WineCouture 11-12/2024
WineCouture è la testata giornalistica che offre approfondimenti e informazione di qualità sul vino e quanto gli ruota attorno. È una narrazione di terroir, aziende ed etichette. Storytelling confezionato su misura e che passa sempre dalla viva voce dei protagonisti, dalle riflessioni attorno a un calice o dalle analisi di un mercato in costante fermento. WineCouture è il racconto di un mondo che da anni ci entusiasma e di cui, con semplicità, vogliamo continuare a indagare ogni specifica e peculiare sfumatura, condividendo poi scoperte e storie con appassionati, neofiti e operatori del comparto.
WineCouture è la testata giornalistica che offre approfondimenti e informazione di qualità sul vino e quanto gli ruota attorno. È una narrazione di terroir, aziende ed etichette. Storytelling confezionato su misura e che passa sempre dalla viva voce dei protagonisti, dalle riflessioni attorno a un calice o dalle analisi di un mercato in costante fermento. WineCouture è il racconto di un mondo che da anni ci entusiasma e di cui, con semplicità, vogliamo continuare a indagare ogni specifica e peculiare sfumatura, condividendo poi scoperte e storie con appassionati, neofiti e operatori del comparto.
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NUMERO 11/12
Anno 5 | Novembre-Dicembre 2024
LA NUOVA STAGIONE DEI BIANCHI
SOLOSOLE POGGIO AL TESORO ILLUMINA LA VIA DI UN MODO DIVERSO DI BERE NEL 2025
Poste Italiane SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI - In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente previo pagamento resi.
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L’importanza del tempo
Quello che state per sfogliare non è l’ennesimo speciale di Natale. In questo
numero che chiude l’anno sovvertiamo la tradizione, accendendo i riflettori
non sull’albero ma sul 2025 ormai alle porte, e soprattutto su un tema decisivo:
l’importanza del tempo. Nello speciale dedicato ai vini bianchi, è una
nuova prospettiva che vi sottoponiamo: una rinnovata visione per una categoria
da sempre “schiava” della performance commerciale che la vorrebbe
figlia della sola stagione estiva, sacrificando così il valore reale di produzioni
che meritano di più. Ma il fattore tempo non è decisivo solo per dare lustro
a una tipologia che ha tutto il potenziale per esplorare nuovi e straordinari
orizzonti, ma anche l’elemento cardine su cui ragionare in un’ottica di consumi
futuri. In questo ultimo periodo, infatti, l’ansia del settore per capire
come intercettare la New Gen di consumatori appare inarrestabile. Ecco,
allora, il moltiplicarsi di ricette pronte all’uso, dal dealcolato ai RTD, panacea
in grado di porre un freno al preconizzato inevitabile declino del vino.
Ma forse, non aiuterebbe di più guardarsi dentro e lasciare tempo al tempo?
Come evidenzia l’ultima indagine Uiv e e Niq Italia dedicata a cosa bevono e
chi sono i consumatori italiani, infatti, sono l’età e la disponibilità economica
i fattori decisivi nell’equazione. E al posto di rincorrere un consumatore
sempre più giovane, forzandolo, non sarebbe più saggio lavorare affinché si
avvicini al vino, proprio come chi l’ha preceduto, attraverso i mille possibili
spunti di fascino e interesse che quest’ultimo ha: da un panorama da sogno al
gioviale suono di una bottiglia stappata. Le cose, poi, verranno, col tempo.
08 Dossier. L’Alsazia Grand Cru dei Domaines
Schlumberger
10 Dossier. La rivoluzione sul Montello
del Manzoni Bianco firmato Montelvini
12 Dossier. Il Collio in bianco secondo
Formentini
SOMMARIO
20 Dossier. Il Soave di Famiglia Castagnedi:
una storia tutta in verticale
23 Dossier. Un Pecorino di montagna
per la nuova sfida in bianco di Velenosi
32 Trade. Un anno in enoteca, tra trend
e New Gen
WINECOUTURE
winecouture.it
Direttore responsabile Riccardo Colletti
Direttore editoriale Luca Figini
Coordinamento Matteo Borré (matteoborre@nelsonsrl.com)
Marketing & Operations Roberta Rancati
Contributors Francesca Mortaro e Andrea Silvello.
Art direction Inventium s.r.l.
Stampa La Terra Promessa Società Cooperativa
Sociale Onlus (Novara)
Editore Nelson Srl
Viale Murillo, 3 - 20149 Milano
Telefono 02.84076127
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www.nelsonsrl.com
Registrazione al Tribunale di Milano n. 12
del 21 Gennaio 2020 - Nelson Srl -
Iscrizione ROC n° 33940 del 5 Febbraio 2020
Periodico bimestrale
Anno 5 - Numero 11/12 - Novembre - Dicembre 2024
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Responsabile dati Riccardo Colletti
Viale Murillo, 3
20149 Milano
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DOSSIER
Solosole
sfida il tempo
La longevità del Vermentino di Bolgheri messa
alla prova in una verticale con Marilisa Allegrini
Sono molteplici i fattori che rendono grande
un vino; s’inizia dal territorio, che se non ha
una sua specifica vocazione poco saprà poi
raccontarsi nel calice; si prosegue col vitigno,
che se non è quello giusto per sposare il terroir,
difficilmente potrà poi condurre a un risultato capace di
emozionare; si conclude con la mano dell’uomo, senza cui
il vino difficilmente troverà la propria identità. È proprio
quest’ultimo, tuttavia, l’ingrediente decisivo della ricetta.
Perché senza la giusta intuizione, mai potrà avvenire la perfetta
combinazione dei differenti elementi. È il 2001 quando
Marilisa Allegrini, Lady Amarone, arriva a Bolgheri, a
Poggio al Tesoro. Lo fa, insieme al fratello Walter, con tanta
voglia di sperimentare e una curiosità che l’ha portata, a distanza
di quasi un quarto di secolo, a poter dichiarare vinta
la scommessa di voler donare un nuovo colore, perfetto per
accendere ogni occasione in tavola e ogni stagione, a questo
angolo vocato di Toscana. “Solosole nasce nel 2004, in
un frangente in cui le aziende della zona guardavano al vino
bianco a Bolgheri optando principalmente per la strada del
blend”, spiega la titolare del gruppo che oggi porta il suo
nome. “Essendo tutte le produzioni a bacca rossa dell’area
basate su varietà internazionali, immediatamente mi sono
orientata sulla scelta di un vitigno autoctono e mediterraneo:
il Vermentino. Da qui ha poi preso il via il progetto
Solosole, con la prima annata che arriva nel 2006”. Ma non
si doveva trattare di un Vermentino o di un vino bianco
buono solo “per la stagione”. Le idee sono chiare fin da
DI MATTEO BORRÈ
subito, proprio come le direttive su come dovrà essere il
nuovo vino bianco di Poggio al Tesoro. “Volevo un vino
bianco dalla spiccata mineralità, la buona concentrazione,
che avesse un’aromaticità caratterizzante ma soprattutto
un potenziale d’invecchiamento”, spiega Marilisa Allegrini.
Questi i presupposti su cui si fondano poi scelte che
non lasciano nulla all’improvvisazione. “È stata la scelta
dei cloni, credo, la prima intuizione che ha permesso la
nascita di questo Vermentino così come lo conosciamo
oggi: una selezione di origine corsa, che ha poi risposto
perfettamente ai nostri bisogno per raggiungere l’obiettivo
che ci eravamo prefissati. Un altro elemento decisivo è
stata la decisione di piantare il Vermentino a Guyot lungo
la fossa Camilla, con i suoi terreni sabbiosi”. Un mix che ha
condotto a dimostrare pienamente quella che può essere
la potenzialità del Vermentino e la sua predisposizione alla
longevità. Un’inclinazione messa alla prova in occasione di
una degustazione speciale per celebrare Bolgheri, dopo la
cena sul Viale dei Cipressi. Un’esclusiva e inedita verticale,
orchestrata dalle figlie Caterina e Carlotta Mastella, vicepresidenti
del Gruppo, in cui cinque annate di Solosole
(2023, 2017, 2016, 2014, 2007) hanno accompagnato un
pranzo in riva al mare svoltosi presso il Ristorante La Pineta
di Andrea e Daniele Zazzeri, una stella Michelin. Se
i piatti in accompagnamento erano quelli “del cuore” per
la famiglia, dimostrando il legame che la unisce a questa
sfumatura di bianco di Poggio al Tesoro considerata da
sempre l’etichetta “di casa” prediletta, tutte le attenzioni
sono state però riservate al grande protagonista nel calice.
“Prodotto da uve Vermentino e caratterizzato da una suggestiva
vendemmia notturna al chiaro di luna, Solosole è
un vino bianco di grande personalità con cui il tempo è
particolarmente generoso come dimostra la piacevolezza
delle diverse annate”, le parole di Christian Coco, enologo
di Poggio Al Tesoro. “Lo arricchisce di profumi e struttura,
lo rende decisamente affascinante grazie alle note terziarie
di idrocarburi che si sviluppano con l’affinamento in bottiglia.
Marilisa Allegrini desiderava un grande bianco, un
vino che sapesse da giovane di S.A.L.E. (struttura, acidità,
longevità, espressione aromatica marcata) e nel tempo
di M.A.R.E. (mineralità, avvolgenza, rotondità, eleganza).
Quel suo desiderio si è trasformato in realtà e oggi è
la nostra cantina tornasole della qualità di Bolgheri”. Ed è
proprio qui che si giunge. “Solosole è un bellissimo caso
di vino italiano”, sottolinea Andrea Lonardi MW, Ceo del
Gruppo Marilisa Allegrini. “Nasce dall’intuito di una persona
che arriva qui a Bolgheri e se ne innamora perdutamente.
Questo vino dimostra che varietale e posto sono
superiori all’improvvisazione. Ha una serie infinita di pregi:
è accessibile, è quotidiano, è per tutti, rappresenta un
passe-partout che non delude mai. Comunica il mare, la
luce e i profumi del territorio. Permette di andare indietro
nelle annate, continuando garantire un divertimento che
non ha pari. Solosole è il Vermentino di Bolgheri, esprime
la bellezza di questo vitigno ed è destinato a diventare il
vino marino per eccellenza abbracciando con la sua salinità
e succosità in bocca le nuove tendenze più di chiunque
altro”. A dimostrare queste parole è stato proprio il viaggio
nel tempo fatto attraverso il calice, iniziato dall’ultima annata,
la 2023, con il suo ritorno ai ritmi di vendemmia di
una volta, senza la fretta di dover rincorrere le maturazioni
accelerate causate dalle elevate temperature. Un vino da
cui, nel futuro, è attesa eleganza, potenza e aromi intensi. La
2014 e la 2017 sono, invece, racconti di due annate estreme
in senso opposto: la prima, molto fredda, ha confermato
come nella zona di Bolgheri un andamento climatico di
questo tipo si rispecchi poi nel calice con una freschezza
ancor più accentuata; la seconda, estremamente calda, ha
rappresentato lo spartiacque che ha condotto da quell’anno
a dare il via alla vendemmia notturna. Nel mezzo tra le
due, la 2016, ricordata da molti come una delle annate più
precoci di Bolgheri, ma anche quella da considerarsi perfetta
sotto il punto di vista degli equilibri: un millesimo
che ha regalato vini intriganti e dallo spiccato carattere varietale,
con una buona struttura e grandi prospettive d’invecchiamento.
A concludere l’esperienza è stata la 2007,
una grande annata in vigna, che poi in cantina ha mostrato
come il vino possa essere un oggetto misterioso, a causa di
una fermentazione che si è arrestata in dicembre e non ha
voluto riprendere che in primavera. “Ma anche quando ci
sono percorsi non lineari, il vino è poi magicamente capace
di rivelarci risvolti non preventivabili e sorprendenti”, sottolinea
Marilisa Allegrini. Tanto che oggi, questa bottiglia
con chiusura con tappo a vite, che ha senza dubbio contribuito
alla tenuta del vino in una così lunga conservazione,
si mostra in tutta la sua grazia evidenziando la grandezza
del Vermentino a Bolgheri, che fa rima con Solosole.
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Dici Maremma e pensi al Vermentino: nel calice e in vigna. “Come sappiamo,
oltre il 30% dei vini della Doc Maremma Toscana sono ottenuti con
il vitigno Vermentino, in larghissima parte presentato in purezza, il che fa
della Maremma l’enclave più importante della regione per la produzione
di vini bianchi”, conferma Francesco Mazzei, alla guida del Consorzio da
quasi sei anni, riconfermato presidente a luglio per un terzo mandato e da sempre convinto
sostenitore che questo vitigno sia uno dei più importanti marcatori della Denominazione.
“Il Vermentino è un vitigno di mare che in Maremma trova il suo habitat naturale, con
personalità espressive diverse in funzione del terreno, dell’altitudine e della distanza dalla
costa. Credo fortemente che possa aspirare al confronto con i grandi vini bianchi e rossi del
mondo grazie alla sua personalità complessa”. Qui, oggi, si gioca la sfida del “nuovo” volto
del Vermentino maremmano, come ha dimostrato una volta di più il risultato della quinta
edizione del Vermentino Grand Prix. Una Top 10, la 2024, composta, in ordine alfabetico,
da Castelprile Prelius 2023, Collemassari Melacce 2023, Guido F. Fendi Chicca 2022,
Podere Cirene Cirene 2023, Podere Poggio Bestiale Lépido 2023, Poggio Levante Unné
2020, Rocca Delle Macie Campo Maccione 2023, Tenute Bruni Upupa 2022, Terre dell’Etruria
Marmato 2023 e Val delle Rose Cobalto 2021 Vermentino Superiore. Etichette che
hanno messo in luce la forte personalità della Denominazione. Ma soprattutto, vini che
raccontano le tante anime di un vitigno straordinario, anche se si guarda il suo potenziale
evolutivo in bottiglia. “Il Vermentino è un vino che sorprende anche per la sua capacità di
esprimersi ottimamente con l’invecchiamento, che gli dona una complessità e struttura
particolari”, evidenzia Luca Pollini, direttore di quel Consorzio Tutela Vini della Maremma
Toscana che nel 2024 ha festeggiato i suoi primi 10 anni. “Le note fresche e fragranti del
vino più giovane si attenuano per lasciare spazio a piacevoli sentori di pietra focaia e note
speziate che lo arricchiscono. Degustare i vini della Top 10 2024 a distanza di qualche
mese può essere senz’altro un’esperienza interessante e può far comprendere meglio l’evoluzione
in bottiglia del Vermentino”. Così, ritroviamo nel calice il carattere morbido, sapido
con un retrogusto amarognola finale del Podere Poggio Bestiale Lépido 2023; salmastro,
fresco, sapido, agrumato e in costante evoluzione col passare dei minuti è lo stupendo Poggio
Levante Unné 2020; tra polpa e sapidità risulta più morbido che verticale, in una bilanciata
equazione tra acidità e struttura, il Rocca Delle Macie Campo Maccione 2023; fresco
e piacevole, con una bella verticalità sostenuta da una struttura che si avverte fin dal primo
sorso è il Collemassari Melacce 2023; i Podere Cirene Cirene 2023 si presenta avvolgente,
morbido, con un accenno di sapidità sul finale; è un’esplosione di aromi che richiamano la
biodiversità della macchia mediterranea, in un bilanciamento tra morbidezza e nota salina
quella del Val delle Rose Cobalto 2021 Vermentino Superiore; rimane particolarmente
elegante il Castelprile Prelius 2023, con la sua freschezza ben accompagnata da una buona
struttura; agrumato, fragrante, vellutato nella sua sapidità è il Guido F. Fendi Chicca 2022;
il Tenute Bruni Upupa 2022 si propone intenso, fresco e con una spiccata nota sapida;
con la decisa acidità e una caratterizzante sapidità di fondo, accompagnata dalla freschezza
di sentori fruttati, il Terre dell’Etruria Marmato 2023 si fa ricordare, infine, per la spiccata
eleganza. È una nuova percezione del Vermentino quella che traspare, legata anche
alla sua longevità e a quella che ne può essere l’evoluzione in bottiglia, evidenziata anche
quest’anno dalla composizione delle etichette in gara al Vermentino Grand Prix. I vini esaminati
sono stati 73, in aumento rispetto al 2023 quando furono 60, di questi, oltre la metà
dell’annata più recente, la 2023, circa il 35% 2022, e un 10% di annate meno recenti, come
2019, 2020 e 2021. Presenti anche tipologie più particolari come quelle elaborate in ovetto,
in cemento, anfora, cocciopesto oppure - seppur minoritarie - in legno, e vini della nuova
menzione “Superiore”. La Top 10 2024 ha poi rispecchiato la distribuzione dei campioni
esaminati, con sei Vermentini su 10 provenienti dall’annata più recente e gli altri quattro
dalle annate 2022, 2021 e 2020, e uno di questi con la menzione Superiore. “Il Vermentino
si conferma certamente un vitigno di grande carattere e in continua crescita sul nostro
territorio, tanto che in Maremma se ne trovano oltre 970 ettari, il 50% di quelli coltivati
in Toscana”, chiosa Pollini. “Affascinante non solo nella sua versione giovane e fresca, ma
anche nell’evoluzione più complessa, dove rivela un’ottima struttura e longevità, è sempre
emozionante metterlo alla prova grazie a occasioni come il Vermentino Grand Prix”.
DI LUCA FIGINI
DOSSIER
Il nuovo volto del
Vermentino in Maremma
Come sta cambiando un vino
dalla personalità complessa
Photo: Marco Marroni
Aquarius Blanc de Blancs di Valdo
è un’ode alla creatività e alla bellezza
degli abissi marini, un capolavoro
di design ispirato al mitico mondo
sottomarino.
La sua Cuvée è frutto
di uve Garganega e Glera,
selezionate con cura
per donare un equilibrio
unico di freschezza
e complessità.
valdo.spumanti
valdo_spumanti
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DOSSIER
Un viaggio nello spazio, ma anche nel tempo,
è quello che promettono i Domaines
Schlumberger, una tra le più storiche
aziende del vino d’Alsazia e la più grande
proprietà familiare dell’Aoc, con il loro
approccio parcellare che sigilla in bottiglia l’essenza
dalla più piccola regione vitivinicola di Francia. Siamo
in un angolo dell’Esagono dove si trovano i migliori
vini bianchi del mondo: non è un
caso se sugli oltre 15mila ettari
vitati si contino 51 Grand Cru.
Ma le zone originali più vocate,
quelli della prima classificazione
del 1983, sono 25: queste quelle
che da sempre i Domaines
Schlumberger valorizzano con
le proprie produzioni. “Il 55%
delle nostre vigne sono classificate
Grand Cru”, spiega Séverine
Schlumberger (in foto col fratello
Thomas), settima generazione della famiglia alsaziana
impegnata nella produzione di vino dal 1810 sui ripidi
pendii di Guebwiller, “ma solo il 25% è venduto come
tale, perché è quello proveniente dai più storici, che
consideriamo il vero apice qualitativo della Denominazione”.
Poi c’è tutta la forza di chi ci mette la faccia,
fin dall’etichetta. “Fare grandi vini nelle grandi annate
è semplice, noi riusciamo a farli ogni anno”, prosegue
Alsazia
Grand Cru
I Domaines Schlumberger dall’approccio parcellare
al nuovo Riesling Ultra-Premium Clos Saint-Léger
DI MATTEO BORRÈ
la produttrice alsaziana. “Questo ci rende differenti ed
è il motivo per cui ci si può fidare di noi: se un Grand
Cru non è abbastanza buono, semplicemente non esce”.
La filosofia dei Domaines Schlumberger è da sempre
all’insegna del duro lavoro, su inclinazioni non facili
da gestire quando si entra in vigne situate lungo più di
50 km di terrazzamenti definiti da muretti a secco costruiti
a inizio ‘900: “Ma è sempre la fatica e le difficoltà
che donano il gusto alle cose
più buone della vita”, sottolinea
Séverine Schlumberger. Quello
tra i filari è poi un lavoro scrupoloso,
per ottenere uve di assoluta
qualità. “Le vigne, come le persone,
hanno bisogno di tempo
per giungere alla giusta maturità;
quindi, noi attendiamo perché
ognuna possa arrivare ad
esprimere il proprio carattere e
quello del suolo su cui insiste”,
prosegue la produttrice. “I nostri Grand Cru attendono
15 anni affinché le radici delle viti possano arrivare
in profondità e raccontare così il suolo e il terroir. Se
fino ai 15 anni le uve sono destinate ad altre linee della
nostra produzione, è comunque sempre dopo l’assaggio
delle cuvée che viene presa la decisione se un vino
diventerà Grand Cru o meno”. Quando si parla del meglio
che l’Alsazia abbia da offrire sotto il profilo vitivi-
nicolo, Guebwiller è l’unico comune a vantare quattro
Grand Cru: Kitterlé, Kessler, Saering e Spiegel, per un
totale di 70 ettari, che rappresentano la metà del vigneto
dei Domaines Schlumberger. In cantina, la produzione
dell’azienda si articola in tre linee principali: Les
Princes Abbés, i Grand Cru e le Selezioni, grazie a oltre
80 vasche in acciaio inox e 120 botti di rovere centenarie.
Oggi, arriva un’etichetta che si eleva ulteriormente
rispetto a questa segmentazione, andando a collocarsi
nel Pantheon dei più grandi bianchi al mondo. Si tratta
di un progetto nato 10 anni fa, con la volontà di dare
forma a un vino Ultra-Premium affermando il carattere
e l’anima del territorio alsaziano. Nasce all’interno
del Grand Cru Kitterlé, di cui la famiglia Schlumberger
possiede 50 acri su un totale di 64. È qui che si
conducono da decenni esperimenti, con vinificazioni
separate delle uve raccolte da una parcella di Riesling
denominata Clos Saint-Léger, una delle poche in Alsazia
caratterizzate da un particolare suolo vulcanico.
“L’angolo più vocato del Grand Cru Kitterlé era facile
da individuare, perché è quello esposto a sud-est, che
riceve più sole di tutti”, sottolinea Séverine Schlumberger.
“Abbiamo cominciato a gestire la parcella utilizzando
trattamenti bio, così da preservare l’equilibrio
della pianta e limitarne la produttività, ed effettuando
lavorazioni esclusivamente col cavallo. Poi, è l’unico
vino a fermentare solo in acciaio inox, a temperatura
rigorosamente controllata”. Così prendono vita le 1400
bottiglie dell’esclusiva new entry Clos Saint-Léger Riesling
Grand Cru, vinificato per la prima volta nel 2017.
Un vino che conquista al primo sguardo, grazie al colore
giallo dorato con riflessi brillanti e di
grande intensità. Al naso si percepiscono
profumi di agrumi, come il limone
giallo, accompagnati da note esotiche
di ananas, fiori bianchi, spezie come lo
zenzero, e un tocco minerale affumicato
con sentori di tartufo bianco. Il
profilo aromatico delinea una nuova
espressione del Grand Cru Kitterlé: al
palato, Clos Saint-Léger è carnoso, di
grande persistenza ed equilibrio, con
aromi che derivano dalla surmaturazione
iniziale e dalla botrytis, mitigati
da note fungine e minerali. Un
vino che domanda di essere atteso
e di prestarsi al confronto di quella
che ne sarà l’evoluzione in bottiglia.
Proprio come dimostrato,
nel corso della sua anteprima italiana,
dall’assaggio di quello che
potrebbe essere considerato una
sorta di predecessore ante litteram:
il Riesling Kitterlé Grand
Selections 1945. Un vino arrivato
in pochissime bottiglie
fino a noi, ma che racconta
un’annata che ricompensò la
famiglia alsaziana dopo gli
anni di sofferenze della guerra.
Vendemmiata a pochi
mesi di distanza dalla liberazione
dell’Alsazia, quindi
senza che nessuno avesse potuto
lavorare adeguatamente
le vigne, quel che fu il risultato
della raccolta è considerato
straordinario, tanto da offrire
un vino capace di conservarsi
così a lungo nel tempo.
Un precedente assolutamente
benaugurante per il futuro
della novità Clos Saint-Léger,
che oggi arriva a scrivere
un nuovo capitolo della
storia del vino d’Alsazia.
Photo: Vincent Schneider
I L F R A N C I AC O R TA I N T U T TA L A S UA P U R E Z Z A
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Bianco è però non solo la freschezza, ma anche la sua capacità
evolutiva nel tempo, come ci dimostrano proprio
le annate che abbiamo alle spalle. Dopo la 2017, che è stata
la prima, già nella 2018 e 2019 si avverte la componente
del Riesling che emerge in tutta la sua eleganza. Nella
2020 e 2021, che sono annate più fresche, si avverte più
presente invece la nota aromatica. In tutte, però, il tratto
comune che colpisce è la persistenza, la longevità e la freschezza
che si distinguono nettamente in bocca.
Fontana Masorin custodisce le uve della vostra
produzione di punta, l’Asolo Prosecco Superiore
FM333, ma regala anche il Manzoni Bianco:
cosa ha di speciale questo vigneto?
È una testimonianza di biodiversità, dove trovano casa
non solo diverse varietà tipiche della nostra zona, ma
anche piante da frutto caratteristiche del territorio
che teniamo a conservare e valorizzare. Poi, la grande
escursione termica tra giorno e notte, conseguenza del
posizionamento in cima alla collina, e la ventilazione
proveniente dal Piave, con le correnti fresche del nord,
rendono unico il vigneto Fontana Masorin. Il Manzoni
Bianco, piantato nel 2014, insiste sulla parte di costa,
un versante perfetto per la nascita di grandi bianchi.
In foto, da sinistra: Alberto, Sarah e Armando Serena
DOSSIER
La rivoluzione
del Manzoni Bianco
Montelvini regala una nuova sfumatura di colore
al Montello, intervista ad Alberto Serena
Una piccola grande rivoluzione in bottiglia:
è quella che stanno portando avanti
Montelvini e la famiglia Serena sulle alture
su cui si affaccia lo splendido borgo
di Asolo. In una terra nota per le sue
pregiate bollicine e per i tagli bordolesi che raccontano
una tradizione antica, è un Manzoni Bianco il vino che
vuole scrivere un nuovo capitolo enologico sul Montello.
Alberto Serena, Ceo di Montelvini, ci racconta un
progetto che sta spiccando il volo.
Quanto conta per Montelvini, riferimento oggi
delle bollicine di Asolo, la produzione di vini fermi?
I vini fermi a marchio Montelvini sono produzioni
speciali che da un lato riscoprono antiche tradizioni,
dall’altro esaltano aree particolarmente vocate del nostro
territorio. All’interno della linea Zuitér proponiamo
un taglio bordolese tipico della collina del Montello,
Zuitér Montello Rosso Docg, e da sei anni anche il
Manzoni Bianco. Esisteva già in precedenza uno Zuitér
Bianco, ma si trattava di un vino diverso. La successiva
scelta del Manzoni Bianco ha rappresentato da un
lato una sfida, con l’obiettivo di recuperare un pezzo di
storia delle nostre colline valorizzando un vigneto particolarmente
adatto alla coltivazione della varietà nella
tenuta Fontana Masorin, dall’altra la volontà di confrontarci
con un tipo di produzione che non ci era familiare,
mostrando da una parte quale evoluzione potesse
DI MATTEO BORRÈ
avere in bottiglia nel tempo e dall’altra mostrando che
il territorio di Asolo non è solo sinonimo di bollicine.
Come è nato Zuitér Manzoni Bianco?
Dare vita a un Manzoni Bianco è stata una decisione in
cui anche il mio personalissimo gusto ha giocato una
parte importante, in quanto apprezzo la sua matrice di
Riesling che si mostra nelle annate più vecchie in maniera
marcata. Poi, c’era l’interesse di parlare di qualcosa
che non fosse solo l’Asolo Docg. Con Zuitér Montello
Asolo Doc Manzoni Bianco mostriamo che siamo capaci
di confrontarci con i vini fermi e diamo valore a un
vitigno autoctono dal grande potenziale.
Cosa rappresenta per voi e per il territorio il
Manzoni Bianco?
Non è esclusiva delle nostre colline, ma è diffuso anche
nella sinistra Piave verso Conegliano. Qui in zona, però,
sono diversi i produttori che lo vinificano, mostrando
quanto diverse possano essere le sue espressioni a seconda
dell’area in cui è piantato. Il Manzoni Bianco, a seconda
dell’altitudine, del suolo, dell’esposizione, dell’escursione
termica, si presenta nel calice in maniera molto
differente: ad esempio, tra il nostro da Fontana Masorin,
in cima al Montello, e quello da un vigneto di un altro
produttore posto 200 metri più in basso, nel secondo troveremo
maggiore struttura e una più limitata escursione
aromatica. Quello che mi affascina del Zuitér Manzoni
Dallo scorso anno il Manzoni Bianco fa anche
un piccolo passaggio in legno: come mai?
Inizialmente, per comprendere la matrice del vino, le
vinificazioni sono state fatte tutte in acciaio. Poi, cogliendo
anche quella che era la progressiva maturazione
delle piante che regalava maggiore struttura ai vini,
abbiamo deciso di completare il processo con un tocco
di legno, circa tre mesi. Questa scelta ha apportato maggiore
struttura e una migliore spalla. C’è però da dire
che, assaggiando oggi le prime annate che hanno fatto
solo acciaio, il Manzoni Bianco è in grado col tempo di
mostrare una complessità accentuata che inizialmente
non traspare. Per questo, siamo ancora in fase di aggiustamento
su quella che debba essere la formula ideale
in cantina: probabilmente ora torneremo a rivedere il
tempo di sosta in legno per individuare quale possa essere
il perfetto bilanciamento. Quel che resta, per ora,
è la certezza di un bianco che ha necessità di maturare.
Qual è lo spazio per vini bianchi come il Manzoni
Bianco all’interno del panorama di mercato?
Parliamo di un bianco importante, che si attesta anche
oltre i 13% Vol., un tenore alcolico che però non pesa in
bocca per la caratteristica freschezza che lo definisce. Si
può quindi prestare anche ad abbinamenti con le carni,
con la sua mineralità che per contrapposizione su certi
piatti funziona molto bene, tanto quanto può sposare le
cucine fusion o preparazioni vegetali. La produzione,
poi, è molto limitata, perché si tratta di 7mila bottiglie
in totale, e la nostra strategia è quella di posizionarlo
esclusivamente in un ambito Horeca di fascia Premium
nelle principali città d’Italia e del mondo.
Quando si parla di vini bianchi, l’Italia è pronta
a raccogliere la sfida del tempo?
Con il nostro Manzoni Bianco andremo ora anche a
proporre delle verticali per mostrarne proprio la tenuta
e l’evoluzione nel tempo. Si tratta di un vino che
merita di essere atteso. L’annata attualmente in commercio,
la 2022, uscita la scorsa primavera, è proprio
oggi, dopo l’estate, che ha raggiunto il suo perfetto
equilibrio. La nostra idea di bianco, dunque, va nella
direzione opposta a quella stereotipata di una tipologia
alla continua e affannosa rincorsa della nuova
annata. Anche per la prossima release, il frutto della
vendemmia 2023, attenderemo il 2025 per uscire,
proponendolo al momento giusto e spiegandolo per il
valore che ha. Anche perché sono in tanti a rimanere
sorpresi, una volta assaggiato nelle sue passate annate,
davanti a questo bianco con cui stiamo provando a
rivoluzionare l’immagine di Asolo e del Montello.
12
DOSSIER
Il Collio in bianco
secondo Formentini
Il fattore tempo e l’identità nel calice di una storia
lunga più di 500 anni
DI MATTEO BORRÈ
L
a storia di Formentini procede in parallelo con quella
del vino del Collio da oltre 500 anni. Ci troviamo in
una zona, mezzaluna in provincia di Gorizia ai confini
con la Slovenia, altamente vocata fin da tempi antichissimi
quando si parla di bianchi eccellenti, che riescono,
tanto nel loro volto autoctono, quanto in quello internazionale,
a mostrare l’essenza di una terra unica. Qui,
la Ponca, suolo identitario dell’area fatto di marne di
origine eocenica, regala alle produzioni del Collio la
caratteristica impronta di mineralità e salinità che li
rende inconfondibili per gusto e profumi. Vini acclamati
da sempre, come raccontano testimonianze storiche
come quella di Faustino Moisesso, che descrivendo
con dovizia di particolari l’assalto e la conquista del castello
Formentini da parte delle truppe della Repubblica
di Venezia nel corso delle Guerre Gradiscane (1615-
1617), non dimentica di ricordare “fu il bottino fatto
dalle genti del Gualdo in San Floreano, rispetto alla
qualità de gl’habitanti assai ricco di panni lini, di carnaggi
e di più di trecento carri di vino squisitissimo”.
Il “vino squisitissimo” di San Floriano del
Collio
Non è un caso, dunque, che da oltre 500 anni proprio
Formentini sia una delle cantine che più ha inciso
nel determinare la storia enologica del Collio, grazie
alla sua capacità d’interpretare e valorizzare i fattori
climatici, ambientali ed umani caratteristici del territorio.
La profonda conoscenza del terroir e la collaborazione
con conferitori locali che dura da generazioni,
ha permesso alla realtà oggi parte di Gruppo Italiano
Vini di cogliere al meglio le peculiarità delle singole
microzone e di ottenere uve di qualità costante nel
tempo, aspetti che si traducono in eleganza e complessità
dei vini.
“Dal dopoguerra in poi, nella sua connotazione moderna,
Formentini è stata tra le aziende pioniere in
Collio, avendone rilanciato la viticoltura ed essendo
stata anche tra le realtà fondatrici del Consorzio che
quest’anno celebra i suoi primi 60 anni”, spiega l’enologo,
classe 1988, Pietro Bertè. Ci troviamo a San Floriano
del Collio, una delle aree più vocate della zona,
come testimoniato fin dalla fine del ‘700, quando i vini
qui prodotti figuravano al vertice “per bontà” nella
classificazione stilata per le contee di Gorizia e Gradisca.
Il clima è mite e temperato, grazie alla vicinanza
alla Costa Adriatica e alle Prealpi Giulie che proteggono
dai venti freddi del Nord. “San Floriano è una delle
zone più alte sulle colline del Collio”, prosegue Bertè.
“Siamo sopra Gorizia, in una delle aree
con la maggiore esposizione della Denominazione”.
Qui, infatti, troviamo
colline più scoscese che offrono ai vigneti
una più significativa esposizione
alla luce, che poi conduce a una
migliore maturazione delle uve.
“Assaggiando i vini prodotti a
San Floriano se ne coglie immediatamente
la maggiore
complessità e la struttura
importante”, continua l’enologo
di Formentini. “Si
tratta, infatti, del frutto di
uve che presentano grande
concentrazione”.
Da Friulano e Ribolla
Gialla al Collio Bianco:
i vini Formentini
I vitigni protagonisti nei filari
di Formentini sono i più
classici, tra le tante varietà,
soprattutto a bacca bianca,
che il Collio hanno decretato
come loro privilegiata terra
d’elezione. In primis sono
Friulano e Ribolla Gialla a
13
spiccare per diffusione e importanza, ma non sono da
dimenticare neppure le varietà internazionali, Pinot
Grigio in testa, seguito da Sauvignon e Chardonnay.
“In termini d’identità, i cardini della nostra produzione
sono, da un lato, due vitigni autoctoni come Ribolla
Gialla e Friulano, dall’altro, il Collio Bianco, un uvaggio
che vede protagoniste proprio queste due varietà
insieme alla Malvasia Istriana”, sottolinea Pietro Bertè.
“A livello commerciale, poi, tra i vitigni internazionali
riveste grande importanza il Pinot Grigio, che in
Collio mostra di avere una marcia in più quando poi lo
si pone alla prova nel calice”.
Lo stile Formentini è quello di vini fortemente identitari,
che coniugano la territorialità con una
ricercata enologia. “Il Collio è da sempre
legato per tradizione, sotto il profilo
produttivo, al monovarietale”, spiega
l’enologo di origine trentina. “In questi
ultimi anni, sempre più cerchiamo di
far comprendere e comunicare quel che
è l’impatto del territorio su ciascuna
varietà. Nell’assaggiare un Sauvignon,
un Pinot Grigio o uno Chardonnay del
Collio, ad esempio, appare immediata
la differenza che li distingue da quelli
prodotti in altre zone, d’Italia o del
mondo. È una tradizione vera e propria
quella che si mostra nel calice
coi vini bianchi provenienti dalle
nostre colline, come evidenzia
anche un uvaggio come quello
del Collio Bianco, in cui, dopo
quattro o cinque anni in bottiglia,
la matrice del terroir arriva
a mostrarsi in tutta la sua
unicità”.
Proprio il Collio Doc Bianco
Formentini racconta alla perfezione
l’anima di un grande
territorio per i vini bianchi.
Blend di Friulano, Ribolla
Gialla e Malvasia Istriana provenienti
dalle zone più vocate
di Oslavia e San Floriano
del Collio, si presenta al naso
caratterizzato dai profumi
complessi di fiori di campo e
camomilla che evolvono verso
note di agrume candito e
pasticceria. Al palato, poi, è
sapido e ricco, con un retrogusto di pesca gialla
matura.
“Il nostro Collio Bianco segue quella che è la ricetta
tradizionale, sfruttando i vitigni storici:
con una base di 70% di Friulano a dare consistenza
al vino, poi completata dalla mineralità
e dalla freschezza della Ribolla Gialla a cui
si affianca l’aromaticità della Malvasia Istriana”,
spiega Pietro Bertè. “Si crea così un connubio,
una sinergia quasi naturale, che oggi è
figlia di un blend in cantina dopo le vinificazioni
separate, mentre un tempo si creava già
direttamente dalla commistione tra varietà
in vigna. Poi, in tema di Collio Bianco ogni
azienda ha la sua idea, magari una ricetta che
prevede anche un vitigno internazionale, ma
quel che poi definisce la tipologia è come riesca
nel tempo a far emergere il territorio nel
calice”.
Il fattore tempo e la grandezza dei vini
bianchi del Collio
Il tempo, fattore decisivo affinché i vini bianchi
di questa vocata zona di confine possano
esprimersi in tutto il loro straordinario
potenziale.
“L’anima dei vini del Collio si mostra
con l’attesa in bottiglia. È da giugno in
poi che le nostre produzioni mostrano
il loro vero carattere, perché arrivano
da una zona che gli regala struttura e
potenza”, chiosa l’enologo di Formentini.
“Per i vini bianchi del Collio, il
tempo è un prezioso alleato anche per
mostrare la mano di ogni produttore,
come nel nostro caso quando
andiamo a selezionare un certo
tipo di legni per affinare il carattere
di ciascun vitigno.
Oggi, i professionisti e gli
appassionati che conoscono
meglio i vini hanno preso
coscienza di questo, arrivando
non solo a conservare da
parte le bottiglie per dare
loro tempo di esprimersi al
meglio, ma anche, se ancora
disponibili alla vendita in
cantina, andando a richiedere
le annate precedenti
e non più soltanto l’ultima
in commercio”. Nel domani
dei grandi vini bianchi
italiani, come ha fatto negli
ultimi 500 anni, Formentini
ha intenzione di scrivere
nuovi capitoli della propria
gloriosa e unica storia.
DOSSIER
14
DOSSIER
DI ROBERTA RANCATI
Il bilancio dei 60 anni del Consorzio Collio, le novità
per il 2025, il percepito della Doc sul mercato, il
segreto della longevità dei vini e l’importanza della
sostenibilità. Con Lavinia Zamaro, direttrice del
Consorzio Tutela Vini Collio, tracciamo una panoramica
sullo stato dell’arte di uno dei più vocati angoli d’Italia
per i vini bianchi.
Qual è il bilancio del 2024 in cui si sono
celebrati i primi 60 anni del Consorzio
Collio?
È stato un anno ricco d’impegni, che
di fatto ha proseguito quanto iniziato
12 mesi fa, nel post Covid e dopo il
rinnovo del CdA. La promozione
è stata implementata quest’anno in
occasione delle celebrazioni dei primi
60 anni del Consorzio. Tra Italia
ed estero, sono state numerose le occasioni
per parlare del Collio e dei suoi
vini: da Londra a New York, passando per le
principali città italiane, in collaborazione con Ais
e Fisar, o qui sul territorio con l’associazione delle enoteche
Vinarius. Un palinsesto davvero ricco che ha ricevuto
ottimi riscontri, tanto dal grande pubblico, quanto dagli
operatori. Ogni evento è per noi un’occasione importante
per toccare con mano quello che è il crescente interesse
per il Collio, un affetto che negli anni non si è mai spento,
tanto che oggi c’è entusiasmo, soprattutto tra i professionisti,
nel rivedere così attiva la Denominazione. Il valore
delle nostre produzioni, d’altronde, è innegabile e da sempre
riconosciuto, tanto da darci la convinzione che si possa
lavorare con soddisfazione anche nel futuro.
È stato un 2024 carico di importanti appuntamenti,
tra cui il ritorno del Premio Collio: il
2025 cosa riserverà in tema di promozione?
Il 2025 ha già numerosi appuntamenti fissati in
agenda. Ritorneremo a Londra, a inizio
anno, per un evento dedicato ai sommelier
di ristoranti d’alta fascia, per poi
proseguire la promozione sui mercati
esteri più strategici, a iniziare dagli
Stati Uniti. Ma la grande novità 2025
sarà quella di un momento dedicato
alla Doc in autunno, con giornate
di degustazione capaci di raccogliere
un elevato numero di campioni e che
ci consenta di promuovere un confronto
con stampa e produttori.
Collio è sinonimo di vini bianchi: ma qual
è oggi il percepito nel mondo della Doc?
Soprattutto all’estero, l’amore per i vini del Collio
non è mai svanito. In Italia, oggi assistiamo a un ritorno
di fiamma, dopo anni in cui il mercato si è
concentrato più sulle singole aziende che non sulla
Denominazione. Il percepito oggi è, in generale,
quello di una qualità che non ha mai tradito le aspet-
I vini del Collio,
un amore mai sopito
Intervista a Lavinia Zamaro, direttrice
del Consorzio, sullo stato dell’arte della Doc
tative e di vini su cui si può fare sicuro affidamento.
I produttori del Collio sono stati tra i primi a
scommettere sulla longevità dei vini bianchi:
qual è il segreto?
Il segreto, poi non così segreto, è la regina del Collio: la
Ponca. È il nostro suolo identitario di marne di origine eocenica
così particolare e caratterizzante. Presenta, infatti,
una struttura che consente all’acqua di passare e alle radici
di andare in profondità, promuovendo un apparato radicale
che permette poi alla vite di assorbire anche la variegata
componente minerale che arricchisce il terreno. I nostri
vini hanno così una spiccata sapidità, sono molto freschi
e denotano una struttura che gli consente di affrontare la
sfida del tempo e di caratterizzarsi, tra i bianchi, per la loro
longevità. Ma nel calice, dopo la commercializzazione, lasciando
trascorrere l’estate, quando si parla di Collio già si
può notare una prima evoluzione del vino in bottiglia.
In una terra da sempre rinomata per i monovarietali,
cresce il racconto del Collio Bianco: quali
sono le prospettive di questa tipologia?
Il Collio Bianco è da sempre una tipologia caratteristica
della nostra zona. Da quando i vigneti, spesso dietro casa,
erano piantati con una commistione di varietà al loro interno.
All’epoca, la loro contemporanea vendemmia faceva
nascere questi vini che altro non sono che dei blend dei
vitigni più caratteristici della Denominazione. Oggi, nel
disciplinare della Doc il Collio Bianco è stato codificato,
avendo introdotto l’assemblea dei soci negli anni ’90 anche
la possibilità d’utilizzo delle varietà internazionali. È in
questo frangente che nasce la storia moderna di un vino
che vede ora numerose interpretazioni, che permettono al
produttore di scegliere la combinazione migliore per dare
voce al proprio angolo di territorio d’appartenenza. Ma
la scelta è sempre quella delle uve migliori per raccontare
l’essenza del Collio. Un elemento interessante da notare,
in tema di affinamenti, è proprio come sia il Collio Bianco
la produzione principale che viene fatta attendere di
più in bottiglia prima della commercializzazione, perché la
Ponca, il terroir e il microclima riescono ad emergere con
nitidezza solo dopo qualche mese. Se all’inizio è la componente
dei varietali scelti a spiccare, dopo un po’ di riposo è
il territorio a uscire, trasformando il tempo e questa evoluzione
nel fil rouge che unisce tutti i Collio Bianco nelle
differenti interpretazioni tra produttori.
Collio oggi fa sempre più rima con sostenibilità: il
domani è nel segno della certificazione per tutti?
La viticoltura fa parte del Collio da sempre. Parliamo di
circa 7mila ettari di territorio, di cui la superficie vitata rappresenta
poco meno di 1300 ettari. Al di fuori dei centri
urbani, nella nostra zona, troviamo boschi. Le vigne, a ridosso
delle case per conformazione storica, sono quindi
da sempre parte integrante delle vite e della quotidianità di
tutti. La tutela dell’ambiente e le buone pratiche tra i filari
sono, dunque, qualcosa che i viticoltori del Collio hanno
sempre cercato di porre in atto. Al giorno d’oggi, anche
attraverso certificazione come Sqnpi, Viva o bio, è importante
comunicarlo, raccontare cosa concretamente si fa. Da
qui anche l’impegno del Consorzio, dal 2021, per dare una
mano alle realtà meno strutturate, diventando capofila della
certificazione Sqnpi: siamo partiti con 13 aziende e nel
2024 siamo giunti a 28, con gli ettari vitati che iniziano a diventare
un numero rilevante. L’ambizione e il sogno ovviamente
è quello di poter raggiungere un giorno il traguardo
di un territorio interamente certificato.
L’obiettivo dell’ottenimento della Docg resta
sempre tema attuale?
È un tema, quello della Docg, affrontato diversi anni fa e
poi messo in stand by a seguito della decisione dell’assemblea
dei soci di procedere lungo questa strada. Al momento
attuale non ci sono proposte concrete che il CdA intende
portare avanti a riguardo, ma resta una cosa di cui ancora
si parla e non è un discorso totalmente abbandonato. Ma
sono tante le tematiche da affrontare a livello di Denominazione
e che hanno la priorità rispetto a questa, però non
escludo che in futuro se ne possa tornare a discutere, pur
non essendo tema di stretta attualità.
16
DOSSIER
L’anima del Collio
di Borgo Conventi
Da Luna di Ponca a Friulano e Ribolla Gialla,
la tenuta della famiglia Moretti Polegato si racconta
Da sempre il Collio è terra che attrae. La
sua unicità, infatti, la rende oggetto del
desiderio per chi sia alla ricerca di nuovi
orizzonti enologici, desideroso di arricchire
la propria proposta con vini di
pregio assoluto. Non è un caso, allora, che del morbido
profilo di queste colline e dei vigneti che le colorano si
sia innamorata fin dalla gioventù un protagonista del
vino italiano, Giancarlo Moretti Polegato, che pochi
anni fa ha fatto della splendida tenuta di Borgo Conventi
a Farra d’Isonzo, vicino Gorizia, la sua seconda
casa. Quello che ha ripreso slancio qui è uno dei progetti
vitivinicoli tra i più ambiziosi e identitari a queste
latitudini, esemplificato dal lancio di un Collio Bianco
Doc, Luna di Ponca, un blend di Friulano, Chardonnay
e Malvasia che in pochissimo tempo ha saputo imporsi
come una delle etichette più riconosciute e premiate
della Denominazione. A Borgo Conventi, d’altronde,
passa la storia del Collio fin da tempi antichissimi,
quando la tenuta era un convento eretto dai Padri Domenicani,
che qui già vi producevano vino. Poi, la sua
storia moderna ha condotto l’azienda oggi di proprietà
della famiglia Moretti Polegato a diventare uno dei
volti più noti della Doc friulana. Nel tempo, la filosofia
di Borgo Conventi non è mutata: produrre vini di riconoscibile
identità geografica e alta espressione varietale,
ricercando eleganza ed equilibrio tra struttura e
piacevolezza. Ogni bottiglia racconta così una storia di
DI MATTEO BORRÈ
alta qualità, tradizione e passione. “In Collio
abbiamo la fortuna di essere in un territorio
che ci consente con relativa facilità di ottenere
vini importanti”, evidenzia Paolo
Corso, storico responsabile dei vigneti e
della cantina, profondo conoscitore del
territorio, vicepresidente del Consorzio
Collio Doc. “Su queste colline riusciamo
a dare vita a grandi vini da invecchiamento,
capaci di evolvere nel tempo e non solo
da bere nella loro gioventù. Sono il terroir
e una viticoltura attenta a regalare una
base di partenza importante nella creazione
di grandi vini, a cui l’uomo in Collio
ha saputo associare vitigni capaci di
esaltare le peculiarità di suoli ed esposizioni:
dal Pinot Grigio alla Ribolla Gialla,
passando per il Friulano, il Sauvignon
o lo Chardonnay”. Uve che poi si prestano
a ogni tipo di vinificazione, donando risultati
ogni volta stupefacenti. A dimostrarlo perfettamente
un’etichetta come Luna di Ponca, Collio Bianco
Doc già premiato Tre Bicchieri Gambero Rosso, che
prende vita da una selezione manuale di grappoli fin
dalla vigna, poi ulteriormente raffinata in cantina. “La
base di partenza è il Friulano, con le uve provenienti
da un’unica collina con il vigneto che si adagia su tutti
i versanti, offrendo così diversi gradi di maturazione
e profili”, spiega Corso. “Al momento
della vendemmia si procede terrazza per
terrazza, in base all’altitudine e all’esposizione,
decidendo cosa raccogliere filare
per filare”. Il vigneto dedicato al Friulano
di Borgo Conventi è così diviso in tre
diverse vendemmie: “Questa raccolta
su più turni e maturità delle uve è il
segreto dietro il nostro Friulano e il
Luna di Ponca”, aggiunge l’enologo.
Seguono poi tre vinificazioni separata
in acciaio, da cui vengono
a un certo momento estratta una
parte di mosto che sta fermentando,
processo che completerà
in barrique, dove viene trasferito.
“Per il Friulano Collio Doc utilizziamo
poi esclusivamente quanto
rimasto in acciaio, mentre per il
Luna di Ponca ne isoliamo una
parte che poi si unisce a quella
in barrique”, aggiunge Paolo
Corso. A completare il blend di
Luna di Ponca è lo Chardonnay,
proveniente da un vigneto in collina
a Cormons, e la Malvasia, da
una zona più fresca, che vivono
la medesima scelta di una duplice
vinificazione separata, in acciaio e barrique. Prende
così vita un vino dal lungo affinamento, che trasmette
il patrimonio aromatico del territorio e promette
un’evoluzione in grado di regalare nel tempo nuove
sfumature. Esattamente come i monovarietali di Borgo
Conventi, in cui spiccano nella proposta in bianco
il volto autoctono del Collio, rappresentato in questo
caso dal Friulano e dalla Ribolla Gialla. “Freschezza,
piacevolezza nella beva e tipicità sono le fondamenta
su cui poggia lo stile di Borgo Conventi”, evidenzia
Paolo Corso. “Nel Friulano e nelle sue tre vendemmie
ritroviamo proprio questa sintesi: con
la prima raccolta a donare freschezza e bevibilità,
la seconda che regala rotondità e piacevolezza,
mentre la terza apporta la tipicità del vitigno”. Poi
c’è il carattere dell’annata, che porterà l’enologo
a dover bilanciare le dosi della “ricetta”, sfruttando
più una delle tre componenti o le altre. “Nella
Ribolla Gialla, invece, abbiamo trovato il modo
di valorizzare al meglio i frutti di collina, anche
in questo caso procedendo con due
vendemmie separate”, aggiunge
Corso. “La prima raccolta
avviene quando le uve sono
mature, mentre la seconda, a
distanza di pochi giorni, è seguita
da una breve criomacerazione
a freddo che regala un
vino con la freschezza e l’eleganza
tipica della varietà legate
al corpo e alla struttura di
un macerato, ma sempre nel
segno dell’equilibrio che
contraddistingue lo stile
Borgo Conventi”. Ritroviamo
così al palato
un Friulano fresco ed
armonico, con buona
struttura e persistenza
aromatica notevole,
mentre la Ribolla Gialla, fine, fresca
ed elegante, si distingue per il
nervo acido e la buona sapidità,
cui segue un retrogusto persistente
e caratteristico. Espressioni
della grandezza di un territorio,
che la mano dell’uomo ha saputo
ulteriormente esaltare.
18
DOSSIER
Quando si parla di grandi bianchi italiani,
non si può certo dimenticare una
zona in cui negli ultimi 40 anni hanno
preso il sopravvento. Parliamo dell’Alto
Adige, un tempo tradizionalmente
terra della Schiava. A ridosso delle Alpi, infatti, la quota
dei vini bianchi sulla produzione totale è salita dal 20 a
oltre il 60%, in un angolo d’Italia in cui la biodiversità
regna sovrana. La molteplicità dei
terroir fa sì che in Alto Adige trovino
condizioni di crescita ideali ben 20
vitigni diversi, da cui deriva una
quantità di vini d’eccellenza davvero
sorprendente per una zona di
produzione così circoscritta. I vitigni
più diffusi sono oggi proprio i
bianchi, che abbracciano il 65% della
superficie coltivata. Pinot Grigio,
Chardonnay, Pinot Bianco, Sauvignon
Blanc e Gewürztraminer sono le principali
varietà che colorano i pendii altoatesini. Poi,
quote minoritarie del vigneto sono riservate a Grüner
Veltliner, Müller Thurgau, Kerner, Sylvaner, Riesling e
Moscato Giallo. Per produzioni che hanno saputo imporsi
sulla scena internazionale, avendo conquistato
cuori e palati grazie alla loro eleganza. D’altronde non
c’è da essere sorpresi: dal 1980, la viticoltura altoatesina
ha compiuto dei passi avanti da gigante imprimendo
DI ROBERTA RANCATI
una spinta qualitativa inarrestabile, tanto che oggi il
98% di tutta la superficie vitata di questa terra è tutelata
dal disciplinare Doc. La cultura vinicola dell’Alto Adige,
però, affonda le radici ben più in profondità: si tratta,
infatti, di una fra le più antiche d’Europa. Se quando i
Romani giunsero in questo territorio, nel 15 a.C., vi trovarono
una viticoltura già sviluppata da secoli da parte
dei Reti, a partire dall’VIII secolo dopo Cristo,
diversi ordini monastici bavaresi e svevi
acquistarono nella zona delle tenute.
Un periodo di grande fioritura della
produzione vinicola fu anche quello
della dominazione asburgica, culminata
nella scelta dell’arciduca
Giovanni di coltivare per la prima
volta in questo territorio i vitigni
borgognoni e bordolesi. A lui si deve
anche l’introduzione e la diffusione
del Riesling. Ma tra le varietà principe
in Alto Adige, una menzione speciale è da
riservare al Gewürztraminer, o Traminer aromatico.
Un vitigno particolarmente affascinante, per
via dei suoi profumi di rosa, chiodi di garofano, litchi e
frutti tropicali, accompagnati da una struttura generosa.
“Il Gewürztraminer vanta una tradizione secolare in
Alto Adige, con radici molto profonde soprattutto nelle
zone di Termeno e della Bassa Atesina, dove trova il suo
terroir di elezione”, spiega Andreas Kofler presidente
I nuovi orizzonti
del Gewürztraminer
Dalla terra all’aroma, l’unicità in bianco
di uno dei volti di successo dell’Alto Adige Doc
del Consorzio Vini Alto Adige. “Qui, è molto più di un
semplice vitigno: è parte integrante della cultura locale,
che trova in esso un simbolo identitario. Le particolari
condizioni climatiche e il terreno di queste zone hanno
forgiato un vitigno dall’anima inconfondibile e che
sviluppa uno spettro aromatico unico”. È probabile che
questo vitigno debba il nome proprio al villaggio vinicolo
altoatesino di Termeno: già nel Duecento era, infatti,
diffuso nei paesi germanofoni col nome di “Traminer”.
Oggi questo bianco aromatico è uno dei più gettonati
dell’Alto Adige ed è una delle varietà a bacca bianca più
diffuse sul territorio. Il Gewürztraminer, infatti, incarna
il simbolo della viticoltura altoatesina: un passato importante,
un futuro tutto da scoprire e un presente che
lo vede tra i vini maggiormente apprezzati dagli italiani,
alla luce delle nuove tendenze che vedono i vini bianchi
primeggiare a livello di preferenze e di scelta da parte
dei consumatori. Riconoscibile per la sua impronta aromatica
netta e intensa, il Gewürztraminer proviene da
una storia che, plasmandosi sul gusto antico, lo ha voluto
rotondo, morbido, possente nell’espressione aromatica
e nella struttura del sorso, esaltando quella ricchezza
zuccherina che tale varietà si trova da sempre in eredità.
“Il Gewürztraminer è ideale anche in questo periodo
dell’anno”, prosegue Andreas Kofler, “la sua aromaticità
crea infatti un connubio perfetto con i sapori decisi delle
specialità invernali”. Se una tradizione viticola millenaria
lega il Gewürztraminer all’Alto Adige, per questo
vitigno il criterio della qualità ha iniziato a giocare un
ruolo fondamentale nelle scelte produttive in tempi più
recenti, verso la fine degli anni ‘70. Il suo successo si
deve probabilmente alla facilità di riconoscimento di alcuni
sentori, oppure a quel suo carattere estremamente
godibile o, ancora, alla sua altissima attitudine gastronomica.
Sono numerosi, infatti, gli abbinamenti a cui
questo vino coinvolgente si presta; è perfetto per l’aperitivo
ma anche con proposte culinarie di grande tendenza
come quella libanese e israeliana – o del Medio
Oriente in generale – fino all’estremo Oriente, dal sushi
alla gastronomia cinese. Ma un grande merito del successo
ottenuto da questa varietà è legato al lavoro, come
sempre certosino, che i produttori altoatesini svolgono
su di essa. Quella morbidezza accomodante, caratteristica
che ha accompagnato il Gewürztraminer in tutta
la sua storia, inizia a cedere il passo alla freschezza. Si
mira ad ottenere nettari più tesi, eleganti, fini, in cui lasciare
espressione alla croccantezza del frutto e al dinamismo.
Un’ulteriore caratteristica del Gewürztraminer,
che verrà sempre più valorizzata nel prossimo futuro, è
la sua longevità: degustarlo a circa sei o sette anni dalla
vendemmia rappresenta un’esperienza capace di aprire
un sipario sulla complessità celata fra i piccoli acini
di questa straordinaria varietà. Il Traminer aromatico,
d’altronde, si presta bene anche per le vendemmie tardive,
come passito o riserva. Una caleidoscopica ricchezza
nel calice che racconta alla perfezione il radioso futuro
che il Gewürztraminer altoatesino vede stagliarsi davanti
a sé.
Photo: Roswitha Mair e Florian Andergassen
20
DOSSIER
Una storia
tutta in verticale
Il Soave di Famiglia Castagnedi:
i Cru di Tenuta Sant’Antonio alla prova del tempo
DI MATTEO BORRÈ E ROBERTA RANCATI
Una nuova idea di bianco sulle colline del
Soave. Un rilancio, che vuole mostrare
come anche un vino che non faccia legno
possa comunque mantenersi alla perfezione
nel tempo, conservando la sua
identità anche nell’evoluzione. “Vigna Monte Ceriani,
così come il Monte di Colognola sono due Soave che
devono essere espressione del territorio in cui nascono”,
spiega Tiziano Castagnedi, titolare dell’azienda
veronese con i fratelli Armando, Massimo e Paolo,
“raccontandosi nel calice con le caratteristiche note di
zolfo, la spiccata mineralità, i sentori di fiori bianchi e
tutta la verticalità della Garganega”. È proprio nel segno
della mineralità come trait d’union tra differenti
produzioni che si sviluppa la rivoluzione portata avanti
da Famiglia Castagnedi con le diverse espressioni in
bianco di Tenuta Sant’Antonio. È questo, infatti, l’elemento
che accomuna vini diversi come il Vigna Monte
Ceriani, il Monte di Colognola e lo speciale Vecchie
Vigne. Tre etichette che raccontano magnificamente il
potenziale, soprattutto in termini d’invecchiamento,
del Soave. Una Denominazione di cui proprio l’azienda
di Famiglia Castagnedi punta a farsi capofila per un
rilancio qualitativo e identitario. “Noi ci troviamo in
una terra di mezzo tra Valpolicella Orientale e Soave
Occidentale, questo ci permette di poter giocare entrambe
le partite su terreni che donano una marcata e
originale identità ai nostri vini”, prosegue Tiziano Castagnedi.
Nel vino, poi, non c’è mai nulla da inventare,
ma migliorare si può. Si deve. “Dentro a queste vigne
di Soave, antiche di 60 anni e più, era nascosto un tesoro”,
prosegue Tiziano Castagnedi. “Abbiamo cercato
tanto nelle nostre menti, nella nostra storia, nella
nostra fatica, per esprimere al meglio questi gioielli.
È iniziata per noi una nuova storia di bianchi assoluti.
Come merita la nostra terra”. Un racconto di Cru,
a iniziare dal Soave Doc Monte di Colognola, figlio di
una UGA all’interno della Doc veneta. Un vino che si
fa forte della consapevolezza del territorio in cui nasce,
valorizzando proprio l’unità geografica aggiuntiva
riportata fieramente in etichetta. “Ha tutte le qualità
di un terroir vulcanico a impasto sulfureo”, spiega Tiziano
Castagnedi. “Monte di Colognola nasce in uno
dei punti più a ovest della Denominazione: un terreno
vocato per un vino dal profilo raffinato”. Al palato ricorda
la dolce e succosa sensazione di uva, elegante e
raffinata con tocchi floreali come camomilla e agrumi.
Altro grande protagonista del territorio è quel Soave
Doc Vigna Monte Ceriani che nel confronto col tempo
è capace di sprigionare tutto il suo potenziale, entusiasmando.
Le parole d’ordini sono verticalità e precisione,
in un vino elegante che matura solo in acciaio.
“Così si esalta la mineralità di un singolo vitigno”,
spiega Castagnedi. “Una vigna di cinque ettari con
oltre 50 anni di storia, dove la pergola veronese oggi
si sta dimostrando strategica innanzi al cambiamento
climatico, difendendo la pianta da pioggia e caldo, regalando
così equilibrio alle uve”. Vigna Monte Ceriani
è l’espressione più lineare, pulita ed esclusiva di un
territorio vulcanico, basaltico e sulfureo. Al palato si
presenta fresco e di lunga persistenza, rispecchiando
le note minerali del naso, con aromi ben delineati di
fiori bianchi ed erbe rinfrescanti, mentolate. Tratti che
rimangono in memoria col passare degli anni, evolvendo.
Come dimostra un’interessante verticale dove dal
bevibilissimo 2022 si è trasportati ai sentori agrumati
e officinali dell’annata 2019, fino a giungere al monumentale
2014, con i suoi riverberi dorati che poi si traducono
in bocca in mineralità e densità. A chiudere il
cerchio è il Soave Doc Vecchie Vigne, unico caso tra i
tre in cui l’affinamento prevede tonneaux francesi per
sei mesi. “Da vigne con oltre 60 anni di storia nasce la
selezione migliore, la più ristretta, con una produzione
limitata di bottiglie”, sottolinea Tiziano Castagnedi.
“L’essenza dei terreni vulcanici basaltici e sulfurei si
esprime in un vino di grande qualità. L’affinamento
in botti di legno impreziosisce la sua longevità”. Vecchie
Vigne è il racconto del legame storico tra Famiglia
Castagnedi e il suo territorio. Avvolgente e sapido,
con una bilanciata acidità dalle caratteristiche note
agrumate. Equilibrato, intenso, persistente, in continua
evoluzione nel calice, come evidenzia brillantemente
in un confronto tra annate, che vede spaziare
tra la compatta densità della 2011, il carattere deciso
della 2014 e la tensione, nel suo equilibrio ideale tra
struttura e freschezza, della 2021. “Siamo sempre
spinti dall’entusiasmo e dalla volontà di migliorarci,
per affrontare nuove sfide”, chiosa Tiziano Castagnedi.
“Stiamo però sempre qui, con i piedi ben saldi nelle
nostre vigne. Nei vigneti dei nostri bianchi c’era una
nuova storia ancora da progettare. Tutta in verticale”.
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DOSSIER
La nuova partita di
Serena Wines 1881
L’azienda di Conegliano, leader del Prosecco, si apre
ai fermi e porta in Italia i vini Djokovic
DI ROBERTA RANCATI
Dalla terra rossa al calice, per portare
in tavola un’etichetta da campioni,
piazzando un colpo da applausi. Accompagnato
da un Syrah 2021, rosso
di personalità che racconta in modo
inequivocabile la sua provenienza, proprio come nelle
intenzioni del suo artefice, arriva oggi in Italia grazie a
Serena Wines 1881, storica azienda familiare
coneglianese tra i leader nella produzione
e commercializzazione di Prosecco
Doc e Docg, lo Chardonnay 2021
Djokovic, bianco di carattere che
affina per 10 mesi in botte di rovere
francese e dall’anima internazionale.
Una new entry tutta
da scoprire, il frutto di uno speciale
incontro, quello che ha condotto
a siglare un’intesa per una distribuzione
in esclusiva nel Belpaese.
Un accordo che ha preso forma attorno
all’amore per il tennis e per le vigne che accomuna
la famiglia Djokovic e Luca Serena, proiettando
così l’azienda veneta verso i Balcani. Si tratta, infatti,
di una partnership che apre un nuovo orizzonte per la
storica realtà di Conegliano, inserendosi all’interno di
una strategia precisa. “Questa collaborazione”, sottolinea
Luca Serena, “ci permette di arricchire la nostra
proposta di due vini fermi di nicchia e dunque d’innalzare
il nostro portfolio, lavorando di pari passo sul
posizionamento dei nostri brand di punta Champagne
de Vilmont, Audace Underwater e Ville d’Arfanta,
verso un target Horeca Premium”. Ma la traiettoria,
come detto, mira più in alto. “Al tempo stesso”, prosegue
Serena, “auspichiamo che il nome della famiglia
Djokovic possa supportare Serena Wines 1881 nel suo
processo di espansione nei Balcani, a partire
dalla Serbia, dove intendiamo avviare un
percorso di comunicazione e promozione
del brand legato proprio allo
sport e in particolare al tennis, che
ho praticato personalmente fin da
piccolo, con passione e dedizione,
e ottenendo qualche apprezzabile
risultato”. Quella gestita da Goran
Djokovic, zio della star del tennis e
oro olimpico a Parigi 2024 Nole, nel
distretto serbo di Šumadija, a Lipovac,
tra Arandjelovac e Topola, è una cantina
che presenta nei suoi vini la tipicità di un’areale
conosciuto per i suoli rocciosi e ferruginosi, quindi per
la tipica colorazione rossa della terra, dove fin dall’epoca
dei Romani la viticoltura affonda le radici di una
tradizione all’insegna della qualità. Proprio come dimostra
lo Chardonnay 2021 Djokovic, vino bianco
dove il nobile vitigno internazionale è completato da
una nota di Viogner. Poi al naso si presenta maturo, con
i suoi tratti spiccatamente minerali. In bocca, a imporsi
in sequenza sono aromi fruttati di pere, mele gialle,
albicocche, che poi vertono verso peperoni al limone,
brioche e frutta tostata. Una vera a propria sorpresa nel
calice, da un Paese che negli ultimi 20 anni sta dimostrando,
grazie proprio al lavoro di tanti piccoli Vigneron
indipendenti, il proprio potenziale, evidenziando
quanto sia promettente il futuro del vino in Serbia. Ma
cosa ha condotto una tra le realtà simbolo delle bollicine
venete a intraprendere la strada della distribuzione
di vini fermi? “Questo, a livello globale, è un momento
decisamente favorevole per le bollicine, che è il nostro
segmento di riferimento”, risponde Luca Serena. “Siamo
un’azienda leader nella produzione di Prosecco
Doc e Docg e tra le più storiche del territorio. Questa
resta senza dubbio la nostra firma e il nostro orgoglio
su cui ogni anno investiamo in termini d’innovazione,
tecnologia e sostenibilità, rimanendo sempre ben
ancorati al savoir-faire e alla tradizione locale. Il segmento
dei vini fermi sta soffrendo un po’ di più, è vero,
soprattutto i rossi osservano una frenata nel mercato.
In questo momento di flessione per il segmento, abbiamo
avuto il coraggio di credere in un progetto – e in
vini – di altissima qualità, provenienti da un territorio
estremamente vocato e peculiare; siamo certi di aver
intrapreso la giusta direzione”.
Ma quali sono i piani futuri nella categoria da parte di
Serena Wines 1881? “Per uscire da questo momento di
stasi per la categoria, si rende necessario lanciare messaggi
legati alla salute e alla qualità, e perché non farlo
sfruttando – anche se indirettamente – messaggi e immagini
che siano legati ad un uso più attento e consapevole
del vino e delle bevande alcoliche? Più in generale,
ritengo utile sfruttare tutti i canali possibili che
raggiungano l’attenzione di categorie sempre diverse
di consumatori, senza mai prescindere dalla qualità, e
unire la comunicazione e promozione del vino – che
già di per sé è un grande prodotto culturale e distintivo
che contraddistingue l’Europa – ad altri ambiti che
siano sinonimo di eccellenza”. Da qui l’intesa siglata
dal vulcanico amministratore delegato che, senza perdere
mai un colpo, si divide tra campionati sportivi,
dove quest’anno si è aggiudicato l’oro ai Mondiali Itf
Over40 nel doppio maschile a Lisbona, e amministrazione
aziendale.
È il preludio di una nuova era per Serena Wines
1881 sotto il profilo distributivo? “Siamo partiti dallo
Champagne con De Vilmont, un marchio di proprietà
di cui andiamo molto fieri e che porta alla nostra
azienda prestigio e anche un certo successo sul
mercato. Inoltre, grazie a questa proposta riusciamo
a raggiungere più target e livelli di clientela, e quindi
diverse tipologie di consumatore finale. Ora continuiamo
con i vini fermi serbi, per un progetto sui Balcani
che sono certo ci porterà lontano. Per passione
e gusto mi piacerebbe andare nella direzione dei rossi
argentini e dei bianchi tedeschi, ma vediamo cosa
il futuro avrà in serbo per noi”.
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L’inedita sfida
in bianco di Velenosi
Un Pecorino di montagna per raccontare
un’originale sfumatura di Piceno
La Signora del Piceno non veste solo il rosso. La
visione di Angela Velenosi di questo angolo
vocato delle Marche è infatti molto più articolata
rispetto alla tradizionale narrazione che si
è sempre fatta, fino a pochi decenni fa, di una
terra contadina ma dal nobile passato. “Il Piceno è sicuramente
terra di rossi”, spiega la produttrice, che ha fondato
l’azienda che porta il suo nome nel 1984, oggi senza dubbio
la figura più importante per la promozione dei vini
marchigiani nel mondo. “Lo è sempre stata, tanto da essere
nota per la grandezza dei grappoli di Sangiovese che qui
nascevano. Il contadino, al bar del paese, un tempo si vantava
del proprio raccolto, facendo a gara per chi primeggiava
per quantità a fine vendemmia. Stiamo parlando degli anni
’80, non un’epoca così lontana”. Poi qualcosa è cambiato.
“Oggi, le Marche del vino sono conosciute nel mondo per
la loro vocazione bianchista”, prosegue Angela Velenosi. “Il
Verdicchio è al momento sotto i riflettori della critica internazionale,
apprezzato da tutti, ma non meno interesse
potrebbe suscitare un altro vitigno della nostra zona che
è stato riscoperto proprio una quarantina di anni fa: il Pecorino”.
Una vera e propria storia d’amore quello tra la Signora
del Piceno e una delle varietà autoctone più storiche,
ma a lungo dimenticata. “All’epoca della riscoperta del Pecorino,
nel Piceno era diffuso principalmente il Trebbiano,
per via della vicinanza all’Abruzzo. Anche in questo caso,
però, si seguivano le medesime logiche produttive del Sangiovese,
incentrate solo sulla quantità. Quando si cominciò
DI MATTEO BORRÈ
a produrre per il mercato e non più inseguendo
incentivi e sovvenzioni, ecco che si tornarono a
studiare dei vitigni autoctoni che per tanto tempo
era stati dimenticati: dalla Passerina al Pecorino.
Parliamo di varietà che già erano note, ma
su cui non si era mai scommesso per davvero”.
Per Velenosi, la mossa è vincente. Tanto da regalare
all’azienda che oggi si è arricchita del contributo
della seconda generazione, con Marianna
e Matteo, dei veri e propri best seller, come i
Pecorino Offida Docg Villa Angela e Rêve. “Ci
incamminammo all’epoca lungo la via del Pecorino
perché si comprese subito che possedeva
una gamma aromatica davvero unica”, spiega la
produttrice marchigiana. “Oggi, a mezzo secolo
dalla sua riscoperta, ancora lo stiamo studiando
per decifrarne quelle che ne sono le reali potenzialità.
Se fino a ieri abbiamo provato, sperimentando
su rese per ettaro, sistemi d’impianto,
modalità di vinificazione, invecchiamento e affinamento,
di coglierne i segreti, oggi, come per il caso del Verdicchio,
stiamo dimostrando al mercato che ci troviamo davanti
a un grande bianco capace di reggere la prova del tempo.
Più assaggiamo le vecchie annate, infatti, più ci rendiamo
conto di quanto straordinario sia questo vitigno”. Una sfida
che però è solo al suo principio. “A noi oggi di dimostrare
che quello che diciamo sulle potenzialità e la longevità del
Pecorino è vero”, prosegue la Signora del Piceno. “Abbia-
mo davanti un mercato che ha le sue esigenze e
che fin dai primi mesi dell’anno ci domanda con
insistenza le nuove annate dei vini bianchi. La
strada dell’educazione a una scelta di maggiore
valorizzazione del Pecorino ha dunque bisogno
di tempo. In fondo, pur essendo partito con largo
anticipo, anche il Verdicchio su questo
tema non è ancora arrivato a conclusione
del suo percorso di sensibilizzazione a
un nuovo approccio”. Ma a contribuire
a tenere alta la bandiera del Pecorino,
mostrandone l’unicità, sono proprio le
due etichette firmate Velenosi. Se il Villa
Angela si distingue per la sua spiccata
freschezza, evidenziando un piacevole
attacco setoso al palato, un buon l’equilibrio
con richiami fruttati e floreali e
una grande persistenza con un lungo finale,
Rêve ne mostra invece quella che
ne può essere l’importante struttura e
la suadente opulenza, per bianco coinvolgente,
penetrante, dalla spiccata persistenza.
“La storia di Rêve è singolare”,
spiega Angela Velenosi. “Quando decisi
di produrlo non nacque come Pecorino
ma come Chardonnay. L’obiettivo era
quello di dare vita a un vino bianco importante,
che usciva un anno dopo la vendemmia
e fosse l’immagine della Velenosi come me l’immaginavo.
Fu un’etichetta che riscosse un successo clamoroso a
livello planetario, tanto da essere listata immediatamente
anche dal monopolio canadese, che è tra i più complicati
da approcciare: un vero caso eccezionale. Poi, con una di
quelle che sono le scelte improvvise dettate dalla convinzione
che si debba osare quando si è certi di un’intuizione,
da una vendemmia con l’altra ho deciso di cambiare tutto.
Stavamo già sperimentando col Pecorino ed ero certa del
suo potenziale, così decido di cambiare totalmente
le fondamenta di Rêve. Chiaramente, andando a
proporre quello che era di fatto un altro vino, abbiamo
dovuto ricostruire la sua immagine e una fedeltà
al brand. Ma il successo della prima versione
è stato immediatamente replicato da quello della
seconda, tanto che ormai è uno dei best seller Velenosi
che va sold out appena lo immettiamo sul
mercato”. C’è, infatti, sete di Pecorino, tanto
che l’azienda ascolana ha deciso di proseguire
lungo questa strada, dando vita a una
nuova espressione capace di raccontare
un’altra sfumatura di questo vitigno: quella
di montagna. “Abbiamo voluto dedicare
al Pecorino un nuovo vino, totalmente
diverso da quelli che abbiamo prodotto
finora”, evidenzia Marianna Velenosi. “La
differenza la fa l’altitudine. È figlio, infatti,
di un vigneto situato a oltre 600 metri
s.l.m., una quota a cui non eravamo mai
giunti prima”. Siamo tra Acquasanta Terme
e Arquata del Tronto, nelle zone più storiche
per il Pecorino, proprio dove è stato
riscoperto. “Sarà una produzione molto limitata,
ma che mostrerà un volto che parla
dell’essenza e dell’anima di questo nostro
autoctono. Si presenterà nel calice con una
mineralità totalmente diversa da quella degli
altri Pecorino che produciamo, oltre che
con una componente fruttata più articolata
e dei profumi unici, per via dell’accentuata escursione
termica che contribuisce a forgiarlo. È una sfida totalmente
nuova, un approccio parcellare vero e proprio con un
singolo vigneto di 5 ettari dalla specifica esposizione, che
ancora una volta racconterà della straordinaria diversità
che il Piceno è capace di regalare e della varietà dei terroir
delle Marche del vino”. Una novità 2025 che debutterà in
occasione del prossimo Vinitaly. “Circa 14mila bottiglie
previste per la prima annata: ora manca solo il nome”.
DOSSIER
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DOSSIER
I Magredi
e i due volti delle Grave
Tra Ribolla Gialla e Sauvignon Blanc,
un racconto nel calice della “Terra Magra”
DI RICCARDO COLLETTI
Tra i panorami variopinti che tratteggiano l’universo dei bianchi friulani,
si staglia alle estreme pendici di questa terra di confine quella
Grave del Friuli in cui ghiaie, sassi e ciottoli non soltanto danno forma
a uno scenario quasi lunare, ma forgiano anche il carattere davvero
unico nel calice per i vini che qui vi nascono. È la “Terra Magra”,
la stessa che regala il nome a I Magredi, realtà vitivinicola fondata oltre 50 anni
fa dalla famiglia Tombacco e che oggi si racconta in un’intesa che la lega con un
simbolo delle bollicine tricolori: la Valdo Spumanti. Siamo in provincia di Pordenone,
a Domanins: è a poca distanza dalle sponde del fiume Tagliamento
che si stagliano, nella loro geometrica perfezione, i vigneti dell’azienda.
A prendere vita, in una moderna cantina, sono vini Doc Friuli Grave, ma
non solo, capaci di parlare dell’identità di una terra enigmatica e straordinariamente
affascinante. È poi un volto, quello della realtà friulana, che
si riflette nelle sue produzioni, capaci di raccontare tanto la tradizione di
varietà autoctone che qui hanno una delle loro terre d’elezione, come nel
caso della Ribolla Gialla, quanto l’anima internazionale di vitigni che hanno
scritto la storia del vino friulano, come il Sauvignon Blanc. A fare da
trait d’union tra queste due facce sono la potenza della “Terra Magra” e
l’unicità delle Grave, dove l’acqua, e con essa gli elementi nutritivi mobili,
sono da ricercare in profondità. Ma quel che Madre Natura con una mano
toglie, nell’aridità superficiale del suolo, dall’altra dona, con escursioni termiche
che permettono di ottenere, proprio in conseguenza di questa tipologia
unica di terreni, uve di ampia complessità aromatica e freschezza. È
un microclima, quello delle Grave, determinato da un lato dalle montagne
che riparano dai venti freddi del nord, dall’altro dall’effetto benefico del
mare Adriatico. Il contesto ideale, dunque, per la nascita di vini che si distinguono
non solo per freschezza e aromaticità, ma anche per eleganza.
Negli oltre 50 ettari di filari, a fare capolino, distinguendosi all’interno
di una fitta e pianeggiante distesa, è anche il magnifico vigneto circolare ideato
nel 2008 per celebrare i primi 40 anni di attività, a testimoniare l’appartenenza
ad un territorio e la sua unicità. Una forma inconsueta, ma che è molto più di
semplice vezzo estetico poi ripreso sul marchio aziendale. Questa vigna, infatti,
permette di misurare nei suoi quattro punti cardinali gli effetti delle differenze
di calore sulle piante, evidenziando l’attenzione verso una viticoltura basata sul
minor impatto ambientale che passa in primis attraverso la gestione di forme
d’allevamento capaci di entrare più velocemente in equilibrio con l’ambiente
circostante attraverso carichi produttivi più bassi e spazi vite contenuti. Al
contempo, ci si trova innanzi a un’allegoria del ciclo naturale e del legame
che unisce l’uomo alla terra. Un connubio che poi si traduce in vino, declinandosi
nelle espressioni più caratteristiche della zona. A iniziare dall’autoctono
per eccellenza di queste terre, la Ribolla Gialla. Igt Venezia Giulia,
si veste del suo caratteristico giallo paglierino con riflessi verdognoli,
per poi presentarsi al naso con un bouquet floreale, delicato, con note di
zafferano e mela verde. Vino fine, equilibrato, fresco, di ottima bevibilità,
piacevolmente acido, è figlio di una vinificazione e un affinamento che
avvengono esclusivamente in vasche d’acciaio inox, per poi presentarsi in
tavola ad accompagnare un antipasto, di terra o di mare, ma anche zuppe
e preparazioni vegetali. in perfetta sintonia con le più attuali tendenze
nel piatto. Discorso simile per il volto internazionale del Sauvignon Friuli
Doc Grave, che al naso accoglie con la sua estrema eleganza e complessità,
in un tripudio di sensazione che spaziano dalla pesca al kiwi, passando per
pompelmo rosa, melone, ananas, frutto della passione, bosso, salvia, foglia
di pomodoro e peperone giallo. Vino secco, di grande finezza, fresco, sapido
e vellutato, sarà l’abbinamento ideale in un incontro con dei formaggi
freschi. Per due espressioni di un territorio e di un racconto, queste firmate
I Magredi, capaci di sorprendere e conquistare già al primo sorso.
25
Annalisa Zorzettig è figlia dei Colli Orientali
del Friuli. Produttrice e titolare della
storica realtà vitivinicola di famiglia, porta
avanti la visione ereditata dal padre,
cercando ogni giorno di curare le vigne
per elevare la sua azienda a icona del territorio e sostenitrice
della sua biodiversità. La storia di Zorzettig
inizia 150 anni fa a Spessa di Cividale e oggi
la cantina è nelle mani della vignaiola
che continua a scrivere, con coraggio
e determinazione, pagine importanti
della viticoltura friulana. Qui,
nell’incontro tra le fredde correnti
provenienti dalle Alpi e la brezza
del Mare Adriatico nascono vini,
proprio iniziando dai bianchi, capaci
di grandi evoluzioni. Un potenziale
che in Zorzettig è coltivato
fin dalla vigna e dalla cantina. A dimostrarlo
è una scelta del 2021, con la decisione
di promuovere un “nuovo” approccio ai
vini bianchi della linea Myò Vigneti di Spessa, passati
da uno a due anni d’affinamento prima di fare il loro
debutto sul mercato. Di questo, d’identità e di quelle
che sono le attuali sfide del vino abbiamo discusso con
Annalisa Zorzettig.
Partiamo dalla terra: che vendemmia 2024 è
DI MATTEO BORRÈ
stata per Zorzettig?
È stata una vendemmia a due facce: buona per la qualità
delle uve raccolte e per i mosti che stanno fermentando;
in termini di quantità, però, paghiamo un’annata non felice.
Ora dovremo quindi essere bravi noi a riorganizzare
strategie e lavoro per affrontare la complicazione di avere a
disposizione meno bottiglie in cantina da poter gestire nel
prossimo futuro. Però, quella che ritroveremo nei
vini si annuncia una gran bella annata.
Sotto il profilo del mercato, che
anno è stato finora?
È un anno di alti e bassi quello sul
mercato, caratterizzato da picchi
che si fatica a soddisfare per l’elevato
numero di richieste e la velocità domandata
nelle spedizioni. Poi, d’improvviso,
a seguire sono momenti di
stop, dove tutto si ferma. Uguale vale per
la vendita diretta e le visite in cantina, dove a
giornate in cui le degustazioni sono affollate come
non mai seguono altre di assoluta calma piatta. È forse la
nuova normalità dell’era post Covid che però si fatica ancora
a decifrare nei suoi ritmi e paradigmi.
Parlando di tempo, Zorzettig ha preso una direzione
chiara quando si parla di vini bianchi,
facendo da apripista a un nuovo approccio con
“I vini oggi devono
lasciare un segno”
A tu per tu con Annalisa Zorzettig, che ci spiega
la sua visione sui bianchi capaci d’invecchiare
la linea Myò Vigneti di Spessa: che accoglienza
vi ha riservato il mercato?
La scelta di lasciare un po’ più in affinamento in cantina
anche i vini bianchi è una decisione che portiamo avanti
ormai da anni, avendo cercato nel tempo di educare i clienti
a comprendere l’importanza di questo passaggio. Per alcuni,
quella di avere subito la nuova annata è una richiesta
dettata dal gusto. Ed è comprensibile, perché non siamo
tutti uguali. In una terra come la nostra, con la sua tradizione
antica, un’azienda ha però il dovere d’imporre una
linea ben precisa. Perché i tempi di affinamento in cantina
non sono poi nient’altro che conseguenza del precedente
lavoro fatto in vigna.
In che termini?
Sono solo uve di qualità quelle che poi sostengono la creazione
di un vino capace di evolvere e migliorare col passare
degli anni. Qui sui Colli Orientali a dimostrarlo sono vini
come quelli della nostra linea Myò Vigneti di Spessa, capaci
di conservare la loro identità e invecchiare con eleganza
anche quando si fa riferimento alle annate più difficili,
come una 2010, 2014 o 2017. Si parla, però, non del frutto
di qualche intervento sporadico in vigna in una singola stagione,
ma di almeno 20 anni di lavoro tra i filari. Poi, c’è la
fortuna dettata da un terroir che si fonda sulla Ponca e il
saper fare di generazioni che permette di armonizzare tutti
questi elementi.
Oggi c’è dunque spazio per una rinnovata visione
sui vini bianchi?
La nostra decisione di attendere il necessario per fare
uscire i nostri vini bianchi più pregiati è stata compresa e
supportata dal trade, a iniziare da ristoratori ed enotecari.
Poi ci sono casi isolati, come quello tedesco, che è un mercato
che da sempre domanda il vino “fresco”. Però, anche
in contesti come quello della Germania è possibile trovare
chi sostenga la nostra decisione di aspettare il vino quando
è pronto per la commercializzazione, senza affrettare i tempi.
Vedere la fiducia che viene riposta in noi anche quando
qualche annata va esaurita e si deve attendere qualche
mese per la successiva, è una soddisfazione enorme.
Quali tra i vostri vini si presta maggiormente a
venire esaltato dal tempo che passa?
Sicuramente il Friulano è quello che beneficia di più di una
maggiore attesa in bottiglia, perché è una peculiarità insita
nel suo DNA. Ma ottimi riscontri, in termini di eleganza ed
evoluzioni, giungono anche dal Pinot Bianco, la Malvasia e
il Sauvignon. Però, come dicevo prima, è sempre la materia
prima il punto di partenza imprescindibile: senza uva di
qualità tutto il resto conta poco.
DOSSIER
Come spiegate le differenze tra i vostri bianchi?
Nel nostro caso, tra quella classica e la linea Myò Vigneti di
Spessa è semplicemente una diversa filosofia a distinguerli.
Da un lato, troviamo i vini per una bevuta più quotidiana
e immediata; dall’altro, il destinatario è un palato capace
di concentrarsi maggiormente sui dettagli apportati dal più
lungo affinamento in termini di struttura e persistenza. A
ognuno, poi, decidere cosa più corrisponde al proprio gusto.
Ma tra i bianchi che produce ce n’è uno prediletto
da Annalisa Zorzettig?
Dovrei dire che sono tutti figli miei e sono uguali, ma non
sarebbe la verità. Nutro, per mille motivi, una predilezione
per i Fiori di Leonie nella linea Myò Vigneti di Spessa. Si
tratta dell’ultimo nato, che ha esordito con l’annata 2018 e
oggi è in commercio con la 2021. Sono innamorata di questo
vino, che come gli altri della linea Myò Vigneti di Spessa
trovo che si esalti quando servito non troppo freddo. Un
dettaglio, quello della temperatura, che conduce magari a
bere di meno, ma a gustare molto di più. Si percepisce, infatti,
con ancora maggiore attenzione quella che è la storia,
la struttura e la personalità del vino. E oggi è proprio questo
che vedo negli appassionati: la ricerca di vini che siano
capaci di lasciare un segno, con leggerezza.
26
DOSSIER
Castello della Sala:
una grande sfida
Dal Cervaro al Muffato,
l’innovazione di un terroir antico
Tra i grandi miti del vino italiano in bianco,
un posto d’onore è senza dubbio da riservare
al Cervaro della Sala. Siamo in Umbria,
a poca distanza dal confine con la Toscana:
qui, a circa 18 chilometri da Orvieto, sorge
il Castello della Sala. È attorno a uno dei più bei manieri
d’epoca medievale, che si estende oggi una tenuta di 600
ettari, 229 dei quali coltivati a vigneto. Una proprietà dalla
storia plurisecolare, che ritorna indietro nel tempo fino
al 1300, di cui, dal 1940, il Marchese Niccolò Antinori,
padre di Piero, diede inizio alla scrittura di un nuovo capitolo.
Merito di un’intuizione: la consapevolezza che l’area
nel promontorio dell’Appennino umbro, a metà strada
tra il fiume Paglia e la vetta del Monte Nibbio, fosse altamente
vocata alla produzione di vini bianchi. Così, dopo
anni di abbandono, il Castello della Sala, sotto la guida
della famiglia Antinori inizia la sua rinascita. Nei 229 ettari
di vigneto, ad altitudini tra i 220 e i 470 metri s.l.m.,
col tempo trovano spazio tanto le varietà tradizionali,
come Procanico e Grechetto, quanto campioni internazionali
come Chardonnay, Sauvignon Blanc, Sémillon,
Pinot Bianco, Viognier ed una piccola quota di Traminer
e Riesling. In una terra eletta di bianchi, la sola eccezione
è il Pinot Nero, che trova in questo terroir le condizioni
ideali per esprimersi al meglio. Il merito della nascita di
grandi vini è certo da attribuire a un suolo argilloso, calcareo,
ricco di conchiglie fossili, e di vigneti ben esposti
alla levata del sole e che godono dei benefici delle ottime
DI RICCARDO COLLETTI
escursioni termiche, ma non minore rilevanza ha avuto la
mano dell’uomo. Anzi, di due protagonisti di primo piano
del mondo del vino italiano oggi. È, infatti, sotto la direzione
del Marchese Piero Antinori, figlio di Niccolò, e
di Renzo Cotarella, allora enologo e direttore del Castello
della Sala, che è dato il via alla produzione di vini innovativi
da varietà di uve non tradizionali, come Chardonnay
e Sauvignon Blanc. E fin dal principio, la tenuta umbra ha
rappresentato per Marchesi Antinori una sfida continua:
anni di esperimenti enologici e di viticoltura, tendenti a
massimizzare il potenziale originale dei vitigni autoctoni
e anche a determinare quanto i microclimi della zona
possano contribuire alla creazione di vini dal profilo moderno.
Ogni vino firmato Castello della Sala esprime così
una grande identità territoriale attraverso un’espressione
innovativa di un terroir antico come quello della zona di
Orvieto. Una nuova strada è stata intrapresa innanzitutto
nel mondo dei vini bianchi. “Il Castello della Sala, ed il
Cervaro della Sala in particolare, mi hanno fatto capire
che con la passione, con l’impegno e con l’indispensabile
aiuto delle persone è possibile raggiungere obiettivi
che neanche pensavamo di poter immaginare”, sottolinea
Renzo Cotarella. “È stato proprio il Cervaro ad insegnarmi
il rispetto per il vino, per il territorio in cui è prodotto
e per le persone che ne fanno parte. Solo esaltando e ricercando
l’equilibrio tra queste tre componenti si riesce
ad ottenere un grande vino, capace di rispecchiare l’anima
del produttore e la terra da cui nasce”. Un cammino non
scevro da ostacoli. “Oggi abbiamo accesso ad una moltitudine
di informazioni in tempo reale, basta un telefonino.
Al tempo questa tecnologia non c’era, si trattava di
percepire le sfumature non solo del vino ma anche delle
persone che ti raccontavano dei grandi vini, parlo soprattutto
della Borgogna, e di avere grandissima fiducia. Una
fiducia che sia l’azienda, nella persona di Piero Antinori,
che la struttura, non soltanto quella commerciale ma soprattutto
quella di produzione, ha saputo mantenere per
portare a termine un progetto di questo genere”. Il Cervaro
della Sala è stato uno dei primi vini italiani a svolgere
affinamento in barrique con la prima annata nel 1985.
Un successo planetario ha poi accolto questa creazione,
che nasce dall’unione tra lo Chardonnay e il giusto tocco
di Grechetto, un bianco pensato per affinare nel tempo
e rappresentare l’eleganza e la complessità di un luogo
unico. Un terroir antico che si racconta in un mosaico di
etichette capaci di esprimere ciascuna la propria peculiare
identità. Nibbio della Sala, continuando nel solco
della strada tracciata dal Cervaro della Sala, rappresenta
la massima espressione dello Chardonnay in purezza al
Castello della Sala, grazie a uno stile verticale e minerale
dovuto alla particolare localizzazione del piccolo vigneto
di 1,5 ettari a 494 metri s.l.m su un suolo tendenzialmente
povero ma ricco di scheletro. Altra sfumatura di bianco
è quella del Bramìto della Sala, dove ancora protagonista
resta lo Chardonnay, ma in questo caso su un suolo derivante
da sedimenti fossili con infiltrazioni d’argilla, che
regala un’espressione dalla spiccata mineralità ed eleganza.
E, ancora, da un’accurata selezione di uve Sauvignon
Blanc e Sémillon nasce il Conte della Vipera, omaggio ai
primi proprietari del castello, a cui si affianca, il San Giovanni
della Sala, vino che mira a raccontare l’Orvieto Doc
Classico Superiore secondo una nuova prospettiva, grazie
all’unione delle uve autoctone Grechetto e Procanico con
quelle di Pinot Bianco e Viognier. Dulcis in fundo, il Muffato
della Sala, altro grande protagonista che accompagna
“l’alter ego” del Cervaro, il Pinot Nero della Sala: il Muffato
nasce dall’affascinante unione tra le uve Sauvignon
Blanc, Grechetto, Traminer, Sémillon e Riesling ed il terroir
unico del Castello della Sala. I grappoli, sfiorati dalle
nebbie mattutine e favorite dal particolare microclima, si
concedono alla Muffa Nobile, Botrytis Cinerea, che ne riduce
il contenuto d’acqua, concentrandone gli zuccheri e
donando al Muffato della Sala quei caratteristici aromi che
lo hanno reso un’icona enologica tricolore.
vinattieri a firenze dal 1385
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Ape Regina Chardonnay Doc Friuli Colli Orientali è la novità che completa la
linea Cru di Bastianich Winery. Una nuova etichetta, parte del portfolio di Meregalli
Wines, che ha l’intento di esaltare gli aromi, i sentori e le peculiarità di uno tra
i vitigni più nobili e conosciuti. Una varietà che incontrando la Ponca, il suolo dei
Colli Orientali del Friuli, acquisisce struttura, complessità e dona longevità al vino.
Solo 800 le bottiglie prodotto nella prima annata, la 2021, per un’etichetta che vedrà
la luce solo nelle annate in cui ci saranno le condizioni ideali per creare qualcosa di
straordinario. Per un vino che si presenta con un suo sorso ampio, ricco ed elegante,
dove prevalgono l’equilibrio e la morbidezza.
COLLECTION
Bianca Igt Venezia Giulia Vistorta è monovitigno
Friulano che nasce da sperimentazioni
moderne di tecniche tradizionali, che
esaltano l’arte delle lunghe macerazioni sulle
bucce. Vino biologico realizzato in sole 1050
bottiglie, con le sue note intense e raffinate, ma
anche aromatiche e dal finale fresco, si abbina
perfettamente a piatti strutturati sia di carne
sia di pesce, fino alle ricette etniche leggermente
speziate. Per i vegetariani è l’ideale con
la ratatouille, il couscous alle verdure e le
melanzane alla parmigiana.
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Adamantis 2021 Cantina Valle Isarco è la
seconda annata di un vero e proprio super white
altoatesino, cuvée di sole 2mila bottiglie studiata
ad hoc per valorizzare le varietà che maggiormente
rappresentano la viticoltura estrema ed eroica di
una delle zone più vocate d’Europa per la produzione
di vini bianchi. Le uve rappresentano la selezione
del migliore filare di ogni vitigno, con il Sylvaner
(50%) a donare eleganza e frutto, il Grüner Veltliner
(20%) a portare i suoi intriganti sentori speziati,
il Pinot Grigio (20%) a conferire struttura e
potenza, infine il Kerner (10%) che mette in gioco
la sua raffinata aromaticità. Un ritratto autentico
in bottiglia del territorio di montagna da cui
nasce questo vino, che al sorso è teso, pieno,
giustamente tannico, con un bell’equilibrio tra
acidità e mineralità che è preludio di una grande
capacità di invecchiamento.
COLLECTION
Il “vino da sogno” nato dalla mente del winemaker altoatesino Hans Terzer spegne
l’11esima candelina. Arriva Appius 2020 Cantina San Michele Appiano, inaugura
un nuovo decennio di un progetto enoico d’eccellenza con un’edizione che nel calice
ammalia per i suoi profumi sontuosi e stupisce il palato per eleganza e persistenza.
La Cuvée di quattro vitigni a bacca bianca vede nella nuova release predominare
lo Chardonnay (60%), a cui si aggiungono Pinot Grigio (20%), Pinot Bianco (10%)
e Sauvignon Blanc (10%). Al palato, poi, a dominare è la distintiva impronta di freschezza
e vivacità dell’annata 2020, che lo diversifica rispetto a molte delle edizioni
passate. Il livello di acidità percorre tutto il passaggio di bocca, determinando vibrazioni,
stimoli, energia e piacevolezza estrema di beva, il tutto nell’alveo del sapiente
equilibrio che solo un grande vino sa garantire.
30
COLLECTION
Prea Bianco Verona Igt 2021 La Collina dei Ciliegi è l’annata d’esordio del blend di Garganega,
Pinot Bianco e Chardonnay che prende il nome dall’omonima parcella del vigneto
di Erbin, sita tra i 570 e i 620 metri s.l.m. Il primo vino della Collezione “Alta”, il progetto
vitivinicolo nato dalla collaborazione con Lydia e Claude Bourguignon, agronomi e studiosi
di terroir di fama internazionale, e dal desiderio di Massimo Gianolli di ampliare ed elevare
la visione dell’azienda, spingendo la ricerca enologica al di fuori dei confini della Denominazione.
Di estrema lunghezza e mineralità, anche grazie alla fermentazione e all’affinamento
in cemento e ceramica, questa novità rappresenta l’evoluzione inaspettata della Valpantena,
da sempre considerata unicamente quale sottozona pregiata della Doc Valpolicella e a cui
mancava un vino bianco “di terroir” importante. Proprio la mineralità e l’acidità, data dal
suolo calcareo, lo rendono vivace e con una lunghezza e persistenza straordinarie, perfetto da
abbinare con preparazioni elaborate, come un baccalà mantecato, un risotto alla milanese, un
petto d’anatra o un foie gras, ma da provare anche con piatti orientali.
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Il Collio Doc Riserva 2018 Gradis’ciutta è
un racconto su Ponca che nasce nei vigneti
Bukova sul Monte Calvario e Ruttars in frazione
di Dolegna del Collio. A dare forma
e identità a questo speciale bianco sono,
come da secolare usanza, i vitigni autoctoni
Ribolla Gialla, Malvasia Istriana e
Friulano. Dopo aver passato un anno in
botte grande e due in bottiglia, si presenta
fine e complesso, facendo dell’eleganza il
suo punto di forza. Rotondo e morbido, al
palato è vibrante e intenso, di grande profondità,
sviluppandosi tra note di frutta
matura e il finale sapido e minerale.
COLLECTION
L’anima di una terra tratteggiata in purezza attraverso uno dei suoi cavalli
di razza più noti: Mongris Collio Doc Pinot Grigio Marco Felluga
è dichiarazione d’intenti fin dal nome, simbolica unione tra le parole
“monovitigno” e “gris”, che in friulano significa “grigio”. Un’etichetta che
riassume in sé una storia nata oltre 150 anni fa in Istria e poi giunta fino
al Collio, dove un territorio di straordinaria bellezza dona ai vini struttura,
sapidità, eleganza e longevità. Un testimone passato, di mano in
mano, per generazioni, fino ad Ilaria Felluga, che ha raccolto l’eredità di
un sapere trasmessogli dal padre Roberto e dal nonno Marco. E così, uno
dei volti del vino italiano più amati nel mondo si esprime sulle colline del
Collio mostrando di avere una marcia in più, grazie a un bianco elegante
e fruttato, corposo e ben strutturato, persistente nel finale.
32
emerge per gli spumanti, a conferma di una stagione estiva
influenzata da fattori economici e climatici che hanno
limitato le vendite. Un tema messo in analisi e che merita
attenzione è quello sulle conoscenze del consumatore sui
vini naturali: il 72,7% degli enotecari ritiene che i consumatori
abbiano ancora bisogno di maggiore consapevolezza
sulle differenze rispetto ai vini convenzionali. Tuttavia,
questa necessità si traduce in un’opportunità per il settore,
che può rafforzare il dialogo con il pubblico, valorizzando
la cultura del vino e la conoscenza dei suoi molteplici volti.
TRADE
Un anno in enoteca,
tra trend e New Gen
L’indagine Vinarius sul 2024:
in rampa di lancio grandi vini rossi e Champagne
Bollicine di Champagne in rampa di lancio,
protagoniste del 2024 con grandi vini rossi
e Metodo Classico italiano. Le attese per
un Natale con sorprese positive, dopo un’estate
sfidante. E ancora: come intercettare
la New Gen. È un quadro complesso sugli ultimi trend
di mercato, tra incertezza economica e nuove tendenze
di consumo, quello tratteggiato da Vinarius,
l’Associazione delle Enoteche Italiane.
Muovendo da un bilancio dell’anno
trascorso, l’indagine evidenzia gli
andamenti delle vendite, mettendo
a confronto il 2024 con il 2023.
Il Natale 2024 delle enoteche
Grazie al contributo degli enotecari
Vinarius, veri osservatori privilegiati
delle dinamiche del mercato, emergono
sul 2024 dati e considerazioni che rappresentano
uno strumento prezioso non solo
per il settore enologico, ma per chiunque voglia
interpretare il comportamento dei consumatori. “Le enoteche”,
spiega Andrea Terraneo, presidente Vinarius, “continuano
a essere un punto di riferimento per comprendere
i trend di consumo. Il dialogo diretto con il pubblico offre
una prospettiva unica sul mercato e consente di osservare
in tempo reale i cambiamenti nelle scelte dei consumatori.
I dati raccolti da Vinarius, anno dopo anno, si confermano
DI RICCARDO COLLETTI
una risorsa autorevole per l’intero comparto vitivinicolo”.
Il confronto tra le vendite estive 2023 e 2024 rivela un contesto
sfidante: il 54,5% degli enotecari segnala infatti una
diminuzione del fatturato seppure lieve in percentuale,
mentre solo il 9,1% ha registrato un miglioramento. Per il
restante 36,4%, i volumi sono rimasti invariati. Sebbene le
previsioni per la stagione natalizia riflettano ancora qualche
incertezza, con il 45,5% degli intervistati ha
una previsione di un calo, è importante notare
che una parte significativa degli enotecari,
pari al 27,3%, si mostra ottimista
rispetto a un possibile incremento,
segno che il mercato può riservare
sorprese positive.
Trend: atteso boom per i grandi
vini rossi e lo Champagne
A fronte di un quadro complesso, quali
le tendenze sulle previsioni di consumo
per le prossime festività? Le potenzialità di
crescita per categorie prodotto sono chiare: si evidenzia
un netto predominio delle grandi Denominazioni
dei vini rossi, indicato come prodotto con la maggiore crescita
prevista (45,5%), seguito dallo Champagne (36,4%),
dal Metodo Classico italiano (9,1%) e da vini dolci o Passiti
(9,1%). Per quanto riguarda i vini bianchi, le vendite estive
sono rimaste stabili per il 54,5% degli enotecari, mentre
solo il 9,1% ha rilevato un incremento. Un dato analogo
La New Gen e il vino
Anche il tema della propensione al consumo è stato sottoposto
ad analisi, in particolare sotto osservazione è stato
messo il target delle nuove generazioni (18-25 anni), che
mostrano una minore propensione al consumo di alcol
rispetto ai loro predecessori (63,6%). “Questa tendenza”,
conclude Terraneo, “invita a una riflessione: c’è spazio per
avvicinare i giovani a un consumo consapevole, valorizzando
l’esperienza culturale e sensoriale che il vino è in grado
di offrire, ben oltre la mera funzione di bevanda”.
Il ruolo dell’enotecario
Oltre alle dinamiche e alle tendenze del business, una componente
rilevante per lo sviluppo del business riguarda il
ruolo svolto dall’enotecario. O meglio, del professionista,
chiamato a rinnovare il suo impegno, a comprendere l’approccio
che muta da parte dei consumatori per stabilire
una relazione empatica e duratura nel tempo. Proprio in
occasione del contest dedicato al Miglior Enotecario Professionista
d’Italia 2024, i premi sono andati a tre under 40.
Il riconoscimento organizzato da Aepi (Associazione Enotecari
Professionisti Italiani) è stato consegnato a Roma
nella prestigiosa ed elegante cornice di Palazzo Valentini.
I vincitori sono: Silvia Angelozzi per la categoria Enoteche
con mescita, Daniele Liurni con il doppio premio Enoteche
con asporto e Migliore Enoteca di Roma Città Metropolitana,
Daniele Leopardi, Migliore Enotecario italiano
all’Estero a Parigi, e Mattia Manganaro, Miglior Enotecario
Under 30. Ciò che emerge dall’iniziativa promossa
da Aepi è un elemento importante per l’intero settore.
Gli enotecari professionisti sono giovani, molto preparati
e sanno unire sensibilità, doti comunicative e manageriali,
preparazione tecnica e capacità di capire le tendenze
del futuro. Un elemento, quest’ultimo, particolarmente
importante. Dalle prove di gara risulta, infatti, che anche
la maggiore sfida per il settore enologico, avvicinare i vini
ai giovani, può essere vinta a patto di cambiare approccio,
come evidenziato da Filippo Gastaldi, presidente di
Aepi: “L’enotecario ha il compito di avvicinare al vino con
professionalità senza intimorire le persone, trasmettendo
passione ma anche rispetto per ogni cliente, che non deve
essere visto come un numero, ma come una persona con
proprie esigenze, possibilità e gusti”.
34
CHAMPAGNE
In foto, da sinistra: Domenico Stile, Francesca Terragni, Silvia Rossetto e Rudy Travagli - Photo: Matteo Lippera
Dom Ruinart 2013:
la felice conferma
L’esordio della nuova annata della Cuvée Blanc de Blancs
promuove la scelta dell’affinamento con tappo in sughero
DI MATTEO BORRÈ
Un Dom Ruinart 2013 fa il suo esordio e la seconda release del nuovo corso
inaugurato con il millesimo 2010 che l’aveva preceduta testimonia quanto
felice sia stata l’intuizione di ritornare alle origini scegliendo d’intraprendere
la via dell’affinamento con tappo in sughero, in un vero e proprio omaggio
a Dom Thierry Ruinart, la cui visione è ancora oggi perpetrata dalla
più antica Maison de Champagne. Si tratta della 28esima annata per la Cuvée de Prestige,
millesimato Blanc de Blancs che racconta una delle più pure espressioni di Chardonnay
della Champagne. Per dare forma a Dom Ruinart, infatti, la Maison seleziona
le migliori uve provenienti da terroir eccezionali, principalmente classificati
come Grand Cru, scelti per il loro potenziale di invecchiamento e
la loro complessità aromatica. Una ricetta che con il millesimo 2013
ha visto due importanti interventi, che hanno condotto all’aggiunta
di nuovi villaggi nella “ricetta”, con anche l’incremento del 10%
del contributo della Montagne de Reims. Da un lato, infatti, lo
Chardonnay della Côte des Blancs, con Le Mesnil-sur- Oger, Avize,
Chouilly e Bergères-lès-Vertus, a comporre il 70% della Cuvée;
dall’altro, i frutti per l’appunto della Montagne de Reims, con Verzenay,
Sillery, Taissy e Villers-Marmery, a completare l’assemblaggio.
Poi, una mano che resta fedele nella firma alla plurisecolare expertise
della Maison. “Presentare una Cuvée di Dom Ruinart è un’opportunità
rara per scoprire l’impronta di una specifica annata in un Blanc de Blancs eccellente”,
sottolinea lo Chef de Caves Frédéric Panaïotis. “Il 2013 è stato caratterizzato
da una vendemmia molto tardiva, che ha portato allo Champagne maggiore freschezza e
aromi tostati esaltati dall’affinamento con tappo in sughero”. Nel calice, si ritrova una freschezza
aromatica dello Chardonnay delicatamente bilanciata da una struttura complessa.
Il processo di tappatura esalta questa complessità aromatica, preservando al contempo la
freschezza e la tensione dinamica. Nel giorno del suo esordio ufficiale, proprio la scelta
dell’affinamento con tappo in sughero regala a Dom Ruinart 2013 una prontezza mol-
to più accentuata rispetto a quanto accadeva in passato al primo incontro con una nuova
annata. Bellissima l’integrazione tra acidità, mineralità e anima gourmet di questa Cuvée
de Prestige che col passare del tempo in bottiglia è solita guadagnare ancora più carattere
e complessità. Delizioso, già ora, con una delicata nota mentolata e un finale molto balsamico.
Da segnalare, in Dom Ruinart Blanc de Blancs 2013, la scelta di portare il dosaggio
a 5,5 g/l, rispetto ai 4 g/l su cui la Cuvée si era attestata nelle edizioni passate, una decisione
coerente con una vendemmia eccezionalmente tardiva, che ha visto il suo inizio, il 30
settembre, in ritardo di 20 giorni rispetto alla media decennale, ma soprattutto,
alla prova dei fatti, il perfetto bilanciamento che esalta l’armonia di questo
Extra Brut. Per una novità che ha fatto il suo debutto, nell’ambito del
progetto “Cellar To Table” della Maison, sul palcoscenico del ristorante
due Stelle Michelin Enoteca La Torre a Villa Laetitia di Roma.
Servita dal restaurant manager e sommelier, classe ‘79, Rudy Travagli,
ha accompagnato le creazioni dello chef Domenico Stile, classe
’89. Dopo un aperitivo con Blanc de Blancs Ruinart, vino delicato
che nella sua raffinata semplicità esprime la freschezza aromatica
dello Chardonnay, il menù ha visto giungere in tavola piatti intriganti
e coinvolgenti scanditi da profumi, luce, colori di una cucina che
vorrebbe fosse sempre di festa. Uovo, taleggio di bufala, tartufo nero ai
sentori di sottobosco e Risotto ai limoni di Amalfi, vongole veraci, cannolicchi
e yogurt di bufala hanno sposato il Dom Ruinart 2013: un’esplosione di
aromi al naso e un tripudio di intensità ed equilibrio al palato. Un seducente Dom Ruinart
Rosé 2009, corposo, croccante e delicatamente aromatico, è stato abbinato all’agnello
alla Villeroy, uno dei grandi classici della cucina francese, che lo chef di origini partenopee
ha reinterpretato con nuove tecniche che lo rendono più delicato e sottile ma comunque
caratterizzato da un sapore intenso. Per concludere, una kermesse di dolci e un calice
di Dom Ruinart Rosé 2002, sboccato 2015: una chicca enologica, invecchiato 10 anni
nelle Crayères Ruinart, vino ricco definito da un’ampiezza e un volume eccezionali.
10
12
FEBBRAIO
2025
PARIS EXPO
PORTE DE
VERSAILLES
L’abuso di alcol è pericoloso per la salute, consumare con moderazione.
36
Photo: Phillippe_Labeguerie
Nascono Tenute Caviro:
Giovanni Lai
al timone del nuovo
polo Premium
Tenuta Mazzolino:
arriva Blanc de Noirs, Metodo
Classico 100% Pinot Nero
TITOLI DI CODA
Wine Paris 2025:
appuntamento a Parigi
dal 10 al 12 febbraio prossimi
Ritorna dal 10 al 12 febbraio prossimi l’appuntamento
con Wine Paris 2025, evento che
trasformerà la capitale francese nell’epicentro
mondiale della filiera del vino e degli alcolici.
Dopo tre anni di forte crescita, la kermesse
continua a registrare un incremento nei numeri,
con oltre 4.600 espositori provenienti
da 50 Paesi produttori e 50mila visitatori, di
cui il 45% internazionali, attesi a Parigi da 140
nazioni. Organizzata da Vinexposium, la fiera
ha raggiunto una portata internazionale senza
precedenti, assicurandosi la posizione di punto
di riferimento unico e mondiale e strumento
di influenza economica e politica. Mentre il
settore affronta profondi cambiamenti geopolitici,
economici e ambientali, la sesta edizione
di Wine Paris si preannuncia strategica per
fornire soluzioni concrete per tutta la filiera.
“Di edizione in edizione, Wine Paris si è imposto
nella mente di tutti, a livello mondiale,
come un luogo d’influenza primaria, catalizzatore
delle correnti di pensiero, rivelatore di
tutte le tendenze e forza trainante per l’intero
settore”, sottolinea Rodolphe Lameyse, Ceo di
Vinexposium. “Più che mai, l‘edizione 2025
svolgerà un ruolo cruciale per tutti gli operatori
francesi e internazionali della filiera del vino
e degli alcolici”. A Wine Paris 2025, si assisterà
a una crescita a doppia cifra della superficie
per diversi Paesi produttori, tra cui Germania
(+65%), Austria (+35%), Cina (+60%), Spagna
(+40%), Portogallo (+61%) e Romania
(+75%). La manifestazione accoglierà anche
numerose nuove collettive internazionali: Sudafrica,
Argentina, Armenia, Cile, Ungheria,
Macedonia del Nord, Uruguay e, soprattutto,
l’Australia. Vero DNA dell’evento, la presenza
francese, che occuperà l’intero padiglione 7, è
in crescita anche quest’anno, con un aumento
del 7% del numero di produttori presenti.
Anche l’Italia raddoppia ancora una volta la
superficie espositiva, con il Padiglione 6 interamente
dedicato e oltre 600 espositori annunciati.
Per l’universo dei superalcolici, infine,
la vetrina di Be Spirits, evento nell’evento
che accoglierà distributori, barman ed esperti
da tutto il mondo attorno a oltre 200 produttori,
di cui il 38% di nuovi arrivi e il 30% d’internazionali
provenienti da 27 Paesi.
Caviro cambia volto. Nuovo assetto strategico per la
più grande cantina d’Italia, che riorganizza la propria
divisione vino con l’obiettivo di esaltare ogni singola
realtà produttiva che ne compone il portfolio. La rinnovata
strategia vedrà, ora, da un lato Cantine Caviro,
ovvero tutti i marchi che sono la massima espressione
dei soci viticoltori, da Nord a Sud, a partire da Tavernello
– sintesi completa della filiera di Caviro – fino ad
arrivare alle specificità territoriali come Feudo Apuliano,
Vigneti Romio o Fatascià; dall’altra, si apre il nuovo
capitolo di Tenute Caviro che, ad oggi, delinea i territori
del Chianti e della Valpolicella dove il Gruppo vanta
aziende di proprietà, quali Leonardo Da Vinci Spa e
Cesari Spa. Si rafforza così il polo Premium con la nomina
di Giovanni Lai che aggiunge alla guida della storica
realtà veronese anche quella dell’azienda toscana in
qualità di nuovo direttore generale. L’iniziativa vede la
sua forza commerciale nella distribuzione sul territorio
nazionale attraverso la società di proprietà dalle Vigne
e la rete commerciale export unificata sotto la guida di
Luisa Bortolotto, direttore commerciale estero.
30 anni
di Ripasso Tommasi Viticoltori,
che sceglie la bottiglia di vetro
leggero
Un viaggio tra passato e futuro: è quello che celebra i primi
30 anni del Ripasso Valpolicella Classico Superiore di
Tommasi Viticoltori. Un vino che fin dall’inizio ha conquistato
l’immaginario collettivo, grazie alla sua iconica
etichetta blu. L’azienda veronese festeggia con una nuova
etichetta celebrativa e un’esclusiva edizione limitata
di 10mila cofanetti Magnum, personalizzata dall’artista
digitale Andrea Gnesato. Per il 30esimo anniversario, poi,
Tommasi alza ulteriormente
l’asticella
del suo impegno
verso la sostenibilità.
Il Ripasso sarà
disponibile in una
bottiglia di vetro
leggero da 410
grammi, una scelta
che, calcolatrice
alla mano, riduce
del 40% l’impatto
ambientale, abbattendo
i costi
di produzione e
trasporto e diminuendo
le emissioni
di CO2.
Una nuova bollicina, simbolo di eccellenza da una vigna
ventennale dal nome bucolico: Valle dei Prati. Per
un Metodo Classico 100% Pinot Nero che marca il debutto,
con circa 3500 bottiglie del millesimato 2020, del
Blanc de Noirs Oltrepò Pavese Docg di Tenuta Mazzolino.
La novità prende forma dal solo “coeur” della pressatura:
poi, sono 36 mesi quelli del riposo sui lieviti, il
10% in legno, fino ai 3,5 grammi/litro di dosaggio, con
la sboccatura avvenuta a febbraio di quest’anno.
Dall’Alto Adige all’Italia:
quali sono i migliori
Sauvignon Blanc
Dove sta andando il Sauvignon Blanc? A tracciare una
mappa per il futuro ha provato, il 7 novembre, la tavola
rotonda intitolata “Le espressioni del Sauvignon Blanc:
confronto e dialogo tra terroir e stilistiche”, promossa
dall’Associazione Sauvignon Alto Adige. L’occasione
ha fatto anche da palcoscenico per la proclamazione dei
vincitori del sesto Concorso Nazionale del Sauvignon.
Sul gradino più alto del podio il Sauvignon Lafòa Alto
Adige Doc Cantina Colterenzio, seguito in seconda
piazza dal Sauvignon Aristos Alto
Adige Doc Cantina Valle Isarco,
mentre in terza posizione,
a pari merito, il Sauvignon
Ombrasenzombra Colli Piacentini
Doc La Tosa e il De
Silva Sauvignon Blanc Alto
Adige Doc Cantina Peter Sölva.
E ancora...
Alto Adige: la zonazione e le UGA sono realtà. Cresasso
20th Anniversary Collection: l’omaggio di Zenato alla
Corvina Veronese. Vino dealcolizzato, arriva il Decreto
del Masaf. Gruppo Lunelli: presentato per la prima volta
il Report Sostenibilità. Osservatorio Federvini: vino,
Spirits e aceti si salvano nel 2024 grazie all’export. Vajo
dei Masi: debutta l’eccezionale annata 1999 dell’Amarone
della Valpolicella Classico che sfida il tempo. Tasca
d’Almerita cede il resort Capofaro a Salina e si riorganizza.
Bollicine: gli spumanti italiani in Usa tornano ai record
post Covid. Ca’ del Bosco celebra la prima edizione
del premio Scultura con l’opera handandland di Irene
Coppola. Radici del Sud cambia
location: appuntamento all’ex
Distilleria Cassano dal 4 al 9
giugno 2025. Tessa: debutta il
nuovo software per la tracciabilità
del vino italiano
realizzato da Valoritalia insieme
a Eos Solutions e Microsoft.
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Plantation Rum Black Cask 2023 è
la nona uscita della serie che celebra
l’incontro tra culture e tradizioni
del rum, per un’edizione limitata
in cui il meglio di Barbados si
fonde a quello del Venezuela.
Un’armoniosa miscela di
rum dal profilo elegante ed
equilibrato che, dopo il primo
invecchiamento in botti
ex-bourbon nel loro paese
d’origine, in un clima
tropicale, attraversano
l’Atlantico fino a
giungere in Francia,
dove l’assemblaggio
è sottoposto a una
seconda maturazione in
botti di rovere francese,
leggermente tostate. Ne
nasce un’espressione
intensa e fresca,
con delicate note di
pasticceria e agrumi.
Giunge dall’India Nao Spirits Pipa Ruma de
Goa. Un Jaggery Spiced Rum che racconta
in un distillato le tradizioni di un Paese
lontano. Questa tipologia si ottiene dallo
zucchero di canna non raffinato: l’infusione
in pepe nero, chiodi di garofano e cannella
precede l’invecchiamento di due anni in
botti di Porto. Al naso emergono note di
nocciole tostate e fichi. Al palato è morbido
e intrigante: ricorda il cioccolato fondente
con una spolverata di sale marino. Il finale è
lungo e bilanciato, con pepe nero e chiodi di
garofano in chiusura.
DISTILLATI – LIQUORI – AMARI
Una novità pronta a rivoluzionare il
panorama della mixology. Il frutto della
collaborazione tra Joe Bastianich e Flower
Farm, che mettono al centro del loro
progetto l’utilizzo del puro olio essenziale
di canapa, ingrediente chiave che infonde
aromi intensi e un’esperienza sensoriale
unica. Gin Flower Good è un distillato dove
i terpeni della varietà di cannabis Holy Grail
si combinano armoniosamente con ginepro,
cardamomo, coriandolo e liquirizia.
Morbido, aromatico, le note di cardamomo
emergono con forza, seguite dalle
sfumature dolci della liquirizia. Il terpene
Holy Grail, poi, conferisce freschezza
balsamica, mentre una lieve nota agrumata
di cannabis chiude la degustazione,
lasciando spazio a ginepro e coriandolo. Da
degustare in purezza o miscelato in abbinata
a una tonic water secca.
Wakatsuru Saburomaru The High Priestess Single Malt
Whisky è un vero tesoro raro che arriva dal Giappone.
Il frutto di una doppia distillazione: la prima avviene
nel classico alambicco in rame, mentre la seconda in
alambicco Zemon, il primo al mondo creato con una lega
di rame e stagno in collaborazione con un’azienda che
fabbrica le campane dei templi. Un vero capolavoro dal
Paese del Sol Levante, che al naso si presenta elegante
e delicato, con note di torba e carbone, olio d’arancia,
ricordi di katsuobushi, legno e menta fresca. Al palato è
di medio corpo, con una consistenza morbida e delicata:
emergono ancora torba e carbone con gli agrumi e il tutto
si unisce alla dolcezza del malto e rimandi alla vaniglia.
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DISTILLATI – LIQUORI – AMARI
I guardiani
del tempo
Un’epopea lunga due secoli: i 200 anni di Maison Delamain
in un Cognac esclusivo per il bicentenario
DI MATTEO BORRÈ
Si può essere ancora contemporanei con 200 anni di storia alle spalle? A rispondere
è Maison Delamain, che quest’anno ha tagliato il prestigioso traguardo,
celebrando l’anniversario della sua fondazione avvenuta nel 1824. Importato in
Italia da Sagna S.p.A., rappresenta uno dei volti più scintillanti e noti dell’universo
Cognac. Lo è per diverse ragioni, a iniziare dalla scelta da sempre di produrre
nobili acquaviti esclusivamente da uve della Grande Champagne e solo extra-vecchi.
Poi, come il traguardo dei 200 anni testimonia, a definire il fascino delle produzioni firmate
Maison Delamain sono tre pilastri su cui esse si fondano: il tempo, la
natura e le persone. Il primo elemento regala armonia, lasciando che i
Cognac si esprimano in tutta la loro unicità; il secondo fattore offre gli
ingredienti necessari per dare vita a creazioni ogni volta più sorprendenti;
la terza componente racconta un’epopea, che conta nove generazioni
di savoir-faire nell’arte della distillazione, di cui sette di famiglia
e due legate a chi li distribuisce da quattro decadi nel Belpaese, fedele
compagno di viaggio. Un insieme che è possibile toccare con mano, un
sorso dopo l’altro, come mostrato dall’incredibile tasting in cui ha fatto
il suo esordio l’Edition Rare du Bicentenaire, culmine di 200 anni di savoir-faire.
Andato in scena presso il ristorante con cigar room l’Affinatore
a Milano, l’evento ha visto la presenza di Charles Braastad ed Eric Le
Bouar, rispettivamente Cellar Master e Ceo di Maison Delamain. Una
masterclass davvero unica ha introdotto la speciale release, blend di Cognac
XO in edizione limitata in cui sono combinate cinque rarissime acquaviti, tra cui la
1893, l’iconica 1914 e la grande annata 1947, oltre alle 1965 e 1969, appartenute a diverse
generazioni che le hanno selezionate, curate e soprattutto preservate. I volti che si sono
ceduti il testimone e che rivivono in questa creazione prodotta in 200 esclusive bottiglie,
due sole disponibili per l’Italia, sono quelli di Jean Delamain, figlio di Jacques, il famoso
ornitologo che ha selezionato il blend più vecchio, Noël Suazey, genero di Jacques Delamain,
Alain Braastad, pronipote di Philip Delamain e nipote di Robert Delamain, Patrick
Peyrelongue, pronipote di Robert Delamain, Dominique Touteau e Charles Braastad, gli
ultimi due maestri cantinieri di Maison Delamain. “Siamo dei selezionatori”, spiega Dominique
Touteau. “La finezza di un Cognac e l’eleganza sono il risultato di una selezione e si
rivelano nel tempo”. Proprio come evidenzia alla perfezione questa eccezionale uscita del
bicentenario, che vede anche una preziosa dame-jeanne da 10 litri, realizzata per l’occasione
a mano dagli artigiani della Maison d’Art Goossens e riservata a una vendita all’incanto
presso la casa d’aste internazionale Bonhams. Un esemplare unico, abbellito e arricchito
da 245 pezzi realizzati singolarmente, ognuno dei quali evoca i paesaggi
della Grande Champagne: tra la vite e le foglie di quercia, le orchidee
selvatiche, le bacche e il trifoglio, due uccelli conversano attraverso la
leggendaria miscela. Un blend che segna anche un nuovo passaggio di
consegne, quello tra Dominique Touteau e Charles Braastad, dopo una
liason lunga 42 anni dello storico Cellar Master con Maison Delamain,
di cui 30 di lavoro in coppia con il suo successore. “Questo bicentenario
è stata l’occasione perfetta per creare un Cognac degno del 200esimo
anniversario di Maison Delamain”, afferma Charles Braastad (in foto).
“Degustando questi straordinari distillati, ci siamo profondamente
commossi e abbiamo provato un’immensa gratitudine nei confronti dei
miei antenati Maître de Chai, che hanno fatto un lavoro così egregio nel
confezionare, selezionare, maturare e nutrire queste acquaviti, preservandole
per i loro discendenti, in modo che oggi possiamo riunirle in
questo rarissimo ed eccezionale Edition Rare du Bicentenaire”. Un tesoro destinato solo
a pochi, che arricchisce con una nuova gemma il catalogo Spirits di Sagna S.p.A. “È motivo
di grande orgoglio essere uno degli importatori e distributori più storici della Maison
Delamain”, chiosa Leonardo Sagna. “Questa celebrazione rappresenta il modello della nostra
filosofia di selezione dei nostri fornitori con i quali instauriamo delle solide relazioni
umane e professionali, partner a gestione familiare, che si tramandano il proprio savoir-faire,
in grado di garantire con i loro prodotti qualità, serietà e continuità nel tempo”.
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Il ritorno della Serie
Magnum: il rum incontra
i maestri della fotografia
La seconda edizione della serie Magnum, che unisce l’eccellenza
del rum e della fotografia, vede ancora una volta i
distillati selezionati da Luca Gargano, presidente di Velier,
abbinati alle fotografie di Alex Webb dell’agenzia Magnum
Photos. Dopo un’anteprima al Whisky Live di Parigi, la più
importante fiera d’Europa dedicata agli Spirits, il lancio ufficiale
in Italia il 12 novembre durante una serata esclusiva
al Remedy di Milano. La serie Magnum nasce nel 2021
dall’idea di unire grandi maestri del rum con maestri della
fotografia. Luca Gargano, patron di Velier, è stato uno
dei primi a usare fotografie dei suoi viaggi sulle etichette
dei rum scoperti. La collaborazione con Magnum Photos,
fondata nel 1947 da leggende come Robert Capa e Henri
Cartier-Bresson, ha dato vita al progetto, con la prima
edizione ad aver presentato le immagini iconiche di Elliott
Erwitt. La seconda edizione omaggia invece Alex Webb,
noto per le sue immagini ricche di colori vibranti, che catturano
momenti emblematici spesso in contesti socio-politici
complessi. Questa complessità si riflette anche nei
distillati di qualità, dove la stratificazione di elementi organolettici
crea una somma superiore
alle singole parti. I quattro rum
creati da Luca Gargano sono
frutto di un’attenta selezione
e miscelazione di distillati in
small batch: Beenleigh 2015 8
Y.O., Clarendon 10 Y.O., Hampden
13 Y.O., Saint James 12 Y.O.
Gen Z, di età compresa tra i 18 ei 29 anni, prevede infatti
di dedicarsi con maggiore frequenza al momento
dell’aperitivo entro il 2025. “L’occasione dell’aperitivo
si sta evolvendo e la risposta positiva della Gen Z è incredibile”,
afferma François in Albon, direttore generale
di Bacardi per l’Europa del Sud. “Cocktail come
l’Americano Martini, il St-Germain Hugo e il Bombay
Sapphire & Tonic stanno rivoluzionando il momento
dell’aperitivo. Inoltre, la prossima grande tendenza nel
mondo dei distillati è il tequila, come dimostra la crescente
popolarità del Margarita e del nostro Tequila
Patrón”. La cultura del cocktail sta crescendo in Italia,
soprattutto tra i giovani adulti. I rispondenti al sondaggio
della Generazione Z (dai 18 ai 29 anni) mostrano
un sempre maggiore interesse per i cocktail rispetto alla
birra e al vino. In Italia, il 32% dei giovani ha dichiarato
che, rispetto all’anno scorso, è più propenso a bere un
cocktail piuttosto che il vino, e il 27% ha detto lo stesso
riguardo alla birra. C’è anche un crescente apprezzamento
per gli ingredienti di qualità: il 22% degli intervistati
beve più alcolici premium rispetto ad un anno fa, e
più di un terzo (35%) afferma che sarebbe disposto a pagare
di più per cocktail preparati con distillati di qualità
superiore. L’anno che verrà si prospetta molto promettente
per il settore dell’ospitalità in Italia, con una percentuale
elevata di intervistati che afferma che uscirà a
mangiare fuori più spesso (35%), frequenterà più locali
notturni e ristoranti (25%), bar con musica (27%) e sorseggerà
drink nella golden hour (31%). I numeri sono
ancora più alti per i rispondenti della Generazione Z,
con il 44% che dichiara la volontà di andare più spesso
al ristorante e in locali notturni, il 42% di frequentare
maggiormente i bar con musica e quasi la metà (49%)
di godersi di più gli aperitivi serali. Le prospettive per le
discoteche non sono altrettanto positive, con il 37% di
tutti gli intervistati che frequenterà meno i night club.
una storia fatta di malto, botti e
santa pazienza”. Una new entry
(Alc. 46% Vol) che deve
il suo nome al luogo dove si
riuniscono i cardinali della
Chiesa cattolica per eleggere
il nuovo Papa, con clavis, “chiusi
sotto chiave”. Proprio come le
botti in cui invecchiano per lunghi anni le creazioni Poli
Distillerie. Conclave è, come anticipato, un whisky ottenuto
da due tipi di puro malto d’orzo, torbato e non
torbato, distillati separatamente in piccoli lotti con uno
speciale alambicco a bagnomaria appositamente modificato
per catturare gli aromi della materia prima. I new
make spirits così ottenuti riposano in botti di quercia
bianca di media tostatura, usate e rigenerate, in modo
da estrarre dai pori del legno solo i tannini più morbidi.
Dopo cinque anni di invecchiamento si procede
all’unione delle singole barrique, per ottenere un whisky
dal carattere unico. L’acqua utilizzata è attinta dalla
falda acquifera del monte Grappa, territorio considerato
“Riserva della Biosfera” dall’Unesco. Il nuovo whisky
Conclave possiede però un’indole internazionale, che
svela fin da subito la sua affinità con la tradizione scozzese,
mirando a incontrare anche il gusto dei puristi.
Bombay Sapphire & Tonic:
i Coma_Cose ridisegnano
il celebre balloon glass
DISTILLATI – LIQUORI – AMARI
Bacardi Cocktail Trends
Report 2025:
la Gen Z vota per l’aperitivo
Sarà un 2025 targato aperitivo per l’universo degli Spirits.
A evidenziarlo è l’indagine realizzata nell’ambito del
sesto Bacardi Cocktail Trends Report, che anticipa le
principali tendenze annuali che ridisegneranno la cultura
globale dei cocktail e il mercato dei distillati. Circa
la metà (49%) dei consumatori italiani appartenenti alla
Un nuovo whisky
per Poli Distillerie:
arriva Conclave
Habemus Conclave. Dopo il whisky made in Veneto,
ne arriva oggi un secondo dal taglio più internazionale
per Poli Distillerie. Malto, botti e santa pazienza: questa
la ricetta che ha portato alla nascita, a tre anni dalla
prima, di una seconda creazione dopo Segretario di Stato.
Conclave, questo il nome scelto dalla famiglia Poli,
è ottenuto da due tipi di puro malto d’orzo, torbato e
non torbato, distillati separatamente in piccoli lotti con
uno speciale alambicco a bagnomaria appositamente
modificato per catturare gli aromi della materia prima.
“Con Segretario di Stato”, spiega Jacopo Poli, “abbiamo
voluto esplorare con umiltà e rispetto un mondo per noi
affascinante ma completamente nuovo. I tanti segnali di
apprezzamento ricevuti ci hanno spinto a proseguire su
questa strada, con accresciuta consapevolezza ed esperienza,
dando così vita a Conclave, un whisky dall’identità
precisa e definita, capace di raccontare in ogni sorso
Bombay Sapphire svela la nuova collaborazione con il
duo milanese indie-pop Coma_Cose, dando vita ad una
limited edition disponibile per un periodo limitato su
Winelivery e che rinnova lo stile e il design del celebre
balloon glass, rendendolo ancora più perfetto al momento
dell’aperitivo per gustare il sapore fresco e aromatico
di Bombay Sapphire & Tonic. Ispirato da un gusto profondamente
contemporaneo, ma mantenendo l’iconica
forma balloon, il nuovo design firmato Coma_Cose presenta
il profilo di due figure che si completano dando
vita alla combinazione perfetta. Gli artisti si sono lasciati
ispirare dalle loro anime così diverse, ma che insieme riescono
a creare qualcosa di magnifico. La sintesi perfetta
di ciò che Bombay Sapphire & Tonic rappresenta: il perfect
match tra ingredienti diversi che insieme restituiscono
un’esperienza sensoriale unica, rendendo il glassware
Bombay Sapphire una scelta ancora più perfetta per l’ora
dell’aperitivo. La collaborazione di quest’anno con il
duo musicale Coma_Cose è l’ultima di una serie ispirata
al design lanciata in Europa. La prima è stata inaugurata
a gennaio con la celebre attrice spagnola Anna Castillo,
che ha collaborato con il brand per creare un nuovo
cocktail ed un design esclusivo sul balloon glass per rendere
omaggio al suo amore per il mare.