22.03.2024 Views

STANZE_03_24_PUNK

Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale

Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

STANZE

ascolti

forme

fotogrammi

ombre

pagine

palchi

visioni

zone

03/24

PUN K!


IN COPERTINA E IN QUARTA DI COPERTINA

FOTO DI HENRY RUGGERI

AMYL AND THE SNIFFERS,

SZIGET FESTIVAL, BUDAPEST


EDITORIALE

SOPRA LE RIGHE

Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini

Un numero a briglia sciolta. Per fare il pieno di energia, per ritrovare il

coraggio. Di essere noi stessi, di sentirci in diritto di esprimerci, di eliminare

dalle nostre vite tutto il materialismo superfluo e tornare a fare da soli, di

recuperare anche quel politicamente scorretto che stiamo bandendo da ogni

area in nome di parità, inclusività, uniformità, mentre invece rimarchiamo ad

ogni passo che la diversità è una cosa brutta, che tutto deve essere

normalizzato. No. A noi piacciono gli scivoloni, ci piace avere una calza

smagliata, dire ogni tanto una parola scomoda, arrabbiarci e puntare i piedi

per rivendicare un'identità fuori dal coro ma impetuosa e colorata. Di nero,

di fucsia, di stampa scozzese. Ci piace usare il flash anche se è vietato,

buttarci nell'abbraccio di migliaia di mani alzate nella notte, sentire la musica

ad alto volume; mettere le scarpe da ginnastica col vestito da sera e andare

ai matrimoni in jeans; tenere sempre un libro nella borsa, una penna nella

tasca, una canzone nella testa; leggere Roald Dahl con le parole originali e

vedere il lupo di Cappuccetto Rosso morire ammazzato alla fine della storia;

fare troppo tardi la sera, svegliarci presto e prendere un caffè davanti alla

scuola dei figli con gli occhi molto truccati di blu. Tremare per un non so. Ci

piace creare dal nulla una rivista e metterci dentro interessi e cultura, farla

parlare per noi, diffondere la bellezza e la conoscenza con serietà e

divertimento, con una spinta che è decisamente punk, DIY e rock'n'roll! Qui

non si parla di equilibrio, di correttezza, non si avvalorano cause, non si

appartiene a movimenti. Qui c'è una sola grande tribù, quella degli esseri

umani, che possono essere meravigliosamente individualisti senza per

questo remare contro leggi universali; qui c'è il rispetto per le esistenze e i

pensieri altrui, ma anche per il silenzio, che è fortemente sottovalutato da

una società di sproloquianti opinionisti. Qui c'è il suono sparato a 1000

decibel, l'immagine a tutta pagina, la ricerca del filo che collega il passato al

presente, la voglia di recuperare valori tangibili, l'energia della giovinezza, la

libertà di essere eccentrici. E da questo numero, il primo del terzo anno di

Stanze, ci sono anche i ripostigli: stanzette, armadi, sottoscala, piccoli

ambienti dove scrivere molto brevemente di qualcosa da tenere in serbo,

post it che vi suggeriscono un film, una lettura, un personaggio, una

fotografia, un evento, un luogo, una canzone, un album, un'opera, una

mostra... Girate la manopola, scioglietevi i capelli, andate a scatenarvi.

3/EDITORIALE


Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata

in Storia e Conservazione dei Beni Culturali

con indirizzo Storico Artistico e diplomata

in Antropologia dell’arte ad un master

dell’Accademia di Belle Arti. Autrice di testi critici

per mostre temporanee e cataloghi ragionati

di artisti nazionali ed internazionali (pubblicazioni

Il Centofiorini, Skira, La Colomba, Pagine d’Arte).

Divoratrice di libri e film, pazza per la musica,

mamma di due bambini. La scrittura creativa si

accompagna da sempre a quella critica, come

momento di riflessione, occasione di ritrovamento,

lascito di una traccia. Interessata a trovare

connessioni e sinergie tra le forme espressive,

fino ad una sintesi di parole, immagini e suoni

che non ha confini.

Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici

nel 1978 alle porte di Milano Nord, cresciuta

disegnando prima e impaginando poi,

Paola Ranzini Pallavicini è un’appassionata e tenace

grafica editoriale, che ha instaurato dagli anni

Novanta solide collaborazioni con le più prestigiose

redazioni di mezza Milano specializzandosi

in pubblicazioni di architettura, urbanistica, design,

arte, fotografia, saggistica. Un curioso decennio

è volato tra le altre cose affiancando gli architetti

della EPFL di Losanna nel dare una veste calzante

a ricerche di respiro internazionale. Grazie

alla pandemia e ad alcune interessanti ragazze

ha ripreso in mano prima la matita, poi la penna,

per condividere con chi vorrà tutti i mondi che

popolano la sua testa irrequieta.

redazione–stanze

Redazione Stanze

redazionestanze.blogspot.com

IN REDAZIONE

Andrea Anconetani

incertipercorsi.eu

Nicola Guida

nicolaguida.wixsite.com/photography

Alessandro Pertosa

www.alessandropertosa.it

Alessandro Prandoni

theprandons.wixsite.com/blog

Paola Ricci

www.paolaricci.com/index.html

Chiara Riva

instagram.com/chiarariva80

Henry Ruggeri

www.henryruggeri.net

Massimo Valentini

linktr.ee/massimovalentini

CONTRIBUTI FOTOGRAFICI

Livia Ranzini Pallavicini

https://www.instagram.com/livihouse/

Marcello Francone

facebook.com/marcello.francone.5

NUMERI PRECEDENTI

Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)

Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)

Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)

Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)

Stanze 03/23 Kids (sabato 11/ 03/2023)

Stanze 06/23 Labirinto (sabato 17/ 06/2023)

Stanze 09/23 Uomo (sabato 23/ 09/2023)

Stanze 12/23 Interni (sabato 23/12/2023)

4/redazione stanze


«Ogni settimana compro New Musical Express. Lo trovo

difficile da leggere perché i giornalisti usano parole molto

lunghe, ma non è un impegno noioso perché mi interessa

quello che scrivono. Un giorno leggo una breve recensione

su una cantante di nome Patti Smith. C’è la sua foto:

è la copertina di Horses, il suo album che sta per uscire,

ed è uno scatto in bianco e nero di Robert Mapplethorpe.

Non ho mai visto una ragazza come lei. È il ritratto della mia

anima, è tutte le cose che nascondo dentro di me e che

non riescono a emergere. Sembra spontanea, sicura di sé,

sexy e con una personalità. Non voglio vestirmi come lei

e copiare il suo stile: lei mi dà una sicurezza che mi

incoraggia a esprimermi a modo mio.

Il giorno in cui esce l’album – ho un po’ di ansia che

la musica non sia all’altezza di quello che quell’audace

copertina sembra promettere – non vado a scuola

e prendo l’autobus per andare da HMV a Oxford Street,

vedo Mick Jones che si aggira davanti al negozio.

«Che ci fai qui?» gli chiedo.

«Sono venuto a comprare il disco di Patti Smith.»

Corro a casa e metto su il vinile. Parte con un flusso

di coscienza, si getta a capofitto nella poesia e si dissolve

nel sesso.

La struttura delle canzoni è originale, non copia modelli

vecchi: è un misto di improvvisazione, paesaggi, groove,

strofe e ritornelli. Patti Smith è una persona riservata

che osa lasciarsi andare davanti a tutti, si espone e rischia

di cadere lunga a faccia in giù. Finora le ragazze si sono

sempre trattenute, frenate, invece lei si abbandona.

Il suo disco trasforma in suono parti di me con cui non sono

mai riuscita a entrare in contatto e che fino a quel momento

non avevo mai verbalizzato né visualizzato. Ascoltare

Horses sblocca un’idea che ho già dentro di me: le ragazze

possono avere una sessualità alle condizioni che decidono

loro, per il proprio piacere o lavoro creativo, non solo

per trarne vantaggio o conquistare un uomo. (…)

Patti Smith è apertamente sessuale: sentire come costruisce

un crescendo orgasmico mentre guida il suo gruppo

è molto eccitante. È un’emancipazione. Se riesco a prendere

un quarto, o perfino un ottavo di quello che ha lei,

e a fregarmene di fare la figura della scema, forse

sono ancora in tempo a dare un senso alla mia vita.»

VIV ALBERTINE, VESTITI MUSICA RAGAZZI


so

mm

ar

io

03/24

PUN K!


2

3

4

10

17

18

45

46

53

56

63

64

65

66

76

80

86

95

96

106

113

115

118

133

135

137

138

139

In copertina

Editoriale

Redazione Stanze

Tra punk e hardcore: due (possibili) visioni

del mondo in due album

ALESSANDRO PRANDONI

ripostigli/The Slits (MS)

Nessuna distanza

MARTA SILENZI CON HENRY RUGGERI

ripostigli/Pissed Jeans (AP)

Grafica Punk

PAOLA RANZINI PALLAVICINI

ripostigli/Graziano Origa (MS)

Martin e Jordan: la smania del lupo

PAOLA RANZINI PALLAVICINI

ripostigli/Naître Est Une Opportunité

Unique (PRP)

ripostigli/Guida romantica a posti perduti

(MS)

ripostigli/Juliette (MS)

Terry Richardson

NICOLA GUIDA

note/Il metodo Terry

NICOLA GUIDA

note/Punk-zine

MARTA SILENZI

Sesso, droga e punk: "Una sigaretta accesa

al contrario"

CHIARA RIVA

ripostigli/L’astragalo di Albertine Sarrazine

(MS)

note/collage #1 #2 #3 #4 #5

note/L'oblio è all'origine delle parole

PAOLA RICCI

ripostigli/Non escludevamo il ritorno (NG)

Underground. Riflessioni sul sotto e sul sopra

ANDREA ANCONETANI

ALESSANDRO PERTOSA

Tartan

MARTA SILENZI

ripostigli/Vivienne Westwood (MS)

ripostigli/Viv Albertine (MS)

#liste

ripostigli/Drunk in Public (MS)

ripostigli/Fugazi (AP)

ascolti

forme

fotogrammi

ombre

pagine

palchi

visioni

zone


“Salta e la rete apparirà”

JOHN BURROUGHS

“Cerco il punk in una lametta,

la felicità ed il dolore

nel fumo di una sigaretta.”

RINO GAETANO

“La nota sbagliata non esiste”

ART TATUM


“Perché il punk è soprattutto

un profumo: il cotone

delle magliette stampate,

il camoscio delle creepers,

il connubio pelle/rossetto

che rimbalza sulle imitazioni

di Schott e Lewis Leathers

anche dei maschi.

E come titoli di coda

prima ancora della musica,

l’impossibile effluvio dolce

che sgorga da un album

d’importazione

quando togli il cellophane

con l’unghia.”

GLEZÖS


Tra punk e hardcore:

due (possibili) visioni

del mondo in due album


ALESSANDRO PRANDONI

A MO’ DI PREMESSA

Genere musicale, stile di vita, o piuttosto le due cose assieme, è innegabile

che il punk, a partire dal momento della sua piena e classica affermazione

(il biennio 1977-1978) e nelle diramazioni che lo hanno contraddistinto

fino agli anni novanta, abbia trovato terreno fertile presso le giovani generazioni,

dando voce al loro malcontento e offrendo una prospettiva – assieme

musicale ed esistenziale – nuova e vivificante.

Per spirito di semplificazione, punk e dintorni si possono disporre entro

due grosse categorie: il versante distruttivo e nichilista (di cui il “no future”

dei Sex Pistols è lo slogan) e quello più costruttivo incarnato da tanti gruppi

hardcore americani (i Minor Threat ne sono l’esempio paradigmatico).

Cos’è il punk? Dove inizia e dove finisce esattamente? È il solo biennio

londinese oppure prosegue nelle derive di cui quella brevissima stagione

è stata feconda?

“Spesso politicizzato e pieno di energia vitale sotto una facciata sarcastica

e ostile, il punk si è diffuso come ideologia e approccio estetico, diventando

un archetipo della ribellione e dell’alienazione adolescenziale” 1 . Ecco

una prima definizione, che tuttavia – pur filologicamente e storicamente

ineccepibile – tralascia un altro livello di lettura, ovvero la prospettiva di chi

lo vive come occasione costruttiva, possibilità di espressione sebbene – o

forse proprio perché – al di fuori di qualsiasi regola imposta 2 . “Per me il

punk è sempre stato uno spazio libero” 3 . Ecco una seconda definizione.

PRIMI FERMENTI: DA DETROIT A NEW YORK

“Se come fenomeno underground il punk ha cominciato a svilupparsi, soprattutto

a New York, già tra il 1974 e il 1975, è solo nel gennaio 1976, in

coincidenza con la pubblicazione del primo numero della rivista/fanzine

‘Punk’, che il movimento ottiene il suo riconoscimento pubblico e ufficiale” 4 .

Negli anni sessanta band come Stooges e MC5 a Detroit “avevano ricondotto

le coordinate del rock alla sua brutale ed essenziale purezza” 5 , mentre

la Grande Mela partecipava di questo clima musicale grazie ai (o alle)

New York Dolls. Le “bambole” si sciolsero nel 1975, ma la loro attitudine

aveva trovato in quello stesso anno una nuova incarnazione in “quattro

teppistelli” che “attaccano gli amplificatori a ogni presa di corrente disponibile

a Manhattan” 6 : sono i Ramones, che nel 1976 registrano il loro omonimo

debutto discografico.

11/ASCOLTI


IL BIENNIO 1977-1978: LONDRA

La scena si sposta a Londra quando Malcolm McLaren – reduce dalla fallimentare

esperienza statunitense come manager dei New York Dolls – dà

vita, nello stesso anno in cui si sciolse il gruppo newyorchese, ai Sex Pistols 7 .

Il loro unico album in studio (Never Mind the Bollocks. Here’s the Sex Pistols,

1977) “finisce per diventare il disco punk rock per eccellenza” 8 , ancora oggi

dotato di un’energia notevole.

È un disco estremamente diretto, capace di veicolare sotto la sua massa

sonora potenti messaggi di riflessione sociale (Bodies, per esempio) o

“antiestablishment” (Anarchy in the UK 9 o la dissacrante God Save the

Queen 10 sono veri e propri manifesti).

I Sex Pistols si sciolgono agli inizi del 1979, dopo che già l’anno precedente

Johnny Rotten (al secolo John Lydon) aveva abbandonato il gruppo per

percorrere altre strade 11 .

DERIVE AMERICANE: WASHINGTON DC

Tra gli anni settanta e ottanta si sviluppa negli Stati Uniti, soprattutto nelle

scene locali di Los Angeles, Washington DC, Chicago, New York, una nuova

declinazione del punk che prende il nome di “hardcore”. I gruppi che ne

fanno parte – in pieno accordo con lo spirito antisistema tipico del punk –

esprimono un approccio squisitamente DIY, caratterizzato da produzioni

economiche e una promozione basata su fanzine e poster.

Tra i maggiori rappresentanti del genere, sia musicalmente che per attitudine,

sono indubbiamente i Minor Threat: fondati da Ian MacKaye, che ne

fu il cantante, ebbero – a dispetto della breve durata della loro esperienza

musicale (1980-1983) – una grande influenza sulla scena hardcore americana

12 . È del 1983 il loro unico album full-length (Out of Step).

I Minor Threat si caratterizzano per uno stile di vita improntato alla moderazione

e a una sorta di disciplina esistenziale 13 . Non si tratta – contrariamente

al fraintendimento in cui molti seguaci cadono – di un “movimento” 14

(nemmeno esiste un manifesto), ma di una scelta del tutto personale, come

indica quel pronome “io” messo tra parentesi a introdurre i primi tre versi

del brano Out of Step 15 . È una pura dichiarazione di vita, quindi, che trova

emblematicamente eco nella copertina del disco, con la pecora nera che

– pensando con la propria testa – corre in direzione contraria al gregge 16 .

In questa declinazione del punk, “to rebel […] was to keep your mind clear

and your body free of the poisons that cloud judgement and dull inspiration”

17 .

A PROPOSITO DI MUSICA

Al di là degli aspetti sociali, politici, culturali, il punk era e resta innanzitutto

un genere musicale con una sua peculiare identità. A differenza del

mainstream cui si contrapponeva – e in maniera emblematica rispetto al

filone del rock progressivo di metà anni settanta, che invece esaltava una

costruzione sonora elaborata – il punk affonda le radici in “un atteggiamento

nei confronti dell’esibizione musicale che enfatizzava spontaneità

e ripetizione a spese del virtuosismo musicale” 18 . In virtù di questo atteggiamento,

il punk assume una carica esplosiva sconosciuta ad altri generi

– comprese altre declinazioni dell’universo rock – e definisce un’esperienza

allo stesso tempo “primitiva” e “innovativa” 19 .

12/ASCOLTI


Out of Step nella ristampa del 2023 su vinile bianco 45 rpm, che riproduce il remaster condotto da Chad Clark negli studi Silver Sonya nel 2008

13/ASCOLTI


Never Mind the Bollocks. Here’s the Sex Pistols nella ristampa americana del 2008 su vinile 180 grammi per la Rhino/Warner, completa di inserto

14/PAGINE


Da un punto di vista strettamente musicale, il punk è efficacemente caratterizzato

dall’assenza (o comunque da un deciso smorzamento) del ritmo

sincopato, un aspetto del quale l’ascoltatore fa immediatamente esperienza

sotto forma di quell’urgenza che si esprime contemporaneamente nella

breve durata temporale e nell’incisività del messaggio 20 e da cui discende

la capacità di avvolgere e pervadere l’ascoltatore con un carattere di

assolutezza che non è messo in discussione per l’intera durata dell’ascolto 21 .

1

https://www.britannica.com/art/punk.

2

L’assenza di regole imposte non significa tout court

– almeno non necessariamente – assenza di regole o

di engagement.

3

Ian MacKaye, in G. Kuhn, Straight Edge. Storie, filosofia

e racconti dalla scena hardcore punk, ShaKe, Milano

2011, p. 26.

4

100 dischi ideali per capire il punk, a cura di S. Gilardino,

Editori Riuniti, Roma 2005, p. 12.

5

Ibidem.

6

Ivi, p. 16.

7

“Stavo cercando di fare con i Sex Pistols quello che

non mi era riuscito con i New York Dolls” (Malcolm

McLaren, in L. McNeil, G. McCain, Please Kill Me. Il punk

nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai,

Milano 2006, p. 356).

8

100 dischi ideali per capire il punk, cit., p. 55.

9

“The fierce anti-establishment message that runs

through the veins of the single is infectious and helped

make the Sex Pistols the voice of the rebellious young

in Britain who were fed up of living within the confinements

of the system” (J. Taysom, The Story Behind The

Song: The Sex Pistols’ fiercely rebellious ‘Anarchy in

the UK’, in “Far Out Magazine”: https://faroutmagazine.

co.uk/sex-pistols-anarchy-in-the-uk-song-meaning/).

10

Talmente dissacrante da minare, secondo alcuni, i

fondamenti stessi della civiltà: cfr. K. Fournier, The

song that had one British politician wishing for the Sex

Pistols’ ‘sudden death’, in “The Conversation” (https://

theconversation.com/the-song-that-had-one-british-

politician-wishing-for-the-sex-pistols-sudden-death-

77767).

11

Di li a pochissimo Lydon fonderà il gruppo post punk

Public Image Ltd.

12

“[…] oltre a essere dannatamente coinvolgenti, quei

pochi accordi e quelle parole urlate con enfasi erano

veri e propri manifesti di pensiero con i quali tutto

l’hardcore fu obbligato a fare i conti” (F. Guglielmi,

Punk e hardcore, Giunti, Firenze 1999, p. 87). MacKaye

darà successivamente vita ai Fugazi, altra formazione

imprescindibile della scena di Washington DC.

15

(I) Don’t smoke / Don’t drink / Don’t fuck / At least I

can fucking think (cfr. ivi, p. 30).

16

“I think that the idea of straight edge, the song that

I wrote, and the way people have related it, there’s

some people who have abused it, they’ve allowed their

fundamentalism to interfere with the real message,

which in my mind, was that people should be allowed

to live their lives the way they want to” (Ian MacKaye

intervistato da Matt: https://www.scenepointblank.

com/features/interviews/ian-mackaye/).

17

D. McLaughlin, Minor Threat’s Out Of Step: the bitter,

brilliant eulogy for youthful idealism which defined

hardcore punk as a force for good, in “Louder”

(https://www.loudersound.com/features/minor-threatout-of-step-hardcore-punk-as-a-force-for-good).

18

D. Laing, Il punk. Storia di una sottocultura rock, EDT,

Torino 1991, p. 23.

19

Cfr. ivi, p. 83.

20

“Il tempo rapido, in combinazione con la tendenza

anti-sincope di molte canzoni punk, sosteneva la connotazione

di urgenza d’espressione evocata dai modi

vocali declamatori e dai testi” (ivi, p. 85).

21

“Ogni buon disco punk […] ti può persuadere che è

la cosa più fantastica che tu abbia mai sentito perché

ti convince che tu non dovrai mai ascoltare nient’altro

finché vivi: ogni disco sembra dire tutto ciò che c’è da

dire” (G. Marcus, Tracce di rossetto. Percorsi segreti

nella cultura del Novecento dal dada ai Sex Pistols,

Odoya, Bologna 2010, p. 78).

13

È il cosiddetto “straight edge”, che prevede l’astinenza

da alcol, droghe e in genere da qualunque eccesso.

14

“Non ho mai considerato lo straight edge un movimento

e non mi sono mai visto parte di esso. […] Il

problema con i movimenti è che mettono certe persone

nella condizione di eletti mentre agli altri sono riservati

i posti di seconda fila” (Ian MacKaye, in G. Kuhn,

Straight Edge…, cit., p. 33).

15/ASCOLTI


Fumo negli occhi

©Livia Ranzini Pallavicini

16/PAGINE


THE SLITS

Londra 1977. Viv, Ari, Tessa, Palmolive. Primo

gruppo della storia tutto al femminile. Puro punk.

Non sanno suonare. La cantante tedesca ha 15

anni. Stile e creatività animalesca, schietta e leale.

Tribali, percussive, bellicose, istintive. Cercano e

trovano i loro suoni, colgono l’attrazione punk per

il reggae e ci costruiscono sopra Cut. Sfacciate,

insolenti, femmine sin dalla copertina. Tour caotici,

diastrosi, entusiasmanti. Nel secondo album,

Return of the giant slits, ancora più sperimentale,

entra in scena anche Neneh Cherry che con la

sua aura materna completa una sorta di gamma

emotiva femminea. Poi il vento musicale inizia

a soffiare in un’altra direzione, un’overdose, una

gravidanza e le Slits fanno l’ultimo concerto nel

1981. Ci saranno le New Slits e qualche concerto di

reunion ma non sarà più la stessa cosa. MS

17/ASCOLTI/ripostigli


NeSSUNa

dISTANzA


MARTA SILENZI CON HENRY RUGGERI

Frank Carter, Sziget

Festival, Budapest

© Henry Ruggeri

Il punk di ieri e di oggi ti butta in mezzo. Il pubblico sul palco e gli artisti tra

il pubblico. In libera anarchia, in massima simbiosi. L’esperienza è totale.

Ci sono regole indicative e poi c’è la sovversione, c’è la dissidenza,

c’è l’infischiarsene delle regole, c’è il qui e l’ora e l’energia spinta al massimo,

c’è la voglia di dire, c’è l’azzeramento e c’è la massimizzazione, la

musica sparata forte, il look come forma espressiva, le lingue di fuori, gli

occhi allucinati, migliaia di mani, lattine di birra, bicchieri, sigarette, braccialetti,

cellulari.

C’è il flash, che di solito un fotografo non usa ma che qui funziona,

perché gli scatti sono già pensati in bianco e nero, perché anche l’idea è

punk, perché il fotografo in questione non si pensa come fotografo ma

come artista, preso in mezzo al chiasso, alla bellezza, all’adrenalina che ci

mette giorni poi a scemare.

Scivoliamo via dai ricordi dei Ramones, dei Clash, dei Sex Pistols, Disorder,

Generation X, Alternative Tv, Dickies, Joy Division, Luckers ecc ecc. Scivoliamo

via anche dalle Slits e Patti Smith, dagli MC5 e gli Stooges. Scivoliamo

via ma non troppo perché nulla accade per caso e nulla si perde per

strada, tutto resta a nutrire quello che è destinato a venire dopo, in eterna

e sana trasformazione. Arriviamo ad oggi, con alcuni di questi gruppi ancora

attivi, con i Green Day, i Rancid, i Sum 41 tenendo conto di tutte le

contaminazioni del caso.

Di più, arriviamo a tre band attualissime, a questo nuovissimo punk

che dal vivo ha un impatto potente, prendiamo i biglietti e caliamoci nell’atmosfera

evocata da Amyl and The Sniffers, Idles e Frank Carter & The

Rattlesnakes. Facciamolo insieme a chi a questi concerti ci va con una

Canon R6 mirrorless e con l’obiettivo mette in luce quello che noi ci perdiamo,

quello che noi non vediamo, cogliendo veloce l’attimo, anticipandolo

a volte, quando l’istinto lo suggerisce, di solito senza fallire. Dalle foto

poi esce fuori la musica, l’energia, il frastuono, il sudore, le grida, suoni e

movimenti di notti che stordiscono e defibrillano, ci riportano alla vita o ci

lasciano morti, ma solo per un po’.

Le scene musicali sono diverse, Melbourne, Bristol, Londra, ma oggi loro

sono il punk.

HR: “Sono tre gruppi che si buttano sul pubblico. Subito, già dal

primo pezzo. Sono un tutt’uno con la gente, che li ama per questo. Creano

empatia e non si risparmiano. Alla fine del concerto sono sfiniti ed è

sempre così, sera dopo sera”.

19/ASCOLTI


Amyl and The Sniffers,

Sziget Festival, Budapest

© Henry Ruggeri

20/FORME


21/FORME


Amyl and The Sniffers è un gruppo australiano, con un paio di album

all’attivo nati a ridosso della pandemia, una forte presenza scenica e un

suono svelto very tough. Amyl Taylor a prima vista è un incrocio tra Courtney

Love e Gwen Stefani ma a guardarla bene, a vederla su un palco, a

sentirla cantare è magnificamente se stessa, nuova, non paragonabile, piena

di furia da spargere.

Le canzoni sono testate dal vivo prima che in studio, i riff sono taglienti,

il gergo da strada, il vestiario glitter trash; lo sguardo dei testi punta

alle difficoltà quotidiane e l’atteggiamento in scena è giocosamente

rissoso, iperattivo, da piantagrane eppure sempre divertente e coinvolgente.

Il background punk è innegabile, è stato fumato, iniettato in vena e pure

sniffato, insieme a tanto altro certo, ma è lì lampante, nelle schiene dritte

e negli assalti al microfono, nelle origini povere, nell’umiltà senza altra pretesa

che esprimere se stessi a modo proprio, nel rapporto fisico col pubblico

soprattutto, crowd surfing compreso.

HR: “Amyl and The Sniffer non li conosco personalmente. Sul palco

sono molto energici. Mi piace che siano seguiti da un loro fotografo, un

ragazzino che usa il flash e basta – che normalmente è vietato – così l’ho

usato pure io senza farmi problemi. E fanno tutte queste locandine tipo

fanzine, molto punk. Su disco li ascolto poco, ma dal vivo sono clamorosi.

Dal vivo non si può rinunciare a questi gruppi”

Guided by angels

But they’re not heavenly

They’re on my body

And they guide me heavenly

The angels guide me heavenly, heavenly

Energy, good energy and bad energy

I’ve got plenty of energy

It’s my currency

I spend, protect my energy, currency

I travelled and what did I see?

I see I don’t like misery

It passes through my body

I never hold on to the misery or grief

Angels on my body

But they’re not heavenly

And they pray for forgiveness

Never give it, I never want it

I always carry on heavenly, energy—fuck!

(GUIDED BY ANGELS, AMYL AND THE SNIFFERS)

22/ASCOLTI


23/ASCOLTI

Amyl and The Sniffers,

Sziget Festival, Budapest

© Henry Ruggeri


24/PAGINE


25/ASCOLTI

Amyl and The Sniffers,

Sziget Festival,

Budapest

© Henry Ruggeri


Amyl and The Sniffers,

Sziget Festival, Budapest

© Henry Ruggeri

26/PAGINE


27/ASCOLTI


Amyl and The Sniffers,

Sziget Festival, Budapest

© Henry Ruggeri

28/PAGINE


29/PAGINE


Idles, Parco della Musica,

Padova

Anche gli Idles emergono a cavallo della pandemia, con un po’ più di

scarto ma i primi quattro album vanno dal 2017 al 2021. Poi c’è Tangk, uscito

da poco, nuovissimo, sintomo di una costante avanzata e trasformazione.

La band nasce da un luogo, The batcave, un locale di cui il cantante Joe

Talbot e il bassista Adam Devonshire sono proprietari e gestori a Bristol.

Bristol che resta l’unica scena possibile finché la madre di Talbot, malata,

non muore.

HR: “Gli Idles fanno il circuito di Bristol per molti anni. Si fanno conoscere,

diventano importanti, ma la madre di Talbot si ammala appena

va in pensione, dopo anni di lavoro in fabbrica, e il ragazzo non la lascia,

si prende cura di lei fino alla fine. Alla sua morte scrivono Mother e distribuiscono

cento pezzi dell’album con le ceneri di questa donna sul vinile.”

Tutta la frustrazione, la rabbia, il dolore finiscono in Mother, con questa

bellissima foto, nel video, che campeggia dietro una lunga tavola piena

di cianfrusaglie in ceramica e porcellana, le robe inutili che si accumulano

nella vita e che Talbot fa a pezzi una dopo l’altra, sputando frasi come

“my mother worked 17 hours 7 days a week,

the best way to scare a tory is to read and get rich”.

Una tendenza allo slogan in Brutalism, il primo album, che si sposa

bene con l’atmosfera innegabilmente punk non solo dello stile delle canzoni

ma anche dei contenuti: siamo in piena era Brexit ma potremmo

30/ASCOLTI


Idles, Rock en seine, Parigi

essere in quel ‘77 inglese in cui la vita vera, piccola, dei sobborghi si rivoltava

contro la monarchia e il governo, fabbriche e case coi centrini sulle

poltrone entravano nelle canzoni, povertà, malattia e famiglia intaccavano

le immagini dorate del Regno Unito, la musica era la via per esprimere se

stessi senza compromessi. Oggi come ieri, il punk è ancora questo, rinnovato

ed altrettanto potente.

HR: “Dopo la morte della madre di Talbot gli Idles sono esplosi. I

primi album sono aggressivi, liberatori. Il cantante si perde nelle droghe

e ci mette tempo a ripulirsi e combattere i propri demoni, ma le uscite

successive sono più positive, guardano a una redenzione, al divertimento.

Gli Idles sono clamorosamente gentili, disponibili, questo risalta in

contrasto con l’aspetto, col genere musicale, ma si legge nei testi.

Io non li conoscevo. Ho scritto al manager, l’ho raggiunto ed è venuto

fuori che lui invece conosceva il mio lavoro, così mi ha dato il pass

all areas e mi ha lasciato carta bianca. Il primo giorno ho fatto i ritratti

all’interno di questa serra e poi sono andato sul palco, con loro, senza il

bisogno di definire niente. Massima libertà. Alla data successiva eravamo

già amici.”

La gentilezza degli Idles si sente anche nell’ultimo album, in cui il brutalismo

si è addolcito, in cui si comprende che non c’è mancanza di potenza

nel mostrarsi gentili. Nel mostrarsi come si è, come si è diventati dopo tanta

strada, tante esperienze di vita vera, senza maschere né corazze mai.

La voce esplora, la musica risente della produzione di Nigel Godrich.

Il gruppo sale sempre più di livello.

31/ASCOLTI


Idles, Rock en seine, Parigi


33/ASCOLTI


Idles, Fake Fest,

Bellaria Igea Marina, Rimini

34/PAGINE


35/PAGINE


Lo scorso gennaio è uscito Dark Rainbow, il quinto album di Frank

Carter & The Rattlesnakes, band londinese esordita con Blossom nel 2015,

imponendosi subito tra la musica da ascoltare ad alto volume. Ritmica

massiccia, estetica curata, un bel po’ di follia e un contatto fisico col pubblico

cercato immediatamente, giù dal palco, tra la folla, una fiducia ripagata

ad ogni concerto.

HR: “Frank Carter, altro gentile. L’ho incontrato allo Sziget Festival

di Budapest. Nei posti piccoli fanno il delirio ma anche in quei contesti

non scherzano. Quando hanno aperto i concerti dei Foo Fighters avevano

questi grandi palchi, anche distanti dal pubblico, ma appena saliti in

scena, subito tra la gente, il contatto fisico è un bisogno immediato.

Ho avuto occasione di fargli dei ritratti e gli ho detto che mio figlio è un

suo grande fan, così mi ha detto di prendere il telefono e fargli un video

in cui lo salutava. Ecco, sono queste cose che azzerano le distanze.”

Le tematiche sono impegnate, invettive contro la politica, critica sociale

varia, alcolismo, machismo, eteronimia con largo uso di metafore: un

post-punk che fa ancora casino ma centra sempre più l’obiettivo dell’individualismo,

del pensiero critico, dell’espressione personale in un mondo

sciamico che tende costantemente a seguire la massa.

HR: “Nelle foto di Frank Carter in primo piano c’è la Dreher, la birra

che fanno lì a Budapest. Non la vendono all’interno del concerto perché

ci sono più tipologie di birra a prezzi alti, a 5-6 euro, allineati ai prezzi

dei festival europei, mentre fuori una lattina costa 1 euro circa e tutti le

portano da fuori. E questa è una cosa punk.”

36/PAGINE


Smash your TV

Burn the news

All they play is different ways

That we live and we lose

Frank Carter, Sziget

Festival, Budapest

© Henry Ruggeri

Smash your sadness

Go get a tattoo

We were born to win

Not born to lose

(GO GET A TATOO, FRANK CARTER & THE RATTLESNAKES)

37/PAGINE


Frank Carter, Sziget

Festival, Budapest

© Henry Ruggeri

HR: “Io non sono punk. Mai stato. Ma amo i gruppi punk: per me

tutto è iniziato con i Ramones, per seguirli, per vedere i loro concerti,

sono andato in tour con loro, ma non ho mai avuto l’estetica punk. A me

piace la comodità, la pulizia, però ho fatto un sacco di cose punk, dormito

nelle stazioni o all’aperto per risparmiare, mi sono arrangiato in ogni

modo per andare ai concerti e fare ciò che volevo. Queste esperienze

fatte ieri mi aiutano credo oggi a cogliere meglio l’atmosfera di queste

esibizioni, a canalizzare l’adrenalina, fare istintivamente e liberamente

lo scatto giusto.”

“IL FLASH PROVOCA RIFLESSI,

ACUISCE LA QUALITÀ DEI TESSUTI,

ILLUMINA IL PULVISCOLO:

SONO COSE CHE MI FANNO IMPAZZIRE.”

(HENRY RUGGERI)

38/ASCOLTI


HR: “Avevo il pass per Kendrick Lamar e avevo preso un biglietto

per mio figlio. Poi mi hanno tolto il pass per questioni interne e non volevo

mandare mio figlio da solo. I biglietti introvabili. Così siamo partiti,

arrivati a Verona, mille controlli. Mio figlio entra col biglietto, io mostro

il pass degli Idles AAAA, macchina fotografica in mano.

Where are you going?

I’ve a pass, I’m just working.

ARRANGIARSI, FARE DI TUTTO PER LA MU-

SICA, PER VEDERE UN CONCERTO. RISCHIA-

RE. QUESTO È PUNK.”

39/PAGINE


Frank Carter, Sziget

Festival, Budapest

© Henry Ruggeri

40/ASCOLTI


HENRY RUGGERI

Ha iniziato a “ritrarre la musica” nel

1988 spacciandosi fotografo professionista

per conoscere i suoi idoli: i Ramones.

Da quel giorno non ha più smesso.

Oggi è il fotografo ufficiale di Virgin

Radio e uno dei più seguiti fotografi

“live” della scena musicale italiana (oltre

160.000 followers nei suoi profili

social). Tra i gruppi fotografati troviamo

Pearl Jam, Foo Fighters, Rolling

Stones, Madonna, Guns n’Roses, Muse,

Ac/Dc, Ramones, REM, Kiss, U2 e mille

altri. Dal 2014 sta portando in giro per

l’Italia una raccolta di foto e memorabilia

che raccontano la sua carriera trentennale

passata nei pit degli eventi rock

più importanti avvenuti nel nostro paese.

Ad oggi le mostre fatte sono oltre

50 con esibizioni in città come Napoli,

Palermo, Roma, Cosenza, Treviso, Milano,

Bassano Del Grappa, Taranto, Londra

e Los Angeles.

41/ASCOLTI

www.henryruggeri.net/

www.instagram.com/henryruggeri/

www.facebook.com/henry.ruggeri66


La solitudine

©Livia Ranzini Pallavicini


(RIGHT ON) THRU

3:13

JENNIFER FINCH

SMELL THE MAGIC

L7

1990

Well I hate the rain when I drive

Right on thru

Cause the windows are broken on my 455

Right on thru

It don’t rain much but when it do

Right on thru

That dirty old rain comes right on thru

Right on thru

Through to you!

I had some pigeons livin’ on my ledge

Right on thru

Dirty winged rats living on the edge

Right on thru

I give ‘em a shot too

Right on thru

The pigeon shit seeps right on thru

Right on thru

Through to you!

Well you built your house made out of lead

Right on thru

It keeps out those things that you dread

Right on thru

It don’t matter where you hide

Right on thru

Because reality always crashes inside

Right on thru

Through to you!

Right on thru

Through to you!

FAST AND FRIGHTENING

2:37

SUZI GARDNER, DONITA SPARKS

SMELL THE MAGIC

L7

1990

Her glance hits me like lightning

I heard that girl is fast and frightening

Dirty hair and a laugh that’s mean

Her neighbors call her an evil machine

She’s fast, she’s lean

She’s frightening

She’s fast, she’s lean

She’s frightening

Popping wheelies on her motorbike

Straight girls wish they were dykes

She’ll do anything on a dare

Mom and daddy’s worst nightmare

She’s fast, she’s lean

She’s frightening

She’s fast, she’s lean

She’s frightening

Down at the creek smoking pot

She eats the roach so she don’t get caught

Throws her mini off in the halls

Got so much clit she don’t need no balls

She’s fast, she’s lean

She’s frightening

She’s fast, she’s lean

She’s frightening

She’s fast, she’s lean

She’s frightening

She’s fast, she’s lean

She’s frightening

STUCK HERE AGAIN

4:59

SUZI GARDNER, DONITA SPARKS

HUNGRY FOR STINK

L7

1994

I’m good at feeling bad

I’m even better at feeling worse

Some would say life is a charm

Well I’m convinced it is a curse

Yeah yeah I’m stuck here again

I’ve learned to make bad situations my friend

It starts all over just when it should end

Yeah yeah I’m stuck here again

Here comes that familiar pain again

I’m low down, I’m feeling ill

Yeah yeah I’m stuck here again

I wish there was someone I could kill

Yeah yeah I’m stuck here again

I’ve learned to make bad situations my friend

It starts all over just when it should end

Yeah yeah I’m stuck here again

Here comes that familiar pain again

I’m low down, I’m feeling ill

Stuck here again

I wish there was someone I could kill

Yeah yeah I’m stuck here again

I’ve learned to make bad situations my friend

It starts all over just when it should end

Yeah yeah I’m stuck here again

Yeah yeah I’m stuck here again (2x)

It starts all over just when it should end

Yeah yeah I’m stuck here again


44/PAGINE


PISSED JEANS

Il sesto album dei Pissed Jeans, band della

Pennsylvania, riporta musicalmente – e con

molto piacere – alla scena hardcore (con

qualche deviazione nel grunge) degli anni

ottanta/novanta. Sono diversi i nomi che si

affacciano alla mente: e non perché emulati,

ma per una sorta di naturale e irresistibile

associazione sonora.

Attraverso il suono potente e (molto) grezzo

di un hardcore venato di noise e per il tramite

di testi che oscillano tra il cattivo e il divertito,

Half Divorced dà voce al crescente senso

di incertezza che attanaglia la classe media

occidentale.

Una boccata d’aria in un mondo anestetizzato.

[Sub Pop Records, 2024] AP

45/ASCOLTI/ripostigli


GR

AF

ICA

PUN

K


PAOLA RANZINI PALLAVICINI

LA STORIA DELL’ESTETICA PUNK NON PUÒ

ESSERE RACCONTATA, MA SOLO MOSTRATA.

Johan Kugelberg

L’IDEA DI UN MOVIMENTO CHE SI

PROPONGA ATTRAVERSO LA CARTA,

CHE SI DIFFERENZI DA TUTTO QUANTO

VISTO IN PRECEDENZA, LIBERO E

PROVOCATORIO, HA FATTO DELL’EDITORIA

PUNK UN FENOMENO UNICO CHE ANCORA

OGGI APPASSIONA MOLTI COLLEZIONISTI

E AMANTI DEL GENERE.

Francesco Ciaponi

TANTO IMPRECISA, SPORCA,

COSCIENTEMENTE O INCOSCIENTEMENTE

“SBAGLIATA” ERA L’ESTETICA VISIVA

LEGATA AL PUNK, QUANTO POTENTE

È STATA — ED È ANCORA — LA SUA

INFLUENZA NEL CAMPO DELLA

COMUNICAZIONE E DELLA GRAFICA.

Simone Sbarbati

Attitudine punk

La fine degli anni settanta vide la nascita del movimento punk.

Il punk è stato definito da David Byrne un’attitudine, piuttosto che

uno stile musicale; di certo un’attitudine contraddistinta dalla rabbia, una

reazione istintiva a un mondo sbagliato, del quale rifiutare le storture.

Per le arti grafiche fu un periodo di vitalità dirompente, che gettò le

basi per un modo inedito di intendere la comunicazione visiva.

Nel calderone ribollente della cultura punk prese forma quello che

viene chiamato DIY (Fai da te), una modalità espressiva che si rifiutava di

seguire le logiche di sistema a favore di un metodo estremamente fresco

di autoprodurre, diffondere rapidamente, far esplodere concetti e sensazioni

molto forti, di cui oggi vediamo ancora gli effetti ma che ormai fanno

parte del mainstream, e hanno perso inevitabilmente quell’innocenza.

I primi effetti del DIY, i più immediati e fruibili, si manifestarono nella

moda, e risuonano ancora oggi, nella street art come sulle passerelle, assieme

47/FORME


ad ogni jeans strappato, ad ogni trucco smokey, ad ogni borchia, o ciuffo

cristallizzato nel gel.

Le arti grafiche, apparentemente “sottotraccia”, pervadono in realtà

il quotidiano in maniera tentacolare; la grafica legata al mondo della musica

vive dell’urgenza dettata dal voler diffondere e condividere un immaginario

ben preciso con quanti più possibile tra i nostri simili.

Fanzine

Il termine inglese fanzine nasce dalla contrazione delle parole fan (da

fanatic, appassionato) e magazine (rivista). Viene usato per la prima volta

negli anni Quaranta in riferimento ad una rivista amatoriale di fantascienza.

Così come la nascita di etichette indipendenti nasceva dall’esigenza

di autoprodurre album anche da parte di chi non aveva studiato musica né

possedeva uno studio di registrazione, ma solo un garage, allo stesso modo

tra gli amici e i fan di chi suonava c’era sempre un grafico improvvisato, che

non aveva studiato da grafico e che possedeva mezzi molto scarni, con la

volontà di mettere in piedi non solo le copertine dei dischi ma anche e

soprattutto le fanzine per poter diffondere notizie e concetti cari, non presenti

sui canali ufficiali.

Non grattacieli quindi, ma scantinati, non redazioni, ma sale prova e

garage. Certo non era sempre così: non mancavano professionisti che avevano

studiato nelle migliori scuole, e con cognizione di causa si stavano

preparando a fare parecchio trambusto, ma le due cose potevano a quei

tempi andare a braccetto e funzionare comunque splendidamente. Spesso

i componenti stessi delle band si occupavano della parte visiva.

IN PRATICA I LETTORI DELLA FANZINE SI DIVIDEVANO TRA COLORO A CUI,

SFOGLIANDOLA, S’ACCENDEVA LA SCINTILLA E FONDAVANO UNA BAND, E QUELLI

A CUI INVECE VENIVA VOGLIA DI METTERSI A FARE A LORO VOLTA

UNA FANZINE — E SPESSO I DUE IRRESISTIBILI IMPULSI ADDIRITTURA COINCIDEVANO.

Simone Sbarbati

Più avanti si arrivò alla diffusione di magliette, spille, toppe, una strada

che viene percorsa ancora oggi e lo sarà in futuro, anche se la rete e i

programmi di computer grafica hanno reso da decenni tutto estremamente

omologato, rapido, patinato.

Le mode sono comunque intessute di corsi e ricorsi, e ciclicamente

il DIY fa capolino. Negli ultimi tempi ha assunto un tono particolarmente

lezioso, semplificando si può affermare che dagli hipster in poi il “fatto a

mano” sia diventato un vezzo per consumatori di un certo livello culturale,

e in tanti casi una fregatura.

Nulla a che vedere con l’esplosione violenta ma affascinante del 1976

in Inghilterra.

Quello fu infatti l’anno di nascita della fanzine punk per eccellenza,

l’apripista, il mensile Sniffin’ Glue, nato dalla passione di Mark Perry, impiegato

in banca ma assiduo frequentatore della scena musicale di Londra.

Il nome deriva dalla canzone dei Ramones Now I Wanna Sniff Some

Glue. La rivista verrà pubblicata per due anni solamente ma con un’ascesa

vertiginosa, dalle cento alle quindicimila copie.

I testi uscivano da una banalissima macchina da scrivere di plastica

48/FORME


e venivano stampati e pinzati su A4 piegati a metà nella cartoleria del

quartiere, nel numero di copie che ci si poteva di volta in volta permettere

e poi distribuiti ai concerti (Punk letteralmente significa “da due soldi”.)

Nelle pagine di Sniffin’ Glue il concetto di layout è uno sconosciuto,

i testi (recensioni, interviste) sono scritti a mano, con penna e pennarelli

misti a macchina da scrivere, senza vezzi, senza decorazioni di alcun tipo.

SNIFFIN’ GLUE WAS NOT SO MUCH BADLY WRITTEN AS BARELY WRITTEN; GRAMMAR

WAS NON-EXISTENT, LAYOUT WAS HAPHAZARD, HEADLINES WERE USUALLY

JUST WRITTEN IN FELT TIP, SWEARWORDS WERE OFTEN USED IN LIEU OF A REASONED

ARGUMENT. . . ALL OF WHICH GAVE SNIFFIN’ GLUE ITS URGENCY AND RELEVANCE.

Tony Fletcher

I riferimenti culturali che possiamo ricollegare a questo gesto creativo

e a questa precisa estetica sono da andare a cercare nel dadaismo:

la tecnica dell’ objet trouvè di Duchamp, o ready-made: prendere un

oggetto della realtà quotidiana e inserirlo in un contesto totalmente inedito

(un esempio tra tutti il fenomenale lavoro dell’artista Linder Sterling

per l’album dei Buzzcocks Orgasm Addict nella quale ad un nudo femminile

è stato incollato, al posto della testa, un ferro da stiro); il largo uso

del cut-up: mettere insieme lettere provenienti da fonti diverse, con stile,

colori, grandezze differenti, che arriva dagli anni Venti di Tristan Tzara,

e fu ampiamente usato a partire dagli anni Sessanta da William Burroughs,

Brion Gysin e dai grandi cantautori. Il testo viene tagliato e

ricomposto come nel montaggio di un film, e i vari frammenti danno

nuova vita al tutto.

Nella copertina dell’album degli Angelic Upstarts The Murder of Liddle

Towers del 1979, dedicato a un pugile morto due anni prima mentre era

in custodia della polizia, le scritte composte con la tecnica del cut-up ricordano

inequivocabilmente una lettera minatoria.

Altre radici molto forti vanno cercate nella stampa dell’Agit-Prop

russo, dove di nuovo troviamo il bianco e nero abbinato ad un terzo colore

violento, i caratteri cubitali e i tratti asciutti, veloci dei disegni, e nel surrealismo

come naturale evoluzione del dadaismo.

In termini di composizione le fanzine devono moltissimo alla grafica

di protesta del Sessantotto, e in generale alla stampa underground dei

prolifici anni Settanta, anni di grande sperimentazione tipografica, irripetibili

dal punto di vista della ricerca, e caratterizzati dall’uso di caratteri

giganti, molto pieni e netti, uso del bold marcato, e dal sapiente lavoro sul

bianco e nero accostato spesso a tonalità forti.

Perry si legò poi ad altre esperienze editoriali: White Stuff, incentrata

sulla figura di Patti Smith, Ripped & Torn, 48 Thrills e London’s Burning.

Altra rivista importante per comprendere lo spirito dell’epoca fu Sideburns,

che esordì con uno schizzo di Tony Moon raffigurante il disegno

di tre accordi con un breve testo a mano: “Questo è un accordo, questo è

un altro e questo è un terzo. Adesso forma una band”.

Tale disegno viene spesso citato dagli studiosi per esplicare il concetto

principe dei musicisti punk: non è indispensabile aver frequentato

una scuola di musica, indispensabile è la spinta a fare.

49/FORME


Sempre nel 1976 ma a New York nacque Punk, fondata da John Holmstrom,

Ged Dunn e Legs McNeil, con la necessità di supportare la neonata

scena musicale underground della Grande Mela ed in particolar modo

la band dei Ramones (John Holmstrom divenne famoso anche per aver

illustrato alcune delle copertine dei Ramones).

Punk era una rivista più attenta al fumetto e alla grafica, e venne

pubblicata fino al 1979.

Negli Stati Uniti si diffusero molte altre riviste in tempi rapidi: Search

& Destroy, Flipside e Slash; anche da noi in Italia l’esplosione del fenomeno

fanzine si fece sentire, un titolo tra tutti T.V.O.R., del 1981, nata a Como (True

Voice of Rebels, ma divenne ben presto sinonimo dello slogan Teste Vuote

Ossa Rotte), ricchissima di contenuti e famosa anche oltralpe, tanto da

essere definita da Jello Biafra come una delle più belle fanzine del mondo;

ma anche Xerox ( poichè interamente stampata con la fotocopiatrice),

Archaeopteryx, Punkaminazione, Anti-Utopia e Echo.

Gli artisti delle band

Quelli furono gli anni in cui un graphic designer aveva davvero il potere

di modificare in qualche modo l’immaginario collettivo, e questo avveniva

prima di tutto attraverso le copertine dei dischi.

L’ironia, lo sberleffo del potere, della politica e del mainstream sono

stati il filo conduttore delle figure affermatesi nel mondo della grafica punk,

che sentivano forte la spinta ad agire attraverso le proprie doti visive per

aiutare ad andare nella direzione del cambiamento sociale, reagire al vecchio,

creare rottura.

HO SEMPRE VISTO IL PUNK COME UNA PARTE DI UN MOVIMENTO D’ARTE CENTENARIO,

CON RADICI DI AGITPOP RUSSO, SURREALISMO, DADA E SITUAZIONISMO.

Jamie Raid, autore della copertina Never Mind The Bollocks Here’s The Sex Pistols (1977)

Jamie Reid era il grafico che seguiva l’identità visiva dei Sex Pistols,

e che tutti ricordiamo per lo stile essenziale, sporco, contrastato in stile

fotocopia, uno stile che si ispirava alle ransom letters, le lettere con cui i

rapitori chiedevano un riscatto ai parenti delle loro vittime.

Nelle sue immagini sentiamo gli echi di futurismo e dadaismo.

L’immagine dei Sex Pistols è solo apparentemente casuale, in realtà

vene studiata ad arte da Reid che non poteva trovare un modo migliore

per trasmettere le sue idee anarchiche e nichiliste.

Il suo adattamento del ritratto del Giubileo d’argento della regina

Elisabetta II per il singolo God Save The Queen del 1977 venne definito da

The Observer come “la singola immagine più iconica del punk”.

Peter Saville, di Manchester, verrà ricordato da tutto il mondo per

l’iconica copertina di Unknown Pleasures, l’album di debutto dei Joy Division,

del 1979.

Anche Malcolm Garrett viene dal Politecnico di Manchester come

Saville, ed è stato tra le altre cose l’ideatore del logo dei Buzzcocks.

Raymond Pettibon, statunitense, fu il bassista dei Black Flag: lui ideò

il nome della band e sempre lui ne disegnò il logo. Proseguì fino a diventare

50/FORME


un artista riconosciuto a livello internazionale (sua è la copertina di Goo

dei Sonic Youth) con opere disseminate nei prestigiosi musei di arte contemporanea.

Arturo Vega, grafico esperto di collages già dal 1970, diviene amico

di Joey Ramone prima ancora che la band si formi, e ne amerà incondizionatamente

lo stile tanto da realizzare per loro la scritta e il celebre logo

con l’aquila entrato nell’immaginario comune.

I flyers

Un altro esempio di grafica punk davvero affascinante è costituito

dai flyers dei concerti, irresistibili nella loro immediatezza.

La collezione di volantini punk della Cornell University (Ithaca, New

York) è stata digitalizzata ed è disponibile in rete per la consultazione: 2091

punk flyers attraverso i quali immergersi totalmente in quell’atmosfera di

lettering multiformi, spesso composti con la tecnica del Letraset, disposti

trasversalmente nello spazio, alternati a fumetti e fotografie scontornate

in modo grossolano, o direttamente scritti a mano, con un tale atteggiamento

libero e giocoso mai più ritrovato nei decenni successivi, potenziati

ma fortemente vincolati dall’avvento dei personal computer.

Buoni propositi

Creare un flyer, impaginare una fanzine o una copertina di vinile divennero

un atto situazionista attraverso il quale vivere la propria passione

per la musica in un modo totalmente opposto a quello del mero consumatore:

l'importante era partecipare, condividere informazioni, senza stare ad

aspettare che i canali ufficiali si accorgessero della tua band preferita, che

magari era stata a scuola con te pochi anni prima e che era percepita come

grandioso veicolo di insubordinazione, di provocazione.

Testi in negativo, box immagini e testo disallineati, gli uni a ridosso

degli altri, titoli spesso composti a mano con la tecnica del collage, ritoccato

con pennarelli bianchi; foto dei musicisti scontornate e sovrapposte

a fondi formati da texture di piccoli disegni a tema. Quello che facevamo

da adolescenti con le nostre Smemorande nei primi anni novanta era qualcosa

di davvero molto simile, a ripensarci: le agende passavano di mano in

mano per scambiarsi messaggi, ed emozioni. Quello che abbiamo fatto poi

in seguito con le bacheche dei social degli albori, nei primi duemila, era di

nuovo attinente anche se terribilmente più sfuocato.

QUELLA PUNK È UN’ARTE DI CONVENIENZA, CHE FACEVA USO DI COLLAGE,

DISEGNI E SCRITTE A MANO, FUMETTI, STENCIL E SOPRATTUTTO

FOTOCOPIE XEROX IN BIANCO E NERO.

Rick Poynor, Design Observer

Mai come ora si fa urgente la riscoperta, da parte delle nuove generazioni,

di modalità meno passive per celebrare la musica. Un nonno expunk

potrà essere inaspettatamente il testimone ideale di un tempo in cui

cucire, rattoppare, montare, evidenziare e incollare era parte integrante di

una vitalissima ribellione giovanile, impossibile anche solo da immaginare

per chi tra pollice, indice e medio maneggia solo Tik Tok.

51/FORME


Macchie di colore di E.

©Livia Ranzini Pallavicini

52/PAGINE


GRAZIANO ORIGA

Italiano e newyorkese, sardo ma milanese

d’adozione, in partenza fumettista poi editore

graffiante e raffinato, quando punk, street

e pop si stanno mescolando e confondendo.

Con Marco Cy scrive Diary of a punk artist.

Prima rivista Gong poi, dal ‘79, Punk Artist,

dal piglio sperimentale e in rottura con lo

status quo, comparabile a Interview di

Andy Warhol, testi vari, disegni dello stesso

Origa, foto del compagno Joe Zattere.

Il paragone con Warhol vale anche per il viso

scavato, gli occhiali, il frasario smezzato.

La casa (decorata da Keith Haring) piena

di personaggi mondani della Milano da bere.

Frequentatore del Plastic, di Enrico Ruggeri,

Ivan Cattaneo, Krisma, Righeira. Un visionario,

perfetto interprete del suo tempo. MS

53/FORME/ripostigli


Uccello acquatico al culmine

dalla sua orrida eleganza

Foto di Marcello Francone


IL PUNK È STATO DEFINITO COME UN’ATTITUDINE

PIUTTOSTO CHE UNO STILE MUSICALE DAVID BYRNE



PAOLA RANZINI PALLAVICINI

QUANDO T’INFETTA IL SANGUE,

DIVENTA L’ORMONE NUMERO UNO;

SCHIAVIZZA GLI ENZIMI;

COMANDA LA GHIANDOLA PINEALE;

PRENDE IL RUOLO DI IAGO

CON LA TUA PSICHE. COME CON L’EROINA,

L’UNICO ANTIDOTO AL CINEMA È IL CINEMA.

Martin Scorsese citando Frank Capra

HO MOSTRATO UOMINI E DONNE

CHE VIVONO SUL FILO DEL RASOIO.

Martin Scorsese, Cahiers du cinéma, 1996

IO SO CHE, SENZA LA MUSICA, SAREI PERDUTO.

Martin Scorsese, Cahiers du cinéma, 1995

Negli ultimi anni settanta, periodo in cui si colloca la nascita del

punk, Martin Scorsese viveva al limite, facendo un largo uso di droghe e

passando da una festa all’altra, frequentando attori ma anche rockstar.

Ebbe un crollo fisico nel 1978 causato dagli abusi del suo stile di vita, si

ritrovò magrissimo, debilitato, poco presente a se stesso e profondamente

depresso. Quindi sa assolutamente di cosa parla quando racconta di esistenze

sopra le righe.

Nel libro della Minimum Fax Il bello del mio mestiere a lui dedicato,

all’interno della collana Scritti sul cinema, ha ammesso di aver provato

davvero di tutto, e di aver “sprecato una quantità enorme di tempo e di

energie”.

“LE FESTE MI SONO SFUGGITE DI MANO, PERCHÉ NON SAPEVO

COME CONTROLLARLE. PERÒ AVEVO LO STESSO L’IMPULSO DI

ANDARCI. DESIDERAVO ANDARE IN PROFONDITÀ. VOLEVO VEDERE

DOVE SAREI FINITO. PER FORTUNA SONO SOPRAVVISSUTO”

(GQ)

L’intera carriera di Scorsese è legata a doppio filo alla storia

della musica, rock e non solo: la sua filmografia è sempre stata intervallata

da documentari sulle vite dei musicisti.

Nel 1970 lavora al film documentario Woodstock in qualità di

assistente alla regia e di supervisore del montaggio; nel 1978 gira L’ultimo

valzer, un documentario sull’ultima esibizione live del gruppo The Band,

nel quale appaiono tra gli altri Muddy Waters, Bob Dylan, Van Morrison,

Eric Clapton, Neil Young.

57/FOTOGRAMMI


Nel 1987 è lui a dirigere il videoclip di Bad, hit di Michael Jackson,

ben 18 minuti di riprese nella metropolitana di New York. Nel 2005 si dedica

a No Direction Home, omaggio a Bob Dylan, e nel 2008 a Shine a Light,

sui Rolling Stones. Nel 2011 è la volta di George Harrison, chitarrista dei

Beatles, in Living in the Material World.

Tra i progetti irrealizzati del regista ci sono altri mostri sacri:

Frank Sinatra, i Grateful Dead e i Ramones.

Le colonne sonore dei suoi film verranno ricordate nella storia

del cinema per essere tra le più dirompenti, fresche, azzeccate, e sempre

studiate con cognizione di causa. Cahiers du cinéma del 1995 riporta queste

sue parole: “La musica è parte integrante dell’ambiente in cui vivono i

personaggi - fa anch’essa parte di quel perpetuo movimento in avanti che

finisce per diventare incontrollabile.”

IL LUPO

The wolf of Wall Street è eccessivo, a partire dalle due ore e

cinquantanove minuti di durata, eppure lo spettatore non percepisce lo

scorrere di un lasso di tempo così lungo, e la colonna sonora è solo uno dei

tanti motivi. È una storia vera, tratta da un libro autobiografico: l’ascesa e

la successiva caduta di Jordan Belfort, giovane broker di New York che

raggiunse rapidamente vette di ricchezza imbarazzanti con la truffa ai

danni di milioni di comuni mortali che investirono presso la sua società, la

Stratton Oakmont, a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta, e altrettanto

rapidamente fece sì che l’FBI puntasse i fari sulla sua attività e suoi suoi

eccessi, fino all’arresto.

Ci troviamo di fronte ad un protagonista né colto, né raffinato

e la pellicola è totalmente incentrata sulla sua vita dissoluta: dettagliate

descrizioni di tutte le sostanze che Jordan assume in una classica giornata

lavorativa, ma anche di tutto il sesso che si pratica in azienda, in modi fantasiosi

e piuttosto illeciti.

Tutte le sfumature del “politically scorrect” trovano allegramente

posto in questo film.

L’uso del linguaggio volgare (i famosi 569 “fuck”), nessun timore

nel mostrare gli aspetti più disgustosi dei dipendenti della Stratton,

immagini violente, bloccate o rallentate nel momento di massima esplosione,

violente persino le tonalità dei vestiti e degli arredi, costosi ma sempre

con quell’aria inevitabile di arricchito tutto d’un colpo, dal nulla.

I ragazzi “arruolati” da J.B. sono brutti, ignoranti e volgari. Hanno

il capo della polizia alle calcagna, le feste che organizzano sono scorrettezza

pura, conducono un’esistenza di chiassosa anarchia. “Era un manicomio,

un festival dell’eccesso, con parti uguali di cocaina, testosterone

e liquidi corporei vari”.

Le tecniche di regia e montaggio evidenziano tutti questi

aspetti, con enfasi, senza giudizio: e in tutto questo noi abbiamo di continuo

la sensazione di non esserci mai divertiti così tanto davanti allo schermo.

Questo Scorsese è come andare sulle montagne russe, è come una

droga che non ci basta mai, è eccitante.

“Ha una vera passione per il montaggio, per l’effetto che può

dare la giustapposizione di due immagini. È qualcosa che lo assilla. [...] Per

58/FOTOGRAMMI


lui, il film si “fa” in questa fase.” ci racconta Thelma Schoonmaker, la montatrice

statunitense che ha portato avanti per una vita il sodalizio con Martin:

lui vuole lei, e solo lei, in questa decisiva fase della lavorazione, da decenni.

Le scene al ralenti rendono perfettamente l’idea degli effetti

delle droghe sui broker, le inquadrature vertiginose dall’alto dei grattacieli,

gli zoom improvvisi ci immergono nell’atmosfera assurda delle loro vite.

“FLASHFORWARD INCASTONATI IN FLASHBACK (E VICEVERSA),

MOLTIPLICAZIONE ININTERROTTA DEI PUNTI DI VISTA, ANGOLAZIONI

SEMPRE SORPRENDENTI, DIALOGHI ULTRAVELOCI CON LA PAROLA

E IL VERBO «FUCK» MODIFICATI, DECLINATI E CONIUGATI IN OGNI

MODO POSSIBILE. IL TEMPO FILMICO SEMBRA ARGILLA FRA LE MANI

DI UN CREATORE POSSEDUTO DALLA PURA GIOIA DELLA MITOPOIESI

CHE CONDUCE LE DANZE CON UN PIACERE SATANICO PER

GIUNGERE ALL’APICE DELLA BOTTA DA QUALUUDE IN RITARDO

CHE È GIÀ PASSATA ALLA STORIA DEL CINEMA. ‘THE WOLF

OF WALL STREET’ È IL CINEMA DI SCORSESE AL CALOR BIANCO.

UN’OPERA COMPLESSA E RADICALE CHE SPOSTA IN AVANTI

QUANTO SAPPIAMO OGGI DEL CINEMA, RILANCIANDO TUTTE

LE POTENZIALITÀ DEL DISCORSO SCORSESIANO RIMASTO PER

TROPPO TEMPO FERMO ALLE CONVENZIONI HOLLYWOODIANE.

BENTORNATO MARTY!”

Giona A. Nazzaro, Il Manifesto, 2014

Pieno di riferimenti ad altra cinematografia del regista, e non

solo (chi ha pensato in alcune scene a Quarto Potere ci ha visto giusto),

questo film dipinge la decadenza con decise pennellate, ed è sempre dannatamente

divertente, perché regista e attori si sono dannatamente divertiti

a crearlo.

È radicale, una parabola esagerata, la celebrazione totale della

coppia Scorsese / Di Caprio.

L’attore feticcio di Scorsese, che ha preso idealmente il posto

di De Niro nei ruoli chiave, non è mai stato così tanto simpatica canaglia

come nei panni del lupo. Di Caprio meriterebbe un Oscar per ogni film

fatto insieme, e l’ultima interpretazione in Killers of the Flower Moon, diretto

dal medesimo regista, non è da meno, anzi.

Scorsese, alle prese con la storia di Belfort, tira fuori tutta la sua

attitudine punk.

Stile e idee anarchiche del punk erano viste come affronto dai

conservatori: anche la condotta di J.B. e dei suoi seguaci lo è, senza ombra

di dubbio.

La musica punk è veloce, grezza e quasi senza pause: esattamente

come l’effetto che si è voluto catturare durante il lungo montaggio

del film, un accuratissimo lavoro alla ricerca di un timbro pop, osceno,

fluorescente.

“BISOGNA CHE IL FILM RESTI

IL PIÙ ASPRO POSSIBILE, CHE MANTENGA

UNA CERTA CRUDEZZA”

Martin Scorsese, Civilization, 1998

59/FOTOGRAMMI


Il punk sfugge alle definizioni: lo stile in cui sono montate le scene

del film è talmente variegato da sottrarsi ad una facile catalogazione.

Il termine punk in origine era un’arcaica definizione di prostituta,

parola che potremmo tranquillamente usare per descrivere lo scellerato,

imbarazzante vendersi dei protagonisti.

Il punk è provocazione, spavalderia. Il dizionario Miriam-Webster

definisce questo stile musicale “caratterizzato da espressioni estreme

e spesso volutamente offensive di alienazione e malcontento sociale”: ancora

i ragazzi di Jordan, la testa incasinata dalle droghe di Jordan e il suo

genio furbissimo. Puro caos, imprevedibilità.

Il libro La filosofia dei Sex Pistols di Giovanni Catellani, edizioni

Mimesis, recita come sottotitolo: “Chiunque può farlo, fallo tu stesso!”

(Anyone Can do it! Do it yourself!). Ai tempi di Jordan a Wall Street chiunque

poteva arricchirsi con il suo metodo, entrando a lavorare da lui. Perché

non provare?

No future. Nessuna progettualità, solo appagamento istantaneo.

“Noi non creiamo un cazzo, non costruiamo niente!” Spiega il senior

broker della Rothschild – interpretato da uno spassosissimo Matthew Mc-

Conaughey – al giovane e rampante Belford durante una delle scene cult

della pellicola. “Vendevo spazzatura agli uomini della spazzatura”, precisa

la voce narrante del nostro uomo in ascesa vertiginosa, che ci persuade

parlando e guardando verso di noi, diretto a noi, rompendo la quarta parete

e pronto a ribaltare le nostre certezze.

Attenzione: per arrivare a questo spassoso risultato, un esito

che possiamo semplicemente definire Arte, bisogna avere settant’anni, e

aver girato Taxi Driver a trenta e Re per una notte a quaranta (L’età dell’innocenza

a cinquanta e Gangs of New York a sessanta, aggiungiamo per

ribadire meglio il concetto).

Ma lui non lo dà a vedere. Confonde le acque, accelera, guizza,

domina la settima arte senza moralismi, senza che la polvere si posi mai un

attimo sulla telecamera. Con un ritmo convulso addosso, dentro; sapienza

tecnica, esperienza di vita ma spirito intatto di ragazzino di Little Italy, quel

ragazzino che non sapeva decidersi se diventare gangster o prete, perché

così si faceva dalle sue parti, e allora decise di diventare Martin Scorsese.

Un documentario della Rai recita così: “Nei film di Scorsese

sembra di sentir vibrare il sistema nervoso del regista.”

Tra tutte le definizioni del suo modo di girare, resta forse la più

calzante, forse perché quella vibrazione sconquassa ogni volta anche noi.


THE WOLF OF WALL STREET

Regia: Martin Scorsese

2014

SOGGETTO

“Il lupo di Wall Street”

autobiografia di Jordan Belfort

INTERPRETI

Leonardo DiCaprio - Jordan Belfort

Jonah Hill - Donnie Azoff

Margot Robbie - Naomi Lapaglia

Matthew McConaughey - Mark

Hanna

Kyle Chandler - Greg Coleman

Rob Reiner - Max Belfort

Jon Bernthal - Brad

Jon Favreau - Manny Riskin

Jean Dujardin - Jean-Jacques Saurel

Joanna Lumley - Zia Emma

Cristin Milioti - Teresa Petrillo

Christine Ebersole - Leah Belfort

Shea Whingham - Capitano Ted

Beecham

Katarina Cas - Chantalle

P.J. Byrne - Nicky Koskoff

’Rugrat’, Kenneth Choi - Chester

Ming

Brian Sacca - Robbie Feinberg

‘Pinhead’, Henry Zebrowski - Alden

Kupferberg

‘Sea Otter’, Ethan Suplee - Toby

Welch

Ashlie Atkinson - Rochelle

Applebaum

Stephanie Kurtzuba - Kimmie Belzer

Rizwan Manji - Kalil

Mackenzie Meehan - Hildy Azoff

Barry Rothbart - Peter DeBlasio

J.C. MacKenzie - Lucas Solomon

Stephen Kunken - Jerry Fogel

Jon Spinogatti - Nicholas il

Maggiordomo

Aya Cash - Janet

Jake Hoffman - Steve Madden

Michael Nathanson - Barry Kleinman

SCENEGGIATURA Terence Winter

FOTOGRAFIA Rodrigo Prieto

MUSICHE Howard Shore

MONTAGGIO Thelma Schoonmaker

SCENOGRAFIA Bob Shaw

ARREDAMENTO Ellen Christiansen

COSTUMI Sandy Powell

EFFETTI Robert Legato

DURATA 180°

SPECIFICHE TECNICHE

Arricam Lt/Canon C500, 35 mm /

Canon Cinema Raw (4k to Gemini

4: 4: 4)/Hawk Scope, 35 mm/

D-Cinema (1:2.35)

PRODUZIONE Martin Scorsese,

Leonardo Di Caprio, Riza Aziz,

Joey Mcfarland, Emma Tillinger

Koskoff Per Appian Way, Emjag

Productions, Red Granite Pictures,

Sikelia Productions

Golden Globe 2014 a Leonardo

Di Caprio come miglior attore

protagonista

BRANI CONTENUTI

NEL CD SUNDTRACK

1. Mercy, Mercy, Mercy –

Cannonball Adderley

2. Dust My Broom – Elmore James

3. Bang! Bang! – Joe Cuba

4. Movin’ Out (Anthony’s Song) –

Billy Joel

5. C’est Si Bon – Eartha Kitt

6. Goldfinger – Sharon Jones and

the Dap Kings

7. Pretty Thing – Bo Diddley

8. Moonlight In Vermont (Live At

The Pershing Lounge/1958) –

Ahmad Jamal

9. Smokestack Lightning – Howlin’

Wolf

10. Hey Leroy, Your Mama’s Callin’

You – The Jimmy Castor Bunch

11. Double Dutch – Malcolm

McLaren

12. Never Say Never – Romeo Void

13. Meth Lab Zoso Sticker –

7Horse

14. Road Runner – Bo Diddley

15. Mrs. Robinson – The

Lemonheads

16. Cast Your Fate To The Wind –

Allen Toussaint

ALTRI BRANI CONTENUTI

NEL FILM

Spoonful – Howlin’ Wolf

Hit Me With Your Rhythm Stick –

Ian Dury

Tear It Down – by Clyde McCoy

Surrey with the Fringe on Top –

Ahmad Jamal Trio

Stars and Stripes Forever – John

Philip Sousa

Cloudburst – Lambert, Hendricks

& Ross

Insane in the Brain – Cypress Hill

King Arthur, Act 3: What Power Art

Thou – The Monteverdi Choir

There is No Greater Love – Ahmad

Jamal Trio

Boom Boom – John Lee Hooker

Give Me Luv – Alcatraz

Uncontrollable Urge – Devo

In the Bush – Musique

Can’t Help Falling in Love – Elvis

Presley & the Jordanaires

Baby Got Back – Sir Mix-A-Lot

Everlong – Foo Fighters

Sloop John B – Me First and the

Gimme Gimmes

Boom Boom Boom – The Outhere

Brothers

I Need You Baby (Mona) – Bo Diddley

Flying High – Bennett Salvay

& Jesse Frederick

Dream Lover – Clifford Grey

& Victor Schertzinger

Popeye the Sailor Man – Sammy

Lerner

Hip Hop Hooray – Naughty By

Nature

One Step Beyond – Inspector 7

Wednesday Night Prayer Meeting

– Charles Mingus

Gloria – Umberto Tozzi

Ça Plane Pour Moi – Plastic Bertrand

Get Us Down – Bennett Salvay

& Jesse Frederick

61/FOTOGRAMMI


Sticker nel bagno del pub

©Livia Ranzini Pallavicini

62/FOTOGRAMMI


NAÎTRE EST

UNE OPPORTUNITÉ UNIQUE

Climax, di Gaspar Noé, 2018, è qualcosa

che scardina le nostre idee su cosa voglia

dire guardare un film. Una creatura ibrida

che sposta in là il limite di ciò che possiamo

o meno accettare di vedere sullo schermo.

Incubo ipnotizzante, viaggio lisergico che

cattura completamente e lascia nauseati,

storditi, spossati. Regole sovvertite: titoli

di testa a metà visione, pezzi girati al

contrario. Nichilismo di intenti e di mezzi.

Colori fluo. Musica potentissima. Una vera

e propria prova fisica, che inchioda, disgusta,

rilascia scariche di adrenalina lungo tutto

il corpo. Un’opera d’arte sovversiva.

Basato su fatti realmente accaduti a Parigi

nel 1996. Nascere è un’opportunità

unica. PRP

63/FOTOGRAMMI/ripostigli


GUIDA ROMANTICA

A POSTI PERDUTI

Lei un’agorafobica con attacchi di panico

che scrive di viaggi che non riesce a fare.

Ma il vero viaggio è quello che si progetta.

Bugiarda spudorata. Bella in modo

animalesco. Lui un alcolizzato che baratta

la guarigione in clinica con una spedizione

di espiazione che serve a liberare lei e a tenere

per se’ il diritto alla morte, forse. Un ritorno

a casa ma non quello che ci si aspetta:

l’abitazione di una vecchia zia inglese che

collezionava film di fantascienza e vinili

in un juke box.

Chiusura con ballo sfrenato sull’erba,

sui Sex Pistols, con tanto di pogo.

Clive Owen e Jasmine Trinca uno strano

mix. Di Giorgia Farina. MS

64/FOTOGRAMMI/ripostigli


JULIETTE

Non era forse perfetta su quel palco sudato,

dentro una rete metallica, a cantare un

pezzo scritto da PJ Harvey per Strange

Days, film distopico e futuristico (neanche

tanto) sull'arrivo del nuovo temuto

millennio? Lo era. Tanto quanto nel deserto

americano di Natural Born Killers. Minuta,

bellissima, ribelle per natura, dall'aria

consumata e quello sguardo indeciso di chi

vuole fare la brava ma sa che non ci riuscirà.

Juliette Lewis è un'attrice ed è anche una

cantante, vive un saliscendi in entrambe le

sfere ma a chi importa? Fa quello che vuole,

forma i Juliette Lewis and the Liks, dopo sei

anni ci riprova con Juliette and the New

Romantiques (che ricorda The Flowers of

Romance, il primo gruppo di Sid Vicious e

Viv Albertine), si presta a mille

collaborazioni vocali sottotraccia così come

a ruoli minori in film indipendenti, eppure

resta memorabile, anti iconica, una furia

sfuggente e irraggiungibile come per Ralph

Fines in quell'ennesima tostissima pellicola

di Kathryn Bigelow. I can hardly wait/ It's

been so long/I've lost my taste/Say angel

come/Say lick my face/Let fall your dreams/

I'll play the part/I'll open this mouth wide/

Eat your heart. MS

65/FOTOGRAMMI/ripostigli


TERRY

RICHAR

DSON

NICOLA GUIDA

Il 22 gennaio 2024 la notizia che Terry fosse improvvisamente morto ha

invaso la rete come l’acqua sporca che esce da un cesso intasato.

Ma era bastato poco per capire che, così come ciò che esce da un

cesso intasato sono solo merdate, così lui era ancora vivo e vegeto nonostante

la valanga che lo aveva travolto, e da cui nessun uomo normale

sarebbe uscito indenne.

Del resto, fin dall’infanzia, nulla della sua vita è stato normale.

66/OMBRE


67/OMBRE


Figlio di Bob Richardson - una leggenda vivente della fotografia di

moda, un paradosso ambulante, uno che ha lottato tutta la vita con la

schizofrenia - e di Norma Kessler, attrice di teatro a New York, ballerina nei

night club per arrotondare. Fu in un nightclub che si incontrarono, e nonostante

Bob stesse uscendo già a pezzi da un matrimonio, con una figlia da

gestire, fu amore al primo whiskey.

Norma fu un tornado nella vita di Bob, una rivoluzione. Basandosi sul

concetto che se vuoi essere una star devi comportarti da star, trasformò

quello che era ancora un conformista upper class in mocassini (non dimentichiamoci

le origini borghesi di Richardson) in un cowboy dai capelli lunghi

e sciarpa al collo, rivoluzionando anche il suo modo di scattare fotografie

e lanciando definitivamente la sua carriera, come June fece per Newton.

All’indecisione di Bob su come scattare un certo servizio rispondeva

lei, con spinelli e idee a profusione.

Non fu solo Norma, intendiamoci, a far decollare Richardson, ci fu

anche il grandissimo aiuto di Marvin Israel, di Harper’s Bazaar, quello dell’illuminante

“hai fotografato questa ragazza, bene. Ora fallo di nuovo, ma

questa volta cerca di fotografare te stesso: non scattare letteralmente una

foto di te stesso, ma rendila un autoritratto. Fatelo di un’altra persona, ma

fatelo diventare un autoritratto. Non scattare una foto che pensi che io

voglia vedere, ma scatta una foto che sei tu. Fotografati.”

Furono Norma e Israel a plasmare la fotografia di Bob, solo che Norma

lo fece gratis.

Richardson era diventato il fotografo più acclamato dei sixties, Norma

gli faceva da assistente, con l’aggiunta di un po’ di tossicodipendenza.

Una delle sue modelle lo introdusse negli anni sessanta a Max Jacobson,

altresì conosciuto come Dr. Feelgood, quello citato nella canzone dei

Motley Crue, il medico che praticava iniezioni di mix di vitamine e anfetamine

alla gente che contava, ma che contava tanto, tipo Kennedy, e Bob

Richardson divenne così dipendente da quella roba che, a un certo punto,

fu l’unica cosa che poteva fargli fare fotografie.

Si alzava la mattina e prima di andare in studio faceva una capatina

dal medico, e BAM!, era pronto ad affrontare il giorno.

La merda del caro dottore fece bruciare Richardson come la lampadina

di un flash al magnesio: arrivò ad odiare New York e tutto ciò che

aveva a che fare con la fotografia, comprese le riviste e tutte le persone con

cui aveva lavorato durante la sua sfolgorante carriera, convinto di essere

un genio, e che nessuno potesse afferrare completamente la sua visione.

In questa situazione, in cui mancava solo una stella cometa per far la

stalla di Betlemme, nel 1965 nacque Terry: nel momento del travaglio Bob

sparì a cercar qualcosa per tenersi tranquillo e a Norma toccò prendere un

taxi, alle quattro del mattino, per farsi portare in ospedale.

I due si trasferirono a Parigi, nell’illusione di sfuggire alla droga e

all’ambiente tossico di New York e ricominciare da capo col loro bambino,

nonostante a Parigi Richardson fosse acclamato come una superstar, inserito

addirittura da Keith Richards nel giro dei Rolling Stones, il che voleva

dire lavoro a Parigi in settimana e party selvaggi a Londra nel weekend,

una buona scusa per la coppia per imbottirsi di droga e sesso di gruppo.

Nonostante questa vita ad alta velocità, la depressione e la schizofrenia di

68/OMBRE


Bob peggioravano giorno dopo giorno, portandolo una mattina a tagliarsi

i polsi nel lavandino del bagno.

Bob scopava con le modelle con cui lavorava; Norma, mentre lui era

internato in una clinica svizzera dopo il fallito suicidio, si consolò con l’assistente

del marito.

Erano passati quattro anni. E la necessità per loro era tornare a New

York dove, con la fama che si era costruito lavorando in Francia, era sicuro

avrebbero fatto un sacco di soldi attraverso la pubblicità.

E Terry?

Terry era un bel bambino che a scuola i compagni deridevano per i

lunghi capelli biondi e l’accento francese; gli stivali da cowboy che indossava

sempre come suo padre contribuivano ad attirare l’attenzione.

“Quando suo figlio cammina per i corridoi della scuola con quegli

stivaloni fa un sacco di rumore e disturba le lezioni, può dirgli di non indossarli,

per favore?” si lamentavano gli insegnanti.

“Mio figlio indossa quel cazzo che vuole, fottetevi tutti”: puro

rock’n’roll.

La famiglia si sistemò in un attico, iniziò a frequentare la scena di

Warhol e tutto un giro di artisti.

Bob lavorava un sacco. Tutto procedeva alla grande. Finché non gli

mandarono in studio una modella forse nemmeno diciottenne: Anjelica

Houston.

Bob perse la testa sia per la ragazza che per il padre della ragazza,

il regista John Houston. Annunciò a Norma che sarebbe andato a vivere

con lei.

Norma non la prese benissimo: “Scopa quanto vuoi ma non rompere

la famiglia!”.

Bob fu irremovibile, e Terry dovette andarsene a Woodstock con

la madre, che si era convinta di fare la hippy: basta rincorrere il successo,

via libera a peli sotto le ascelle, hashish e libero amore, passando da Jimi

Hendrix a Kris Kristofferson.

Terry decenni dopo ricorderà ancora il momento della separazione

dei genitori come uno dei più tristi della sua vita, sballottato tra le scappatelle

di due adolescenti mai cresciuti, dividendo il suo tempo tra Woodstock

con la madre e Londra, New York, Hollywood con suo padre e la

Houston, entrambi all’apice della carriera.

Una vita a prima vista fantastica, ma sempre lo stesso giro di gente

dal superego, sempre drogati all’eccesso e lui sempre trascurato, traumatizzato.

Bella infanzia del cazzo.

La madre a un mercatino delle pulci, un giorno, conobbe il chitarrista

Jackie Lomax, uno di quelli che non sono mai stati veramente famosi, ma

che c’erano quasi: finì per sposarlo poco dopo. Sembrava felicissima.

Terry cresceva e ogni tanto invitava a casa i suoi amici, mentre sua

madre e Lomax erano in giro.

Almeno non stava solo in quella cazzo di casa in mezzo a un bosco,

che sembrava il capanno di Evil Dead.

Perché quando stava solo la paura lo atterriva.

Non che fosse meglio quando stava con suo padre, totalmente preso

dalla compagna. Letteralmente se la faceva addosso, in entrambi i casi.

69/OMBRE


La Houston ne parlò ridendo con Norma (erano diventate amiche, avvicinate

dal fatto di dover sopravvivere a un tipo come Bob), di tutte le volte

che lui andava a trovarli: “C’era sempre quell’odore, nell’appartamento”.

È così che si diventa autodistruttivi, con i tuoi genitori che ridono di

te, con la convinzione di non essere amato abbastanza.

O diventi violento, o un introverso, perché tanto le tue emozioni non

le merita nessuno.

Terry quando smise di farsela nelle mutande diventò entrambe le

cose, un teppistello ritroso che andava in giro coi suoi amichetti a spaccare

finestre e infilarsi in qualche rissa.

Era il periodo della ribellione pre-punk, e c’era cascato in pieno, nonostante

Lomax tentasse in tutti i modi di farlo sentire amato, ricevendo

in cambio solo calci: “Tu non sei il mio vero padre. Non dirmi cosa devo

fare” gli urlava.

Deve essere difficile fare il patrigno, soprattutto se il vero padre è

uno come Bob Richardson.

Terry si divideva tra le due famiglie e tutti facevano di tutto per dargli

quel che potevano, almeno fino a quando la madre non ebbe un incidente

d’auto con Lomax, mentre stavano andando a ritirarlo ad una seduta con

lo psicologo. Non fu nemmeno colpa loro ma di un camion della società

dei telefoni che non diede la precedenza e investì a tutta velocità il maggiolino

di Norma.

Uno schianto pauroso. Terry rimase ad attendere ore terrorizzato

in mezzo alla strada, finché non arrivò un’amica di famiglia a prenderlo,

ancora fermo lì dove aspettava sua madre.

Lomax non si fece quasi nulla, mentre la madre di Terry si fece un

mese di coma, per svegliarsi con danni permanenti al cervello e dolore

costante.

Per Terry fu un altro abbandono, un altro shock, e si sentì in colpa: se

lui non fosse stato uno stronzetto che aveva bisogno dello strizzacervelli

non sarebbe successo niente, forse.

Dopo sei mesi di ospedale Norma tornò a casa, aveva perso parte

delle corde vocali e non parlava chiaramente, non camminava, non era più

autosufficiente e urlava di voler morire.

Terry non se ne capacitava: “Chi è questa? Non è mia madre, ridatemi

mia madre!”

Un bambino non può affrontare una cosa del genere, non può misurarsi

con tutto questo dolore, di colpo.

Quell’estate la passò con suo padre, che stava solo nel grande appartamento

ormai vuoto da quando Anjelica Houston l’aveva lasciato: aveva

semplicemente fatto i bagagli e se ne era andata. Non si rividero mai più.

Bob portava Terry sui set e poi al cinema. Finita l’estate però gli toccò

tornare a Hollywood da sua madre.

Con l’incidente iniziarono anche i problemi economici: Lomax non

suonava e Norma, che fino a prima dell’incidente faceva la stilista, non poteva

più lavorare. Dalle stelle alle stalle, dal jet set al sussidio.

Per stare con lei il meno possibile usciva la notte, sul boulevard, con

lo skate, o la bici, tra papponi e puttane, tossici e disperati.

Le notti passate nei Seven Eleven a rubacchiare riviste per adulti

(“solo alcune pagine, quelle con le donne con le tette più grosse, perché

70/OMBRE


se mi beccano” diceva Terry “non è così grave forse come essersi rubati

tutta la rivista”), a giocare a flipper, oppure per strada con qualche amico

a baseball, o intrufolati di nascosto nei cinema per adulti come il Pussycat

Theater a guardare i film di Russ Meyer.

Tutto per fuggire dalla realtà.

Forse è stata quella la base su cui si è sviluppata la visione fotografica

di Terry: immagini di donne con tette enormi e fiche pelose, disperazione,

libertà e punk rock.

Mentre gli altri ragazzini andavano a far surf, Terry passava le sue

giornate ad ascoltare punk e drogarsi: si svegliava la mattina, due tiri di

bong o di canna, ed era pronto per la scuola, i Ramones o i Judas Priest

nelle cuffiette.

Quella del ’79 fu l’ultima estate che Terry passò con suo padre.

Aveva 14 anni, e passò il tempo in skate e ai concerti con Bob, che si

sforzava di essere un buon padre, ma il resto del tempo era cupo, dopo la

rottura con la Houston non era più ispirato, non gli importava più di nulla,

quando lo chiamavano per un servizio non si presentava oppure abbandonava

le riprese a metà.

Gli telefonavano e lui mandava i suoi committenti a farsi fottere.

La sua reputazione ne risentì e smisero di cercarlo, ma a lui non interessava

nemmeno più.

Interruppe il lavoro e Terry iniziò a vederlo sempre meno.

Intanto Norma si mise in testa di andarsene da Hollywood, voleva

vivere in un posto bello, in campagna, la città non aveva più nulla da darle.

Prese Terry e si trasferirono a Ojai, una cittadina vicino a Santa Barbara,

dove risiedevano alcuni suoi amici di Woodstock; in pratica una comune

con pretese artistoidi.

Lomax non aveva assolutamente voglia di trasferirsi e Norma lo piantò

su due piedi.

Anche Terry non voleva mollare Hollywood, ma gli toccò, arrabbiatissimo,

seguire sua madre, e addio ai concerti dei Black Flag.

A Ojai Terry era la tipica mosca bianca, spaccava tutto quel che gli

capitava per protesta, con sua madre che passava le giornate a gridare,

ma lui era quello che veniva da Hollywood, e divenne il ragazzo più celebre

della scuola, tutti volevano essere punk come lui.

Mise su la sua band, gli Alcolisti di Signal Street, SSA, in nome dell’unico

cazzo di semaforo che c’era in città che li obbligava a fermarsi di

notte durante loro scorribande, diede vita a una scena punk che travolse

la tranquillità della cittadina: sesso, alcol e, a diciotto anni, come bel regalo

per la maturità, l’eroina.

Il 1983 fu l’anno in cui finì il liceo e finì il sogno.

Finita la scuola non aveva assolutamente idea di cosa fare della sua

vita e passava le giornate sul divano con gli amici a bere, a fumare davanti

alla televisione, in stile Beavis e Butthead.

Un giorno Norma, che aveva scelto di farsi chiamare Annie mollata

la grande città, non ne poté più di vederlo vegetare e gli staccò la spina

della TV; Terry ebbe una delle sue violentissime reazioni, sfasciò sistematicamente

ogni mobile dell’appartamento e lanciò sua madre contro un

muro. Lei lo fece arrestare.

Dopo la notte passata in cella Terry si rese conto di quello che voleva:

71/OMBRE


mollare Ojai, quel posto di merda e tornare a L.A., a Hollywood, e diventare

finalmente la rockstar che era stato predestinato ad essere prima che la

vita della sua famiglia andasse a puttane.

A Hollywood gli bastava poco per vivere: una topaia a quattrocento

dollari d’affitto tutto compreso da dividere, ma droga e alcool non venivano

mica gratis, e Terry qualcosa doveva inventarsi.

Suo padre era sparito, finito chissà dove lungo le strade d’America,

perso nella sua schizofrenia. Male, certo, ma tanto i soldi erano finiti.

Si ricordò di quel famoso assistente di suo padre e lo contattò: “Tony,

sono Terry, sono a L.A. e tu mi devi un favore!”.

Divenne l’aiutante di Tony Kent: montava le luci, caricava le pellicole e

intanto imparava l’ABC della fotografia. Iniziò seriamente a pensare “cazzo,

questo lavoro posso farlo anche io, questi stronzi non fanno un cazzo e

sono pieni di fica e soldi”.

Aveva qualche amico a Hollywood, gente che ce l’aveva fatta, come

Donovan, Balthazar Getty e Alex Winter.

Iniziò a fotografare loro.

Qualche tempo dopo si rifece vivo Bob, che non era ancora morto in

qualche topaia del nuovo Messico ma ci era andato maledettamente vicino;

stava a San Francisco, ora. Aveva passato anni a spingere un carrello

pieno di spazzatura lungo Santa Monica Boulevard; completamente sdentato

ma col cervello abbastanza sgombro dalla schizofrenia lo chiamava

nuovamente.

Terry in quel periodo scattava ritratti per una rivista gay, ma Bob

lo convinse a mollare e a trasferirsi al nord, da lui, promettendogli di trasformarlo

finalmente in un fotografo di moda, per “conquistare il mondo,

ancora”. Spinse il figlio ben oltre gli insegnamenti di Tony Kent: oltre la

tecnica, verso l’arte.

Terry scattava continuamente, Bob stracciava le foto, le criticava, lo

spingeva a fare sempre meglio.

Con l’aiuto del padre mise su un portfolio fatto come Dio comanda,

da presentare a New York.

Col padre fondò una società, “the Richardsons”, ma non durò, perché

i due passavano il tempo ad ubriacarsi e fumare erba.

Lavoravano per riviste di moda ma le foto che scattavano erano

squallide; erano al verde ma Bob non faceva altro che litigare con gli editori.

“Siamo a Miami e abbiamo vitto e alloggio pagati, che cazzo litighi

per delle foto?”

Terry tirò la corda fino a quando Vibe non li contattò per fare ritratti.

Vibe era una rivista di lifestyle parecchio vicina allo stile punk di Terry.

Lo stile malinconico ed elegante di Bob mal si addiceva a quelle pagine.

“Papà, questa merda devo farla da solo, non posso farla con te”. Era

dura, ma doveva provarci. “Se non la faccio da solo non combinerò mai

niente”.

“Senza di me non ce la farai, non ti parlerò mai più, piccolo stronzo”,

rispose Bob.

Terry chiuse la telefonata con un vaffanculo, ma sotto sotto sperava

che suo padre si presentasse allo shooting, il giorno dopo.

Bob non venne, e non si fece vedere più.

72/OMBRE


Lo shooting fu quasi un mezzo disastro: l’idea di Terry era quella di

una storia di ragazzi che si ubriacano, si fanno tipe, pisciano per strada,

le cose punk che lui conosceva bene: uno dei modelli se ne andò dal set

perché si rifiutava di fare lingua in bocca con le modelle, del resto scioccate

da quell’approccio assolutamente anticonvenzionale.

Ma in un modo o nell’altro Terry portò a casa gli scatti e il servizio

venne premiato come miglior fashion story del 1993.

Terry era finalmente decollato.

Tutti quelli che a New York avevano rifiutato il suo portfolio perché i

suoi scatti ricordavano i porno degli anni settanta ora se lo contendevano,

e ben presto divenne il fotografo più pagato al mondo, una cosa come

200.000 dollari a servizio.

Mentre le immagini di Bob erano cupe e cinematografiche, incentrate

sul catturare un’emozione, Terry vedeva la sua fotografia come una danza

con il soggetto.

“LE PERSONE MI CHIEDONO:

COSA VUOI FARE?

COSA STAI PROVANDO?

ENTRARE IN UN SERVIZIO

FOTOGRAFICO SENZA SAPERE

APPIENO COSA VOGLIO FARE,

QUELL’ECCITAZIONE,

QUELLA COSA CHE ACCADE, È

COSÌ POTENTE E CREA IMMAGINI

FANTASTICHE”.

Senza usare costose macchine fotografiche, ma solo una Pentax

Point & Shoot, Terry scoprì che poteva portare avanti una conversazione

mentre scattava.

Il semplice ritaglio, gli errori inaspettati trasformavano uno scatto,

aggiungevano vita ed energia, stile.

Terry iniziò a scattare regolarmente per riviste locali e straniere; lo

assunse Gucci.

Tom Ford, all’epoca capo designer del marchio, ricorda che Richardson,

ancora nuovo nel mondo della moda, era a disagio con il numero di

membri della troupe, al primo scatto a casa del produttore Bob Evans a

Los Angeles.

“Terry era abituato a mettere le ragazze contro un muro, e fotografarle

con un flash, quello era il suo stile. Onestamente, penso che sia ancora

la cosa che sa fare meglio”.

73/OMBRE


Finì per tornare nella stanza allo Chateau Marmont a scattare foto

alle modelle contro il muro bianco.

Le fotografie di Richardson evitavano trucco e fotoritocco, e presto

fu accomunato a un gruppo di fotografi il cui realismo grintoso e lo-fi fu

soprannominato “heroin chic”.

Terry dell’artificiosità degli anni ottanta non sapeva che farsene: il suo

look era preso in prestito dal porno a basso budget, ma era anche ironico

e giocoso. Una pubblicità scattata per una nota marca di abiti mostrava

una modella che stringeva la mammella di una mucca e si spruzzava il latte

in faccia.

Gli editori e i direttori artistici impazzivano per lui: con loro era educato,

umile, collaborativo, veloce, un professionista in tutti i modi in cui suo

padre non lo era stato.

Ma, cosa altrettanto fondamentale, condivideva l’acuto senso del

momento di suo padre e sapeva come catturare quell’elettricità nelle foto.

Divenne estremamente abile nel navigare tra il provocatorio e l’inaccettabile.

“Voglio fare cose che vengano viste”

Un sacco di gente famosa non voleva farsi fotografare da Terry nonostante

fosse ormai una celebrità; per contratto parecchie stelle di Hollywood

avevano il divieto di farsi ritrarre da lui, ma a lui non fregava poi molto,

gli interessava solo scattare e pubblicare. Non era interessato a scattare

foto che nessuno può vedere.

Nel 2001 venne ingaggiato addirittura per il noto “Swimsuit Issue”

di Sports Illustrated.

Helmut Newton, fotografo notoriamente provocatorio che inizialmente

aveva pensato che il lavoro di Richardson fosse “scioccante per il

gusto di essere scioccante”, divenne suo fan.

“ORA POSSO VEDERE CHE

HA UNA CERTA CALLIGRA-

FIA CHE VIENE FUORI”, raccontò di lui.

I suoi scatti potevano diventare selvaggi e lui non ne faceva mistero.

Nel 2002, in un’intervista a Vice, parlando dell’imminente calendario

per il marchio di street-style Supreme, dichiarò che l’obiettivo sarebbe

stato di “mettere insieme un calendario con cui masturbarsi”.

“Le riprese sono un po’ sfuggite di mano alla fine. La donna che produceva

le riprese è andata fuori di testa e ha dovuto andarsene. Penso che

ogni persona lì abbia scopato qualcuno. È stato intenso”.

Il ragazzino punk che fregava le pagine delle riviste porno e che aveva

paura del buio ne aveva fatta di strada, era diventato finalmente uno

pagato per fare quello che vuole.

Terry iniziò a spogliarsi con le sue modelle. “Perché non ti spogli?”

chiedeva alle ragazze. “Perché non ti spogli tu?”

E allora ecco che divenne oggetto e soggetto delle foto, ad invadere

l’inquadratura, girare la macchina fotografica verso di sé, fino al punto che

era difficile capire chi scattava veramente.

La fotografia di Terry divenne una performance, una provocazione

74/OMBRE


spinta talmente all’eccesso che alla fine il giocattolo si ruppe.

Una modella lo denunciò, dichiarando di essere stata obbligata a

succhiarglielo durante uno shooting, e il mondo della moda entrò in rivolta.

Un sacco di altre modelle dichiararono durante show televisivi e articoli

scandalistici di non essersi sentite a loro agio durante gli scatti con lui.

Il fotografo di moda più pagato divenne ben presto il più figlio di

puttana, misogino e pornografo.

Un coglione adolescente che con Terry non aveva mai avuto nulla a

che fare pubblicò su change.org una petizione intitolata “Grandi marchi:

smettetela di usare il presunto molestatore sessuale e pornografo Terry

Richardson come vostro fotografo”, raccolse 33.000 firme, e H&M, prima

gallina a cantare dopo aver fatto l’uovo, si affrettò a dichiarare la rottura

della collaborazione con Richardson.

Terry resistette, e quando non ne poté più rilasciò una dichiarazione

sull’Huffington post contro la caccia alle streghe che lo aveva travolto.

Tutti quelli che gli diedero sostegno, da Jared Leto a Lena Dunham,

vennero ricoperti di merda social.

Gran parte dell’establishment della moda lo adorava, ma chiunque

osasse mettere in dubbio le accuse che gli erano mosse venne minacciato.

Alla fine tutte le azioni legali contro Richardson crollarono come un

castello di carte, o si risolsero in banali cause civili.

Le ragazze avevano sempre firmato liberatorie e per loro stessa ammissione

Terry non le aveva mai forzate a fare nulla.

Richardson aveva perso la faccia e lo studio a New York venne rimpiazzato

da una palestra per gente ricca sovrappeso.

Fine di aprile, il più crudele dei mesi, fine dell’incubo.

“È pazzesco, internet” afferma Terry, dopo questa polemica che gli

è costata più di quanto voglia ammettere.

“TOTALMENTE FOLLE. COME

UN PICCOLO CANCRO. LE

PERSONE POSSONO FARE

QUELLO CHE VOGLIONO,

DIRE QUELLO CHE VOGLIO-

NO, ESSERE TOTALMENTE

ANONIME. È TOTALMENTE

FUORI CONTROLLO”.

Mi immagino Terry mentre dice queste parole. Con i suoi occhialoni

di plastica, le basettone e le Converse. Come appare nei suoi scatti, solo,

ma senza il solito sorriso a denti stretti e l’onnipresente gesto del pollice

all’insù.

75/OMBRE


IL METODO

DI TERRY


NICOLA GUIDA

Le sue fotografie ricordano

quelle dei giornaletti porno che

andavano alla grande negli anni

settanta, i fotoromanzi di

Supersex con un Gabriel Pontello

in forma smagliante che all’urlo

di “Ifix tcen tcen!!” scatenava

il suo fluido erotico e finiva

sempre come il bruco, dentro

al buco: puro erotismo leggero

e scanzonato.

Eppure a pensarci bene, con le

sue immagini, pubblicate nei

volumi Kibosh e Terryworld,

Richardson ha anticipato il modo

di pensare e l’estetica associata

all’uso dei social media da parte

del pubblico contemporaneo.

Che siano per cataloghi, riviste,

fotografie di studio o video

musicali, le immagini di Terry

sono rese omogenee dal

medesimo look: una luce diretta,

ruvida e violenta (solitamente

sparata da un flash integrato

nella macchina fotografica) che

appiattisce ed evidenzia ogni

difetto dei lineamenti dei suoi

soggetti. Queste caratteristiche

tecniche, insieme alla povertà dei

set, sono la chiave dell’estetica

del porno underground, lontana

anni luce da quella calda, ricca

e lussuriosa di Playboy.

Una fotografia talmente alla

portata di tutti che per un certo

periodo Richardson si mise a

vendere il kit per essere come lui:

macchina fotografica di plastica,

maglietta nera, i famosi occhiali

dalla montatura grossa, che non

fanno altro che aggiungere

un’ulteriore caratterizzazione alle

fotografie dove lui si infila spesso

e volentieri: quell’aspetto goffo,

geniale, da nerd anni seventy,

quell'aria da gonzo trasandato,

così underground, così tanto

“artista”.

Le immagini di Richardson

rifuggono compostezza

e ricercatezza: richiamano

piuttosto la volontà di congelare

l’immediatezza di un istante,

che sia una pisciata o una risata

liberatoria. La spontaneità

di un gesto, in cui composizione

e illuminazione sono secondarie,

e anche questa è una delle

caratteristiche dell’estetica

del porno underground:

un'attività frenetica, dove la

macchina fotografica non riesce

a controllare del tutto la realtà

ma si limita a catturare quello

che può.

Richardson esce poco dal suo

studio, che è considerato uno

spazio abitativo più che spazio

di lavoro: nei suoi scatti sono

sempre presenti amici di

passaggio, oggetti in disordine,

cibo, letti sfatti ed evocativi.

Questa ricercata povertà nella

cura dell’immagine, da

crackhouse di periferia - realtà

che lui conosce bene per via della

vita sballata che ha alle spalle -

rende le sue immagini

paragonabili agli autoscatti

in cui ci si imbatte scrollando

un social qualunque oggi: la

fotocamera usata come specchio,

come diario, sfruttata per

imbastire video amatoriali

da vendere a dieci euro al mese

in abbonamento su Onlyfans.

Richarson è arrivato a questa

estetica vent’anni prima

dell’avvento dei social,

utilizzando una Yashica T5 da

quattro soldi, con la quale ha

spinto il concetto di osceno

sempre un passo più in là, così

come recitava il suo biglietto

da visita: “Snap’in the best

and rape’in the rest”.

77/OMBRE/note


Immaginate il punk come un

urlo ribelle che squarcia il silenzio

della normalità, un’esplosione

di colori sgargianti e suoni

distorti che rompono le catene

dell’omologazione.

I punk sono come guerrieri della

libertà, con i loro abiti strappati

e i capelli colorati che sventolano

al vento della disobbedienza.

Dall’altra parte, i paninari sono

come eleganti pavoni che si pavoneggiano

nei loro abiti firmati

e nelle scarpe lucidate. Sono i

signori della moda, con le loro

giacche di pelle e i jeans stretti

che sfoggiano con fierezza,

camminando sicuri di sé lungo le

strade della città.

Il punk canta l’inno della ribellione,

i paninari danzano al ritmo

del consumismo sfrenato.

Sono due mondi opposti, due

stili di vita che si scontrano e si

intrecciano come le note discordanti

di una canzone punk

suonata però in un locale alla

moda.

Era necessario condividere con

voi la mia visione dei punk e dei

paninari prima di raccontarvi

questa storia.

A 13 anni avrei voluto essere un

paninaro: amavo vestirmi bene,

avere un certo stile, fare il figo

insomma. Al tempo stesso, il

mondo della musica e il conservatorio

mi portavano ad una

visione della vita fuori dagli

schemi, libera. Volevo essere

paninaro solo per l'estetica ma

omologarmi alla massa non mi

piaceva, oltre al fatto che mi è

sempre stato insegnato che per

essere “alla moda”, la moda non

dovevo seguirla, piuttosto crearla.

Sono figlio del '78, stato

adolescente negli anni ’90 e sia

il movimento punk che quello

dei paninari hanno subito delle

trasformazioni e delle evoluzioni

significative in poco più di un

decennio. Negli anni novanta il

punk continuava a gridare la

sua ribellione con note graffianti

e messaggi di protesta, ma ha

visto una certa diversificazione

musicalmente ed espressivamente:

sono nati sottogeneri

come il pop punk, l'emo punk e

il punk hardcore, ciascuno con

le proprie caratteristiche sonore

e visive. Inoltre, il punk ha

continuato a essere una voce

critica contro l’establishment e

le ingiustizie sociali e politiche,

anche se in alcuni casi ha perso

parte della sua forza originaria.

Del resto i paninari, un tempo


iconici, iniziavano a sbiadire

nell'ombra del cambiamento,

lasciando spazio a nuove tendenze

e movimenti giovanili.

Sono cresciuto in un piccolo paese

di seimila abitanti, figlio di

genitori operai e nipote di contadini.

I punk li vedevo solo in tv

quando qualche telegiornale ne

parlava, quasi sempre in malomodo,

di conseguenza, io e i

miei familiari davamo giudizi

negativi, una delle poche volte

in cui giudicai delle persone per

il loro aspetto: crescendo capii

che ognuno ha il diritto di esprimersi

a proprio modo, rispettando

naturalmente gli altri esseri

umani, e ammetto che il

movimento punk cominciava

ideologicamente a piacermi.

Ricapitolando: come i paninari

amavo vestirmi bene ed apparire,

ma al tempo stesso non mi

importava di indossare vestiti

firmati, essere realmente alla

moda. Dei punk apprezzavo

come con la musica esplorassero

temi di disillusione politica,

manipolazione dei media e sensazioni

d'impotenza di fronte al

sistema. D'altro canto non mi

piaceva il modo, in gesti e vestiario,

in cui manifestavano il

loro disagio.

Adesso, dopo anni vissuti alla

ricerca di una forte identità e

personalità artistica e stilistica,

mi viene da pensare a quanto

questi due movimenti abbiano

invece influenzato la mia vita,

soprattutto quella musicale. Ho

chiuso gli occhi per un attimo e

ho immaginato di vedere punk

e paninari insieme, oggi, migliorare

il nostro mondo. Nell’alchimia

del destino, l’unione di un

punk e un paninaro scolpisce un

racconto avvincente di contrasti,

dove le due correnti, apparentemente

divergenti, si annodano

come fili d’oro in un

tessuto di esperienze uniche. In

questo connubio, ribellione e

consumismo danzano liberamente

mentre stile e identità si

fondono in un ritmo frenetico di

nuove espressioni. È un palcoscenico

dove il dialogo interculturale

si fa poesia, e la sfida delle

convenzioni diventa un inno

alla diversità, tessuto da idee e

sogni intrecciati su un tappeto

di vissuti differenti. A dirvi la

verità mi sono sempre sentito

un “punk di classe”, ahahah.

Punk o paninaro?

Massimo Valentini


PunkMARTA SILENZI

-zine


“The music papers at the time were

pretty good, NME, Melody Maker

and Sounds, they were good

magazines but because the

journalists were older they weren’t

really talking about new music,

you know? So with Sniffin’ Glue

we felt like the voice of the street

because we were nearer the age

of the people in the groups,

so our point of view was that we

were more authentic.”Mark Perry

Non che a fine anni settanta non

esista già il giornalismo musicale,

figuriamoci, ma il fenomeno punk

ha i suoi non luoghi, le sue regole

da infrangere, il suo modo di fare

ed è tutto talmente nuovo da non

vederne i confini.

Chi sono le band? Dove e quando

suonano? Chi va a vederle?

È tutto da costruire, tutto

da documentare e risponde ad

un’urgenza immediata. È tutto

mescolato, la musica, l’aspetto,

l’atteggiamento sopra e sotto

il palco, i musicisti e i fan, i

produttori e i gestori dei locali, e

naturalmente le riviste che di tutto

questo parlano e lasciano traccia.

Specie a Londra è un po’ come darsi

un appuntamento:”Stasera, al Roxy,

Heartbreakers, Generation X e

Damned.” Magari scritto a macchina

e commentato a pennarello,

fotocopiato e pinzato da un lato,

distribuito in strada, nei posti giusti,

tra le gente giusta.

Tra le prime a circolare c’è Sniffin’

Glue, di Mark Perry, che nasce da

un verso dei Ramones e mostra la

fiorente scena punk londinese; dura

poco più di un anno tra 1976 e ‘77

ed è talmente impulsiva da essere

persino sgrammaticata: come tutto il

punk non conta la precisione, conta il

messaggio, conta che sei un pioniere,

che lo stai facendo e lo stai facendo

a modo tuo, con le tue risorse (DIY).

Le 50 copie appena del primo

numero diventano presto 15.000 e

poi basta, una fiammata, così come

succede sulla scena musicale per

diverse band. È una fanzine seminale,

che dirama in mille altri progetti:

“Man mano che diventavamo più

famosi (...), molte persone ci

chiedevano se potevano scrivere per

la rivista, ma quello che dicevo loro

era: “No, andate e avviate la vostra

fanzine”. Che è quello che è

successo. Dopo Sniffin’ Glue – in

circa sei mesi – sono nate centinaia

di zine diverse.” (MP). Jamming! è

una di queste. In circa un decennio

(1977-86) sforna 36 numeri

carichissimi ad opera del

preadolescente Tony Fletcher che

diventerà in seguito giornalista

e autore di importanti biografie

musicali (non senza riportare alla

mente il precoce William Miller

di Almost Famous).

La rivista DIY per eccellenza di fine

anni settanta in Texas è Sluggo!,

formato tabloid, fotocopiata e poi in

seguito stampata in offset a colori,

con alcune copertine realizzate a

mano e serigrafate su velluto.

La cosa interessante è che è

pionieristica nella “instant review”,

cioè nel realizzare critiche di

spettacoli locali in tempo reale

durante la notte da distribuire per

strada la mattina dopo.

Oltre all’etica fai-da-te, quello che

accomuna questi giornaletti è che gli

editori sono quasi sempre loro stessi

dei musicisti: tutti vogliono essere in

un gruppo e i gruppi sono promotori

della loro musica, dei loro ritrovi,

delle loro serate, perciò – altamente

motivati – producono anche le loro

zine con le notizie e un art direction

conforme al periodo. Quasi tutte,

ad esempio, pubblicano fumetti

e annoverano nella redazione

fumettisti, gli scrittori sono anche

illustratori e tra le firme si trovano gli

artisti più in vista della scena punk,

dove afferrare la via per esprime se

81/PAGINE/note


stessi è l’imperativo fondamentale.

Molto spesso le zine sono associate

a etichette discografiche DIY:

nell’ottica di farsi le cose da soli,

la musica si scrive, si suona, si

documenta e si produce. È questo

il caso di Flip Side, di Los Angeles,

nata nel 1977 ad opera di un

gruppetto di amici della Whittier

High School e arrivata agli anni

duemila, partita in fotocopia poi

stampata in roto-offset con copertine

patinate, associata alla Flip Side

Records e ad un piccolo festival nel

deserto del Mojave con le band

pubblicate dall’etichetta. Lo stesso

vale per Touch & Go, una rivista del

1979, nata in Michigan come fanzine

autostampata e legata dal 1981

all’etichetta omonima che diventa tra

le più importanti dell’underground

americano, con un approccio di

contratti discografici rilassato,

gestito spesso con una stretta di

mano e suddivisione dei profitti 50 e

50 tra artisti ed etichetta al netto dei

costi di produzione e promozione.

O anche per Slash, sulla scena punk

di L.A. di fine anni settanta primi

ottanta con la sua etichetta Slash

Records.

Diverse iniziative si legano di

frequente a queste fanzine, specie

quando l’impostazione è letteraria

come per Search & Destroy (dalla

cazone degli Stooges), avviata nel

1977 da V. Vale (proveniente dal City

Lights Book Store di San Francisco)

con piccole donazioni iniziali da

parte di personaggi come

Ferlinghetti e Ginsberg e diventata,

dopo 11 numeri, la casa editrice

RE/search Pubblication, con un

approccio letterario-antropologico a

tematiche borderline, sia di stampo

musicale che, ad esempio, sulla

mortificazione corporea (Modern

Primitivism), la cultura freak del circo

(Freaks) o le performance

masochiste (Bob Flanagan:

Supermasochista). Gli si affianca

per un po’ anche l’attività

RE/search Typography.

Alcune fanzine, conformemente

all’etica punk, mentre documentano

la scena musicale, trattano temi

politici, morali, si leggono articoli sul

vegetarianesimo, sul femminismo,

sulle minoranze di razza e di genere.

Punk, una delle più famose, nei

15 numeri usciti dalla seconda metà

degli anni settanta, mentre mostra

la scena del CBGB, del Max’s Kansas

City e di Zeppz, i principali locali

newyorkesi di pertinenza punk,

accoglie il lavoro di scrittrici,

fotografe e artiste che generalmente

sono escluse da un panorama

selettivo di appannaggio maschile.

Tra anni ‘80 e ‘90 escono Girl Germs

(Riot Grrrl zine diretta da

studentesse dell’università

dell’Oregon e membri del gruppo

82/PAGINE/note


83/PAGINE/note


Bratmobile), Homocore (fra le prime

zine-queer anarco-punk americane,

diretta da giovani dell’underground

gay in cerca di una comunità

identitaria), J.D.’s (JUVENILE

DELINQUENTES, rivista queer punk

canadese dai contenuti provocatori,

costruita assemblando immagini ,

testi e media qeer punk spesso di

contenuto erotico, violando

copyright e procedure di

riproduzione, ristampa, riciclaggio e

riscrittura. Fotocopiata e distruibuita

per posta o come dispensa a mano a

fiere, feste, convention, mostre, tutto

quanto possa compattare la

comunità gay), Out Punk (fanzine

di San Francisco, 7 numeri tra ‘92

e ‘97, dà origine alla prima etichetta

discografica esclusivamente di

gruppi queer).

Altro tratto distintivo di questo tipo

di pubblicazioni – generalmente

prodotte da un gruppo ristretto di

persone o, addirittura, da un solo

individuo che si occupa di scrivere

gli articoli, realizzare e trascrivere

le interviste, fare le fotografie e i

disegni, stampare e fotocopiare la

rivista, assemblare le copie,

distribuirle e venderle – è che a volte

sono invece opera di un collettivo,

letterario o artistico, per lo più di

stampo anarco-situazionista. È il

caso di KYPP (Kill Your Pet Puppy)

scritta e progettata dai 12 membri

inglesi del Puppy Collective; o di

Profane Existence, a cura

dell’omonimo collettivo del Nord

America (anche loro con una

personale etichetta discografica);

o della più recente Rancid News

(poi chiamata Last Hour perché

troppo spesso confusa con il gruppo

dei Rancid), che documenta la scena

britannica del primo decennio

duemila ad opera del collettivo

editoriale antiautoritario collegato

all’etichetta House Hold Records.

Tra le più longeve ci sono Slug

and Lettuce (‘87-’07), trimestrale

cartaceo gratuito fondato allo State

College in Pennsylvania poi

trasferitosi a New York con un

notevole aumento della tiratura.

90 numeri in un ventennio con temi

anarco-punk, politica antiautoritaria,

azione vegana, genitorialità radicale,

attivismo e le consuete interviste e

recensioni di libri, dischi, gruppi,

concerti; Pork, di Sean e Katie

Aaberg, artisti concettuali (Weirdo

Art) americani con una grande

capacità di utilizzare stili e linguaggi

diversi, fumettisti, illustratori e

autori. La rivista (2010-2018) calca la

mano sulla cultura di strada: denim,

borchie, pizza, hamburger, coltelli a

serramanico e comportamenti

antisociali, se pensiamo un momento

alle immagini di Andy Warhol

vediamo come i contenuti del punk

trascolorano nel pop. Razorcake

vede la luce nel 2001 ed è tuttora

attiva. È un bimestrale fai-da-te di

Los Angeles, unica fanzine ad

ottenere la certificazione ufficiale

di no-profit: nessuno può trarre

individualmente guadagno dalla

rivista che semplicemente si

autosostiene. Razorcake ha una

politica di partecipazione aperta e

attualmente conta oltre 180 scrittori,

fotografi, illustratori e musicisti

volontari indipendenti a lungo

termine provenienti da tutto il

mondo. Nata in formato cartaceo

è oggi una rivista web che produce

libri, dischi, live, letture, podcast ,

webcomics e video.

Molto importante è il mensile

Maximum RocknRoll (MRR) che, nato

da un programma radiofonico a

Barkeley, si occupa della scena punk

84/PAGINE/note


mondiale. Negli anni novanta è già la

bibbia del punk, di ampia copertura

e durata costante. Oggi conta oltre

400 numeri di contenuto

internazionale e inclinazione politica,

ma è anche molto criticata per una

certa rigidità di giudizio e una sorta

di contraddizione in termini: è una

rivista che è diventata un’istituzione

e per definizione il punk è contro le

istituzioni.

Ma generalmente le punk-zine hanno

vita più breve, sono editoria

artigianale transitoria e oggi è

difficile tracciarne i numeri perché

non sono state create nell’ottica di

essere conservate.

Ecco perché sono preziose le copie

ancora in circolazione nel circuito di

collezionisti di magazine come

White Stuff, dello scozzese Sandy

Robertson: una decina di pagine di

testo, grafica e fotografie

fotocopiate, dattiloscritte o scritte a

mano, stampate su un solo lato,

pinzate in alto a sinistra e quasi del

tutto monotematiche, incentrate

sulla figura – del resto unica e

fondamentale – di Patti Smith,

autrice di Ain’t it strage, da un cui

verso viene il nome della zine:

“Down in vineland there’s a

clubhouse. Girl white dress, boy

shoot white stuff.”

Chiaramente questi sono i mega

panorami inglese e americano, che

esportano più musica e tutto quello

che le gira intorno, ma ogni area ha

il suo punk e le sue fanzine.

In Italia il punk non è tanto una

questione di classe sociale, come

quello inglese, bensì di condizione

esistenziale dovuta al contesto socio

politico. Bologna è il terreno più

fertile, con il DAMS, i centri sociali, le

radio libere e lo spirito movimentista.

La Traumfabrik di Filippo Scozzari e

Giampiero Huber fanno da cerniera

fra Bologna e le riviste romane di

fumetto Cannibale ed Il Male, che

assieme alla Red Ronnie’s Bazaar

recensiscono spesso le band

bolognesi, contesto da cui nasce la

Harpo’s Bazaar, etichetta che

pubblica il punk italiano su cassetta.

Quindi anche qui musica, fumetto

ed etichetta discografica vanno a

braccetto. Tra gli altri, nel 1979

nascono i R.A.F. Punk, collettivo

anarco punk con sede al centro

sociale Cassero, autori della Attack

punkzine, embrione della futura

Attack Punk Records di Jumpy

Velena che pubblica i primi

CCCP – fedeli alla linea.

Altri titoli sono Punxerox (che

prende il nome dalla tecnica

fotocopiativa, nata nel 1979 e

recentemente riscoperta e

trasformata in un libro che raccoglie

il più completo archivio di flyer e

grafiche realizzate con tecnica xerox

degli artisti della scena punk

internazionale, contributi testuali e

saggi critici), Plexiglas, dello stesso

anno. Porrozine, Ascension e

Sottoterra, poi diventate vere e

proprie riviste. T.V.O.R. (teste vuote

ossa rotte, sull’hardcore anni ‘80),

AbBestia e così via, a testimoniare

che qui come altrove l’istinto

creativo e il bisogno espressivo

danno origine ad un sottobosco e

una sottocultura che è sempre di

estremo fascino anche se ormai,

la difficoltà di reperire le copie

trasforma l’originaria editoria

punk in materia storica e forma

di collezionismo.

85/PAGINE/note


SESSO, DROGA

E PUNK:

" UNA SIGARETTA

ACCESA

AL CONTRARIO"


CHIARA RIVA

Una sigaretta accesa al contrario, di Tea Hacic-Vlahovic è un romanzo pubblicato

nel 2023 per Fandango Libri con la traduzione di Francesco

Graziosi. Definirlo un “romanzo punk” è assolutamente appropriato.

Siamo all’inizio degli anni 2000, in una città di provincia degli Stati

Uniti, più precisamente della Carolina del Nord. È l’ultimo semestre prima

della fine della scuola e una giovane sedicenne di nome Kat sogna di perdere

la verginità e di essere inclusa nel suo gruppo di amici punk senza l’etichetta

di sfigata che sembra volerle restare appiccicata come un marchio di

fabbrica in ogni cosa che fa, in ogni suo atteggiamento. Il suo momento di

gloria arriva inaspettatamente quando, complice una foto scattata per una

rivista online assieme al suo idolo musicale, viene scambiata per una groupie

e il suo abbraccio con la rockstar interpretato come segno di un rapporto

molto intimo. E da quel momento tutti la vedono con occhi diversi.

La protagonista ha molto in comune con Tea Hacic-Vlahovic: la sua

natura naïve, le origini europee, oltre che naturalmente la passione per la

musica punk: insieme all’ambientazione del romanzo, sono tutti elementi

autobiografici. L’autrice è infatti di origini croate, nata vicino a Zagabria

ma trasferitasi proprio in Carolina del Nord allo scoppio della guerra in

Jugoslavia. Il suo percorso è proseguito in Italia, dove ha studiato moda a

Milano, alla Naba, un periodo che ha riversato nel suo primo libro pubblicato

sempre con Fandango, L’anima della festa (2021). Blogger, scrittrice,

editorialista per magazine come Vice e Wired, autrice di un podcast di

successo che si intitola Troie radicali e, per non farsi mancare proprio nulla,

anche produttrice della serie che sarà ispirata proprio al suo primo romanzo.

Irriverente, ironica, politicamente scorretta, punto di riferimento per la

comunità queer sono le espressioni che più spesso la definiscono.

Una sigaretta accesa al contrario si fa notare all’interno di quella che,

non senza difficoltà, possiamo definire come letteratura, o comunque, produzione

narrativa punk. Se il punk nasce infatti come genere musicale alla

metà degli anni Settanta, la sua ideologia nichilista e ribelle finisce per

contagiare la letteratura, e qualcuno gli ha voluto trovare anche un precursore

in quella che in inglese viene definita come transgressive fiction; la

definizione parla da sé e ci si chiarisce ancora di più se scorriamo i nomi di

alcuni tra i suoi principali esponenti: Henry Miller, William Burroughs,

Georges Bataille, Vladimir Nabokov, ovvero la sessualità e l’erotismo come

87/PAGINE


ossessione, il proibito, la dipendenza dalle droghe e più in generale, qualifica

che li riassume tutti, l’essere controcorrente e antisistema.

In realtà, se non possiamo definire punk questi autori perché tutti

anteriori alla data di nascita di questo movimento culturale, sappiamo che

esso in letteratura ha trovato nel cyberpunk la sua più fortunata filiazione

con autori come William Gibson (Neuromante, 1984) e James G. Ballard

(Crash, 1973). Le loro opere hanno preconizzato il mondo interconnesso di

oggi, le distopie tecnologiche delle intelligenze artificiali e delle macchine,

la responsabilità umana di fronte alla gestione e alle conseguenze delle

proprie invenzioni; hanno coniato neologismi come cyberspazio e più in

generale una lingua adatta a una realtà che si sarebbe materializzata di lì

a poco. Crudi, grotteschi, noir. Pura avanguardia. Una sigaretta al contrario

è un romanzo punk, ma allo stesso tempo non è niente di tutto questo.

Intanto, è una voce femminile – anzi femminista –, in un coro di voci maschili.

La sua antieroina Kat è più accostabile alla Janey di Sangue e viscere

al liceo di Kathy Acker, scrittrice, poetessa, sceneggiatrice statunitense

punk morta prematuramente a 57 anni nel 1997. Quest'opera, pubblicata

in lingua originale nel 1984 e edita in Italia nel 2023 per LiberAria, racconta

la storia con risvolti surreali di una ragazzina che ha una relazione incestuosa

con il padre e lo lascia nel momento in cui questo si trova una donna,

proseguendo da sola la sua strada in una serie di avventure

inclassificabili tra personaggi picareschi, tossici, delinquenti; mescola violenza

e sofferenza a inserti di sogni e disegni e si ispira nello stile al suo

mentore William S. Burroughs che la definì una “Colette postmoderna”. Un

piccolo capolavoro metaletterario e, questo sì, punk al cento per cento.

Punk per questi personaggi da “due soldi”, punk perché urla il proprio disagio

di avere sedici anni nel mondo di oggi, punk perché ha abbastanza

immaginazione per rompere gli schemi e inventare un linguaggio nuovo

per comunicarlo. A suo modo è un romanzo di formazione, esattamente

come Una sigaretta accesa al contrario: entrambi punti di arrivo in un ideale

percorso di continuità che ha come ulteriori tappe opere culto come Il

giovane Holden di Salinger (1951) e Meno di zero Bret Easton Ellis (1985)

– tra l’altro tutti e due citati nel romanzo di Tea. Ma rispetto a questi modelli,

anche espressioni di un cambio di passo per la loro ottica femminile.

Per il resto, tra queste ultime tre opere fioccano le affinità e i punti in comune.

A partire dai riferimenti a musiche e canzoni; indipendentemente

dal fatto che siano ascoltate nei locali jazz di New York o nei club di Los

Angeles o della Carolina del Nord, o in sottofondo dallo stereo o su MTV,

o siano soltanto titoli citati su poster appesi nelle camere di giovani e adolescenti,

i romanzi compongono al loro interno delle tracklist che rispecchiano

il mondo dei protagonisti e la loro subcultura di appartenenza,

perché rappresentano il cuore e la tipologia preponderante dei loro consumi

culturali. Si fa sentire con prepotenza la presenza della musica come

nutrimento generazionale, che ha unito i ragazzi degli anni cinquanta,

come degli anni ottanta e duemila, attraverso generi specifici di tendenza,

jazz, rock, punk californiano o punk britannico, i gruppi e le loro icone.

Quella musica che, con i suoi ritmi, i suoi titoli e le sue parole, veicola contenuti,

crea estetiche, genera ideologie: nelle quali i più giovani, più recettivi

e sensibili ai sismi dei cambiamenti epocali, si sono riconosciuti.

88/PAGINE


89/PAGINE


In Una sigaretta accesa al contrario Kat lo dice a chiare lettere: in

quella piccola città di provincia, era stato l’ascolto di

una canzone a cambiarla e a farle sposare il punk come

stile di vita. Tradotto per i non adepti, il punk come stile

di vita significava “bazzicare” coi punk, vestirsi più

punk che si poteva, andare ai concerti, bere birra e disobbedire

alle autorità…

Il punk per Kat è una passione che stringe lo stomaco e un’esigenza

per tamponare le sue fragilità. È in attesa che il suo corpo sbocci, allo specchio

si vede ancora sulle guance la ciccetta da bambina, porta lo stesso

caschetto fatto in casa da quando era piccola e il suo colore di capelli non

ha “le palle per produrre una saturazione forte”; è benestante e figlia di

immigrati giudicati troppo “strambi” per la società americana, che le impongono

qualche coprifuoco ma poi la lasciano sempre a casa da sola e

con i quali si è andata acuendo una progressiva distanza; frequenta la nuova

high school di una cittadina della provincia della Carolina del Nord e

prende apaticamente lezioni di pianoforte. Un personaggio naïve, che non

può prendersi sul serio, con una sua ingenuità di fondo e una spontaneità

che si riflette nel linguaggio disincantato e nelle sue frequenti battute autoironiche.

Kat aspira, senza grande successo

per la verità, a scrollarsi di dosso l’aura di

sfigata che la porta ad autoclassificarsi

come una cosa a metà “che non è né un’amica

né una fidanzata, una cosa sgradevole”.

Per questo frequenta il gruppo di punk

di Dexter che ha come punto di ritrovo la

“Stanza delle Feste”, un laboratorio lurido e

maleodorante a brutta imitazione della Fun

House degli Stooges, la fattoria affittata negli

anni settanta dalla storica band in cui i

componenti erano andati per un periodo a

vivere tutti insieme. Brama con tutte le sue

forze di perdere la verginità con Bob, commesso

in una libreria dove si rifornisce di

riviste e fanzine, e si adopera a seguire puntigliosamente

i dettami della moda punk,

“alla Vivienne Westwood”, quella fai da te

con strappi, fori e sforbiciate. Una sera la

giornalista Sabrina, che sta seguendo la

tourné del cantante Trippy Dope (ispirato alla figura di Iggy Pop), le chiede

di scattare una foto in braccio a lui per il suo articolo. Quell’immagine che

all’origine aveva tutta un’altra storia, ripresa nel backstage del locale Cat’s

Cradle, inizia a circolare sul web e Kat viene scambiata per una groupie: il

suo sogno si avvera, ha incontrato il suo mito, viene scambiata per una vera

ragazzaccia, trasformandosi nella “protagonista del suo film”. Nel cammino

alla ricerca di sé e della propria identità, Kat passa dal sentirsi kafkianamente

meno di uno scarafaggio attraverso le varie fasi delle sbronze, del taccheggio

nei centri commerciali con l’amica “figa” Ashley, fidanzata di Dexter,

poi del sesso con vari ragazzi, per culminare l’escalation provando la “roba”,

l’eroina. Nell’illusione di lasciare un’impronta che si noti. Di essere al centro

Solo il sesso e la droga

possono fare la

differenza. E la musica.

Le uniche cose in grado

di suscitare una

reazione, un brivido,

o al contrario di inibire

qualsiasi desiderio

perché dispensatrici

di un artificioso senso

di totale appagamento.

90/PAGINE


dell’attenzione. Perché nel suo mondo “essere troia era la cosa più punk che

potesse fare una ragazza punk”. E farlo in quel buco che è un’anonima cittadina

dell’America di provincia, è l’unica cosa che conta.

Ciascun capitolo del libro è dedicato a un luogo dove si trascina

quotidianamente la vita della provinciale Kat: la tavola calda, il negozio di

dischi, la biblioteca, la scuola, i centri commerciali tutti con lo stesso odore

sterile, la pizzeria e avanti così. Posti senza identità, dove non ci sono

speranze, non c’è futuro per una giovane adolescente; nell’era di Internet

questa topografia è la riproduzione in scala ridotta di un intero pianeta per

il quale Kat prova una tale rabbia, un tale senso di repulsione da volerlo

distruggere, proprio come sembra suggerirle la Guida galattica per gli autostoppisti,

un’altra pertinente citazione letteral-televisiva.

Solo il sesso e la droga possono fare la differenza. E la musica. Le

uniche cose in grado di suscitare una reazione, un brivido, o al contrario di

inibire qualsiasi desiderio perché dispensatrici di un artificioso senso di

totale appagamento.

Il primo personaggio che prende per mano Kat in questo “viaggio

iniziatico” alla rovescia è Ashley, che la istruisce subito, grazie al suo unanimemente

riconosciuto “Potere della Strafiga”, sul tema del femminismo

che caratterizza tutto il romanzo. Potere incarnato da Ashley, da poche

altre figure femminili della storia, e da qualche icona televisiva, come il

personaggio della moglie del boss mafioso, Carmela, nella serie I Soprano.

Potere invidiato da Kat, che sa di non possederlo. Potere messo costantemente

in pericolo dall’atteggiamento prevaricante dei Maschi. Nello spazio

di poco tempo Kat fa i conti con questa prepotenza: la pillola del giorno

dopo, che il fidanzato Jake le impone dopo un rapporto, diventa, come la

mela di Eva nel giardino dell’Eden, la sua “pillola della conoscenza”. Dopo

averla assunta si sentirà annichilita e triste, come “una donna sessualmente

attiva che sapeva più cose di quanto avrebbe dovuto. Che capiva il

mondo”. Tutti i ragazzi che conosce si riveleranno, per un verso o per l’altro,

deludenti: il già citato Jake, spacciatore che Kat scoprirà essere un poser

(ovvero una persona che si atteggia solamente ad appartenere a una sottocultura,

per moda, per desiderio di inclusione), si attribuisce il merito di

averle tolto la verginità. Un altro ragazzo, Josh, le propone di andarsene

con lui e condurre la “quintessenza” della vita alternativa, fuori dalla società

e dall’odiato sistema, la vita “vera” fatta di strada e musica in mezzo a una

“comunità pazzesca”. Salvo non presentarsi all’appuntamento dato. E lasciare

Kat con la sensazione di avere in bocca una “una

sigaretta accesa al contrario”, parafrasando la cinica poesia

sull’amore di Charles Bukowski che dà il titolo al

romanzo.

Per amore di Jake e autoconvincendosi con una serie di ingenui

ragionamenti di non far nulla di male, Kat proverà anche l’eroina, senza

cadere però nella dipendenza. Il tema della droga si lega a doppio filo con

la subcultura punk (anche se c’è chi si è distinto per il suo rifiuto), e con le

sottoculture musicali in genere. Nel citato film-manifesto Trainspotting di

Danny Boyle del 1996, a sua volta tratto dall’omonimo romanzo di Irvin

Welsh, una frase pronunciata da uno dei protagonisti esprime tutto il

nichilismo sotteso alla condizione della tossicodipendenza: Io ho scelto di

non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni.

91/PAGINE


92/PAGINE


Chi ha bisogno di ragioni quando hai l’eroina? La droga nell’ambiente di

Kat è una presenza di sottofondo, si sa che molti del gruppo sono “fatti”,

ma è quando scopre che il suo ragazzo è il loro pusher e ne offre anche a

lei che il tema sale alla ribalta nel romanzo: con la descrizione della prima

sensazione provata dalla protagonista, un’“invasione di sentimenti puri, di

tenerezza e intimità”, l’indicibile sballo a posteriori, le crisi di overdose di

Dexter e quelle di astinenza di Jake.

Da questa spirale di esperienze, di incontri con tossici e spostati, di

illusioni spurie e disincanto Kat sembra riemergere quando scappa a New

York per raggiungere la giornalista che le aveva scattato la foto con Trippy

Dope. Fuori dall’inferno della provincia non esce a riveder le stelle, ma

trova un cielo “fosco e opprimente”. La dimensione e il caos della città la

schiacciano e si sente una nullità. Come Holden Caufield nella sua New York

davanti alla fine del marciapiede, in preda al panico irrazionale di sprofondare.

Come Clay nella sua Los Angeles, davanti al cartellone con la scritta

che sembra un ipnotico monito: Sparire qui. Una sensazione molto

simile di smarrimento, iperrealistica nella sua intensità, di essere “inghiottita

e avvolta dal mondo circostante” la colpisce proprio nel separé di un

locale dove ha appena ordinato il suo piatto preferito, toast al formaggio.

Nessuno sa che è lì, potrebbe scomparire per sempre.

Eppure a New York è appena approdata al “centro della scena”. Della

scena punk degli esordi, quella dei locali storici come il CBGB, dove si è

fatta la storia del punk, dove sono stati scoperti e sono passati tutti i suoi

idoli, i Ramones, i New York Dolls, i Velvet Undergound, Patti Smith e Iggy

Pop. Ma in quel momento, come in una rivelazione, Kat sente che quell’energia

è ormai tutta finita, appartiene al passato. “Dovevi esserci”, si dice.

Se il punk non è morto, quello che Kat vive è ciò che rimane dopo. Qualcosa

di diverso. Punk degli anni Duemila: un revival.

Meglio voltare pagina, meglio forse pensare ai buoni propositi, perché

una parte di lei, “per quanto potesse sembrare cattiva, ci teneva eccome”.

Ripensamenti per rimettere in riga la propria identità senza doverla

perdere: ricucire il rapporto con la madre, riprendere a suonare, basta droga,

basta bugie, basta Jake. E lasciare nel piatto il solito, nauseante toast

al formaggio.

93/PAGINE


L'ombelico del mondo

©Livia Ranzini Pallavicini


L’ASTRAGALO DI ALBERTINE SARRAZINE

Libretto francese che non sarebbe

arrivato a noi se Patti Smith

non ci si fosse riconosciuta e non

se ne fosse innamorata scegliendo

di comprarlo al posto del pranzo,

rispondendo ad un’altra fame.

L’evasione di una detenuta, la

rottura della caviglia, il soccorso

da parte di uno sconosciuto

nel quale rispecchiarsi.

La convalescenza, le case che

accolgono e nascondono.

Il mondo sotterraneo

dei fuggiaschi, dei corrotti,

delle prostitute, l’amore

e l’autodeterminazione.

La scrittura potente e bellissima,

il genere fuori dagli schemi.

“(...) perché bisogna

assolutamente arrivare da

qualche parte o assolutamente

allontanarsene”. MS

95/PAGINE/ripostigli


COLLAGE#1

1. S. Chick, Black Flag. I pionieri dell’hardcore punk, Odoya, Bologna

2012 2. S. Blush, American punk hardcore. Una storia tribale, ShaKe,

Milano 2007 3. American hardcore. La storia del punk americano 1980-

1986, DVD e libro, ShaKe, Milano 2007 4. J. Temple, The Filth and the

Fury, libro e DVD, Isbn, Milano 2009 5. L. McNeil, G. McCain, Please Kill

Me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai,

Milano 2006 6. G. Kuhn, Straight Edge. Storie, filosofia e racconti

dalla scena hardcore punk, ShaKe, Milano 2011 7. 100 dischi ideali

per capire il punk, a cura di S. Gilardino, Editori Riuniti, Roma 2005

8. S. Reynolds, Post-punk 1978-1984, Isbn, Milano 2010 9. S. Reynolds,

Post punk 1978-1984, minimum fax, Roma 2018 10. G. Marcus, Tracce

di rossetto. Percorsi segreti nella cultura del Novecento dal dada ai Sex

Pistols, Odoya, Bologna 2010 11. D. Laing, Il punk. Storia di una sottocultura

rock, EDT, Torino 1991 12. M. Torcinovich, Punkouture. Cucire

una rivolta 1976-1986, Nomos, Busto Arsizio 2019 13. M. Torcinovich,

in collaborazione con S. Girardi, L’estetica della nuova onda punk. Fotografie

e dischi 1976-1982, Nomos, Busto Arsizio 2016

© Alessandro Prandoni




COLLAGE#2

1. Power of the Pistols (Sex Pistols), 1985 2. Never Mind the Bollocks. Here’s the Sex Pistols

(Sex Pistols), 1977 3. Everything Sucks (Descendent), 1996 4. Wig Out At Denkos (Dag Nasty),

1987 5. Leather, Bristles, No Survivors And Sick Boys… (Charged G.B.H.), 1982 6. Album (Public

Image Ltd.), 1986 7. Out of Step (Minor Threat), 1983 8. Suicidal Tendencies (Suicidal

Tendencies), 1983 9. City Baby Attacked By Rats (G.B.H.), 1982 10. Midnight Madness And

Beyond… (G.B.H.), 1986 11. No Need To Panic (G.B.H.), 1987 12. Bloodied But Unbowed. The

Damage To Date 1978-1984 (D.O.A.), 1983

© Alessandro Prandoni


100/PAGINE


1. Jonathan Coe, La banda dei brocchi 2. Viv

Albertine, Vestiti Musica Ragazzi 3. J.D.Salinger, Il

COLLAGE#3

© Marta Silenzi

giovane Holden 4. Paul Marko, The Roxy London

WC2 5. The Clash, London Calling 6. Thomas

Clément, Musica Unica 7. Nick Cave, Stranger Than

Kindness 8. Patti Smith, Presagi d'innocenza - poesie

101/PAGINE


1. Tea Hacic-Vlahovic, Una sigaretta accesa al

contrario 2. David Bowie, Heroes 3. J.D.

Salinger, Il giovane Holden 4. Bret Easton Ellis,

Meno di zero 5. Irvine Welsh, Trainspotting

6. David Bowie, Absolute Beginners


© Chiara Riva

COLLAGE#4


1. Alan Warner, Rave Girl 2. Garth Risk Hallberg, Città in fiamme 3. Irvine Welsh, Porno

4. Paul M. Sammon, Splatter Punk 5. Farmacia Comunale, Farmacia Comunale 6. Brian Cogan,

Penelope Spheeris, The Encyclopedia of Punk 7. Silvia Ballestra, Compleanno dell'iguana

104/PAGINE


© Nicola Guida, Paola Ranzini Pallavicini

COLLAGE#5

105/PAGINE


L’OBLIO

È

ALL’ORIGINE

DELLE

PAROLE

PAOLA RICCI


A sinistra e alle pagine seguenti

Paola Ricci

Disegni e fotografie eseguiti

con una tecnica fotografica

di sovrapposizione

e stampati su carta da lucido

semitrasparente o su carta

opaca; work in progress iniziato

nel 2023. Il lavoro segue un

flusso in continua

trasformazione come fa

la parola nel tempo.

“Occorre dimenticare il passato

recente per recuperare il passato

remoto” scrive Marc Augé, grande

antropologo che ci ha lasciato da

poco, autore di un testo interessante

che s’intitola Le forme dell’Oblio e

che potrebbe essere messo in

connessione con una ricerca

etimologica della parola “punk”.

Egli ci dice fin dall’inizio del libro:

“Mi stavo infatti dimenticando di

precisare che spesso un’unica parola

contiene un’intera nidiata di pensieri,

nati da accoppiamenti di cui non

sappiamo granché e non

necessariamente somiglianti”.

Stabilire l’origine di una parola è un

po’ il lavoro di ricerca sulle

popolazioni che fa l’etnologo: si

arriva a costruire una mappa e a

disegnare l’aspetto cartografico di un

comportamento come di una parola,

definendo dei confini che però sono

diversi per ogni significato e che non

coincidono per ogni lingua. Al

momento di tradurre i dati acquisiti,

le informazioni si combinano come

colori, creando nuance che non

corrispondono alla visione iniziale.

La parola è mescolata, è dipinta con

diverse sfumature e gli strati che si

sovrappongono, come nelle pitture

antiche, sono celati o dimenticati per

poi arrivare a una fattezza che

sembra quella iniziale, ma nasconde

anche altro.

Una parola sarebbe satura se dovesse

contenere tutti i significati acquisiti

nel tempo e usarli anche

contemporaneamente nelle diverse

lingue, diventerebbe un sistema

ingolfato, come se il significante

(l’immagine acustica) fosse

l’emblema di tutto un vasto mondo

antropologico senza confini. È perciò

necessario l’oblio.

Gli etimologisti sono come dei

detective che scoprono i legami

esistenti tra le diverse lingue.

Nessuna lingua è circoscritta in

un’unica isola.

Etimologia viene dal greco ετυµον

(étymon) = “vero, reale, intimo

significato della parola” e λόγος

(lògos) = “studio, discorso”.

Il lavoro è dunque risalire di

generazione in generazione per

scoprire l’étymon di una parola, è

come occuparsi di come variano le

coordinate spazio-temporali,

arrivando quindi ad un procedimento

non tanto normativo, quanto

descrittivo.

Stampare una parola in un giornale è

come decretarne una sua veridicità,

ma non la sua storicità. Vedere la

parola per scoprirne la sua origine

può capovolgere il significato

acquisito durante la lettura e nella

mente del lettore può svilupparsi un

senso di rigetto come anche invece di

meraviglia. Questo processo

cognitivo potrebbe essere

paragonato a quello visivo di quando

si riesce a discernere tutte le fasi per

la realizzazione di un’opera d’arte.

A questo proposito è

interessantissimo un lavoro

fotografico di Dora Maar sulla

Guernica di Picasso. Negli scatti della

Maar si vede come il disegno era

inizialmente una cosa; le linee erano

in evidenza in una certa

configurazione e le forme che

appaiono poi nella fase finale

ritrovano parti del disegno iniziale

che è scomparso.

Forse l’origine di una parola viaggia

attraverso una canalizzazione simile,

dove qualcosa è portante ma non

evidente e altro scompare nel tempo

per assumere ulteriori aspetti di

significato e forma semantica.

“L’OBLIO, INSOMMA,

È LA FORZA VIVA DELLA

MEMORIA, E IL RICORDO

NE È IL RISULTATO.”

Marc Augé

Per etimologia di una parola cosa

s’intende esattamente?

La Treccani dice a riguardo:

“Disciplina linguistica che studia la

storia delle parole, risalendo fino al

punto della storia o della preistoria

107/PAGINE/note


https://www.paolaricci.com/index.html

108/PAGINE/note


di un vocabolo (etimo) in cui esso

risulta appartenente a una famiglia

di altri vocaboli”.

Costruiamo dunque il tracciato del

termine attorno cui si svolge tutto

il numero di questa rivista.

Quando andiamo a cercare “punk”

veniamo indirizzati, quasi subito,

verso il movimento inglese degli anni

settanta, senza molti riferimenti

indietro nel tempo. È invece

interessante scoprire come diverse

lingue abbiano voluto anche

trasformare questa parola per

“adattarla” alla propria lingua, come

è avvenuto nel francese che coniò la

parola “kepon” che è la versione

sillabica di punk e il consolidato

“teuf” che è l’equivalente di “fête”.

In Italiano invece abbiamo avuto la

semplice aggiunta di suffissi alla

parola inglese: punkettaro,

punkettuso o punkettone.

Il termine punk in angloamericano

designa “materiale di qualità

scadente”, “giovane propenso ad

attività criminali”, mentre “punke”

viene già utilizzato da William

Shakespeare per “prostituta” o anche

per “feccia”.

Quindi, quello che appare è che

questa parola abbia come origine la

descrizione “di personalità non

convenzionale” e/o portata a

comportamenti che la società poi

sottopone a giudizio.

Secondo l’Oxford English Dictionary,

il termine punk fu stampato per la

prima volta nel 1575 (anno in cui

Shakespeare divenne un

adolescente): è apparso in una

canzone, una ballata chiamata

Simon The Old Kinge, o talvolta

Old Simon The King. Il narratore della

canzone suggerisce che essere

ubriaco è “un peccato, come è quello

di mantenere un punk”.

Non molto tempo dopo Shakespeare

lo userà in una commedia intitolata

Measure for Measure, Misura per

Misura (1603-1604), in cui si trattano

temi contrapposti, come lussuria e

devozione, altruismo ed egoismo,

pietà e rabbia, politica ed etica,

giustizia e compassione. In questo

caso uno dei personaggi, Lucio, cerca

di spiegare la smentita criptica di

Marianna che lei non è né cameriera,

né vedova, né moglie, dichiarando

“Lei può essere una punke” (5.1.178).

Esce questo termine in questo testo

in cui si descrivono le opposizioni ed

è ambientato in una Vienna dissoluta,

dove le prostitute sono viste come

persone di grandi affari.

Alla fine del XVII secolo la parola

punk assume altri significati ancora.

La troviamo in un manoscritto del

1698 della biblioteca Bodleiana,

nel testo di una canzone oscena:

Women’s Complaint to Venus,

contenente la linea allarmante:

“... di notte fa di lui un punk che è

il primo ubriaco”.

Spostandoci in altri luoghi, dall’altra

parte dell’Atlantico, crebbe un

termine che non era stato usato in

Gran Bretagna e che non ha niente a

che vedere con quello di descrivere

atteggiamenti umani; punk è intenso

come un pezzo di legno fradicio

marcio e che usavano gli abitanti

dalla lingua nativa americana. Se

continuiamo, si può scoprire che in

Lenape, zona dell’Amarica del Nord

ed in quello che sarà il futuro stato

della Pennsylvania, vi erano parole

che partivano dalla stessa radice,

come “punkw” che significava

“cenere”, mentre “punxe” significava

“mettere legna sul fuoco” e infine

“punck” significava “polvere da

sparo”.

In similitudini giornalistiche nel 1770

gli americani nella Guerra

d’Indipendenza usavano il termine

punk per descrivere il loro modo di

combattere.

Per un ulteriore approfondimento

che arrivi fino ai giorni nostri si

consiglia il link https://jprobinson.

medium.com/the-rotten-etymologyof-punk-86db2fcc16f8.

Come si può vedere quindi la parola

è un sistema che inanella diversi

significati nel tempo, una sorta di

109/PAGINE/note


110/PAGINE/note


rete dove s’incastrano pertinenze

e situazioni di vita e di eventi che

chiedono alla parola di contenere

altro, come se si aggiungesse sempre

qualcosa di nuovo e scomparisse

qualcosa di vecchio.

La parola è tale perché continua nel

tempo a srotolare modificazioni,

come se perdesse continui strati di

pelle lasciati cadere dietro di sé,

disperdendo il significato

precedente, in una sorta di lento

“oblio” per fare entrare e apparire

altri usi ed accezioni, cavalcando il

mondo culturale o di vita in diversi

campi.

Tirando le somme e riprendendo

la digressione sul concetto di “oblio”

di Augé e anche sul concetto di

“rapidità” del pensiero di cui parla

Calvino nelle sue Lezioni Americane,

in fondo l’oblio e la rapidità sono

connessi in questo divagare

sull’etimologia: occorre essere capaci

di dimenticare qualcosa per fare

spazio alla memoria del passato che

si aggancia al nuovo e farlo con

rapidità, per collegare i diversi

passaggi temporali che avvengono

nella trasformazione del significato

di una parola, per coglierne

un’essenza fortificata.

Calvino elogia la rapidità spiegando

che: “Il mio lavoro di scrittore è stato

teso fin dagli inizi a seguire il

fulmineo percorso dei circuiti mentali

che catturano e collegano i punti

lontani dello spazio e del tempo.

Nella mia predilezione per

l’avventura e la fiaba cercavo sempre

l’equivalente d’un’energia interiore,

d’un movimento della mente.”

Quella capacità di scrittura porta a

catturare punti lontani attraverso una

sorta di viaggio nell’universo per

raggiungere rapidamente ogni luogo

dello spazio; il lavoro che svolge

l’etimologia è quello della

conoscenza comunicativa delle

parole, creando dei fili invisibili tra i

diversi significati a volte molto

distanti.

Forse non c’è una conclusione

definitiva quando si parla di

etimologia di una parola, è come un

flusso continuo che attinge al passato

per essere vissuto nel presente e poi

proiettato nel futuro, un tentativo di

prolungare l’esistenza della parola

stessa.

Augé chiude il suo saggio con il

capitolo “Le tre figure dell’oblio”

individuando tre forme. La prima è il

ritorno, ritrovare un passato perduto.

La seconda è la sospensione, la cui

ambizione è trovare il presente per

separarlo dal passato e dal futuro;

cercare di congelare il presente

attraverso forme estetiche proiettate

per il futuro anteriore. La terza figura

è quella del cominciamento, trovare il

futuro dimenticando il passato,

creare qualcosa che sia una nuova

nascita.

Se ci pensiamo attentamente è

quello che è successo con la parola

punk: è proprio questo sviluppo

conoscitivo che ha srotolato diversi

significati ed ha momentaneamente

stabilizzato il significante facendogli

però anche subire delle

trasformazioni, come abbiamo visto

nella lingua italiana con l’aggiunta di

suffissi fino all’ingresso in altri mondi

culturali che inizialmente non erano

suoi, come quello della musica punk

e punk rock.

“LA MEMORIA E

L’OBLIO SONO

SOLIDALI, SONO

ENTRAMBI

NECESSARI AL PIENO

USO DEL TEMPO.

CERTO CHE, COME

DICE MONTAIGNE,

‘OGNI COSA HA

LA SUA STAGIONE’,

E INDUBBIAMENTE

NON È NÉ SAGGIO

NÉ UTILE SOTTRARSI

ALLA PROPRIA ETÀ”

Marc Augé

111/PAGINE/note


Fenditure_Palazzo della regione

Lombardia attraverso lo squarcio

©Livia Ranzini Pallavicini


NON ESCLUDEVAMO IL RITORNO

Il pensiero che Giovanni Lindo Ferretti si fosse

intorpidito col tempo ha toccato tutti noi,

con amarezza. Come Bono che rinnega gli U2,

lui ha rinnegato il punk rivelandosi ipercattolico

e meloniano. Ma noi sotto sotto aspettavamo

il ritorno. Ed eccolo, dopo la mostra

autocelebrativa a Reggio Emilia, il ritorno

dei CCCP in DDDR, per il concerto del

24 febbraio 2024, a celebrare il revival del punk

filosovietico all’emiliana proprio lì dove è nato

tutto, nell’ex Berlino Est. Nemmeno i Sex Pistols

avevano osato tanto nella loro reunion e,

anche fosse solo per gli sporchi soldi, grazie a

questi quattro attempati ci sentiamo ancora - per

citare Lindo Ferretti dopo gli sputi del pubblico

a Scanzi a metà show - in grado di poter odiare

qualcuno perché ci sta sui coglioni, perché

non abbiamo mai voluto che tutti la pensassero

come noi, perché portiamo il disordine e non

l’ordine, non quello che volete voi, non sono

come tu mi vuoi, non sono come tu mi vuoi,

non sono come tu mi vuoi. NG

113/PALCHI/ripostigli


La Svizzera, la Svizzera.

Dove l’acqua scorre perché

questo è il suo Punk

Foto di Marcello Francone


Underground

ANDREA ANCONETANI, ALESSANDRO PERTOSA

RIFLESSIONI

SUL SOTTO

E SUL SOPRA

115/PALCHI


C’è un teatro che vive sottoterra.

Esprime energie difformi da quelle consuetudinarie. Si sviluppa in

contesti marginali, nella semi invisibilità. I suoi spazi sono sempre più difficili

da abitare. Ma esiste. Anche se nessuno quasi lo sa.

Chi abita questi luoghi reconditi lo fa per due ragioni. O perché

sprofondato lì sotto dalle circostanze, in attesa di uscirne e finalmente

veder le stelle; oppure, sempre più raramente, per scelta programmatica.

Per insofferenza congenita, strutturale, genetica quasi, verso il “Teatro

Istituzione”. Per ribellione insomma.

Non è una scoperta il constatare che vi sia un potere dell’arte e, nel

nostro specifico, del teatro. Un potere generato soprattutto dalla committenza

e dalla leva economica ad essa correlata che innalza alcuni e

abbatte molti. Che, nella fattispecie del teatro, questa leva economica sia

ormai appannaggio quasi esclusivo

delle pubbliche casse e delle relative

assegnazioni di fondi sulla base

di supposte meritocrazie determinate

da impenetrabili, quasi mistiche,

ragioni verso le quali non si

può che assumere l’atteggiamento

di chi è colpito dalla sproporzione

della divina provvidenza. Naturalmente

chi fruisce di tali prebende

trova spesso particolarmente difficile

assumere atteggiamenti che

non siano orientati in direzioni molto

specifiche e gradite alla committenza

stessa (che d’altronde finanzia

esclusivamente progetti ad essa

conformi e graditi).

Insomma la mitologica libertà

creativa dell’artista trova qualche intoppo in questo contesto. Ora, c’è

anche da dire con franchezza che forse mai nella storia dell’umanità vi è

stato un artista davvero libero di esprimersi. Vuoi per censura esterna

vuoi per autocensura. Tuttavia, a volte, si è verificato il caso di committenti

particolarmente illuminati che hanno concesso (di concessione comunque

si tratta) ai loro artisti di esprimersi in uno stato di quasi completa

libertà. Spesso si è trattato di uomini imperscrutabili (principi,

ecclesiastici di alto rango) ma capaci di riconoscere il genio e coltivarlo al

di là delle proprie convinzioni, per solo rispetto riguardo l’arte. Rari uomini

che, sopportando l’insolente sagacia degli artisti, hanno contribuito

all’esistere di opere che ancora oggi ammiriamo. Uno tra tutti, per fare

solo un esempio, il Cardinale Marco Cornaro che aveva come suo cortigiano

quel tal Angelo Beolco che col nome d’arte di Ruzzante gli dava pubblicamente

del “canchero”, a lui, a quello cioè che, in fondo, gli elargiva di

che vivere. Ma la committenza d’oggidì non ha certo tale tempra. Anzi.

Con la presupposta gravitas data dalla democratica gestione del pubblico

patrimonio, finanzia soprattutto chi ne glorifica la consistenza rendendosi

così marmorea e immutabile. L’ottusità, in fondo, è la cifra più chiara

ed inquietante di questi nuovi mandatari la cui identità si sfaccetta di

A TUTTO QUESTO CERCA DI SFUGGIRE

CHI RIFUGIA PROGRAMMATICAMENTE

LA SUA ARTE NEGLI IPOGEI CITTADINI.

NEI MICROTEATRI SOTTERRANEI

AUTOGESTITI, NELLE CANTINE.

UN “MONDO DI SOTTO” CHE ESISTE

ANCORA SPESSO IN QUANTO

TALMENTE PICCOLO DA RISULTARE

QUASI ININTERCETTABILE DAL

“MONDO DI SOPRA” CHE, PUR

GODENDO DI FASTI IMPENSABILI,

CONDUCE UN’INCESSANTE OPERA

NORMANTE, POLIZIESCA E DI

SORVEGLIANZA ANCHE E

SOPRATTUTTO NEI SUOI CONFRONTI.

116/PALCHI


ufficio in ufficio, di timbro in timbro, sfumandosi nella moltiplicazione delle

gerarchie, nei gangli degli addetti alle valutazioni e alle assegnazioni e

così sia.

A tutto questo cerca di sfuggire chi rifugia programmaticamente la

sua arte negli ipogei cittadini. Nei microteatri sotterranei autogestiti, nelle

cantine. Un “mondo di sotto” che esiste ancora spesso in quanto talmente

piccolo da risultare quasi inintercettabile dal “mondo di sopra”

che, pur godendo di fasti impensabili, conduce un’incessante opera normante,

poliziesca e di sorveglianza anche e soprattutto nei suoi confronti.

Non è che - c’è da puntualizzarlo - ciò che accade in questi contesti sia,

solo per il fatto di non appartenere all’universo dell’Istituzione, automaticamente

arte. Si dà il caso che anche nel teatro sonnolento e autoindulgente

del “mondo di sopra” si verifichino degli eventi d’arte e che

molto di ciò che accade negli spazi inferi del “mondo di sotto” sia assai

lontano da ogni ipotesi artistica.

È solo una questione di prospettive. Ma non di poca importanza.

Anzi, diremmo di fondamentale peso nell’economia dell’intero mondo teatrale

e nella sua capacità di rigenerare il nuovo dall’antico. Nel passato

infatti da quell’abisso sono emersi artisti che hanno dato un’impronta potente

all’arte scenica. Basti pensare, in Italia, al periodo d’oro delle cantine

romane dai quali antri sono affiorate intere generazioni di artisti capaci di

condurre spericolate ribellioni codificando linguaggi alternativi a quelli in

uso convenzionalmente ieri e oggi. La presenza di questo teatro sotterraneo,

underground, consentiva l’instaurarsi di una dialettica costante e

conflittualmente vivificante con l’universo del Teatro Istituzione il cui

splendore si andava via via appannando. Una dialettica, quella tra il sotto

e il sopra, che oggi ormai non esiste più. E non perché quel mondo di

sotto sia scomparso, come dicevamo esiste ancora, ma perché non ha più

modo di dialogare con quello di sopra che semplicemente non lo riconosce

e ad esso si è reso assolutamente impermeabile. In una sorta di follia

autocelebrativa il Teatro Istituzione infatti, reso invulnerabile da una incredibile

proliferazione normativa e

dalla occupazione quasi militare di

ogni spazio fisico, ha invaso ormai

ogni orizzonte possibile e non fa più

posto tra le sue fila se non ad elementi

ad esso completamente affini,

istruiti sin dalle accademie all’accettazione

inerte delle sue formule

mortifere e mortificanti. È una progressiva

consunzione che immiserisce

il teatro prosciugandone le

forze migliori e contribuendo alla definitiva estinzione di un’arte che

nell’intemperanza e nella veemenza ribelle, soprattutto dei giovani, ha

sempre trovato la via per rigenerarsi. C’è un teatro che vive sottoterra

ma da lì sotto dovrebbe uscire per trasformare, vivificare attraverso le

fiamme dell’insolente giovinezza, le comode acquiescenze del già visto.

Per compiere necessari parricidi. Anche se, quando si esce alla luce del

sole, è per a propria volta istituzionalizzarsi e prendere, da vincenti, il posto

di chi si è combattuto.

C’È UN TEATRO CHE VIVE

SOTTOTERRA MA DA LÌ SOTTO

DOVREBBE USCIRE PER

TRASFORMARE, VIVIFICARE

ATTRAVERSO LE FIAMME

DELL’INSOLENTE GIOVINEZZA,

LE COMODE ACQUIESCENZE

DEL GIÀ VISTO.

117/PALCHI


TARTAN


MARTA SILENZI

“Come è riuscito quel ragazzo

delle case popolari, che ha studiato

alle scuole pubbliche, privo

di un’educazione musicale,

a compiere il salto mentale che gli ha

permesso di diventare il leader di un

gruppo e salire su un palco?

È coraggioso, rivoluzionario e manda

un messaggio molto forte,

il più potente che si possa mai

trasmettere: sii te stesso.”

da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine

Creste e colori sulla testa, il nero e il rosa addosso, le borchie, i simboli, lo

sguardo di sfida, di rivolta, di anarchia. Gli strati di stickers sulle pareti dei

club, le strade di Londra e di New York, le foto in bianco e nero di luoghi e

di persone che non ci sono più, eppure, una volta esploso, quel fuoco d’artificio

che ha messo un timbro rumoroso sull’imperativo dell’individualismo

e della libera espressione, non è bruciato e scomparso, è strisciato, si è

trasformato, ha raccolto contaminazioni ed è arrivato fino a qui, carico di

memoria e prodezze, eppure fresco, e giovane, come allora.

Come ogni fenomeno di rilievo storico e sociale, il punk non è comparso

all’improvviso e poi svanito nel nulla. È stato certo una fiammata sul finire

degli anni settanta, ma il riverbero si è protratto all’infinito ed è continua

l’energia che lo rinfocola, come è sempre vivo il bisogno di autodeterminazione.

Più di altri fenomeni, il punk si è cibato di slogan – perché lo slogan arriva

velocemente al punto, condensa un pensiero, s’imprime nel cervello – e di

certo uno di questi è il famigerato SEX, DRUG & ROCK N’ ROLL, che non

vale solo per il punk ma che vale molto per il punk, il cui elemento trainante

tuttavia non è nessuna delle tre sfere ma qualcosa che ha a che fare con

tutte e tre.

Il punk è un fatto sociale prima che musicale, c’è questo fermento giovanile

119/VISIONI


che non resiste più e vuole sfondare gli schemi delle generazioni precedenti,

vuole autenticità, vuole aprire cassetti e tirare fuori lo sporco da

sotto i tappeti (quelli delle belle case inglesi, sofà damascati, merletti e

ceramiche Royal Albert), vuole mostrare lo strato sociale dei disoccupati,

dei poveri, dei senza formazione a cui appartiene e, dato che tutto intorno

gli fa resistenza, vuole farlo da solo (DO IT YOURSELF).

Come? Con un giro di soldi infimo ma con un’artisticità altissima che sinergizza

le sfere creative senza grosse distinzioni tra musica, arte e soprattutto

moda.

Ecco cosa veicola davvero il punk: lo stile.

Per i punk non hanno importanza genere, razza, status, ecc. ma ha importanza

lo stile.

La MODA

“Io non mi sono buttato a capofitto

nel punk: mi sono buttato a testa in

giù nel negozio, come lo chiamavamo

allora. Niente punk, niente Sex

Pistols, non c’era ancora niente.

Provavo un’attrazione irrefrenabile

per quegli stivaletti blu a punta

scamosciati, la gomma rosa, le riviste

porno anni ‘50, Screaming Lord

Sutch e per quella commistione tra

teddy boy pericolosissimi, masochisti

di periferia, Hell’s Angels, squillo

transessuali, dominatrici in pelle

nera, Billy Fury, feticisti della gomma

e anche per il juke box nel negozio,

che conteneva la musica più assurda

ed elettrizzante che avessi mai

sentito. Fai un po’ il confronto con un

paio di pantaloni beige scampanati

alla Peter Frampton e ci siamo

capiti.”

Marco Pirroni (The Models),

da The Roxy London WC2, Paul Marko

120/VISIONI


“La cosa più terrificante che faccio è

il pellegrinaggio per arrivare al

negozio (…), il posto dove mi piace

comprare le cose: significa passare

per le forche caudine dei teddy boy

che vogliono uccidere quelli come

me. Niente mi impedisce di vestirmi

come voglio. La mia è una missione”

da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine

Il negozio in questione è Sex, una boutique aperta da Vivienne Westwood

e Malcolm McLaren (suo compagno e manager dei Sex Pistols) al 430 di

Kings Road nel quartiere di Chelsea a Londra e che cambia nome a seconda

della collezione del momento, da Let it Rock, a Too fast to live, too

young to die, fino a Sex nel 1974. Tutti i punk lo frequentano, tutti ne assorbono

lo stile e l’audacia, tutti vogliono far parte della scena e per farlo non

hanno tanto bisogno di saper suonare uno strumento, appartenere ad una

band, avere particolari conoscenze, quanto hanno bisogno di sapersi vestire

a quel modo.

“Quando apro la porta sono assalita dall’odore stucchevole e melenso

del lattice: buffo come si senta solo qui e da nessun’altra parte. Il

pavimento lungo e stretto è sgombro, ci sono solo le commesse,

Debbie e Jordan. Jordan è un’opera d’arte, ha un look estremo senza

sembrare terrificante o minacciosa. Ha una voce dolce, delle maniere

gentili, è calma e centrata. A volte non indossa la gonna, solo

calze a rete o calzettoni, mutande di satin a vita alta, un corpetto di

pelle o di lattice e scarpe da bondage. Si disegna due strisce nere

sulle palpebre, come una maschera da rapinatore, una via di mezzo

tra Zorro e Catwoman; il viso è impolverato di cipria bianca e le labbra

sono dipinte di rosso acceso. I capelli biondo cenere sono cotonati

alti sulla testa, scolpiti in un’enorme onda che le ricade su un

occhio. Tutti i giorni Jordan fa la pendolare dal Sussex a Londra vestita

così. Quando arriva, non deve cambiarsi i vestiti nei bagni di

Charing Cross Station. Il suo atteggiamento contagia anche noi e

diventa una scelta di vita.”

Dalle parole di Viv Albertine, chitarrista delle Slits, si capiscono due cose:

quanto sia forte il richiamo dello stile che s’impone come uno shock, una

scossa al ben pensare (e al ben vestire), un’esigenza espressiva, e quanto

violenta sia la vita delle strade londinesi, dove fazioni come i teddy boy e

gli skinhead, di cui pure permangono certe contaminazioni estetiche, siano

in aperta opposizione ai punk, nelle nostre teste i più spregevoli ma in realtà

i più vessati fra le gang. Nel libro della Albertine sono ripetuti gli aneddoti

di assalti, aggressioni e accerchiamenti.

Anche per questo i punk hanno bisogno di luoghi sicuri, come porti, come

ambasciate e uno di questi è il negozio.

121/VISIONI


Vita di strada, sesso e musica, apertura ai generi e alle razze, tessuti e accostamenti

inconsueti, strappi, tagli, tacchi e spille, un repertorio che, sebbene

la maggior parte delle volte sia di fattura casalinga, necessita di una

guida per centrare il buon gusto e questo faro è Vivienne Westwood.

“Vivienne incute paura, come ogni persona sincera che parla chiaro,

perché ti espone. (…) Vivienne non accetta compromessi: su quello

che dice e in cui crede, su ciò che si aspetta da te e su come si veste.

È diretta, molto critica, e parla con un forte accento settentrionale

che la rende ancora più schietta. Ha una sicurezza che non ho mai

visto in nessun’altra donna. È forte, categorica e molto sveglia. Non

sopporta l’autocompiacimento ed è la persona più stimolante che

abbia mai conosciuto.(...) una linea nera intorno agli occhi, rossetto

scuro, viso pallido. Ha i capelli tinti biondo platino, con qualche centimetro

di ricrescita scura e degli spuntoni che vanno in ogni direzione.

Non ho idea da dove abbia preso quel look, non trovo riferimenti

in niente che conosco, ne’ film, ne’ arte. È molto femminile ma

a modo suo. (…) Di solito porta una gonna di lattice fino al ginocchio

e stivali neri al polpaccio – non sexy, senza tacco, un po’ larghi – oppure

un top trasparente di lattice con pantaloni bondage e molto

tessuto scozzese. Fa sembrare chiunque altro banale.”

VIV ALBERTINE

Trasgressiva ma netta e concreta, vegetariana (questione che darà il là ad

un forte attivismo ambientalista nel corso della sua carriera), inflessibile,

una donna nuova che accoglie i sentori del momento e ne fa un cambio di

rotta, una nascita, un bacino di creatività senza fine che spicca il volo nel

1977, quando God Save the Queen dei Sex Pistols si piazza al numero uno

in classifica e il negozio viene ribattezzato Seditionaries: clothes for heroes,

canonizzando tutta l’estetica punk che ancora oggi portiamo più o

meno consapevoli sulle t-shirt.

Ma i vestiti da Sex sono molto cari per gli spiantati che nutrono il gruppo

e la leggenda punk, quindi i jeans e le magliette si prendono a rasoiate e

poi si riassemblano con spille a balia, i capelli si cotonano e tingono nel

bagnetto della nonna, si trova il modo di comprare un paio di Dr Martens

e li si mette con qualsiasi outfit. Calze a rete strappate e vestitino rosa, kilt

e canottiera sbrindellata, catene al collo, capelli sparati. Tocchi di casualità

che non sono affatto casuali, tensione allo shock, al contrasto, al disturbo,

allo straniamento. L’aspetto diventa il manifesto di un’ideologia: siamo

quello che siamo, facciamo quello che vogliamo, non stiamo alle vostre

regole, basta conformismo, dogmi imposti, classi sociali, materialismo, capitalismo.

È chiaro che ci sono contraddizioni interne imprescindibili, quelle che decretano

la veloce trascolorazione della fiammata punk da rossa a blu, nel

momento in cui i Sex Pistols diventano famosi, nel momento in cui passano

dall’autoproduzione ad un’etichetta major, nel momento in cui creativi

come Vivienne Westwood diventano stilisti di alta moda.

Il punk è genuino ai suoi esordi, finché resta autogestito, quando iniziano

gli investimenti e prende piede un certo business è già diventato qualcos’altro

e ha forse fallito i suoi propositi, sebbene ancora oggi l’ideologia

e l’attitudine punk siano rimaste forti e invariate.

122/VISIONI


“È OK NON ESSERE PERFETTI,

RACCONTARE COME FUNZIONA LA

TUA VITA E LA TUA TESTA NELLE

CANZONI E NEI VESTITI CHE PORTI.

TUTTO QUELLO CHE FAI ASSUME

UN SIGNIFICATO POLITICO, PER

QUESTO SIAMO COSì SPIETATI CON

CHI SBAGLIA E LA SCIATTERIA

VIENE DERISA.”

da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine

Questa è ovviamente la scena londinese, ma parallelamente se non con un

po’ d’anticipo avviene qualcosa di strettamente simile oltre oceano, per

ritmo, per esigenze, per sensibilità estetica, basti pensare alla rivoluzione

dei capelli tagliati da sola e all’androginia di Patti Smith.

“Mi sedetti sul pavimento e sparpagliai le poche

riviste di rock in mio possesso; di regola le

compravo per procurarmi qualunque nuova foto di

Bob Dylan, ma in quel momento non era Bob che

cercavo. Ritagliai tutte le immagini di Keith Richards

che riuscii a trovare. Le studiai un po’ e poi presi le

forbici; uscii dall’era del folk aprendomi la strada a

colpi di machete. Mi lavai la testa nel bagno in

corridoio e la strofinai per asciugare i capelli. Fu

un’esperienza liberatoria.

(…) Una volta arrivati al Max (…) il mio taglio di

capelli suscitò un po’ di scalpore. Tutte quelle

sviolinate mi lasciarono esterrefatta. Ero la stessa di

sempre, eppure il mio status sociale si elevò di

colpo. Il mio taglio alla Keith Richards si rivelò una

calamita di discorsi. A me venne da pensare alle

ragazze che avevo conosciuto alle superiori:

sognavano di diventare delle cantanti ma finivano

per fare le parrucchiere; io non condividevo la loro

vocazione , ma nelle settimane seguenti avrei

tagliato i capelli a un mucchio di gente e avrei finito

per cantare al La MaMa.

Al Max qualcuno mi chiese se fossi androgina.

Domandai cosa significasse. “Sai, come Mick

Jagger.” Pensai che fosse fico. Mi convinsi che la

parola volesse dire bella e sgradevole allo stesso

tempo. Qualunque cosa volesse dire, con un taglio

di capelli ero diventata androgina nel giro di una

notte. Le opportunità fioccarono d’improvviso.”

da Just Kids, Patti Smith

123/VISIONI


La MUSICA

“La musica giovanile più o meno

anticonformista era sì nata con Elvis,

ma nel 1976 uno poteva sempre

scegliere tra il frastuono politico

degli MC5, il fuzz del garage

americano degli anni ‘60, il

nichilismo di Iggy & The Stooges e il

glam chic tossico dei New York Dolls.

Aggiungeteci la decadenza dei Roxy

Music, l’androginia bisex di Bowie e

l’innuendo contagioso dei T. Rex.

Metteteci dentro lo sperimentalismo

ruvido di Hawkwind e Pink Fairies, e

avrete gli ingredienti del distillato

profano da cui nascerà il punk rock.”

da The Roxy London WC2, Paul Marko

Lato A. Il punk americano

Il punk prima del punk

Negli anni sessanta, nei garage delle grandi case in legno dei sobborghi

americani, si ascolta musica alternativa, che esplora argomenti e suoni, si

sbarazza di filtri e censure, parla di droga e gente di strada, di vita vera, di

ispirazione creativa e dove trovarla. Si ascoltano i Velvet Underground, i

Modern Lovers. Si cerca di dare voce a frustrazioni e sentimenti repressi, si

compongono canzoni che partono semplici, con riff ripetitivi a cui si aggiungono

distorsioni strumentali e vocali, e dove trova linfa una certa aggressività.

È il garage rock, che muove i primi passi verso quello che sarà

denominato punk.

La velocità aumenta, le sonorità si sporcano, si fanno ruvide, il frasario diventa

provocatorio e l’imperativo principale è quello dell’impatto sonoro.

È il proto-punk, quello che semina embrioni di punk quando ancora non si

conoscono ne’ la parola ne’ il significato, quello che suonano gli Stooges e

gli MC5 in Michigan già a fine anni sessanta, i Kinks, i Sonics e poi i New

York Dolls e Patti Smith, gente che fa la fame per strada e si muove su palchi

che non sono una cosa sola, non sono soltanto musica, ma poesia,

estetica, dichiarazione, manifesto, espressione di sé senza il bisogno di una

definizione. La definizione di punk arriva dopo, quando c’è l’urgenza di

distinguere e di identificare, urgenza che loro, i veri protagonisti, certo non

hanno. E il termine è gente, perché appunto di gente si tratta, persone, con

un forte richiamo creativo, che non inseguono la gloria ma rispondono ad

una spinta interiore di autodeterminazione e di espressione libera, gridata,

in lotta perenne con quanto tenta di ingabbiarle: costumi, società, politica.

124/VISIONI


La musica è il perfetto tramite: si tratta di giovani, giovanissimi con un’energia

vitale debordante.

Il sigillo lo pongono nel 1974 i Ramones a New York, precisamente nella scena,

molto attiva, di Forest Hills nel Queens: un’accelerazione senza precedenti

che ha l’effetto di un bengala sparato nel cielo. Il resto è storia conosciuta.

Artisti come Patti Smith si muovono sfuggendo alle tipologie, cantano,

declamano, fanno arte e poesia con una chitarra sul fondo, sono loro stessi

alle loro regole, e in questo sta principalmente il loro punk; altri come i

Blondie, sono un ponte new wave con il successivo pop. Quasi tutto in

questo periodo ricade sotto la vasta denominazione di underground (più

o meno come si usa il termine indie o alternative), ma quando i Ramones

salgono sul palco, non ci sono dubbi su cosa sono o cosa fanno.

Compatti nel nome (tutti Ramone come veri fratelli) e nel vestiario (giubbotti

di pelle nera, jeans stracciati, t-shirt e scarpe da ginnastica), cantano da

subito le loro canzoni (per evidenti limiti di capacità tecnica), dalla ritmica

rapida, divertenti, ironiche e autobiografiche, niente politica, tanta energia e

il fantomatico “one-two-three-four” chiamato di corsa all’inizio di ogni pezzo.

“Conto l’attacco della prima

canzone, «Uno, due, tre, quattro!» e

sbandando partiamo (…) velocissime.

(In seguito, durante il tour, Mick mi

spiegherà che quando conti uno,

due, tre, quattro all’inizio della

canzone, stai dando il tempo. Io non

lo sapevo, l’ho copiato dall’album dei

Ramones, pensavo che fosse il modo

di avvisare il gruppo che stai per

cominciare e che va gridato il più in

fretta possibile, perché più veloce è,

meglio è.)”

da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine

Tutto comincia al CBGB, uno dei locali dove il nuovo sound striscia, cresce

e acquista vigore (insieme al Max’s Kansas City, al La MaMa e pochi altri

luoghi sacri sperimentali), un piccolo club nato per la musica Country e

Bluegrass che presto diventa palco di battesimo per Television, Patti Smith,

Blondie, Ramones, Dead Boys, Mink DeVille, Talking Heads, Heartbreakers,

Fleshtones.

“(…)pensate al bagno di casa vostra ma solo un po’ più grande,

coperto di graffiti e con puzza di piscio praticamente ovunque per

il fatto che il proprietario Hilly Cristal lasciava i suoi cani liberi di

scorrazzare nel locale, una cosa che il compianto Joey Ramone

trovava spassosa”

Alan Parker

125/VISIONI


“Era un posto semi abbandonato (...) una fogna (...) si riempì di

travestiti che erano entrati dopo essere stati al Bowery Lane Theater.

Furono grandi con noi, supportandoci durante tutto lo show

(...) Quando salimmo sul palco, io attaccai il basso e diedi un’occhiata

intorno. Sul muro, vicino al palco, c’era un enorme poster di

Marlene Dietrich (...) Suonammo per quindici minuti e fu un successo.

Cercavamo di suonare le canzoni una attaccata all’altra (...) io

contavo uno, due, tre, quattro ed attaccavamo subito un altro pezzo.

Alla fine del concerto lanciai per aria il mio Danelectro facendolo

rimbalzare per terra un po’ di volte finché non si ruppe. Pensavo

che fosse l’ultima moda glamour.”

DEE DEE RAMONE

“Il fondatore Hilly Kristal aveva imposto soltanto due regole: le

band dovevano portarsi i propri strumenti e suonare musica originale.

No cover. No musica vecchia. Solo roba che riflettesse chi

erano i nuovi newyorkesi.”

LAURA PEZZINO

E i nuovi newyorkesi suonano questa nuova musica: un muro di suono, una

canzone attaccata all’altra, in costante fibrillazione.

HEY, OH, LET’S GO.

Lato B. Il punk inglese

Anarchy in the U.K.

Le canzoni degli Stooges fanno parte del repertorio dei Sex Pistols, questo

gruppo di strambi, istrionici, stilosi personaggi che si attraggono come

calamite uno verso l’altro fino a formare un gruppo, in un momento in cui

essere in un gruppo è più importante di saper suonare o cantare.

Rispetto all’America, fatta di dilatazioni e distanze, dove l’aggregazione è

forse meno compatta e c’è più spazio per il sé, il punk in Inghilterra è un

rifugio per emarginati, giovanissimi sbandati in cerca di un modo per esprimere

la propria pulsante personalità, è un covo di minoranze, etniche, di

genere, di estrazione sociale, è una tana fatta di pochi luoghi in cui cresce

prepotente una sottocultura; i luoghi sono il Roxy Club, il Marquee, il 100

Club, il negozio. Escono le prime riviste specializzate, come Sniffin Glue

(che prende il nome da un verso dei Ramones), nient’altro che editoria

artigianale, fanzine scritte a mano, a collage, fatte da soli, fatte a casa come

il vestiario, immediate e dritte al punto, rozze come la musica, rispondenti

all’etica DIY (do it yourself) che riguarda anche la creazione di band – con

musicisti improvvisati che transitano da un gruppo all’altro, sciamano fino

a che qualche diamante grezzo non finisce per emergere – e la loro individuazione

da parte di produttori, anch’essi appartenenti alla stessa fauna,

non ci sono differenze tra artisti, promoter e pubblico: è la scena punk,

tutto ne fa parte, sullo stesso gradino.

Almeno fino a che i Sex Pistols non spiccano il volo.

Ci sono tantissime band, tutti suonano (senza saperlo davvero fare), tutti

frequentano gli stessi locali, le stesse tane, ma come sempre succede, alcuni

personaggi rispondono meglio di altri al momento, dominano per

126/VISIONI


carisma e atteggiamento, si allineano, s’incastrano, funzionano. É così per

un paio di tipi come Johnny Rotten e Sid Vicious, che diventano il frontman

e il bassista di un gruppo fulminante e di fulminati che è affilato come un

rasoio e allucinato come una partita troppo pura di eroina, ma che nel frastuono

generale produce se non il giusto suono, il giusto rumore ed ha il

giusto stile, manda in visibilio la folla, emerge sugli altri e diventa un modello.

Il sound punk, in rotta col troppo virtuoso progressive di Jethro Tull, Gentle

Giant, Emerson, Lake & Palmer, Genesis, persino Pink Floyd, e legato ad

una forte e quotidiana attualità, trova in questi sparuti figuri un mix micidiale

per l’Inghilterra di fine anni settanta, per l’impeccabile BBC, che una

sera del 1976 (Sid non era ancora nella formazione) ospita i Pistols in sostituzione

dei Queen nel programma di Bill Grundy. Il presentatore provoca

la band sull’autenticità del suo professato antimaterialismo dopo il contratto

con una grossa casa discografica, dice cose senza senso, è ubriaco e

istiga i ragazzi a dire qualcosa di scorretto. Steve Jones non si trattiene e

scoppia il finimondo.

“(...) i media vogliono il sangue (…):

demonizzare i punk come anarchici,

volgari e violenti con un’unica

missione, ovvero scioccare a tutti i

costi. Se sei un punk, sei un outsider,

un ribelle, e anche grazie ai media

tutto ciò agli occhi di un ragazzo è

una combinazione esplosiva. Con

tutta quella copertura stampa,

adesso non c’è teenager inglese che

non sappia cosa sia il punk: gioventù,

ribellione e rock ‘n roll sono di nuovo

in prima pagina sui tabloid e sui

giornali musicali. Buona parte della

gioventù britannica cambia look,

forma una band sui due piedi e lascia

che l’opinione pubblica reagisca con

tutto il disgusto, l’incredulità e la

veemenza del caso. Ora sì che ci si

diverte.”

da The Roxy London WC2, Paul Marko

127/VISIONI


Nel 1977, in tempo per il giubileo d’argento della Regina Elisabetta, esce

God save the Queen, un inno non contro la regina ma contro l’ordine precostituito,

contro le istituzioni oscurantiste e retrograde.

La copertina del disco è una leggenda estetica e grafica.

No Future, un verso della canzone, diventa il principale monito punk.

Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols è l’unico album in studio

(nel quale Sid Vicious di fatto non suona, perché non sa suonare!) e questo

dimostra che, allora come oggi, il punk è una faccenda che ha la sua ragione

d’essere dal vivo, dove c’è un pubblico che partecipa, che poga, che fa

parte della scena.

La dichiarazione d’intenti è scritta a caratteri cubitali nella traccia numero

8, la seconda del lato B, in cui la questione dell’anarchia ha più a che fare

con la spinta all’individualismo, alla dissociazione, alla dissidenza che non

con la politica.

Questa condensa di contenuti radioattivi mixati al perfetto stile (che significa

smorfie, goffaggine dichiarata senza scuse, personalità e look alla Westwood)

spara il punk molto in alto, dove non può essere ignorato, sebbene

sia in tutti i modi combattuto (classifiche contraffatte, canzoni

censurate, tour proibiti, tutte cose che contribuiscono al mito).

Un album, tanto successo, qualche anno di concerti, un omicidio e una

morte per overdose (la ultra nota storia di Sid e Nancy) sono vita e morte

dei Sex Pistols ma non certo del punk che, a dispetto dei suoi cantori, ha

avuto ed ha tuttora tanto futuro, combatte ancora le stesse battaglie contro

l’omologazione, i razzismi, le discriminazioni, i governi conservatori.

DON’T BE TOLD WHAT YOU WANT

DON’T BE TOLD WHAT YOU NEED

Contemporaneamente alla formazione dei Pistols, anche un altro quartetto

di musicisti si costituisce sotto l’egida punk. Il vestiario è più contenuto,

i versi più lirici, il repertorio più vario ma hanno quel che serve per durare

un po’ di più sui palchi e, anche loro, per sempre nella storia.

“(...) una massa sfocata di capelli scuri, scarpe

con tacco alto, sciarpe di chiffon svolazzanti e le

gambe più lunghe e magre che abbia mai visto,

poi scompare, è svanita nel bagno dei maschi.

«Era un ragazzo?» chiedo a Jane. Continuo a

fissare la porta. Alla fine la creatura riemerge e

riesco a osservarla meglio. Sì, è un ragazzo. È

secco come un bastone e porta dei pantaloni

Principe di Galles aderenti, rossi e bianchi,

scarpe nere con tacco alto e cinturino allacciato

dietro e una giacca attillata da donna che gli sta

troppo stretta, il tutto sormontato da capelli

vaporosi e cotonati. Alla vista di quello

spettacolo gli studenti del tecnico erompono in

grida e fischi. Lui però li ignora e con grande

nonchalance, incede fino a metà della fila, dove

si fa largo per raggiungere i suoi amici.

128/VISIONI


(…) mi piacciono il coraggio e lo stile, è il mio

genere di persona.

(…) Allora gli dico: «Ciao, io sono Viv».

Con voce sommessa e timida, il ragazzo

risponde: «Mick Jones».”

“«Sto mettendo su un gruppo» dice.

Mick è quella persona – ce n’è sempre una in

ogni band – che si occupa dell’organizzazione,

che prende a cuore i dolori e le perdite, vive,

respira e morirebbe per il suo gruppo”

“Mick (…) ha trovato un bassista, un bel ragazzo

di nome Paul Simonon. Ancora non sa suonare

il basso ma Mick dice che non importa perché

è bello. Ha trovato anche un cantante che bello

non è ma ha un grande carisma, Joe Strummer.

(…) Tutti sono alla ricerca di un nome.”

“È Paul a trovare il nome del nuovo gruppo,

The Clash, dal titolo di un quotidiano.”

da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine

Anche i Clash sono dunque figli di un’esigenza espressiva che mescola

atteggiamento, vestiti e richiamo artistico interiore più che di una vocazione

musicale originaria, ma di fatto l’unione di queste persone dà vita ad

una band capace di sostenere gli oneri del punk e di traghettarli oltre i

seventies, fino alla fine degli anni ottanta, attraversando tematiche importanti

come la tendenza all’americanizzazione culturale, il razzismo, il controllo

delle case discografiche sulla musica; e già si vedono i segnali del

cambiamento, già il punk si sta trasformando in un’altra versione, i tempi

sono in continuo movimento e divenire, le contaminazioni giungono da

tutte le parti (ad esempio dalla Giamaica dove il gruppo va ad approfondire

la cultura rasta) ed è giusto seguire il fiume, rispondere alla chiamata.

Sette album in otto anni, una dichiarata tendenza politica di sinistra, un’etica

che non punta al denaro ma al messaggio (prezzi di dischi e concerti

ribassati, poche vendite, pochi guadagni ma tantissimo seguito), concerti

cui partecipano poeti e che spingono all’attivismo. La fiammata dei Clash

dura circa dieci anni, poi la pressione, gli ego e la mano dei produttori finiscono

per spegnerla, pur lasciando canzoni indimenticabili, titoli universalmente

conosciuti come London Calling, Should I stay or should I go, Rock

the Casbah, I fought the Law.

LONDON CALLING TO THE IMITATION ZONE

FORGET IT, BROTHER, YOU CAN GO IT ALONE

Sciamano all’ombra di queste due band, mille altri gruppi, più o meno imitativi

soprattutto dei Pistols, alcuni con più attitudine musicale, altri con

più predisposizione performativa.

129/VISIONI


Tante le donne sul palco, davanti al microfono o con uno strumento in

mano; il periodo è favorevole perché aperto alle minoranze di genere,

all’androginia scortata dal glam rock, a quella che oggi chiamiamo fluidità

(credendo di averla sdoganata ma che ancora giudichiamo). Nascono qui

i primi gruppi al femminile: pur restando poco conosciute, ne portano la

bandiera le Slits, attente all’aspetto, musicalmente rozze, pazzoidi, impulsive,

rissose, spinte dall’istinto e dalla ricerca di un suono, di un ritmo, di

un’identità. Condividono tour importanti e formativi come il White Riot con

i Clash, i Buzzcocks e i Subway Sect, dimostrano che non c’è contrapposizione

ne’ supremazia tra uomo e donna, formazioni maschili e femminili,

senza però schierarsi col femminismo, che è uno dei tanti -ismi che va a

braccetto col punk ma che rischia sempre di passare il limite: ogni estremismo

sfocia nel fanatismo e smette di essere utile.

L’ARTE

Rock & shock

I punk non sono soltanto musicisti. Sono creativi, artisti, hanno bisogno di

esprimersi più che di affermarsi e questo significa non porsi limiti, escludere

perimetri, uscire dagli schemi, più di tutto scioccare.

“L’effetto positivo causato dallo

shock è che per un attimo il cervello

viene sgombrato dai preconcetti:

in questo modo l’opera può azzerare

le abitudini e gli schemi di

comportamento dello spettatore

e suscitare una sensazione nuova,

prima che tutti i condizionamenti

prendano di nuovo il sopravvento.”

da Vestiti Musica Ragazzi, Viv Albertine

L’arte punk esiste e non esiste. Sguscia da tante avanguardie precedenti,

scivola e si confonde con quelle future, la street art, il collage, il pop, con

la moda e la musica viaggia intrecciata, si esprime su riviste e cataloghi

come Interview di Andy Warhol e Punk Artist di Graziano Origa, ha a che

fare con la performance art, una performance che va in scena nel quotidiano,

sui sedili di autobus e metropolitane, sugli angusti palchi dei club inglesi,

nella hall del Chelsea Hotel, per le strade di Londra.

Come per tutto il resto, i punk sembra che abbiano il compito di smascherare

tutto quanto venga represso, coperto, silenziato, ritenuto indecente.

Lo scossone cui puntano è al massimo grado, il messaggio chiarissimo.

Nel periodo in cui frequenta la scuola d’arte, moda e tessile, Viv Albertine

(che è un po’ il Virgilio che accompagna Dante negli inferi di questo testo)

presenta alcuni progetti, tra cui “un oggetto quotidiano”. Si tratta di disegni

130/VISIONI


di assorbenti interni usati, intrisi di sangue mestruale che galleggiano sulla

pipì gialla nella tazza di un bagno e di ritratti di un’amica senza vestiti

con la cordicella del tampone che le esce dalla vagina. La realtà di questioni

fisiologiche schiaffate in faccia alla censura. L’erotismo del nudo azzerato

dalle necessità del corpo. Ovviamente il lavoro non viene messo in

mostra. Un giorno Viv esce di casa con un tampax al posto dell’orecchino,

in autobus una signora sconvolta non riesce a dirle che ha un assorbente

attaccato alla faccia, ma non è un tampone, è un ornamento punk. Un altro

progetto è la riproduzione di un’immagine di corpi ammassati in un campo

di concentramento da stampare su maglietta:

“Dipinsi il cielo color azzurro intenso e il suolo giallo acceso, color

sabbia. L’immagine doveva sembrare una cartolina, ma da Balsen,

un campo dove non si va in vacanza (era lo stesso periodo in cui

Sid scrisse il testo di Balsen was a gas).”

Scioccare, straniare, spingere al disgusto e poi alla riflessione.

Mezzi a basso costo e tecniche improvvisate. Per l’arte come per tutto il

resto.

Le radici sono dadaiste, atteggiamenti anarchici e nichilisti compresi.

Le copertine degli LP sono le opere d’arte di questo periodo, come quelle

di Jamie Reid per Sex Pistols e Siuouxsie and the Banshees o Linder Sterling

per i Buzzcocks, collage di ritagli da riviste del periodo, quindi un mix

d’immagini decontestualizzate dalla cultura di massa e ricontestualizzate

in ambito punk.

E poi colori accesi alla Warhol, bande nere alla maniera dei giornali scandalistici

o della censura da cronaca nera (front cover di Gary Gilmore’s Eyes

/ Bored Teenagers degli Adverts) e straniamenti di stampo surrealista (copertina

di Thinkin’ of the USA degli Eater).

L’effetto generale è molto grafico e volto alla facile realizzazione e alla

veloce riproducibilità: le macchine fotocopiatrici si diffondono proprio alla

fine degli anni settanta e contribuiscono enormemente allo stile e alla divulgazione

di fanzine, flyer, sticker, poster e locandine.

Nel 1978 oltre ai musicisti anche molti artisti visivi frequentano il CBGB,

così Bettie Ringma e Mark H. Miller (fotografi e fondatori della Gallery 98),

coinvolti da Alice Denney, direttrice di uno spazio artistico alternativo a

Washington DC, seguono l’impulso di allestire una mostra di arte punk. Si

uniscono John Holmstrom e Legs McNeil di Punk Magazine e il cartellone

di artisti è così lungo da assomigliare ad un movimento, c’è grande copertura

stampa e l’opening è affollatissimo.

Quella al Washington Project for the Arts passa alla storia come la prima

mostra di arte punk al mondo ed è espressione di qualcosa di più grande:

del ricambio generazionale e della rottura della diga che aveva contenuto

l’espressione artistica fino ad allora. L’importanza della mostra è sottolineata

dal catalogo di 28 pagine contenente dozzine di interviste ad artisti,

un saggio dello storico dell’arte Gerald Silk e i commenti di Andy Warhol

sul punk (in parte recuperato qui https://98bowery.com/punk-years/punk-art-catalogue).

Gli artisti presentati sono versatili, utilizzano diversi media, sono soprattutto

131/VISIONI


fotografi, filmmaker e performer. Tutto s’intreccia spesso con la scena

musicale: gli artisti fanno anche parte di gruppi, i disegni sono per le riviste,

le foto documentano gli incontri con le band, i video riprendono le

performance. Gli scultori si avvalgono di elementi trovati, assemblano

parti meccaniche, elettroniche ed elettriche come Alan Suicide, musicista

e scultore che dà forma a cavi e componenti luminose alla maniera di

Robert Rauschenberg, o Steve Kramer che monta macchine cinetiche e

si afferma come una delle figure più in vista della scena downtown. Alla

mostra ci sono anche set di tatuaggio live con il tatuatore Ruth Marten,

sono esposti i collage e le fotocopie Xerox di Leslie Shiff, gli scatti di Chris

Stein (dei Blondie), i visual dei Ramones di Arturo Vega. Diversi i riferimenti

alla sfera sessuale e sadomaso; interessante l’attenzione puntata

sempre sulla moda, ad esempio con gli stilisti Animal X e Daimon, che

stampano tessuti animalier.

Punk Art è proposta in seguito altre due volte: come evento multimediale

di una notte alla School of Visual Arts di New York (novembre 1978) e

come piccola esposizione ad Art Something ad Amsterdam (giugno 1979).

Il punk non è dunque un anno zero, è una rivoluzione ma non improvvisa,

è piuttosto lo scoppio di una pentola a pressione e, musicalmente, artisticamente

e stilisticamente parlando, sono profonde le radici che gli hanno

preparato il terreno e gettato le basi per la sua esplosione, sul versante

americano come su quello inglese (principali ribalte cui poi fanno eco

tutte le altre), passando per magliette slabbrate, spille a balia sulle labbra

della Regina, libelli scritti coi pennarelli e distribuiti a mano, capelli tagliati

guardando una rivista, siringhe di eroina, risse, promiscuità sessuale e

tutto l’impeto e tutta l’ingenuità delle giovani generazioni.

132/VISIONI


VIVIENNE WESTWOOD

Determinata, femminile, vegetariana in tempi

non sospetti, ha l’intuito dello stile e lo sposa

prima al punk poi – conclusi sodalizio e

relazione con McLaren – ai pirati, alla Francia

di Maria Antonietta e all’Inghilterra vittoriana.

Diventa una delle più grandi stiliste di tutti

i tempi, per sempre giovane, iconica nel suo

gioiello di perle chiuso da una corona

di diamanti. Attivista contro il cambiamento

climatico, per le minoranze di genere

e la moda etica, usa la passerella come

propaganda, i vestiti come una dichiarazione

d’intenti: “non puoi andarci in giro per strada

senza che vengano fuori discussioni”. MS

133/VISIONI/ripostigli


Lavandino solitario

©Livia Ranzini Pallavicini

134/PAGINE


VIV ALBERTINE

Una persona normale. Povera, di talento

mediocre, sbandata, carina, senza trucco ma

con una riserva infinita di creatività, ispirazione e

determinazione, seppure costantemente carica

di insicurezza. Interamente dentro la scena

punk londinese, amica di Sid Vicious, ragazza

di Mick Jones per lungo tempo, chitarrista delle

Slits, poi tra le prime insegnanti di aerobica, poi

regista, poi madre e moglie e via di nuovo con

una chitarra in mano.

Resistente nonostante l’odissea di problemi

fisici, interventi chirurgici e depressioni annesse.

Una fenice che continua a bruciare e risorgere

più forte. La sua autobiografia Vestiti Musica

Ragazzi (qui ampiamente citata) è un

capolavoro di franchezza, aneddoti e vita

vissuta.

“Comincia a piacermi il contrasto tra quello

che il pubblico si aspetta da una donna piacente

e quello che io gli do: parole piene di rabbia

e note affilate di chitarra”. MS

135/VISIONI/ripostigli


Vietato respirare

©Livia Ranzini Pallavicini

136/PAGINE


#LISTE

UN PO’ DI PUNK IN ITALIA

date

Tour IN FEDELTÀ LA LINEA C’È,

CCCP

21 MAGGIO

Piazza Maggiore, Bologna

23 MAGGIO

Milano, anteprima MI AMI Festival

13 GIUGNO

Ippodromo delle Capannelle, Roma,

Rock in Roma

27 GIUGNO

Collegno (To), Flowers Festival

28 GIUGNO

Barton Park, Perugia, Moon in June

4 LUGLIO

Villa Bellini, Catania, Summer Fest

12 LUGLIO

Villa Ca’ Cornaro, Romano

d’Ezzelino (Vi), Ama Festival

21 LUGLIO

Servigliano (Fm), NoSound Fest

26 LUGLIO

Parco Mediceo di Pratolino, Firenze,

Musart Festival

3 AGOSTO

Anfiteatro Ivan Graziani di Alghero,

Festival Abbabula

9 AGOSTO

a Melpignano (Le), SEI Festival

NOFX FINAL TOUR

11 E 12 MAGGIO

Carroponte, Milano

club e locali

Joshua Blues Club

Albate, Como

Lombardia

SCUMM

Pescara

Abruzzo

Drunk in public

Trodica (Mc)

Marche

Devil Kiss

Olbia

Sardegna

Roxanne

Palermo

Sicilia

mostre

When The Kids Were United

DAL 21 MARZO

mostra fotografica a cura di

Gavin Watson sulla scena skinhead

e punk di Londra negli anni ottanta

Spazio Maiocchi, Milano

IDLES

23 GIUGNO

Parco Nord Stadio Euganeo,

Padova, Sherwood Festival

29 giugno Parco Certosa Reale,

Collegno (To), Flowers Festival

137/ZONE/liste


DRUNK IN PUBLIC

Drunk in public è l’anagramma di Punk in

Drublic uno dei più famosi album dei NOFX.

Jon Tanfo è l’oste di questo live club racchiuso

tra le colline marchigiane del maceratese

e, come nella migliore tradizione punk,

è anche componente di una band chiamata

Farmacia Comunale.

Il locale è ispirato al fu Rock Away di Henry

Ruggeri e del fotografo mostra un’intera

parete di mitologici scatti. Il primo ad esibirsi

sul palco è stato Roberto Freak Antoni degli

Skiantos e di seguito la lista è lunga. Il club dà

largo spazio ai nuovi gruppi che propongono

inediti ed è rigorosamente no tribut band! MS

138/ZONE/ripostigli


FUGAZI

Alla fine degli anni ottanta nella città in cui vivevo

si riuniva in centro un gruppo di skaters, spesso

dopo cena: roba piuttosto alternativa ai tempi per

una cittadina di provincia. Fu grazie a conoscenze

legate a quell’ambiente che feci il primo incontro con

l’hardcore americano.

I Fugazi, con le loro sonorità ipnotiche, furono una

folgorazione – un mondo del tutto nuovo per le mie

orecchie nutrite a heavy metal – e ancora oggi mi

sorprendo a canticchiare estemporaneamente “I am

a patient boy / I wait, I wait, I wait, I wait”, alcuni

versi tratti dal loro primo EP (poi confluito, assieme

al secondo, nell’album 13 Songs).

Il 19 novembre 1988 suonarono al centro sociale

Leoncavallo a Milano e, con grande rammarico, me li

persi (sul sito della casa discografica Dischord quella

data è elencata tra le tante dei loro tour, registrata

ma purtroppo non disponibile). Ricordo che alcuni di

quel gruppo di skaters, che tuttavia non frequentavo

direttamente, andarono qualche giorno prima a

sentirli in Svizzera: una trasferta che nella mia mente

di adolescente è entrata nel mito. AP

139/ZONE/ripostigli


“Sid non ha molti vestiti, nessuno di noi ne ha a sufficienza

per farsi vedere in giro, nessun negozio vende abiti che ci

piacciono a parte Sex, ma è così caro che abbiamo comprato

solo una o due cose. Sid ha due paia di pantaloni:

dei jeans bucati e sbiaditi e un paio di lana rossi con un filo

lurex e le pinces, molto ampi sui fianchi e stretti alle caviglie.

Li indossa con le Brothel creeper, un po’ David Bowie

e un po’ anni cinquanta. Alcuni ragazzi adottano ancora

questo look, a volte si vestono così anche Malcom McLaren

e Johnny Rotten. E’ uno strascico di To Fast To Live To

Young To Die, il negozio di abiti teddy boy che Malcolm e

Vivienne Westwood avevano prima di Sex. Io non ci sono

mai andata, all’epoca non lo conoscevo.

Un giorno Sid si presenta con i pantaloni a pinces tagliati

a strisce. Li ha presi a rasoiate perché li detestava, ma poi

non è riuscito a trovare i jeans, così per uscire ha dovuto

ricucirli. Ha riattaccato le strisce con le spille da balia lungo

tutte le gambe, ne ha usate centinaia. Fu così che si

diffuse la moda delle spille da balia tra i giovani nei club:

copiando Sid, che l’aveva fatto solo perché non gli andava

di perdere tempo a ricucire i pantaloni.”

“Avevo sempre pensato che le circostanze della mia vita

– povera, di Londra Nord, scuola pubblica, casa popolare,

femmina – non mi avessero equipaggiata per il successo.

Mentre guardo i Sex Pistols, capisco che per la prima volta

non ci sono barriere tra me e il gruppo. Le idee che mi

ronzano nella testa da anni improvvisamente si fanno nitide

e pressanti.”

VIV ALBERTINE, VESTITI MUSICA RAGAZZI


“Era la gloriosa rinascita del singolo da due minuti. Basta assoli di

chitarra. I concept albums erano finiti. I Mellotron? Verboten. Erano

gli albori del punk o, nell’azzeccata definizione di Tony Parsons, del

rock da sussidio di disoccupazione. E cominciava ad attecchire perfino

tra i miei compagni di scuola della classe media.”

JONATHAN COE, LA BANDA DEI BROCCHI


UN GIORNO UN RA-

GAZZO MI CHIESE

COSA FOSSE IL

PUNK, ALLORA IO

DIEDI UN CALCIO A

UN BIDONE E DISSI:

“QUESTO È PUNK”.

E ALLORA LUI FECE

LA STESSA COSA E

MI CHIESE: “QUE-

STO È PUNK?”; E IO

RISPOSI: “NO, QUE-

STA È SOLO IMITA-

ZIONE...”.

Billy Joe

Armstrong

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!