico Art Gallery

© Benyamin Reich, Siren (Rugen), 2017, Fine art print, wooden frame, 

museum glass, 35 x 35, Courtesy Podbielski Contemporary 


© Mimmo Dabbrescia, Fabrizio De Andrè, 1969, stampa modern ai sali d’argento con viraggio protettivo, 

50x40 cm, 5 esemplari, Courtesy of Art D2, Milano 


GENTE di FOTOGRAFIA 148 PORTFOLIO 

© Lorenzo Castore € 18,00 

80072 

9 771593 176007 >

Gente di Fotografia #72

Create successful ePaper yourself

Delete template?

Save as template?