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STANZE
ascolti
06/24
forme
fotogrammi
ombre
pagine
CITTÀ
palchi
visioni
zone
IN COPERTINA E IN QUARTA DI COPERTINA
Francoforte, Nicola Guida
EDITORIALE
Città del 2024
Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini
Giugno in città è una sfida di resistenza.
Le scuole chiuse, i bambini da collocare ai centri estivi, le scadenze lavorative
che ti tengono sveglio la notte ed il caldo, già feroce, che ti prende
alla gola e non molla la morsa.
Le città in estate sono un ribollire di arsura e rumori, uno spopolarsi di
abitudini scolastiche che lascia posto ad un ritmo di colpi e stridii metallici
per le strade, sulle impalcature, dentro i balconi dove incalzano le ventole
dell'aria condizionata, nel traffico più impaziente che s'infila dalle finestre
aperte assieme alle zanzare e ti lascia sperare solo nell'arrivo
della sera.
Città di palazzi serrati, negozi chiassosi, parcheggi selvaggi, profumi brutali;
di rassegne estive, locali notturni, turisti, pendolari in metropolitana,
biciclette e motorini. Città d'arte, cittadine sulla costa, capoluoghi isolani,
centri montani e capitali. Luoghi affascinanti che offrono vita, esperienze,
hanno caratteri e colori peculiari, hanno una musica specifica che li rende
contenitori in cui vogliamo entrare e da cui tentiamo di scappare. Città di
zone in crescita o in declino, sempre in movimento, più o meno nervose.
Città sotto il giogo del cambiamento climatico, pressate da un progresso
tutto umano, dall'ansia di produrre, di avere e fatturare che ha sconvolto
e scatenato la natura, quella che proviamo a riportare sui terrazzi coi
giardini verticali, quella che proiettiamo sulle facciate vagheggiando l'aurora
boreale, quella che immaginiamo in progetti visionari per un futuro
che stia al passo ma che sia anche sostenibile.
Città distrutte dalle guerre. Arse dai conflitti religiosi e dai giochi di potere.
Città di strade e vicoli oscuri dove si consumano aggressioni, di case chiuse
dove si compiono abusi e femminicidi, mentre nei palazzi istituzionali
si legifera e dietro le tende ognuno di noi cerca di vivere meglio che può.
Città vecchie dentro città nuove, perché il cambiamento è l'unico motore
e da sempre l'unica speranza. Città di uomini, tutti diversi e tutti uguali che
non hanno bisogno di specificazioni, ma forse questa è una città che deve
ancora nascere, una di quelle immaginate da Calvino, invisibile agli occhi,
vagheggiata dal cuore.
3/EDITORIALE
Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata in Storia
e Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo Storico
Artistico e diplomata in Antropologia dell’arte ad un master
dell’Accademia di Belle Arti. Autrice di testi critici per
mostre temporanee e cataloghi ragionati di artisti nazionali
ed internazionali (pubblicazioni Il Centofiorini, Skira,
La Colomba, Pagine d’Arte). Divoratrice di libri e film,
pazza per la musica, mamma di due bambini. La scrittura
creativa si accompagna da sempre a quella critica, come
momento di riflessione, occasione di ritrovamento, lascito
di una traccia. Interessata a trovare connessioni e sinergie
tra le forme espressive, fino ad una sintesi di parole,
immagini e suoni che non ha confini.
Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici nel 1978
alle porte di Milano Nord, cresciuta disegnando prima
e impaginando poi, Paola Ranzini Pallavicini è
un’appassionata e tenace grafica editoriale, che ha
instaurato dagli anni Novanta solide collaborazioni con le
più prestigiose redazioni di mezza Milano specializzandosi
in pubblicazioni di architettura, urbanistica, design, arte,
fotografia, saggistica. Un curioso decennio è volato tra le
altre cose affiancando gli architetti della EPFL di Losanna
nel dare una veste calzante a ricerche di respiro
internazionale. Grazie alla pandemia e ad alcune
interessanti ragazze ha ripreso in mano prima la matita,
poi la penna, per condividere con chi vorrà tutti i mondi
che popolano la sua testa irrequieta.
redazione–stanze
Redazione Stanze
redazionestanze.blogspot.com
IN REDAZIONE
Andrea Anconetani
incertipercorsi.eu
Gianfranco Garavelli
instax240.com
Nicola Guida
nicolaguida.wixsite.com/photography
Alessandro Pertosa
alessandropertosa.it
Alessandro Prandoni
theprandons.wixsite.com/blog
Paola Ricci
paolaricci.com/index.html
Chiara Riva
instagram.com/chiarariva80
Solidea Ruggiero
castelloerranteresidenza.it
CONTRIBUTI FOTOGRAFICI
Marcello Francone
facebook.com/marcello.francone.5
NUMERI PRECEDENTI
Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)
Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)
Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)
Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)
Stanze 03/23 Kids (sabato 11/ 03/2023)
Stanze 06/23 Labirinto (sabato 17/ 06/2023)
Stanze 09/23 Uomo (sabato 23/ 09/2023)
Stanze 12/23 Interni (sabato 23/12/2023)
Stanze 03/24 Punk! (sabato 23/03/2024)
4/redazione stanze
« Negli anni la città mi è entrata dentro. Ha depositato
le sue scorie sulle pareti delle mie arterie e di certi
miei pensieri a cui sempre, con violenza, mi ribello.
Saltano fuori quando sono meno vigile, alle volte, sul far
della sera. La mappa del centro e delle periferie – la
distribuzione dei palazzi – ha forgiato i caratteri delle
generazioni, ne ha determinato la disposizione a sognare
o a non farlo, a guardare avanti immaginando il futuro,
o a procedere a passo moderato, lo sguardo ben fisso
sulla punta delle scarpe. Da queste parti siamo nati tutti
all’ombra della Reggia. Le case sono basse, ancora
rispettose di quel decreto che secoli prima scoraggiava
i sudditi a costruire palazzi più alti della dimora del re.
Questa disposizione all’obbedienza appartiene
a una città che giace adagiata sugli sfarzi di un regno
che fu, la cui eredità è così pesante che non si riesce
a procedere oltre.
A sera, scendendo col motorino dalla città vecchia,
puoi vedere le colline intorno che diventano rosa
ed è uno spettacolo bello, anche se poi lo sai che quello
è il bianco delle cave aperte, pietra viva che arriva
in centro sottoforma di polvere e si appoggia sui vetri
delle macchine parcheggiate per le strade in doppia fila.
La polvere si appoggia sugli amanti nascosti
che scendono a valle separati, sui ragazzini che escono
dalla palestra e raggiungono i compagni rifugiati sotto
i portici a fumarsi le canne, sulle madri che sollevano
le buste del supermercato, sulle vecchie che vendono
a credito i calendari di Padre Pio all’uscita della messa
serale. La polvere delle cave scende insieme alla notte,
si appoggia sulla testa dei passanti e pesa come
piombo, gli inclina il capo dicendo loro di
guardare sempre a terra e mai troppo lontano. »
RAGAZZE PERBENE, OLGA CAMPOFREDA
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CITTÀ
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In copertina
Editoriale
Redazione Stanze
note/Le musiche invisibili
MARTA SILENZI
note/Musica urbana
MARTA SILENZI
ripostigli/Tokyo by car (MS)
Cartoline dalla città
MARTA SILENZI
Love and hate. Spike Lee e l’estate in cui
Bed-Stuym prese fuoco
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
ripostigli/Pretend it’s a City (PRP)
ripostigli/Manhattan (MS)
Gabriele Basilico. La forma della città
NICOLA GUIDA
#album/Ho viaggiato nel freddo
NICOLA GUIDA
Sguardi sulla città.
Le città nelle parole degli scrittori
ALESSANDRO PRANDONI
Le città Invisibili di Calvino
CHIARA RIVA
La città è un racconto
SOLIDEA RUGGIERO
note/collage #1 #2 #3
Il teatro e la città. Un rapporto problematico
ANDREA ANCONETANI
La città e i suoi segni
ALESSANDRO PERTOSA
#album/Milano in Movimento: istantanee
GIANFRANCO GARAVELLI
Volumetrie impossibili
PAOLA RICCI
note/Hundertwasserhaus e la città felice
MARTA SILENZI
note/Harlem Wandering. Cortocircuito
geografico
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
note/La Barcellona di Zafòn
MARTA SILENZI
ripostigli/ From Venice to Shanghai (PRP)
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
«Magari Wolfe e Lyla arriveranno fino
in Canada. Magari abbandoneranno
le rispettive vite, che sono ricche
e piene ma...
Chissà, magari Montreal, dove Robbie
non è mai stato ma che ha sempre
vividamente immaginato: una città
di sfavillanti palazzi di ghiaccio,
un posto dove la gente va al lavoro
pattinando su fiumi gelati, dove
gli amanti si abbracciano in stanze
illuminate da candele sotto una
montagnola di trapunte e piumini, dove
l’ombra di Leonard Cohen indugia
davanti alla chiesetta di Nostra Signora
della Baia, cantando Suzanne
sommessamente tra sé e sé. A chi non
piacerebbe caricare la macchina
di giunchiglie e giacinti e proseguire,
proseguire fino a Montreal?»
DAY, MICHAEL CUNNINGHAM
«Devi essere un po’ sbalestrato.
Se non ti adegui, New York ti spezza,
perché è lei stessa a essere
sbalestrata. Non è rotonda, è piuttosto
un girotondo, e tutte le volte che ti fermi
è sempre in un posto diverso.
Così se cerchi di procedere per linee
rette ti stronca. Ma poi ti imbatti
in un tassista rumeno che in auto
manda a tutto volume musica rumena.
Ha una foto di Malcolm X sul cruscotto,
in testa porta un berretto
della Budweiser e indossa le scarpe
spaiate – una da tennis e una Oxford.
E ti parla di un locale del Queens.
È pazzesco, è eccitante,
ti dà assuefazione…
richiede un allenamento speciale.»
«New York è come un’arma:
vivi con tutte queste contraddizioni
ed è intensa, a volte insopportabile.
È un luogo in cui pensi che dovresti fare
di più per quello che vedi intorno a te,
un luogo in cui l’urgenza di fare una
foto al barbone fuori dal tuo
appartamento diventa più importante
della sua stessa urgenza di ottenere
una crosta o un posto per dormire.»
TOM WAITS
Le musiche invisibili
MARTA SILENZI
Le città invisibili di Calvino (in cui si
addentra Chiara Riva a pagina 100
di questo numero) compongono un
libretto inventivo, pieno di rimandi
semantici, storici ed estetici, di
emozioni e sensazioni che variano
col bagaglio sensibile e culturale
del lettore e danno l’impressione
che quella che Marco Polo racconta
a Gengis Khan sia una storia fatta
di pagine mutevoli e creative, che
si muove sotto la superficie della
carta e prende un volo immaginifico,
diverso per ogni lettore, diverso
ad ogni lettura.
Forse è per questo che il batterista
e compositore Andrea Ruggeri,
nel tradurre le città in musica,
ha pensato ad un concerto per un
ensamble variabile, in cui cambiano
tipi e numero di strumenti sul
palco, che può passare dall’acustico
all’elettrico, all’elettronico,
ampliando all’infinito l’esperienza
del viaggio attraverso queste città
dell’impero che il sovrano mongolo
non vedrà mai.
Cavalcando il cinquantenario
del libro, nel 2022 esce per Da Vinci
Jazz Musiche invisibili, una suite
in 7 tracce suonata dall’ARE,
Andrea Ruggeri Ensamble, composto
da Elsa Martin (voce), Mirko Onofrio
(flauti, sax tenore, voce), Gabriele
Mitelli (pocket trumpet, tromba
preparata, flicorno), Francesco
Ganassin (clarinetti, sax alto),
Christian Thoma (oboe, corno
inglese, clarinetto basso),
Francesco Saiu (chitarra classica
e chitarra elettrica), Elia Casu
(chitarra elettrica, live electronics),
Pasquale Mirra (vibrafono), Oscar
Del Barba (pianoforte, fisarmonica),
Daniele Richiedei (violino, viola),
Annamaria Moro (violoncello),
Giulio Corini (contrabbasso),
Andrea Ruggeri (batteria,
composizione), 13 elementi che
però dal vivo possono cambiare
e dare così origine a differenti
e suggestive narrazioni.
Calvino sostiene che il libro “è uno
spazio in cui il lettore deve entrare,
girare, magari perdersi” e che
“deve avere un intreccio, un
itinerario, una soluzione”.
L’approccio di questo ensamble,
con spazi di elaborazione,
improvvisazione, contrazioni
ed espansioni, influenze ariose
e fortemente narrative si accorda
al metodo calviniano, dimostra
di averlo inteso e di saperlo
restituire tradotto in musica,
espressione che più di tutte sa
rendere visibile ciò che non lo è.
Suoni, sussurri, parole-non parole,
l’uso della voce di Elsa Martin,
come uno strumento tra gli altri,
traina l’ascoltatore nel viaggio,
tra le intercapedini di questi spazi,
intrecciando la trama e l’ordito
dei tessuti sonori, suggerendo
suggestioni e stati d’animo,
caratteristiche di una città
o dell’altra, da Zaira a Despina,
da Zirma a Dorotea.
Proposte in anteprima nel
2017, al Salone Teresiano della
10/ASCOLTI/note
Biblioteca Universitaria di Pavia
(https://www.youtube.com/
playlist?list=PLFVZzxm5uhLgOLE
mu4bEBkjjSJoRvLq1s) e poi
pubblicate nel 2022, per il
cinquantenario dell’uscita del libro
di Italo Calvino, queste Musiche
invisibili dal vivo si mescolano a nuove
composizioni per le quali si prevede
un secondo volume concepito sia per
piccolo che per grande ensamble,
dalle influenze ancora ampie che si
muovono fluide dal jazz alla musica
da camera, dalla musica popolare alla
world music, moltiplicando i viaggi, le
immagini, le esperienze invisibili.
Lucca. Piazza Anfiteatro
Foto di Marcello Francone
“ACCADE GIÀ NELLA LETTERATURA, COSÌ COME IN ALTRE ARTI:
QUELLO DI CUI LEGGIAMO, O CHE POSSIAMO VEDERE, ACQUISISCE
UNA SUA CONCRETEZZA MENTRE NE FACCIAMO ESPERIENZA.
CREDO CHE IN CIASCUNA ARTE QUESTA POSSIBILITÀ POSSA POI ESSERE
PIÙ O MENO DETERMINANTE. NEL CASO DELLA COMPOSIZIONE,
PERSONALMENTE SEGUO UNA IDEA CHE COLTIVO ANCHE IN AMBITO
DIDATTICO: RIUSCIRE A SCOLPIRE LA MASSA SONORA. UNA IDEA
CHE HA NATURALMENTE INFLUENZATO ANCHE MUSICHE INVISIBILI
E CHE SI TRADUCE NEL TENTATIVO DI DARE UNA FORMA AL SUONO
ANCHE MEDIANTE I SILENZI, I CAMBI METRICI, GLI ALLONTANAMENTI
DALLA LINEARITÀ, LE SOTTRAZIONI DEI SUONI.”
11/ASCOLTI/note
Musica urbana
MARTA SILENZI
Nelle esperienze di mindfulness si
parte cercando un focus leggero
che non ci faccia soffermare su
niente in particolare ma che ci
permetta di accorgerci dei suoni
che ci circondano. Di solito essi
sono un misto di cinguettii di vario
genere e suoni urbani a seconda
delle zone in cui ci troviamo e delle
stagioni dell’anno. Max Casacci (dei
Subsonica), musicista allenato alla
ritmica, abituato a riconoscere e
lavorare con i suoni, ci ha costruito
sopra due album: Earthphonia
del 2020 e Urban groovescapes
(Earthphonia II) del 2022. Se il
primo si apre al contesto naturale
portando con sé riflessioni inevitabili
sulla bellezza in natura e sugli
stravolgimenti climatici, il secondo si
concentra sul tessuto sonoro urbano,
sul rumore cittadino e metropolitano
che comporta componenti ritmiche e
giochi acustici inaspettati.
Firenze. Ponte Vecchio
Foto di Marcello Francone
12/PAGINE
Non possono non tornare alla mente
Bjork che intona melodie sui ritmi
cadenzati e regolari delle macchine
nella fabbrica di Dancer in the dark di
Lars Von Trier, o i bombardamenti
da risonanza magnetica dell’album
IRM di Charlotte Gainsbourg e Beck
ma, mentre quelli erano ambienti
al chiuso, Casacci registra suoni
in giro per la città, come un Philip
Winter (tecnico del suono che
girava per Lisbona a caccia del
tappeto sonoro per un film in Lisbon
Story di Wim Wenders) molto più
tecnologico e volto al pensiero di una
riqualificazione del nostro rapporto
con la città e di un rifamiliarizzare
con suoni che teniamo, spesso con
fastidio, in un sottofondo quotidiano
ma che possono invece essere
apprezzati se ascoltati.
Mezzi di trasporto, tram, voci
che annunciano le fermate della
metropolitana, rumori dei bar,
cantieri stradali, ronzio di biciclette
e rombi da Formula 1 sono la base di
partenza del musicista per questo
progetto di dieci tracce volto a
ripensare la nostra relazione con
lo spazio urbano, a recuperare
suoni memoriali ed esperenziali
che andiamo dimenticando: “Chi
ricorda, per esempio, l’esperienza
acustica del gettone nella cabina,
insonorizzata, del telefono? Il
suono dell’attesa, il rumore della
città proveniente da un modo
improvvisamente divenuto esterno,
mentre con la cornetta in mano
aspettavamo le parole di una voce
familiare filtrata dai microfoni a
carbone? Suoni estinti, come quelli
di molti organismi tecnologici,
elettromeccanici di un’era
precedente alla digitalizzazione”.
Urban Groovescapes (Earthphonia
II) è un album che, quasi del tutto
senza strumenti musicali, gioca
a svelare il groove nascosto della
città, attraverso la ricerca e la
manipolazione delle fonti sonore
urbane, inserendo messaggi affidati
alle voci degli annunci ferroviari o
della metro, di personaggi famosi,
come Monica Bellucci, seduti
ad un caffè, agli schiamazzi del
pubblico del tennis, in una sfida
all’immaginazione fatta di suoni
quotidiani, di ritmi, di movimenti,
per scoprire quanta vita c’è sotto
il suono che producono le azioni di
tutti i giorni e quanto tutto questo
lavorio concorra al racconto di una
città, che è un misto di tante città,
da Londra a Courmayeur, ma che è
anche fortemente Torino, casa del
musicista, come si evince dalle tracce
Messaggio di Gioia (Urban transports
Torino/Milano), Tramvia 1 (A tram ride
Torino/Firenze), ATP Finals but the bass
(100% Tennis: but the bass).
“LE CITTÀ COMINCIANO
A CAMBIARE SOLO QUANDO
RIUSCIAMO A IMMAGINARLE
DIFFERENTI”.
“Non lo spazio alienante, grigio
e che spesso viene descritto con
compiaciuta e persistente estetica
del degrado, ma una città che gioca
a ripensarsi e che qui, idealmente,
danza sui suoni di un groove-set
dilatato, ampio, spazioso. Le città
diventano come le immaginiamo.
E oggi, inevitabilmente, il mondo
stesso potrebbe essere ripensato a
partire da esse. L’ho detta forse un
po’ grossa ma l’ho detta in musica,
con quest’album che è un disco, ma
vuole anche essere un contenitore
aperto, in costante evoluzione,
pronto ad arricchirsi.”
La trasformazione del rumore in
musica è il lavoro dei musicisti,
ed è questo il visionario progetto,
realizzato sulla base di registrazioni
di anni, di Max Casacci per 35mm,
sezione cinematografica/sperimentale
di 42 Records. Se il primo capitolo
di Earthphonia punta all’universale, il
secondo esplora la contingenza delle
tensioni umane e tecnologiche che
fanno parte di questa società sempre
più in rapido cambiamento, leggendo
bene un presente nervoso e mai del
tutto fermo.
13/ASCOLTI/note
Firenze. Uffizi e loggia sul Lungarno
Foto di Marcello Francone
14/ASCOLTI
TOKYO BY CAR
È una delle magie di Wim Wenders quella di
mostrare una metropoli solo quando il protagonista
della pellicola sale in macchina e la attraversa,
e di far partire la musica solo quando parte
il mangianastri della stessa macchina.
Così, in Perfect days, la musica racconta lo stato
d'animo di Hirayama e la strada percorsa
racconta la sua città.
The Animals – The House of the Rising Sun
The Velvet Underground – Pale Blue Eyes
Otis Redding – (Sittin’ On) The Dock of the Bay
Patti Smith – Redondo Beach
The Rolling Stones – (Walkin’ Thru The) Sleepy City
Lou Reed – Pefect Day
Sanchiko Kanenobu – Aoi Sakana
The Kinks – Sunny Afternoon
Maki Asakawa – The House of the Rising Sun
Van Morrison – Brown Eyed Girl
Nina Simone – Feeling Good
Patrick Wilson – Perfect Day
MS
15/ASCOLTI/ripostigli
CARTOLINE
DALLA CITTÀ
16/FORME
MARTA SILENZI
Il rigore e la proporzione delle città ideali di Leon Battista Alberti; la Venezia
settecentesca del Canaletto; le città futuriste in preda al movimento e alla
furia cromatica di Umberto Boccioni; le mute piazze metafisiche di Giorgio
De Chirico; le austere fabbriche di Mario Sironi; le composizioni meccaniche
tra grattacieli e tunnel di Fortunato Depero; la Parigi degli impressionisti
sotto la pioggia; le città destrutturate e i palcoscenici onirici dei surrealisti;
le romantiche rovine cartaginesi di William Turner, inondate da una
luce calda e liquida che sfuma i profili e li lascia all’intuizione. Sono tante e
diversissime le immagini di città che salgono alla mente pensando alla
storia dell’arte ma il paesaggio urbano si afferma come genere pittorico
non prima del ‘700, negli anni d’oro del vedutismo che elabora minuziose
e realistiche riproduzioni per le quali sembrano servire diottrie sovrumane.
In precedenza la città è un corredo del dipinto, generalmente posta in lontananza
alle spalle di soggetti religiosi o storici. È un ancoraggio per committenti,
un omaggio a determinati luoghi, un pretesto simbolico.
Lentamente paesaggi naturali e urbani diventano comprimari e protagonisti.
Con i Grand Tour si diffonde l’uso dello studio di luoghi e architetture,
dal bozzetto alle incisioni che, con la loro riproducibilità, sono l’anticamera
della fotografia.
Da strumento d’indagine e documentario a mezzo di per sé di espressione
artistica, la fotografia poi amplia le possibilità dell’arte, anche quando,
nel corso del ‘900, il dato realistico è permeato e stravolto dal fattore
emotivo, dal messaggio critico, dall’esperienza storica e dalla sperimentazione
pittorica.
Volendo spedire dieci cartoline dalle città sparse per il mondo e per i secoli,
la nostra scelta è caduta su una selezione che vi proponiamo dalla nostra
biblioteca.
17/FORME
LA CITTÀ IN COSTRUZIONE
LA GRANDE TORRE DI BABELE
Pieter Bruegel il vecchio
1563, olio su tavola
Vienna, Kunsthistorishes Museum
Anversa. La città che evoca Pieter Bruegel in questa grande opera di Vienna,
come pure nella versione più piccola conservata a Rotterdam (una
terza, perduta, è nominata in alcuni documenti come Torre babilonese) è
Anversa, che nel corso nel 1500 affronta un boom di crescita socio-economica:
è un un centro nevralgico del commercio mondiale, favorita dalla sua
posizione e dalla scoperta delle rotte che costeggiano l’Africa, arrivano in
Asia e, attraverso l’Atlantico, raggiungono l’America. Questa rapida espansione
destabilizza la situazione perlopiù di piccoli comuni facilmente controllabili,
raddoppia gli abitanti di cui gran parte stranieri, con lingue, usi e
costumi differenti: la collettività si fa multiculturale, con grande diffidenza
e difficoltà di comprensione ed intesa, soprattutto religiosa.
Qualcosa di molto simile alla società odierna, segno che tanto progresso
non è affatto avvenuto sul piano socio-culturale. È decisamente attuale la
metafora biblica della Torre di Babele (nel I libro di Mosè, 8 della Torà e in
Genesi, 11 della Bibbia) secondo la quale re Nimrad ordina una torre alta
fino al cielo. Dio punisce questa superbia e presunzione umana privando
gli uomini di una lingua comune così che, non potendo comprendersi, non
riescano mai a portare a termine i lavori.
18/FORME
L’opera di Bruegel è imponente, per dimensioni, per concezione, per impianto
prospettico e cromatico, per gli incredibili dettagli. I pittori fiamminghi
sono conosciuti per la loro grande capacità di rendere definiti i più
piccoli elementi, specie le “vedute” che, se ingrandite molte volte, mostrano
un’esattezza sorprendente data da minuscoli tocchi di colore.
Al di là della torre centrale e protagonista, resa con uno stile che risente
dei viaggi in Italia e della conoscenza sia di costruzioni gotiche che antiche
come il Colosseo; al di là di particolari rivelatori come l’ambientazione accanto
ad un porto fluviale importante per il trasporto dei materiali e l’impiego
di mezzi di costruzione contemporanei all’artista quali il cantiere
edile e le gru; al di là della scena simbolica in primo piano con il re Nimrad
che fa visita ai tagliapietre inginocchiati con entrambe le ginocchia (e non
con uno solo come si usa in Europa) per rispetto del re orientale, è l’immensa
città che si estende in profondità oltre le torre il vero capolavoro di Bruegel:
gli edifici alti, scuri, i tetti appuntiti, i ponti sul fiume, l’acquedotto e, ancora
oltre, la campagna parzialmente illuminata a destra per concessione
delle nuvole.
La versione di Rotterdam , più piccola, è più inquietante, il cielo più minaccioso,
la torre più cupa e scura; la scena del re scompare ma all’altezza
dell’orizzonte – dove cioè prima e più facilmente si posa lo sguardo
– il pittore inserisce una minuziosa processione che sale con un baldacchino
rosso, tipico delle autorità ecclesiastiche: una nota critica contro
la chiesa cattolica evidentemente incurante di qualsiasi eventuale accusa
di superbia.
TUNISI, LA CITTÀ CALDA
DAVANTI ALLE PORTE DI KAIRUAN
Paul Klee
1914, acquerello su carta su cartoncino
Berna, Kunstmuseum, fondazione Paul Klee
Il 7 aprile 1914 Paul Klee raggiunge Tunisi assieme agli amici pittori Louis
Moillet e August Macke per un viaggio studio che sia di stimolo reciproco,
ospitati dal medico Ernst Jäggi.
Dopo qualche giorno di disegni e dipinti tunisini, al porto e nei quartieri
arabi, i tre si recano a Saint Germain, nella tenuta di campagna del dottore
e poi a Cartagine. Il 14 aprile raggiungono Kairuan dove Klee ha una sorta
di epifania pittorica: tiene un diario di viaggio, riporta aneddoti su confronti
e scambi riguardo la pittura, scrive che “il sole è di una forza oscura. La
chiarezza colorata sulla terra è promettente (…). Interrompo il lavoro, un
senso di conforto penetra in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il
19/FORME
colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per
sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno.
Sono pittore.”
Si tratta dell’applicazione delle teorie sulla luce di Delaunay – di cui Klee ha
tradotto il testo – e delle dissertazioni sulla percezione del colore tra i tre
artisti, mixate e sperimentate secondo una sensibilità personale che portano
Klee ad un lavoro delicatissimo e rivoluzionario sugli acquarelli: i colori
sono stesi gli uni sugli altri in trasparenza a partire dall’immagine naturalistica
e arrivando alla progressiva astrazione che racchiude
gentilmente gli elementi paesaggistici e architettonici in velate griglie geometriche.
Klee è un teorico, uno studioso analitico, il suo occhio permea la
realtà per scovarne gli elementi elementari per poi combinarli con percezione
autonoma, irrequieta e sapiente; la sua concezione di astrazione è
questa, estrinsecare i rapporti pittorici puri (come riescono a fare i bambini)
per poi comporli in infinite possibilità associative.
Gli acquerelli di Tunisi risentono del calore di quella terra e di quelle temperature,
c’è una sorta di bagliore diffuso e di caldo tangibile anche negli
azzurri e nei grigi, nei notturni come nei diurni. È così ne Il sorgere della luna
St. Germain (Tunisi), dove la griglia cromatico-geometrica è piuttosto evidente,
o in Vista di Kairuan, dal taglio orizzontale, la tavolozza aranciata,
l’impianto architettonico orientale dinamico tra lo scacchettato degli edifici
e il tondeggiare delle cupole.
Davanti alle porte di Kairuan mostra una veduta più lontana, un paesaggio
arcaico, è una cartolina preziosa dalle tonalità indefinite e liquide, i grigi
violacei, le terre azzurrate, qualche dettaglio come i cammelli e l’asino sul-
20/FORME
LA CITTÀ ECOLOGICA
la linea centrale , la cupola bianca sul fondo, i riquadri tenui appena percepibili,
un accenno di paesaggio ancora sulla sinistra: l’immediatezza di un
disegno di viaggio, l’impressione di un momento ma filtrata da un’attenzione
non comune.
GLI ALBERI INQUILINI NON DORMONO – GLI ALBERI INQUILINI SONO SVEGLI
Friedensreich Hundertwasser
1973, tecnica mista su tela
Tunisi
Tutto comincia nel 1972 col manifesto “Il diritto della finestra-il dovere dell’albero”
che questo artista austriaco, pittore, architetto visionario e soprattutto
ecologista, scrive proponendo di coprire i tetti delle case di vegetazione
e di personalizzare e diversificare le facciate delle abitazioni – una cosa che
oggi sembra molto di tendenza ma che ha origini lontane, negli happening
e nelle ideologie anni settanta che si oppongono all’architettura razionalista,
rivendicando il diritto all’individualismo decorativo e all’armonia con la
natura.
Si tratta di un preciso programma di arte, architettura ed ambiente che
Hundertwasser propone in giro per il mondo, fatto di esposizioni, gesti simbolici,
discorsi impegnati e realizzazioni grafiche inerenti come locandine
e francobolli, per storicizzare queste sue campagne socio-culturali.
Per Hundertwasser l’uomo ha 5 pelli: l’epidermide, i vestiti, la casa, l’ambiente
sociale; la quinta pelle è legata al pianeta, alla qualità dell’aria, allo stato
della Terra che ci ospita e ci nutre.
Queste pelli si presentano visivamente in forma di cerchi concentrici, come
le sezioni dei tronchi degli alberi, coloratissimi e portatori di storia, conoscenza
e significati. In pittura, come nelle azioni che lo vedono piantare fisicamente
alberi-inquilini su balconi e facciate di importanti palazzi a Milano,
per la Triennale del ‘73, e poi in Austria e in Germania, e persino nei
progetti architettonici, l’impostazione è anticonformista, ecologista e visionaria.
Nel dipinto conservato a Tunisi la città è invasa dagli alberi, inquilini
dei palazzi che si scorgono dietro i cerchi dominanti e all’interno di un fluire
dinamico: tutto è collegato e tutto è in movimento, connesso, vivido. “Gli
alberi che crescono nelle e sulle case pagano l’affitto, senza sosta, con
molte monete e in una preziosa valuta, con l’ossigeno, il silenzio, la riduzione
della polvere, regolando la temperatura e offrendo bellezza.”
21/FORME
22/FORME
LA CITTÀ ASTRATTA
ASHEVILLE
Willem De Kooning
1949, olio e smalto su cartoncino montato su tavola
Washington, The Phillips Collection
Asheville è una cittadina della Carolina del Nord vicino al Black Mountain
College dove De Kooning insegna nell’estate del 1948. L’opera, relativamente
piccola, è uno di quei portenti che condensano molti elementi e che
quindi vanno osservati a lungo, in cerca di indizi e dettagli avvicinandosi e
in cerca di una sensazione d’insieme guadandoli da lontano. Gli espressionisti
astratti puntano ad una pittura immediata, al gesto veloce, ad una
frammentazione che trova una sua unità altra, individualista, esistenzialista.
L’artista olandese cavalca questa nuova espressione creando l’illusione di
una tecnica mista: sembra nascondere disegno e collage tra la pittura,
consegnando un’immagine casuale e impulsiva ma che in realtà ha vari
studi e quattro ulteriori versioni alle spalle che gli permettono di elaborare
una composizione finale priva di veri elementi di collage, evocato però da
rotture e salti come fossero ritagli ed inserti (una puntina da disegno, un
lembo di carta staccato); tutto questo senza perdere la freschezza e l’irrequietezza
del gesto emotivo. Contribuiscono all’effetto generale le numerose
raschiature e stratificazioni e l’utilizzo bordante del nero con un pennello
da fodera, solitamente usato dai pittori di insegne.
La cittadina ritratta è rintracciabile nello skyline della zona centrale in alto
23/FORME
VICOLI DI CITTÀ
LA STRADINA
Johannes Vermeer
1657 ca., olio su tela
Amsterdam, Rijksmuseum
del dipinto che richiama le Blue Ridge Mountains che incombono sui terreni
del Black Mountain College; l’area azzurra sottostante evoca l’Eden Lake,
adiacente alla scuola. Poi ci sono frammenti di occhi, mani, una bocca, un
riquadro verde, profili di lettere, tutto combinato e ritmato per confondere
e moltiplicare i significati, codificare la realtà secondo una visione personale
e rispondere alle numerose possibilità espressive che gli anni ‘50 (sia in
Europa che in America) stanno covando.
Una “scena di cortile” dipinta dal maestro degli interni con la stessa magia,
la stessa sensazione di silenzio e raccoglimento nelle faccende domestiche,
ognuno intento nel proprio lavoro, un giorno come un altro tra i vicoli e
sotto il cielo grigio di Delft.
Un edificio di mattoni rossi, una facciata dalle imposte quasi del tutto chiuse,
tre scene distinte che animano la casa e la via ma con garbo: un ram-
24/FORME
LA CITTÀ SEPARATA
mendo nell’androne della porta, il lavorio di una domestica nel cortile interno,
due bambini che giocano a sollevare piastrelle (motivo ricorrente nei
quadri religiosi olandesi del XVII secolo).
La ricchezza di dettagli e la sensibilità per la luce ed il colore dati a tocchi
sul lato sinistro del quadro e distribuiti in un’infinità di minuziosi particolari
fa del piccolo dipinto una tra le più belle opere di Vermeer, che sa restituire
il fascino di Delft pur vista da un umile vicolo, legando la facciata principale
al resto dei fabbricati, spingendoci in profondità a partire dalla linea in primo
piano del canale di scolo, esortandoci ad alzare progressivamente lo
sguardo sui pigoni delle costruzioni e lasciandoci immaginare l’intreccio di
molte altre stradine così all’ombra delle parti più importanti e rappresentative
della città.
Vermeer ha dipinto perlopiù scene d’interni, momenti cristallizzati, figure
fissate in un attimo reso eterno dalla luce: la lettura di una lettera, la scelta
di un gioiello, il peso delle perle, inondati dal calore e da gradazioni luminose
opportunamente filtrate quasi sempre dalla stessa finestra e poi ritratti
e allegorie universalmente conosciuti, esempi altissimi del luminismo seicentesco.
Ma questo quadruccio, come la più grande e ariosa Veduta di
Delft, conservano la maestria, i tagli angolati, l’uso della camera oscura per
controllare la composizione, la magia ed il mistero di uno degli artisti di cui
si hanno meno notizie nell’intera storia dell’arte.
LA CASA BLU
Marc Chagall
1917 ca., olio su tela
Liegi, Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain
Marc Chagall è un pittore russo, un ebreo chassidico, un visionario che
resta sempre indipendente dai movimenti artistici che lo circondano, ne
trae soltanto ispirazione per trovare una sua via peculiare che è narrativa,
colorata, fiabesca, malinconica e romantica.
Cresciuto all’interno di uno shetl, un ghetto ebraico fatto di baracche, una
scuola e una sinagoga, per quanto abbia poi viaggiato e conosciuto altri
mondi, resta quello lo spazio del suo immaginario pittorico: sono piccoli
borghi di casupole gli scenari urbani che gli vediamo rappresentare nelle
sue opere, ma questi umili luoghi sono solo la parte terrena di un insieme
che prende quasi sempre il volo, nei colori e nelle forme della fiaba chassidica,
come se l’individuo, vessato dall’isolamento e dall’odio, trovasse in uno
spazio intermedio tra terra e cielo il proprio mondo, dove i colori esplodono,
le spose cavalcano asini rossi e gli angeli suonano il violino.
25/FORME
È una di queste baracche il punto di vista sulla grande città de La casa blu
e de La casa grigia, due versioni in diverse condizioni di luce e con variazioni
di dettagli e ambientazione in cui Chagall mostra la separazione: il
blu-violaceo di una delle costruzioni del ghetto, in legno e mattoni, fragile
e povera, che potrebbe essere spazzata via da un soffio di lupo, di fronte
alle più solide strutture in pietra di Vitebsk.
Il luogo potrebbe essere il sobborgo di Liozno, in cui Chagall è nato e cresciuto,
diviso da Vitebsk in cui svetta il monastero barocco, dalle trasparenti
acque del fiume Dvina, che nel dipinto accoglie un riflesso violaceo della
città e taglia in due la colorata campagna.
Prospettiva e tavolozza non sono realistici, piuttosto espressionisti, e acuiscono
la favola e il dramma in essa nascosto.
La versione conservata al Thyssen-Bornemisza di Madrid è in grigio-verde,
il punto di vista è ribassato e tutto assume toni e forme più grotteschi, il
monastero è più dettagliato, il cielo è un’astrazione minacciosa e un grosso
steccato rende inequivocabile il concetto della reclusione.
Nell’angolo a sinistra un ebreo, forse lo stesso Chagall, sembra ondeggiare
stagliato su un muro di pietre o un catasto di legna.
Le variazioni tra i due dipinti mostrano molto bene quanto il filtro immaginifico
e la forza dei colori siano a sostegno della libertà espressiva dell’artista.
26/FORME
LA CITTÀ DELLE LUCI / LA CITTÀ VERTICALE
NEW YORK, NOTTE
Georgia O’Keeffe
1929, olio su tela
Lincoln, Collection of the Sheldon Memorial Art Gallery, University of Nebraska Art Galleries
Nel 1925 la pittrice americana Georgia O’Keeffe e Alfred Stieglitz, suo marito,
mercante e fotografo, si trasferiscono ai piani alti dell’Hotel Shelton di
New York. Sono i primi ad abitare sopra i tetti di Manhattan, in locali solitamente
riservati agli uffici.
La vista è spettacolare, la città è verticale, come osserva Le Corbousier.
Il grattacielo, con la sua forma a torre e l’intento di svettare, è già simbolo
di modernità: sebbene si debba aspettare gli anni trenta per vedere il tipico
skyline di New York, edifici come il Radiator Building e lo Shelton ne
anticipano il fascino.
La O’Keeffe è pittrice di elementi naturalistici, o meglio, di come la sensazione
e la percezione del fiore, del paesaggio, dei teschi di mucca li trasformino
sulla tela. Il suo approccio alla città non è differente:”Non si può dipingere
New York come essa è, ma piuttosto come la si avverte”.
Il suo punto di partenza è fotografico, gli scatti di Charles Sheeler, Paul
Strand e dello stesso Stieglitz hanno tagli e prospettive insolite, i grattacieli
si slanciano, spiccano e su di essi s’impone la luce. La pittrice semplifica e
ripulisce l’immagine da tutti i dettagli e lascia la descrizione unicamente
alla luce. Quella diurna crea effetti particolari su quegli edifici che quasi la
27/FORME
ostacolano e giocano di riflessi, è evidente in Hotel Shelton, New York, No.1
(1926, Regis Collection, Minneapolis) che assomiglia ad un controluce, quando
con la macchina fotografica si scatta guardando il sole, che avanza sul
lato del palazzo e gradatamente aumenta il bagliore, cancellando finestre
e profili e distribuendo bolle dorate e magiche in caduta sulla strada.
Quella notturna è cantata da artisti di ogni genere: le luci artificiali della
metropoli sono un emblema, dalle infinite finestre degli uffici, ai fari apicali
sui tetti, ai semafori, ai neon, alle pubblicità. Dai piani alti della sua abitazione
la O’Keeffe ha una visuale favorita e protetta, si affida alle sfumature
scure per semplificare le sagome e ai bagliori colorati per rendere l’atmosfera,
dai toni aranciati in New York, notte, dalle vibrazioni più argentee in
Radiator Building – Night, New York (1927, Fisk University). Interessante è anche
un altro notturno, City Night (1926, Mineeapolis Institute of Arts), stavolta
una vista del basso, i grattacieli incombono e puntano verso l’alto, tutto
è scuro tranne due bolle di luce chiara al centro e una digradante parte di
edificio completamente bianca, pienamente illuminata e molto netta.
È la sensazione per le strade di Manhattan, quando camminando non possiamo
fare altro che piegare il collo e guardare in su.
UNA CITTADINA NORDICA
RAGAZZE SUL PONTE
Edvard Munch
1902 ca., olio su tela
Mosca, Museo Puskin
28/FORME
LA CITTÀ LÀ FUORI
È una sera d’estate, quando nei paesi nordici le ore del giorno si allungano
indefinitamente. Tre ragazze si appoggiano al parapetto del ponte e restano
a guardare il riflesso nell’acqua della città di Åsgårdstrand. È un lembo
quieto della città, quasi del tutto nascosto dalla grande massa dell’albero.
Tutto è silenzioso e pacato.
La composizione è raffinata, col villaggio frontale ed il ponte in diagonale
che creano lo spazio per lo specchio d’acqua. La pittura è magnifica: morbida,
quasi mossa, dai contorni marcati e i toni freddi serali. Munch è pittore
di stati d’animo profondi e trattiene nelle sue opere un simbolismo a
volte delicato, come in questo caso, a volte straripante come ad esempio
ne L’urlo (1893, Oslo, Munch Museet). Entrambi i dipinti presentano la tematica
del ponte, che ha a che fare con la transitorietà, il collegamento ma
anche l’allontanamento, qui coniugata con quella dello specchio, che allude
all’autocoscienza, allo scrutare dentro se stessi. È forse su questo che riflettono
le tre donne di spalle, avvolte nella dimensione intima della sera.
Su questo ponte sono solo sussurri quelli che nell’altro quadro sono grida.
Le ultime case bianche nella cittadina sonnecchiano a distanza, la luna è
tenue nel cielo ancora chiaro, l’acqua si muove appena.
OFFICE IN A SMALL CITY
Edward Hopper
1953, olio su tela
New York, The Metropolitan Museum of Art
Edward Hopper dipinge interni. Teatri, caffè, stanze d’albergo, scompartimenti
di treno, cinema, uffici, motel. A volte sbircia nelle finestre illuminate
di case e palazzi. E poi dipinge esterni. Blackwell’s Island, angoli di New York,
il traffico di Yonkers, villette isolate nei pressi della ferrovia, Whashington
Square, fari e tramonti, Corn Hill, Cape Cod. Cerca la luce del sole che scende
o che sorge, il suo punto di vista è quello del narratore nascosto, pronto
a cogliere un accadimento minimo nell’assoluta e semplice quotidianità.
Le sue città sono l’America tra gli anni trenta e cinquanta: i palazzi, i ristoranti,
i negozi, i caseggiati, popolati da figure in abiti immediatamente identificativi
di uno stile e di un’epoca.
E tutto ha il sapore parimenti di realismo ed irrealtà, di un tempo fermo, di
uno stand by.
In questa sospensione la luce e la geometria si combinano in composizioni
geniali, come in quest’Ufficio in una piccola città, che è un gioco di rapporti tra
interno ed esterno molto cinematografico: il pittore sembra seduto dietro
una macchina da presa rialzata, così da poter guardare dentro quest’ufficio
29/FORME
QUARTIERI MISTERIOSI
dalle enormi vetrate prive di aperture, così da poter cogliere contemporaneamente
l’impiegato e la città che sta osservando, il palazzo scuro di fronte
stagliato contro il bianco disadorno delle due costruzioni che lo circondano.
Hopper sceglie sempre una semplificazione d’insieme: non ci sono dettagli
del lavoro svolto nell’ufficio, né scritte sul palazzo, solo il consueto gusto per
le forme geometriche, le superfici perlopiù piatte, gli angoli e l’incastro di
volumi, essenzialità e sintesi, nelle quali la luce produce ombre bellissime
e strisce dorate sulla scrivania. La cittadina potrebbe essere una delle tante
dello Stato di New York, la modanatura in basso a destra crea assonanza
con lo stile architettonico del palazzo di fronte e richiama subito alla mente
l’urbanistica americana del periodo, così come richiama anche una certa
metafisica (Sironi più che De Chirico) affatto turbata dalla presenza
dell’uomo, che è fermo nel suo pensiero, staccato dalle circostanze del presente:
la luce impone il silenzio e la dimensione è solo quella dell’ascolto.
L’EMPIRE DES LIMIERÉS II
René Magritte
1950, olio su tela
New York, The Museum of Modern Art
Ecco un’altra situazione di reale irreale. Magritte è il maestro dell’illusionismo.
Dipingere le cose così come sono mette immediatamente in discussione
“i loro corrispettivi nel mondo reale”. L’intento del pittore belga è
30/FORME
sovvertire le leggi per mostrare il mistero del mondo, la magia, la poesia.
Non è la soluzione dell’apparente rebus che si deve cercare, non il significato
del quadro, ma l’ambiguità, lo straniamento, di cui prendere atto e
meravigliarsi.
Quest’opera di Magritte è in forma di pensiero e in termini di luce e buio.
Un quartiere di Bruxelles? Forse. Una via residenziale curata e silenziosa.
Luci tenui nei caseggiati, le chiome degli alberi confuse nell’oscurità, il punto
focale dell’elegante lampione. Nessuna forte emozione se non la quiete
della sera.
Ma è davvero sera?
Perché il cielo è chiaro e cosparso di nuvole bianche.
In alto è pieno giorno. Nessun taglio di luce emotivo per Magritte, mai, la
sua tavolozza è sempre fredda e raffinata, l’effetto è sempre calcolato, sobrio,
eppure i soggetti sono del tutto sopra le righe, extramentali, onirici,
surreali.
Due tempi in uno, giorno e notte, sopra e sotto.
Uno sguardo frettoloso ci fa propendere per la sera, il crepuscolo, l’imbrunire,
ma il cielo non è per niente bruno, il celeste potrebbe essere quello
delle tre del pomeriggio e le nuvolette sono in viaggio verso sinistra senza
che gli alberi sotto risentano di alcun vento.
È una compresenza, la strada di una cittadina notturna sotto un cielo diurno.
Perché no.
31/FORME
HATE AND LOVE
Spike Lee e l’estate in cui
Bed-Stuym prese fuoco
GENTE MIA, GENTE MIA. COSA
POSSO DIRVI? COSA POSSO DIRVI?
HO VISTO, MA NON HO CREDUTO.
NON HO CREDUTO A QUELLO
CHE HO VISTO. RIUSCIREMO
MAI A VIVERE INSIEME? INSIEME
RIUSCIREMO MAI A VIVERE?
Mister Señor Love Daddy, dopo la rivolta
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
IL RUOLO DELL’ARTISTA È QUELLO DI RISPECCHIARE
LA SOCIETÀ IN CUI VIVE NEL PROPRIO LAVORO.
LA MAGGIOR PARTE DEI MIEI FILM PARLA DI DOVE VIVO.
HO AFFRONTATO DIRETTAMENTE IL PROBLEMA RAZZIALE
IN JUNGLE FEVER E FA’ LA COSA GIUSTA, PER ESEMPIO,
PERCHÉ RITENGO CHE È STATO, È E CONTINUERÀ
A ESSERE IL PROBLEMA PIÙ URGENTE E GRANDE
NEGLI STATI UNITI. QUESTO, FINO A CHE NON SARÀ
AFFRONTATO COSÌ COME MAI È STATO FATTO.
Il castoro cinema, 2007
FA’ SEMPRE LA COSA GIUSTA.
TUTTO QUI?
TUTTO QUI.
Da Mayor
Shelton Jackson Lee
La città è sempre stata l’assoluta protagonista delle pellicole di Spike Lee.
Nato ad Atlanta nel 1957, figlio di un’insegnante e di un musicista jazz, si
trasferì quasi subito prima a Chicago e poi a Brooklyn. La corporatura gracile
lo allontanò dai sogni di gloria legati al baseball per avvicinarlo a letteratura,
cinema e teatro, a Malcolm X, ai giornali studenteschi e, come legante
di tutto questo, alla causa afroamericana.
33/FOTOGRAMMI
Il primo corto di Lee risale ai tempi del college, al termine del quale si iscrisse
alla New York University e prese la decisione definitiva sul suo futuro da
regista. Il resto è storia: una ricca filmografia in molti passaggi fortemente
autobiografica, una miscela esplosiva di fattori determinanti: impegno sociale,
passione sfrenata per la musica (il regista ha anche diretto molti videoclip),
lo sport, l’arte contemporanea afroamericana.
Ispirazione, ideazione, evoluzione di Do the Right Thing
Fa’ la cosa giusta è del 1989, anno in cui Lee fondò la sua casa di produzione,
la 40 Acres & a Mule Filmworks, Il cui nome deriva dalla promessa di risarcimento
- 40 acri di terra e un mulo - fatta agli schiavi africani al termine
dello schiavismo: promessa mai mantenuta.
Lee serbava il ricordo di un telefilm visto da piccolo, probabilmente di Hitchock,
basato sulla tesi che, con il superamento dei 90 gradi sul termometro,
in città aumenta la percentuale di omicidi commessi.
Nei suoi appunti questa tesi venne assimilata e rielaborata assieme a due
gravi fatti di cronaca di quegli anni, l’uccisione nel 1983 dell’artista afroamericano
di New York Michael Stewart da parte di otto poliziotti successivamente
tutti assolti - ricordata anche in un famoso dipinto di Jean-Michel
Basquiat - e l’Howard Beach Incident nel 1986, rinsaldando così le basi per
l’ideazione del film.
L’ambientazione scelta risale al ricordo autobiografico legato ad un periodo
di magra in cui Lee aveva pochi soldi a disposizione, e poteva permettersi
di mangiar fuori solo nelle pizzerie d’asporto, seduto a prendere appunti
sui clienti che andavano e venivano.
Questo gioiello preannuncia la febbre indemoniata descritta da Jungle Fever,
la calura inquietante di Summer of Sam, contiene il germe del monologo
di Edward Norton ne La 25esima ora, la gioventù dei genitori di Nola
della serie She’s gonna have it, e ridiviene purtroppo attuale dopo che il
movimento Black lives matter torna a far parlare di sé dopo la terribile uccisione
di George Floyd negli Stati Uniti: rivederlo alla luce del 25 maggio
2020 fece un certo effetto, un parallelo che mette i brividi e che ha spinto
il regista qualche giorno dopo a montare e pubblicare sui social un cortometraggio
con scene del film alternate a quelle degli assassinii di Floyd e
di Eric Garner, anche lui morto ripetendo le parole: “I can’t breathe”.
Due anni dopo l’uscita del film, nel 1991, si accese una rivolta a Crown Heights
tra neri ed ebrei, a fare il paio con il conflitto nero-italiano (e, in misura
molto minore, nero-coreano) raccontato da Lee. Sempre nel 1991 Rodney
King venne preso a pugni da una banda di poliziotti. Nel 1999, gli agenti
della polizia newyorkese uccisero con quarantuno colpi Amadou Diallo,
34/FOTOGRAMMI
innocente, guineano, nei pressi di casa sua. Nel 2014 Eric Garner (grande
e grosso come Raheem, il ragazzo del film) fu soffocato a morte, sul marciapiede,
senza motivo.
ALL’ORIGINE DELL’IDEA DEL FILM C’È INNANZITUTTO
IL RICORDO DI UNA RIVOLTA A HARLEM NEGLI ANNI
QUARANTA; LA SUGGESTIONE DEL FILM LA MORTE CORRE
SUL FIUME (NIGHT OF THE HUNTER, DI CHARLES LAUGHTON,
1955), CHE SPIKE LEE HA VISTO DA BAMBINO; I DUE
TATUAGGI “HATE” E “LOVE” CHE ROBERT MITCHUM
PORTA SUL DORSO DELLE MANI, DESTRA E SINISTRA,
A DISPENSARE SOFFERENZA E PACE SI RITROVERANNO
SULLE MANI DI UNO DEI PERSONAGGI DEL FILM, RADIO
RAHEEM, SU DUE PUGNI DI FERRO PLACCATI IN OTTONE,
CHE RIPRODUCONO LE DUE SCRITTE: ODIO A SINISTRA
E AMORE A DESTRA.
Il castoro cinema, 2007
Di questo film Spike Lee è regista, produttore e sceneggiatore, e recita nel
ruolo di Mookie.
Do the Right Thing viene girato in inglese, spagnolo, italiano, coreano, a New
York nel 1989, per la durata di 120 minuti che scorrono in un lampo accecante.
Il titolo cita una delle frasi tipiche della comunità afro americana.
Bed-Stuym
Ci troviamo all’incrocio della 173 Stuyvesant Avenue, angolo nordest di
Quincy Street, nel cuore di Brooklyn, a Bed-Stuym che è la crasi di Bedford-Stuyvesant,
le due strade di Brooklyn dove Lee aveva ambientato
anche il cortometraggio della sua tesi di laurea, Joe’s Bed-Stuy Barbershop:
We Cut Heads).
L’amore del regista per il luogo in cui sta girando trasuda ad ogni inquadratura:
enfasi, curiosità, ritmo, una poetica rafforzata dalla fotografia di
Ernest Dickerson.
L’immaginario di noi ragazzi oltreoceano si è formato su film come questo,
dove la città di New York è la vera star, con i suoi idranti schizzati a metà
del marciapiede per far giocare i ragazzini, il miscuglio di musiche, stili e
parolacce, i colori violenti (alcuni muri vennero ridipinti per l’occasione
dalla troupe, per accentuare i contrasti tonali forti tra cielo, case, vestiti
estivi). Quell’immaginario per Lee era l’unico possibile, nel momento in cui
si trovava, l’unico degno di essere rappresentato a quel punto della sua
35/FOTOGRAMMI
crescita artistica: avere 32 anni, due film indipendenti all’attivo e uscire
molto semplicemente per la strada a fare la cosa giusta, documentare, con
testa e cuore.
Do the Right Thing nel panorama cinematografico americano degli anni
Ottanta costituisce una spinta innovatrice fenomenale; verrà citato spesso
da Obama perché la sua visione al cinema fu scelta dall’ex presidente per
il primo appuntamento con Michelle.
Il film ha avuto una tale rilevanza per il quartiere, oltre che per la storia cinematografica
di quegli anni, che il 30 giugno 2014, in occasione del suo 25°
anniversario, si poterono acquistare canotte DTRT e magliette Boycott Sal,
e il regista mise in piedi una festa gratis a Brooklyn. Ma soprattutto la città
di New York cambiò il nome di Stuyvesant St. in Do the Right Thing Way.
Gli abitanti del quartiere
Il sampling in musica è una tecnica che nasce con l’hip-hop degli anni ‘70 e
‘80 e comporta l’utilizzo di campionature derivanti da svariante fonti per creare
un pezzo nuovo, spesso mandate avanti in loop, sovrapposte e mixate.
Spike Lee con Fa’ la cosa giusta sfrutta la medesima tecnica mettendo in
scena un campionario di personaggi che interagiscono in un sistema chiuso,
in questo caso il quartiere con la pizzeria che fa da fulcro, un’orchestrazione
di caratteri molto diversi tra loro che porta a un punto di non ritorno.
TINA, portoricana
I titoli di testa sono entrati nella leggenda. Qui incontriamo subito Tina,
davanti al muro di una brownstone, in short e canottiera, il primo personaggio
dei tanti, la fidanzata portoricana di Mookie, che balla tarantolata sulle
note di Fight the Power, che i Public Enemy scrissero apposta per il film.
Questo pezzo fortissimo è il filo conduttore della pellicola, lo sentiremo risuonare
in diversi momenti chiave come un monito. Il videoclip ufficiale
della canzone verrà poi girato da Spike Lee stesso.
La ballerina Rosie Perez, scovata dal regista in un nightclub di Los Angeles
e subito scelta per il ruolo, girò per otto ore quella scena sfiancante, esasperata
dalle sue pretese. Lee raccontò in seguito di essersi ispirato a una
scena di Ciao, ciao Birdie, musical degli anni Sessanta che la generazione
successiva scoprirà attraverso una delle più riuscite puntate della straordinaria
serie di Matthew Weiner, Mad Men.
Tina vive con la madre, Carmen, e ha un figlio con Mookie; è innamorata di lui
ma fa della sua vita un eterno sguaiato borbottio, e le scene del film sono regolarmente
intervallate dalle sue lamentele in spanglish, perché il ragazzo
non è in grado di trovarsi un vero lavoro e di mantenerli come si converrebbe.
36/FOTOGRAMMI
DO THE RIGHT THING
(FA’ LA COSA GIUSTA)
Stati Uniti d’America, 1989
DURATA
120 minuti
LINGUA ORIGINALE
inglese, spagnolo, italiano, coreano
REGIA E SCENEGGIATURA
Spike Lee
CASA DI PRODUZIONE
40 Acres & a Mule Filmworks
FOTOGRAFIA
Ernest Dickerson
MONTAGGIO
Barry Alexander Brown
EFFETTI SPECIALI
Steven Kirshoff
MUSICHE
Bill Lee
SCENOGRAFIA
Wynn Thomas
INTERPRETI E PERSONAGGI
Spike Lee: Mookie
Danny Aiello: Salvatore “Sal”
Frangione
Ossie Davis: il Sindaco
Ruby Dee: Mother Sister
Richard Edson: Vito Frangione
Giancarlo Esposito: Buggin’ Out
Bill Nunn: Radio Raheem
John Turturro: Pino Frangione
Paul Benjamin: ML
Frankie Faison: Coconut Sid
Robin Harris: Sweet Dick Willie
Joie Lee: Jade
Miguel Sandoval: agente Ponte
Rick Aiello: agente Long
John Savage: Clifton
Samuel L. Jackson: Mister Señor
Love Daddy
Rosie Perez: Tina
Roger Guenveur Smith: Smiley
Steve White: Ahmad
Martin Lawrence: Cee
Leonard L. Thomas: Punchy
Christa Rivers: Ella
Frank Vincent: Charlie
Luis Ramos: Stevie
Richard Habersham: Eddie
Gwen McGee: Louise
Steve Park: Sonny
Ginny Yang: Kim
Sherwin Park: bambino coreano
Shawn Elliott: gelataio portoricano
Diva Osorio: Carmen
37/FOTOGRAMMI
LA POPOLAZIONE
DI NEW YORK È COSÌ
ETEROGENEA CHE
DA PICCOLO NON
PENSAVO MAI A ME
STESSO
IN TERMINI
DI COLORE
DELLA PELLE.
da Questa è la mia
storia e non ne cambio
una virgola
Kowalski Editore
MOOKIE E JADE, fratelli afroamericani
Mook in italoamericano vuol dire negro. È questo il ruolo che si è scelto il
regista per partecipare anche in veste di attore alla pellicola: il garzone
afroamericano della pizzeria locale.
Mookie si vanta di non aver mai consegnato una pizza fredda, tuttavia
questo incarico non gli permette di avere un’indipendenza economica, motivo
per il quale vive ancora con la sorella minore, Jade - la vera sorella di
Lee, la splendida Joie che abbiamo amato in moltissimi film del fratello,
interprete di Lola Darling, Aule turbolente, Mo’ Better Blues, e autrice di Crooklyn.
Jade dagli abiti color caramella, svolazzanti, che incanta Sal e a dire
il vero incanta tutto il vicinato.
Mookie, con i suoi capelli a due piani e la casacca bianca a risvolti rossi e
verdi a rappresentare il suo datore di lavoro italiano, è un pigro e rilassatissimo
ragazzo che porta a spasso i cartoni delle pizze conditi da una
moltitudine di chiacchiere e aneddoti a beneficio della comunità.
Molto attaccato al denaro, non a caso nella prima scena in cui viene inquadrato
sta contando delle banconote e nell’ultima le raccoglie; un personaggio
che si presta a molteplici interpretazioni e che lascia perplessi per via
delle molte contraddizioni che incarna.
SAL, PINO e VITO, italoamericani
Sal Frangione ha messo in piedi una pizzeria da solo, da molti anni, e insieme
ai figli Pino e Vito è l’unico rappresentante bianco del quartiere.
L’attore Danny Aiello disse a Spike Lee dopo essere stato scelto: “Spike, tu
sei la persona più di sinistra che conosca, io sono bianco, italiano e di destra.
Cosa mai potremmo fare di buono, io e te insieme?”. Tuttavia venne scelto
su consiglio di De Niro, che Lee inizialmente avrebbe voluto nella parte.
Sal ha visto crescere tutti i ragazzi del quartiere divorando la sua pizza, sa
come destreggiarsi, e si è affezionato a molti di loro. Ogni mattina arriva
con la sua Cadillac e i suoi due litigiosi figli caricati dietro, pronto a sfornare.
Ha costruito tanto, da zero e, pur esasperato dalla tensione sociale in cui
vive, non ha nessuna intenzione di tornare in un quartiere italiano dove
essere solo uno dei tanti.
Pino, uno strepitoso e giovanissimo John Turturro, non sopporta i neri, è
rancoroso e sopra le righe.
Se da un canto Aiello era restio a usare il termine nigger con così tanta
disinvoltura in un contesto tanto complicato, Turturro visse l’imbarazzo di
interpretare il personaggio più biecamente razzista del film; in uno scambio
concitato racconta a Mookie la sua grande ammirazione per Magic Johnson,
Eddie Murphy e Prince, sostenendo che questi ultimi sono così in gamba
da essere “più che neri”.
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“IT’S DIFFERENT. MAGIC, EDDIE, PRINCE ARE NOT NIGGERS,
I MEAN, ARE NOT BLACK. I MEAN, THEY’RE BLACK BUT NOT REALLY
BLACK. THEY’RE MORE THAN BLACK. IT’S DIFFERENT.”
Vito è grande amico di Mookie. Sal passa praticamente il tempo a calmare
le acque tra i tre, che si confrontano continuamente su questioni razziali,
accusandosi a vicenda.
Entrambi indossano la wife-beaters, la caratteristica canottiera bianca degli
immigrati. Ma mentre il razzista Pino la indossa bianca, l’amico dei neri Vito
la preferisce nera: ogni dettaglio è rivelatore, in questo film.
“YOU GOLD TEETH, GOLD CHAIN WEARING, FRIED CHICKEN AND
BISCUIT EATING, MONKEY, APE, BABOON, BIG THIGH, FAST RUNNING,
HIGH JUMPING, SPEAR CHUCKING, THREE-HUNDRED-AND-SIXTY-
DEGREE BASKETBALL DUNKING, TITSUN, SPADE, MOULAN YAN. TAKE
YOUR FUCKING PIZZA PIECE AND GO THE FUCK BACK TO AFRICA.”
IL SINDACO (DA MAYOR), e MOTHER SISTER, afroamericani
Il suo è solo l’ironico soprannome che gli è stato affibbiato nel quartiere, in
realtà si tratta di un anziano alcolizzato, che gira con un vecchio completo
stazzonato da mattina a sera e chiacchiera con tutti quelli che incontra,
venendo sbeffeggiato il più delle volte. Di animo gentile e pacifico, possiede
una certa saggezza che è un valore aggiunto in mezzo al nervosismo che
impera.
Mother Sister è l’altra anziana per eccellenza tra i personaggi: vive alla finestra
e tutto osserva, tutto sa (“Mother Sister always watches”). Borbotta
di continuo per le avance del Sindaco ma gli vuole molto bene.
Ruby Dee e Ossie Davis sono stati sposati per quasi 60 anni nella vita reale.
BUGGIN’ OUT, afroamericano
Aspirante attivista politico, petulante amico di vecchia data di Mookie, grande
rompiscatole, la sua giornata nel quartiere è fatta di toni accusatori e
poco di concreto.
La Sal’s Famous Pizzeria ha le pareti tappezzate di foto di italo-americani
che ce l’hanno fatta: Sinatra, Di Maggio, De Niro, Pacino. Dietro il registratore
di cassa c’è un dipinto di Papa Giovanni Paolo II.
Buggin’ Out attacca Sal con accuse di razzismo ed avanza pretese per
qualche fotografia di afroamericani, un Michael Jordan ad esempio. Sal lo
caccia, rivendicando di appendere ciò che più ama all’interno del proprio
regno, così lui trama vendetta tempestando gli altri ragazzi del quartiere
di inviti a non comprare più al locale. Tutti vanno pazzi per la pizza di Sal,
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nessuno ha voglia di cambiare le proprie abitudini e nemmeno la gente
vede qualcosa di strano nelle scelte dell’italiano. Ma il boicottaggio di Buggin’
Out porterà involontariamente ad un’evoluzione tragica.
“PERCHÉ NON CI SONO FRATELLI SUL MURO?”
“È CASA MIA, E QUANDO TROVERAI CASA TUA, POTRAI METTERE
CHI VUOI SULLA TUA PARETE”
“NON CI SONO MOLTI ITALO-AMERICANI CHE COMPRANO LA PIZZA
NEL LOCALE DI SAL, QUINDI FORSE IL MURO DELLA FAMA DOVREBBE
INCLUDERE ALCUNI NERI”.
RADIO RAHEEM, afroamericano
La voce di Chuck D, in Fight the Power, ci arriva dal boom box di Radio Raheem,
un ragazzone dal taglio di capelli flat top con una t-shirt che recita
“BED-STUY DO OR DIE”.
Gira tutto il giorno senza sosta, silenzioso, solido, sudando con lo stereo
“ghetto blaster” sulle spalle e pompando a volume esagerato sempre lo
stesso pezzo, quello dei titoli di testa.
È silenzioso, concentrato, adorabile nel suo amore per la musica.
Il discorso più lungo lo fa durante uno dei tanti incroci con Mookie per mostrargli
il suo nuovo anello di ottone“amore-odio” a 4 dita, sintesi perfetta
del non-messaggio del film.
Radio Raheem è un simbolo ma anche uno stereotipo, una bandiera, un
eroe senza vittoria, un portavoce silenzioso eppure rumorosissimo, e infine
una vittima.
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MISTER SEÑOR LOVE DADDY, afroamericano
Il disc-jockey della stazione radio locale, Radio We Love, colui che sveglia gli
abitanti del quartiere con tono squillante e, con tono suadente, li accompagna
verso il tramonto. Il felino Samuel L. Jackson, che a un certo punto
della giornata elenca 74 artisti neri e li ringrazia.
La prima parola pronunciata in Fa’ la cosa giusta è “Wake Up”, e la dice lui: è
anche quella con la quale finiva il precedente film di Lee, Aule turbolente.
“WAAAAKE UP! WAKE UP! WAKE UP! WAKE UP!
UP YA WAKE! UP YA WAKE! UP YA WAKE!”
SMILEY, afroamericano
Balbuziente, naif, gira senza sosta tentando di vendere a tutti delle immagini,
ricamate di scarabocchi, di Martin Luther King e di Malcolm X (pilastri,
spiriti-guida del film e autori delle citazioni che ci fanno riflettere all’inizio
dei titoli di coda)
La corona che Smiley ha disegnato sulla testa di King assomiglia molto alle
corone usate da Jean-Michel Basquiat nei suoi dipinti quando onorava gli
eroi neri del passato. Anche Basquiat fu scioccato dall’uccisione di Stewart,
e gli dedicò un dipinto, Defacement (The Death of Michael Stewart)
I tre perdigiorno afroamericani seduti sul marciapiede a tirar sera e a lamentarsi:
ML, COCONUT SIDE SWEET DICK WILLIE.
Non hanno voglia di far nulla ma non risparmiano nessuno con le loro critiche
strafottenti. In primo luogo se stessi.
I coreani
SONNY, KIM E IL LORO BAMBINO, possiedono il negozio di alimentari che
si trova dall’altra parte di Stuyvesant Avenue rispetto a Sal. Stanno per i
fatti loro, sospettosi, di poche parole, e battibeccano tra loro quando si trovano
da soli.
CLIFTON, bianco
Il ciclista “gentrificato” dalla verde maglia dei Boston Celtics che calpesta accidentalmente
l’immacolata Jordan di Buggin’ Out, suscitando stupore e ira.
Gli agenti bianchi
MARK PONTE e GARY LONG
I ragazzi neri del quartiere: CLIFTON, AHMAD, CEE, PUNCHY, ELLA, EDDIE.
I portoricani: STEVIE E I SUI AMICI.
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La storia
La pellicola è immersa in un barile di aranciata, per raccontarci il sabato
più caldo della calda estate del 1989 a Bed-Stuym, simbolo delle periferie
multietniche di tutto il mondo, metafora dell’America. Il desiderio di Lee era
quello di girare una storia che trovasse inizio e conclusione nell’arco di
ventiquattro ore.
Italiani rancorosi con catene, crocifissi e medagliette al collo, canotte e
capelli imbarazzanti. Neri con Air Jordan da cento dollari scintillanti ai
piedi, anelli da 4 dita hate and love, polemici e con poca voglia di lavorare.
Tutto è una seccatura, un pretesto, una ripicca. Italiani che si lagnano dei
neri, neri arrabbiati con i coreani, coreani che disprezzano tutti, neri che
sfottono altri neri, sudamericani che danno dei falliti ai neri, neri che danno
dei tirchi ai bianchi, italiani che danno dei piantagrane agli afroamericani,
poliziotti bianchi che tengono d’occhio in silenzio i neri, neri che si
offendono, in un’eterna ruota di ore che sgocciolano apparentemente
uguali, ma in un crescendo di musica jazz che si srotola vellutata e sfarzosa
per i quartieri.
L’uomo delle granatine, il camioncino del gelato, i disegni dei bambini per
terra fatti con i gessetti, i ventilatori che girano lenti appesi alle finestre.
Muri di mattone che recitano “Tawana told the thrut” (la scritta fa riferimento
a un fatto reale: Tawana Brawley era un’adolescente nera che affermava
di essere stata rapita e abusata da diversi uomini bianchi, inclusi
agenti di polizia, e non venne creduta); recitano anche “DUMP KOCH”
(Lee ritiene il sindaco di New York Koch responsabile della morte di Eleanor
Bumpers).
Il famoso muro rosso ridipinto in occasione del film, punto in cui stazionano
sotto ad un buffo ombrellone i tre amici di mezza età, ha questa insegna:
“no pall playing allowed”. Divieti, abitudini, paletti: regole scritte e non scritte.
Un crescendo, una miccia, una scintilla.
Per tutto il film si trattiene il fiato perché si intuisce che la commedia possa
tramutarsi in tragedia, da un momento all’altro. E quando ne escono tutti
sconfitti, ed è notte, ci accorgiamo che quell’arancione che sembrava aranciata
fresca è il colore delle fiamme che bruciano tutto, che tutto rovinano,
il colore del sugo di pomodoro rovesciato sul pavimento, il rosso della camionetta
dei vigili del fuoco arrivati troppo tardi. È il rosso della camicia di
Smiley che sorride mentre appende la foto di Malcom X alle pareti a pezzi.
Finalmente. Ma inutilmente.
E proprio due citazioni, una di Martin Luther King ed una di Malcom X,
aprono la strada alla riflessione privata - ma non solo - che scaturisce inevitabilmente
dopo una visione di questo tipo, la prima, più pacifista, ribadisce
quanto la violenza sia un sistema impraticabile, la seconda, più conflit-
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ORIGINAL MOTION PICTURE
SOUNDTRACK
Fight the Power (Public Enemy)
Don’t Shoot Me (Take 6)
Can’t Stand It (Steel Pulse)
Tu y Yo (Rubén Blades)
Why Don’t We Try (Keith John)
Hard to Say (Lori Pelly e Gerald
Alston)
Party Hearty (EU)
Prove to Me (Perri)
Feel So Good (Perri)
My Fantasy (Teddy Riley)
Never Explain Love (Al Jarreau)
WE LOVE Radio Jingles (Take 6)
Lift Every Voice and Sing (James
Weldon Johnson e Rosamond
Johnson)
BILL LEE FEAT. BRANFORD
MARSALIS – ORIGINAL SCORE
Mookie Goes Home
We Love Roll Call Y-All
Father To Son
Da Mayor Drinks His Beer
Delivery For Love Daddy
Riot
Magic, Eddie, Prince Ain´t Niggers
Mookie (Septet)
How Long ?
Mookie (Orchestra)
Da Mayor Loves Mother Sister
Da Mayor Buys Roses
Tawana
Malcolm And Martin
Wake Up Finale
Bass – Robert Hurst
Drums – Jeff “Tain” Watts
Engineer – James Nichols
Mastered By – Vlado Meller
Orchestra – The Natural Spiritual
Orchestra
Piano – James Williams, Kenny Barron
Producer, Mixed By, Composed By,
Conductor – Bill Lee
Recorded By, Engineer – Patrick
Smith
Saxophone [Alto] – Donald Harrison
Saxophone [Tenor], Saxophone
[Soprano] – Branford Marsalis
Trumpet – Marlon Jordan, Terence
Blanchard
A Spike Lee Joint
Recorded December 12-16, 1988,
Mixed July 17-19, 1989
at RCA Studios, NY
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tuale, che invoca il diritto all’autodifesa nel momento in cui ci si trovi
costretti. Due posizioni nette, chiare, su cui meditare e su cui ha meditato
il regista: a noi la sensibilità di capire per quale strada Lee propenda.
Alla fine compare la famosa foto che divenne poi un simbolo: Luther King
e Malcom X che sorridenti guardano oltre l’obiettivo.
C’È VOLUTO UN PO’ DI TEMPO PERCHÉ FA’ LA COSA
GIUSTA GUADAGNASSE IL PIENO RISPETTO
DELL’INDUSTRIA. E QUESTO NON VUOL DIRE CHE
L’INDUSTRIA SIA CRUDELE O RAZZISTA, NEMMENO CHE
NON SAPPIA RICONOSCERE UN CAPOLAVORO. FORSE
VUOL DIRE CHE PER ACCETTARE LE COSE COME SONO
BISOGNA DARE TEMPO AL TEMPO, E ALLA VISTA DELLE
PERSONE TUTTO IL TEMPO DI CUI HA BISOGNO PER
ABITUARSI ALL’OSCURITÀ.
Giulio D’Antona, Linkiesta
Quell’anno il film partecipò a Cannes ma non vinse nulla, e questo scatenò
molte polemiche considerando anche l’enorme successo di critica avuto in
Europa, di fatto nettamente superiore a quello ottenuto in America. Fu comunque
candidato a due premi Oscar, per la migliore sceneggiatura originale
e per il miglior attore non protagonista, Danny Aiello.
La colonna sonora
Le atmosfere create dalle musiche scelte sono parte integrante del film:
allegre, giocose, incalzanti, sexy, e poi concitate, esasperate, e poi ancora
cupe e lente.
Ogni pezzo cade in un punto preciso e sta lì a raffigurare un preciso stato
d’animo. Il sampling di personaggi non sarebbe così efficace senza questa
struttura sonora, che mischia il rap all’orchestra al pop più trascinante, al
sexy soul.
Le colonne sonore sono due, per la precisione, una contenente la miscellanea
di cui sopra, ed una prodotta da Bill Lee, il padre di Spike, della The
Natural Spiritual Orchestra, famosa per avere Branford Marsalis al saxofono.
Le sfumature del sax di Marsalis accompagnano il mutare della luce sui
volti e sugli edifici del quartiere, via via che la giornata scorre, si srotolano
sui gradini d’ingresso delle brownstone; I pezzi mandati in onda
dalla radio di Love Daddy sono energia pura pronta ad esplodere, e a
far esplodere.
La canzone Fight the Power dei Public Enemy divenne un successo mondiale,
ancora oggi trasversale nelle generazioni. Il pezzo torna e ritorna
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a enfatizzare le scene del film con la stessa dinamica incarnata nell’antichità
dal coro greco, e con la sua critica al capitalismo statunitense e al
flop dell’integrazione razziale.
Epilogo
Nessun personaggio è innocente, in questa storia. Ogni angolo del quartiere
ne è testimone. I muri e l’asfalto sono intrisi di intolleranza, ignoranza,
ostilità.
Spike Lee non predica, non insegna: espone, analizza, racconta, provoca.
Con le sue inquadrature disorientanti, i primissimi piani, i colori vibranti, la
musica protagonista sontuosa, gli oltre 200 “fuck” recitati, le scale antincendio,
gli alberi che non fanno ombra, il profumo bruciacchiato delle pizze,
il sudore che scorre nelle t-shirt fluo, Lee monta il racconto sulle contraddizioni,
sui contrasti forti, interpreta la città con amore e rabbia, vive a
fondo queste emozioni per trasformarle in una lucida analisi. Ci dice che è
necessario “fare qualcosa”, ci mostra le possibili strade e ci narra causa ed
effetto. A chi gli chiede cosa voglia dire “fare la cosa giusta”, Lee risponde
che è una domanda che di solito gli fanno solo i bianchi.
LA VIOLENZA COME MEZZO PER RAGGIUNGERE
LA GIUSTIZIA RAZZIALE È INSIEME UN SISTEMA
IMPRATICABILE E IMMORALE.
Martin Luther King
IO NON INVOCO LA VIOLENZA, MA ALLO STESSO
TEMPO NON SONO CONTRO IL FATTO
DI USARE LA VIOLENZA PER DIFENDERE SE
STESSI. IO NON LA CHIAMO VIOLENZA.
SE SI TRATTA DI AUTODIFESA LA CHIAMO
INTELLIGENZA.
Malcolm X
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… Affanculo io? Vacci tu! Tu e tutta questa merda di città e di chi
ci abita.
In culo ai mendicanti che mi chiedono soldi, e che mi ridono alle
spalle.
In culo ai lavavetri, che mi sporcano il vetro pulito della macchina.
In culo ai sikh e ai pakistani, che vanno per le strade a palla con i
loro taxi decrepiti. Puzzano di curry da tutti i pori, mi mandano in
paranoia le narici. Aspiranti terroristi. E rallentate,cazzo!
In culo ai ragazzi di Chelsea, con il torace depilato e i bicipiti pompati,
che se lo succhiano a vicenda nei miei parchi… e te lo sbattono
in faccia sul Gay Channel.
In culo ai bottegai coreani, con le loro piramidi di frutta troppo
cara, con i loro fiori avvolti nella plastica. Sono qui da dieci anni e
non sanno ancora mettere due parole insieme.
In culo ai russi di Brighton Beach. Mafiosi e violenti, seduti nei bar
a sorseggiare il loro tè con una zolletta di zucchero tra i denti.
Rubano, imbrogliano e cospirano. Tornatevene da dove cazzo siete
venuti!
In culo agli ebrei ortodossi, che vanno su e giù per la 47ma nei
loro soprabiti imbiancati di forfora, a vendere diamanti del Sudafrica
dell’apartheid.
In culo agli agenti di borsa di Wall Street, che pensano di essere
i padroni dell’universo. Quei figli di puttana si sentono come Michael
Douglas-Gordon Gekko e pensano a nuovi modi per derubare
la povera gente che lavora.
Sbattete dentro quegli stronzi della Enron a marcire per tutta la
vita. E Bush e Cheney non sapevano niente di quel casino? Ma
fatemi il cazzo di piacere!
In culo alla Tyco, alla ImClone, all’Adelphia, alla WordsCom!
In culo ai portoricani, venti in una macchina e fanno crescere le
spese dell’assistenza sociale. E non fatemi parlare di quei pipponi
dei dominicani: al loro confronto i portoricani sono proprio dei
fenomeni.
In culo agli italiani di Bensonhurst, con i loro capelli impomatati,
le loro tute di nylon, le loro medagliette di Sant’Antonio… che agitano
la loro mazza da baseball firmata Jason Giambi sperando
in un’audizione per I Soprano.
In culo alle signore dell’Upper East Side, con i loro foulard di Hermès
e i loro carciofi di Balducci da 50 dollari, con le loro facce
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pompate di silicone, truccate, laccate e liftate. Non riuscite a ingannare
nessuno, vecchie befane!
In culo ai negri di Harlem. Non passano mai la palla, non vogliono
giocare in difesa, fanno cinque passi per arrivare sotto canestro,
poi si girano e danno la colpa al razzismo dei bianchi. La schiavitù
è finita centotrentasette anni fa! E muovete le chiappe, è ora…
In culo ai poliziotti corrotti che impalano i poveri cristi e li crivellano
con quarantuno proiettili, nascosti dietro il loro muro di
omertà. Avete tradito la nostra fiducia!
In culo al preti che mettono le mani nei pantaloni di bambini innocenti.
In culo alla Chiesa che li protegge, non liberandoci dal
Male. E dato che ci siamo, ci metto anche Gesù Cristo: se l’è cavata
con poco. Un giorno sulla croce, un week-end all’Inferno, e poi
gli alleluja degli angeli per tutto il resto dell’Eternità. Provi a passare
sette anni nel carcere di Otisville.
In culo a Osama Bin Laden, a Al Qaeda e a quei cavernicoli retrogradi
dei fondamentalisti di tutto il mondo. In nome delle migliaia
di innocenti assassinati, vi auguro di passare il resto dell’eternità
con le vostre 72 puttane ad arrostire a fuoco lento all’Inferno.
Stronzi cammellieri con l’asciugamano in testa, baciate le mie
nobili palle irlandesi!
In culo a Jacob Elinksy, lamentoso e scontento. In culo a Francis
Slaughtery, il mio migliore amico, che mi giudica con gli occhi incollati
sulle chiappe della mia ragazza. In culo a Naturelle Riviera: le ho
dato la mia fiducia e mi ha pugnalato alla schiena, mi ha venduto
alla polizia, maledetta puttana. In culo a mio padre, con il suo insanabile
dolore, che beve acqua minerale dietro il banco del suo bar,
vendendo whisky ai pompieri e inneggiando ai “Bronx Bombers”.
In culo a questa città e a chi ci abita. Dalle casette a schiera di
Astoria agli attici di Park Avenue, dalle case popolari del Bronx ai
loft di SoHo, dai palazzoni di Alphabet City alle case di pietra di
Park Row e a quelle a due piani di Staten Island. Che un terremoto
la faccia crollare, che gli incendi la distruggano, che bruci fino
a diventare cenere e che le acque si sollevino e sommergano
questa fogna infestata dai topi.
No…
No: in culo a te, Montgomery Brogan. Avevi tutto e l’hai buttato
via, brutto testa di cazzo!
LA 25 a ORA, SPIKE LEE, 2002, MONOLOGO DI MONTY BROGAN
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Carrara. Piazza Alberica
Foto di Marcello Francone
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PRETEND IT’S A CITY
È del 2021 il (secondo) documentario di Martin Scorsese
su Fran Lebowitz, e va a costituire un nuovo capitolo
della sua saga sulla città di New York.
Scrittrice pigra, umorista, intellettuale, icona di stile,
opinionista, festaiola lei; regista di fama internazionale lui.
Amici da sempre, innamorati persi della loro città, della
quale rappresentano entrambi un simbolo. Per i quali la città
stessa è un simbolo malinconico degli anni d’oro, divenuta
lo stereotipo di se stessa, anche e soprattutto per colpa
dei social, che Fran non frequenta affatto, non possedendo
nemmeno un cellulare. “Penso che la realtà, la vita vera,
al di fuori della vita sul web, sia imperativa. Penso che la
cultura derivi direttamente dal fatto che le persone stiano
assieme, si frequentino, bevano in compagnia, facciano
sesso, si bacino, si confrontino sui rispettivi lavori, parlino.”
Una docuserie prodotta da Netflix, dedicata a Toni Morrison,
suddivisa in sette puntate di conversazioni sul senso
dell’identità newyorchese, girate a un tavolino del
Players Club di New York, con loro due come protagonisti
insieme ad amici e colleghi.
Lebowitz si è trasferita qui a 18 anni dal New Jersey dopo
l’espulsione dal liceo; ha svolto una moltitudine di lavori
assurdi pur volendo sempre e solo leggere come prima
cosa, scrivere per seconda. Percorre la città in lungo
e in largo da decenni, a piedi o al massimo in taxi,
e attualmente fatica a trovare un posto dove fumare
in santa pace senza divieti; è perennemente alla ricerca
di una casa che sia grande a sufficienza per contenere
tutti i suoi libri, senza potersela mai davvero permettere.
NY è stata il suo vero grande amore.
“Le persone mi chiedono spesso perché sono qui.
Eh, insomma. Dov’è che mi suggerite di andare?
Vedete, il fatto è questo: se potessi solo prendere
in considerazione altri posti, sarei già lì.” PRP
49/FOTOGRAMMI/ripostigli
Reggio Emilia. Chiostri di San Pietro
Foto di Marcello Francone
50/FOTOGRAMMI/ripostigli
MANHATTAN
Il bianco e nero. La vista sul Chrysler Building.
L’insegna lampeggiante di un parcheggio
a Manhattan.
Uno scrittore cerca l’incipit del suo libro e Gershwin
abbraccia bellissime immagini della città fino
al trionfo di fuochi d’artificio sullo skyline. Poi inizia
il racconto.
Conversazioni sofisticate e un continuo blaterare
per musei e librerie. Ex mogli, ex mariti, amanti,
analisti. Attori che sono e saranno eccezionali.
Nessuno ama New York più di Woody Allen,
con la stessa poesia retró, con la stessa loquace,
elucubrante ironia. Ricevimenti al Met, prime
al cinema, appartamenti, macchine da scrivere,
un lento ballato in penombra, i taxi nel traffico, una
panchina affacciata sul ponte di Brooklyn all’alba.
“Ragazzi! Questa è davvero una grande città!
Non m’importa di quello che dicono gli altri.
È proprio, è veramente un knock out.” MS
51/FOTOGRAMMI/ripostigli
GABRIELE
BASILICO
LA FORMA
DELLA CITTÀ
Foto della foto.
Gennaio 2016, mostra Ascolto il tuo cuore città
dedicata a Gabriele Basilico,
Unicredit Pavillion, piazza Gae Aulenti, Milano
52/OMBRE
NICOLA GUIDA
Fino alla fine del 1700, se a Milano dovevi raggiungere una destinazione
qualunque, nessuno ti avrebbe fornito un indirizzo. Molto probabilmente ti
avrebbero detto di prendere la strada a destra, poi arrivato in fronte al
castello, o a quella certa chiesa, di girare a sinistra, e di camminare fino alla
casa più grande, quella con la facciata rossa, la tua destinazione.
Non c’erano indirizzi a Milano, solo punti di riferimento.
Quantomeno fino al 1786, quando gli austriaci, abbastanza stufi di questa
situazione, decisero di battezzare le strade della città, dando questo incarico
a un nobile milanese, a cui diedero il titolo di “giudice delle strade”: il
marchese cominciò il suo lavoro dalla contrada dei Baggi, localizzata intorno
al castello, e, come primo nome da dare a una strada, scelse il proprio:
via Ferdinando Cusani.
Oggi via Cusani è una strada elegante del centro che collega il castello alla
zona di Brera e nella quale possiamo riconoscere sia i fasti di un passato
signorile, nei palazzi collocati sul lato verso il centro, sia le cicatrici lasciate
dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, sull’altro lato: nell’entusiasmo
della ricostruzione fu abbattuto tutto il vecchio: tutte le case piccole,
povere, le case popolari di corte devastate dalle bombe scaricate a
centinaia sulla città furono sostituite dagli edifici costruiti negli anni ’50
sotto il mantra di “modernità, progresso e comfort”.
È possibile trovare un’immagine di com’era quella via nel novecento: palazzi
bassi, di tre piani al massimo, con le botteghe fronte strada e le tende
tirate a proteggere le merci esposte in vetrina dal sole; in fondo, dove ora
c’è un giardinetto spelacchiato e un enorme manifesto pubblicitario che è
diventato iconico, un anonimo palazzo, con le veneziane serrate e una rosticceria
sotto.
Visualizzatela così, mentre una delle ultime bombe, annunciata dal ronzio
dei motori del Pippo, l’aereo da ricognizione che come un messaggero di
morte precedeva i bombardieri, precipitava sulla città, nell’Agosto del 1943,
cambiando completamente la sua fisionomia, sventrando le case affacciate
sulla strada.
53/OMBRE
Prima della ricostruzione, le macerie della facciata del numero 10 erano
state ricomposte ordinatamente a mucchi a bordo strada, in attesa venissero
portate via per costruire quello che sarebbe diventato il Monte Stella.
Il centro di Milano era all’epoca la zona più povera e degradata della città,
e quelle macerie, su cui intanto erano cresciute le erbacce, era l’unico parco
giochi disponibile per i bambini della zona, tra loro, uno, che abitava
proprio nel cortile interno di quella casa sventrata, sarebbe diventato un
artista capace di raccontare le città attraverso la rarissima capacità di
saper cogliere i dettagli della continua trasformazione del paesaggio, diventando
il primo fotografo di spazi architettonici, una figura che, fino a quel
momento, non esisteva: Gabriele Basilico.
Anni dopo, raccontando di quelle macerie, ricordò come per lui fossero un
simbolo di rinascita, di evoluzione: “sento che da queste rovine nascerà una
città più bella, più forte, più ricca”.
In un salto temporale di vent’anni, il bambino che giocava tra le rovine di
casa è cresciuto, e la sua passione per il disegno l’ha portato, in un percorso
quasi naturale, dal liceo artistico ad iscriversi alla facoltà di architettura.
Era il 1968, quelli erano gli anni dell’“immaginazione al potere”, dell’impegno
politico e della contestazione nelle piazze, e di quella rivoluzione culturale
che stava portando come un vento fresco tra le masse studentesche l’idea
che un mondo nuovo era possibile, in completa rottura con il precedente.
Basilico si avvicina ai collettivi studenteschi e mette da parte le matite per
dedicarsi, quasi per gioco, alla fotografia, con cui inizia a documentare manifestazioni
e proteste.
Frequentando poi l’unica galleria di Milano di quegli anni, conosce due fotografi
che saranno per lui fondamentali nella sua crescita fotografica: Cesare
Colombo e Gianni Berengo Gardin, con il quale creò un legame di
amicizia fortissimo e lo ispirò moltissimo, all’inizio del suo percorso fotografico,
nell’impegno sociale.
Un altro incontro importante di quegli anni fu quello con Ghirri, che stava
lavorando al suo libro leggendario “viaggio in Italia” e Gabriele Basilico
iniziò ad accarezzare l’idea di occuparsi seriamente di fotografia, trasformandola
da una passione in un lavoro vero.
Nel 1973 Basilico si iscrisse alla camera di commercio di Milano come fotografo,
ma finì per abbandonare ben presto il reportage, per il quale non si
sentiva poi tanto portato: distogliendo il suo sguardo da eventi e persone,
concentrò la sua attenzione sullo spazio. Probabilmente, per questa scelta,
fu fondamentale un viaggio a Glasgow nel 1969, momento che considerò in
seguito uno spartiacque per il suo modo di intendere la fotografia: a parte
il fatto che giudicasse gli scatti di Glasgow i primi con un vero valore, già da
quelle immagini si può percepire il suo allontanarsi dal centro delle città
54/OMBRE
per andare a immortalare le aree produttive urbane, i cui edifici anonimi e
deprimenti, celano invece una vita ed energia inaspettati.
Nella primavera del 1978, Basilico fu contattato per un veloce lavoro da
parte dell’Istituto Nazionale di Urbanistica: doveva documentare la sua città.
La Milano del 1978 era una città operaia e durante quei giorni, con le
fabbriche chiuse, le strade erano semideserte, spazzate da un vento fresco
che aveva ripulito l’orizzonte – come quando sembra di poter toccare le
montagne lontane – e donato una luce particolare, tagliente, che rendeva
tutto più nitido.
Cartina alla mano, il fotografo camminava per la città con la sua Nikon
35mm montata sul cavalletto e tre obiettivi in borsa (per i curiosi: un 20mm,
un 28mm decentrabile e un 55mm); arrivato in zona 14, tra via Ripamonti
e viale Ortles, in un’area dominata da fabbricati industriali, sarà che era il
week end di Pasqua, ma ebbe letteralmente un’epifania: per la prima volta,
sotto quella luce così rara a Milano, nelle strade senza rumore, né auto né
pedoni, vedeva la città in modo diverso, le facciate delle fabbriche si stagliavano
nitide, contro quel cielo così blu che sembrava isolare le costruzioni
l’una dall’altra, rendendole quasi monumentali.
Basilico scattò in modo febbrile, e, quando stampò le immagini, si rese conto
che, dalla carta, esse riuscivano a riportarlo ai luoghi dello scatto, alle stesse
emozioni, e fu finalmente certo che quella era la via da intraprendere.
Quegli scatti iniziali diventarono il corpus di un lavoro, Milano ritratti di
fabbriche, che lo tenne impegnato per almeno tre anni: da quella primavera
del 1978 a tutto il 1980, quando il sole splendeva alto e il cielo era pulito,
Basilico usciva, mappa alla mano, e andava a fotografare Milano e le sue
fabbriche.
Un lavoro mai veramente ultimato che raccontava il volto di una città in
vorticosa trasformazione, dove gli edifici si succedono l’uno all’altro o rimangono
lì per anni, a raccontare con le loro mura la storia di una Milano
operaia che iniziava a svanire.
“Mi ero dato una specie di missione”, racconta Basilico, “testimoniare come
lo spazio urbano si modifica. Oggi lo fanno in tanti, negli ultimi dieci anni è
stato considerato il lavoro più artistico che ci sia, e non c’è città al mondo
che non venga fotografata”.
E non è solo il primo grande lavoro, per Basilico, ma anche un’esperienza
che lo porterà, in quei tre anni, a chiarire gli aspetti emozionali della propria
fotografia, definendo il suo stile, in cui la luce riveste importanza primaria
per rivelare le architetture e dar loro nuovo, metafisico, significato.
Il lavoro monumentale di Milano ritratti di fabbriche era riuscito, strappando
le facciate degli edifici dal contesto, a raccontare Milano come nessuno
aveva fatto fino a quel momento: a differenza di altre città industriali, come
55/OMBRE
ad esempio Torino che si identificava totalmente con la FIAT, il paesaggio
milanese era alternato da industrie e abitazioni, e l’unico modo di vedere
la faccia operosa di Milano era di decontestualizzare le fabbriche, metterle
tutte insieme e creare una nuova morfologia, quasi un’altra città, agli occhi
dello spettatore.
Le persone, che pure fanno parte della città, erano completamente assenti
da questo lavoro. Basilico non fotografò mai più persone, se non per caso.
“La fotografia d’architettura, nella grande tradizione, è sempre senza persone,
non ci sono presenze umane perché distraggono dalla forma degli
edifici e dello spazio”, racconta Basilico.
“TENDO AD ASPETTARE CHE NON CI SIA NESSUNO,
PERCHÈ LA PRESENZA DI UNA SOLA PERSONA ENFATIZZA
IL VUOTO E FA DIVENTARE UN LUOGO ANCORA PIÙ VUOTO.
MENTRE SE LO FAI VUOTO E BASTA, ALLORA DIVENTA
SPAZIO METAFISICO, ALLA SIRONI O ALLA HOPPER”.
Milano ritratti di fabbriche divenne una mostra di grande successo, e il lavoro
di Basilico venne notato da Jean Fracois Chevrier, storico e critico
francese, al tempo consulente della Mission Photographique de la Datar
(Délégation à l’Aménagement du Territoire et à l’Action Régionale), un
grandissimo progetto del governo francese per analizzare il paesaggio in
tutte le sue componenti: le trasformazioni e quello che invece non si trasformava,
ma permaneva a dispetto del tempo che scorreva e cambiava
la forma del panorama. Non era uno strumento di documentazione sociologica,
bensì qualcosa che potesse permettere la visione e la conoscenza
di ogni area del paese toccata dal progetto.
Chevrier, che in quel periodo stava selezionando i dodici fotografi che
avrebbero dovuto realizzare questo lavoro immenso, lo invitò a partecipare.
Inizialmente Basilico non aveva ben chiaro quanto fosse importante
quella proposta ma, dopo un breve viaggio a Parigi, si rese conto di cosa
c’era in gioco, e della difficoltà di dover lavorare per sei mesi in Francia,
perdendo il lavoro in Italia che cominciava ad ingranare.
Ma accettare quella proposta sarebbe stata un’occasione unica di ampliare
i propri orizzonti, professionali e non, sarebbe stato per lui sentirsi un
po’ come uno dei suoi miti, Waker Evans alle prese con la ricerca fotografica
per la FSA, ed è questo che, in fin dei conti fu il progetto della Datar, una
sorta di FSA all’europea, che produsse forse persino più immagini.
Basilico colse l’occasione e iniziò a preparare una proposta per i responsabili
della Datar che – elettrizzato da una precedente esperienza fotografica
a Napoli – fu, senza esitazioni o ripensamenti, il mare: l’idea era quella di
56/OMBRE
fotografare le coste francesi, il “Bord de Mer” e, senza nemmeno indicare ai
suoi committenti una metodologia operativa che non riusciva a mettere su
carta, allegando solo un itinerario, spedì la sua lettera di presentazione.
E fu l’unico fotografo italiano ad essere selezionato.
In sei mesi, l’idea di Basilico era quella di percorrere e fotografare tutte le
coste della Francia, ma si rese conto quasi subito della megalomania di quel
proposito.
Cercando di ripartire il lavoro per la Datar in vari viaggi, per non abbandonare
completamente gli impegni in Italia, partendo dalla costa francese a
confine con il Belgio, dalla città di Dunkerque, iniziò a spostarsi lungo la
costa armato di una macchina fotografica 24x36.
Dopo circa 3 mesi, e duecento rullini scattati, Basilico era arrivato solo al
confine regionale tra Normandia e Bretagna.
Era un segnale, quello, di aver raggiunto l’orizzonte del suo viaggio, a meno
di 400 km dalla partenza.
Di tutti i luoghi visti, stilò un elenco, una gerarchia, dai più emozionanti a
quelli che l’avevano colpito meno: ce n’erano alcuni in cui sarebbe tornato
immediatamente, altri che avrebbe visitato con più calma.
Armato di una Linhof 10x12, iniziò il suo viaggio romantico: prese a trasformare
in immagini i sentimenti, le riflessioni, i ricordi dei precedenti viaggi
sedimentati nella memoria.
57/OMBRE
La Linhof è una macchina folding lenta, a pellicole piane, che richiede un
cavalletto e un sacco di tempo per scattare: devi fermarti, aprirla, infilare
la testa sotto al panno nero per preparare l’inquadratura, chiudere l’otturatore,
infilare il telaio con la pellicola preparata, scattare. Per poi estrarre
il telaio con la pellicola impressa e ricominciare da capo.
Lavorare con una macchina di questo tipo vuol dire solo una cosa: fare meno
scatti, ma con il vantaggio di dover osservare più a lungo ciò che si vuole
fotografare, prendere meglio le misure e instaurare una relazione maggiore
con il soggetto che appare al contrario, sullo specchio smerigliato.
“HO LAVORATO CON IL BANCO OTTICO,
E QUESTO HA RALLENTATO I RITMI:
MUOVERSI, GUARDARE, SCEGLIERE,
DECIDERE DOVE SCATTARE LA
FOTOGRAFIA, MONTARE LA MACCHINA
SUL CAVALLETTO, E MAGARI DECIDERE
DI NON SCATTARE. CONTEMPLARE,
NELLA MIA ACCEZIONE, HA IL SIGNIFICATO
DI METABOLIZZARE IL PAESAGGIO,
DI FARLO DIVENTARE QUALCOSA CHE
VIVE DENTRO DI TE. L’IMMAGINE È UNA
COSTRUZIONE, UN FILTRO CHE SI VIENE
A PORRE FRA CHI GUARDA E LA REALTÀ
CHE STA DAVANTI. […] SIAMO SEMPRE
IN DUE A RACCONTARE UNA STORIA:
IL SOGGETTO, CHE NEL MIO CASO
È IL LUOGO, E IL FOTOGRAFO,
CHE FA LA FOTO.”
Il “Bord de mer” visto con gli occhi di Basilico è un susseguirsi di spazi vuoti,
lontani e spesso abbandonati, e
si percepisce che la vera protagonista
delle sue immagini è la linea,
infinita, dell’orizzonte.
Questa esperienza per la Datar
costituì una pietra miliare nella
sua formazione di fotografo, gli
permise di definire un metodo di
procedere, di analizzare i soggetti
dei suoi progetti e di affermare
uno stile unico, scandito dal ritmo
lento imposto dall’uso del banco
ottico.
Nel 1989, l’Antifaschistischer
Schutzwall, la Barriera Antifascista,
così come la chiamava chi la
eresse, per noi semplicemente il
muro di Berlino, come una Bastiglia
dei tempi moderni, senza ruspe
né picconi cade, e con esso
l’ideologia che aveva diviso l’Europa in due per quarant’anni.
Il filo spinato arrugginito, i cavalletti di Frisia e le torrette di cemento armato
dalle quali la Volkspolizei sparava su chi aveva l’ardire di correre
lungo la cosiddetta “striscia della morte”, lo spazio tra le due strutture che
componevano la linea di confine tra le due Germanie, le sue macerie erano
ancora lì nel 1990, quando Gabriele Basilico, invitato dalla DAAD (programma
per artisti in residenza a Berlino), visitò Berlino per documentare
le conseguenze della caduta del muro: i viali deserti della zona Est, i
palazzi in stile sovietico, ancora intatti e decadenti, erano perfetti per il suo
sguardo.
58/OMBRE
Subito dopo quest’esperienza, nel 1991, grazie alla visibilità che gli aveva
dato il superlativo lavoro svolto per la Datar, Basilico venne contattato dalla
fondazione appartenente a Rafik Hariri, il primo ministro libanese: gli si
chiedeva di partecipare a un grandissimo progetto collettivo della durata
di tre mesi assieme ad altri cinque fotografi: Josef Koudelka, René Burri,
Raymond Depardon, Robert Frank e Fouad Elkoury: Basilico era il sesto, e
si sentì un privilegiato a far parte di quel gruppo. Lo scopo del progetto era
documentare la città di Beirut dopo quindici anni di guerra civile, imprimerne
per sempre nella memoria le cicatrici, le ferite inflitte dalla guerra alla
città prima di una ricostruzione che avrebbe cancellato tutto dal territorio,
e dalla memoria degli abitanti.
L’agenzia Magnum fece carte false perché al progetto partecipassero solo
i suoi fotografi ma l’organizzatrice, la scrittrice libanese Dominique Eddè,
non volle sentir ragioni e compose il gruppo basandosi piuttosto sui consigli
di storici dell’arte e amici artisti, che proposero Frank, Elkouru e Basilico.
Nell’autunno del 1991 Basilico atterrò a Beirut e ci restò per due settimane,
cogliendo la desolazione dei palazzi crivellati dai proiettili con l’unica luce
disponibile, quella ambientale: i lampioni non esistevano quasi più, e gli
edifici erano fantasmi da cui gli abitanti sembravano essersene appena
andati.
All’inizio del progetto della Datar, Basilico non era ancora pronto ad organizzare
un lavoro di tale portata, a Beirut arrivò con la conoscenza e lo
sguardo che aveva maturato nelle sue esperienze precedenti, ciò nonostante
era a disagio, spaventato dalle strade abbandonate, e con l’intimo
timore di non riuscire a cavar nulla da quel paesaggio così pieno di ferite.
Basilico era l’unico fotografo del gruppo a muoversi per le rovine con un
cavalletto, guardando attraverso la lente della sua macchina 6x9, cercava
disperatamente di trovare dei punti di rifermento per creare il suo progetto,
ma non ci riusciva.
Un amico di Dominique Eddè, Selim, si accorse un giorno del suo disagio,
lo prese per mano e gli disse: “SALIAMO IN ALTO.”
Sul tetto dell’Hotel Hilton, un palazzo di sedici piani ridotto in macerie, che
scalarono lentamente un piano dopo l’altro, stando attenti a dove mettevano
i piedi per non precipitare, Basilico guardò giù in compagnia della sua
guida.
“Cosa vedi?” gli chiese Selim.
“Vedo una città distrutta.”
“Guarda bene.”
Sotto i suoi piedi Basilico vedeva solo mattoni sbrecciati, muri di cemento
crollati, travi di ferro che si protendevano verso il cielo nuvoloso di novembre
come dita tese, quasi ad accusare un Dio cieco, sordo e muto che ave-
59/OMBRE
va permesso quello scempio, ma guardando più in là, verso l’orizzonte, vide
il fumo dei camini, qualche antenna della televisione... si accorse che la
città era ancora viva.
A differenza di Berlino e Colonia, devastate dai bombardamenti alleati del
1944 fino quasi alla loro cancellazione, città morte dopo la fine della guerra,
Beirut era ancora viva, era un città ferita, e lui aveva il dovere, e doveva
trovare il coraggio, di raccontarlo.
Dai quel tetto, Selim gli aveva fatto vedere la distruzione, ma anche la gente
che si ritrovava nelle piazze devastate con la voglia di continuare a vivere.
Sceso dal tetto, Basilico si mise in mezzo a una strada col suo cavalletto
aperto e iniziò a guardare Beirut non come una città morta ma col medesimo
sguardo che avrebbe dedicato a Milano o qualunque altra città fotografata
fino a quel momento, e si accorse finalmente di aver trovato quello
che cercava: se riusciva a mostrare la città, la città esisteva, non era annullata
dall’orrore della guerra.
Le immagini di Basilico scattate a Beirut non raccontano le macerie, non
raccontano i resti, con quell’approccio che parla degli edifici o quel che ne
rimane come di una serie di sculture, piuttosto, riescono a comunicare la
speranza della ricostruzione, la voglia di una città di rinascere, di avere un
futuro.
C’è una foto scattata da Basilico molto simile a un’altra scattata da Koudelka.
In quella estremamente drammatica del fotografo di Praga si vede
del fumo dietro a del filo spinato, sembra sia appena caduta una bomba.
Basilico inquadrò la medesima immagine dall’alto: stando più in alto, vede-
60/OMBRE
va lontano, e nel suo scatto si capisce che il fumo sale da una griglia dove
qualcuno sta cucinando: il punto di vista cambia il nostro modo di vedere
la realtà, e per quanto la fotografia si sforzi di essere documento e testimonianza,
è sempre una finzione, sempre arbitraria, mutuata da chi la scatta,
tanto che basta cambiare posizione per raccontare una storia diversa.
Per i successivi vent’anni Basilico scattò ovunque, continuò a documentare
le trasformazioni delle città raccontando attraverso di esse la storia: Shangai,
Istanbul, Rio de Janeiro, San Francisco, Oporto.
Tornò nuovamente a Beirut nel 2003, per mostrare la ricostruzione della
città, ripercorrendo i medesimi luoghi fotografati durante la sua prima
visita.
Non smise mai di fotografare fino alla sua morte, e nonostante tutte le città
ritratte durante i suoi molteplici viaggi, l’unica che restò una costante per
lui fu la sua amata Milano, dove tutto ebbe inizio ed ebbe fine nel febbraio
del 2013.
Della sua città scrisse:
“QUESTA CITTÀ MI APPARTIENE E IO APPARTENGO
A LEI, QUASI IO FOSSI UN FRAMMENTO FLUTTUANTE
DENTRO IL SUO IMMENSO CORPO.”
E la sua città oggi è ancora in trasformazione.
Da quei bombardamenti che cancellarono le case affacciate su via Cusani,
la sua evoluzione non si è mai arrestata, dagli inizi esitanti dei primi anni
2000 all’evidente metamorfosi prodotta dall’Expo del 2015, che ha portato
i grattacieli a crescere fino a toccare l’altezza della Madonnina, cambiando
il suo profilo in quello di una metropoli. Questo cambiamento, così radicale,
della città che amava, Gabriele Basilico non è riuscito a vederlo ma se
avesse potuto, l’avrebbe sicuramente fotografato, continuando quel lavoro
mai concluso di documentazione del volto della città iniziato con quella
passeggiata in un luminoso week end di Pasqua degli anni settanta.
61/OMBRE
#album
NICOLA GUIDA
Francoforte
62/OMBRE/album
HO VIAGGIATO NEL FREDDO
FACCIA A FACCIA CON LA MIA
OMBRA CHE SI GETTAVA
NEL BIANCO VELO DEL TEMPO
Francoforte
63/OMBRE/album
San Paolo
64/PAGINE
65/OMBRE/album
Milano
66/OMBRE/album
Francoforte
67/OMBRE/album
Milano
Istanbul. Il titolo dell'album cita la canzone dei Litfiba dedicata a questa città.
68/OMBRE/album
69/OMBRE/album
Belo Horizonte
70/OMBRE/album
Berlino
71/OMBRE/album
Berlino
72/OMBRE/album
Istanbul
73/OMBRE/album
San Paolo
Francoforte
74/PAGINE
75/PAGINE
76/OMBRE/album
Francoforte
77/OMBRE/album
Francoforte
78/OMBRE/album
Francoforte
79/OMBRE/album
Milano
80/OMBRE/album
Istanbul
81/OMBRE/album
Belo Horizonte
82/OMBRE/album
Istanbul
83/OMBRE/album
Francoforte
Milano
Francoforte
84/OMBRE/album
Milano
Francoforte
85/OMBRE/album
86/OMBRE/album
Belo Horizonte
87/OMBRE/album
Amsterdam
Berlino
88/OMBRE/album
89/OMBRE/album
San Paolo
Berlino
Belo Horizonte
Francoforte
Berlino
Amsterdam
91/PAGINE
SGUARDI
SULLA CITTÀ
PAROLE E IMMAGINI
ALESSANDRO PRANDONI
92/PAGINE
MILANO
Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio
villeggiatura. Mi riposo in Piazza
del Duomo. Invece
di stelle
ogni sera si accendono parole.
Nulla riposa della vita come
la vita.
(U. Saba, Milano, in Tre città,
da Parole, 1933-1934)
93/PAGINE
EDIMBURGO
BARCELLONA
94/PAGINE
TORINO
“E anche una casa che ciondolava fatiscentissima
(di dignitoso le case non hanno
che la fatiscenza) sull’angolo tra via
Andrea Doria e via Lagrange, acquistata
nel 1941 e poi demolita dalle Assicurazioni
Toro… Sulla via Lagrange si affacciava una
vetrina di salumeria da Ventre de Paris che
ancora, mentre la casa ormai disabitata,
sprangata, odorosa di cenere, stava attendendo
l’ultimo colpo, raggiava di luci
tremolanti di gelatine, e di candori di robiole
vestite e nude.”
(G. Ceronetti, Piccolo inferno torinese. Fogli dispersi
restaurati, Einaudi, Torino 2003, p. 66)
VENEZIA
“In questa città l’occhio acquista un’autonomia
simile a quella di una lacrima. L’unica
differenza è che non si stacca dal
corpo, ma lo subordina totalmente. Dopo
un poco […] il corpo comincia a considerarsi
semplicemente il veicolo dell’occhio
[…]. È una conseguenza naturale della topografia
veneziana, dei vicoli tortuosi e
sguscianti come anguille che alla fine ti
portano a una grande sogliola, a una piazza
con una chiesa al centro, incrostata di
santi, che ostenta nel cielo le sue cupole
simili a meduse. Qualunque meta tu possa
prefiggerti nell’uscire di casa, sei destinato
a perderti in questo groviglio di calli
e callette che ti invitano a percorrerle fino
in fondo, ti lusingano e ti ingannano, perché
in fondo c’è quasi sempre l’acqua di
un canale […].”
(I. Brodskij, Fondamenta degli Incurabili,
Adelphi, Milano 1991, pp. 41-42)
95/PAGINE
PARIGI
“Poiché desiderava poter ammirare un
vasto orizzonte, scelse la terrazza di
Saint-Germain. Si mise in cammino soltanto
dopo pranzo, e quand’ebbe visitato
il museo preistorico per scrupolo di coscienza,
perché non ci capì assolutamente
nulla, fu preso dall’ammirazione di fronte
a quella passeggiata smisurata, dalla
quale si scopre, in lontananza, Parigi e
tutta la regione circostante; le pianure, i
borghi, i boschi, gli stagni, persino delle
città, e quel gran serpente azzurrino dalle
infinite ondulazioni, quel fiume adorabile
e dolce che attraversa il cuore della
Francia: LA SENNA.”
(G. de Maupassant, Le domeniche di un borghese
di Parigi, in Racconti di vita parigina,
Einaudi, Torino 1996, p. 31)
PORTO
“Quando, il giorno seguente, starà per partire, dopo essere
andato a visitare quell’autentico gioiello che è la Chiesa di
Santa Clara, con il suo portale dove il Rinascimento affiora,
con la sua talha barocca che riconcilia la benevolenza del
viaggiatore, con quel suo patio raccolto e antico su cui si
affaccia il vecchio portone del convento – quando il viaggiatore
starà per partire, ritornerà alla Fonte del Pellicano,
guarderà quelle donne irate che, imprigionate nella pietra,
si sfidano: ed è questo che porta via con sé da Porto, un
duro mistero fatto di vie tetre e di case dal colore della
terra, il tutto affascinante come, all’imbrunire, le luci che a
poco a poco si accendono sulle pendici, una città congiunta
con un fiume che chiamano Doiro.”
(J. Saramago, “Si unisce al fiume che chiamano Doiro…”, in
Viaggio in Portogallo, Einaudi, Torino 1999, pp. 141-142)
96/PAGINE
MARKKLEEBERG
97/PAGINE
Arrivando a Genova
vedrai una città imperiosa,
coronata da aspre montagne,
superba per uomini e per mura,
signora del mare.
(F. Petrarca, da una relazione
di viaggio, 1358)
GENOVA
RIMINI
98/PAGINE
PIETROBURGO
“Cominciamo dal primo mattino, allorché tutta Pietroburgo
manda il profumo del pane caldo appena sfornato ed
è piena di vecchiette in abiti e in mantelli stracciati che
fanno le loro incursioni nelle chiese e contro i passanti
compassionevoli. A quell’ora la Prospettiva Nevskij è vuota
[…]. Per le strade si trascina la gente che ha qualcosa
da fare: a volte passano contadini russi che si affrettano
al lavoro, con gli stivali talmente inzaccherati di calce, che
neppure il Canale Ekaterinskij, noto per la sua limpidezza,
sarebbe in grado di pulire. A quell’ora solitamente non sta
bene che le dame vadano in giro, poiché il popolo russo
ama esprimersi con frasi così taglienti che, per la verità,
non si sentono neanche a teatro. […] Si può senz’altro dire
che in quelle ore, cioè fino alle dodici, la Prospettiva Nevskij
per nessuno costituisce un fine, ma serve soltanto
come mezzo: essa si riempie gradualmente di persone
che hanno le proprie preoccupazioni, i propri fastidi, ma
che alla Prospettiva non pensano affatto.”
(N. Gogol’, La Prospettiva Nevskij, in Racconti di Pietroburgo,
Mondadori, Milano 1996, pp. 20-21)
ATENE
“L’acropoli ha un accesso solo e non ne presenta
altri, sulla cima com’è di un colle scosceso
e cinta da un saldo muro. I Propilei hanno il
tetto di marmo bianco e per la bellezza e la
grandezza dei blocchi eccellevano su tutti gli
altri monumenti fino alla mia epoca realizzati.
Circa le immagini dei cavalieri, non saprei dire
con sicurezza se si tratta dei figli di Senofonte
o se siano lì eretti per puro ornamento. Sulla
destra dei Propilei sorge il tempio di Nike Apteros.
Da qui si vede il mare e qui si precipitò
Egeo, secondo la leggenda, e morì.”
(Pausania, Viaggio in Grecia, Libro I, XXII, 4, Rizzoli,
Milano 1997, p. 203)
99/PAGINE
LE CITTÀ
INVISIBILI
DI ITALO
CALVINO
CHIARA RIVA
Accanto alla Londra di Dickens, alla San Pietroburgo di Gogol’ e Dostoevskij,
alla Mosca di Bulgakov, alla Trieste di Svevo, alla Parigi di Zola, Balzac e
Hugo, e poi ancora alla Berlino di Döblin e Isherwood, alla New York di Salinger
e Paul Auster, alla Tokyo di Murakami e ad altri luoghi che hanno un
volto reale e una collocazione nel mondo, ci sono le città “invisibili” di Italo
Calvino.
Le città invisibili, pubblicato nel 1972 per Einaudi e da Calvino stesso considerato
come il suo lavoro più riuscito, appartiene a quel “periodo parigino”
durante il quale lo scrittore si guadagnò la fama a livello internazionale. È
un compendio di racconti, frutto di invenzione e fantasticheria e racchiusi
da una cornice che si rifà idealmente al Milione di Marco Polo, dai quali
emergono iconografie di città possibili che riflettono sulla natura della “forma
urbana” e sul futuro a cui la città sembra essere destinata. Talmente
iconici e impattanti nell’immaginario collettivo, che gli art director delle case
editrici di vari paesi si scomodarono a cercare nell’archivio iconografico le
illustrazioni di opere di Magritte, Mirò, Max Ernst, Paul Klee, e di altri grandissimi
artisti per la grafica delle copertine delle prime edizioni.
A prima vista l’opera può risultare un artificioso esercizio metaletterario, e
una qualche critica è stata mossa al fatto che qui manchi la parte di impegno
politico e sociale rispetto ai precedenti lavori dello scrittore (entrato
ormai, con l’adesione all’Oulipo francese, in una nuova stagione creativa,
più sperimentale). In realtà Le città invisibili sono l’ultimo stadio evolutivo a
cui approda la sua riflessione sulla città, incominciata già con La speculazione
edilizia (1958), Marcovaldo o ancora La giornata di uno scrutatore (entrambi
del 1963), e portata qui a un livello di astrazione in cui la fantasia
intercetta la realtà secondo una pratica più congeniale allo scrittore.
101/PAGINE
L’oggetto del narrare non è più Torino, Milano, Sanremo; non si parla più
nello specifico di corruzione, speculazione, contrasto tra natura e tecnologia,
dell’abbandono delle campagne e dell’inurbamento, ma di città possibili,
tanto irreali, aeree, impalpabili, fantasmagoriche nelle loro fattezze
quanto terrene e concrete nei loro difetti, nella loro infelicità, nei loro paradossi.
Tra queste fantasie urbane e la città moderna in crisi d’identità non
c’è una distanza siderale, come può essere quella che separa il sogno dalla
realtà, ma anzi la nostra realtà la riconosciamo facilmente tra le righe.
Semplicemente, lo scrittore trova terreno più fertile per portare avanti la
sua poetica quando descrive ambientazioni più indefinite; “dato che i luoghi
delle sue opere sono quasi sempre immaginari, Calvino non aveva bisogno
delle città reali” (Fabio Gambaro, Lo scoiattolo sulla Senna, Feltrinelli 2023, p.
85). E, aggiungiamo, non aveva bisogno neppure di un tempo reale. Nell’opera
infatti passato e presente si contaminano a vicenda: “La città visibile
racconta, a volte solo per sparse sopravvivenze, la storia della città invisibile:
come un palinsesto, rivela nelle vie e nelle case dell’oggi l’ordine sociale,
le tensioni e i conflitti dei tanti nostri ieri” (Salvatore Settis, Se Venezia
muore, Einaudi 2014, p. 16).
Le città invisibili, come viene definito dallo stesso autore nell’introduzione
all’opera, è “un ultimo poema d’amore alle città” tutto incentrato su “cosa è
oggi la città, per noi”, in cui l’indagine su questa domanda viene traslata dal
piano sociopolitico a quello ontologico. Di una scrittura bellissima e preziosa,
raffinata e leggera, sostenuto da un’impalcatura minuziosamente complicata
come volevano le regole dell’Oulipo, innerva la riflessione di moltissimi
altri temi, come l’antinomia utopia/distopia, il rapporto con la memoria
e il divenire, il senso del viaggio, fino al tema metaletterario sul potere
della narrazione che conoscerà poi ulteriore sviluppo con il successivo Se
una notte d’inverno un viaggiatore (1979).
Ma andiamo per ordine.
“L’OPERA NON È CHE UN ESEMPIO DELLE
POTENZIALITÀ RAGGIUNGIBILI SOLO ATTRAVERSO
LA PORTA STRETTA DI QUELLE REGOLE.”
Italo Calvino
Come abbiamo detto, la struttura del libro è complessa: il volume appartiene
alla stagione in cui Calvino, stabilitosi in Francia, a Parigi aderisce
all’Opificio di letteratura potenziale, un prestigioso club letterario fondato nel
1960 per il quale la letteratura era concepita come gioco basato su strutture-vincoli
di tipo matematico oppure semantico, e per questo motivo
chiamata “combinatoria”: l’opera era cioè il risultato di una combinazione
102/PAGINE
razionale di schemi e regole prestabilite e la struttura ne era l’elemento
dominante.
Le Città invisibili è anzitutto sorretto da una cornice, in cui il mercante veneziano
Marco Polo dialoga con Kublai Kan, imperatore dei Tartari, intrattenendolo
con le descrizioni di 55 città che egli sostiene di aver visitato
all’interno del suo sterminato impero, ma che da subito scopriamo essere
più frutto della sua invenzione che realtà, più appartenenti al regno del
possibile che dell’esistente.
All’interno di questa cornice che Calvino ebbe solo in un secondo momento
l’idea di aggiungere, e che è spezzettata in 18 corsivi, vi sono i racconti,
brevi e autoconclusi, che descrivono ciascuno una città in relazione a un
particolare tema. Riscontriamo così un indice di 11 rubriche (ovvero le associazioni
tematiche in questione), che hanno, un po’ come tutto il libro, una
genesi tortuosa, frutto di varie stesure, ripensamenti e varianti rispetto al
risultato finale. Queste sono, nell’ordine di apparizione, le 11 rubriche:
LE CITTÀ E LA MEMORIA
LE CITTÀ E IL DESIDERIO
LE CITTÀ E I SEGNI
LE CITTÀ SOTTILI
LE CITTÀ E GLI SCAMBI
LE CITTÀ E GLI OCCHI
LE CITTÀ E IL NOME
LE CITTÀ E I MORTI
LE CITTÀ E IL CIELO
LE CITTÀ CONTINUE
LE CITTÀ NASCOSTE
In quest’opera che presenta così tante chiavi di lettura si distinguono due
“direttrici” principali: una nei racconti, in cui Calvino cerca di ricomporre il
significato che la città ha per l’uomo, e un’altra nella cornice, luogo dell’autoreferenzialità
in cui lo scrittore medita sul suo stesso lavoro ovvero, per
riassumerlo con le parole dello stesso Calvino nella Presentazione all’opera,
attraverso i dialoghi tra i due personaggi il libro stesso “si discute e si interroga
mentre si fa”.
Fedora, Raissa, Ipazia e le altre: le rubriche
Nel primo paragrafo del suo Se Venezia muore, lo storico dell’arte Salvatore
Settis parla di come le città possano cadere in rovina non per una causa
esterna, ma nel momento in cui perdono la memoria di sé, si dimenticano
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di quello che sono state. Venezia, unica al mondo e subliminale punto di
riferimento anche per il Marco Polo di Calvino, è eletta a esempio paradigmatico
di città a rischio, esattamente come l’Atene della classicità. La prima
è fagocitata dal turismo che sta prevalendo sulla popolazione locale, mentre
la seconda già nel Medioevo non sapeva più riconoscere l’eredità dei
suoi templi e dei suoi uomini illustri. In ciascuna di loro, come in ogni altra
città, convivono infatti una parte fisica fatta di mura, di monumenti, di edifici,
di strade, e un’altra, un’anima potremmo dire, fatta delle persone che la
abitano e dei loro progetti politici e sociali: fatta da desideri, scambi, segni,
sogni, persino legami con chi non è più, come si evince dai titoli delle 11
rubriche. Quest’anima è ciò che si deve conservare nel tempo perché la
città resti in buona salute, viva e pulsante, e la memoria di quanto essa è
stata impatta sul suo divenire tanto quanto le possibili forme che essa non
ha avuto. Una delle prime città che incontriamo, Fedora, ne è un esempio:
un palazzo del suo centro custodisce le sfere di cristallo che contengono i
modelli di tutte le Fedore possibili, e la città conserva ognuna di esse, da
quella “accettata come necessaria mentre non lo è ancora a quella immaginata
come possibile e che un minuto dopo non lo è più”.
“La città e il suo popolo sono una cosa sola, un solo nodo lega l’esperienza
dei viventi e la memoria delle cose” (Se Venezia muore, p. 9). E quindi ecco,
Calvino dedica una rubrica proprio alle città e alla memoria, e descrive
Zaira, città che “di quest’onda che rifluisce dai ricordi […] si imbeve come
una spugna e si dilata”, oppure Isidora, nella quale non si fa in tempo a vedere
esaudito un desiderio che ormai è già ricordo, o ancora Maurilia, la
metropoli che uno iato incolmabile separa dalla sua vecchia riproduzione
su cartolina. La storia di Zora invece sottintende che non si dà memoria
senza trasformazione, perché una città immutabile è destinata all’oblio, e
ci permette anche di affrontare un altro argomento: la descrizione di questa
città, insieme ad altre, rivela infatti la critica di Calvino al tradizionale
concetto di utopia. Nella cornice si fa esplicito riferimento, oltre ad altri luoghi
letterari, a Utopia di Thomas More e alla Città del Sole di Campanella, due
testi classici che nel Cinquecento e nel Seicento hanno coniato per primi il
termine riferendolo a un paese ideale. Ma se le due opere rinascimentali
avevano immaginato il ritratto di una società con caratteri di perfezione,
modello per una condizione di felicità collettiva che scavalcava l’individuo,
nelle città di Calvino ogni tentativo di creare una forma di città assoluta,
immobile, cristallizzata conduce al suo contrario, con risultati distopici che
decretano il fallimento dell’azione demiurgica dell’uomo.
I luoghi urbani descritti da Marco Polo rivelano in sé per la maggior parte
delle volte un carattere di doppiezza e di ambiguità.
In alcuni di loro, come Anastasia, “i desideri si risvegliano tutti insieme e ti
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circondano” finché alla fine l’uomo si rende conto di essere prigioniero di
un luogo brutto, come Zobeide, dove pure si è giunti seguendo un sogno. E
se il sogno spesso ha più i tratti dell’incubo, anche il linguaggio rivela il suo
lato ingannevole. Nelle città di Aglaura e Tamara la lingua è insufficiente a
cogliere la loro essenza e il visitatore non sarà in grado di decifrare l’intrico
di segni che le nasconde. A Ipazia, dove il sapiente va cercato tra i giochi
d’infanzia mentre la buona musica si ascolta nel cimitero, gli stessi segni
non dicono ciò che ci si aspetterebbe; oppure a Olivia, la cui descrizione è
tra le più destabilizzanti, “la menzogna non è nel linguaggio ma nelle cose”.
Lo spaesamento del lettore è ancora maggiore quando altre città si presentano
all’apparenza con i tratti del meraviglioso e ci incantano per la loro
iniziale raffinata perfezione, per poi rivelare nel finale un’altra faccia della
medaglia.
Basti citare Clarice, città gloriosa, che nella sua storia alterna periodi di
magnificenza e felicità ad altri di declino. Calvino la paragona a una “farfalla
sontuosa” dal cui bozzolo esce una Clarice “crisalide pezzente”, che è
ricostruita con i rifiuti inservibili della prima.
Bersabea, città doppia, con un volto celeste e uno sotterraneo, è fatta con
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gli scarti della città di sopra: ma se l’opinione comune vuole che quella alta
sia la sua faccia virtuosa, ben presto appare chiaro al lettore che nonostante
l’aspetto ripugnante “tutto il bene della città sia racchiuso nel tesoro
delle cose buttate via” destinate a costituire la gemella sottostante.
Non dissimile è la storia di Eusapia di cui non si sa più quale sia l’originale
e quale la copia: il suo doppio è la città dei morti, ma è questa ad essere
stata creata come “continuazione” di quella dei vivi, oppure è nientemeno
che la città vivente ad essere una copia di quella morti?
E che dire di Perinzia? Creata seguendo in ogni crisma le indicazioni degli
astrologi perché rispecchiasse in terra la perfezione delle congiunzioni
astrali, si ritrova a diventare, con un contrappasso quasi dantesco, la città
dei mostri.
Altre descrizioni si basano poi su presupposti di derivazione strutturalista;
è frequente la presenza nel testo, sia della cornice che delle rubriche, di
elementi che evocano un’architettura, una griglia, una trama di base che
arriva a condizionare il destino delle città invisibili. È il caso del singolare
tappeto custodito a Eudossia, nel cui ordito si può leggerne l’intera pianta;
è il punto infinitesimale che Olinda contiene al suo interno e da cui germina
ogni volta una nuova Olinda che si espande così per cerchi concentrici;
Eutropia invece la si abita, la si disfa e la si rifà daccapo come “spostandosi
in su e in giù sulla sua scacchiera vuota”.
Come non ritrovare in queste metafore visive di espansione, moltiplicazione,
policentrismo, i movimenti e la crescita sovradimensionata, isterica e
ubiqua delle città di oggi? E infatti di alcune di loro troviamo echi in romanzi
di fantascienza distopica; Pentesilea è il paradosso della megalopoli che
è giunta “a spandersi per miglia intorno in una zuppa di città diluita nella
pianura” a tal punto da diventare ovunque “periferia di se stessa”. Nel suo
ciclo di fantascienza Isaac Asimov sembra sviluppare ulteriormente questa
idea con l’ecumenopoli di Trantor, capitale del suo Impero Galattico che
giunge a occupare un intero pianeta e quindi a identificarsi con esso.
La città invisibile Leonia produce invece spazzatura in maniera esponenziale
rispetto alla sua necessità di rinnovamento, mentre altre città intorno
fanno lo stesso: i perimetri che le delimitano sono quindi delle immense
discariche. Il degrado ambientale è l’entropia metafisica che fa da sfondo
anche al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick,
e si incarna nella “palta” fatta di oggetti inservibili che si diffonde ovunque
e contro cui ormai non c’è più rimedio: “Quando non c’è più nessuno a controllarla,
la palta si riproduce. Per esempio, se quando si va a letto si lascia
un po’ di palta in giro per l’appartamento, quando ci si alza il mattino dopo
se ne ritrova il doppio. Cresce, continua a crescere, non smette mai”.
Parcellizzazione, espansione incontrollata, rovesciamento di prospettiva
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fanno parte integrante del nostro mondo iperurbanizzato, che dalla metà
del secolo scorso è cresciuto – come Calvino ha fatto in tempo a constatare
– a ritmi esponenziali e sempre più difficilmente gestibili. Prodotto “squisitamente”
umano, la città con tutti i suoi annessi e connessi tecnologici si
sta trasformando in un organismo fagocitante che progressivamente erode
anche i nostri baricentri.
È quindi questo il destino che Calvino, pure scrittore e cantore di città più
che di campagna, vede nel nostro futuro? Questo potrebbe essere, riassumendo,
l’interrogativo generato dall’analisi socio antropologica di Settis in
Se Venezia muore, che molto deve a Calvino e alle sue Città invisibili. La parabola
che parte dall’Atene di Socrate, Platone e Aristotele, del Partenone
e dei marmi di Fidia e Prassitele, passando per un millennio e mezzo d’anni
dopo attraverso la rivoluzione industriale e capitalistica che ha messo il
turbo all’inurbamento e al “progetto di massimo sfruttamento del singolo
in funzione della produttività dell’insieme”, ha come traguardo nei peggiori
dei casi le bidonville o il modello Chongquing, ovvero città di 30 e passa
milioni di abitanti? Ovvero una macchina che avanza “invadendo la terra e
distruggendo ogni altra forma urbana”? Una città non più a misura d’uomo?
Bisogna ricordare che alla visione cupa di città come Argia, completamente
interrata, e a quelle “che pesano sulla terra e sugli uomini”, Calvino contrappone
la leggerezza delle città sottili, come Zenobia che sorge su palafitte,
Ottavia la città ragnatela, o l’acquatica Smeraldina, o ancora Lalage
baciata dalla Luna. E ci dice espressamente che la felicità, come un intermittente
raggio di luce, appare spesso nel cuore delle città infelici come
Raissa, così che “ogni secondo la città infelice contiene una città felice che
nemmeno sa d’esistere”. Quasi una postilla a quella che tanti critici hanno
voluto vedere forse come la citazione “chiave” di tutto il libro, posta significativamente
nel finale, e cioè che, sì, esiste una forma di resilienza:
“CERCARE E SAPER RICONOSCERE CHI E CHE COSA,
IN MEZZO ALL’INFERNO, NON È INFERNO, E FARLO
DURARE, E DARGLI SPAZIO”.
Ma Calvino stesso, nella prefazione, ha invitato a non considerare questa
frase, pur centrale, pur importante, come unica via di interpretazione dell’opera.
Perché nella cornice ci viene detto dell’altro.
Il dialogo tra Marco Polo e Kublai Kan
La cornice è il luogo letterario in cui Calvino prosegue le sue considerazioni
sul destino delle città ma anche e soprattutto ragiona sulla sua attività
di scrittore, sul significato della narrazione e il ruolo del lettore.
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È qui che i suoi visionari ritratti urbani si legano al tema della scrittura.
Ce lo dice proprio Calvino stesso: in La città scritta: epigrafi e graffiti (1980),
afferma che
“È LA PRESENZA STESSA DELLA SCRITTURA,
LE POTENZIALITÀ DEL SUO USO VARIO
E CONTINUO CHE LA CITTÀ STESSA DEVE
TRASMETTERE […]: LA CITTÀ IDEALE È QUELLA
SU CUI ALEGGIA UN PULVISCOLO DI SCRITTURA
CHE NON SI SEDIMENTA NÉ CALCIFICA”.
Il viaggio di Marco Polo attraverso luoghi possibili alla ricerca non di meraviglie
ma di risposte a una domanda sono il viaggio dello scrittore che
cerca un significato, un ordine nel caos del mondo, che combatte con le
parole l’oblio del tempo, che scruta dentro di sé per scoprire ciò che non è
stato, e lontano da sé perché “la forma delle cose si distingue meglio in
lontananza”. Nell’ultimo capitolo di Se una notte d’inverno un viaggiatore l’atto
del leggere, riflesso dello scrivere, è semanticamente tutto un susseguirsi
di termini legati al viaggio: un vagare con gli occhi, un itinerario di ragionamenti
e fantasia, un percorrere, un rimbalzare di pensiero in pensiero, in poche
pagine che racchiudono interi universi.
L’imperatore che ascolta il mercante veneziano non crede a tutto ciò che
Marco Polo dice, è consapevole che le sue digressioni sono finzione, le sue
parole menzognere. Ma in questo autoinganno che è il suo racconto, le
parole, i simboli, i segni, insomma, il linguaggio utilizzato dal mercante è
l’unico modo, anche se insufficiente e inaffidabile, con cui egli restituisce al
suo impero sterminato e in sfacelo una parvenza di senso, gli lascia intravedere
un labile disegno sottostante.
Di nuovo ci vengono in soccorso, nel finale del dialogo tra i due personaggi,
le griglie della Scacchiera e la figura dell’Atlante. Nel primo caso a Kublai
Kan che si chiede disilluso cosa valga una vittoria se sotto al piede del re
sconfitto resta un tassello vuoto, Marco mostra quante storie può raccontare
ancora quello stesso tassello, se lo si “legge” con attenzione: di che
legno è fatto, come fu intagliato, persino la storia dell’albero da cui fu ricavato.
Nel secondo caso l’Atlante di Kublai racchiude al suo interno un catalogo
di innumerevoli forme, tutte le forme – quelle delle città, ma anche
delle loro storie – possibili, presenti, passate, future, come un Aleph di borgesiana
memoria.
In questo imperfetto esercizio di verosimiglianza, potenzialmente senza
fine, si arriva al coup de théâtre di Calvino nel dialogo botta e risposta tra i
due personaggi che ragionano sul proprio duplice ruolo: contemporaneamente
soggetto narrante e oggetto narrato della storia, filosofeggiano sul
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processo tutto mentale dell’invenzione letteraria. Dell’invenzione letteraria
che loro stessi sono. Come in Se una notte d’inverno un viaggiatore, siamo già
in presenza di un testo che ragiona di se stesso.
E quindi, Le città invisibili sono un’opera unica nel suo genere, di cui troviamo
a volte qualche pallido – perché Calvino è inimitabile – riflesso nei lavori di
altri autori.
Opera iconica, che non smette di fornire spunti per mostre, dibattiti di architettura,
laboratori creativi nelle scuole.
Ma soprattutto opera visionaria e densa, di una densità che suscita a ogni
lettura, da ogni angolo, sempre nuove riflessioni e sfugge a una interpretazione
univoca. Perché, come ammette spontaneamente Calvino nella sua
prefazione, dopo aver elencato questi e quei pareri critici sul senso del libro,
quest’ultimo, “come ho spiegato, si è fatto un po’ da sé, ed è solo il testo
com’è che può autorizzare o escludere questa o quella lettura”.
Potere al testo sia, dunque.
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La città è
un racconto
CIFONE ( artista-fumettista)
"Cifone è scampato a quella
strage degli innocenti chiamata
adolescenza.
Un bimbo sfuggito a quell’Erode
altresì detto Società.
Cifone è un dio-bambino.
Demiurgo di un mondo fatto
di cartone e pennarelli a spirito.
Adoratelo”
(Descrizione per la mostra
ratatafestival.com/cifone/)
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SOLIDEA RUGGIERO
15 aprile ore 11:13
“CIAO SOLE, BUONGIORNO! IL PROSSIMO NUMERO È A TEMA
CITTÀ, SCADENZA A GIUGNO!”
È Marta, sono in call, apro la notifica, e ho subito in testa Le città invisibili,
sorrido, chiudo e riprendo a seguire. Dieci minuti dopo mi oscuro in video
dalla riunione e vado in camera, sul comodino, sotto Petrolio (PPP), Il Minotauro
di Tammuz, e Muori Romantica di Grilli, c’è Calvino che mi avevi regalato
tu (non Marta s’intende, tu, tu passato!) insieme a Tammuz, l’edizione
Mondadori. Pensa che beffa per Italo. E mentre guardo gli appunti a margine
e tutte le pagine che ho sottolineato, penso che sono passati 18 anni,
per il libro, per me, per noi. Torno subito in riunione. Stiamo organizzando
il prossimo evento a Roma, a luglio, la morte, già mi vedo affondare nel
cemento che si scioglie ad ogni passo sudato. Mi viene in mente il poeta
finalista al Poetry Slam che una settimana fa fece un pezzo utilizzando la
prima lettera di ogni parola uguale per tutte, un genio:
“Roma un racconto che restituisce radicali raccomandazioni,
rateizzate raramente e rigettate su ricordi ruvidi ma raggianti.”
Non credo voglia dire qualcosa questa frase che ho scritto, ma è lui il genio,
io mi sono rivista in quel reel nel momento in cui presentavo l’evento, e a
un certo punto mi parte il mio solito flusso improvvisato e logorroico:
“Il luogo della cultura siamo noi, il posto della poesia è dove
vogliamo incontrarla, seduti sulla carta, per strada sotto un tetto
dietro un ponte sopra un palco tra la gente nel silenzio ovunque
la vogliamo portare. Io credo in una comunità della cultura,
in un rinnovato umanesimo, di ogni lingua immaginata e condivisa,
che sia la nostra disobbedienza a questo tempo disone-
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sto, immorale, lontano dalla giustizia sociale, capovolto verso
direzioni che non mettono al centro l’umanità stessa e la sua
più alta forma di esistenza. E se non si trova lo spazio necessario,
lo si crea. ‘La rivoluzione, non è che un sentimento.’ (PPP)”.
Ecco qua, imbarazzante, penso, inaspettatamente partono le votazioni sulle
lavagnette dal pubblico, con voti sopravvalutati ed eccessivi, ma lo capisco
solo andandomene dal palco che sono rivolti a me e, doppiamente
imbarazzata, dico: “Non era una performance, stavo andando a braccio,
volevo solo accogliervi!”. Le mie solite figure fuori luogo. Sono le 13 e 30, c’è
pausa ma poco o nulla in frigo, a parte la speranza. Apro una busta d’insalata,
cerco su Google la parola città, affetto una mela, un paio di pomodorini
gialli nichel tested, ci butto una manciata di semi vari, olive verdi sale e
olio. Mangio e leggo:
“Una città è un insediamento umano, esteso e stabile, che si
differenzia da un paese o un villaggio per dimensione, densità
di popolazione, importanza o status legale, frutto di un processo
più o meno lungo di urbanizzazione. Sinteticamente essa è
definibile come una concentrazione di popolazione e funzioni,
dotata di un proprio territorio e di strutture stabili. Il termine italiano
città deriva dall’analogo accusativo latino civitatem, a sua
volta da civis, cittadino, poi troncato in cittade da cui deriva anche
civiltà. In senso amministrativo il titolo di città spetta ai comuni
ai quali sia stato formalmente concesso in virtù della propria
importanza, e varia secondo gli ordinamenti giuridici dei
vari Stati.”
https://it.wikipedia.org/wiki/Citt%C3%A0
“Un insediamento umano” credo sia già emblematico, va bene, Wikipedia
sempre il primo della fila. Non vedo Marta dal 2017, non scrivo un racconto
così sfacciatamente reale da molto, molto più tempo. Marta è una di
quelle persone che hanno sempre calamitato la mia attenzione, così attenta,
puntuale, in equilibrio con il suo tono calmo, dritto, e trainante. Una
di quelle persone che semplicemente con la propria natura gentile, domano
il mio carattere senza fatica (spero). Potrebbe sembrare algida, a tratti
distaccata nei modi, apparentemente centrata, eppure è come la sua
scrittura, posseduta da un amore dedito alla ricerca, alla minuzia, un elastico
di sensibilità che si espande in un’empatia generale, che accoglie con
diversi sguardi prima del suo, che è un mare in inverno, un vento che segue
la nostalgia.
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ROMA, se penso a Roma mi sento male. La riunione riprende, so già che
come sempre ci sfuggiranno particolari, non sarà tutto pronto, chilometri
e chilometri da una parte all’altra della città, sono più di 30 anni che scappo
da Roma, e invece lei mi frega sempre, per amore, per lavoro, per amicizia,
vince lei, mi riprende tirandomi per i capelli. Tutte le volte che mi hai tradito
Roma, se penso alla parola città sei la prima che mi fa strizzare gli occhi
come quando ti si apre una ferita che non vuole rimarginarsi.
23 maggio ore 11:14
“CIAO SOLE, COME VA? SO CHE SEI IMPEGNATA QUINDI NON
MI PERDO IN CONVENEVOLI: COME PROCEDE CON IL TUO
RACCONTO? VOLEVO AVVISARTI CHE SUL LIBRO DI CALVINO
CI STA LAVORANDO UN’ALTRA PERSONA.”
Eh Marta, per fortuna perché ero partita da lì, ma poi ho pensato di aver
scritto davvero tante volte di Calvino, anche per Stanze, non era la via giusta.
Negli appunti del 28 aprile, sono andata diretta da Treccani:
“Centro abitato di dimensioni demografiche non correttamente
definibili a priori, comunque non troppo modeste, sede di
attività economiche in assoluta prevalenza extra-agricole e
soprattutto terziarie, e pertanto in grado di fornire servizi alla
propria popolazione e a quella di un ambito più o meno vasto
che ne costituisce il bacino d’utenza (o area d’influenza). La c.
è uno degli elementi umani dello spazio geografico: in particolare
un elemento insediativo e un elemento economico; è, o può
essere, anche un elemento politico (perché sempre vi si concentrano
almeno alcune attività di governo, da quelle locali a
quelle nazionali o internazionali), e, ancora, un elemento culturale,
sia in quanto luogo elettivo della produzione di cultura sia
in quanto sede di beni culturali accumulatisi nel tempo. Da tale
molteplicità di funzioni si evince l’importanza della c. e si comprende
come essa risulti uno degli elementi-guida dell’organizzazione
dello spazio.”
https://www.treccani.it/enciclopedia/citta
Già la definizione prende immediatamente un tono letterario, quasi prosastico,
narrativo:
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“La c. è uno degli elementi umani dello spazio geografico”.
È ovvio che la città sia una questione umana: un fatto che da un lato ha
mirato al contenimento di un caos diffuso, dall’altro è l’ennesimo abuso da
colonizzatori verso la natura stessa. Se pensiamo a cosa sono le città oggi,
le nostre città Italiane, seguendo questa definizione. Fino a un certo punto
della mia vita, non avendo questo grande senso di appartenenza al territorio
o esigenze di mettere radici, ho vissuto con una fame incredibile
dell’andare, di vivere le città come nuclei familiari che lasciavo ogni volta,
con la consapevolezza che sarebbero restati li ad aspettarmi. Sarà perché
sono nata in Belgio, a GENK, città protagonista delle scorse migrazioni italiane,
compresa quella della mia famiglia. Da adulta quando ci sono tornata
è stato difficile riunire i flash di ricordi che avevo, ma quell’odore costante
di umidità, di erba, di brina mi era familiare.
Anni fa mi capitò una proposta assurda, fui scelta per un’antologia, “Genova
d’autore”, per scrivere un racconto sulla città credendo io fossi genovese
(pensai perché spesso citavo il mare, mah!), non che non fossi mai stata
a GENOVA, ma non avevo abbastanza conoscenza, fatto è che chiesi a tre
miei amici genovesi, un pittore, un illustratore e un attore, di raccontarmi
un loro aneddoto personale legato alla città, e da lì imbastii un racconto,
intrecciando le storie dei tre e passando mesi a visionare vie, palazzi, piazze,
etc etc su Google Maps.
La città che non mi aspettavo e di cui mi sono follemente innamorata è
stata TORINO. Sì, sono scappata dalla Fiera del libro il secondo giorno della
presentazione del mio libro, lasciando un biglietto al mio editore, ma
quello ha a che fare con le mie fobie, non sopporto i grandi spazi, dai supermercati
ai centri commerciali, non sono mai entrata dentro un’Ikea, ma
ci sono tornata parecchie volte a Torino, ne sono ancora oggi enormemente
attratta, e ho solo conosciuto persone e artisti e contesti bellissimi.
Mi piace pensare che LA CITTÀ È COME UN RACCONTO: al centro
c’è l’uomo, la sua ricerca e la sua crescita, il suo espandersi, che è come il
mio flusso schizzato di connessioni in cortocircuito – perché sono alla terza
stesura di quello che voi leggete e c’erano 15 cartelle sopra, mettendo
da parte Calvino e anche l’ipotesi di Cifone (il nostro artista locale che dipinge
meraviglie con materiali di scarto e assembla mondi e sogni o piccole
città con pezzi di cartone) – e mi sono persa tra lampi di ricordi che
hanno nomi di città: il quartiere della Malasaña a MADRID, dove entrammo
con una “parola d’ordine” in un palazzo che in seguito si rivelò un club con
114/PAGINE
della musica pazzesca, o BOLOGNA, l’unica in cui riesco a camminare libera
utilizzando al minimo le app, tanto i piedi vanno da soli, conoscono le
strade; Venezia e Palazzo Zenobio durante la 54a Biennale, la mia voce
nella videoinstallazione di Agostinelli, tutte le volte che mi sono persa, quel
carnevale in piazza San Marco; ma anche il profilo di PALERMO che ci ha
fatto il fotogiornalista Gentile, mentre lo intervistavo e dietro di noi scorrevano
quelle immagini ormai iconiche di Falcone e Borsellino, immaginavo
il teatro di Palermo con queste lenzuola di foto appese alle balconate con
l’installazione sonora fatta delle voci, delle grida, delle sirene del tragico
periodo della strage di Capaci, piazza in cui era cresciuto e aveva giocato
Falcone. I brividi.
10 giugno ore 11:14
“BUONGIORNO SOLIDEA, COME VA IL RACCONTO?”
Eccomi Marta, ho passato il tempo a cancellare, a tagliare e cucire. Il fatto
che mi chiami con il mio nome esteso mi fa lo stesso effetto di quando lo
fanno in famiglia: la situazione si fa seria. Mi sono persa per le strade di una
città che è il mio racconto, quello che leggete ora è solo il risultato di direzioni
diverse, di zone in luce e architetture che emergono. La città è un
racconto, fatto di scelte che sono funzionali allo spazio che è l’immaginazione,
e trovano una collocazione precisa, in segnali d’identità e caratterizzazione.
D’UNA CITTÀ NON GODI LE SETTE
O LE SETTANTASETTE MERAVIGLIE,
MA LA RISPOSTA
CHE DÀ A UNA TUA DOMANDA.
Italo Calvino
115/PAGINE
1. LE TERRE IMMAGINATE, A CURA DI HUW LEWIS-JONES
2. JORGE LUIS BORGES, L’ALEPH
3. ITALO CALVINO, SE UNA NOTTE D’INVERNO UN VIAGGIATORE
4. ITALO CALVINO, LE CITTÀ INVISIBILI
5. SALVATORE SETTIS, SE VENEZIA MUORE
6. AA.VV., LA VISIONE DELL’INVISIBILE
7. JAN BROKKEN, L’ANIMA DELLE CITTÀ
© Chiara Riva
COLLAGE#1
©Chiara Riva
COLLAGE#2
1. TOP 10 ISTANBUL, GEO MONDADORI
2. TOM WAITS, BONE MACHINE
3. PARIS MAP, CRUMPLED CITY JUNIOR
4. MAPPA DI VENEZIA, F.M.B.
5. BERLIN, PANORAMA POPS, WALKER BOOKS
6 LONDRA, CONDÉ NAST TRAVELLER
7. GARTH RISK HALLBERG, CITTÀ IN FIAMME
8. HARUKI MURAKAMI, TOKYO BLUES NORWEGIAN WOOD
9. JACK KEROUAC, I SOTTERRANEI
10. JAMES JOYCE, A SELECTION OF STORIES FROM DUBLINERS
11. PRAGA, WALLPAPER CITY GUIDE, PHAIDON
12. AMSTERDAM, LONELY PLANET
119/PAGINE
COLLAGE#3
1. JACK KEROUAC, LA CITTÀ E LA METROPOLI
2. LAURA PEZZINO, A NEW YORK CON PATTI SMITH
3. GREGORY DAVID ROBERTS, SHANTARAM
4. OLGA CAMPOFREDA, A SAN FRANCISCO CON LAWRENCE FERLINGHETTI
5. NEO-HEAD, #1, TO BERLIN
6. NEO-HEAD, #2, TO AMSTERDAM
120/PAGINE
121/PAGINE
Novara. Cattedrale di Santa Maria Assunta
Foto di Marcello Francone
IL TEATRO E LA CITTÀ.
UN RAPPORTO PROBLEMATICO
ANDREA ANCONETANI
“QUANDO SONO ARRIVATO A ROMA, A VENTISEI ANNI,
SONO PRECIPITATO ABBASTANZA PRESTO, QUASI
SENZA RENDERMENE CONTO, IN QUELLO CHE POTREBBE
ESSERE DEFINITO IL VORTICE DELLA MONDANITÀ.”
Jep Gambardella
Tra le molte usanze ritualistiche e scaramantiche che costellano il mondo
del teatro ce n’è una - cui pare non ci si possa comunque sottrarre - che
mi fa sempre un po’ d’orrore. È il famigerato “merda” da urlare a squarciagola
prima dello spettacolo quale augurio di buona fortuna (con corredo
di pacchettine al culo). Non v’è forse altra consuetudine che riassuma meglio
quel che Strehler aveva a scrivere in una famosa lettera immaginaria
al suo maestro Jouvet, ovvero che il teatro ha in sé qualcosa: «d’infame e
d’indegno, di vano e d’inutile». Ed è davvero così. Il teatro, più di ogni altra
arte, è un contraddittorio conglomerato di altezza e bassezza, di luce e
d’ombra, di brillantezza adamantina e merda. L’infamia del teatro però, a
ben vedere, non sta tanto nell’evocazione delle deiezioni quanto nel significato
originario di tale evocazione. È noto infatti (insomma, pare) che la
questione derivi dal fatto che - ai tempi in cui le compagnie erano composte
da guitti viaggianti - se le strade cittadine che si dirigevano verso il
teatro risultavano particolarmente lorde di escrementi di cavallo quello
fosse segno certo della presenza di una consistente moltitudine borghese
(che si spostava per l‘appunto in carrozza o a cavallo) e quindi di platea
piena. Oggi un misero parallelo potrebbe essere dato dal parcheggio introvabile
nei pressi della sala. Molto misero e per altro poco indicativo.
Insomma, per tornare a noi, “merda” vuol dire augurio di parecchio pubblico;
di successo. E segna pure un certo tipo di rapporto tra il Teatro e la
123/PALCHI
Città, il primo in una relazione da sempre necessaria quanto contraddittoria
con la seconda. Il teatro, in prima istanza, ha bisogno della città in
quanto è lì che può trovare la concentrazione di pubblico necessaria alla
sua esistenza. La città è spazio mondano per eccellenza. Subbuglio umano
e luogo di scambi, mercantili, simbolici e culturali, l’arte del teatro non
può sussistere nella privazione del pubblico ed è per questo che v’è una
tensione continua tra il Teatro e la Città. Una tensione a suo modo infame
che, pur essendo banalmente necessaria, nasconde continue insidie e pericoli
e, tra questi, alcune singolari, recenti criticità. Per parlarne userò un
esempio. Io abito in una piccola città. Per quanto piccola e provinciale
essa è pur sempre un centro. Al centro del centro sorge - come tradizione
vuole - il teatro, monolite architettonico che in questo caso specifico conserva
soltanto nella facciata il suo aspetto originario, mentre all’interno lo
spazio destinato al pubblico di platea e gallerie è stato recentemente ripensato
come un’imponente struttura in cemento armato che sta a simulare
una piazza urbana. Una specie di curiosa matrioska. Il teatro al centro
della piazza cittadina che al suo interno simula una piazza urbana
dentro la quale c’è un teatro e così via. Attraverso tale ridondanza strutturale
dell’edificio si sarebbe voluto indicare forse che il Teatro è Agorà,
luogo di riconoscimento e di confronto di una comunità. Ma a ben vedere
proprio tale eccedere monumentale sottolinea anche il timore che questa
nozione sia talmente sconosciuta ormai da doverne rimarcare la sostanza
in maniera enorme e pesante. Insomma, nelle arcate a portico in cemento
armato all’interno di questa sala si intravede anche il timor panico
che quella centralità del teatro inteso come spazio di confronto umano
non sia più riconoscibile in maniera così naturale. Ed è un timore assolutamente
fondato. Sono ormai lontani i tempi in cui, in strada, le montagne
di merda di cavallo indicavano la consistente presenza di pubblico pagante.
Nelle sale teatrali, nonostante le imponenti allegorie e i monumentali
rimandi alla loro antica funzione sociale, gli abbonamenti latitano e le sedie,
ad ogni funerale che colpisca qualcuna delle pellicciose, ottuagenarie
signore ancora abbonate, restano drammaticamente più vuote. È un fatto
abbastanza nuovo nella storia del teatro questo allentarsi del filo da sempre
teso tra attori e pubblico, tra Teatro e Città. Un fatto che porta conseguenze
davvero non trascurabili. Da una parte la città, e specialmente la
grande città, costituisce ancora un potente magnete per tutti gli artisti in
virtù della passata funzione di aggregatore delle intelligenze e di catalizzatore
del pubblico (quindi in funzione soprattutto quantitativa), dall’altra
essa si mostra all’atto pratico come una grande illusione che non può che
tradire le aspettative lasciando soltanto sopravvivere l’aspetto mondano
quale fantasma di ciò che fu. Il rischio è, per l’artista e nella fattispecie
124/PALCHI
Una specie di curiosa
matrioska. Il teatro
al centro della piazza
cittadina che al suo
interno simula una
piazza urbana dentro
la quale c’è un teatro
e così via.
soprattutto per il teatrante, la precipitazione nel sorrentiniano “vortice
della mondanità”, ovvero dell’inconcludenza festaiola che si sostanzia nella
ricerca affannosa del giusto sentiero che dovrebbe condurre da qualche
parte in quell’economia delle relazioni, molto nostrana e speranzosa,
in prospettive spesso fantasmagoriche che restano poi regolarmente
inappagate. Dall’altra parte però indica pure, in prospettiva, un affrancamento,
un allontanamento possibile del Teatro dalla Città. Se infatti esso
ha avuto bisogno della città soprattutto per
mere ragioni numeriche, quantitative, non ne
ha in fondo avuto mai troppo per quel che riguarda
l’ambito creativo. Anzi. Chi crea, chi immagina,
ha sempre anelato ad una condizione
di isolamento che consentisse l’assunzione di
uno sguardo distante e desiderante sulle cose.
Non è infrequente quindi vedere maestri di teatro
che creano i loro ambiti artistici più intimi
e personali in luoghi remoti, quasi inaccessibili.
Le zone più impervie dell’Umbria, per esempio,
per Dario Fo o Luca Ronconi o più recentemente
Peter Stein. Chi crea ha bisogno che vi
sia una siepe a oscurare lo sguardo sull’ultimo
orizzonte piuttosto che una continua immersione nel vociare confuso e
disordinato delle masse umane. Eppure, anche in questo caso v’è un rischio
mortale. Ed è il rischio dell’inconsistenza, dell’elitismo intellettualistico,
dell’abiura verso ciò che è sentimentalmente umano, della rinuncia
programmatica al parlare al cuore dell’uomo. Un disastro catastrofico che
getterebbe il teatro nell’ambito della più completa inutilità. In fondo quel
che si perde nel progressivo allentarsi di questo rapporto tra Teatro e
Città è proprio il senso ultimo del teatro. Un’arte che non può, per sua natura,
essere pura e adamantina. Che anzi deve, se vuole sopravvivere alla
storia, mantenere il suo rapporto perverso e problematico con il pubblico
e con le città da esso abitate. «Domani sarà il “pubblico”, vero, l’unico eterno,
uguale pubblico di sempre. Il vostro, il mio e quello di coloro che verranno
dopo di me come è stato quello di coloro che sono venuti prima di
noi» continuava il regista di Barcola nella sua struggente lettera al suo
antico maestro. Il senso del teatro è nell’umano. E l’essere umano non è
puro. È altezza estrema ed estrema bassezza insieme, e così il teatro deve
essere alto e nel contempo contenere in sé l’infame e l’indegno. Come la
vita dell’uomo. Un teatro senza la sua merda sarebbe un diamante, brillante
e perfetto, ma senza vita. Perché per dirla con De André, dai diamanti
non nasce niente, è dal letame che nascono i fiori.
125/PALCHI
Lucca. Piazza Anfiteatro
Foto di Marcello Francone
LA CITTÀ E I SUOI SEGNI
ALESSANDRO PERTOSA
Di soglie che aprano,
che spalanchino sguardi.
Di spazi che si sappiano
abitare. Perché è
questo il punto: si smette
di abitare e si finisce
per risiedere.
E a forza di risiedere,
hai dimenticato che
abitare è un gesto
comunitario.
Le città sono luoghi densi di significati, di parole, di segni che si sedimentano
nei secoli e ne costituiscono l’essenza, l’identità. Ogni corso, ogni piazza,
ogni angolo racconta una storia, evoca immagini gloriose e suscita emozioni.
Il viandante, il pellegrino, oggi sempre più turista, si immerge in un
groviglio di strade, incrocia grumi di gente: occhi su occhi sfuggenti, masse
perennemente in ritardo, di corsa, o spazientite ai semafori: rossi, sempre
più rossi e lenti. Uomini e donne stufi, spesso
angosciati e coi nervi a pezzi. Ma è lì – si
dice – è lì che accadono le cose. È lì che
passa la storia, quella che lascia un segno.
Quella che ti rende immortale. Mentre l’odore
di benzina addosso e le polveri sottili
ti asfaltano i polmoni. E tu finisci per dimenticare
i sapori del giorno, i colori del cielo, il
dolce brillio delle stelle. Però fa niente – ti
ripetono – perché se vuoi farcela, se vuoi
scalare il vertice della piramide sociale,
devi stare lì. Tra catrame e cemento. Lì, nel
tuo appartamento, appartato, separato dagli
altri. Lì dove tutto accade e tu hai pur
sempre un futuro, dicono.
Però, se scavi e vai a vedere tra le pieghe,
in questo panorama urbano così ricco di
opportunità, si cela una contraddizione intrinseca:
la città, pur essendo il cuore pulsante
della vita contemporanea, rappresenta spesso un freno alla novità
creativa. Perché lì in città, lì dove tutto accade, le mode, le tendenze e le
dinamiche sociali dettano legge: l’apparenza e l’omologazione diventano
valori predominanti, e l’innovazione rischia di essere soffocata da un bisogno
costante di uniformità. E poi, per creare c’è sì bisogno di solitudine, ma
128/PALCHI
di una solitudine produttiva. Una solitudine fatta di dialogo con la natura, di
sguardi benevoli: non di separazione e di muri, ma di soglie abbiamo bisogno
per evolvere culturalmente. Di soglie che aprano, che spalanchino
sguardi. Di spazi che si sappiano abitare. Perché è questo il punto: si smette
di abitare e si finisce per risiedere.
E a forza di risiedere, hai dimenticato che abitare è un gesto comunitario.
Rimanda a un linguaggio disperso. E non sembri farci nemmeno caso all’assedio
che ti inchioda fra le mura del tuo appartamento. Anzi, felice d’una
felicità meschina, corri a popolare sempre più le metropoli squadrate, fino
a disperderti nel folto di casermoni ostili, senza accorgerti di aver suicidato
la tua umanità nel pozzo cavo di quei sogni precipitati, ormai densi,
schiantati sul bitume liscio e lurido delle strade infuocate. E ha ragione
Caproni quando scrive:
- C’È PIÙ LIBERTÀ IN CARCERE O IN CITTÀ?
- NON CE N’È LIBERTÀ. È CARCERE L’INTERA CITTÀ…
Ora, si badi bene, è anche importante scindere, precisare, senza voler esprimere
affermazioni definitive. La creatività non è monopolio esclusivo delle
piccole comunità, né si intende qui fare un’apologia del mondo rurale. Ogni
contesto ha le sue peculiarità e le sue possibilità d’esistenza. La città offre
un’ampia gamma di stimoli, certo: incontri e risorse che possono dare origine
a fenomeni culturali di grande impatto. Ma resta il punto: i cambiamenti,
le novità nascono spesso lontano dai riflettori delle metropoli. La provincia,
con i suoi ritmi più lenti e la sua dimensione a misura d’uomo, diventa
il luogo ideale per coltivare talenti e dare spazio a nuove prospettive. Qui,
lontano dalla frenesia e dalle pressioni conformiste dei grandi centri, l’individuo
trova spesso maggiore libertà di sperimentazione e innovazione. E
allora, nel nostro tempo, abitiamo il paradosso di una civiltà urbana, che
trae linfa e vita dalla periferia più lontana.
129/PALCHI
#album
GIANFRANCO GARAVELLI
130/VISIONI/album
MILANO IN MOVIMENTO:
ISTANTANEE
Nel cuore pulsante di Milano, città
che ha visto nascere l'avanguardia
futurista, ho voluto catturare
l'essenza stessa della frenesia
e del dinamismo urbano.
Come un moderno interprete del
futurismo, ho trasformato il caos
della metropoli in foto che celebrano
il movimento, la velocità e l'energia
inarrestabile della vita cittadina,
riprendendo tutti i capisaldi
dell’arte futurista, auto, aerei,
treni, qualunque cosa esprimesse
l'animazione, il traffico, il viavai.
Camminando per le strade trafficate
di Milano, ci si immerge in un mondo
di azione costante. Le fotografie
hanno catturato istanti fugaci di
gente che cammina veloce, tram
che sfrecciano attraverso le vie della
città, e aerei che solcano il cielo
sopra la testa degli abitanti. Ogni
scatto è un tributo alla frenetica
coreografia della vita urbana, un'ode
alla bellezza effimera dei momenti
che sfuggono troppo in fretta.
La Stazione Centrale di Milano
diventa un palcoscenico per le
composizioni, dove le persone si
muovono come attori in una pièce
teatrale urbana. L'incessante flusso
di viaggiatori, l'odore del caffè
appena macinato e il suono delle
voci che echeggiano tra i binari
si fondono insieme, creando un
ritratto vivo e vibrante della stazione
ferroviaria più famosa d'Italia.
Anche le fermate della
metropolitana diventano un luogo
di ispirazione, con l'energia pulsante
dei passeggeri che scendono
e salgono le scale, immersi nei
loro pensieri e nelle loro vite
affaccendate. Ogni immagine
è una finestra aperta sulla
complessità della vita urbana, un
riflesso delle molteplici sfaccettature
di una città in costante evoluzione.
Attraverso queste foto istantanee,
invito a riflettere sulla natura stessa
della modernità.
Milano, con la sua vitalità, diventa
un perfetto palcoscenico di temi
futuristi, che ho provato a
catturare come l'essenza stessa
di questa metropoli in continua
trasformazione.
In conclusione, queste foto sono
molto più di semplici immagini;
sono testimonianze visive
dell'energia di Milano, città che
continua a ispirare e affascinare
generazioni di artisti e pensatori.
Attraverso questo lavoro, vorrei
portare il pensiero che anche
nel delirio cittadino c'è bellezza
da trovare e apprezzare, se solo
abbiamo occhi per vederla.
131/VISIONI/album
132/VISIONI/album
133/VISIONI/album
134/VISIONI/album
135/VISIONI/album
136/VISIONI/album
Gianfranco Garavelli è da decenni
un'eccellenza nel mondo
dell'informatica (è consulente
certificato Apple, e docente ACMT),
ma è il suo lato più analogico e
poetico a definirlo.
Nasce infatti come disegnatore,
e la passione per la fotografia e per
l'arte tutta modellano il suo percorso,
che approda agli scatti istantanei
in contrapposizione al bulimico
mondo digitale in cui ci troviamo.
L'ultima collettiva alla quale ha
partecipato è stata Auto-ritratto #3,
Firenze, Onart Gallery, nel maggio
2023. www.instax240.com
137/VISIONI/album
LA VOLUMETRIA
IMPOSSIBILE
Architetture impossibili,
disegno, 2014 © Paola Ricci.
La città si sviluppa e sottende
alla possibilità di realizzare un
agglomerato autonomo ma
anche imprevedibile, dalle forme
e le volumetrie che rimandano a
stilemi antichi non avulsi.
138/VISIONI
PAOLA RICCI
L’espansione a cipolla: bellezza e fluidità tra le costruzioni storiche
e quelle contemporanee
La città è un contenitore, che racchiude ciò che è svelato ma anche nascosto.
Quest’opposizione è data da una conformazione intrinseca della città
che può apparire come i diversi strati di una cipolla: ogni livello fa aumentare
il volume, il centro è il punto da cui rivivono la foglia e la pianta.
Ciò che sorge dal centro della città sono le forme dell’architettura in cui
niente è effimero o di volatile apparenza. Sono le costruzioni primigenie e
tutto sembra di una serena essenzialità, gli edifici sono inizialmente costruiti
in una geometria che può svelarsi asettica ma poi il tempo rivelerà, attraverso
una documentazione quasi da antropologo, che il mutamento è
avvenuto anche nel paesaggio circostante.
Renzo Piano, quando parla dell’architettura, la definisce un’arte che ha il
compito di costruire edifici, quindi di assolvere ad una funzione concreta.
Potrebbe allora esistere un’architettura impossibile in città? Immaginare
cioè edifici che sembrano inattuabili, che sembrano poter essere solo pensati
e disegnati e inserirli nel tessuto cittadino?
Ideare costruzioni impossibili, attraverso disegni avveniristici, e poi cercare
le soluzioni di calcolo e statica necessari alla costruzione può apparire
come un discorso effimero di concetti contrastanti, invece sarà la nuova
frontiera dell’architettura.
Rendere belle le varie parti della città è importante: ricevere stimoli positivi dal
luogo trasformato migliora il viverci. Questa idea dovrebbe essere alla base di
ogni progetto, per ricordare come l’incanto ci nutra e ci serva per stare meglio.
La città dovrebbe essere liberata dalla sola funzione di contenere case
concepite come spazio protettivo. Trattare il centro storico soltanto come
un contenitore di necessità sociali può provocare un distacco dalla storia
e far dimenticare l’importanza di una bellezza cittadina: intervenire sull’urbanistica
dei centri storici è un’azione delicata che ha bisogno di conoscere
perfettamente l’evoluzione che la città ha subito nel tempo; occorre
sfogliare i diversi strati della cipolla senza che ogni livello sia eccessivamente
distanziato dal precedente e dal successivo. La cipolla va aperta e tenuta
compatta nello stesso tempo e quindi, forse, le architetture impossibili
139/VISIONI
Architetture impossibili,
disegno 2014 © Paola Ricci
sono quel che serve per creare costruzioni che segnino i passaggi tra una
forma e l’altra e tra i volumi, che rilascino un pensiero emotivo. Allora lo
spazio manifesterebbe il senso dell’evoluzione e non risponderebbe ad un
sistema convenzionale; l’intervento dell’architetto e dell’urbanista può così
diventare l’avvio di una rivoluzione mentale costruttiva che non ha tempo.
“LA MIA ARCHITETTURA NON È CONCEPITA PER PIANI,
MA NELLO SPAZIO. DI UN EDIFICIO NON PROGETTO I PIANI,
LE FACCIATE, LE SEZIONI. PROGETTO GLI SPAZI. PER
QUANTO MI RIGUARDA, NON ESISTE ALCUN PIANO TERRA,
PRIMO PIANO, ECC. … PER ME, ESISTONO SOLTANTO SPAZI
CONTIGUI, SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ, STANZE,
ANTICAMERE, TERRAZZE, ECC. I PIANI SI FONDONO E GLI
SPAZI SI RELAZIONANO GLI UNI CON GLI ALTRI.”
Adolf Loos
Lo spazio è il riassunto del tempo e un’architettura per la città non dovrebbe
concentrarsi solamente sull’efficienza, ma esplorare come il luogo di un
edificio dialoghi anche con lo spazio di quello attiguo come fosse un suono
che si amplifica e poi si assottiglia.
140/VISIONI
Impossible Drawing -
Impossible Architecture
©Paola Ricci
Quando la linea sviluppa
volumetrie che appaiono
impossibili.
“L’ESPERIENZA SPAZIALE PROPRIA DELL’ARCHITETTURA
SI PROLUNGA NELLA CITTÀ, NELLE STRADE E NELLE
PIAZZE, NEI VICOLI E NEI PARCHI, NEGLI STADI E NEI
GIARDINI, OVUNQUE L’OPERA DELL’UOMO HA LIMITATO
DEI VUOTI, HA CIOÈ CREATO DEGLI SPAZI RACCHIUSI”
Bruno Zevi
Insistere con queste configurazioni abitative chiuse, dove il vuoto non è
trattato come elemento importante nella progettazione, conduce solamente
alla creazione di scatolette poste su un ripiano in modo ordinato. Nello
spazio vuoto c’è l’aria, il vento, l’acqua e tutto ciò non ha limiti, è l’architettura
che gioca con questi elementi e costruisce il vuoto.
Studiare le realtà rurali permette di comprendere come le mutazioni che la
città ha subito nel tempo sono a loro volta instabili. Il vuoto si è reso disponibile
a essere modellato, le strade sterrate sono state trasformate nei secoli
in super vie di collegamento, con metropolitane sotterranee e continue sovrastrutture
che, se non trovano spazio, si sovrappongono fino ad innalzarsi.
Ci sono film che ci ricordano l’urbanistica del passato, ad esempio Sergio
Leone per C’era una volta in America ha cercato a lungo la giusta location in
luoghi che avessero mantenuto un’integrità architettonica storica, in Ameri-
141/VISIONI
Tiksi. Idea di progetto Caverna
Capovolta, disegno e foto
©Paola Ricci
Tiksi. Idea di progetto Caverna
Capovolta, disegno ©Paola
Ricci
Tiksi. Idea di progetto Caverna
Capovolta, foto ©Paola Ricci
Tiksi. Idea di progetto Caverna
Capovolta, disegno ©Paola
Ricci
Vedendo questa città a me
sconosciuta, ho pensato ad un
progetto ispirato ai disegni di
scultura abitativa intitolato La
caverna capovolta,
presentato all’Omi
International Arts Center
di Hudson Valley (New York,
USA) nel 2009. Il ritrovamento
di una dimensione interiore ed
emotiva lascia immaginare
architetture innovative e
futuribili: proiezioni
multicolore sulle case in
demolizione, pareti dipinte su
quelle in costruzione; soluzioni
per “famiglie allargate” e per
l’isolamento, con navicelle
situate sopra e sotto la
superficie del terreno.
ca ma anche in Florida, fino agli studi di Cinecittà in Italia. E ci sono film come
Blade Runner, che al contrario, hanno un’ambientazione proiettata al futuro
(che nel 1982 era il 2019). La storia si svolge in una Los Angeles avveniristica
e Ridley Scott sceglie di usare set di architettura industriale antica come il
Bradbury Building del 1896, la Union Station in South Alameda Street, aperta
nel 1939, ed Ennis-Brown House, ideata da Frank Lloyd Wright nel 1924.
Colpisce come il futuro architettonico possa essere immaginato attingendo
dall’architettura del passato e lo stesso trascorso rimanga preservato
nel contemporaneo della città. La doppia valenza di profili architettonici del
passato è data da come sono stati realizzati gli edifici: se coerenti col tempo
oppure se integrati in un pensiero non convenzionale.
La riflessione avveniristica è allora vicina al concetto dell’impossibile?
Le forme impossibili nascono in realtà dalla possibilità dello sguardo umano
di immaginare una particolare configurazione in un ambito cittadino del
presente, uno schema rivolto a un modello dove la struttura costruita sembra
stravagante, cioè che divaga, esce dai limiti, dalla consuetudine.
“GUARDARE ALLA SEZIONE DI UN QUALSIASI PIANO
DI UNA GRANDE CITTÀ È COME GUARDARE QUALCOSA
DI SIMILE ALLA SEZIONE DI UN TUMORE FIBROSO.”
Frank Lloyd Wright
Questa frase espone un punto di vista certamente inconsueto.
La terra di scambio: uno spazio vuoto tra le città
e un’architettura di relazione
I greci chiamavano gli uomini oi brotoi (oι βροτόι), i mortali e gli animali ta
zoa (τα ζῶα), i viventi, perché ritenevano che soltanto gli uomini avessero
coscienza del morire, e avvertissero la fugacità della loro permanenza sulla
terra. Questa fugacità è sicuramente una delle spinte che portano a
progettare e realizzare opere impossibili, come se la sfida possa prolunga-
142/VISIONI
re la nostra permanenza sulla terra dopo la morte. Lo sviluppo di un pensiero
per una città visionaria accede a quella profondità emotiva di perdere
il controllo delle azioni, il segno dello schizzo di case e sviluppi
urbanistici sembra fluttuare sulla carta senza nessun ancoraggio ben preciso
ma non toccare il fondale del mare aperto è forse l’unica condizione
per avere un autentico pensiero alternativo.
Abbiamo visto come uno sviluppo costruttivo e di urbanizzazione di una
città comporti molto spesso un allargarsi da un fulcro centrale a raggiera,
senza riuscire a definire un confine preciso tra urbanizzazione e distese
abbandonate. Esiste, come dire, uno spazio di mezzo tra la città e il successivo
nucleo cittadino. Nel passato sicuramente vi era una demarcazione
del terreno di proprietà abbandonata alla natura che divideva le diverse
città attraverso boschi, laghi, fiumi, distese di campagne, deserti. Ora quello
spazio vasto è stato prosciugato e le città sono attaccate senza un’interruzione,
senza una pausa e l’occhio non si riposa non vede differenze, si
adatta a una continuità a dir poco noiosa. Potremmo chiamarla mancanza
di terra di scambio.
Per ritrovare questi spazi di confine occorre viaggiare verso luoghi dimenticati
o sconosciuti, immaginarsi una terra estesa, dove non vi siano indicazioni
dell’inizio di una città e poi di un’altra. La natura grandiosa può essere
un diverso contraltare. Non lasciare uno spazio di mezzo libero tra città e
città significa non stabilire un posto per elaborare un’architettura impossibile,
qualcosa d’inaspettato che ha bisogno di aria e al contempo funga da
raccordo.
L’essere viaggiatore è stato sempre fonte di ricchezza per l’uomo visionario
che crea parallelismi formali e configurazioni architettoniche attinte dai
vari luoghi visitati. Così l’Egitto lo ritroviamo nella Roma antica, ora incastonata
nella metropoli moderna. La forma dell’obelisco, simboleggiante il Dio
del Sole Ra, si trova nel centro di Roma con la sua linea protesa verso il
cielo. L’Obelisco della Minerva, ritrovato casualmente nel 1665, non si sa
come e quando, fu trasportato dall’Egitto a Roma, posizionato alle spalle del
143/VISIONI
Chanel Mobile Art Pavilion,
Zaha Hadid, Parigi.
Foto ©Paola Ricci
Pantheon e in seguito dotato del basamento a forma di elefante forse ispirato
ai lavori del Bernini. Dalla piazza della Minerva è affascinante porsi
davanti all’obelisco e vedere in fondo il Pantheon, la struttura architettonica
cilindrica è inserita tra gli altri edifici, da questo punto di osservazione
la cupola racchiude la cattura della spinta verticale dell’obelisco verso il
sole e la parte esterna retrostante del Pantheon mostra la circolarità che
si ritrova all’interno.
Ecco che essere viaggiatori nel passato ha determinato la realizzazione di
architetture in cui gli stilemi si sono mescolati, comportando una trasformazione
per la città, rendendola particolare; mescolare e tenere a stretto
contatto forme architettoniche completamente diverse sono il risultato di
un’urbanizzazione impossibile, imprevedibile, visionaria.
L’uomo allora ha di fronte la presenza simultanea di due diverse possibilità
emotive: sentirsi parte in una città multiforme e punteggiata di “vuoti”,
oppure volersi circoscrivere in un luogo chiuso. Un piccolo agglomerato di
poche case, una metropoli o un’unica abitazione possono essere il luogo di
uno spazio elastico che si allunga e si restringe in base al reale rispetto che
144/VISIONI
l’uomo mantiene verso la natura. Dopo aver costruito la città l’uomo deve
anche permettere alla comunità di trovarvi un senso di accoglienza, allora
lo spazio sarà pensato in modo che le dimensioni cementificate comprendano
anche lo spazio “vuoto” e lo spazio di relazione. Le zone di frontiera
sono ad esempio luoghi dove si confrontano popoli diversi; sono territori
affascinanti dove possono avvenire incontri e nascere comunità, altre volte
purtroppo sono luoghi di scontro e di guerre come avviene nelle periferie
o nelle favelas.
Kenneth Frampton, famoso architetto, si chiede se le costruzioni delle periferie
delle città e delle zone della favela dove vive la gente povera, sono
anche queste da considerarsi architettura.
I luoghi periferici diventano spazi che vanno osservati come specchio di
problemi sociali, demografici, politici ed economici. L’architettura qui è limitata
ed impotente, incapace di agire davanti a questi aspetti. Occorre
richiedere agli architetti di avere presente quest’accadimento, occorre “uno
spazio pubblico di aspetto”, come diceva la filosofa Hannah Arendt.
Yvonne Farrell e Shelley McNamara, curatrici della Biennale di Architettura
del 2018, hanno espresso la motivazione illuminante che ha decretato il
Leone d’oro alla carriera a Frampton: “Attraverso il suo lavoro Kenneth
Frampton occupa una posizione di straordinaria intuizione e intelligenza,
combinata con un senso d’integrità unico. Si distingue come la voce della
verità nella promozione dei valori chiave dell’architettura e del suo ruolo
nella società. La sua filosofia umanistica, in relazione all’architettura, è radicata
nella sua scrittura e ha costantemente argomentato questa componente
umanistica attraverso tutti i vari ‘movimenti’ e tendenze dell’architettura,
spesso fuorvianti, nel XX e XXI secolo”. Quest’aspetto di umanità
Padiglione Australia/
Grasslands Repair. Biennale
Architettura 2018. FREESPACE.
Foto ©Paola Ricci
145/VISIONI
applicato al pensiero architettonico è di difficile trascrizione nella realizzazione
di volumi costruttivi, però è un elemento importate da tenere presente
anche nel discorso di realizzare un‘architettura impossibile, perché
non deve essere solo la sovrabbondanza o l’eliminazione degli elementi
costruttivi che determina l’essere visionari, il senso umanitario deve bilanciare
e sottendere all’essere imprevedibili.
Nelle trasformazioni architettoniche di luoghi apparentemente abbandonati,
posti in zone remote, occorre tutelare la connessione emotiva tra natura
e sviluppo abitativo. Portiamo l’esempio della città di Tiksi, collocata in
zona portuale, che si trova sul punto più a nord della Russia. La città è
stata fondata nel 1933. In epoca sovietica era considerata come il luogo più
promettente. Nel corso del tempo la gente si dirigeva lì per la vita romantica
e con stipendi piuttosto buoni. I tempi sono cambiati, il mondo è mutato,
e Tiksi si è modificata, non conserva più i resti della gloria sovietica,
basta dare uno sguardo agli edifici: le case, rimaste senza i proprietari, sono
andate deteriorandosi sotto la pressione del tempo e del clima freddo artico.
La speranza è che Tiksi sia diversamente ricostruita nel prossimo futuro
perché si prevede che quel territorio assuma sempre più importanza
per via di un nuovo sviluppo delle rotte verso il nord, unitamente ad una
trasformazione dovuta al riscaldamento globale. Si è considerato, in un
progetto chiamato La caverna capovolta, di proiettare immagini sulle pareti
delle case, in fase di demolizione, disegni colorati che cangiano durante il
giorno e la notte, quasi a moltiplicare paesaggi e riflettere le luci di aurore
boreali continue. Si è ipotizzato di costruire abitazioni simili a palafitte sospese
che avranno spazio tanto per isolarsi ad ascoltare la propria anima,
quanto per la coabitazione: le case saranno progettate come abitazioni di
“famiglie allargate”, riconoscendo che nell’esilio planetario della globalizzazione,
tutti gli stranieri sono residenti.
La progettazione di opere architettoniche prevede la consapevolezza che
lo spazio occupato dagli edifici sia un campo fluido dove l’uomo possa percepire
le diverse altezze, quelle storiche con quelle moderne. Amalgamare
146/VISIONI
DNA Design and Architecture.
Repubblica Popolare Cinese.
Biennale Architettura 2018.
FREESPACE. Foto ©Paola Ricci
Gumuchdjian Architects. Gran
Bretagna. Biennale
Architettura 2018. FREESPACE.
Foto ©Paola Ricci
Kazuyo Sejima + Ryue
Nishizawa/ Sanaa Giappone.
Biennale Architettura 2018.
FREESPACE. Foto ©Paola Ricci
la città antica con quella contemporanea è il compito degli architetti e degli
urbanisti di oggi. Zaha Hadid ha dichiarato a proposito del suo progetto del
Mobile Art Pavilion a Parigi: “Penso che attraverso la nostra architettura,
siamo in grado di dare alle persone l’assaggio di un altro mondo, e coinvolgerle
rendendole entusiaste delle nuove idee. La nostra architettura è intuitiva,
radicale, internazionale e dinamica. Siamo attenti alla costruzione
di edifici che evocano esperienze originali, una sorta di stranezza e novità
che è paragonabile all’esperienza di andare in un nuovo paese. Il Mobile Art
Pavilion segue questi principi d’ispirazione”. Quello che traspare in questo
lavoro della Hadid posto di fronte all’Istituto del mondo arabo a Parigi progettato
dall’architetto Jean Nouvel, è l’imprevedibile effetto visivo del contenitore
e del suo contenuto. La sensualità della forma è data dal corpo che
rasenta la scultura. È il risultato di studi di modellazione digitale che danno
maggiore logica all’aspetto fluido della progettazione architettonica che
confluisce nel mondo biologico, come quando si osservano organismi al
microscopio, che disconosce la serialità che la contraddistingue nell’elaborare
l’architettura industriale del XX secolo.
Funzionalità, natura e benessere
Ritornando al discorso iniziale del senso di protezione che una città dovrebbe
emanare rispetto al vivere in un luogo isolato, è essenziale capire quale sia il
ruolo dell’architettura. Le città si espandono continuamente e questo non è
sempre un elemento deplorevole, quello che conta è cosa regoli questa
espansione. Non può esserci un proliferare selvaggio di costruzioni, il pensiero
architettonico deve lavorare nella direzione del benessere coesistente
dello spazio pubblico e privato. Se pensiamo alle periferie delle nostre città
dove si sono costruiti solo ampi volumi abitativi e non si è pensato ad uno
spazio pubblico di raccordo, si comprende come sia necessario che architetti
ed urbanisti riflettano su una progettazione più visionaria e legata alla funzionalità,
alla bellezza e all’appagamento, più che sulla mera fenomenologia
dello sfruttamento dello spazio che l’istituzionale spesso spinge a realizzare.
147/VISIONI
Dorte Mandrup. Biennale
Architettura 2018. FREESPACE.
Foto ©Paola Ricci
Le già citate Yvonne Farrell e Shelley McNamara sono state le vincitrici
del Premio Pritzker per l’architettura nel 2020 e del RIBA Stirling nel 2021
per il progetto della Town House, il nuovo edificio polifunzionale per la formazione
superiore della Kingston University di Londra. Secondo la dichiarazione
della giuria, la Town House “favorisce sapientemente lo spirito di
apprendimento e il valore di coesione della comunità”. A nome della giuria,
il presidente Lord Norman Foster descrive questo edificio come “un teatro
per la vita ... [in quanto] riunisce in una soluzione di continuità spaziale le
comunità degli studenti e la cittadinanza, creando un modello innovativo
per l’istruzione superiore”.
Questo duo di architetti ha posto molta attenzione allo spazio, alla natura
e al desiderio di svolgere un’azione pedagogica con le nuove generazioni,
comprendendo che se non si trasmettono i principi e le metodologie ai
giovani, si perde la storicità di ogni passaggio epocale, di ogni cambio di
visione estetica che avviene.
Il tema della Biennale di Venezia del 2018 è stato FREESPACE e l’idea del
titolo si basava su alcuni concetti chiave:
-LA QUALITÀ DELLO SPAZIO.
-L’ARCHITETTURA CHE SI PONE DI DONARE SPAZI LIBERI,
ANCHE IN QUELLO PRIVATO.
-ENFATIZZARE I DONI GRATUITI DELLA NATURA.
-LA LUCE DEL SOLE.
-L’ARIA E LA FORZA DI GRAVITÀ, L’ACQUA.
-LE RISORSE NATURALI E QUELLE ARTIFICIALI.
148/VISIONI
Questo perché costruire architetture che attingono a un’idea di Impossible
Drawing può essere una nuova frontiera di pensiero sinestetico e questi
concetti chiave sono importanti per sviluppare idee laterali e non convenzionali,
per costruire nuovi profili architettonici che realizzino un’urbanizzazione
innovativa in cui la pariteticità tra natura e uomo sia preponderante,
in cui contemplazione e rispetto della natura siano requisiti
fondamentali.
Quando Yvonne Farrell e Shelley McNamara dicono: “CONSIDERIAMO
LA TERRA IL NOSTRO CLIENTE”, riescono in pieno a racchiudere la
semplicità e nello stesso tempo la complessità del problema sollevato, perché
si tratta di un processo di difficile attuazione e che non accetta sviluppi
improvvisi.
La natura è la manifestazione comprovata che ha ispirato molti architetti e
urbanisti per costruire città ed abitazioni; molti studi hanno evidenziato come
la semplice nervatura di una foglia, la disposizione dei rami sugli alberi o la
formazione di vortici nell’acqua, la struttura interna delle conchiglie e altro sia
stato ripreso dagli architetti per realizzare opere costruttive. Una perfezione
matematica interna che, se imitata, elimina la necessità di forme sovraccariche
e strutture ridondanti che partono dai principi metafisici dell’uomo.
I piani ondulati o curvilinei, il senso del “tra”, delle situazioni intermedie,
delle progressioni lente, del movimento, sono tutti elementi della nuova
architettura che richiamano il ritmo e le azioni della natura.
L’effetto della curvatura è ottenuto anche realizzando la modulazione di
un unico elemento che si trasforma come, per esempio, nel progetto dello
studio di Dorte Mandrup dell’Icefiord Centre a Ilulissat. La struttura è in
legno ed è progettata come una capriata che collega il paesaggio aspro
“tra” due punti distanti, fluttua leggermente sopra di esso, curvando oltre il
bordo della valle di Sermermiut, offrendo una vista spettacolare e indisturbata
sulla valle e sul ghiaccio. La struttura è coperta da una passerella di
legno curvata leggermente e inclinata.
La forma curva è la forma organica per eccellenza, il museo Guggenheim di
Bilbao, progettato dall’architetto statunitense Frank O. Gehry, ne è un esempio
emblematico: non esiste una sola superficie piana in tutta la struttura.
Quello di Gehry è stato un modello di difficile assimilazione, era una stravaganza
d’inusuale posizione nel tessuto cittadino, un’architettura tondeggiate,
più costosa di quella lineare risultava superfluo, ma questo è il senso
della visione, queste sono le architetture impossibili che i geni dell’architettura
rendono possibili.
Il Guggenheim di Bilbao ha la peculiarità di apparire diverso a seconda del
punto di vista: dal fiume richiama una nave, i pannelli brillanti sembrano le
squame di un pesce, mentre visto dall’alto assomiglia ad un fiore. La possibilità
di utilizzare sistemi di simulazioni computerizzate ha dato modo di
149/VISIONI
Croazia-Cloud Pergola/The
Architecture of Hospitality.
Biennale Architettura 2018.
FREESPACE.
Foto ©Paola Ricci
Padiglione Italia. Mario
Cucinella Architects. Biennale
Architettura 2018. FREESPACE.
Foto ©Paola Ricci
realizzarlo come lo vediamo, è il prodigio della tecnologia e del progresso
che permettono di realizzare anche l’irrealizzabile, come appunto le architetture
impossibili.
Lo scarto tra tempo storico e futuro tecnologico apre nuovi orizzonti e
permette di progettare qualcosa d’innovativo, ma allora ciò che è ritenuto
impossibile nel passato ha in seno la possibilità di essere realizzato in un
futuro prossimo, e la volontà umana parallela allo sviluppo tecnico consente
di realizzare l’impensabile, discutendo anche l’eventualità di un’economia
architettonica impegnativa.
Frank Gehry, ritenuto un architetto del decostruttivismo moderno, è fra chi
è riuscito a realizzare edifici del presente che ci proiettano direttamente nel
futuro, avvicinandoci concretamente all’idea delle architetture impossibili.
Egli mostra come le forme non debbano essere per forza geometriche per
essere realizzate, la materia è mobile e le proporzioni possono essere ricalcolate,
questo abbraccia contemporaneamente l’audacia e il funzionamento.
E l’audacia per essere compresa deve andare a toccare l’emotività
visiva. Gehry definisce i suoi lavori delle sculture abitabili, modellando materiali
non convenzionali come il titanio, il vetro ed il legno curvato, mantenendo
costante il dialogo con lo spazio circostante: è molto importante che
questi edifici mantengano un dialogo con le costruzioni circostanti e diventino
luoghi di unione sociale e non spazi avulsi dalla comunità della città.
150/VISIONI
Conclusioni
Dall’espansione estrema delle città che aumentano di volume come una
cipolla, ragionando sulla necessità di recuperare terre di mezzo e dialogo
con la natura, vedendo come sia fonte di benessere l’uso di un’architettura
di raccordo tra un passato storico e le possibilità tecniche e tecnologiche
del futuro, vediamo come la realizzazione di architetture impossibili dipenda
dalla capacità visionaria di mettere insieme tutti questi elementi da
parte di alcuni architetti.
È la “non-architettura” del decostruttivismo che apre un orizzonte interessante
nel panorama della città. Senza geometria sembra che l’architettura
non possa esistere e si sfaldi, invece evidenzia la plasticità dei volumi e una
nuova visione dello spazio architettonico. Le opere sembrano instabili con
frammenti che si sovrappongono, volumi deformati e tagli nella materia,
asimmetria e apparente perdita di canoni estetici. Decostruire quello che
è costruito è il pensiero filosofico, è il risultato, è un’architettura, dove l’ordine
sta col disordine.
Sarà il tempo a determinare cosa è l’architettura nelle città attuali se ha
creato dei salti futuribili o ha realizzato qualcosa per cui è tornata a stilemi
antichi, quello che è certo è che avere un pensiero laterale che porti a pensare
e disegnare delle architetture impossibili determina quel balzo in avanti
tra tecnologia e visione emotiva delle città che abiteremo.
151/VISIONI
152/VISIONI
Queste immagini sono il risultato di
una ricerca condotta da Paola Ricci
durante una residenza artistica
presso il Vermont Studio Center
nell’anno 2016.
Trasferita al centro su invito da
parte del comitato scientifico del
Vermont Studio Center per una
residenza di un mese, Paola realizza
diversi progetti nello spazio a sua
disposizione: una stanza ampia dove
il silenzio e la vista su un paesaggio
autunnale permette di trovare forme
espressive di cui rimangono
passaggi di ricerca che stanno tra lo
sguardo rivolto al passato, a
realizzazioni degli anni 2000, e
quello invece rivolto al futuribile.
I muri bianchi ispirano disegni a
grafite di grosse dimensioni, transitori
perché poi rimossi ridipingendo di
bianca pittura per il nuovo artista che
andrà ad occupare lo studio.
La ricerca verte sulle città
immaginate in dialogo con la
realizzazione di edifici inattesi e
sorprendenti. Il disegno elabora sul
piano bidimensionale e poi prende
volumetria con la carta consolida.
Allora perché parliamo di volumetrie
impossibili, dato che si può passare
dal disegno a una realizzazione
tridimensionale?
Il concetto di impossibile è legato in
realtà al pensiero che tale creazione
non possa trovare spazio in una città
o trovi difficoltà di costruzione.
Diventa una sorta di dubbio
iperbolico della materia
architettonica, qui plasmata da
semplici dita che muovono la carta
bianca e la inanellano unendola in
punti diversi, anch’essi mobili.
Il disegno sul muro è una possibile
narrazione, una visione, poi la
mano modella la carta per definire
i pieni ed i vuoti, ed è in questo che
le volumetrie si manifestano, nella
consapevolezza che potrebbero
essere realizzate come nuovi
spazi abitativi e di associazione,
in una città che chiede sempre
nuove espressioni edificabili che la
raccontino.
153/VISIONI
Hundertwasserhaus
e la città felice
MARTA SILENZI
Friedensreich Hundertwasser è
un artista, cioè una persona che
esprime i propri pensieri e le
proprie ideologie in forma d’arte.
Friedensreich Hundertwasser è
un artista, un ecologista ed un
“medico-architetto”, le tre sfere
sono saldamente legate e ogni sua
produzione è pittura, propaganda
e progetto.
Rientra tra le schiere di personaggi
“allergici all’uniformità del mondo”
(pensiamo a Marcel Duchamp,
John Cage, Joseph Beuys), che si
sono opposti ai grandi movimenti
conformisti per proporre visioni
intuitive, libere e geniali.
Sin dagli esordi la sua condotta
prevede happening, letture
manifesto, performance, affiancati
da produzione pittorica o grafica
(oli, acquarelli, locandine,
francobolli), tutto per muovere
le coscienze e stimolare le visioni,
ampliare gli orizzonti di quanti
si erano fermati al razionalismo
e non concepivano più il diritto
alla bellezza individuale, difforme.
Stiamo parlando dell’Austria dagli
anni settanta in poi e di una vera
opposizione alla linea retta, che
Hundertwasser ingaggia con l’aiuto
di un impresario altrettanto geniale
come Joram Horel ed esporta a
tutto il mondo.
Per comprendere quanto l’artista
si propone, basta leggere i titoli
dei progressivi manifesti alla base
delle sue azioni: Sull’ammuffimento
contro il razionalismo in architettura;
Il diritto alla finestra – il dovere
dell’albero; Via da Loos (con
riferimento ad Adolf Loos che
ai primi del novecento si era
rivoltato contro l’eccessivo
decorativismo Jugendstil con
“L’ornamento è un crimine” ed aveva
dato il via ad un dilagante
razionalismo architettonico);
Inquilino albero, La toilette a humus;
I sacri escrementi. L’ideologia
di Hundertwasser è a completo
sostegno dell’individualismo
e del diritto alla decorazione uniti
al dovere ecologico, l’obiettivo
è stabilire un’armonia tra arte,
architettura e ambiente,
intraprendendo al contempo
una necessaria guerra ad ogni
forma di inquinamento.
I primi passi sono le piantumazioni
di alberi sulle facciate dei palazzi
per la Triennale di Milano del ‘73,
evento replicato poi in Austria,
in Germania e a Washington nel 1980
per la Judiciary Square, contro
il nucleare. Il punto di arrivo sono
i progetti architettonici, che rendono
fisica e concreta l’ideologia a lungo
professata.
Hundertwasserhaus è una città nella
città di Vienna, è un azzardo ed un
atto di fiducia che Vienna muove
nei confronti di questo innovativo
artista, attraverso una commissione
totalmente a carico
dell’amministrazione pubblica di
realizzare un’utopia architettonica,
antirazionalista e di aperta sfida
alla linea retta.
All’angolo della Löwengasse
l’architetto fa erigere una sorta
di villaggio verticale in cui ogni
appartamento ha un colore ed un
particolare trattamento esteriore
delle finestre; pur essendo diverso
154/ZONE/note
155/ZONE
qualcosa richiama subito alla mente
il Gaudì di Casa Mila o di Parc Güell,
per via delle linee ondulate e delle
ceramiche colorate; l’ingresso
è accogliente con una fontana
monumentale dal rivestimento in
ceramica ed un porticato colonnato;
in generale tutto appare mosso
ed irregolare, soffitti, pavimenti
e pareti, con largo uso di ceramiche
lucide e mosaici specchianti. Il pezzo
forte è la facciata, decorata da una
serie di terrazze-giardino e balconi
di “alberi-inquilini”, serre, giardini
d’inverno e tetti alberati.
Gli alberi, secondo il monito
professato da Hundertwasser, sono
i migliori inquilini, perché pagano
il loro affitto e il diritto alla loro
presenza nei palazzi con la valuta
dell’ossigeno, della rigenerazione,
della dispensazione di benessere.
Il verde del fogliame si mescola
ai colori degli inserti a piastrelle
e alle cupole a cipolla (una ramata
l’altra argentata) che creano
un legame con la città antica,
con le chiese barocche austriache.
L’edificio viene inaugurato nel 1985
e presenta 50 appartamenti divisi
in 5 gruppi: 8 da 40 mq, 14 da 60mq,
25 da 80mq, due da 117 mq e il più
grande da 150 mq circa. Più 37 posti
auto. Al tutto si aggiunge nel 1991
la trasformazione del vicino garage
Kalke in uno shopping village,
con caffè, librerie e una galleria
di negozi.
Hundertwasserhaus diventa il
simbolo della Vienna postmoderna,
dove le imprese di muratori e
piastrellisti prendono iniziative
creative in fase di costruzione,
dove la domanda degli appartamenti
(sei volte superiore all’offerta)
è limitata dai regolamenti in vigore
in materia di edilizia pubblica,
cioè senza privilegiare i ricchi,
dove si può vivere una vita
qualitativamente migliore.
Ecco che l’architetto diventa
un medico che cura gli edifici
e dispensa felicità.
Dopo Hundertwasserhaus, l’artista
si dedica ad almeno altri 50 progetti
che vanno dalla ristrutturazione
di facciate in base al principio
del diritto delle finestre e del dovere
degli alberi, trasformandolo in
un “designer di esterni” (fabbrica
156/ZONE/note
Rosenthal di Selb, Museo
Rupertinum di Salisburgo, impianto
tessile Rueff di Muntlix nel
Vorarlberg, inceneritore di rifiuti
domestici e cetrale di
teleriscaldamento di Vienna
a Spittelau ecc.) a gigantesche
stazioni termali (La collina ondulata
di Blumau in Stiria) a complessi
residenziali (Nei campi a Bad Soden)
e fiabeschi asili nido (Hedderheim,
Francoforte); fino alla sua terza
presenza a Vienna, dopo la sua casa
e lo shopping village, con la
KunstHausWien, un museo di
4000 mq per esposizioni
temporanee e per la permanente
che consiste nell’antologia dell’intera
opera dell’artista.
Tutte queste costruzioni presentano
i tratti salienti dello stile estetico
e della poetica di Hundertwasser:
la simbiosi con la natura, il colore,
l’apertura alla simbologia e alla
spiritualità priva di ogni
discriminazione, il gusto per la
decorazione sfrenata e spettacolare,
gli elementi moderni mescolati
alle forme del passato, la bellezza
come fonte infinita di felicità.
157/ZONE/note
Nari Ward
Ground Break
28 Marzo - 28 Luglio 2024
Pirelli HangarBicocca, navate
Milano
Harlem wandering.
Cortocircuito geografico
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
158/ZONE/note
COME ARTISTA SONO IL RISULTATO DI CIÒ CHE
AVVENIVA AD HARLEM NEGLI ANNI NOVANTA:
C’ERANO L’AIDS, I BIANCHI CHE FUGGIVANO DAI
CENTRI URBANI, MOLTA POVERTÀ E IL CRACK,
CHE HA LETTERALMENTE SPAZZATO VIA QUESTI
QUARTIERI. POI SONO ARRIVATI I GOVERNI CHE
HANNO INIZIATO A ELARGIRE SOVVENZIONI ALLE
IMPRESE PER RICOSTRUIRE I QUARTIERI. MENTRE
ACCADEVA TUTTO QUESTO, IO ANDAVO NEL MIO
STUDIO E, POICHÉ STAVO FREQUENTANDO UN CORSO
DI LAUREA IN DISEGNO, CERCAVO DI TRACCIARE
SEGNI SULLA CARTA. MA MI SENTIVO FRUSTRATO
E ALLORA HO PENSATO CHE DOVEVO PROVARE
A RACCONTARE CIÒ CHE STAVA ACCADENDO
DAVVERO IN QUEL MOMENTO NEL MIO QUARTIERE.
Nari Ward
“Ground Break”, veduta della mostra,
Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024.
Foto Courtesy l’artista e
Pirelli HangarBicocca, Milano
Foto Agostino Osio
159/ZONE/note
IO CERCO DI METTERE
IN CONNESSIONE LE
PERSONE E DI FARLO
IN PARTICOLARE
ATTRAVERSO
UNO SPAZIO DI
VULNERABILITÀ.
IL CAMBIAMENTO CHE
IO VEDO REALIZZABILE
NEL MONDO E CHE
CERCO DI METTERE IN
ATTO È QUELLO CHE SI
PUÒ INIZIARE CON UNA
PERSONA ALLA VOLTA,
E SPERARE CHE DA
QUELLA SINGOLA
PERSONA, MANO A
MANO, SI PROPAGHI
UNA TRASFORMAZIONE.
ATTRAVERSO UNA
FORMA DI EMPATIA A
CATENA, E TORNIAMO A
QUELLO DA CUI SIAMO
PARTITI. PER OPPORSI
ALLA PAURA, CHE È
L’ALTRA FORZA CHE TU
VEDI COME DOMINANTE.
LA PAURA È L’ELEMENTO
PEGGIORE E PIÙ
PERICOLOSO. E CREDO
CHE SOLO L’EMPATIA
POSSA BILANCIARE LA
PAURA. LA NOSTRA
SOPRAVVIVENZA
DIPENDE DALLA
NOSTRA CAPACITÀ DI
EMPATIA, DI PRENDERCI
CURA DEGLI ALTRI,
COME FACCIAMO IN
MODO NATURALE CON
I BAMBINI, COME LA
NATURA FA FARE CON I
CUCCIOLI.
UN ISTINTO CHE CI
POSSA RIMETTERE IN
RELAZIONE CON
L’ALTRO DA NOI.
SÌ, PER RECUPERARE
UNA CAPACITÀ DI
CURA E PROTEZIONE
DEGLI ALTRI.
Ground come terreno, fondamenta,
break come pausa, ma anche e
soprattutto rottura.
La poetica di Nari Ward indaga da
sempre lo spazio e il tempo e da
questi concetti estrae poesia.
La mostra ripercorre trent’anni di
lavoro e lo fa in ordine non
cronologico, mischiando vecchi
progetti a nuove produzioni,
grandissimi formati che trovano
il giusto respiro nelle Navate
dell’Hangar milanese, mischiati
a opere più contenute ma di
altrettanto impatto emotivo.
Tessuti, metallo, luci.
Sembra di finire dentro a un grosso
contenitore di riferimenti
cinematografici a pellicole che
abbiamo molto amato, ad esempio
She’s gonna have it, o Tetsuo,
il tutto però intessuto in un vortice
di colori morbidi, travolgenti, ma
anche di forti odori giamaicani,
e c’è molto nero di cui sentiamo
il bisogno per far risaltare la luce,
e c’è una persistente nostalgia che
per noi milanesi non è facilmente
collocabile, se non si arriva già
super preparati alla biografia
dell’artista, ma che ben conosciamo
perché Milano è legata a doppio
filo con il sentimento della
nostalgia, pur nel suo modo
Nari Ward
Happy Smilers: Duty Free
Shopping, 1996 (particolare)
Veduta dell’installazione
“Ground Break”, veduta
della mostra
Apollo/Poll, 2017
Veduta dell’installazione
Carpet Angel, 1992
Veduta dell’installazione
The Museum of
Contemporary Art, Los
Angeles Dono di Jennifer
McSweeney in onore di Joan
"Penny" McCall
Pirelli HangarBicocca, 2024
Foto Courtesy l’artista e Pirelli
HangarBicocca, Milano
Foto: Agostino Osio
tutto discreto e intellettuale.
Questo incontro tra il raffinato
capoluogo lombardo e la Giamaica
satura e odorosa, ma anche la
stretta connessione con la New York
più politica, crea in Hangar un
bellissimo corto circuito nel quale
è possibile e plausibile perdersi per
ore. Una visita che necessariamente
richiede il suo lungo tempo, e che
lascia addosso molto, per giorni.
Nari Ward è nato in Giamaica nel
1963, ma ha vissuto e lavorato a
New York fin dai primi anni novanta,
spostandosi negli Stati Uniti all’età di
dodici anni. Noto a livello
internazionale per realizzare
installazioni con materiali di uso
quotidiano, si definisce per questo
motivo “un artista di oggetti trovati”,
frutto del girovagare per Harlem, il
suo quartiere, dove ha fissato la sua
base in una ex caserma dei pompieri
che funge da casa, laboratorio
e inizialmente galleria, e al quale
è profondamente legato nonostante
sia da molti anni abituato ad esporre
ovunque nel mondo.
4000 mattoni rivestiti di lastre di
rame, perline trasparenti, tessuto
argentato, corde che avvolgono
elettrodomestici in disuso come
confortanti bozzoli di insetto, un
160/ZONE/note
pupazzo a forma di pappagallo che
fa da voce narrante, sedie a rotelle,
candele, tende da sole, bottiglie
di soda, manichette antincendio,
una scala antincendio, sale, elementi
domestici, altoparlanti, una pianta
di aloe, PVC isolante, barattoli di
latta, lumini, lacci e punte di scarpe,
vinile, cabine telefoniche,
gommapiuma, pezzi di tappeti,
moquette, viti, sacchetti di plastica,
metallo, carrelli della spesa, bitume,
lampadari, contenitori di plastica,
acciaio, legno, vinile, luci LED, patina
oscurante, stoffe, recinzioni
metalliche, terra, una ruota,
uno specchio, una sedia, orologi,
passeggini, un deambulatore,
pagine di libri, platani e baccalà.
Simbolismo, guarigione,
memorie d’infanzia, culture
meravigliosamente intrecciate.
I suoi sono oggetti che portano
addosso stratificazioni di riferimenti
sociali, storici, affettivi, racchiudono
storie private che si fanno universali.
Il tema del recupero si porta dietro
per Nari un forte aspetto politico,
ed è finalizzato ad affrontare
assieme a noi le tematiche che più
gli sono care: l’identità, le questioni
razziali, la giustizia, il consumismo.
Questa mostra milanese è toccante.
Curata da Roberta Tenconi e Lucia
Aspesi, è stata definita “uno spazio
devozionale e spirituale di scambio
non connotato da simbologia
religiosa e reso tale dalle memorie
collettive”.
L’idea di tempo è scandagliata
attraverso ben 30 opere: sculture
performative, installazioni di grande
formato, queste ultime legate alla
collaborazione con Ralph Lemon tra
il 1996 e il 2000 per la coreografia
Geography Trilogy, per la prima
volta da allora esposte nel contesto
di una mostra d’arte; ma anche video
ed esperienze sonore, che si vanno
ad incastrare alla perfezione con le
altre sculture più piccole, e con l’atto
stesso di esplorare, perdersi ed
emozionarsi dei visitatori.
Nelle navate dell’Hangar sono stati
poi programmati spettacoli animati
da performers e musicisti, come
completamento alle installazioni.
All’esterno dell’edificio è stato
allestita un’insegna luminosa
di cinema, Apollo, per ricordare
l’Apollo Theatre di Harlem, che ad
intermittenza muta nella parola Poll,
sondaggio, collegamento ironico alla
politica attuale intesa come
spettacolo.
161/ZONE/note
MARTA SILENZI
La Barcellona
di Zafòn
“RICORDO ANCORA
IL MATTINO IN CUI
MIO PADRE MI FECE
CONOSCERE IL
CIMITERO DEI LIBRI
DIMENTICATI.
ERANO I PRIMI
GIORNI DELL’ESTATE
DEL 1945 E NOI
PASSEGGIAVAMO
PER LE STRADE DI
UNA BARCELLONA
INTRAPPOLATA
SOTTO CIELI DI
CENERE E UN SOLE
VAPOROSO CHE SI
SPANDEVA SULLA
RAMBLA DE SANTA
MONICA IN UNA
GHIRLANDA DI
RAME LIQUIDO.”
“BARCELLONA
TI ENTRA
NEL SANGUE
E TI RUBA
L’ANIMA ”
Carlos Ruiz Zafòn ha scritto pagine
meravigliose su una Barcellona
gotica, misteriosa e romantica,
sulla quale tempo e intrighi
sembrano aver steso una patina
color seppia che continua a scorrerci
nella mente come una pellicola
storica anche anni dopo la lettura
dei suoi romanzi.
Volendo fare un rapido viaggio
punteggiato dai luoghi salienti
teatro delle sue storie, potremmo
iniziare dal Monumento a Cristoforo
Colombo, dove Daniel Sempere
incontra per la prima volta
l’enigmatico Lain Coubert, che
vorrebbe acquistare la sua copia
de L’Ombra del Vento.
In Carrer de l’Arc del Teatre, piccola
e oscura calle del quartiere Raval,
dovrebbe trovarsi il fantomatico
Cimitero dei Libri Dimenticati, la
sfida è cercare il batacchio a forma
di piccolo diavolo.
Tra Raval e Barrio Gotico i vari
personaggi dei romanzi si
incontrano e muovo sulla famosa
Rambla e a Plaça Reial, nel cuore
del Barrio Gotico abita Clara, la bella
e cieca nipote di Don Gustavo
Barcelò, di cui Daniel è innamorato,
e sempre qui il ragazzo incontra
Fermín Romero de Torres che
diventerà aiutante nella libreria
Sempere e fidato amico.
In Carrer di Santa Ana 27 dovrebbe
trovarsi la Libreria Sempere ispirata
forse ad altre librerie e negozi dei
dintorni che sembrano ricordarla.
Els Quatre Gats nei libri di Zafón
è il posto in cui Daniel incontra il
librario e antiquario Gustavo Barcelò
per chiedergli qualche indicazione
e delucidazione su L’Ombra del Vento
e sul suo misterioso autore Julián
Carax; è un locale storico di fine
ottocento dove s’incontravano
esponenti del modernismo tra cui
Gaudì e Picasso.
El Rei de la Màgia, in Carrer de la
Princesa 11, è un negozio per maghi
molto antico dove entra David
Martín, aspirante scrittore, ne Il gioco
dell’Angelo.
“Le vetrate della porta lasciavano
intravedere a stento i contorni di un
interno cupo e rivestito da tendaggi
di velluto nero che avvolgevano
vetrine con maschere e aggeggi di
gusto vittoriano, mazzi di carte
truccati e daghe con contrappesi,
libri di magia e boccette di vetro
molato che contenevano un
arcobaleno di liquidi con le etichette
in latino e probabilmente imbottigliati
ad Albacete. Il campanello all’entrata
annunciò la mia presenza.”
El Xampanyet è invece un locale
storico dove mangiare tapas e bere
Cava, e dove Fermìn suggerisce
a Daniel di andare per riaversi dopo
un momento scoraggiante del primo
romanzo.
La Chiesa di Santa Maria del Mar,
nominata in diversi libri di Zafòn,
ne Il gioco dell’angelo ha un ruolo
fondamentale per la risoluzione di
uno degli enigmi dell’oscuro volume
Lux Aeterna arrivato tra le mani del
protagonista David Martín.
Plaça de Sant Felip Neri è una
piazzetta che Daniel descrive come
“Una boccata d’aria fresca nel
labirinto delle stradine che
caratterizzano il gotico, nascosta
tra le antiche muraglie romane”.
A Montjuïc si trovano il Cimitero
Modernista dove riposa la madre
di Daniel ed il carcere (all’interno
del Castello) dove vengono rinchiusi
sia Fermín Romero de Torres sia
David Martin.
Nel Tibidabo, la collina più alta di
Barcellona, Zafòn colloca molti degli
incontri tra Oscar e Marina Blau
descritti in Marina. All’incrocio tra
Calle Panamà e Calle Abadesa Olzet
si trova Villa Helius che, nei libri,
è l’abitazione del Conte Pedro Vidal,
mentore di David Martin.
Chi conosce le storie di Zafòn saprà
orientarsi in questo rapido giro
di mappa, chi conosce Barcellona
saprà ritrovarla e guardarla con
gli occhi dello scrittore e dei suoi
personaggi, il primo purtroppo
ormai perduto, gli ultimi per
sempre nostri.
163/ZONE/note
Siena, Il Duomo
Foto di Marcello Francone
FROM VENICE TO SHANGHAI
La galleria d’arte cinese Capsule Shanghai ha aperto
quest’anno a Venezia una nuova sede, Capsule Venice,
alla Fondazione Giorgio e Armanda Marchesani
a Dorsoduro, in occasione della Biennale d’Arte 2024.
Nascosto tra canali e giardini veneziani, questo spazio
crea un affascinante gemellaggio tra le due città
e tra esse e il resto del mondo.
Fondata nel 2016 dall’italiano Enrico Polato, Capsule
sta scoprendo una nuova freschissima generazione di
artisti emergenti cinesi che abbiamo avuto modo
di conoscere attraverso numerose mostre (e altrettante
fiere d’arte) di impeccabile raffinatezza: Manuela Lietti
ne è la curatrice e si muove sapientemente tra loro
con l’intento di valorizzarli, creando nello stesso tempo
sinergie, conversazioni, fil rouge, in un dialogo di respiro
internazionale.
Il sito capsuleshanghai.com ci propone un assaggio di
queste atmosfere, ma sarà interessante osservare dal vivo
come le luci e i riflessi della città veneta, unica al mondo,
sapranno dare risalto alle delicatezze orientali, come
del resto Venezia ha sempre saputo fare nei secoli.
Nel corso dell’estate la galleria inaugurerà Love Dart,
personale di Wang Haiyang, e la personale di Liao Wen.
PRP
165/ZONE/ripostigli
“Nella città c’è un altro palazzo reale. Ci
passo davanti due o tre volte al giorno a bordo
del 19, quando incontro gli studenti nelle loro
pause pranzo accanto agli uffici di Regent Street.
L’altro palazzo è più austero, fatica a stagliarsi
contro il grigio del cielo ma pare a tratti che lo
faccia apposta, che voglia essere discreto. Passeggiando
per Londra quasi puoi dimenticare
che esista: ogni quartiere è un piccolo mondo
centrato su se stesso, riconoscibile dai colori delle
facciate degli edifici, dai vestiti delle persone,
dal cibo esposto nelle vetrine. L’arancio ruggine
di certe traverse di Sloane Square, diventa il
bianco e nero di Belgravia; altrove i mattoncini in
tufo di Canonbury piano piano sfumano sotto gli
acrilici di Shoredicht. Nella city, tra London Bridge
e Southbank, se guardi in alto il centro si sposta
all’altezza delle nuvole. Gli enormi grattacieli
vetrati sorgono tutti vicini, stretti l’uno contro
l’altro come un branco di animali oltremisura che
però hanno paura a stare soli. Qualche anno fa,
per evitare che elicotteri continuassero a sbatterci
contro nel buio, li hanno contornati di luci
rosse, col risultato che se guardi in alto in quella
direzione adesso sembra sempre Natale.
Questo palazzo reale – quest’altro – non è
un palazzo geloso. I suoi parchi sono aperti, si
regalano alla città insieme all’illusione di essere
altrove anche quando non ci si può permettere
di partire. La vista di un autobus rosso tra gli alberi
fitti dei giardini di Kensington è la rivelazione
di un mondo che sembra anni luce lontano, a cui
hai dimenticato di appartenere e al quale con
rammarico dovrai tornare, ma il più tardi possibile.
Chi sei? Come sei arrivato lì? Perché non ti
buttano fuori? Passeggi nei giardini reali, sei un
ospite inatteso e non annunciato.
Soho è soltanto a poche centinaia di metri
da Buckingham Palace. Di giorno il quartiere è
un insieme di strade che collegano Piccadilly a
Carnaby Street, mentre di notte centinaia di insegne
al neon dai colori acidi ti invitano a entrare
dentro i sexy shop e i club sadomaso allineati
l’uno accanto all’altro, come fossero vetrine di
una High Street.
Al numero 28 di Dean Street c’è una placca
blu cobalto che dice che lì, nel palazzo dove
ora c’è un cocktail bar dall’arredo minimal, un
tempo ci aveva abitato Karl Marx con la sua famiglia.
Occupavano due stanze al secondo piano,
dormivano tutti in una sola camera, mentre
nell’altra venivano ricevuti rifugiati politici e rivoluzionari
europei. Da qualche parte in quella
casa, su una piccola scrivania ricavata tra i mobilio
accatastato, il filosofo aveva scritto il primo
capitolo di Das Kapital. Da qualche parte in quella
casa, tra la miseria e il lerciume, erano morti
due dei suoi bambini.
Una leggenda metropolitana racconta di
una serie di attacchi ai danni di quella placca commemorativa.
Il proprietario del locale sottostante
non la voleva tra i piedi: la sua clientela, a suo dire,
era costituita da gente di un certo tipo, e il nome
di Marx li avrebbe fatti sentire meno accolti.
Passeggiare per Soho è anche attraversare
un discorso di classe che si allontana dalla
lotta per avvicinarsi alla farsa e al travestimento.
L’eccitazione dei ricchi si accende nel prendere
possesso di luoghi che non gli appartengono, posti
che un tempo erano scenario della working
class e che oggi sono il loro parcogiochi della
trasgressione. Dall’altra parte della strada, invece,
alla fermata del bus davanti all’ingresso di
Chinatown, un esercito di persone ordinarie
scende dagli autobus a getto continuo, come i
fedeli in piazza San Pietro. Arrivano alla periferia
con i loro vestiti migliori, faranno la fila per il
cocktail più costoso nel club dove una volta è stata
vista Madonna. Non riusciranno a sedersi e le
scarpe faranno male, ma potranno bere dallo
stesso bicchiere di un uomo che ha appena comprato
un appartamento a Myfair. Sarà importante
poter dire di esserci stati, così maledettamente
importante.
Nella grande città l’altro palazzo reale se
ne sta in silenzio. Certe volte lo scorgo oltre il finestrino,
provo un po’ di affetto per quell’edificio
che nei secoli ha accolto a così pochi metri da sé
centinaia di vite sbilenche in fuga da un continente
che aveva chiuso loro le porte.
Altre volte, quando il cielo è particolarmente
scuro, mi chiedo invece se ne sappiano
niente quelle mura dei mondi che gli stanno accanto,
se quel tollerare non sia piuttosto un completo
ignorare ciò che non ha neppure la dignità
di essere riconosciuto.”
OLGA CAMPOFREDA, RAGAZZE PERBENE
OLGA CAMPOFREDA, RAGAZZE PERBENE
“Il disegno intricato delle linee della metropolitana
di Londra ha la forma di una bottiglia
di vino distesa. È una bottiglia che qualcuno
ha lasciato cadere ancora piena, col vino
rosso che però non si è riversato del tutto. È
l’immagine perfetta per raccontare una città
capace di portarti in alto verso stati di ebbrezza
assoluti, ma che poi ti affossa come un vecchio
ubriaco all’angolo di una strada, senza che
nessuno si fermi neppure a guardare. A seconda
della giornata quella bottiglia può essere
mezza piena o mezza vuota.”