STANZE_03_24_PUNK
Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale
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STANZE
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
03/24
PUN K!
IN COPERTINA E IN QUARTA DI COPERTINA
FOTO DI HENRY RUGGERI
AMYL AND THE SNIFFERS,
SZIGET FESTIVAL, BUDAPEST
EDITORIALE
SOPRA LE RIGHE
Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini
Un numero a briglia sciolta. Per fare il pieno di energia, per ritrovare il
coraggio. Di essere noi stessi, di sentirci in diritto di esprimerci, di eliminare
dalle nostre vite tutto il materialismo superfluo e tornare a fare da soli, di
recuperare anche quel politicamente scorretto che stiamo bandendo da ogni
area in nome di parità, inclusività, uniformità, mentre invece rimarchiamo ad
ogni passo che la diversità è una cosa brutta, che tutto deve essere
normalizzato. No. A noi piacciono gli scivoloni, ci piace avere una calza
smagliata, dire ogni tanto una parola scomoda, arrabbiarci e puntare i piedi
per rivendicare un'identità fuori dal coro ma impetuosa e colorata. Di nero,
di fucsia, di stampa scozzese. Ci piace usare il flash anche se è vietato,
buttarci nell'abbraccio di migliaia di mani alzate nella notte, sentire la musica
ad alto volume; mettere le scarpe da ginnastica col vestito da sera e andare
ai matrimoni in jeans; tenere sempre un libro nella borsa, una penna nella
tasca, una canzone nella testa; leggere Roald Dahl con le parole originali e
vedere il lupo di Cappuccetto Rosso morire ammazzato alla fine della storia;
fare troppo tardi la sera, svegliarci presto e prendere un caffè davanti alla
scuola dei figli con gli occhi molto truccati di blu. Tremare per un non so. Ci
piace creare dal nulla una rivista e metterci dentro interessi e cultura, farla
parlare per noi, diffondere la bellezza e la conoscenza con serietà e
divertimento, con una spinta che è decisamente punk, DIY e rock'n'roll! Qui
non si parla di equilibrio, di correttezza, non si avvalorano cause, non si
appartiene a movimenti. Qui c'è una sola grande tribù, quella degli esseri
umani, che possono essere meravigliosamente individualisti senza per
questo remare contro leggi universali; qui c'è il rispetto per le esistenze e i
pensieri altrui, ma anche per il silenzio, che è fortemente sottovalutato da
una società di sproloquianti opinionisti. Qui c'è il suono sparato a 1000
decibel, l'immagine a tutta pagina, la ricerca del filo che collega il passato al
presente, la voglia di recuperare valori tangibili, l'energia della giovinezza, la
libertà di essere eccentrici. E da questo numero, il primo del terzo anno di
Stanze, ci sono anche i ripostigli: stanzette, armadi, sottoscala, piccoli
ambienti dove scrivere molto brevemente di qualcosa da tenere in serbo,
post it che vi suggeriscono un film, una lettura, un personaggio, una
fotografia, un evento, un luogo, una canzone, un album, un'opera, una
mostra... Girate la manopola, scioglietevi i capelli, andate a scatenarvi.
3/EDITORIALE
Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata
in Storia e Conservazione dei Beni Culturali
con indirizzo Storico Artistico e diplomata
in Antropologia dell’arte ad un master
dell’Accademia di Belle Arti. Autrice di testi critici
per mostre temporanee e cataloghi ragionati
di artisti nazionali ed internazionali (pubblicazioni
Il Centofiorini, Skira, La Colomba, Pagine d’Arte).
Divoratrice di libri e film, pazza per la musica,
mamma di due bambini. La scrittura creativa si
accompagna da sempre a quella critica, come
momento di riflessione, occasione di ritrovamento,
lascito di una traccia. Interessata a trovare
connessioni e sinergie tra le forme espressive,
fino ad una sintesi di parole, immagini e suoni
che non ha confini.
Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici
nel 1978 alle porte di Milano Nord, cresciuta
disegnando prima e impaginando poi,
Paola Ranzini Pallavicini è un’appassionata e tenace
grafica editoriale, che ha instaurato dagli anni
Novanta solide collaborazioni con le più prestigiose
redazioni di mezza Milano specializzandosi
in pubblicazioni di architettura, urbanistica, design,
arte, fotografia, saggistica. Un curioso decennio
è volato tra le altre cose affiancando gli architetti
della EPFL di Losanna nel dare una veste calzante
a ricerche di respiro internazionale. Grazie
alla pandemia e ad alcune interessanti ragazze
ha ripreso in mano prima la matita, poi la penna,
per condividere con chi vorrà tutti i mondi che
popolano la sua testa irrequieta.
redazione–stanze
Redazione Stanze
redazionestanze.blogspot.com
IN REDAZIONE
Andrea Anconetani
incertipercorsi.eu
Nicola Guida
nicolaguida.wixsite.com/photography
Alessandro Pertosa
www.alessandropertosa.it
Alessandro Prandoni
theprandons.wixsite.com/blog
Paola Ricci
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Henry Ruggeri
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Massimo Valentini
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CONTRIBUTI FOTOGRAFICI
Livia Ranzini Pallavicini
https://www.instagram.com/livihouse/
Marcello Francone
facebook.com/marcello.francone.5
NUMERI PRECEDENTI
Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)
Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)
Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)
Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)
Stanze 03/23 Kids (sabato 11/ 03/2023)
Stanze 06/23 Labirinto (sabato 17/ 06/2023)
Stanze 09/23 Uomo (sabato 23/ 09/2023)
Stanze 12/23 Interni (sabato 23/12/2023)
4/redazione stanze
«Ogni settimana compro New Musical Express. Lo trovo
difficile da leggere perché i giornalisti usano parole molto
lunghe, ma non è un impegno noioso perché mi interessa
quello che scrivono. Un giorno leggo una breve recensione
su una cantante di nome Patti Smith. C’è la sua foto:
è la copertina di Horses, il suo album che sta per uscire,
ed è uno scatto in bianco e nero di Robert Mapplethorpe.
Non ho mai visto una ragazza come lei. È il ritratto della mia
anima, è tutte le cose che nascondo dentro di me e che
non riescono a emergere. Sembra spontanea, sicura di sé,
sexy e con una personalità. Non voglio vestirmi come lei
e copiare il suo stile: lei mi dà una sicurezza che mi
incoraggia a esprimermi a modo mio.
Il giorno in cui esce l’album – ho un po’ di ansia che
la musica non sia all’altezza di quello che quell’audace
copertina sembra promettere – non vado a scuola
e prendo l’autobus per andare da HMV a Oxford Street,
vedo Mick Jones che si aggira davanti al negozio.
«Che ci fai qui?» gli chiedo.
«Sono venuto a comprare il disco di Patti Smith.»
Corro a casa e metto su il vinile. Parte con un flusso
di coscienza, si getta a capofitto nella poesia e si dissolve
nel sesso.
La struttura delle canzoni è originale, non copia modelli
vecchi: è un misto di improvvisazione, paesaggi, groove,
strofe e ritornelli. Patti Smith è una persona riservata
che osa lasciarsi andare davanti a tutti, si espone e rischia
di cadere lunga a faccia in giù. Finora le ragazze si sono
sempre trattenute, frenate, invece lei si abbandona.
Il suo disco trasforma in suono parti di me con cui non sono
mai riuscita a entrare in contatto e che fino a quel momento
non avevo mai verbalizzato né visualizzato. Ascoltare
Horses sblocca un’idea che ho già dentro di me: le ragazze
possono avere una sessualità alle condizioni che decidono
loro, per il proprio piacere o lavoro creativo, non solo
per trarne vantaggio o conquistare un uomo. (…)
Patti Smith è apertamente sessuale: sentire come costruisce
un crescendo orgasmico mentre guida il suo gruppo
è molto eccitante. È un’emancipazione. Se riesco a prendere
un quarto, o perfino un ottavo di quello che ha lei,
e a fregarmene di fare la figura della scema, forse
sono ancora in tempo a dare un senso alla mia vita.»
VIV ALBERTINE, VESTITI MUSICA RAGAZZI
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In copertina
Editoriale
Redazione Stanze
Tra punk e hardcore: due (possibili) visioni
del mondo in due album
ALESSANDRO PRANDONI
ripostigli/The Slits (MS)
Nessuna distanza
MARTA SILENZI CON HENRY RUGGERI
ripostigli/Pissed Jeans (AP)
Grafica Punk
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
ripostigli/Graziano Origa (MS)
Martin e Jordan: la smania del lupo
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
ripostigli/Naître Est Une Opportunité
Unique (PRP)
ripostigli/Guida romantica a posti perduti
(MS)
ripostigli/Juliette (MS)
Terry Richardson
NICOLA GUIDA
note/Il metodo Terry
NICOLA GUIDA
note/Punk-zine
MARTA SILENZI
Sesso, droga e punk: "Una sigaretta accesa
al contrario"
CHIARA RIVA
ripostigli/L’astragalo di Albertine Sarrazine
(MS)
note/collage #1 #2 #3 #4 #5
note/L'oblio è all'origine delle parole
PAOLA RICCI
ripostigli/Non escludevamo il ritorno (NG)
Underground. Riflessioni sul sotto e sul sopra
ANDREA ANCONETANI
ALESSANDRO PERTOSA
Tartan
MARTA SILENZI
ripostigli/Vivienne Westwood (MS)
ripostigli/Viv Albertine (MS)
#liste
ripostigli/Drunk in Public (MS)
ripostigli/Fugazi (AP)
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
“Salta e la rete apparirà”
JOHN BURROUGHS
“Cerco il punk in una lametta,
la felicità ed il dolore
nel fumo di una sigaretta.”
RINO GAETANO
“La nota sbagliata non esiste”
ART TATUM
“Perché il punk è soprattutto
un profumo: il cotone
delle magliette stampate,
il camoscio delle creepers,
il connubio pelle/rossetto
che rimbalza sulle imitazioni
di Schott e Lewis Leathers
anche dei maschi.
E come titoli di coda
prima ancora della musica,
l’impossibile effluvio dolce
che sgorga da un album
d’importazione
quando togli il cellophane
con l’unghia.”
GLEZÖS
Tra punk e hardcore:
due (possibili) visioni
del mondo in due album
ALESSANDRO PRANDONI
A MO’ DI PREMESSA
Genere musicale, stile di vita, o piuttosto le due cose assieme, è innegabile
che il punk, a partire dal momento della sua piena e classica affermazione
(il biennio 1977-1978) e nelle diramazioni che lo hanno contraddistinto
fino agli anni novanta, abbia trovato terreno fertile presso le giovani generazioni,
dando voce al loro malcontento e offrendo una prospettiva – assieme
musicale ed esistenziale – nuova e vivificante.
Per spirito di semplificazione, punk e dintorni si possono disporre entro
due grosse categorie: il versante distruttivo e nichilista (di cui il “no future”
dei Sex Pistols è lo slogan) e quello più costruttivo incarnato da tanti gruppi
hardcore americani (i Minor Threat ne sono l’esempio paradigmatico).
Cos’è il punk? Dove inizia e dove finisce esattamente? È il solo biennio
londinese oppure prosegue nelle derive di cui quella brevissima stagione
è stata feconda?
“Spesso politicizzato e pieno di energia vitale sotto una facciata sarcastica
e ostile, il punk si è diffuso come ideologia e approccio estetico, diventando
un archetipo della ribellione e dell’alienazione adolescenziale” 1 . Ecco
una prima definizione, che tuttavia – pur filologicamente e storicamente
ineccepibile – tralascia un altro livello di lettura, ovvero la prospettiva di chi
lo vive come occasione costruttiva, possibilità di espressione sebbene – o
forse proprio perché – al di fuori di qualsiasi regola imposta 2 . “Per me il
punk è sempre stato uno spazio libero” 3 . Ecco una seconda definizione.
PRIMI FERMENTI: DA DETROIT A NEW YORK
“Se come fenomeno underground il punk ha cominciato a svilupparsi, soprattutto
a New York, già tra il 1974 e il 1975, è solo nel gennaio 1976, in
coincidenza con la pubblicazione del primo numero della rivista/fanzine
‘Punk’, che il movimento ottiene il suo riconoscimento pubblico e ufficiale” 4 .
Negli anni sessanta band come Stooges e MC5 a Detroit “avevano ricondotto
le coordinate del rock alla sua brutale ed essenziale purezza” 5 , mentre
la Grande Mela partecipava di questo clima musicale grazie ai (o alle)
New York Dolls. Le “bambole” si sciolsero nel 1975, ma la loro attitudine
aveva trovato in quello stesso anno una nuova incarnazione in “quattro
teppistelli” che “attaccano gli amplificatori a ogni presa di corrente disponibile
a Manhattan” 6 : sono i Ramones, che nel 1976 registrano il loro omonimo
debutto discografico.
11/ASCOLTI
IL BIENNIO 1977-1978: LONDRA
La scena si sposta a Londra quando Malcolm McLaren – reduce dalla fallimentare
esperienza statunitense come manager dei New York Dolls – dà
vita, nello stesso anno in cui si sciolse il gruppo newyorchese, ai Sex Pistols 7 .
Il loro unico album in studio (Never Mind the Bollocks. Here’s the Sex Pistols,
1977) “finisce per diventare il disco punk rock per eccellenza” 8 , ancora oggi
dotato di un’energia notevole.
È un disco estremamente diretto, capace di veicolare sotto la sua massa
sonora potenti messaggi di riflessione sociale (Bodies, per esempio) o
“antiestablishment” (Anarchy in the UK 9 o la dissacrante God Save the
Queen 10 sono veri e propri manifesti).
I Sex Pistols si sciolgono agli inizi del 1979, dopo che già l’anno precedente
Johnny Rotten (al secolo John Lydon) aveva abbandonato il gruppo per
percorrere altre strade 11 .
DERIVE AMERICANE: WASHINGTON DC
Tra gli anni settanta e ottanta si sviluppa negli Stati Uniti, soprattutto nelle
scene locali di Los Angeles, Washington DC, Chicago, New York, una nuova
declinazione del punk che prende il nome di “hardcore”. I gruppi che ne
fanno parte – in pieno accordo con lo spirito antisistema tipico del punk –
esprimono un approccio squisitamente DIY, caratterizzato da produzioni
economiche e una promozione basata su fanzine e poster.
Tra i maggiori rappresentanti del genere, sia musicalmente che per attitudine,
sono indubbiamente i Minor Threat: fondati da Ian MacKaye, che ne
fu il cantante, ebbero – a dispetto della breve durata della loro esperienza
musicale (1980-1983) – una grande influenza sulla scena hardcore americana
12 . È del 1983 il loro unico album full-length (Out of Step).
I Minor Threat si caratterizzano per uno stile di vita improntato alla moderazione
e a una sorta di disciplina esistenziale 13 . Non si tratta – contrariamente
al fraintendimento in cui molti seguaci cadono – di un “movimento” 14
(nemmeno esiste un manifesto), ma di una scelta del tutto personale, come
indica quel pronome “io” messo tra parentesi a introdurre i primi tre versi
del brano Out of Step 15 . È una pura dichiarazione di vita, quindi, che trova
emblematicamente eco nella copertina del disco, con la pecora nera che
– pensando con la propria testa – corre in direzione contraria al gregge 16 .
In questa declinazione del punk, “to rebel […] was to keep your mind clear
and your body free of the poisons that cloud judgement and dull inspiration”
17 .
A PROPOSITO DI MUSICA
Al di là degli aspetti sociali, politici, culturali, il punk era e resta innanzitutto
un genere musicale con una sua peculiare identità. A differenza del
mainstream cui si contrapponeva – e in maniera emblematica rispetto al
filone del rock progressivo di metà anni settanta, che invece esaltava una
costruzione sonora elaborata – il punk affonda le radici in “un atteggiamento
nei confronti dell’esibizione musicale che enfatizzava spontaneità
e ripetizione a spese del virtuosismo musicale” 18 . In virtù di questo atteggiamento,
il punk assume una carica esplosiva sconosciuta ad altri generi
– comprese altre declinazioni dell’universo rock – e definisce un’esperienza
allo stesso tempo “primitiva” e “innovativa” 19 .
12/ASCOLTI
Out of Step nella ristampa del 2023 su vinile bianco 45 rpm, che riproduce il remaster condotto da Chad Clark negli studi Silver Sonya nel 2008
13/ASCOLTI
Never Mind the Bollocks. Here’s the Sex Pistols nella ristampa americana del 2008 su vinile 180 grammi per la Rhino/Warner, completa di inserto
14/PAGINE
Da un punto di vista strettamente musicale, il punk è efficacemente caratterizzato
dall’assenza (o comunque da un deciso smorzamento) del ritmo
sincopato, un aspetto del quale l’ascoltatore fa immediatamente esperienza
sotto forma di quell’urgenza che si esprime contemporaneamente nella
breve durata temporale e nell’incisività del messaggio 20 e da cui discende
la capacità di avvolgere e pervadere l’ascoltatore con un carattere di
assolutezza che non è messo in discussione per l’intera durata dell’ascolto 21 .
1
https://www.britannica.com/art/punk.
2
L’assenza di regole imposte non significa tout court
– almeno non necessariamente – assenza di regole o
di engagement.
3
Ian MacKaye, in G. Kuhn, Straight Edge. Storie, filosofia
e racconti dalla scena hardcore punk, ShaKe, Milano
2011, p. 26.
4
100 dischi ideali per capire il punk, a cura di S. Gilardino,
Editori Riuniti, Roma 2005, p. 12.
5
Ibidem.
6
Ivi, p. 16.
7
“Stavo cercando di fare con i Sex Pistols quello che
non mi era riuscito con i New York Dolls” (Malcolm
McLaren, in L. McNeil, G. McCain, Please Kill Me. Il punk
nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai,
Milano 2006, p. 356).
8
100 dischi ideali per capire il punk, cit., p. 55.
9
“The fierce anti-establishment message that runs
through the veins of the single is infectious and helped
make the Sex Pistols the voice of the rebellious young
in Britain who were fed up of living within the confinements
of the system” (J. Taysom, The Story Behind The
Song: The Sex Pistols’ fiercely rebellious ‘Anarchy in
the UK’, in “Far Out Magazine”: https://faroutmagazine.
co.uk/sex-pistols-anarchy-in-the-uk-song-meaning/).
10
Talmente dissacrante da minare, secondo alcuni, i
fondamenti stessi della civiltà: cfr. K. Fournier, The
song that had one British politician wishing for the Sex
Pistols’ ‘sudden death’, in “The Conversation” (https://
theconversation.com/the-song-that-had-one-british-
politician-wishing-for-the-sex-pistols-sudden-death-
77767).
11
Di li a pochissimo Lydon fonderà il gruppo post punk
Public Image Ltd.
12
“[…] oltre a essere dannatamente coinvolgenti, quei
pochi accordi e quelle parole urlate con enfasi erano
veri e propri manifesti di pensiero con i quali tutto
l’hardcore fu obbligato a fare i conti” (F. Guglielmi,
Punk e hardcore, Giunti, Firenze 1999, p. 87). MacKaye
darà successivamente vita ai Fugazi, altra formazione
imprescindibile della scena di Washington DC.
15
(I) Don’t smoke / Don’t drink / Don’t fuck / At least I
can fucking think (cfr. ivi, p. 30).
16
“I think that the idea of straight edge, the song that
I wrote, and the way people have related it, there’s
some people who have abused it, they’ve allowed their
fundamentalism to interfere with the real message,
which in my mind, was that people should be allowed
to live their lives the way they want to” (Ian MacKaye
intervistato da Matt: https://www.scenepointblank.
com/features/interviews/ian-mackaye/).
17
D. McLaughlin, Minor Threat’s Out Of Step: the bitter,
brilliant eulogy for youthful idealism which defined
hardcore punk as a force for good, in “Louder”
(https://www.loudersound.com/features/minor-threatout-of-step-hardcore-punk-as-a-force-for-good).
18
D. Laing, Il punk. Storia di una sottocultura rock, EDT,
Torino 1991, p. 23.
19
Cfr. ivi, p. 83.
20
“Il tempo rapido, in combinazione con la tendenza
anti-sincope di molte canzoni punk, sosteneva la connotazione
di urgenza d’espressione evocata dai modi
vocali declamatori e dai testi” (ivi, p. 85).
21
“Ogni buon disco punk […] ti può persuadere che è
la cosa più fantastica che tu abbia mai sentito perché
ti convince che tu non dovrai mai ascoltare nient’altro
finché vivi: ogni disco sembra dire tutto ciò che c’è da
dire” (G. Marcus, Tracce di rossetto. Percorsi segreti
nella cultura del Novecento dal dada ai Sex Pistols,
Odoya, Bologna 2010, p. 78).
13
È il cosiddetto “straight edge”, che prevede l’astinenza
da alcol, droghe e in genere da qualunque eccesso.
14
“Non ho mai considerato lo straight edge un movimento
e non mi sono mai visto parte di esso. […] Il
problema con i movimenti è che mettono certe persone
nella condizione di eletti mentre agli altri sono riservati
i posti di seconda fila” (Ian MacKaye, in G. Kuhn,
Straight Edge…, cit., p. 33).
15/ASCOLTI
Fumo negli occhi
©Livia Ranzini Pallavicini
16/PAGINE
THE SLITS
Londra 1977. Viv, Ari, Tessa, Palmolive. Primo
gruppo della storia tutto al femminile. Puro punk.
Non sanno suonare. La cantante tedesca ha 15
anni. Stile e creatività animalesca, schietta e leale.
Tribali, percussive, bellicose, istintive. Cercano e
trovano i loro suoni, colgono l’attrazione punk per
il reggae e ci costruiscono sopra Cut. Sfacciate,
insolenti, femmine sin dalla copertina. Tour caotici,
diastrosi, entusiasmanti. Nel secondo album,
Return of the giant slits, ancora più sperimentale,
entra in scena anche Neneh Cherry che con la
sua aura materna completa una sorta di gamma
emotiva femminea. Poi il vento musicale inizia
a soffiare in un’altra direzione, un’overdose, una
gravidanza e le Slits fanno l’ultimo concerto nel
1981. Ci saranno le New Slits e qualche concerto di
reunion ma non sarà più la stessa cosa. MS
17/ASCOLTI/ripostigli
NeSSUNa
dISTANzA
MARTA SILENZI CON HENRY RUGGERI
Frank Carter, Sziget
Festival, Budapest
© Henry Ruggeri
Il punk di ieri e di oggi ti butta in mezzo. Il pubblico sul palco e gli artisti tra
il pubblico. In libera anarchia, in massima simbiosi. L’esperienza è totale.
Ci sono regole indicative e poi c’è la sovversione, c’è la dissidenza,
c’è l’infischiarsene delle regole, c’è il qui e l’ora e l’energia spinta al massimo,
c’è la voglia di dire, c’è l’azzeramento e c’è la massimizzazione, la
musica sparata forte, il look come forma espressiva, le lingue di fuori, gli
occhi allucinati, migliaia di mani, lattine di birra, bicchieri, sigarette, braccialetti,
cellulari.
C’è il flash, che di solito un fotografo non usa ma che qui funziona,
perché gli scatti sono già pensati in bianco e nero, perché anche l’idea è
punk, perché il fotografo in questione non si pensa come fotografo ma
come artista, preso in mezzo al chiasso, alla bellezza, all’adrenalina che ci
mette giorni poi a scemare.
Scivoliamo via dai ricordi dei Ramones, dei Clash, dei Sex Pistols, Disorder,
Generation X, Alternative Tv, Dickies, Joy Division, Luckers ecc ecc. Scivoliamo
via anche dalle Slits e Patti Smith, dagli MC5 e gli Stooges. Scivoliamo
via ma non troppo perché nulla accade per caso e nulla si perde per
strada, tutto resta a nutrire quello che è destinato a venire dopo, in eterna
e sana trasformazione. Arriviamo ad oggi, con alcuni di questi gruppi ancora
attivi, con i Green Day, i Rancid, i Sum 41 tenendo conto di tutte le
contaminazioni del caso.
Di più, arriviamo a tre band attualissime, a questo nuovissimo punk
che dal vivo ha un impatto potente, prendiamo i biglietti e caliamoci nell’atmosfera
evocata da Amyl and The Sniffers, Idles e Frank Carter & The
Rattlesnakes. Facciamolo insieme a chi a questi concerti ci va con una
Canon R6 mirrorless e con l’obiettivo mette in luce quello che noi ci perdiamo,
quello che noi non vediamo, cogliendo veloce l’attimo, anticipandolo
a volte, quando l’istinto lo suggerisce, di solito senza fallire. Dalle foto
poi esce fuori la musica, l’energia, il frastuono, il sudore, le grida, suoni e
movimenti di notti che stordiscono e defibrillano, ci riportano alla vita o ci
lasciano morti, ma solo per un po’.
Le scene musicali sono diverse, Melbourne, Bristol, Londra, ma oggi loro
sono il punk.
HR: “Sono tre gruppi che si buttano sul pubblico. Subito, già dal
primo pezzo. Sono un tutt’uno con la gente, che li ama per questo. Creano
empatia e non si risparmiano. Alla fine del concerto sono sfiniti ed è
sempre così, sera dopo sera”.
19/ASCOLTI
Amyl and The Sniffers,
Sziget Festival, Budapest
© Henry Ruggeri
20/FORME
21/FORME
Amyl and The Sniffers è un gruppo australiano, con un paio di album
all’attivo nati a ridosso della pandemia, una forte presenza scenica e un
suono svelto very tough. Amyl Taylor a prima vista è un incrocio tra Courtney
Love e Gwen Stefani ma a guardarla bene, a vederla su un palco, a
sentirla cantare è magnificamente se stessa, nuova, non paragonabile, piena
di furia da spargere.
Le canzoni sono testate dal vivo prima che in studio, i riff sono taglienti,
il gergo da strada, il vestiario glitter trash; lo sguardo dei testi punta
alle difficoltà quotidiane e l’atteggiamento in scena è giocosamente
rissoso, iperattivo, da piantagrane eppure sempre divertente e coinvolgente.
Il background punk è innegabile, è stato fumato, iniettato in vena e pure
sniffato, insieme a tanto altro certo, ma è lì lampante, nelle schiene dritte
e negli assalti al microfono, nelle origini povere, nell’umiltà senza altra pretesa
che esprimere se stessi a modo proprio, nel rapporto fisico col pubblico
soprattutto, crowd surfing compreso.
HR: “Amyl and The Sniffer non li conosco personalmente. Sul palco
sono molto energici. Mi piace che siano seguiti da un loro fotografo, un
ragazzino che usa il flash e basta – che normalmente è vietato – così l’ho
usato pure io senza farmi problemi. E fanno tutte queste locandine tipo
fanzine, molto punk. Su disco li ascolto poco, ma dal vivo sono clamorosi.
Dal vivo non si può rinunciare a questi gruppi”
Guided by angels
But they’re not heavenly
They’re on my body
And they guide me heavenly
The angels guide me heavenly, heavenly
Energy, good energy and bad energy
I’ve got plenty of energy
It’s my currency
I spend, protect my energy, currency
I travelled and what did I see?
I see I don’t like misery
It passes through my body
I never hold on to the misery or grief
Angels on my body
But they’re not heavenly
And they pray for forgiveness
Never give it, I never want it
I always carry on heavenly, energy—fuck!
(GUIDED BY ANGELS, AMYL AND THE SNIFFERS)
22/ASCOLTI
23/ASCOLTI
Amyl and The Sniffers,
Sziget Festival, Budapest
© Henry Ruggeri
24/PAGINE
25/ASCOLTI
Amyl and The Sniffers,
Sziget Festival,
Budapest
© Henry Ruggeri
Amyl and The Sniffers,
Sziget Festival, Budapest
© Henry Ruggeri
26/PAGINE
27/ASCOLTI
Amyl and The Sniffers,
Sziget Festival, Budapest
© Henry Ruggeri
28/PAGINE
29/PAGINE
Idles, Parco della Musica,
Padova
Anche gli Idles emergono a cavallo della pandemia, con un po’ più di
scarto ma i primi quattro album vanno dal 2017 al 2021. Poi c’è Tangk, uscito
da poco, nuovissimo, sintomo di una costante avanzata e trasformazione.
La band nasce da un luogo, The batcave, un locale di cui il cantante Joe
Talbot e il bassista Adam Devonshire sono proprietari e gestori a Bristol.
Bristol che resta l’unica scena possibile finché la madre di Talbot, malata,
non muore.
HR: “Gli Idles fanno il circuito di Bristol per molti anni. Si fanno conoscere,
diventano importanti, ma la madre di Talbot si ammala appena
va in pensione, dopo anni di lavoro in fabbrica, e il ragazzo non la lascia,
si prende cura di lei fino alla fine. Alla sua morte scrivono Mother e distribuiscono
cento pezzi dell’album con le ceneri di questa donna sul vinile.”
Tutta la frustrazione, la rabbia, il dolore finiscono in Mother, con questa
bellissima foto, nel video, che campeggia dietro una lunga tavola piena
di cianfrusaglie in ceramica e porcellana, le robe inutili che si accumulano
nella vita e che Talbot fa a pezzi una dopo l’altra, sputando frasi come
“my mother worked 17 hours 7 days a week,
the best way to scare a tory is to read and get rich”.
Una tendenza allo slogan in Brutalism, il primo album, che si sposa
bene con l’atmosfera innegabilmente punk non solo dello stile delle canzoni
ma anche dei contenuti: siamo in piena era Brexit ma potremmo
30/ASCOLTI
Idles, Rock en seine, Parigi
essere in quel ‘77 inglese in cui la vita vera, piccola, dei sobborghi si rivoltava
contro la monarchia e il governo, fabbriche e case coi centrini sulle
poltrone entravano nelle canzoni, povertà, malattia e famiglia intaccavano
le immagini dorate del Regno Unito, la musica era la via per esprimere se
stessi senza compromessi. Oggi come ieri, il punk è ancora questo, rinnovato
ed altrettanto potente.
HR: “Dopo la morte della madre di Talbot gli Idles sono esplosi. I
primi album sono aggressivi, liberatori. Il cantante si perde nelle droghe
e ci mette tempo a ripulirsi e combattere i propri demoni, ma le uscite
successive sono più positive, guardano a una redenzione, al divertimento.
Gli Idles sono clamorosamente gentili, disponibili, questo risalta in
contrasto con l’aspetto, col genere musicale, ma si legge nei testi.
Io non li conoscevo. Ho scritto al manager, l’ho raggiunto ed è venuto
fuori che lui invece conosceva il mio lavoro, così mi ha dato il pass
all areas e mi ha lasciato carta bianca. Il primo giorno ho fatto i ritratti
all’interno di questa serra e poi sono andato sul palco, con loro, senza il
bisogno di definire niente. Massima libertà. Alla data successiva eravamo
già amici.”
La gentilezza degli Idles si sente anche nell’ultimo album, in cui il brutalismo
si è addolcito, in cui si comprende che non c’è mancanza di potenza
nel mostrarsi gentili. Nel mostrarsi come si è, come si è diventati dopo tanta
strada, tante esperienze di vita vera, senza maschere né corazze mai.
La voce esplora, la musica risente della produzione di Nigel Godrich.
Il gruppo sale sempre più di livello.
31/ASCOLTI
Idles, Rock en seine, Parigi
33/ASCOLTI
Idles, Fake Fest,
Bellaria Igea Marina, Rimini
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35/PAGINE
Lo scorso gennaio è uscito Dark Rainbow, il quinto album di Frank
Carter & The Rattlesnakes, band londinese esordita con Blossom nel 2015,
imponendosi subito tra la musica da ascoltare ad alto volume. Ritmica
massiccia, estetica curata, un bel po’ di follia e un contatto fisico col pubblico
cercato immediatamente, giù dal palco, tra la folla, una fiducia ripagata
ad ogni concerto.
HR: “Frank Carter, altro gentile. L’ho incontrato allo Sziget Festival
di Budapest. Nei posti piccoli fanno il delirio ma anche in quei contesti
non scherzano. Quando hanno aperto i concerti dei Foo Fighters avevano
questi grandi palchi, anche distanti dal pubblico, ma appena saliti in
scena, subito tra la gente, il contatto fisico è un bisogno immediato.
Ho avuto occasione di fargli dei ritratti e gli ho detto che mio figlio è un
suo grande fan, così mi ha detto di prendere il telefono e fargli un video
in cui lo salutava. Ecco, sono queste cose che azzerano le distanze.”
Le tematiche sono impegnate, invettive contro la politica, critica sociale
varia, alcolismo, machismo, eteronimia con largo uso di metafore: un
post-punk che fa ancora casino ma centra sempre più l’obiettivo dell’individualismo,
del pensiero critico, dell’espressione personale in un mondo
sciamico che tende costantemente a seguire la massa.
HR: “Nelle foto di Frank Carter in primo piano c’è la Dreher, la birra
che fanno lì a Budapest. Non la vendono all’interno del concerto perché
ci sono più tipologie di birra a prezzi alti, a 5-6 euro, allineati ai prezzi
dei festival europei, mentre fuori una lattina costa 1 euro circa e tutti le
portano da fuori. E questa è una cosa punk.”
36/PAGINE
Smash your TV
Burn the news
All they play is different ways
That we live and we lose
Frank Carter, Sziget
Festival, Budapest
© Henry Ruggeri
Smash your sadness
Go get a tattoo
We were born to win
Not born to lose
(GO GET A TATOO, FRANK CARTER & THE RATTLESNAKES)
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Frank Carter, Sziget
Festival, Budapest
© Henry Ruggeri
HR: “Io non sono punk. Mai stato. Ma amo i gruppi punk: per me
tutto è iniziato con i Ramones, per seguirli, per vedere i loro concerti,
sono andato in tour con loro, ma non ho mai avuto l’estetica punk. A me
piace la comodità, la pulizia, però ho fatto un sacco di cose punk, dormito
nelle stazioni o all’aperto per risparmiare, mi sono arrangiato in ogni
modo per andare ai concerti e fare ciò che volevo. Queste esperienze
fatte ieri mi aiutano credo oggi a cogliere meglio l’atmosfera di queste
esibizioni, a canalizzare l’adrenalina, fare istintivamente e liberamente
lo scatto giusto.”
“IL FLASH PROVOCA RIFLESSI,
ACUISCE LA QUALITÀ DEI TESSUTI,
ILLUMINA IL PULVISCOLO:
SONO COSE CHE MI FANNO IMPAZZIRE.”
(HENRY RUGGERI)
38/ASCOLTI
HR: “Avevo il pass per Kendrick Lamar e avevo preso un biglietto
per mio figlio. Poi mi hanno tolto il pass per questioni interne e non volevo
mandare mio figlio da solo. I biglietti introvabili. Così siamo partiti,
arrivati a Verona, mille controlli. Mio figlio entra col biglietto, io mostro
il pass degli Idles AAAA, macchina fotografica in mano.
Where are you going?
I’ve a pass, I’m just working.
ARRANGIARSI, FARE DI TUTTO PER LA MU-
SICA, PER VEDERE UN CONCERTO. RISCHIA-
RE. QUESTO È PUNK.”
39/PAGINE
Frank Carter, Sziget
Festival, Budapest
© Henry Ruggeri
40/ASCOLTI
HENRY RUGGERI
Ha iniziato a “ritrarre la musica” nel
1988 spacciandosi fotografo professionista
per conoscere i suoi idoli: i Ramones.
Da quel giorno non ha più smesso.
Oggi è il fotografo ufficiale di Virgin
Radio e uno dei più seguiti fotografi
“live” della scena musicale italiana (oltre
160.000 followers nei suoi profili
social). Tra i gruppi fotografati troviamo
Pearl Jam, Foo Fighters, Rolling
Stones, Madonna, Guns n’Roses, Muse,
Ac/Dc, Ramones, REM, Kiss, U2 e mille
altri. Dal 2014 sta portando in giro per
l’Italia una raccolta di foto e memorabilia
che raccontano la sua carriera trentennale
passata nei pit degli eventi rock
più importanti avvenuti nel nostro paese.
Ad oggi le mostre fatte sono oltre
50 con esibizioni in città come Napoli,
Palermo, Roma, Cosenza, Treviso, Milano,
Bassano Del Grappa, Taranto, Londra
e Los Angeles.
41/ASCOLTI
www.henryruggeri.net/
www.instagram.com/henryruggeri/
www.facebook.com/henry.ruggeri66
La solitudine
©Livia Ranzini Pallavicini
(RIGHT ON) THRU
3:13
JENNIFER FINCH
SMELL THE MAGIC
L7
1990
Well I hate the rain when I drive
Right on thru
Cause the windows are broken on my 455
Right on thru
It don’t rain much but when it do
Right on thru
That dirty old rain comes right on thru
Right on thru
Through to you!
I had some pigeons livin’ on my ledge
Right on thru
Dirty winged rats living on the edge
Right on thru
I give ‘em a shot too
Right on thru
The pigeon shit seeps right on thru
Right on thru
Through to you!
Well you built your house made out of lead
Right on thru
It keeps out those things that you dread
Right on thru
It don’t matter where you hide
Right on thru
Because reality always crashes inside
Right on thru
Through to you!
Right on thru
Through to you!
FAST AND FRIGHTENING
2:37
SUZI GARDNER, DONITA SPARKS
SMELL THE MAGIC
L7
1990
Her glance hits me like lightning
I heard that girl is fast and frightening
Dirty hair and a laugh that’s mean
Her neighbors call her an evil machine
She’s fast, she’s lean
She’s frightening
She’s fast, she’s lean
She’s frightening
Popping wheelies on her motorbike
Straight girls wish they were dykes
She’ll do anything on a dare
Mom and daddy’s worst nightmare
She’s fast, she’s lean
She’s frightening
She’s fast, she’s lean
She’s frightening
Down at the creek smoking pot
She eats the roach so she don’t get caught
Throws her mini off in the halls
Got so much clit she don’t need no balls
She’s fast, she’s lean
She’s frightening
She’s fast, she’s lean
She’s frightening
She’s fast, she’s lean
She’s frightening
She’s fast, she’s lean
She’s frightening
STUCK HERE AGAIN
4:59
SUZI GARDNER, DONITA SPARKS
HUNGRY FOR STINK
L7
1994
I’m good at feeling bad
I’m even better at feeling worse
Some would say life is a charm
Well I’m convinced it is a curse
Yeah yeah I’m stuck here again
I’ve learned to make bad situations my friend
It starts all over just when it should end
Yeah yeah I’m stuck here again
Here comes that familiar pain again
I’m low down, I’m feeling ill
Yeah yeah I’m stuck here again
I wish there was someone I could kill
Yeah yeah I’m stuck here again
I’ve learned to make bad situations my friend
It starts all over just when it should end
Yeah yeah I’m stuck here again
Here comes that familiar pain again
I’m low down, I’m feeling ill
Stuck here again
I wish there was someone I could kill
Yeah yeah I’m stuck here again
I’ve learned to make bad situations my friend
It starts all over just when it should end
Yeah yeah I’m stuck here again
Yeah yeah I’m stuck here again (2x)
It starts all over just when it should end
Yeah yeah I’m stuck here again
44/PAGINE
PISSED JEANS
Il sesto album dei Pissed Jeans, band della
Pennsylvania, riporta musicalmente – e con
molto piacere – alla scena hardcore (con
qualche deviazione nel grunge) degli anni
ottanta/novanta. Sono diversi i nomi che si
affacciano alla mente: e non perché emulati,
ma per una sorta di naturale e irresistibile
associazione sonora.
Attraverso il suono potente e (molto) grezzo
di un hardcore venato di noise e per il tramite
di testi che oscillano tra il cattivo e il divertito,
Half Divorced dà voce al crescente senso
di incertezza che attanaglia la classe media
occidentale.
Una boccata d’aria in un mondo anestetizzato.
[Sub Pop Records, 2024] AP
45/ASCOLTI/ripostigli
GR
AF
ICA
PUN
K
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
LA STORIA DELL’ESTETICA PUNK NON PUÒ
ESSERE RACCONTATA, MA SOLO MOSTRATA.
Johan Kugelberg
L’IDEA DI UN MOVIMENTO CHE SI
PROPONGA ATTRAVERSO LA CARTA,
CHE SI DIFFERENZI DA TUTTO QUANTO
VISTO IN PRECEDENZA, LIBERO E
PROVOCATORIO, HA FATTO DELL’EDITORIA
PUNK UN FENOMENO UNICO CHE ANCORA
OGGI APPASSIONA MOLTI COLLEZIONISTI
E AMANTI DEL GENERE.
Francesco Ciaponi
TANTO IMPRECISA, SPORCA,
COSCIENTEMENTE O INCOSCIENTEMENTE
“SBAGLIATA” ERA L’ESTETICA VISIVA
LEGATA AL PUNK, QUANTO POTENTE
È STATA — ED È ANCORA — LA SUA
INFLUENZA NEL CAMPO DELLA
COMUNICAZIONE E DELLA GRAFICA.
Simone Sbarbati
Attitudine punk
La fine degli anni settanta vide la nascita del movimento punk.
Il punk è stato definito da David Byrne un’attitudine, piuttosto che
uno stile musicale; di certo un’attitudine contraddistinta dalla rabbia, una
reazione istintiva a un mondo sbagliato, del quale rifiutare le storture.
Per le arti grafiche fu un periodo di vitalità dirompente, che gettò le
basi per un modo inedito di intendere la comunicazione visiva.
Nel calderone ribollente della cultura punk prese forma quello che
viene chiamato DIY (Fai da te), una modalità espressiva che si rifiutava di
seguire le logiche di sistema a favore di un metodo estremamente fresco
di autoprodurre, diffondere rapidamente, far esplodere concetti e sensazioni
molto forti, di cui oggi vediamo ancora gli effetti ma che ormai fanno
parte del mainstream, e hanno perso inevitabilmente quell’innocenza.
I primi effetti del DIY, i più immediati e fruibili, si manifestarono nella
moda, e risuonano ancora oggi, nella street art come sulle passerelle, assieme
47/FORME
ad ogni jeans strappato, ad ogni trucco smokey, ad ogni borchia, o ciuffo
cristallizzato nel gel.
Le arti grafiche, apparentemente “sottotraccia”, pervadono in realtà
il quotidiano in maniera tentacolare; la grafica legata al mondo della musica
vive dell’urgenza dettata dal voler diffondere e condividere un immaginario
ben preciso con quanti più possibile tra i nostri simili.
Fanzine
Il termine inglese fanzine nasce dalla contrazione delle parole fan (da
fanatic, appassionato) e magazine (rivista). Viene usato per la prima volta
negli anni Quaranta in riferimento ad una rivista amatoriale di fantascienza.
Così come la nascita di etichette indipendenti nasceva dall’esigenza
di autoprodurre album anche da parte di chi non aveva studiato musica né
possedeva uno studio di registrazione, ma solo un garage, allo stesso modo
tra gli amici e i fan di chi suonava c’era sempre un grafico improvvisato, che
non aveva studiato da grafico e che possedeva mezzi molto scarni, con la
volontà di mettere in piedi non solo le copertine dei dischi ma anche e
soprattutto le fanzine per poter diffondere notizie e concetti cari, non presenti
sui canali ufficiali.
Non grattacieli quindi, ma scantinati, non redazioni, ma sale prova e
garage. Certo non era sempre così: non mancavano professionisti che avevano
studiato nelle migliori scuole, e con cognizione di causa si stavano
preparando a fare parecchio trambusto, ma le due cose potevano a quei
tempi andare a braccetto e funzionare comunque splendidamente. Spesso
i componenti stessi delle band si occupavano della parte visiva.
IN PRATICA I LETTORI DELLA FANZINE SI DIVIDEVANO TRA COLORO A CUI,
SFOGLIANDOLA, S’ACCENDEVA LA SCINTILLA E FONDAVANO UNA BAND, E QUELLI
A CUI INVECE VENIVA VOGLIA DI METTERSI A FARE A LORO VOLTA
UNA FANZINE — E SPESSO I DUE IRRESISTIBILI IMPULSI ADDIRITTURA COINCIDEVANO.
Simone Sbarbati
Più avanti si arrivò alla diffusione di magliette, spille, toppe, una strada
che viene percorsa ancora oggi e lo sarà in futuro, anche se la rete e i
programmi di computer grafica hanno reso da decenni tutto estremamente
omologato, rapido, patinato.
Le mode sono comunque intessute di corsi e ricorsi, e ciclicamente
il DIY fa capolino. Negli ultimi tempi ha assunto un tono particolarmente
lezioso, semplificando si può affermare che dagli hipster in poi il “fatto a
mano” sia diventato un vezzo per consumatori di un certo livello culturale,
e in tanti casi una fregatura.
Nulla a che vedere con l’esplosione violenta ma affascinante del 1976
in Inghilterra.
Quello fu infatti l’anno di nascita della fanzine punk per eccellenza,
l’apripista, il mensile Sniffin’ Glue, nato dalla passione di Mark Perry, impiegato
in banca ma assiduo frequentatore della scena musicale di Londra.
Il nome deriva dalla canzone dei Ramones Now I Wanna Sniff Some
Glue. La rivista verrà pubblicata per due anni solamente ma con un’ascesa
vertiginosa, dalle cento alle quindicimila copie.
I testi uscivano da una banalissima macchina da scrivere di plastica
48/FORME
e venivano stampati e pinzati su A4 piegati a metà nella cartoleria del
quartiere, nel numero di copie che ci si poteva di volta in volta permettere
e poi distribuiti ai concerti (Punk letteralmente significa “da due soldi”.)
Nelle pagine di Sniffin’ Glue il concetto di layout è uno sconosciuto,
i testi (recensioni, interviste) sono scritti a mano, con penna e pennarelli
misti a macchina da scrivere, senza vezzi, senza decorazioni di alcun tipo.
SNIFFIN’ GLUE WAS NOT SO MUCH BADLY WRITTEN AS BARELY WRITTEN; GRAMMAR
WAS NON-EXISTENT, LAYOUT WAS HAPHAZARD, HEADLINES WERE USUALLY
JUST WRITTEN IN FELT TIP, SWEARWORDS WERE OFTEN USED IN LIEU OF A REASONED
ARGUMENT. . . ALL OF WHICH GAVE SNIFFIN’ GLUE ITS URGENCY AND RELEVANCE.
Tony Fletcher
I riferimenti culturali che possiamo ricollegare a questo gesto creativo
e a questa precisa estetica sono da andare a cercare nel dadaismo:
la tecnica dell’ objet trouvè di Duchamp, o ready-made: prendere un
oggetto della realtà quotidiana e inserirlo in un contesto totalmente inedito
(un esempio tra tutti il fenomenale lavoro dell’artista Linder Sterling
per l’album dei Buzzcocks Orgasm Addict nella quale ad un nudo femminile
è stato incollato, al posto della testa, un ferro da stiro); il largo uso
del cut-up: mettere insieme lettere provenienti da fonti diverse, con stile,
colori, grandezze differenti, che arriva dagli anni Venti di Tristan Tzara,
e fu ampiamente usato a partire dagli anni Sessanta da William Burroughs,
Brion Gysin e dai grandi cantautori. Il testo viene tagliato e
ricomposto come nel montaggio di un film, e i vari frammenti danno
nuova vita al tutto.
Nella copertina dell’album degli Angelic Upstarts The Murder of Liddle
Towers del 1979, dedicato a un pugile morto due anni prima mentre era
in custodia della polizia, le scritte composte con la tecnica del cut-up ricordano
inequivocabilmente una lettera minatoria.
Altre radici molto forti vanno cercate nella stampa dell’Agit-Prop
russo, dove di nuovo troviamo il bianco e nero abbinato ad un terzo colore
violento, i caratteri cubitali e i tratti asciutti, veloci dei disegni, e nel surrealismo
come naturale evoluzione del dadaismo.
In termini di composizione le fanzine devono moltissimo alla grafica
di protesta del Sessantotto, e in generale alla stampa underground dei
prolifici anni Settanta, anni di grande sperimentazione tipografica, irripetibili
dal punto di vista della ricerca, e caratterizzati dall’uso di caratteri
giganti, molto pieni e netti, uso del bold marcato, e dal sapiente lavoro sul
bianco e nero accostato spesso a tonalità forti.
Perry si legò poi ad altre esperienze editoriali: White Stuff, incentrata
sulla figura di Patti Smith, Ripped & Torn, 48 Thrills e London’s Burning.
Altra rivista importante per comprendere lo spirito dell’epoca fu Sideburns,
che esordì con uno schizzo di Tony Moon raffigurante il disegno
di tre accordi con un breve testo a mano: “Questo è un accordo, questo è
un altro e questo è un terzo. Adesso forma una band”.
Tale disegno viene spesso citato dagli studiosi per esplicare il concetto
principe dei musicisti punk: non è indispensabile aver frequentato
una scuola di musica, indispensabile è la spinta a fare.
49/FORME
Sempre nel 1976 ma a New York nacque Punk, fondata da John Holmstrom,
Ged Dunn e Legs McNeil, con la necessità di supportare la neonata
scena musicale underground della Grande Mela ed in particolar modo
la band dei Ramones (John Holmstrom divenne famoso anche per aver
illustrato alcune delle copertine dei Ramones).
Punk era una rivista più attenta al fumetto e alla grafica, e venne
pubblicata fino al 1979.
Negli Stati Uniti si diffusero molte altre riviste in tempi rapidi: Search
& Destroy, Flipside e Slash; anche da noi in Italia l’esplosione del fenomeno
fanzine si fece sentire, un titolo tra tutti T.V.O.R., del 1981, nata a Como (True
Voice of Rebels, ma divenne ben presto sinonimo dello slogan Teste Vuote
Ossa Rotte), ricchissima di contenuti e famosa anche oltralpe, tanto da
essere definita da Jello Biafra come una delle più belle fanzine del mondo;
ma anche Xerox ( poichè interamente stampata con la fotocopiatrice),
Archaeopteryx, Punkaminazione, Anti-Utopia e Echo.
Gli artisti delle band
Quelli furono gli anni in cui un graphic designer aveva davvero il potere
di modificare in qualche modo l’immaginario collettivo, e questo avveniva
prima di tutto attraverso le copertine dei dischi.
L’ironia, lo sberleffo del potere, della politica e del mainstream sono
stati il filo conduttore delle figure affermatesi nel mondo della grafica punk,
che sentivano forte la spinta ad agire attraverso le proprie doti visive per
aiutare ad andare nella direzione del cambiamento sociale, reagire al vecchio,
creare rottura.
HO SEMPRE VISTO IL PUNK COME UNA PARTE DI UN MOVIMENTO D’ARTE CENTENARIO,
CON RADICI DI AGITPOP RUSSO, SURREALISMO, DADA E SITUAZIONISMO.
Jamie Raid, autore della copertina Never Mind The Bollocks Here’s The Sex Pistols (1977)
Jamie Reid era il grafico che seguiva l’identità visiva dei Sex Pistols,
e che tutti ricordiamo per lo stile essenziale, sporco, contrastato in stile
fotocopia, uno stile che si ispirava alle ransom letters, le lettere con cui i
rapitori chiedevano un riscatto ai parenti delle loro vittime.
Nelle sue immagini sentiamo gli echi di futurismo e dadaismo.
L’immagine dei Sex Pistols è solo apparentemente casuale, in realtà
vene studiata ad arte da Reid che non poteva trovare un modo migliore
per trasmettere le sue idee anarchiche e nichiliste.
Il suo adattamento del ritratto del Giubileo d’argento della regina
Elisabetta II per il singolo God Save The Queen del 1977 venne definito da
The Observer come “la singola immagine più iconica del punk”.
Peter Saville, di Manchester, verrà ricordato da tutto il mondo per
l’iconica copertina di Unknown Pleasures, l’album di debutto dei Joy Division,
del 1979.
Anche Malcolm Garrett viene dal Politecnico di Manchester come
Saville, ed è stato tra le altre cose l’ideatore del logo dei Buzzcocks.
Raymond Pettibon, statunitense, fu il bassista dei Black Flag: lui ideò
il nome della band e sempre lui ne disegnò il logo. Proseguì fino a diventare
50/FORME
un artista riconosciuto a livello internazionale (sua è la copertina di Goo
dei Sonic Youth) con opere disseminate nei prestigiosi musei di arte contemporanea.
Arturo Vega, grafico esperto di collages già dal 1970, diviene amico
di Joey Ramone prima ancora che la band si formi, e ne amerà incondizionatamente
lo stile tanto da realizzare per loro la scritta e il celebre logo
con l’aquila entrato nell’immaginario comune.
I flyers
Un altro esempio di grafica punk davvero affascinante è costituito
dai flyers dei concerti, irresistibili nella loro immediatezza.
La collezione di volantini punk della Cornell University (Ithaca, New
York) è stata digitalizzata ed è disponibile in rete per la consultazione: 2091
punk flyers attraverso i quali immergersi totalmente in quell’atmosfera di
lettering multiformi, spesso composti con la tecnica del Letraset, disposti
trasversalmente nello spazio, alternati a fumetti e fotografie scontornate
in modo grossolano, o direttamente scritti a mano, con un tale atteggiamento
libero e giocoso mai più ritrovato nei decenni successivi, potenziati
ma fortemente vincolati dall’avvento dei personal computer.
Buoni propositi
Creare un flyer, impaginare una fanzine o una copertina di vinile divennero
un atto situazionista attraverso il quale vivere la propria passione
per la musica in un modo totalmente opposto a quello del mero consumatore:
l'importante era partecipare, condividere informazioni, senza stare ad
aspettare che i canali ufficiali si accorgessero della tua band preferita, che
magari era stata a scuola con te pochi anni prima e che era percepita come
grandioso veicolo di insubordinazione, di provocazione.
Testi in negativo, box immagini e testo disallineati, gli uni a ridosso
degli altri, titoli spesso composti a mano con la tecnica del collage, ritoccato
con pennarelli bianchi; foto dei musicisti scontornate e sovrapposte
a fondi formati da texture di piccoli disegni a tema. Quello che facevamo
da adolescenti con le nostre Smemorande nei primi anni novanta era qualcosa
di davvero molto simile, a ripensarci: le agende passavano di mano in
mano per scambiarsi messaggi, ed emozioni. Quello che abbiamo fatto poi
in seguito con le bacheche dei social degli albori, nei primi duemila, era di
nuovo attinente anche se terribilmente più sfuocato.
QUELLA PUNK È UN’ARTE DI CONVENIENZA, CHE FACEVA USO DI COLLAGE,
DISEGNI E SCRITTE A MANO, FUMETTI, STENCIL E SOPRATTUTTO
FOTOCOPIE XEROX IN BIANCO E NERO.
Rick Poynor, Design Observer
Mai come ora si fa urgente la riscoperta, da parte delle nuove generazioni,
di modalità meno passive per celebrare la musica. Un nonno expunk
potrà essere inaspettatamente il testimone ideale di un tempo in cui
cucire, rattoppare, montare, evidenziare e incollare era parte integrante di
una vitalissima ribellione giovanile, impossibile anche solo da immaginare
per chi tra pollice, indice e medio maneggia solo Tik Tok.
51/FORME
Macchie di colore di E.
©Livia Ranzini Pallavicini
52/PAGINE
GRAZIANO ORIGA
Italiano e newyorkese, sardo ma milanese
d’adozione, in partenza fumettista poi editore
graffiante e raffinato, quando punk, street
e pop si stanno mescolando e confondendo.
Con Marco Cy scrive Diary of a punk artist.
Prima rivista Gong poi, dal ‘79, Punk Artist,
dal piglio sperimentale e in rottura con lo
status quo, comparabile a Interview di
Andy Warhol, testi vari, disegni dello stesso
Origa, foto del compagno Joe Zattere.
Il paragone con Warhol vale anche per il viso
scavato, gli occhiali, il frasario smezzato.
La casa (decorata da Keith Haring) piena
di personaggi mondani della Milano da bere.
Frequentatore del Plastic, di Enrico Ruggeri,
Ivan Cattaneo, Krisma, Righeira. Un visionario,
perfetto interprete del suo tempo. MS
53/FORME/ripostigli
Uccello acquatico al culmine
dalla sua orrida eleganza
Foto di Marcello Francone
IL PUNK È STATO DEFINITO COME UN’ATTITUDINE
PIUTTOSTO CHE UNO STILE MUSICALE DAVID BYRNE
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
QUANDO T’INFETTA IL SANGUE,
DIVENTA L’ORMONE NUMERO UNO;
SCHIAVIZZA GLI ENZIMI;
COMANDA LA GHIANDOLA PINEALE;
PRENDE IL RUOLO DI IAGO
CON LA TUA PSICHE. COME CON L’EROINA,
L’UNICO ANTIDOTO AL CINEMA È IL CINEMA.
Martin Scorsese citando Frank Capra
HO MOSTRATO UOMINI E DONNE
CHE VIVONO SUL FILO DEL RASOIO.
Martin Scorsese, Cahiers du cinéma, 1996
IO SO CHE, SENZA LA MUSICA, SAREI PERDUTO.
Martin Scorsese, Cahiers du cinéma, 1995
Negli ultimi anni settanta, periodo in cui si colloca la nascita del
punk, Martin Scorsese viveva al limite, facendo un largo uso di droghe e
passando da una festa all’altra, frequentando attori ma anche rockstar.
Ebbe un crollo fisico nel 1978 causato dagli abusi del suo stile di vita, si
ritrovò magrissimo, debilitato, poco presente a se stesso e profondamente
depresso. Quindi sa assolutamente di cosa parla quando racconta di esistenze
sopra le righe.
Nel libro della Minimum Fax Il bello del mio mestiere a lui dedicato,
all’interno della collana Scritti sul cinema, ha ammesso di aver provato
davvero di tutto, e di aver “sprecato una quantità enorme di tempo e di
energie”.
“LE FESTE MI SONO SFUGGITE DI MANO, PERCHÉ NON SAPEVO
COME CONTROLLARLE. PERÒ AVEVO LO STESSO L’IMPULSO DI
ANDARCI. DESIDERAVO ANDARE IN PROFONDITÀ. VOLEVO VEDERE
DOVE SAREI FINITO. PER FORTUNA SONO SOPRAVVISSUTO”
(GQ)
L’intera carriera di Scorsese è legata a doppio filo alla storia
della musica, rock e non solo: la sua filmografia è sempre stata intervallata
da documentari sulle vite dei musicisti.
Nel 1970 lavora al film documentario Woodstock in qualità di
assistente alla regia e di supervisore del montaggio; nel 1978 gira L’ultimo
valzer, un documentario sull’ultima esibizione live del gruppo The Band,
nel quale appaiono tra gli altri Muddy Waters, Bob Dylan, Van Morrison,
Eric Clapton, Neil Young.
57/FOTOGRAMMI
Nel 1987 è lui a dirigere il videoclip di Bad, hit di Michael Jackson,
ben 18 minuti di riprese nella metropolitana di New York. Nel 2005 si dedica
a No Direction Home, omaggio a Bob Dylan, e nel 2008 a Shine a Light,
sui Rolling Stones. Nel 2011 è la volta di George Harrison, chitarrista dei
Beatles, in Living in the Material World.
Tra i progetti irrealizzati del regista ci sono altri mostri sacri:
Frank Sinatra, i Grateful Dead e i Ramones.
Le colonne sonore dei suoi film verranno ricordate nella storia
del cinema per essere tra le più dirompenti, fresche, azzeccate, e sempre
studiate con cognizione di causa. Cahiers du cinéma del 1995 riporta queste
sue parole: “La musica è parte integrante dell’ambiente in cui vivono i
personaggi - fa anch’essa parte di quel perpetuo movimento in avanti che
finisce per diventare incontrollabile.”
IL LUPO
The wolf of Wall Street è eccessivo, a partire dalle due ore e
cinquantanove minuti di durata, eppure lo spettatore non percepisce lo
scorrere di un lasso di tempo così lungo, e la colonna sonora è solo uno dei
tanti motivi. È una storia vera, tratta da un libro autobiografico: l’ascesa e
la successiva caduta di Jordan Belfort, giovane broker di New York che
raggiunse rapidamente vette di ricchezza imbarazzanti con la truffa ai
danni di milioni di comuni mortali che investirono presso la sua società, la
Stratton Oakmont, a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta, e altrettanto
rapidamente fece sì che l’FBI puntasse i fari sulla sua attività e suoi suoi
eccessi, fino all’arresto.
Ci troviamo di fronte ad un protagonista né colto, né raffinato
e la pellicola è totalmente incentrata sulla sua vita dissoluta: dettagliate
descrizioni di tutte le sostanze che Jordan assume in una classica giornata
lavorativa, ma anche di tutto il sesso che si pratica in azienda, in modi fantasiosi
e piuttosto illeciti.
Tutte le sfumature del “politically scorrect” trovano allegramente
posto in questo film.
L’uso del linguaggio volgare (i famosi 569 “fuck”), nessun timore
nel mostrare gli aspetti più disgustosi dei dipendenti della Stratton,
immagini violente, bloccate o rallentate nel momento di massima esplosione,
violente persino le tonalità dei vestiti e degli arredi, costosi ma sempre
con quell’aria inevitabile di arricchito tutto d’un colpo, dal nulla.
I ragazzi “arruolati” da J.B. sono brutti, ignoranti e volgari. Hanno
il capo della polizia alle calcagna, le feste che organizzano sono scorrettezza
pura, conducono un’esistenza di chiassosa anarchia. “Era un manicomio,
un festival dell’eccesso, con parti uguali di cocaina, testosterone
e liquidi corporei vari”.
Le tecniche di regia e montaggio evidenziano tutti questi
aspetti, con enfasi, senza giudizio: e in tutto questo noi abbiamo di continuo
la sensazione di non esserci mai divertiti così tanto davanti allo schermo.
Questo Scorsese è come andare sulle montagne russe, è come una
droga che non ci basta mai, è eccitante.
“Ha una vera passione per il montaggio, per l’effetto che può
dare la giustapposizione di due immagini. È qualcosa che lo assilla. [...] Per
58/FOTOGRAMMI
lui, il film si “fa” in questa fase.” ci racconta Thelma Schoonmaker, la montatrice
statunitense che ha portato avanti per una vita il sodalizio con Martin:
lui vuole lei, e solo lei, in questa decisiva fase della lavorazione, da decenni.
Le scene al ralenti rendono perfettamente l’idea degli effetti
delle droghe sui broker, le inquadrature vertiginose dall’alto dei grattacieli,
gli zoom improvvisi ci immergono nell’atmosfera assurda delle loro vite.
“FLASHFORWARD INCASTONATI IN FLASHBACK (E VICEVERSA),
MOLTIPLICAZIONE ININTERROTTA DEI PUNTI DI VISTA, ANGOLAZIONI
SEMPRE SORPRENDENTI, DIALOGHI ULTRAVELOCI CON LA PAROLA
E IL VERBO «FUCK» MODIFICATI, DECLINATI E CONIUGATI IN OGNI
MODO POSSIBILE. IL TEMPO FILMICO SEMBRA ARGILLA FRA LE MANI
DI UN CREATORE POSSEDUTO DALLA PURA GIOIA DELLA MITOPOIESI
CHE CONDUCE LE DANZE CON UN PIACERE SATANICO PER
GIUNGERE ALL’APICE DELLA BOTTA DA QUALUUDE IN RITARDO
CHE È GIÀ PASSATA ALLA STORIA DEL CINEMA. ‘THE WOLF
OF WALL STREET’ È IL CINEMA DI SCORSESE AL CALOR BIANCO.
UN’OPERA COMPLESSA E RADICALE CHE SPOSTA IN AVANTI
QUANTO SAPPIAMO OGGI DEL CINEMA, RILANCIANDO TUTTE
LE POTENZIALITÀ DEL DISCORSO SCORSESIANO RIMASTO PER
TROPPO TEMPO FERMO ALLE CONVENZIONI HOLLYWOODIANE.
BENTORNATO MARTY!”
Giona A. Nazzaro, Il Manifesto, 2014
Pieno di riferimenti ad altra cinematografia del regista, e non
solo (chi ha pensato in alcune scene a Quarto Potere ci ha visto giusto),
questo film dipinge la decadenza con decise pennellate, ed è sempre dannatamente
divertente, perché regista e attori si sono dannatamente divertiti
a crearlo.
È radicale, una parabola esagerata, la celebrazione totale della
coppia Scorsese / Di Caprio.
L’attore feticcio di Scorsese, che ha preso idealmente il posto
di De Niro nei ruoli chiave, non è mai stato così tanto simpatica canaglia
come nei panni del lupo. Di Caprio meriterebbe un Oscar per ogni film
fatto insieme, e l’ultima interpretazione in Killers of the Flower Moon, diretto
dal medesimo regista, non è da meno, anzi.
Scorsese, alle prese con la storia di Belfort, tira fuori tutta la sua
attitudine punk.
Stile e idee anarchiche del punk erano viste come affronto dai
conservatori: anche la condotta di J.B. e dei suoi seguaci lo è, senza ombra
di dubbio.
La musica punk è veloce, grezza e quasi senza pause: esattamente
come l’effetto che si è voluto catturare durante il lungo montaggio
del film, un accuratissimo lavoro alla ricerca di un timbro pop, osceno,
fluorescente.
“BISOGNA CHE IL FILM RESTI
IL PIÙ ASPRO POSSIBILE, CHE MANTENGA
UNA CERTA CRUDEZZA”
Martin Scorsese, Civilization, 1998
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Il punk sfugge alle definizioni: lo stile in cui sono montate le scene
del film è talmente variegato da sottrarsi ad una facile catalogazione.
Il termine punk in origine era un’arcaica definizione di prostituta,
parola che potremmo tranquillamente usare per descrivere lo scellerato,
imbarazzante vendersi dei protagonisti.
Il punk è provocazione, spavalderia. Il dizionario Miriam-Webster
definisce questo stile musicale “caratterizzato da espressioni estreme
e spesso volutamente offensive di alienazione e malcontento sociale”: ancora
i ragazzi di Jordan, la testa incasinata dalle droghe di Jordan e il suo
genio furbissimo. Puro caos, imprevedibilità.
Il libro La filosofia dei Sex Pistols di Giovanni Catellani, edizioni
Mimesis, recita come sottotitolo: “Chiunque può farlo, fallo tu stesso!”
(Anyone Can do it! Do it yourself!). Ai tempi di Jordan a Wall Street chiunque
poteva arricchirsi con il suo metodo, entrando a lavorare da lui. Perché
non provare?
No future. Nessuna progettualità, solo appagamento istantaneo.
“Noi non creiamo un cazzo, non costruiamo niente!” Spiega il senior
broker della Rothschild – interpretato da uno spassosissimo Matthew Mc-
Conaughey – al giovane e rampante Belford durante una delle scene cult
della pellicola. “Vendevo spazzatura agli uomini della spazzatura”, precisa
la voce narrante del nostro uomo in ascesa vertiginosa, che ci persuade
parlando e guardando verso di noi, diretto a noi, rompendo la quarta parete
e pronto a ribaltare le nostre certezze.
Attenzione: per arrivare a questo spassoso risultato, un esito
che possiamo semplicemente definire Arte, bisogna avere settant’anni, e
aver girato Taxi Driver a trenta e Re per una notte a quaranta (L’età dell’innocenza
a cinquanta e Gangs of New York a sessanta, aggiungiamo per
ribadire meglio il concetto).
Ma lui non lo dà a vedere. Confonde le acque, accelera, guizza,
domina la settima arte senza moralismi, senza che la polvere si posi mai un
attimo sulla telecamera. Con un ritmo convulso addosso, dentro; sapienza
tecnica, esperienza di vita ma spirito intatto di ragazzino di Little Italy, quel
ragazzino che non sapeva decidersi se diventare gangster o prete, perché
così si faceva dalle sue parti, e allora decise di diventare Martin Scorsese.
Un documentario della Rai recita così: “Nei film di Scorsese
sembra di sentir vibrare il sistema nervoso del regista.”
Tra tutte le definizioni del suo modo di girare, resta forse la più
calzante, forse perché quella vibrazione sconquassa ogni volta anche noi.
THE WOLF OF WALL STREET
Regia: Martin Scorsese
2014
SOGGETTO
“Il lupo di Wall Street”
autobiografia di Jordan Belfort
INTERPRETI
Leonardo DiCaprio - Jordan Belfort
Jonah Hill - Donnie Azoff
Margot Robbie - Naomi Lapaglia
Matthew McConaughey - Mark
Hanna
Kyle Chandler - Greg Coleman
Rob Reiner - Max Belfort
Jon Bernthal - Brad
Jon Favreau - Manny Riskin
Jean Dujardin - Jean-Jacques Saurel
Joanna Lumley - Zia Emma
Cristin Milioti - Teresa Petrillo
Christine Ebersole - Leah Belfort
Shea Whingham - Capitano Ted
Beecham
Katarina Cas - Chantalle
P.J. Byrne - Nicky Koskoff
’Rugrat’, Kenneth Choi - Chester
Ming
Brian Sacca - Robbie Feinberg
‘Pinhead’, Henry Zebrowski - Alden
Kupferberg
‘Sea Otter’, Ethan Suplee - Toby
Welch
Ashlie Atkinson - Rochelle
Applebaum
Stephanie Kurtzuba - Kimmie Belzer
Rizwan Manji - Kalil
Mackenzie Meehan - Hildy Azoff
Barry Rothbart - Peter DeBlasio
J.C. MacKenzie - Lucas Solomon
Stephen Kunken - Jerry Fogel
Jon Spinogatti - Nicholas il
Maggiordomo
Aya Cash - Janet
Jake Hoffman - Steve Madden
Michael Nathanson - Barry Kleinman
SCENEGGIATURA Terence Winter
FOTOGRAFIA Rodrigo Prieto
MUSICHE Howard Shore
MONTAGGIO Thelma Schoonmaker
SCENOGRAFIA Bob Shaw
ARREDAMENTO Ellen Christiansen
COSTUMI Sandy Powell
EFFETTI Robert Legato
DURATA 180°
SPECIFICHE TECNICHE
Arricam Lt/Canon C500, 35 mm /
Canon Cinema Raw (4k to Gemini
4: 4: 4)/Hawk Scope, 35 mm/
D-Cinema (1:2.35)
PRODUZIONE Martin Scorsese,
Leonardo Di Caprio, Riza Aziz,
Joey Mcfarland, Emma Tillinger
Koskoff Per Appian Way, Emjag
Productions, Red Granite Pictures,
Sikelia Productions
Golden Globe 2014 a Leonardo
Di Caprio come miglior attore
protagonista
BRANI CONTENUTI
NEL CD SUNDTRACK
1. Mercy, Mercy, Mercy –
Cannonball Adderley
2. Dust My Broom – Elmore James
3. Bang! Bang! – Joe Cuba
4. Movin’ Out (Anthony’s Song) –
Billy Joel
5. C’est Si Bon – Eartha Kitt
6. Goldfinger – Sharon Jones and
the Dap Kings
7. Pretty Thing – Bo Diddley
8. Moonlight In Vermont (Live At
The Pershing Lounge/1958) –
Ahmad Jamal
9. Smokestack Lightning – Howlin’
Wolf
10. Hey Leroy, Your Mama’s Callin’
You – The Jimmy Castor Bunch
11. Double Dutch – Malcolm
McLaren
12. Never Say Never – Romeo Void
13. Meth Lab Zoso Sticker –
7Horse
14. Road Runner – Bo Diddley
15. Mrs. Robinson – The
Lemonheads
16. Cast Your Fate To The Wind –
Allen Toussaint
ALTRI BRANI CONTENUTI
NEL FILM
Spoonful – Howlin’ Wolf
Hit Me With Your Rhythm Stick –
Ian Dury
Tear It Down – by Clyde McCoy
Surrey with the Fringe on Top –
Ahmad Jamal Trio
Stars and Stripes Forever – John
Philip Sousa
Cloudburst – Lambert, Hendricks
& Ross
Insane in the Brain – Cypress Hill
King Arthur, Act 3: What Power Art
Thou – The Monteverdi Choir
There is No Greater Love – Ahmad
Jamal Trio
Boom Boom – John Lee Hooker
Give Me Luv – Alcatraz
Uncontrollable Urge – Devo
In the Bush – Musique
Can’t Help Falling in Love – Elvis
Presley & the Jordanaires
Baby Got Back – Sir Mix-A-Lot
Everlong – Foo Fighters
Sloop John B – Me First and the
Gimme Gimmes
Boom Boom Boom – The Outhere
Brothers
I Need You Baby (Mona) – Bo Diddley
Flying High – Bennett Salvay
& Jesse Frederick
Dream Lover – Clifford Grey
& Victor Schertzinger
Popeye the Sailor Man – Sammy
Lerner
Hip Hop Hooray – Naughty By
Nature
One Step Beyond – Inspector 7
Wednesday Night Prayer Meeting
– Charles Mingus
Gloria – Umberto Tozzi
Ça Plane Pour Moi – Plastic Bertrand
Get Us Down – Bennett Salvay
& Jesse Frederick
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Sticker nel bagno del pub
©Livia Ranzini Pallavicini
62/FOTOGRAMMI
NAÎTRE EST
UNE OPPORTUNITÉ UNIQUE
Climax, di Gaspar Noé, 2018, è qualcosa
che scardina le nostre idee su cosa voglia
dire guardare un film. Una creatura ibrida
che sposta in là il limite di ciò che possiamo
o meno accettare di vedere sullo schermo.
Incubo ipnotizzante, viaggio lisergico che
cattura completamente e lascia nauseati,
storditi, spossati. Regole sovvertite: titoli
di testa a metà visione, pezzi girati al
contrario. Nichilismo di intenti e di mezzi.
Colori fluo. Musica potentissima. Una vera
e propria prova fisica, che inchioda, disgusta,
rilascia scariche di adrenalina lungo tutto
il corpo. Un’opera d’arte sovversiva.
Basato su fatti realmente accaduti a Parigi
nel 1996. Nascere è un’opportunità
unica. PRP
63/FOTOGRAMMI/ripostigli
GUIDA ROMANTICA
A POSTI PERDUTI
Lei un’agorafobica con attacchi di panico
che scrive di viaggi che non riesce a fare.
Ma il vero viaggio è quello che si progetta.
Bugiarda spudorata. Bella in modo
animalesco. Lui un alcolizzato che baratta
la guarigione in clinica con una spedizione
di espiazione che serve a liberare lei e a tenere
per se’ il diritto alla morte, forse. Un ritorno
a casa ma non quello che ci si aspetta:
l’abitazione di una vecchia zia inglese che
collezionava film di fantascienza e vinili
in un juke box.
Chiusura con ballo sfrenato sull’erba,
sui Sex Pistols, con tanto di pogo.
Clive Owen e Jasmine Trinca uno strano
mix. Di Giorgia Farina. MS
64/FOTOGRAMMI/ripostigli
JULIETTE
Non era forse perfetta su quel palco sudato,
dentro una rete metallica, a cantare un
pezzo scritto da PJ Harvey per Strange
Days, film distopico e futuristico (neanche
tanto) sull'arrivo del nuovo temuto
millennio? Lo era. Tanto quanto nel deserto
americano di Natural Born Killers. Minuta,
bellissima, ribelle per natura, dall'aria
consumata e quello sguardo indeciso di chi
vuole fare la brava ma sa che non ci riuscirà.
Juliette Lewis è un'attrice ed è anche una
cantante, vive un saliscendi in entrambe le
sfere ma a chi importa? Fa quello che vuole,
forma i Juliette Lewis and the Liks, dopo sei
anni ci riprova con Juliette and the New
Romantiques (che ricorda The Flowers of
Romance, il primo gruppo di Sid Vicious e
Viv Albertine), si presta a mille
collaborazioni vocali sottotraccia così come
a ruoli minori in film indipendenti, eppure
resta memorabile, anti iconica, una furia
sfuggente e irraggiungibile come per Ralph
Fines in quell'ennesima tostissima pellicola
di Kathryn Bigelow. I can hardly wait/ It's
been so long/I've lost my taste/Say angel
come/Say lick my face/Let fall your dreams/
I'll play the part/I'll open this mouth wide/
Eat your heart. MS
65/FOTOGRAMMI/ripostigli
TERRY
RICHAR
DSON
NICOLA GUIDA
Il 22 gennaio 2024 la notizia che Terry fosse improvvisamente morto ha
invaso la rete come l’acqua sporca che esce da un cesso intasato.
Ma era bastato poco per capire che, così come ciò che esce da un
cesso intasato sono solo merdate, così lui era ancora vivo e vegeto nonostante
la valanga che lo aveva travolto, e da cui nessun uomo normale
sarebbe uscito indenne.
Del resto, fin dall’infanzia, nulla della sua vita è stato normale.
66/OMBRE
67/OMBRE
Figlio di Bob Richardson - una leggenda vivente della fotografia di
moda, un paradosso ambulante, uno che ha lottato tutta la vita con la
schizofrenia - e di Norma Kessler, attrice di teatro a New York, ballerina nei
night club per arrotondare. Fu in un nightclub che si incontrarono, e nonostante
Bob stesse uscendo già a pezzi da un matrimonio, con una figlia da
gestire, fu amore al primo whiskey.
Norma fu un tornado nella vita di Bob, una rivoluzione. Basandosi sul
concetto che se vuoi essere una star devi comportarti da star, trasformò
quello che era ancora un conformista upper class in mocassini (non dimentichiamoci
le origini borghesi di Richardson) in un cowboy dai capelli lunghi
e sciarpa al collo, rivoluzionando anche il suo modo di scattare fotografie
e lanciando definitivamente la sua carriera, come June fece per Newton.
All’indecisione di Bob su come scattare un certo servizio rispondeva
lei, con spinelli e idee a profusione.
Non fu solo Norma, intendiamoci, a far decollare Richardson, ci fu
anche il grandissimo aiuto di Marvin Israel, di Harper’s Bazaar, quello dell’illuminante
“hai fotografato questa ragazza, bene. Ora fallo di nuovo, ma
questa volta cerca di fotografare te stesso: non scattare letteralmente una
foto di te stesso, ma rendila un autoritratto. Fatelo di un’altra persona, ma
fatelo diventare un autoritratto. Non scattare una foto che pensi che io
voglia vedere, ma scatta una foto che sei tu. Fotografati.”
Furono Norma e Israel a plasmare la fotografia di Bob, solo che Norma
lo fece gratis.
Richardson era diventato il fotografo più acclamato dei sixties, Norma
gli faceva da assistente, con l’aggiunta di un po’ di tossicodipendenza.
Una delle sue modelle lo introdusse negli anni sessanta a Max Jacobson,
altresì conosciuto come Dr. Feelgood, quello citato nella canzone dei
Motley Crue, il medico che praticava iniezioni di mix di vitamine e anfetamine
alla gente che contava, ma che contava tanto, tipo Kennedy, e Bob
Richardson divenne così dipendente da quella roba che, a un certo punto,
fu l’unica cosa che poteva fargli fare fotografie.
Si alzava la mattina e prima di andare in studio faceva una capatina
dal medico, e BAM!, era pronto ad affrontare il giorno.
La merda del caro dottore fece bruciare Richardson come la lampadina
di un flash al magnesio: arrivò ad odiare New York e tutto ciò che
aveva a che fare con la fotografia, comprese le riviste e tutte le persone con
cui aveva lavorato durante la sua sfolgorante carriera, convinto di essere
un genio, e che nessuno potesse afferrare completamente la sua visione.
In questa situazione, in cui mancava solo una stella cometa per far la
stalla di Betlemme, nel 1965 nacque Terry: nel momento del travaglio Bob
sparì a cercar qualcosa per tenersi tranquillo e a Norma toccò prendere un
taxi, alle quattro del mattino, per farsi portare in ospedale.
I due si trasferirono a Parigi, nell’illusione di sfuggire alla droga e
all’ambiente tossico di New York e ricominciare da capo col loro bambino,
nonostante a Parigi Richardson fosse acclamato come una superstar, inserito
addirittura da Keith Richards nel giro dei Rolling Stones, il che voleva
dire lavoro a Parigi in settimana e party selvaggi a Londra nel weekend,
una buona scusa per la coppia per imbottirsi di droga e sesso di gruppo.
Nonostante questa vita ad alta velocità, la depressione e la schizofrenia di
68/OMBRE
Bob peggioravano giorno dopo giorno, portandolo una mattina a tagliarsi
i polsi nel lavandino del bagno.
Bob scopava con le modelle con cui lavorava; Norma, mentre lui era
internato in una clinica svizzera dopo il fallito suicidio, si consolò con l’assistente
del marito.
Erano passati quattro anni. E la necessità per loro era tornare a New
York dove, con la fama che si era costruito lavorando in Francia, era sicuro
avrebbero fatto un sacco di soldi attraverso la pubblicità.
E Terry?
Terry era un bel bambino che a scuola i compagni deridevano per i
lunghi capelli biondi e l’accento francese; gli stivali da cowboy che indossava
sempre come suo padre contribuivano ad attirare l’attenzione.
“Quando suo figlio cammina per i corridoi della scuola con quegli
stivaloni fa un sacco di rumore e disturba le lezioni, può dirgli di non indossarli,
per favore?” si lamentavano gli insegnanti.
“Mio figlio indossa quel cazzo che vuole, fottetevi tutti”: puro
rock’n’roll.
La famiglia si sistemò in un attico, iniziò a frequentare la scena di
Warhol e tutto un giro di artisti.
Bob lavorava un sacco. Tutto procedeva alla grande. Finché non gli
mandarono in studio una modella forse nemmeno diciottenne: Anjelica
Houston.
Bob perse la testa sia per la ragazza che per il padre della ragazza,
il regista John Houston. Annunciò a Norma che sarebbe andato a vivere
con lei.
Norma non la prese benissimo: “Scopa quanto vuoi ma non rompere
la famiglia!”.
Bob fu irremovibile, e Terry dovette andarsene a Woodstock con
la madre, che si era convinta di fare la hippy: basta rincorrere il successo,
via libera a peli sotto le ascelle, hashish e libero amore, passando da Jimi
Hendrix a Kris Kristofferson.
Terry decenni dopo ricorderà ancora il momento della separazione
dei genitori come uno dei più tristi della sua vita, sballottato tra le scappatelle
di due adolescenti mai cresciuti, dividendo il suo tempo tra Woodstock
con la madre e Londra, New York, Hollywood con suo padre e la
Houston, entrambi all’apice della carriera.
Una vita a prima vista fantastica, ma sempre lo stesso giro di gente
dal superego, sempre drogati all’eccesso e lui sempre trascurato, traumatizzato.
Bella infanzia del cazzo.
La madre a un mercatino delle pulci, un giorno, conobbe il chitarrista
Jackie Lomax, uno di quelli che non sono mai stati veramente famosi, ma
che c’erano quasi: finì per sposarlo poco dopo. Sembrava felicissima.
Terry cresceva e ogni tanto invitava a casa i suoi amici, mentre sua
madre e Lomax erano in giro.
Almeno non stava solo in quella cazzo di casa in mezzo a un bosco,
che sembrava il capanno di Evil Dead.
Perché quando stava solo la paura lo atterriva.
Non che fosse meglio quando stava con suo padre, totalmente preso
dalla compagna. Letteralmente se la faceva addosso, in entrambi i casi.
69/OMBRE
La Houston ne parlò ridendo con Norma (erano diventate amiche, avvicinate
dal fatto di dover sopravvivere a un tipo come Bob), di tutte le volte
che lui andava a trovarli: “C’era sempre quell’odore, nell’appartamento”.
È così che si diventa autodistruttivi, con i tuoi genitori che ridono di
te, con la convinzione di non essere amato abbastanza.
O diventi violento, o un introverso, perché tanto le tue emozioni non
le merita nessuno.
Terry quando smise di farsela nelle mutande diventò entrambe le
cose, un teppistello ritroso che andava in giro coi suoi amichetti a spaccare
finestre e infilarsi in qualche rissa.
Era il periodo della ribellione pre-punk, e c’era cascato in pieno, nonostante
Lomax tentasse in tutti i modi di farlo sentire amato, ricevendo
in cambio solo calci: “Tu non sei il mio vero padre. Non dirmi cosa devo
fare” gli urlava.
Deve essere difficile fare il patrigno, soprattutto se il vero padre è
uno come Bob Richardson.
Terry si divideva tra le due famiglie e tutti facevano di tutto per dargli
quel che potevano, almeno fino a quando la madre non ebbe un incidente
d’auto con Lomax, mentre stavano andando a ritirarlo ad una seduta con
lo psicologo. Non fu nemmeno colpa loro ma di un camion della società
dei telefoni che non diede la precedenza e investì a tutta velocità il maggiolino
di Norma.
Uno schianto pauroso. Terry rimase ad attendere ore terrorizzato
in mezzo alla strada, finché non arrivò un’amica di famiglia a prenderlo,
ancora fermo lì dove aspettava sua madre.
Lomax non si fece quasi nulla, mentre la madre di Terry si fece un
mese di coma, per svegliarsi con danni permanenti al cervello e dolore
costante.
Per Terry fu un altro abbandono, un altro shock, e si sentì in colpa: se
lui non fosse stato uno stronzetto che aveva bisogno dello strizzacervelli
non sarebbe successo niente, forse.
Dopo sei mesi di ospedale Norma tornò a casa, aveva perso parte
delle corde vocali e non parlava chiaramente, non camminava, non era più
autosufficiente e urlava di voler morire.
Terry non se ne capacitava: “Chi è questa? Non è mia madre, ridatemi
mia madre!”
Un bambino non può affrontare una cosa del genere, non può misurarsi
con tutto questo dolore, di colpo.
Quell’estate la passò con suo padre, che stava solo nel grande appartamento
ormai vuoto da quando Anjelica Houston l’aveva lasciato: aveva
semplicemente fatto i bagagli e se ne era andata. Non si rividero mai più.
Bob portava Terry sui set e poi al cinema. Finita l’estate però gli toccò
tornare a Hollywood da sua madre.
Con l’incidente iniziarono anche i problemi economici: Lomax non
suonava e Norma, che fino a prima dell’incidente faceva la stilista, non poteva
più lavorare. Dalle stelle alle stalle, dal jet set al sussidio.
Per stare con lei il meno possibile usciva la notte, sul boulevard, con
lo skate, o la bici, tra papponi e puttane, tossici e disperati.
Le notti passate nei Seven Eleven a rubacchiare riviste per adulti
(“solo alcune pagine, quelle con le donne con le tette più grosse, perché
70/OMBRE
se mi beccano” diceva Terry “non è così grave forse come essersi rubati
tutta la rivista”), a giocare a flipper, oppure per strada con qualche amico
a baseball, o intrufolati di nascosto nei cinema per adulti come il Pussycat
Theater a guardare i film di Russ Meyer.
Tutto per fuggire dalla realtà.
Forse è stata quella la base su cui si è sviluppata la visione fotografica
di Terry: immagini di donne con tette enormi e fiche pelose, disperazione,
libertà e punk rock.
Mentre gli altri ragazzini andavano a far surf, Terry passava le sue
giornate ad ascoltare punk e drogarsi: si svegliava la mattina, due tiri di
bong o di canna, ed era pronto per la scuola, i Ramones o i Judas Priest
nelle cuffiette.
Quella del ’79 fu l’ultima estate che Terry passò con suo padre.
Aveva 14 anni, e passò il tempo in skate e ai concerti con Bob, che si
sforzava di essere un buon padre, ma il resto del tempo era cupo, dopo la
rottura con la Houston non era più ispirato, non gli importava più di nulla,
quando lo chiamavano per un servizio non si presentava oppure abbandonava
le riprese a metà.
Gli telefonavano e lui mandava i suoi committenti a farsi fottere.
La sua reputazione ne risentì e smisero di cercarlo, ma a lui non interessava
nemmeno più.
Interruppe il lavoro e Terry iniziò a vederlo sempre meno.
Intanto Norma si mise in testa di andarsene da Hollywood, voleva
vivere in un posto bello, in campagna, la città non aveva più nulla da darle.
Prese Terry e si trasferirono a Ojai, una cittadina vicino a Santa Barbara,
dove risiedevano alcuni suoi amici di Woodstock; in pratica una comune
con pretese artistoidi.
Lomax non aveva assolutamente voglia di trasferirsi e Norma lo piantò
su due piedi.
Anche Terry non voleva mollare Hollywood, ma gli toccò, arrabbiatissimo,
seguire sua madre, e addio ai concerti dei Black Flag.
A Ojai Terry era la tipica mosca bianca, spaccava tutto quel che gli
capitava per protesta, con sua madre che passava le giornate a gridare,
ma lui era quello che veniva da Hollywood, e divenne il ragazzo più celebre
della scuola, tutti volevano essere punk come lui.
Mise su la sua band, gli Alcolisti di Signal Street, SSA, in nome dell’unico
cazzo di semaforo che c’era in città che li obbligava a fermarsi di
notte durante loro scorribande, diede vita a una scena punk che travolse
la tranquillità della cittadina: sesso, alcol e, a diciotto anni, come bel regalo
per la maturità, l’eroina.
Il 1983 fu l’anno in cui finì il liceo e finì il sogno.
Finita la scuola non aveva assolutamente idea di cosa fare della sua
vita e passava le giornate sul divano con gli amici a bere, a fumare davanti
alla televisione, in stile Beavis e Butthead.
Un giorno Norma, che aveva scelto di farsi chiamare Annie mollata
la grande città, non ne poté più di vederlo vegetare e gli staccò la spina
della TV; Terry ebbe una delle sue violentissime reazioni, sfasciò sistematicamente
ogni mobile dell’appartamento e lanciò sua madre contro un
muro. Lei lo fece arrestare.
Dopo la notte passata in cella Terry si rese conto di quello che voleva:
71/OMBRE
mollare Ojai, quel posto di merda e tornare a L.A., a Hollywood, e diventare
finalmente la rockstar che era stato predestinato ad essere prima che la
vita della sua famiglia andasse a puttane.
A Hollywood gli bastava poco per vivere: una topaia a quattrocento
dollari d’affitto tutto compreso da dividere, ma droga e alcool non venivano
mica gratis, e Terry qualcosa doveva inventarsi.
Suo padre era sparito, finito chissà dove lungo le strade d’America,
perso nella sua schizofrenia. Male, certo, ma tanto i soldi erano finiti.
Si ricordò di quel famoso assistente di suo padre e lo contattò: “Tony,
sono Terry, sono a L.A. e tu mi devi un favore!”.
Divenne l’aiutante di Tony Kent: montava le luci, caricava le pellicole e
intanto imparava l’ABC della fotografia. Iniziò seriamente a pensare “cazzo,
questo lavoro posso farlo anche io, questi stronzi non fanno un cazzo e
sono pieni di fica e soldi”.
Aveva qualche amico a Hollywood, gente che ce l’aveva fatta, come
Donovan, Balthazar Getty e Alex Winter.
Iniziò a fotografare loro.
Qualche tempo dopo si rifece vivo Bob, che non era ancora morto in
qualche topaia del nuovo Messico ma ci era andato maledettamente vicino;
stava a San Francisco, ora. Aveva passato anni a spingere un carrello
pieno di spazzatura lungo Santa Monica Boulevard; completamente sdentato
ma col cervello abbastanza sgombro dalla schizofrenia lo chiamava
nuovamente.
Terry in quel periodo scattava ritratti per una rivista gay, ma Bob
lo convinse a mollare e a trasferirsi al nord, da lui, promettendogli di trasformarlo
finalmente in un fotografo di moda, per “conquistare il mondo,
ancora”. Spinse il figlio ben oltre gli insegnamenti di Tony Kent: oltre la
tecnica, verso l’arte.
Terry scattava continuamente, Bob stracciava le foto, le criticava, lo
spingeva a fare sempre meglio.
Con l’aiuto del padre mise su un portfolio fatto come Dio comanda,
da presentare a New York.
Col padre fondò una società, “the Richardsons”, ma non durò, perché
i due passavano il tempo ad ubriacarsi e fumare erba.
Lavoravano per riviste di moda ma le foto che scattavano erano
squallide; erano al verde ma Bob non faceva altro che litigare con gli editori.
“Siamo a Miami e abbiamo vitto e alloggio pagati, che cazzo litighi
per delle foto?”
Terry tirò la corda fino a quando Vibe non li contattò per fare ritratti.
Vibe era una rivista di lifestyle parecchio vicina allo stile punk di Terry.
Lo stile malinconico ed elegante di Bob mal si addiceva a quelle pagine.
“Papà, questa merda devo farla da solo, non posso farla con te”. Era
dura, ma doveva provarci. “Se non la faccio da solo non combinerò mai
niente”.
“Senza di me non ce la farai, non ti parlerò mai più, piccolo stronzo”,
rispose Bob.
Terry chiuse la telefonata con un vaffanculo, ma sotto sotto sperava
che suo padre si presentasse allo shooting, il giorno dopo.
Bob non venne, e non si fece vedere più.
72/OMBRE
Lo shooting fu quasi un mezzo disastro: l’idea di Terry era quella di
una storia di ragazzi che si ubriacano, si fanno tipe, pisciano per strada,
le cose punk che lui conosceva bene: uno dei modelli se ne andò dal set
perché si rifiutava di fare lingua in bocca con le modelle, del resto scioccate
da quell’approccio assolutamente anticonvenzionale.
Ma in un modo o nell’altro Terry portò a casa gli scatti e il servizio
venne premiato come miglior fashion story del 1993.
Terry era finalmente decollato.
Tutti quelli che a New York avevano rifiutato il suo portfolio perché i
suoi scatti ricordavano i porno degli anni settanta ora se lo contendevano,
e ben presto divenne il fotografo più pagato al mondo, una cosa come
200.000 dollari a servizio.
Mentre le immagini di Bob erano cupe e cinematografiche, incentrate
sul catturare un’emozione, Terry vedeva la sua fotografia come una danza
con il soggetto.
“LE PERSONE MI CHIEDONO:
COSA VUOI FARE?
COSA STAI PROVANDO?
ENTRARE IN UN SERVIZIO
FOTOGRAFICO SENZA SAPERE
APPIENO COSA VOGLIO FARE,
QUELL’ECCITAZIONE,
QUELLA COSA CHE ACCADE, È
COSÌ POTENTE E CREA IMMAGINI
FANTASTICHE”.
Senza usare costose macchine fotografiche, ma solo una Pentax
Point & Shoot, Terry scoprì che poteva portare avanti una conversazione
mentre scattava.
Il semplice ritaglio, gli errori inaspettati trasformavano uno scatto,
aggiungevano vita ed energia, stile.
Terry iniziò a scattare regolarmente per riviste locali e straniere; lo
assunse Gucci.
Tom Ford, all’epoca capo designer del marchio, ricorda che Richardson,
ancora nuovo nel mondo della moda, era a disagio con il numero di
membri della troupe, al primo scatto a casa del produttore Bob Evans a
Los Angeles.
“Terry era abituato a mettere le ragazze contro un muro, e fotografarle
con un flash, quello era il suo stile. Onestamente, penso che sia ancora
la cosa che sa fare meglio”.
73/OMBRE
Finì per tornare nella stanza allo Chateau Marmont a scattare foto
alle modelle contro il muro bianco.
Le fotografie di Richardson evitavano trucco e fotoritocco, e presto
fu accomunato a un gruppo di fotografi il cui realismo grintoso e lo-fi fu
soprannominato “heroin chic”.
Terry dell’artificiosità degli anni ottanta non sapeva che farsene: il suo
look era preso in prestito dal porno a basso budget, ma era anche ironico
e giocoso. Una pubblicità scattata per una nota marca di abiti mostrava
una modella che stringeva la mammella di una mucca e si spruzzava il latte
in faccia.
Gli editori e i direttori artistici impazzivano per lui: con loro era educato,
umile, collaborativo, veloce, un professionista in tutti i modi in cui suo
padre non lo era stato.
Ma, cosa altrettanto fondamentale, condivideva l’acuto senso del
momento di suo padre e sapeva come catturare quell’elettricità nelle foto.
Divenne estremamente abile nel navigare tra il provocatorio e l’inaccettabile.
“Voglio fare cose che vengano viste”
Un sacco di gente famosa non voleva farsi fotografare da Terry nonostante
fosse ormai una celebrità; per contratto parecchie stelle di Hollywood
avevano il divieto di farsi ritrarre da lui, ma a lui non fregava poi molto,
gli interessava solo scattare e pubblicare. Non era interessato a scattare
foto che nessuno può vedere.
Nel 2001 venne ingaggiato addirittura per il noto “Swimsuit Issue”
di Sports Illustrated.
Helmut Newton, fotografo notoriamente provocatorio che inizialmente
aveva pensato che il lavoro di Richardson fosse “scioccante per il
gusto di essere scioccante”, divenne suo fan.
“ORA POSSO VEDERE CHE
HA UNA CERTA CALLIGRA-
FIA CHE VIENE FUORI”, raccontò di lui.
I suoi scatti potevano diventare selvaggi e lui non ne faceva mistero.
Nel 2002, in un’intervista a Vice, parlando dell’imminente calendario
per il marchio di street-style Supreme, dichiarò che l’obiettivo sarebbe
stato di “mettere insieme un calendario con cui masturbarsi”.
“Le riprese sono un po’ sfuggite di mano alla fine. La donna che produceva
le riprese è andata fuori di testa e ha dovuto andarsene. Penso che
ogni persona lì abbia scopato qualcuno. È stato intenso”.
Il ragazzino punk che fregava le pagine delle riviste porno e che aveva
paura del buio ne aveva fatta di strada, era diventato finalmente uno
pagato per fare quello che vuole.
Terry iniziò a spogliarsi con le sue modelle. “Perché non ti spogli?”
chiedeva alle ragazze. “Perché non ti spogli tu?”
E allora ecco che divenne oggetto e soggetto delle foto, ad invadere
l’inquadratura, girare la macchina fotografica verso di sé, fino al punto che
era difficile capire chi scattava veramente.
La fotografia di Terry divenne una performance, una provocazione
74/OMBRE
spinta talmente all’eccesso che alla fine il giocattolo si ruppe.
Una modella lo denunciò, dichiarando di essere stata obbligata a
succhiarglielo durante uno shooting, e il mondo della moda entrò in rivolta.
Un sacco di altre modelle dichiararono durante show televisivi e articoli
scandalistici di non essersi sentite a loro agio durante gli scatti con lui.
Il fotografo di moda più pagato divenne ben presto il più figlio di
puttana, misogino e pornografo.
Un coglione adolescente che con Terry non aveva mai avuto nulla a
che fare pubblicò su change.org una petizione intitolata “Grandi marchi:
smettetela di usare il presunto molestatore sessuale e pornografo Terry
Richardson come vostro fotografo”, raccolse 33.000 firme, e H&M, prima
gallina a cantare dopo aver fatto l’uovo, si affrettò a dichiarare la rottura
della collaborazione con Richardson.
Terry resistette, e quando non ne poté più rilasciò una dichiarazione
sull’Huffington post contro la caccia alle streghe che lo aveva travolto.
Tutti quelli che gli diedero sostegno, da Jared Leto a Lena Dunham,
vennero ricoperti di merda social.
Gran parte dell’establishment della moda lo adorava, ma chiunque
osasse mettere in dubbio le accuse che gli erano mosse venne minacciato.
Alla fine tutte le azioni legali contro Richardson crollarono come un
castello di carte, o si risolsero in banali cause civili.
Le ragazze avevano sempre firmato liberatorie e per loro stessa ammissione
Terry non le aveva mai forzate a fare nulla.
Richardson aveva perso la faccia e lo studio a New York venne rimpiazzato
da una palestra per gente ricca sovrappeso.
Fine di aprile, il più crudele dei mesi, fine dell’incubo.
“È pazzesco, internet” afferma Terry, dopo questa polemica che gli
è costata più di quanto voglia ammettere.
“TOTALMENTE FOLLE. COME
UN PICCOLO CANCRO. LE
PERSONE POSSONO FARE
QUELLO CHE VOGLIONO,
DIRE QUELLO CHE VOGLIO-
NO, ESSERE TOTALMENTE
ANONIME. È TOTALMENTE
FUORI CONTROLLO”.
Mi immagino Terry mentre dice queste parole. Con i suoi occhialoni
di plastica, le basettone e le Converse. Come appare nei suoi scatti, solo,
ma senza il solito sorriso a denti stretti e l’onnipresente gesto del pollice
all’insù.
75/OMBRE
IL METODO
DI TERRY
NICOLA GUIDA
Le sue fotografie ricordano
quelle dei giornaletti porno che
andavano alla grande negli anni
settanta, i fotoromanzi di
Supersex con un Gabriel Pontello
in forma smagliante che all’urlo
di “Ifix tcen tcen!!” scatenava
il suo fluido erotico e finiva
sempre come il bruco, dentro
al buco: puro erotismo leggero
e scanzonato.
Eppure a pensarci bene, con le
sue immagini, pubblicate nei
volumi Kibosh e Terryworld,
Richardson ha anticipato il modo
di pensare e l’estetica associata
all’uso dei social media da parte
del pubblico contemporaneo.
Che siano per cataloghi, riviste,
fotografie di studio o video
musicali, le immagini di Terry
sono rese omogenee dal
medesimo look: una luce diretta,
ruvida e violenta (solitamente
sparata da un flash integrato
nella macchina fotografica) che
appiattisce ed evidenzia ogni
difetto dei lineamenti dei suoi
soggetti. Queste caratteristiche
tecniche, insieme alla povertà dei
set, sono la chiave dell’estetica
del porno underground, lontana
anni luce da quella calda, ricca
e lussuriosa di Playboy.
Una fotografia talmente alla
portata di tutti che per un certo
periodo Richardson si mise a
vendere il kit per essere come lui:
macchina fotografica di plastica,
maglietta nera, i famosi occhiali
dalla montatura grossa, che non
fanno altro che aggiungere
un’ulteriore caratterizzazione alle
fotografie dove lui si infila spesso
e volentieri: quell’aspetto goffo,
geniale, da nerd anni seventy,
quell'aria da gonzo trasandato,
così underground, così tanto
“artista”.
Le immagini di Richardson
rifuggono compostezza
e ricercatezza: richiamano
piuttosto la volontà di congelare
l’immediatezza di un istante,
che sia una pisciata o una risata
liberatoria. La spontaneità
di un gesto, in cui composizione
e illuminazione sono secondarie,
e anche questa è una delle
caratteristiche dell’estetica
del porno underground:
un'attività frenetica, dove la
macchina fotografica non riesce
a controllare del tutto la realtà
ma si limita a catturare quello
che può.
Richardson esce poco dal suo
studio, che è considerato uno
spazio abitativo più che spazio
di lavoro: nei suoi scatti sono
sempre presenti amici di
passaggio, oggetti in disordine,
cibo, letti sfatti ed evocativi.
Questa ricercata povertà nella
cura dell’immagine, da
crackhouse di periferia - realtà
che lui conosce bene per via della
vita sballata che ha alle spalle -
rende le sue immagini
paragonabili agli autoscatti
in cui ci si imbatte scrollando
un social qualunque oggi: la
fotocamera usata come specchio,
come diario, sfruttata per
imbastire video amatoriali
da vendere a dieci euro al mese
in abbonamento su Onlyfans.
Richarson è arrivato a questa
estetica vent’anni prima
dell’avvento dei social,
utilizzando una Yashica T5 da
quattro soldi, con la quale ha
spinto il concetto di osceno
sempre un passo più in là, così
come recitava il suo biglietto
da visita: “Snap’in the best
and rape’in the rest”.
77/OMBRE/note
Immaginate il punk come un
urlo ribelle che squarcia il silenzio
della normalità, un’esplosione
di colori sgargianti e suoni
distorti che rompono le catene
dell’omologazione.
I punk sono come guerrieri della
libertà, con i loro abiti strappati
e i capelli colorati che sventolano
al vento della disobbedienza.
Dall’altra parte, i paninari sono
come eleganti pavoni che si pavoneggiano
nei loro abiti firmati
e nelle scarpe lucidate. Sono i
signori della moda, con le loro
giacche di pelle e i jeans stretti
che sfoggiano con fierezza,
camminando sicuri di sé lungo le
strade della città.
Il punk canta l’inno della ribellione,
i paninari danzano al ritmo
del consumismo sfrenato.
Sono due mondi opposti, due
stili di vita che si scontrano e si
intrecciano come le note discordanti
di una canzone punk
suonata però in un locale alla
moda.
Era necessario condividere con
voi la mia visione dei punk e dei
paninari prima di raccontarvi
questa storia.
A 13 anni avrei voluto essere un
paninaro: amavo vestirmi bene,
avere un certo stile, fare il figo
insomma. Al tempo stesso, il
mondo della musica e il conservatorio
mi portavano ad una
visione della vita fuori dagli
schemi, libera. Volevo essere
paninaro solo per l'estetica ma
omologarmi alla massa non mi
piaceva, oltre al fatto che mi è
sempre stato insegnato che per
essere “alla moda”, la moda non
dovevo seguirla, piuttosto crearla.
Sono figlio del '78, stato
adolescente negli anni ’90 e sia
il movimento punk che quello
dei paninari hanno subito delle
trasformazioni e delle evoluzioni
significative in poco più di un
decennio. Negli anni novanta il
punk continuava a gridare la
sua ribellione con note graffianti
e messaggi di protesta, ma ha
visto una certa diversificazione
musicalmente ed espressivamente:
sono nati sottogeneri
come il pop punk, l'emo punk e
il punk hardcore, ciascuno con
le proprie caratteristiche sonore
e visive. Inoltre, il punk ha
continuato a essere una voce
critica contro l’establishment e
le ingiustizie sociali e politiche,
anche se in alcuni casi ha perso
parte della sua forza originaria.
Del resto i paninari, un tempo
iconici, iniziavano a sbiadire
nell'ombra del cambiamento,
lasciando spazio a nuove tendenze
e movimenti giovanili.
Sono cresciuto in un piccolo paese
di seimila abitanti, figlio di
genitori operai e nipote di contadini.
I punk li vedevo solo in tv
quando qualche telegiornale ne
parlava, quasi sempre in malomodo,
di conseguenza, io e i
miei familiari davamo giudizi
negativi, una delle poche volte
in cui giudicai delle persone per
il loro aspetto: crescendo capii
che ognuno ha il diritto di esprimersi
a proprio modo, rispettando
naturalmente gli altri esseri
umani, e ammetto che il
movimento punk cominciava
ideologicamente a piacermi.
Ricapitolando: come i paninari
amavo vestirmi bene ed apparire,
ma al tempo stesso non mi
importava di indossare vestiti
firmati, essere realmente alla
moda. Dei punk apprezzavo
come con la musica esplorassero
temi di disillusione politica,
manipolazione dei media e sensazioni
d'impotenza di fronte al
sistema. D'altro canto non mi
piaceva il modo, in gesti e vestiario,
in cui manifestavano il
loro disagio.
Adesso, dopo anni vissuti alla
ricerca di una forte identità e
personalità artistica e stilistica,
mi viene da pensare a quanto
questi due movimenti abbiano
invece influenzato la mia vita,
soprattutto quella musicale. Ho
chiuso gli occhi per un attimo e
ho immaginato di vedere punk
e paninari insieme, oggi, migliorare
il nostro mondo. Nell’alchimia
del destino, l’unione di un
punk e un paninaro scolpisce un
racconto avvincente di contrasti,
dove le due correnti, apparentemente
divergenti, si annodano
come fili d’oro in un
tessuto di esperienze uniche. In
questo connubio, ribellione e
consumismo danzano liberamente
mentre stile e identità si
fondono in un ritmo frenetico di
nuove espressioni. È un palcoscenico
dove il dialogo interculturale
si fa poesia, e la sfida delle
convenzioni diventa un inno
alla diversità, tessuto da idee e
sogni intrecciati su un tappeto
di vissuti differenti. A dirvi la
verità mi sono sempre sentito
un “punk di classe”, ahahah.
Punk o paninaro?
Massimo Valentini
PunkMARTA SILENZI
-zine
“The music papers at the time were
pretty good, NME, Melody Maker
and Sounds, they were good
magazines but because the
journalists were older they weren’t
really talking about new music,
you know? So with Sniffin’ Glue
we felt like the voice of the street
because we were nearer the age
of the people in the groups,
so our point of view was that we
were more authentic.”Mark Perry
Non che a fine anni settanta non
esista già il giornalismo musicale,
figuriamoci, ma il fenomeno punk
ha i suoi non luoghi, le sue regole
da infrangere, il suo modo di fare
ed è tutto talmente nuovo da non
vederne i confini.
Chi sono le band? Dove e quando
suonano? Chi va a vederle?
È tutto da costruire, tutto
da documentare e risponde ad
un’urgenza immediata. È tutto
mescolato, la musica, l’aspetto,
l’atteggiamento sopra e sotto
il palco, i musicisti e i fan, i
produttori e i gestori dei locali, e
naturalmente le riviste che di tutto
questo parlano e lasciano traccia.
Specie a Londra è un po’ come darsi
un appuntamento:”Stasera, al Roxy,
Heartbreakers, Generation X e
Damned.” Magari scritto a macchina
e commentato a pennarello,
fotocopiato e pinzato da un lato,
distribuito in strada, nei posti giusti,
tra le gente giusta.
Tra le prime a circolare c’è Sniffin’
Glue, di Mark Perry, che nasce da
un verso dei Ramones e mostra la
fiorente scena punk londinese; dura
poco più di un anno tra 1976 e ‘77
ed è talmente impulsiva da essere
persino sgrammaticata: come tutto il
punk non conta la precisione, conta il
messaggio, conta che sei un pioniere,
che lo stai facendo e lo stai facendo
a modo tuo, con le tue risorse (DIY).
Le 50 copie appena del primo
numero diventano presto 15.000 e
poi basta, una fiammata, così come
succede sulla scena musicale per
diverse band. È una fanzine seminale,
che dirama in mille altri progetti:
“Man mano che diventavamo più
famosi (...), molte persone ci
chiedevano se potevano scrivere per
la rivista, ma quello che dicevo loro
era: “No, andate e avviate la vostra
fanzine”. Che è quello che è
successo. Dopo Sniffin’ Glue – in
circa sei mesi – sono nate centinaia
di zine diverse.” (MP). Jamming! è
una di queste. In circa un decennio
(1977-86) sforna 36 numeri
carichissimi ad opera del
preadolescente Tony Fletcher che
diventerà in seguito giornalista
e autore di importanti biografie
musicali (non senza riportare alla
mente il precoce William Miller
di Almost Famous).
La rivista DIY per eccellenza di fine
anni settanta in Texas è Sluggo!,
formato tabloid, fotocopiata e poi in
seguito stampata in offset a colori,
con alcune copertine realizzate a
mano e serigrafate su velluto.
La cosa interessante è che è
pionieristica nella “instant review”,
cioè nel realizzare critiche di
spettacoli locali in tempo reale
durante la notte da distribuire per
strada la mattina dopo.
Oltre all’etica fai-da-te, quello che
accomuna questi giornaletti è che gli
editori sono quasi sempre loro stessi
dei musicisti: tutti vogliono essere in
un gruppo e i gruppi sono promotori
della loro musica, dei loro ritrovi,
delle loro serate, perciò – altamente
motivati – producono anche le loro
zine con le notizie e un art direction
conforme al periodo. Quasi tutte,
ad esempio, pubblicano fumetti
e annoverano nella redazione
fumettisti, gli scrittori sono anche
illustratori e tra le firme si trovano gli
artisti più in vista della scena punk,
dove afferrare la via per esprime se
81/PAGINE/note
stessi è l’imperativo fondamentale.
Molto spesso le zine sono associate
a etichette discografiche DIY:
nell’ottica di farsi le cose da soli,
la musica si scrive, si suona, si
documenta e si produce. È questo
il caso di Flip Side, di Los Angeles,
nata nel 1977 ad opera di un
gruppetto di amici della Whittier
High School e arrivata agli anni
duemila, partita in fotocopia poi
stampata in roto-offset con copertine
patinate, associata alla Flip Side
Records e ad un piccolo festival nel
deserto del Mojave con le band
pubblicate dall’etichetta. Lo stesso
vale per Touch & Go, una rivista del
1979, nata in Michigan come fanzine
autostampata e legata dal 1981
all’etichetta omonima che diventa tra
le più importanti dell’underground
americano, con un approccio di
contratti discografici rilassato,
gestito spesso con una stretta di
mano e suddivisione dei profitti 50 e
50 tra artisti ed etichetta al netto dei
costi di produzione e promozione.
O anche per Slash, sulla scena punk
di L.A. di fine anni settanta primi
ottanta con la sua etichetta Slash
Records.
Diverse iniziative si legano di
frequente a queste fanzine, specie
quando l’impostazione è letteraria
come per Search & Destroy (dalla
cazone degli Stooges), avviata nel
1977 da V. Vale (proveniente dal City
Lights Book Store di San Francisco)
con piccole donazioni iniziali da
parte di personaggi come
Ferlinghetti e Ginsberg e diventata,
dopo 11 numeri, la casa editrice
RE/search Pubblication, con un
approccio letterario-antropologico a
tematiche borderline, sia di stampo
musicale che, ad esempio, sulla
mortificazione corporea (Modern
Primitivism), la cultura freak del circo
(Freaks) o le performance
masochiste (Bob Flanagan:
Supermasochista). Gli si affianca
per un po’ anche l’attività
RE/search Typography.
Alcune fanzine, conformemente
all’etica punk, mentre documentano
la scena musicale, trattano temi
politici, morali, si leggono articoli sul
vegetarianesimo, sul femminismo,
sulle minoranze di razza e di genere.
Punk, una delle più famose, nei
15 numeri usciti dalla seconda metà
degli anni settanta, mentre mostra
la scena del CBGB, del Max’s Kansas
City e di Zeppz, i principali locali
newyorkesi di pertinenza punk,
accoglie il lavoro di scrittrici,
fotografe e artiste che generalmente
sono escluse da un panorama
selettivo di appannaggio maschile.
Tra anni ‘80 e ‘90 escono Girl Germs
(Riot Grrrl zine diretta da
studentesse dell’università
dell’Oregon e membri del gruppo
82/PAGINE/note
83/PAGINE/note
Bratmobile), Homocore (fra le prime
zine-queer anarco-punk americane,
diretta da giovani dell’underground
gay in cerca di una comunità
identitaria), J.D.’s (JUVENILE
DELINQUENTES, rivista queer punk
canadese dai contenuti provocatori,
costruita assemblando immagini ,
testi e media qeer punk spesso di
contenuto erotico, violando
copyright e procedure di
riproduzione, ristampa, riciclaggio e
riscrittura. Fotocopiata e distruibuita
per posta o come dispensa a mano a
fiere, feste, convention, mostre, tutto
quanto possa compattare la
comunità gay), Out Punk (fanzine
di San Francisco, 7 numeri tra ‘92
e ‘97, dà origine alla prima etichetta
discografica esclusivamente di
gruppi queer).
Altro tratto distintivo di questo tipo
di pubblicazioni – generalmente
prodotte da un gruppo ristretto di
persone o, addirittura, da un solo
individuo che si occupa di scrivere
gli articoli, realizzare e trascrivere
le interviste, fare le fotografie e i
disegni, stampare e fotocopiare la
rivista, assemblare le copie,
distribuirle e venderle – è che a volte
sono invece opera di un collettivo,
letterario o artistico, per lo più di
stampo anarco-situazionista. È il
caso di KYPP (Kill Your Pet Puppy)
scritta e progettata dai 12 membri
inglesi del Puppy Collective; o di
Profane Existence, a cura
dell’omonimo collettivo del Nord
America (anche loro con una
personale etichetta discografica);
o della più recente Rancid News
(poi chiamata Last Hour perché
troppo spesso confusa con il gruppo
dei Rancid), che documenta la scena
britannica del primo decennio
duemila ad opera del collettivo
editoriale antiautoritario collegato
all’etichetta House Hold Records.
Tra le più longeve ci sono Slug
and Lettuce (‘87-’07), trimestrale
cartaceo gratuito fondato allo State
College in Pennsylvania poi
trasferitosi a New York con un
notevole aumento della tiratura.
90 numeri in un ventennio con temi
anarco-punk, politica antiautoritaria,
azione vegana, genitorialità radicale,
attivismo e le consuete interviste e
recensioni di libri, dischi, gruppi,
concerti; Pork, di Sean e Katie
Aaberg, artisti concettuali (Weirdo
Art) americani con una grande
capacità di utilizzare stili e linguaggi
diversi, fumettisti, illustratori e
autori. La rivista (2010-2018) calca la
mano sulla cultura di strada: denim,
borchie, pizza, hamburger, coltelli a
serramanico e comportamenti
antisociali, se pensiamo un momento
alle immagini di Andy Warhol
vediamo come i contenuti del punk
trascolorano nel pop. Razorcake
vede la luce nel 2001 ed è tuttora
attiva. È un bimestrale fai-da-te di
Los Angeles, unica fanzine ad
ottenere la certificazione ufficiale
di no-profit: nessuno può trarre
individualmente guadagno dalla
rivista che semplicemente si
autosostiene. Razorcake ha una
politica di partecipazione aperta e
attualmente conta oltre 180 scrittori,
fotografi, illustratori e musicisti
volontari indipendenti a lungo
termine provenienti da tutto il
mondo. Nata in formato cartaceo
è oggi una rivista web che produce
libri, dischi, live, letture, podcast ,
webcomics e video.
Molto importante è il mensile
Maximum RocknRoll (MRR) che, nato
da un programma radiofonico a
Barkeley, si occupa della scena punk
84/PAGINE/note
mondiale. Negli anni novanta è già la
bibbia del punk, di ampia copertura
e durata costante. Oggi conta oltre
400 numeri di contenuto
internazionale e inclinazione politica,
ma è anche molto criticata per una
certa rigidità di giudizio e una sorta
di contraddizione in termini: è una
rivista che è diventata un’istituzione
e per definizione il punk è contro le
istituzioni.
Ma generalmente le punk-zine hanno
vita più breve, sono editoria
artigianale transitoria e oggi è
difficile tracciarne i numeri perché
non sono state create nell’ottica di
essere conservate.
Ecco perché sono preziose le copie
ancora in circolazione nel circuito di
collezionisti di magazine come
White Stuff, dello scozzese Sandy
Robertson: una decina di pagine di
testo, grafica e fotografie
fotocopiate, dattiloscritte o scritte a
mano, stampate su un solo lato,
pinzate in alto a sinistra e quasi del
tutto monotematiche, incentrate
sulla figura – del resto unica e
fondamentale – di Patti Smith,
autrice di Ain’t it strage, da un cui
verso viene il nome della zine:
“Down in vineland there’s a
clubhouse. Girl white dress, boy
shoot white stuff.”
Chiaramente questi sono i mega
panorami inglese e americano, che
esportano più musica e tutto quello
che le gira intorno, ma ogni area ha
il suo punk e le sue fanzine.
In Italia il punk non è tanto una
questione di classe sociale, come
quello inglese, bensì di condizione
esistenziale dovuta al contesto socio
politico. Bologna è il terreno più
fertile, con il DAMS, i centri sociali, le
radio libere e lo spirito movimentista.
La Traumfabrik di Filippo Scozzari e
Giampiero Huber fanno da cerniera
fra Bologna e le riviste romane di
fumetto Cannibale ed Il Male, che
assieme alla Red Ronnie’s Bazaar
recensiscono spesso le band
bolognesi, contesto da cui nasce la
Harpo’s Bazaar, etichetta che
pubblica il punk italiano su cassetta.
Quindi anche qui musica, fumetto
ed etichetta discografica vanno a
braccetto. Tra gli altri, nel 1979
nascono i R.A.F. Punk, collettivo
anarco punk con sede al centro
sociale Cassero, autori della Attack
punkzine, embrione della futura
Attack Punk Records di Jumpy
Velena che pubblica i primi
CCCP – fedeli alla linea.
Altri titoli sono Punxerox (che
prende il nome dalla tecnica
fotocopiativa, nata nel 1979 e
recentemente riscoperta e
trasformata in un libro che raccoglie
il più completo archivio di flyer e
grafiche realizzate con tecnica xerox
degli artisti della scena punk
internazionale, contributi testuali e
saggi critici), Plexiglas, dello stesso
anno. Porrozine, Ascension e
Sottoterra, poi diventate vere e
proprie riviste. T.V.O.R. (teste vuote
ossa rotte, sull’hardcore anni ‘80),
AbBestia e così via, a testimoniare
che qui come altrove l’istinto
creativo e il bisogno espressivo
danno origine ad un sottobosco e
una sottocultura che è sempre di
estremo fascino anche se ormai,
la difficoltà di reperire le copie
trasforma l’originaria editoria
punk in materia storica e forma
di collezionismo.
85/PAGINE/note
SESSO, DROGA
E PUNK:
" UNA SIGARETTA
ACCESA
AL CONTRARIO"
CHIARA RIVA
Una sigaretta accesa al contrario, di Tea Hacic-Vlahovic è un romanzo pubblicato
nel 2023 per Fandango Libri con la traduzione di Francesco
Graziosi. Definirlo un “romanzo punk” è assolutamente appropriato.
Siamo all’inizio degli anni 2000, in una città di provincia degli Stati
Uniti, più precisamente della Carolina del Nord. È l’ultimo semestre prima
della fine della scuola e una giovane sedicenne di nome Kat sogna di perdere
la verginità e di essere inclusa nel suo gruppo di amici punk senza l’etichetta
di sfigata che sembra volerle restare appiccicata come un marchio di
fabbrica in ogni cosa che fa, in ogni suo atteggiamento. Il suo momento di
gloria arriva inaspettatamente quando, complice una foto scattata per una
rivista online assieme al suo idolo musicale, viene scambiata per una groupie
e il suo abbraccio con la rockstar interpretato come segno di un rapporto
molto intimo. E da quel momento tutti la vedono con occhi diversi.
La protagonista ha molto in comune con Tea Hacic-Vlahovic: la sua
natura naïve, le origini europee, oltre che naturalmente la passione per la
musica punk: insieme all’ambientazione del romanzo, sono tutti elementi
autobiografici. L’autrice è infatti di origini croate, nata vicino a Zagabria
ma trasferitasi proprio in Carolina del Nord allo scoppio della guerra in
Jugoslavia. Il suo percorso è proseguito in Italia, dove ha studiato moda a
Milano, alla Naba, un periodo che ha riversato nel suo primo libro pubblicato
sempre con Fandango, L’anima della festa (2021). Blogger, scrittrice,
editorialista per magazine come Vice e Wired, autrice di un podcast di
successo che si intitola Troie radicali e, per non farsi mancare proprio nulla,
anche produttrice della serie che sarà ispirata proprio al suo primo romanzo.
Irriverente, ironica, politicamente scorretta, punto di riferimento per la
comunità queer sono le espressioni che più spesso la definiscono.
Una sigaretta accesa al contrario si fa notare all’interno di quella che,
non senza difficoltà, possiamo definire come letteratura, o comunque, produzione
narrativa punk. Se il punk nasce infatti come genere musicale alla
metà degli anni Settanta, la sua ideologia nichilista e ribelle finisce per
contagiare la letteratura, e qualcuno gli ha voluto trovare anche un precursore
in quella che in inglese viene definita come transgressive fiction; la
definizione parla da sé e ci si chiarisce ancora di più se scorriamo i nomi di
alcuni tra i suoi principali esponenti: Henry Miller, William Burroughs,
Georges Bataille, Vladimir Nabokov, ovvero la sessualità e l’erotismo come
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ossessione, il proibito, la dipendenza dalle droghe e più in generale, qualifica
che li riassume tutti, l’essere controcorrente e antisistema.
In realtà, se non possiamo definire punk questi autori perché tutti
anteriori alla data di nascita di questo movimento culturale, sappiamo che
esso in letteratura ha trovato nel cyberpunk la sua più fortunata filiazione
con autori come William Gibson (Neuromante, 1984) e James G. Ballard
(Crash, 1973). Le loro opere hanno preconizzato il mondo interconnesso di
oggi, le distopie tecnologiche delle intelligenze artificiali e delle macchine,
la responsabilità umana di fronte alla gestione e alle conseguenze delle
proprie invenzioni; hanno coniato neologismi come cyberspazio e più in
generale una lingua adatta a una realtà che si sarebbe materializzata di lì
a poco. Crudi, grotteschi, noir. Pura avanguardia. Una sigaretta al contrario
è un romanzo punk, ma allo stesso tempo non è niente di tutto questo.
Intanto, è una voce femminile – anzi femminista –, in un coro di voci maschili.
La sua antieroina Kat è più accostabile alla Janey di Sangue e viscere
al liceo di Kathy Acker, scrittrice, poetessa, sceneggiatrice statunitense
punk morta prematuramente a 57 anni nel 1997. Quest'opera, pubblicata
in lingua originale nel 1984 e edita in Italia nel 2023 per LiberAria, racconta
la storia con risvolti surreali di una ragazzina che ha una relazione incestuosa
con il padre e lo lascia nel momento in cui questo si trova una donna,
proseguendo da sola la sua strada in una serie di avventure
inclassificabili tra personaggi picareschi, tossici, delinquenti; mescola violenza
e sofferenza a inserti di sogni e disegni e si ispira nello stile al suo
mentore William S. Burroughs che la definì una “Colette postmoderna”. Un
piccolo capolavoro metaletterario e, questo sì, punk al cento per cento.
Punk per questi personaggi da “due soldi”, punk perché urla il proprio disagio
di avere sedici anni nel mondo di oggi, punk perché ha abbastanza
immaginazione per rompere gli schemi e inventare un linguaggio nuovo
per comunicarlo. A suo modo è un romanzo di formazione, esattamente
come Una sigaretta accesa al contrario: entrambi punti di arrivo in un ideale
percorso di continuità che ha come ulteriori tappe opere culto come Il
giovane Holden di Salinger (1951) e Meno di zero Bret Easton Ellis (1985)
– tra l’altro tutti e due citati nel romanzo di Tea. Ma rispetto a questi modelli,
anche espressioni di un cambio di passo per la loro ottica femminile.
Per il resto, tra queste ultime tre opere fioccano le affinità e i punti in comune.
A partire dai riferimenti a musiche e canzoni; indipendentemente
dal fatto che siano ascoltate nei locali jazz di New York o nei club di Los
Angeles o della Carolina del Nord, o in sottofondo dallo stereo o su MTV,
o siano soltanto titoli citati su poster appesi nelle camere di giovani e adolescenti,
i romanzi compongono al loro interno delle tracklist che rispecchiano
il mondo dei protagonisti e la loro subcultura di appartenenza,
perché rappresentano il cuore e la tipologia preponderante dei loro consumi
culturali. Si fa sentire con prepotenza la presenza della musica come
nutrimento generazionale, che ha unito i ragazzi degli anni cinquanta,
come degli anni ottanta e duemila, attraverso generi specifici di tendenza,
jazz, rock, punk californiano o punk britannico, i gruppi e le loro icone.
Quella musica che, con i suoi ritmi, i suoi titoli e le sue parole, veicola contenuti,
crea estetiche, genera ideologie: nelle quali i più giovani, più recettivi
e sensibili ai sismi dei cambiamenti epocali, si sono riconosciuti.
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In Una sigaretta accesa al contrario Kat lo dice a chiare lettere: in
quella piccola città di provincia, era stato l’ascolto di
una canzone a cambiarla e a farle sposare il punk come
stile di vita. Tradotto per i non adepti, il punk come stile
di vita significava “bazzicare” coi punk, vestirsi più
punk che si poteva, andare ai concerti, bere birra e disobbedire
alle autorità…
Il punk per Kat è una passione che stringe lo stomaco e un’esigenza
per tamponare le sue fragilità. È in attesa che il suo corpo sbocci, allo specchio
si vede ancora sulle guance la ciccetta da bambina, porta lo stesso
caschetto fatto in casa da quando era piccola e il suo colore di capelli non
ha “le palle per produrre una saturazione forte”; è benestante e figlia di
immigrati giudicati troppo “strambi” per la società americana, che le impongono
qualche coprifuoco ma poi la lasciano sempre a casa da sola e
con i quali si è andata acuendo una progressiva distanza; frequenta la nuova
high school di una cittadina della provincia della Carolina del Nord e
prende apaticamente lezioni di pianoforte. Un personaggio naïve, che non
può prendersi sul serio, con una sua ingenuità di fondo e una spontaneità
che si riflette nel linguaggio disincantato e nelle sue frequenti battute autoironiche.
Kat aspira, senza grande successo
per la verità, a scrollarsi di dosso l’aura di
sfigata che la porta ad autoclassificarsi
come una cosa a metà “che non è né un’amica
né una fidanzata, una cosa sgradevole”.
Per questo frequenta il gruppo di punk
di Dexter che ha come punto di ritrovo la
“Stanza delle Feste”, un laboratorio lurido e
maleodorante a brutta imitazione della Fun
House degli Stooges, la fattoria affittata negli
anni settanta dalla storica band in cui i
componenti erano andati per un periodo a
vivere tutti insieme. Brama con tutte le sue
forze di perdere la verginità con Bob, commesso
in una libreria dove si rifornisce di
riviste e fanzine, e si adopera a seguire puntigliosamente
i dettami della moda punk,
“alla Vivienne Westwood”, quella fai da te
con strappi, fori e sforbiciate. Una sera la
giornalista Sabrina, che sta seguendo la
tourné del cantante Trippy Dope (ispirato alla figura di Iggy Pop), le chiede
di scattare una foto in braccio a lui per il suo articolo. Quell’immagine che
all’origine aveva tutta un’altra storia, ripresa nel backstage del locale Cat’s
Cradle, inizia a circolare sul web e Kat viene scambiata per una groupie: il
suo sogno si avvera, ha incontrato il suo mito, viene scambiata per una vera
ragazzaccia, trasformandosi nella “protagonista del suo film”. Nel cammino
alla ricerca di sé e della propria identità, Kat passa dal sentirsi kafkianamente
meno di uno scarafaggio attraverso le varie fasi delle sbronze, del taccheggio
nei centri commerciali con l’amica “figa” Ashley, fidanzata di Dexter,
poi del sesso con vari ragazzi, per culminare l’escalation provando la “roba”,
l’eroina. Nell’illusione di lasciare un’impronta che si noti. Di essere al centro
Solo il sesso e la droga
possono fare la
differenza. E la musica.
Le uniche cose in grado
di suscitare una
reazione, un brivido,
o al contrario di inibire
qualsiasi desiderio
perché dispensatrici
di un artificioso senso
di totale appagamento.
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dell’attenzione. Perché nel suo mondo “essere troia era la cosa più punk che
potesse fare una ragazza punk”. E farlo in quel buco che è un’anonima cittadina
dell’America di provincia, è l’unica cosa che conta.
Ciascun capitolo del libro è dedicato a un luogo dove si trascina
quotidianamente la vita della provinciale Kat: la tavola calda, il negozio di
dischi, la biblioteca, la scuola, i centri commerciali tutti con lo stesso odore
sterile, la pizzeria e avanti così. Posti senza identità, dove non ci sono
speranze, non c’è futuro per una giovane adolescente; nell’era di Internet
questa topografia è la riproduzione in scala ridotta di un intero pianeta per
il quale Kat prova una tale rabbia, un tale senso di repulsione da volerlo
distruggere, proprio come sembra suggerirle la Guida galattica per gli autostoppisti,
un’altra pertinente citazione letteral-televisiva.
Solo il sesso e la droga possono fare la differenza. E la musica. Le
uniche cose in grado di suscitare una reazione, un brivido, o al contrario di
inibire qualsiasi desiderio perché dispensatrici di un artificioso senso di
totale appagamento.
Il primo personaggio che prende per mano Kat in questo “viaggio
iniziatico” alla rovescia è Ashley, che la istruisce subito, grazie al suo unanimemente
riconosciuto “Potere della Strafiga”, sul tema del femminismo
che caratterizza tutto il romanzo. Potere incarnato da Ashley, da poche
altre figure femminili della storia, e da qualche icona televisiva, come il
personaggio della moglie del boss mafioso, Carmela, nella serie I Soprano.
Potere invidiato da Kat, che sa di non possederlo. Potere messo costantemente
in pericolo dall’atteggiamento prevaricante dei Maschi. Nello spazio
di poco tempo Kat fa i conti con questa prepotenza: la pillola del giorno
dopo, che il fidanzato Jake le impone dopo un rapporto, diventa, come la
mela di Eva nel giardino dell’Eden, la sua “pillola della conoscenza”. Dopo
averla assunta si sentirà annichilita e triste, come “una donna sessualmente
attiva che sapeva più cose di quanto avrebbe dovuto. Che capiva il
mondo”. Tutti i ragazzi che conosce si riveleranno, per un verso o per l’altro,
deludenti: il già citato Jake, spacciatore che Kat scoprirà essere un poser
(ovvero una persona che si atteggia solamente ad appartenere a una sottocultura,
per moda, per desiderio di inclusione), si attribuisce il merito di
averle tolto la verginità. Un altro ragazzo, Josh, le propone di andarsene
con lui e condurre la “quintessenza” della vita alternativa, fuori dalla società
e dall’odiato sistema, la vita “vera” fatta di strada e musica in mezzo a una
“comunità pazzesca”. Salvo non presentarsi all’appuntamento dato. E lasciare
Kat con la sensazione di avere in bocca una “una
sigaretta accesa al contrario”, parafrasando la cinica poesia
sull’amore di Charles Bukowski che dà il titolo al
romanzo.
Per amore di Jake e autoconvincendosi con una serie di ingenui
ragionamenti di non far nulla di male, Kat proverà anche l’eroina, senza
cadere però nella dipendenza. Il tema della droga si lega a doppio filo con
la subcultura punk (anche se c’è chi si è distinto per il suo rifiuto), e con le
sottoculture musicali in genere. Nel citato film-manifesto Trainspotting di
Danny Boyle del 1996, a sua volta tratto dall’omonimo romanzo di Irvin
Welsh, una frase pronunciata da uno dei protagonisti esprime tutto il
nichilismo sotteso alla condizione della tossicodipendenza: Io ho scelto di
non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni.
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Chi ha bisogno di ragioni quando hai l’eroina? La droga nell’ambiente di
Kat è una presenza di sottofondo, si sa che molti del gruppo sono “fatti”,
ma è quando scopre che il suo ragazzo è il loro pusher e ne offre anche a
lei che il tema sale alla ribalta nel romanzo: con la descrizione della prima
sensazione provata dalla protagonista, un’“invasione di sentimenti puri, di
tenerezza e intimità”, l’indicibile sballo a posteriori, le crisi di overdose di
Dexter e quelle di astinenza di Jake.
Da questa spirale di esperienze, di incontri con tossici e spostati, di
illusioni spurie e disincanto Kat sembra riemergere quando scappa a New
York per raggiungere la giornalista che le aveva scattato la foto con Trippy
Dope. Fuori dall’inferno della provincia non esce a riveder le stelle, ma
trova un cielo “fosco e opprimente”. La dimensione e il caos della città la
schiacciano e si sente una nullità. Come Holden Caufield nella sua New York
davanti alla fine del marciapiede, in preda al panico irrazionale di sprofondare.
Come Clay nella sua Los Angeles, davanti al cartellone con la scritta
che sembra un ipnotico monito: Sparire qui. Una sensazione molto
simile di smarrimento, iperrealistica nella sua intensità, di essere “inghiottita
e avvolta dal mondo circostante” la colpisce proprio nel separé di un
locale dove ha appena ordinato il suo piatto preferito, toast al formaggio.
Nessuno sa che è lì, potrebbe scomparire per sempre.
Eppure a New York è appena approdata al “centro della scena”. Della
scena punk degli esordi, quella dei locali storici come il CBGB, dove si è
fatta la storia del punk, dove sono stati scoperti e sono passati tutti i suoi
idoli, i Ramones, i New York Dolls, i Velvet Undergound, Patti Smith e Iggy
Pop. Ma in quel momento, come in una rivelazione, Kat sente che quell’energia
è ormai tutta finita, appartiene al passato. “Dovevi esserci”, si dice.
Se il punk non è morto, quello che Kat vive è ciò che rimane dopo. Qualcosa
di diverso. Punk degli anni Duemila: un revival.
Meglio voltare pagina, meglio forse pensare ai buoni propositi, perché
una parte di lei, “per quanto potesse sembrare cattiva, ci teneva eccome”.
Ripensamenti per rimettere in riga la propria identità senza doverla
perdere: ricucire il rapporto con la madre, riprendere a suonare, basta droga,
basta bugie, basta Jake. E lasciare nel piatto il solito, nauseante toast
al formaggio.
93/PAGINE
L'ombelico del mondo
©Livia Ranzini Pallavicini
L’ASTRAGALO DI ALBERTINE SARRAZINE
Libretto francese che non sarebbe
arrivato a noi se Patti Smith
non ci si fosse riconosciuta e non
se ne fosse innamorata scegliendo
di comprarlo al posto del pranzo,
rispondendo ad un’altra fame.
L’evasione di una detenuta, la
rottura della caviglia, il soccorso
da parte di uno sconosciuto
nel quale rispecchiarsi.
La convalescenza, le case che
accolgono e nascondono.
Il mondo sotterraneo
dei fuggiaschi, dei corrotti,
delle prostitute, l’amore
e l’autodeterminazione.
La scrittura potente e bellissima,
il genere fuori dagli schemi.
“(...) perché bisogna
assolutamente arrivare da
qualche parte o assolutamente
allontanarsene”. MS
95/PAGINE/ripostigli
COLLAGE#1
1. S. Chick, Black Flag. I pionieri dell’hardcore punk, Odoya, Bologna
2012 2. S. Blush, American punk hardcore. Una storia tribale, ShaKe,
Milano 2007 3. American hardcore. La storia del punk americano 1980-
1986, DVD e libro, ShaKe, Milano 2007 4. J. Temple, The Filth and the
Fury, libro e DVD, Isbn, Milano 2009 5. L. McNeil, G. McCain, Please Kill
Me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai,
Milano 2006 6. G. Kuhn, Straight Edge. Storie, filosofia e racconti
dalla scena hardcore punk, ShaKe, Milano 2011 7. 100 dischi ideali
per capire il punk, a cura di S. Gilardino, Editori Riuniti, Roma 2005
8. S. Reynolds, Post-punk 1978-1984, Isbn, Milano 2010 9. S. Reynolds,
Post punk 1978-1984, minimum fax, Roma 2018 10. G. Marcus, Tracce
di rossetto. Percorsi segreti nella cultura del Novecento dal dada ai Sex
Pistols, Odoya, Bologna 2010 11. D. Laing, Il punk. Storia di una sottocultura
rock, EDT, Torino 1991 12. M. Torcinovich, Punkouture. Cucire
una rivolta 1976-1986, Nomos, Busto Arsizio 2019 13. M. Torcinovich,
in collaborazione con S. Girardi, L’estetica della nuova onda punk. Fotografie
e dischi 1976-1982, Nomos, Busto Arsizio 2016
© Alessandro Prandoni
COLLAGE#2
1. Power of the Pistols (Sex Pistols), 1985 2. Never Mind the Bollocks. Here’s the Sex Pistols
(Sex Pistols), 1977 3. Everything Sucks (Descendent), 1996 4. Wig Out At Denkos (Dag Nasty),
1987 5. Leather, Bristles, No Survivors And Sick Boys… (Charged G.B.H.), 1982 6. Album (Public
Image Ltd.), 1986 7. Out of Step (Minor Threat), 1983 8. Suicidal Tendencies (Suicidal
Tendencies), 1983 9. City Baby Attacked By Rats (G.B.H.), 1982 10. Midnight Madness And
Beyond… (G.B.H.), 1986 11. No Need To Panic (G.B.H.), 1987 12. Bloodied But Unbowed. The
Damage To Date 1978-1984 (D.O.A.), 1983
© Alessandro Prandoni
100/PAGINE
1. Jonathan Coe, La banda dei brocchi 2. Viv
Albertine, Vestiti Musica Ragazzi 3. J.D.Salinger, Il
COLLAGE#3
© Marta Silenzi
giovane Holden 4. Paul Marko, The Roxy London
WC2 5. The Clash, London Calling 6. Thomas
Clément, Musica Unica 7. Nick Cave, Stranger Than
Kindness 8. Patti Smith, Presagi d'innocenza - poesie
101/PAGINE
1. Tea Hacic-Vlahovic, Una sigaretta accesa al
contrario 2. David Bowie, Heroes 3. J.D.
Salinger, Il giovane Holden 4. Bret Easton Ellis,
Meno di zero 5. Irvine Welsh, Trainspotting
6. David Bowie, Absolute Beginners
© Chiara Riva
COLLAGE#4
1. Alan Warner, Rave Girl 2. Garth Risk Hallberg, Città in fiamme 3. Irvine Welsh, Porno
4. Paul M. Sammon, Splatter Punk 5. Farmacia Comunale, Farmacia Comunale 6. Brian Cogan,
Penelope Spheeris, The Encyclopedia of Punk 7. Silvia Ballestra, Compleanno dell'iguana
104/PAGINE
© Nicola Guida, Paola Ranzini Pallavicini
COLLAGE#5
105/PAGINE
L’OBLIO
È
ALL’ORIGINE
DELLE
PAROLE
PAOLA RICCI
A sinistra e alle pagine seguenti
Paola Ricci
Disegni e fotografie eseguiti
con una tecnica fotografica
di sovrapposizione
e stampati su carta da lucido
semitrasparente o su carta
opaca; work in progress iniziato
nel 2023. Il lavoro segue un
flusso in continua
trasformazione come fa
la parola nel tempo.
“Occorre dimenticare il passato
recente per recuperare il passato
remoto” scrive Marc Augé, grande
antropologo che ci ha lasciato da
poco, autore di un testo interessante
che s’intitola Le forme dell’Oblio e
che potrebbe essere messo in
connessione con una ricerca
etimologica della parola “punk”.
Egli ci dice fin dall’inizio del libro:
“Mi stavo infatti dimenticando di
precisare che spesso un’unica parola
contiene un’intera nidiata di pensieri,
nati da accoppiamenti di cui non
sappiamo granché e non
necessariamente somiglianti”.
Stabilire l’origine di una parola è un
po’ il lavoro di ricerca sulle
popolazioni che fa l’etnologo: si
arriva a costruire una mappa e a
disegnare l’aspetto cartografico di un
comportamento come di una parola,
definendo dei confini che però sono
diversi per ogni significato e che non
coincidono per ogni lingua. Al
momento di tradurre i dati acquisiti,
le informazioni si combinano come
colori, creando nuance che non
corrispondono alla visione iniziale.
La parola è mescolata, è dipinta con
diverse sfumature e gli strati che si
sovrappongono, come nelle pitture
antiche, sono celati o dimenticati per
poi arrivare a una fattezza che
sembra quella iniziale, ma nasconde
anche altro.
Una parola sarebbe satura se dovesse
contenere tutti i significati acquisiti
nel tempo e usarli anche
contemporaneamente nelle diverse
lingue, diventerebbe un sistema
ingolfato, come se il significante
(l’immagine acustica) fosse
l’emblema di tutto un vasto mondo
antropologico senza confini. È perciò
necessario l’oblio.
Gli etimologisti sono come dei
detective che scoprono i legami
esistenti tra le diverse lingue.
Nessuna lingua è circoscritta in
un’unica isola.
Etimologia viene dal greco ετυµον
(étymon) = “vero, reale, intimo
significato della parola” e λόγος
(lògos) = “studio, discorso”.
Il lavoro è dunque risalire di
generazione in generazione per
scoprire l’étymon di una parola, è
come occuparsi di come variano le
coordinate spazio-temporali,
arrivando quindi ad un procedimento
non tanto normativo, quanto
descrittivo.
Stampare una parola in un giornale è
come decretarne una sua veridicità,
ma non la sua storicità. Vedere la
parola per scoprirne la sua origine
può capovolgere il significato
acquisito durante la lettura e nella
mente del lettore può svilupparsi un
senso di rigetto come anche invece di
meraviglia. Questo processo
cognitivo potrebbe essere
paragonato a quello visivo di quando
si riesce a discernere tutte le fasi per
la realizzazione di un’opera d’arte.
A questo proposito è
interessantissimo un lavoro
fotografico di Dora Maar sulla
Guernica di Picasso. Negli scatti della
Maar si vede come il disegno era
inizialmente una cosa; le linee erano
in evidenza in una certa
configurazione e le forme che
appaiono poi nella fase finale
ritrovano parti del disegno iniziale
che è scomparso.
Forse l’origine di una parola viaggia
attraverso una canalizzazione simile,
dove qualcosa è portante ma non
evidente e altro scompare nel tempo
per assumere ulteriori aspetti di
significato e forma semantica.
“L’OBLIO, INSOMMA,
È LA FORZA VIVA DELLA
MEMORIA, E IL RICORDO
NE È IL RISULTATO.”
Marc Augé
Per etimologia di una parola cosa
s’intende esattamente?
La Treccani dice a riguardo:
“Disciplina linguistica che studia la
storia delle parole, risalendo fino al
punto della storia o della preistoria
107/PAGINE/note
https://www.paolaricci.com/index.html
108/PAGINE/note
di un vocabolo (etimo) in cui esso
risulta appartenente a una famiglia
di altri vocaboli”.
Costruiamo dunque il tracciato del
termine attorno cui si svolge tutto
il numero di questa rivista.
Quando andiamo a cercare “punk”
veniamo indirizzati, quasi subito,
verso il movimento inglese degli anni
settanta, senza molti riferimenti
indietro nel tempo. È invece
interessante scoprire come diverse
lingue abbiano voluto anche
trasformare questa parola per
“adattarla” alla propria lingua, come
è avvenuto nel francese che coniò la
parola “kepon” che è la versione
sillabica di punk e il consolidato
“teuf” che è l’equivalente di “fête”.
In Italiano invece abbiamo avuto la
semplice aggiunta di suffissi alla
parola inglese: punkettaro,
punkettuso o punkettone.
Il termine punk in angloamericano
designa “materiale di qualità
scadente”, “giovane propenso ad
attività criminali”, mentre “punke”
viene già utilizzato da William
Shakespeare per “prostituta” o anche
per “feccia”.
Quindi, quello che appare è che
questa parola abbia come origine la
descrizione “di personalità non
convenzionale” e/o portata a
comportamenti che la società poi
sottopone a giudizio.
Secondo l’Oxford English Dictionary,
il termine punk fu stampato per la
prima volta nel 1575 (anno in cui
Shakespeare divenne un
adolescente): è apparso in una
canzone, una ballata chiamata
Simon The Old Kinge, o talvolta
Old Simon The King. Il narratore della
canzone suggerisce che essere
ubriaco è “un peccato, come è quello
di mantenere un punk”.
Non molto tempo dopo Shakespeare
lo userà in una commedia intitolata
Measure for Measure, Misura per
Misura (1603-1604), in cui si trattano
temi contrapposti, come lussuria e
devozione, altruismo ed egoismo,
pietà e rabbia, politica ed etica,
giustizia e compassione. In questo
caso uno dei personaggi, Lucio, cerca
di spiegare la smentita criptica di
Marianna che lei non è né cameriera,
né vedova, né moglie, dichiarando
“Lei può essere una punke” (5.1.178).
Esce questo termine in questo testo
in cui si descrivono le opposizioni ed
è ambientato in una Vienna dissoluta,
dove le prostitute sono viste come
persone di grandi affari.
Alla fine del XVII secolo la parola
punk assume altri significati ancora.
La troviamo in un manoscritto del
1698 della biblioteca Bodleiana,
nel testo di una canzone oscena:
Women’s Complaint to Venus,
contenente la linea allarmante:
“... di notte fa di lui un punk che è
il primo ubriaco”.
Spostandoci in altri luoghi, dall’altra
parte dell’Atlantico, crebbe un
termine che non era stato usato in
Gran Bretagna e che non ha niente a
che vedere con quello di descrivere
atteggiamenti umani; punk è intenso
come un pezzo di legno fradicio
marcio e che usavano gli abitanti
dalla lingua nativa americana. Se
continuiamo, si può scoprire che in
Lenape, zona dell’Amarica del Nord
ed in quello che sarà il futuro stato
della Pennsylvania, vi erano parole
che partivano dalla stessa radice,
come “punkw” che significava
“cenere”, mentre “punxe” significava
“mettere legna sul fuoco” e infine
“punck” significava “polvere da
sparo”.
In similitudini giornalistiche nel 1770
gli americani nella Guerra
d’Indipendenza usavano il termine
punk per descrivere il loro modo di
combattere.
Per un ulteriore approfondimento
che arrivi fino ai giorni nostri si
consiglia il link https://jprobinson.
medium.com/the-rotten-etymologyof-punk-86db2fcc16f8.
Come si può vedere quindi la parola
è un sistema che inanella diversi
significati nel tempo, una sorta di
109/PAGINE/note
110/PAGINE/note
rete dove s’incastrano pertinenze
e situazioni di vita e di eventi che
chiedono alla parola di contenere
altro, come se si aggiungesse sempre
qualcosa di nuovo e scomparisse
qualcosa di vecchio.
La parola è tale perché continua nel
tempo a srotolare modificazioni,
come se perdesse continui strati di
pelle lasciati cadere dietro di sé,
disperdendo il significato
precedente, in una sorta di lento
“oblio” per fare entrare e apparire
altri usi ed accezioni, cavalcando il
mondo culturale o di vita in diversi
campi.
Tirando le somme e riprendendo
la digressione sul concetto di “oblio”
di Augé e anche sul concetto di
“rapidità” del pensiero di cui parla
Calvino nelle sue Lezioni Americane,
in fondo l’oblio e la rapidità sono
connessi in questo divagare
sull’etimologia: occorre essere capaci
di dimenticare qualcosa per fare
spazio alla memoria del passato che
si aggancia al nuovo e farlo con
rapidità, per collegare i diversi
passaggi temporali che avvengono
nella trasformazione del significato
di una parola, per coglierne
un’essenza fortificata.
Calvino elogia la rapidità spiegando
che: “Il mio lavoro di scrittore è stato
teso fin dagli inizi a seguire il
fulmineo percorso dei circuiti mentali
che catturano e collegano i punti
lontani dello spazio e del tempo.
Nella mia predilezione per
l’avventura e la fiaba cercavo sempre
l’equivalente d’un’energia interiore,
d’un movimento della mente.”
Quella capacità di scrittura porta a
catturare punti lontani attraverso una
sorta di viaggio nell’universo per
raggiungere rapidamente ogni luogo
dello spazio; il lavoro che svolge
l’etimologia è quello della
conoscenza comunicativa delle
parole, creando dei fili invisibili tra i
diversi significati a volte molto
distanti.
Forse non c’è una conclusione
definitiva quando si parla di
etimologia di una parola, è come un
flusso continuo che attinge al passato
per essere vissuto nel presente e poi
proiettato nel futuro, un tentativo di
prolungare l’esistenza della parola
stessa.
Augé chiude il suo saggio con il
capitolo “Le tre figure dell’oblio”
individuando tre forme. La prima è il
ritorno, ritrovare un passato perduto.
La seconda è la sospensione, la cui
ambizione è trovare il presente per
separarlo dal passato e dal futuro;
cercare di congelare il presente
attraverso forme estetiche proiettate
per il futuro anteriore. La terza figura
è quella del cominciamento, trovare il
futuro dimenticando il passato,
creare qualcosa che sia una nuova
nascita.
Se ci pensiamo attentamente è
quello che è successo con la parola
punk: è proprio questo sviluppo
conoscitivo che ha srotolato diversi
significati ed ha momentaneamente
stabilizzato il significante facendogli
però anche subire delle
trasformazioni, come abbiamo visto
nella lingua italiana con l’aggiunta di
suffissi fino all’ingresso in altri mondi
culturali che inizialmente non erano
suoi, come quello della musica punk
e punk rock.
“LA MEMORIA E
L’OBLIO SONO
SOLIDALI, SONO
ENTRAMBI
NECESSARI AL PIENO
USO DEL TEMPO.
CERTO CHE, COME
DICE MONTAIGNE,
‘OGNI COSA HA
LA SUA STAGIONE’,
E INDUBBIAMENTE
NON È NÉ SAGGIO
NÉ UTILE SOTTRARSI
ALLA PROPRIA ETÀ”
Marc Augé
111/PAGINE/note
Fenditure_Palazzo della regione
Lombardia attraverso lo squarcio
©Livia Ranzini Pallavicini
NON ESCLUDEVAMO IL RITORNO
Il pensiero che Giovanni Lindo Ferretti si fosse
intorpidito col tempo ha toccato tutti noi,
con amarezza. Come Bono che rinnega gli U2,
lui ha rinnegato il punk rivelandosi ipercattolico
e meloniano. Ma noi sotto sotto aspettavamo
il ritorno. Ed eccolo, dopo la mostra
autocelebrativa a Reggio Emilia, il ritorno
dei CCCP in DDDR, per il concerto del
24 febbraio 2024, a celebrare il revival del punk
filosovietico all’emiliana proprio lì dove è nato
tutto, nell’ex Berlino Est. Nemmeno i Sex Pistols
avevano osato tanto nella loro reunion e,
anche fosse solo per gli sporchi soldi, grazie a
questi quattro attempati ci sentiamo ancora - per
citare Lindo Ferretti dopo gli sputi del pubblico
a Scanzi a metà show - in grado di poter odiare
qualcuno perché ci sta sui coglioni, perché
non abbiamo mai voluto che tutti la pensassero
come noi, perché portiamo il disordine e non
l’ordine, non quello che volete voi, non sono
come tu mi vuoi, non sono come tu mi vuoi,
non sono come tu mi vuoi. NG
113/PALCHI/ripostigli
La Svizzera, la Svizzera.
Dove l’acqua scorre perché
questo è il suo Punk
Foto di Marcello Francone
Underground
ANDREA ANCONETANI, ALESSANDRO PERTOSA
RIFLESSIONI
SUL SOTTO
E SUL SOPRA
115/PALCHI
C’è un teatro che vive sottoterra.
Esprime energie difformi da quelle consuetudinarie. Si sviluppa in
contesti marginali, nella semi invisibilità. I suoi spazi sono sempre più difficili
da abitare. Ma esiste. Anche se nessuno quasi lo sa.
Chi abita questi luoghi reconditi lo fa per due ragioni. O perché
sprofondato lì sotto dalle circostanze, in attesa di uscirne e finalmente
veder le stelle; oppure, sempre più raramente, per scelta programmatica.
Per insofferenza congenita, strutturale, genetica quasi, verso il “Teatro
Istituzione”. Per ribellione insomma.
Non è una scoperta il constatare che vi sia un potere dell’arte e, nel
nostro specifico, del teatro. Un potere generato soprattutto dalla committenza
e dalla leva economica ad essa correlata che innalza alcuni e
abbatte molti. Che, nella fattispecie del teatro, questa leva economica sia
ormai appannaggio quasi esclusivo
delle pubbliche casse e delle relative
assegnazioni di fondi sulla base
di supposte meritocrazie determinate
da impenetrabili, quasi mistiche,
ragioni verso le quali non si
può che assumere l’atteggiamento
di chi è colpito dalla sproporzione
della divina provvidenza. Naturalmente
chi fruisce di tali prebende
trova spesso particolarmente difficile
assumere atteggiamenti che
non siano orientati in direzioni molto
specifiche e gradite alla committenza
stessa (che d’altronde finanzia
esclusivamente progetti ad essa
conformi e graditi).
Insomma la mitologica libertà
creativa dell’artista trova qualche intoppo in questo contesto. Ora, c’è
anche da dire con franchezza che forse mai nella storia dell’umanità vi è
stato un artista davvero libero di esprimersi. Vuoi per censura esterna
vuoi per autocensura. Tuttavia, a volte, si è verificato il caso di committenti
particolarmente illuminati che hanno concesso (di concessione comunque
si tratta) ai loro artisti di esprimersi in uno stato di quasi completa
libertà. Spesso si è trattato di uomini imperscrutabili (principi,
ecclesiastici di alto rango) ma capaci di riconoscere il genio e coltivarlo al
di là delle proprie convinzioni, per solo rispetto riguardo l’arte. Rari uomini
che, sopportando l’insolente sagacia degli artisti, hanno contribuito
all’esistere di opere che ancora oggi ammiriamo. Uno tra tutti, per fare
solo un esempio, il Cardinale Marco Cornaro che aveva come suo cortigiano
quel tal Angelo Beolco che col nome d’arte di Ruzzante gli dava pubblicamente
del “canchero”, a lui, a quello cioè che, in fondo, gli elargiva di
che vivere. Ma la committenza d’oggidì non ha certo tale tempra. Anzi.
Con la presupposta gravitas data dalla democratica gestione del pubblico
patrimonio, finanzia soprattutto chi ne glorifica la consistenza rendendosi
così marmorea e immutabile. L’ottusità, in fondo, è la cifra più chiara
ed inquietante di questi nuovi mandatari la cui identità si sfaccetta di
A TUTTO QUESTO CERCA DI SFUGGIRE
CHI RIFUGIA PROGRAMMATICAMENTE
LA SUA ARTE NEGLI IPOGEI CITTADINI.
NEI MICROTEATRI SOTTERRANEI
AUTOGESTITI, NELLE CANTINE.
UN “MONDO DI SOTTO” CHE ESISTE
ANCORA SPESSO IN QUANTO
TALMENTE PICCOLO DA RISULTARE
QUASI ININTERCETTABILE DAL
“MONDO DI SOPRA” CHE, PUR
GODENDO DI FASTI IMPENSABILI,
CONDUCE UN’INCESSANTE OPERA
NORMANTE, POLIZIESCA E DI
SORVEGLIANZA ANCHE E
SOPRATTUTTO NEI SUOI CONFRONTI.
116/PALCHI
ufficio in ufficio, di timbro in timbro, sfumandosi nella moltiplicazione delle
gerarchie, nei gangli degli addetti alle valutazioni e alle assegnazioni e
così sia.
A tutto questo cerca di sfuggire chi rifugia programmaticamente la
sua arte negli ipogei cittadini. Nei microteatri sotterranei autogestiti, nelle
cantine. Un “mondo di sotto” che esiste ancora spesso in quanto talmente
piccolo da risultare quasi inintercettabile dal “mondo di sopra”
che, pur godendo di fasti impensabili, conduce un’incessante opera normante,
poliziesca e di sorveglianza anche e soprattutto nei suoi confronti.
Non è che - c’è da puntualizzarlo - ciò che accade in questi contesti sia,
solo per il fatto di non appartenere all’universo dell’Istituzione, automaticamente
arte. Si dà il caso che anche nel teatro sonnolento e autoindulgente
del “mondo di sopra” si verifichino degli eventi d’arte e che
molto di ciò che accade negli spazi inferi del “mondo di sotto” sia assai
lontano da ogni ipotesi artistica.
È solo una questione di prospettive. Ma non di poca importanza.
Anzi, diremmo di fondamentale peso nell’economia dell’intero mondo teatrale
e nella sua capacità di rigenerare il nuovo dall’antico. Nel passato
infatti da quell’abisso sono emersi artisti che hanno dato un’impronta potente
all’arte scenica. Basti pensare, in Italia, al periodo d’oro delle cantine
romane dai quali antri sono affiorate intere generazioni di artisti capaci di
condurre spericolate ribellioni codificando linguaggi alternativi a quelli in
uso convenzionalmente ieri e oggi. La presenza di questo teatro sotterraneo,
underground, consentiva l’instaurarsi di una dialettica costante e
conflittualmente vivificante con l’universo del Teatro Istituzione il cui
splendore si andava via via appannando. Una dialettica, quella tra il sotto
e il sopra, che oggi ormai non esiste più. E non perché quel mondo di
sotto sia scomparso, come dicevamo esiste ancora, ma perché non ha più
modo di dialogare con quello di sopra che semplicemente non lo riconosce
e ad esso si è reso assolutamente impermeabile. In una sorta di follia
autocelebrativa il Teatro Istituzione infatti, reso invulnerabile da una incredibile
proliferazione normativa e
dalla occupazione quasi militare di
ogni spazio fisico, ha invaso ormai
ogni orizzonte possibile e non fa più
posto tra le sue fila se non ad elementi
ad esso completamente affini,
istruiti sin dalle accademie all’accettazione
inerte delle sue formule
mortifere e mortificanti. È una progressiva
consunzione che immiserisce
il teatro prosciugandone le
forze migliori e contribuendo alla definitiva estinzione di un’arte che
nell’intemperanza e nella veemenza ribelle, soprattutto dei giovani, ha
sempre trovato la via per rigenerarsi. C’è un teatro che vive sottoterra
ma da lì sotto dovrebbe uscire per trasformare, vivificare attraverso le
fiamme dell’insolente giovinezza, le comode acquiescenze del già visto.
Per compiere necessari parricidi. Anche se, quando si esce alla luce del
sole, è per a propria volta istituzionalizzarsi e prendere, da vincenti, il posto
di chi si è combattuto.
C’È UN TEATRO CHE VIVE
SOTTOTERRA MA DA LÌ SOTTO
DOVREBBE USCIRE PER
TRASFORMARE, VIVIFICARE
ATTRAVERSO LE FIAMME
DELL’INSOLENTE GIOVINEZZA,
LE COMODE ACQUIESCENZE
DEL GIÀ VISTO.
117/PALCHI
TARTAN
MARTA SILENZI
“Come è riuscito quel ragazzo
delle case popolari, che ha studiato
alle scuole pubbliche, privo
di un’educazione musicale,
a compiere il salto mentale che gli ha
permesso di diventare il leader di un
gruppo e salire su un palco?
È coraggioso, rivoluzionario e manda
un messaggio molto forte,
il più potente che si possa mai
trasmettere: sii te stesso.”
da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine
Creste e colori sulla testa, il nero e il rosa addosso, le borchie, i simboli, lo
sguardo di sfida, di rivolta, di anarchia. Gli strati di stickers sulle pareti dei
club, le strade di Londra e di New York, le foto in bianco e nero di luoghi e
di persone che non ci sono più, eppure, una volta esploso, quel fuoco d’artificio
che ha messo un timbro rumoroso sull’imperativo dell’individualismo
e della libera espressione, non è bruciato e scomparso, è strisciato, si è
trasformato, ha raccolto contaminazioni ed è arrivato fino a qui, carico di
memoria e prodezze, eppure fresco, e giovane, come allora.
Come ogni fenomeno di rilievo storico e sociale, il punk non è comparso
all’improvviso e poi svanito nel nulla. È stato certo una fiammata sul finire
degli anni settanta, ma il riverbero si è protratto all’infinito ed è continua
l’energia che lo rinfocola, come è sempre vivo il bisogno di autodeterminazione.
Più di altri fenomeni, il punk si è cibato di slogan – perché lo slogan arriva
velocemente al punto, condensa un pensiero, s’imprime nel cervello – e di
certo uno di questi è il famigerato SEX, DRUG & ROCK N’ ROLL, che non
vale solo per il punk ma che vale molto per il punk, il cui elemento trainante
tuttavia non è nessuna delle tre sfere ma qualcosa che ha a che fare con
tutte e tre.
Il punk è un fatto sociale prima che musicale, c’è questo fermento giovanile
119/VISIONI
che non resiste più e vuole sfondare gli schemi delle generazioni precedenti,
vuole autenticità, vuole aprire cassetti e tirare fuori lo sporco da
sotto i tappeti (quelli delle belle case inglesi, sofà damascati, merletti e
ceramiche Royal Albert), vuole mostrare lo strato sociale dei disoccupati,
dei poveri, dei senza formazione a cui appartiene e, dato che tutto intorno
gli fa resistenza, vuole farlo da solo (DO IT YOURSELF).
Come? Con un giro di soldi infimo ma con un’artisticità altissima che sinergizza
le sfere creative senza grosse distinzioni tra musica, arte e soprattutto
moda.
Ecco cosa veicola davvero il punk: lo stile.
Per i punk non hanno importanza genere, razza, status, ecc. ma ha importanza
lo stile.
La MODA
“Io non mi sono buttato a capofitto
nel punk: mi sono buttato a testa in
giù nel negozio, come lo chiamavamo
allora. Niente punk, niente Sex
Pistols, non c’era ancora niente.
Provavo un’attrazione irrefrenabile
per quegli stivaletti blu a punta
scamosciati, la gomma rosa, le riviste
porno anni ‘50, Screaming Lord
Sutch e per quella commistione tra
teddy boy pericolosissimi, masochisti
di periferia, Hell’s Angels, squillo
transessuali, dominatrici in pelle
nera, Billy Fury, feticisti della gomma
e anche per il juke box nel negozio,
che conteneva la musica più assurda
ed elettrizzante che avessi mai
sentito. Fai un po’ il confronto con un
paio di pantaloni beige scampanati
alla Peter Frampton e ci siamo
capiti.”
Marco Pirroni (The Models),
da The Roxy London WC2, Paul Marko
120/VISIONI
“La cosa più terrificante che faccio è
il pellegrinaggio per arrivare al
negozio (…), il posto dove mi piace
comprare le cose: significa passare
per le forche caudine dei teddy boy
che vogliono uccidere quelli come
me. Niente mi impedisce di vestirmi
come voglio. La mia è una missione”
da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine
Il negozio in questione è Sex, una boutique aperta da Vivienne Westwood
e Malcolm McLaren (suo compagno e manager dei Sex Pistols) al 430 di
Kings Road nel quartiere di Chelsea a Londra e che cambia nome a seconda
della collezione del momento, da Let it Rock, a Too fast to live, too
young to die, fino a Sex nel 1974. Tutti i punk lo frequentano, tutti ne assorbono
lo stile e l’audacia, tutti vogliono far parte della scena e per farlo non
hanno tanto bisogno di saper suonare uno strumento, appartenere ad una
band, avere particolari conoscenze, quanto hanno bisogno di sapersi vestire
a quel modo.
“Quando apro la porta sono assalita dall’odore stucchevole e melenso
del lattice: buffo come si senta solo qui e da nessun’altra parte. Il
pavimento lungo e stretto è sgombro, ci sono solo le commesse,
Debbie e Jordan. Jordan è un’opera d’arte, ha un look estremo senza
sembrare terrificante o minacciosa. Ha una voce dolce, delle maniere
gentili, è calma e centrata. A volte non indossa la gonna, solo
calze a rete o calzettoni, mutande di satin a vita alta, un corpetto di
pelle o di lattice e scarpe da bondage. Si disegna due strisce nere
sulle palpebre, come una maschera da rapinatore, una via di mezzo
tra Zorro e Catwoman; il viso è impolverato di cipria bianca e le labbra
sono dipinte di rosso acceso. I capelli biondo cenere sono cotonati
alti sulla testa, scolpiti in un’enorme onda che le ricade su un
occhio. Tutti i giorni Jordan fa la pendolare dal Sussex a Londra vestita
così. Quando arriva, non deve cambiarsi i vestiti nei bagni di
Charing Cross Station. Il suo atteggiamento contagia anche noi e
diventa una scelta di vita.”
Dalle parole di Viv Albertine, chitarrista delle Slits, si capiscono due cose:
quanto sia forte il richiamo dello stile che s’impone come uno shock, una
scossa al ben pensare (e al ben vestire), un’esigenza espressiva, e quanto
violenta sia la vita delle strade londinesi, dove fazioni come i teddy boy e
gli skinhead, di cui pure permangono certe contaminazioni estetiche, siano
in aperta opposizione ai punk, nelle nostre teste i più spregevoli ma in realtà
i più vessati fra le gang. Nel libro della Albertine sono ripetuti gli aneddoti
di assalti, aggressioni e accerchiamenti.
Anche per questo i punk hanno bisogno di luoghi sicuri, come porti, come
ambasciate e uno di questi è il negozio.
121/VISIONI
Vita di strada, sesso e musica, apertura ai generi e alle razze, tessuti e accostamenti
inconsueti, strappi, tagli, tacchi e spille, un repertorio che, sebbene
la maggior parte delle volte sia di fattura casalinga, necessita di una
guida per centrare il buon gusto e questo faro è Vivienne Westwood.
“Vivienne incute paura, come ogni persona sincera che parla chiaro,
perché ti espone. (…) Vivienne non accetta compromessi: su quello
che dice e in cui crede, su ciò che si aspetta da te e su come si veste.
È diretta, molto critica, e parla con un forte accento settentrionale
che la rende ancora più schietta. Ha una sicurezza che non ho mai
visto in nessun’altra donna. È forte, categorica e molto sveglia. Non
sopporta l’autocompiacimento ed è la persona più stimolante che
abbia mai conosciuto.(...) una linea nera intorno agli occhi, rossetto
scuro, viso pallido. Ha i capelli tinti biondo platino, con qualche centimetro
di ricrescita scura e degli spuntoni che vanno in ogni direzione.
Non ho idea da dove abbia preso quel look, non trovo riferimenti
in niente che conosco, ne’ film, ne’ arte. È molto femminile ma
a modo suo. (…) Di solito porta una gonna di lattice fino al ginocchio
e stivali neri al polpaccio – non sexy, senza tacco, un po’ larghi – oppure
un top trasparente di lattice con pantaloni bondage e molto
tessuto scozzese. Fa sembrare chiunque altro banale.”
VIV ALBERTINE
Trasgressiva ma netta e concreta, vegetariana (questione che darà il là ad
un forte attivismo ambientalista nel corso della sua carriera), inflessibile,
una donna nuova che accoglie i sentori del momento e ne fa un cambio di
rotta, una nascita, un bacino di creatività senza fine che spicca il volo nel
1977, quando God Save the Queen dei Sex Pistols si piazza al numero uno
in classifica e il negozio viene ribattezzato Seditionaries: clothes for heroes,
canonizzando tutta l’estetica punk che ancora oggi portiamo più o
meno consapevoli sulle t-shirt.
Ma i vestiti da Sex sono molto cari per gli spiantati che nutrono il gruppo
e la leggenda punk, quindi i jeans e le magliette si prendono a rasoiate e
poi si riassemblano con spille a balia, i capelli si cotonano e tingono nel
bagnetto della nonna, si trova il modo di comprare un paio di Dr Martens
e li si mette con qualsiasi outfit. Calze a rete strappate e vestitino rosa, kilt
e canottiera sbrindellata, catene al collo, capelli sparati. Tocchi di casualità
che non sono affatto casuali, tensione allo shock, al contrasto, al disturbo,
allo straniamento. L’aspetto diventa il manifesto di un’ideologia: siamo
quello che siamo, facciamo quello che vogliamo, non stiamo alle vostre
regole, basta conformismo, dogmi imposti, classi sociali, materialismo, capitalismo.
È chiaro che ci sono contraddizioni interne imprescindibili, quelle che decretano
la veloce trascolorazione della fiammata punk da rossa a blu, nel
momento in cui i Sex Pistols diventano famosi, nel momento in cui passano
dall’autoproduzione ad un’etichetta major, nel momento in cui creativi
come Vivienne Westwood diventano stilisti di alta moda.
Il punk è genuino ai suoi esordi, finché resta autogestito, quando iniziano
gli investimenti e prende piede un certo business è già diventato qualcos’altro
e ha forse fallito i suoi propositi, sebbene ancora oggi l’ideologia
e l’attitudine punk siano rimaste forti e invariate.
122/VISIONI
“È OK NON ESSERE PERFETTI,
RACCONTARE COME FUNZIONA LA
TUA VITA E LA TUA TESTA NELLE
CANZONI E NEI VESTITI CHE PORTI.
TUTTO QUELLO CHE FAI ASSUME
UN SIGNIFICATO POLITICO, PER
QUESTO SIAMO COSì SPIETATI CON
CHI SBAGLIA E LA SCIATTERIA
VIENE DERISA.”
da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine
Questa è ovviamente la scena londinese, ma parallelamente se non con un
po’ d’anticipo avviene qualcosa di strettamente simile oltre oceano, per
ritmo, per esigenze, per sensibilità estetica, basti pensare alla rivoluzione
dei capelli tagliati da sola e all’androginia di Patti Smith.
“Mi sedetti sul pavimento e sparpagliai le poche
riviste di rock in mio possesso; di regola le
compravo per procurarmi qualunque nuova foto di
Bob Dylan, ma in quel momento non era Bob che
cercavo. Ritagliai tutte le immagini di Keith Richards
che riuscii a trovare. Le studiai un po’ e poi presi le
forbici; uscii dall’era del folk aprendomi la strada a
colpi di machete. Mi lavai la testa nel bagno in
corridoio e la strofinai per asciugare i capelli. Fu
un’esperienza liberatoria.
(…) Una volta arrivati al Max (…) il mio taglio di
capelli suscitò un po’ di scalpore. Tutte quelle
sviolinate mi lasciarono esterrefatta. Ero la stessa di
sempre, eppure il mio status sociale si elevò di
colpo. Il mio taglio alla Keith Richards si rivelò una
calamita di discorsi. A me venne da pensare alle
ragazze che avevo conosciuto alle superiori:
sognavano di diventare delle cantanti ma finivano
per fare le parrucchiere; io non condividevo la loro
vocazione , ma nelle settimane seguenti avrei
tagliato i capelli a un mucchio di gente e avrei finito
per cantare al La MaMa.
Al Max qualcuno mi chiese se fossi androgina.
Domandai cosa significasse. “Sai, come Mick
Jagger.” Pensai che fosse fico. Mi convinsi che la
parola volesse dire bella e sgradevole allo stesso
tempo. Qualunque cosa volesse dire, con un taglio
di capelli ero diventata androgina nel giro di una
notte. Le opportunità fioccarono d’improvviso.”
da Just Kids, Patti Smith
123/VISIONI
La MUSICA
“La musica giovanile più o meno
anticonformista era sì nata con Elvis,
ma nel 1976 uno poteva sempre
scegliere tra il frastuono politico
degli MC5, il fuzz del garage
americano degli anni ‘60, il
nichilismo di Iggy & The Stooges e il
glam chic tossico dei New York Dolls.
Aggiungeteci la decadenza dei Roxy
Music, l’androginia bisex di Bowie e
l’innuendo contagioso dei T. Rex.
Metteteci dentro lo sperimentalismo
ruvido di Hawkwind e Pink Fairies, e
avrete gli ingredienti del distillato
profano da cui nascerà il punk rock.”
da The Roxy London WC2, Paul Marko
Lato A. Il punk americano
Il punk prima del punk
Negli anni sessanta, nei garage delle grandi case in legno dei sobborghi
americani, si ascolta musica alternativa, che esplora argomenti e suoni, si
sbarazza di filtri e censure, parla di droga e gente di strada, di vita vera, di
ispirazione creativa e dove trovarla. Si ascoltano i Velvet Underground, i
Modern Lovers. Si cerca di dare voce a frustrazioni e sentimenti repressi, si
compongono canzoni che partono semplici, con riff ripetitivi a cui si aggiungono
distorsioni strumentali e vocali, e dove trova linfa una certa aggressività.
È il garage rock, che muove i primi passi verso quello che sarà
denominato punk.
La velocità aumenta, le sonorità si sporcano, si fanno ruvide, il frasario diventa
provocatorio e l’imperativo principale è quello dell’impatto sonoro.
È il proto-punk, quello che semina embrioni di punk quando ancora non si
conoscono ne’ la parola ne’ il significato, quello che suonano gli Stooges e
gli MC5 in Michigan già a fine anni sessanta, i Kinks, i Sonics e poi i New
York Dolls e Patti Smith, gente che fa la fame per strada e si muove su palchi
che non sono una cosa sola, non sono soltanto musica, ma poesia,
estetica, dichiarazione, manifesto, espressione di sé senza il bisogno di una
definizione. La definizione di punk arriva dopo, quando c’è l’urgenza di
distinguere e di identificare, urgenza che loro, i veri protagonisti, certo non
hanno. E il termine è gente, perché appunto di gente si tratta, persone, con
un forte richiamo creativo, che non inseguono la gloria ma rispondono ad
una spinta interiore di autodeterminazione e di espressione libera, gridata,
in lotta perenne con quanto tenta di ingabbiarle: costumi, società, politica.
124/VISIONI
La musica è il perfetto tramite: si tratta di giovani, giovanissimi con un’energia
vitale debordante.
Il sigillo lo pongono nel 1974 i Ramones a New York, precisamente nella scena,
molto attiva, di Forest Hills nel Queens: un’accelerazione senza precedenti
che ha l’effetto di un bengala sparato nel cielo. Il resto è storia conosciuta.
Artisti come Patti Smith si muovono sfuggendo alle tipologie, cantano,
declamano, fanno arte e poesia con una chitarra sul fondo, sono loro stessi
alle loro regole, e in questo sta principalmente il loro punk; altri come i
Blondie, sono un ponte new wave con il successivo pop. Quasi tutto in
questo periodo ricade sotto la vasta denominazione di underground (più
o meno come si usa il termine indie o alternative), ma quando i Ramones
salgono sul palco, non ci sono dubbi su cosa sono o cosa fanno.
Compatti nel nome (tutti Ramone come veri fratelli) e nel vestiario (giubbotti
di pelle nera, jeans stracciati, t-shirt e scarpe da ginnastica), cantano da
subito le loro canzoni (per evidenti limiti di capacità tecnica), dalla ritmica
rapida, divertenti, ironiche e autobiografiche, niente politica, tanta energia e
il fantomatico “one-two-three-four” chiamato di corsa all’inizio di ogni pezzo.
“Conto l’attacco della prima
canzone, «Uno, due, tre, quattro!» e
sbandando partiamo (…) velocissime.
(In seguito, durante il tour, Mick mi
spiegherà che quando conti uno,
due, tre, quattro all’inizio della
canzone, stai dando il tempo. Io non
lo sapevo, l’ho copiato dall’album dei
Ramones, pensavo che fosse il modo
di avvisare il gruppo che stai per
cominciare e che va gridato il più in
fretta possibile, perché più veloce è,
meglio è.)”
da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine
Tutto comincia al CBGB, uno dei locali dove il nuovo sound striscia, cresce
e acquista vigore (insieme al Max’s Kansas City, al La MaMa e pochi altri
luoghi sacri sperimentali), un piccolo club nato per la musica Country e
Bluegrass che presto diventa palco di battesimo per Television, Patti Smith,
Blondie, Ramones, Dead Boys, Mink DeVille, Talking Heads, Heartbreakers,
Fleshtones.
“(…)pensate al bagno di casa vostra ma solo un po’ più grande,
coperto di graffiti e con puzza di piscio praticamente ovunque per
il fatto che il proprietario Hilly Cristal lasciava i suoi cani liberi di
scorrazzare nel locale, una cosa che il compianto Joey Ramone
trovava spassosa”
Alan Parker
125/VISIONI
“Era un posto semi abbandonato (...) una fogna (...) si riempì di
travestiti che erano entrati dopo essere stati al Bowery Lane Theater.
Furono grandi con noi, supportandoci durante tutto lo show
(...) Quando salimmo sul palco, io attaccai il basso e diedi un’occhiata
intorno. Sul muro, vicino al palco, c’era un enorme poster di
Marlene Dietrich (...) Suonammo per quindici minuti e fu un successo.
Cercavamo di suonare le canzoni una attaccata all’altra (...) io
contavo uno, due, tre, quattro ed attaccavamo subito un altro pezzo.
Alla fine del concerto lanciai per aria il mio Danelectro facendolo
rimbalzare per terra un po’ di volte finché non si ruppe. Pensavo
che fosse l’ultima moda glamour.”
DEE DEE RAMONE
“Il fondatore Hilly Kristal aveva imposto soltanto due regole: le
band dovevano portarsi i propri strumenti e suonare musica originale.
No cover. No musica vecchia. Solo roba che riflettesse chi
erano i nuovi newyorkesi.”
LAURA PEZZINO
E i nuovi newyorkesi suonano questa nuova musica: un muro di suono, una
canzone attaccata all’altra, in costante fibrillazione.
HEY, OH, LET’S GO.
Lato B. Il punk inglese
Anarchy in the U.K.
Le canzoni degli Stooges fanno parte del repertorio dei Sex Pistols, questo
gruppo di strambi, istrionici, stilosi personaggi che si attraggono come
calamite uno verso l’altro fino a formare un gruppo, in un momento in cui
essere in un gruppo è più importante di saper suonare o cantare.
Rispetto all’America, fatta di dilatazioni e distanze, dove l’aggregazione è
forse meno compatta e c’è più spazio per il sé, il punk in Inghilterra è un
rifugio per emarginati, giovanissimi sbandati in cerca di un modo per esprimere
la propria pulsante personalità, è un covo di minoranze, etniche, di
genere, di estrazione sociale, è una tana fatta di pochi luoghi in cui cresce
prepotente una sottocultura; i luoghi sono il Roxy Club, il Marquee, il 100
Club, il negozio. Escono le prime riviste specializzate, come Sniffin Glue
(che prende il nome da un verso dei Ramones), nient’altro che editoria
artigianale, fanzine scritte a mano, a collage, fatte da soli, fatte a casa come
il vestiario, immediate e dritte al punto, rozze come la musica, rispondenti
all’etica DIY (do it yourself) che riguarda anche la creazione di band – con
musicisti improvvisati che transitano da un gruppo all’altro, sciamano fino
a che qualche diamante grezzo non finisce per emergere – e la loro individuazione
da parte di produttori, anch’essi appartenenti alla stessa fauna,
non ci sono differenze tra artisti, promoter e pubblico: è la scena punk,
tutto ne fa parte, sullo stesso gradino.
Almeno fino a che i Sex Pistols non spiccano il volo.
Ci sono tantissime band, tutti suonano (senza saperlo davvero fare), tutti
frequentano gli stessi locali, le stesse tane, ma come sempre succede, alcuni
personaggi rispondono meglio di altri al momento, dominano per
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carisma e atteggiamento, si allineano, s’incastrano, funzionano. É così per
un paio di tipi come Johnny Rotten e Sid Vicious, che diventano il frontman
e il bassista di un gruppo fulminante e di fulminati che è affilato come un
rasoio e allucinato come una partita troppo pura di eroina, ma che nel frastuono
generale produce se non il giusto suono, il giusto rumore ed ha il
giusto stile, manda in visibilio la folla, emerge sugli altri e diventa un modello.
Il sound punk, in rotta col troppo virtuoso progressive di Jethro Tull, Gentle
Giant, Emerson, Lake & Palmer, Genesis, persino Pink Floyd, e legato ad
una forte e quotidiana attualità, trova in questi sparuti figuri un mix micidiale
per l’Inghilterra di fine anni settanta, per l’impeccabile BBC, che una
sera del 1976 (Sid non era ancora nella formazione) ospita i Pistols in sostituzione
dei Queen nel programma di Bill Grundy. Il presentatore provoca
la band sull’autenticità del suo professato antimaterialismo dopo il contratto
con una grossa casa discografica, dice cose senza senso, è ubriaco e
istiga i ragazzi a dire qualcosa di scorretto. Steve Jones non si trattiene e
scoppia il finimondo.
“(...) i media vogliono il sangue (…):
demonizzare i punk come anarchici,
volgari e violenti con un’unica
missione, ovvero scioccare a tutti i
costi. Se sei un punk, sei un outsider,
un ribelle, e anche grazie ai media
tutto ciò agli occhi di un ragazzo è
una combinazione esplosiva. Con
tutta quella copertura stampa,
adesso non c’è teenager inglese che
non sappia cosa sia il punk: gioventù,
ribellione e rock ‘n roll sono di nuovo
in prima pagina sui tabloid e sui
giornali musicali. Buona parte della
gioventù britannica cambia look,
forma una band sui due piedi e lascia
che l’opinione pubblica reagisca con
tutto il disgusto, l’incredulità e la
veemenza del caso. Ora sì che ci si
diverte.”
da The Roxy London WC2, Paul Marko
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Nel 1977, in tempo per il giubileo d’argento della Regina Elisabetta, esce
God save the Queen, un inno non contro la regina ma contro l’ordine precostituito,
contro le istituzioni oscurantiste e retrograde.
La copertina del disco è una leggenda estetica e grafica.
No Future, un verso della canzone, diventa il principale monito punk.
Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols è l’unico album in studio
(nel quale Sid Vicious di fatto non suona, perché non sa suonare!) e questo
dimostra che, allora come oggi, il punk è una faccenda che ha la sua ragione
d’essere dal vivo, dove c’è un pubblico che partecipa, che poga, che fa
parte della scena.
La dichiarazione d’intenti è scritta a caratteri cubitali nella traccia numero
8, la seconda del lato B, in cui la questione dell’anarchia ha più a che fare
con la spinta all’individualismo, alla dissociazione, alla dissidenza che non
con la politica.
Questa condensa di contenuti radioattivi mixati al perfetto stile (che significa
smorfie, goffaggine dichiarata senza scuse, personalità e look alla Westwood)
spara il punk molto in alto, dove non può essere ignorato, sebbene
sia in tutti i modi combattuto (classifiche contraffatte, canzoni
censurate, tour proibiti, tutte cose che contribuiscono al mito).
Un album, tanto successo, qualche anno di concerti, un omicidio e una
morte per overdose (la ultra nota storia di Sid e Nancy) sono vita e morte
dei Sex Pistols ma non certo del punk che, a dispetto dei suoi cantori, ha
avuto ed ha tuttora tanto futuro, combatte ancora le stesse battaglie contro
l’omologazione, i razzismi, le discriminazioni, i governi conservatori.
DON’T BE TOLD WHAT YOU WANT
DON’T BE TOLD WHAT YOU NEED
Contemporaneamente alla formazione dei Pistols, anche un altro quartetto
di musicisti si costituisce sotto l’egida punk. Il vestiario è più contenuto,
i versi più lirici, il repertorio più vario ma hanno quel che serve per durare
un po’ di più sui palchi e, anche loro, per sempre nella storia.
“(...) una massa sfocata di capelli scuri, scarpe
con tacco alto, sciarpe di chiffon svolazzanti e le
gambe più lunghe e magre che abbia mai visto,
poi scompare, è svanita nel bagno dei maschi.
«Era un ragazzo?» chiedo a Jane. Continuo a
fissare la porta. Alla fine la creatura riemerge e
riesco a osservarla meglio. Sì, è un ragazzo. È
secco come un bastone e porta dei pantaloni
Principe di Galles aderenti, rossi e bianchi,
scarpe nere con tacco alto e cinturino allacciato
dietro e una giacca attillata da donna che gli sta
troppo stretta, il tutto sormontato da capelli
vaporosi e cotonati. Alla vista di quello
spettacolo gli studenti del tecnico erompono in
grida e fischi. Lui però li ignora e con grande
nonchalance, incede fino a metà della fila, dove
si fa largo per raggiungere i suoi amici.
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(…) mi piacciono il coraggio e lo stile, è il mio
genere di persona.
(…) Allora gli dico: «Ciao, io sono Viv».
Con voce sommessa e timida, il ragazzo
risponde: «Mick Jones».”
“«Sto mettendo su un gruppo» dice.
Mick è quella persona – ce n’è sempre una in
ogni band – che si occupa dell’organizzazione,
che prende a cuore i dolori e le perdite, vive,
respira e morirebbe per il suo gruppo”
“Mick (…) ha trovato un bassista, un bel ragazzo
di nome Paul Simonon. Ancora non sa suonare
il basso ma Mick dice che non importa perché
è bello. Ha trovato anche un cantante che bello
non è ma ha un grande carisma, Joe Strummer.
(…) Tutti sono alla ricerca di un nome.”
“È Paul a trovare il nome del nuovo gruppo,
The Clash, dal titolo di un quotidiano.”
da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine
Anche i Clash sono dunque figli di un’esigenza espressiva che mescola
atteggiamento, vestiti e richiamo artistico interiore più che di una vocazione
musicale originaria, ma di fatto l’unione di queste persone dà vita ad
una band capace di sostenere gli oneri del punk e di traghettarli oltre i
seventies, fino alla fine degli anni ottanta, attraversando tematiche importanti
come la tendenza all’americanizzazione culturale, il razzismo, il controllo
delle case discografiche sulla musica; e già si vedono i segnali del
cambiamento, già il punk si sta trasformando in un’altra versione, i tempi
sono in continuo movimento e divenire, le contaminazioni giungono da
tutte le parti (ad esempio dalla Giamaica dove il gruppo va ad approfondire
la cultura rasta) ed è giusto seguire il fiume, rispondere alla chiamata.
Sette album in otto anni, una dichiarata tendenza politica di sinistra, un’etica
che non punta al denaro ma al messaggio (prezzi di dischi e concerti
ribassati, poche vendite, pochi guadagni ma tantissimo seguito), concerti
cui partecipano poeti e che spingono all’attivismo. La fiammata dei Clash
dura circa dieci anni, poi la pressione, gli ego e la mano dei produttori finiscono
per spegnerla, pur lasciando canzoni indimenticabili, titoli universalmente
conosciuti come London Calling, Should I stay or should I go, Rock
the Casbah, I fought the Law.
LONDON CALLING TO THE IMITATION ZONE
FORGET IT, BROTHER, YOU CAN GO IT ALONE
Sciamano all’ombra di queste due band, mille altri gruppi, più o meno imitativi
soprattutto dei Pistols, alcuni con più attitudine musicale, altri con
più predisposizione performativa.
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Tante le donne sul palco, davanti al microfono o con uno strumento in
mano; il periodo è favorevole perché aperto alle minoranze di genere,
all’androginia scortata dal glam rock, a quella che oggi chiamiamo fluidità
(credendo di averla sdoganata ma che ancora giudichiamo). Nascono qui
i primi gruppi al femminile: pur restando poco conosciute, ne portano la
bandiera le Slits, attente all’aspetto, musicalmente rozze, pazzoidi, impulsive,
rissose, spinte dall’istinto e dalla ricerca di un suono, di un ritmo, di
un’identità. Condividono tour importanti e formativi come il White Riot con
i Clash, i Buzzcocks e i Subway Sect, dimostrano che non c’è contrapposizione
ne’ supremazia tra uomo e donna, formazioni maschili e femminili,
senza però schierarsi col femminismo, che è uno dei tanti -ismi che va a
braccetto col punk ma che rischia sempre di passare il limite: ogni estremismo
sfocia nel fanatismo e smette di essere utile.
L’ARTE
Rock & shock
I punk non sono soltanto musicisti. Sono creativi, artisti, hanno bisogno di
esprimersi più che di affermarsi e questo significa non porsi limiti, escludere
perimetri, uscire dagli schemi, più di tutto scioccare.
“L’effetto positivo causato dallo
shock è che per un attimo il cervello
viene sgombrato dai preconcetti:
in questo modo l’opera può azzerare
le abitudini e gli schemi di
comportamento dello spettatore
e suscitare una sensazione nuova,
prima che tutti i condizionamenti
prendano di nuovo il sopravvento.”
da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine
L’arte punk esiste e non esiste. Sguscia da tante avanguardie precedenti,
scivola e si confonde con quelle future, la street art, il collage, il pop, con
la moda e la musica viaggia intrecciata, si esprime su riviste e cataloghi
come Interview di Andy Warhol e Punk Artist di Graziano Origa, ha a che
fare con la performance art, una performance che va in scena nel quotidiano,
sui sedili di autobus e metropolitane, sugli angusti palchi dei club inglesi,
nella hall del Chelsea Hotel, per le strade di Londra.
Come per tutto il resto, i punk sembra che abbiano il compito di smascherare
tutto quanto venga represso, coperto, silenziato, ritenuto indecente.
Lo scossone cui puntano è al massimo grado, il messaggio chiarissimo.
Nel periodo in cui frequenta la scuola d’arte, moda e tessile, Viv Albertine
(che è un po’ il Virgilio che accompagna Dante negli inferi di questo testo)
presenta alcuni progetti, tra cui “un oggetto quotidiano”. Si tratta di disegni
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di assorbenti interni usati, intrisi di sangue mestruale che galleggiano sulla
pipì gialla nella tazza di un bagno e di ritratti di un’amica senza vestiti
con la cordicella del tampone che le esce dalla vagina. La realtà di questioni
fisiologiche schiaffate in faccia alla censura. L’erotismo del nudo azzerato
dalle necessità del corpo. Ovviamente il lavoro non viene messo in
mostra. Un giorno Viv esce di casa con un tampax al posto dell’orecchino,
in autobus una signora sconvolta non riesce a dirle che ha un assorbente
attaccato alla faccia, ma non è un tampone, è un ornamento punk. Un altro
progetto è la riproduzione di un’immagine di corpi ammassati in un campo
di concentramento da stampare su maglietta:
“Dipinsi il cielo color azzurro intenso e il suolo giallo acceso, color
sabbia. L’immagine doveva sembrare una cartolina, ma da Balsen,
un campo dove non si va in vacanza (era lo stesso periodo in cui
Sid scrisse il testo di Balsen was a gas).”
Scioccare, straniare, spingere al disgusto e poi alla riflessione.
Mezzi a basso costo e tecniche improvvisate. Per l’arte come per tutto il
resto.
Le radici sono dadaiste, atteggiamenti anarchici e nichilisti compresi.
Le copertine degli LP sono le opere d’arte di questo periodo, come quelle
di Jamie Reid per Sex Pistols e Siuouxsie and the Banshees o Linder Sterling
per i Buzzcocks, collage di ritagli da riviste del periodo, quindi un mix
d’immagini decontestualizzate dalla cultura di massa e ricontestualizzate
in ambito punk.
E poi colori accesi alla Warhol, bande nere alla maniera dei giornali scandalistici
o della censura da cronaca nera (front cover di Gary Gilmore’s Eyes
/ Bored Teenagers degli Adverts) e straniamenti di stampo surrealista (copertina
di Thinkin’ of the USA degli Eater).
L’effetto generale è molto grafico e volto alla facile realizzazione e alla
veloce riproducibilità: le macchine fotocopiatrici si diffondono proprio alla
fine degli anni settanta e contribuiscono enormemente allo stile e alla divulgazione
di fanzine, flyer, sticker, poster e locandine.
Nel 1978 oltre ai musicisti anche molti artisti visivi frequentano il CBGB,
così Bettie Ringma e Mark H. Miller (fotografi e fondatori della Gallery 98),
coinvolti da Alice Denney, direttrice di uno spazio artistico alternativo a
Washington DC, seguono l’impulso di allestire una mostra di arte punk. Si
uniscono John Holmstrom e Legs McNeil di Punk Magazine e il cartellone
di artisti è così lungo da assomigliare ad un movimento, c’è grande copertura
stampa e l’opening è affollatissimo.
Quella al Washington Project for the Arts passa alla storia come la prima
mostra di arte punk al mondo ed è espressione di qualcosa di più grande:
del ricambio generazionale e della rottura della diga che aveva contenuto
l’espressione artistica fino ad allora. L’importanza della mostra è sottolineata
dal catalogo di 28 pagine contenente dozzine di interviste ad artisti,
un saggio dello storico dell’arte Gerald Silk e i commenti di Andy Warhol
sul punk (in parte recuperato qui https://98bowery.com/punk-years/punk-art-catalogue).
Gli artisti presentati sono versatili, utilizzano diversi media, sono soprattutto
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fotografi, filmmaker e performer. Tutto s’intreccia spesso con la scena
musicale: gli artisti fanno anche parte di gruppi, i disegni sono per le riviste,
le foto documentano gli incontri con le band, i video riprendono le
performance. Gli scultori si avvalgono di elementi trovati, assemblano
parti meccaniche, elettroniche ed elettriche come Alan Suicide, musicista
e scultore che dà forma a cavi e componenti luminose alla maniera di
Robert Rauschenberg, o Steve Kramer che monta macchine cinetiche e
si afferma come una delle figure più in vista della scena downtown. Alla
mostra ci sono anche set di tatuaggio live con il tatuatore Ruth Marten,
sono esposti i collage e le fotocopie Xerox di Leslie Shiff, gli scatti di Chris
Stein (dei Blondie), i visual dei Ramones di Arturo Vega. Diversi i riferimenti
alla sfera sessuale e sadomaso; interessante l’attenzione puntata
sempre sulla moda, ad esempio con gli stilisti Animal X e Daimon, che
stampano tessuti animalier.
Punk Art è proposta in seguito altre due volte: come evento multimediale
di una notte alla School of Visual Arts di New York (novembre 1978) e
come piccola esposizione ad Art Something ad Amsterdam (giugno 1979).
Il punk non è dunque un anno zero, è una rivoluzione ma non improvvisa,
è piuttosto lo scoppio di una pentola a pressione e, musicalmente, artisticamente
e stilisticamente parlando, sono profonde le radici che gli hanno
preparato il terreno e gettato le basi per la sua esplosione, sul versante
americano come su quello inglese (principali ribalte cui poi fanno eco
tutte le altre), passando per magliette slabbrate, spille a balia sulle labbra
della Regina, libelli scritti coi pennarelli e distribuiti a mano, capelli tagliati
guardando una rivista, siringhe di eroina, risse, promiscuità sessuale e
tutto l’impeto e tutta l’ingenuità delle giovani generazioni.
132/VISIONI
VIVIENNE WESTWOOD
Determinata, femminile, vegetariana in tempi
non sospetti, ha l’intuito dello stile e lo sposa
prima al punk poi – conclusi sodalizio e
relazione con McLaren – ai pirati, alla Francia
di Maria Antonietta e all’Inghilterra vittoriana.
Diventa una delle più grandi stiliste di tutti
i tempi, per sempre giovane, iconica nel suo
gioiello di perle chiuso da una corona
di diamanti. Attivista contro il cambiamento
climatico, per le minoranze di genere
e la moda etica, usa la passerella come
propaganda, i vestiti come una dichiarazione
d’intenti: “non puoi andarci in giro per strada
senza che vengano fuori discussioni”. MS
133/VISIONI/ripostigli
Lavandino solitario
©Livia Ranzini Pallavicini
134/PAGINE
VIV ALBERTINE
Una persona normale. Povera, di talento
mediocre, sbandata, carina, senza trucco ma
con una riserva infinita di creatività, ispirazione e
determinazione, seppure costantemente carica
di insicurezza. Interamente dentro la scena
punk londinese, amica di Sid Vicious, ragazza
di Mick Jones per lungo tempo, chitarrista delle
Slits, poi tra le prime insegnanti di aerobica, poi
regista, poi madre e moglie e via di nuovo con
una chitarra in mano.
Resistente nonostante l’odissea di problemi
fisici, interventi chirurgici e depressioni annesse.
Una fenice che continua a bruciare e risorgere
più forte. La sua autobiografia Vestiti Musica
Ragazzi (qui ampiamente citata) è un
capolavoro di franchezza, aneddoti e vita
vissuta.
“Comincia a piacermi il contrasto tra quello
che il pubblico si aspetta da una donna piacente
e quello che io gli do: parole piene di rabbia
e note affilate di chitarra”. MS
135/VISIONI/ripostigli
Vietato respirare
©Livia Ranzini Pallavicini
136/PAGINE
#LISTE
UN PO’ DI PUNK IN ITALIA
date
Tour IN FEDELTÀ LA LINEA C’È,
CCCP
21 MAGGIO
Piazza Maggiore, Bologna
23 MAGGIO
Milano, anteprima MI AMI Festival
13 GIUGNO
Ippodromo delle Capannelle, Roma,
Rock in Roma
27 GIUGNO
Collegno (To), Flowers Festival
28 GIUGNO
Barton Park, Perugia, Moon in June
4 LUGLIO
Villa Bellini, Catania, Summer Fest
12 LUGLIO
Villa Ca’ Cornaro, Romano
d’Ezzelino (Vi), Ama Festival
21 LUGLIO
Servigliano (Fm), NoSound Fest
26 LUGLIO
Parco Mediceo di Pratolino, Firenze,
Musart Festival
3 AGOSTO
Anfiteatro Ivan Graziani di Alghero,
Festival Abbabula
9 AGOSTO
a Melpignano (Le), SEI Festival
NOFX FINAL TOUR
11 E 12 MAGGIO
Carroponte, Milano
club e locali
Joshua Blues Club
Albate, Como
Lombardia
SCUMM
Pescara
Abruzzo
Drunk in public
Trodica (Mc)
Marche
Devil Kiss
Olbia
Sardegna
Roxanne
Palermo
Sicilia
mostre
When The Kids Were United
DAL 21 MARZO
mostra fotografica a cura di
Gavin Watson sulla scena skinhead
e punk di Londra negli anni ottanta
Spazio Maiocchi, Milano
IDLES
23 GIUGNO
Parco Nord Stadio Euganeo,
Padova, Sherwood Festival
29 giugno Parco Certosa Reale,
Collegno (To), Flowers Festival
137/ZONE/liste
DRUNK IN PUBLIC
Drunk in public è l’anagramma di Punk in
Drublic uno dei più famosi album dei NOFX.
Jon Tanfo è l’oste di questo live club racchiuso
tra le colline marchigiane del maceratese
e, come nella migliore tradizione punk,
è anche componente di una band chiamata
Farmacia Comunale.
Il locale è ispirato al fu Rock Away di Henry
Ruggeri e del fotografo mostra un’intera
parete di mitologici scatti. Il primo ad esibirsi
sul palco è stato Roberto Freak Antoni degli
Skiantos e di seguito la lista è lunga. Il club dà
largo spazio ai nuovi gruppi che propongono
inediti ed è rigorosamente no tribut band! MS
138/ZONE/ripostigli
FUGAZI
Alla fine degli anni ottanta nella città in cui vivevo
si riuniva in centro un gruppo di skaters, spesso
dopo cena: roba piuttosto alternativa ai tempi per
una cittadina di provincia. Fu grazie a conoscenze
legate a quell’ambiente che feci il primo incontro con
l’hardcore americano.
I Fugazi, con le loro sonorità ipnotiche, furono una
folgorazione – un mondo del tutto nuovo per le mie
orecchie nutrite a heavy metal – e ancora oggi mi
sorprendo a canticchiare estemporaneamente “I am
a patient boy / I wait, I wait, I wait, I wait”, alcuni
versi tratti dal loro primo EP (poi confluito, assieme
al secondo, nell’album 13 Songs).
Il 19 novembre 1988 suonarono al centro sociale
Leoncavallo a Milano e, con grande rammarico, me li
persi (sul sito della casa discografica Dischord quella
data è elencata tra le tante dei loro tour, registrata
ma purtroppo non disponibile). Ricordo che alcuni di
quel gruppo di skaters, che tuttavia non frequentavo
direttamente, andarono qualche giorno prima a
sentirli in Svizzera: una trasferta che nella mia mente
di adolescente è entrata nel mito. AP
139/ZONE/ripostigli
“Sid non ha molti vestiti, nessuno di noi ne ha a sufficienza
per farsi vedere in giro, nessun negozio vende abiti che ci
piacciono a parte Sex, ma è così caro che abbiamo comprato
solo una o due cose. Sid ha due paia di pantaloni:
dei jeans bucati e sbiaditi e un paio di lana rossi con un filo
lurex e le pinces, molto ampi sui fianchi e stretti alle caviglie.
Li indossa con le Brothel creeper, un po’ David Bowie
e un po’ anni cinquanta. Alcuni ragazzi adottano ancora
questo look, a volte si vestono così anche Malcom McLaren
e Johnny Rotten. E’ uno strascico di To Fast To Live To
Young To Die, il negozio di abiti teddy boy che Malcolm e
Vivienne Westwood avevano prima di Sex. Io non ci sono
mai andata, all’epoca non lo conoscevo.
Un giorno Sid si presenta con i pantaloni a pinces tagliati
a strisce. Li ha presi a rasoiate perché li detestava, ma poi
non è riuscito a trovare i jeans, così per uscire ha dovuto
ricucirli. Ha riattaccato le strisce con le spille da balia lungo
tutte le gambe, ne ha usate centinaia. Fu così che si
diffuse la moda delle spille da balia tra i giovani nei club:
copiando Sid, che l’aveva fatto solo perché non gli andava
di perdere tempo a ricucire i pantaloni.”
“Avevo sempre pensato che le circostanze della mia vita
– povera, di Londra Nord, scuola pubblica, casa popolare,
femmina – non mi avessero equipaggiata per il successo.
Mentre guardo i Sex Pistols, capisco che per la prima volta
non ci sono barriere tra me e il gruppo. Le idee che mi
ronzano nella testa da anni improvvisamente si fanno nitide
e pressanti.”
VIV ALBERTINE, VESTITI MUSICA RAGAZZI
“Era la gloriosa rinascita del singolo da due minuti. Basta assoli di
chitarra. I concept albums erano finiti. I Mellotron? Verboten. Erano
gli albori del punk o, nell’azzeccata definizione di Tony Parsons, del
rock da sussidio di disoccupazione. E cominciava ad attecchire perfino
tra i miei compagni di scuola della classe media.”
JONATHAN COE, LA BANDA DEI BROCCHI
UN GIORNO UN RA-
GAZZO MI CHIESE
COSA FOSSE IL
PUNK, ALLORA IO
DIEDI UN CALCIO A
UN BIDONE E DISSI:
“QUESTO È PUNK”.
E ALLORA LUI FECE
LA STESSA COSA E
MI CHIESE: “QUE-
STO È PUNK?”; E IO
RISPOSI: “NO, QUE-
STA È SOLO IMITA-
ZIONE...”.
Billy Joe
Armstrong