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Delitto in alto mare

La caduta sembrò infinita. Non ci furono spruzzi, o vennero inghiottiti dalle onde. Per un istante, Isobel rimase come pietrificata, poi il suo buon senso prese il sopravvento e la fece ritirare rapidamente nell’ombra. A bordo della S.S. Marianna, Isobel Petty è testimone di un fatto scioccante: qualcuno è stato gettato in mare nel cuore della notte. Il comandante insiste a dire che a bordo non manca nessuno, così Isobel e i suoi nuovi amici sono chiamati a risolvere due misteri – l’identità dell’assassino e quella della vittima – prima che la nave raggiunga l’Inghilterra e il colpevole possa far perdere le proprie tracce. Un avvincente giallo storico scritto da una giovane autrice al suo debutto nella narrativa per ragazzi.

La caduta sembrò infinita. Non ci furono spruzzi, o vennero inghiottiti dalle onde. Per un istante, Isobel rimase come pietrificata, poi il suo buon senso prese il sopravvento e la fece ritirare rapidamente nell’ombra.
A bordo della S.S. Marianna, Isobel Petty
è testimone di un fatto scioccante: qualcuno è stato gettato
in mare nel cuore della notte.
Il comandante insiste a dire che a bordo non manca nessuno, così Isobel e i suoi nuovi amici sono chiamati a risolvere due misteri – l’identità dell’assassino e quella della vittima – prima che la nave raggiunga l’Inghilterra e il colpevole possa far perdere le proprie tracce.
Un avvincente giallo storico scritto da una giovane autrice al suo debutto nella narrativa per ragazzi.

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Ella Risbridger è una scrittrice londinese. Il suo primo libro di

cucina, Il pollo di mezzanotte e altre ricette per cui vale la pena di vivere,

è stato scelto come Libro dell’anno 2019 da numerose testate

britanniche, tra cui The Times, The Daily Mail e The Observer. Ha

inoltre ricevuto il Guild of Food Writers Award. Delitto in alto mare è

il suo primo libro per ragazzi.



© 2021 by Nosy Crow Ltd

© 2021 by

è un marchio

Via Jucker, 28 - Legnano (MI) - Italia

© 2021 Ella Risbridger per i testi

© Ray Tierney, 2021 per l'illustrazione di copertina

Titolo originale: The Secret Detectives

Traduzione dall'inglese di Michela Guardigli

Tutti i diritti sono riservati - Stampato in Croazia


per Leila

&

per Lettie

- E.R.

“Durante il lungo viaggio per l’Inghilterra, fu affidata

alla moglie di un ufficiale, la quale accompagnava i

figli in un collegio. La signora era molto occupata con

i suoi bambini e, una volta arrivati a Londra, fu ben

lieta di affidare la ragazzina alla donna […] mandata

appositamente.”

– Il giardino segreto, Frances Hodgson Burnett,

trad. it. di Luca Lamberti



Capitolo 1

Una creaturina buffa

Settimana 1

Calcutta, Golfo del Bengala,

Mar delle Laccadive, Mar Arabico

A Isobel, Letitia non era piaciuta fin dall’inizio.

Non perché la cosa fosse reciproca, anche se

probabilmente lo era.

Isobel non piaceva a nessuno, forse perché anche a lei

non piaceva praticamente nessuno.

Per Isobel, la gente apparteneva quasi a un’altra specie.

Seguiva regole che non le erano mai state insegnate;

come se tutti conoscessero i passi di una danza di cui lei

non aveva mai sentito la melodia. La gente si osservava

a vicenda fin troppo a lungo. Diceva bugie senza motivo.

Sapeva stare insieme agli altri in modi che Isobel non

conosceva, per questo a lei non piaceva nessuno, di quelli

che conosceva, ovvio. Non aveva ancora incontrato

molte persone, e quasi nessuna della sua età. Pochissima

gente veniva in visita a Steel’s Way. Steel’s Way era la

casa fuori Calcutta dove prima viveva Isobel.

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«Tu sei Isobel Petty», aveva detto Letitia quando

si erano conosciute. «E io sono la signorina Letitia

Hartington-Davis.» Lo disse come se Isobel dovesse

conoscerla.

Il suo nome suonava un po’ come uno starnuto, pensò

Isobel: le-TISC-iah, etsciù!, salute!

Erano rimaste sul molo di Calcutta, in attesa

dell’imbarco. «Ho dieci anni. Tu hai la mia stessa età.»

«In realtà io ne ho undici», rispose Isobel. Questo

avrebbe dovuto, secondo lei, darle una certa superiorità,

ma era difficile sentirsi superiori a Letitia. Letitia aveva

molta padronanza di sé; era alta per avere dieci anni,

e molto in gamba, e lo sapeva. Era anche – persino

Isobel poteva notarlo – una bambina piuttosto amabile.

Piaceva agli adulti, e questa era una delle ragioni per

cui con Isobel le cose andavano diversamente. Isobel

non era il tipo di bambina che piaceva agli adulti. Lo

sapeva bene. Era tutta sbagliata, da ogni punto di vista:

era trasandata e con il volto affilato, e le guance non

erano rosa, né dorate, né abbronzate, ma di un giallo

biancastro, come se fosse cresciuta sotto un tronco

invece che sotto il bel sole indiano.

La sua faccia era sbagliata, così come le sue maniere

e anche i suoi vestiti. Il suo vestito nero, che avrebbe

dovuto essere dignitoso, riusciva a essere allo stesso

tempo troppo stretto e troppo largo. Il tessuto era

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stato scelto incautamente dalla fine di un rotolo

lasciato al sole, così in alcuni punti (dove era stato

in ombra) era nero, e in altri (dove la luce lo aveva

sbiadito) era marroncino. Abbinato ai suoi tratti

– occhi un po’ troppo grandi e rotondi per il suo

viso; naso e mento un po’ troppo allungati – la faceva

assomigliare a una cornacchia. E Isobel lo sapeva.

Non era andata così male nello studio dell’avvocato,

ma era andata molto peggio a casa del sacerdote dove

aveva alloggiato, per non parlare dell’istante in cui

aveva conosciuto gli Hartington-Davis. La moglie del

colonnello Hartington-Davis era una donna intelligente

e le piaceva che anche i suoi figli lo fossero. Il piccolo

della famiglia – Horace – indossava un completo blu da

marinaretto per il viaggio.

E Letitia, naturalmente, era vestita anche lei in modo

appropriato. Indossava un abito di mussola bianca con

fiocchi blu sul corpetto e un grande cappello di paglia

bianco a tesa larga. Anche il cappello aveva dei fiocchi

blu, così come le scarpe e la punta della lunga treccia.

I capelli di Letitia – come Isobel ben sapeva – erano

particolarmente apprezzati. La moglie del colonnello

li pettinava ogni mattina con due spazzole d’argento

brillante, per un totale di cento colpi. Anche Isobel si

spazzolava i capelli, ma i suoi erano scuri e molto sottili

e si aggrovigliavano facilmente.

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La madre di Isobel aveva i capelli così. Era stata una

donna eccezionalmente bella: indossava abiti pieni di

pizzo e aveva enormi occhi blu, ma Isobel l’aveva vista a

malapena. Viveva in una parte della casa a Steel’s Way,

e sua madre e suo padre nell’altra. La casa di Steel’s

Way era grande e bianca, su un unico piano, e tutto

intorno, le colline erano di un verde brillante, ricche di

tè e serpenti.

Isobel viveva con la sua ayah, una balia indiana. Non

le voleva bene – aveva avuto sei o sette tate diverse

nei suoi dieci anni – ma d’altra parte, non aveva mai

voluto veramente bene a nessuno. Sua madre e suo

padre vivevano piuttosto isolati da lei, in un mondo

pieno di candele accese, bicchieri di vino e balli. Da

piccola Isobel amava sgattaiolare via dalla sua ayah, e

nascondersi a guardare, e sua madre sembrava allora una

specie di fata: una principessa delle fate con diamanti ai

polsi e intorno al collo.

«Strano che la bambina sia così scura e voi così chiara,

signora Petty», aveva detto qualcuno alla madre di

Isobel una volta, molto tempo fa, in un’altra vita. Isobel

si era nascosta sotto il tavolo da pranzo. La madre di

Isobel aveva risposto con tono distaccato: «È davvero

una creaturina buffa». E l’uomo e la madre di Isobel

avevano entrambi riso e se ne erano andati in giardino

ad ammirare i fiori di ibisco. Sono una creaturina buffa,

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pensò Isobel tra sé, sono una creaturina buffa. Era certa

che sua madre non l’avesse detto in modo carino. Ma

la madre di Isobel ormai era morta. E anche suo padre.

Erano morti entrambi, e Isobel era rimasta tutta sola

nella casa sulle colline, e non amava particolarmente

pensarci. C’era un serpente: piccolo, marrone e curioso.

Le piaceva. Le mancava.

In ogni caso, qualcuno alla fine era venuto a prenderla,

e l’aveva portata a Calcutta, e ora era qui a bordo della

nave con gli Hartington-Davis.

Questo perché semplicemente non c’era stato

nessun altro disposto ad accompagnarla in Inghilterra.

Così le aveva detto l’avvocato. L’avvocato le era

quasi piaciuto. A Isobel era sembrato una persona

che diceva la verità. I suoi genitori erano morti;

non c’era più nessuno che potesse prendersi cura di

lei in India. In Inghilterra invece c’era una persona

disposta a farlo; quindi sarebbe dovuta partire. Ma

avrebbe dovuto viaggiare sotto la custodia di qualche

signora responsabile con figli propri, come la moglie

del colonnello Hartington-Davis. Aveva detto tutto

a Isobel esattamente in questo modo: una frase dopo

l’altra, in modo molto ordinato e ovvio. Sarebbe stata

spedita come un pacco: indirizzo inglese sul fronte,

indirizzo indiano sul retro. Sarebbe stata etichettata

e, in modo altrettanto ordinato e ovvio, spedita da un

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posto all’altro. Isobel aveva approvato anche questo.

In altre parole, aveva apprezzato la franchezza

dell’avvocato. Non aveva approvato il piano nei dettagli.

Certamente non aveva approvato la scelta della moglie

del colonnello Hartington-Davis.

La moglie del colonnello era una persona piacevole,

tranne che per i pianti. I suoi vestiti erano molto

eleganti, e lei, come Letitia, aveva capelli chiari che

brillavano perfetti per tutti i colpi di spazzola, ma il viso

era perennemente macchiato, e i capelli a volte un po’

spettinati per averci passato le mani fin troppo spesso.

Ci passava le mani ogni volta che aveva un’emicrania. E

aveva spesso emicranie. Questo perché le mancava suo

marito – il Colonnello Hartington-Davis in persona

– che sarebbe rimasto in India senza di lei, e senza i

bambini. Stava portando i bambini in una scuola privata.

«Vorresti andare in una scuola privata?» chiese Isobel

a Letitia. «Io non vorrei proprio andare a scuola.» Ma

Letitia se ne uscì con un tono di superiorità dicendo

che probabilmente era meglio andare in una scuola

privata che finire dove era diretta Isobel.

Isobel sarebbe andata a vivere con suo zio, se mai fossero

arrivati in Inghilterra. Non era mai stata in Inghilterra,

ed era ancora molto lontana. Almeno tre settimane, nella

migliore delle ipotesi. Una parte di Isobel sperava che

ci volesse di più. L’Inghilterra sembrava molto fredda e

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sgradevole, e suo zio perfino peggio.

L’Inghilterra, lo zio e la pioggia. Una nuova vita.

Questo aveva detto l’avvocato e anche la moglie del

colonnello Hartington-Davis.

La sua vita precedente – l’ayah, le colline – era stata

una vita; e la successiva – lo zio, la pioggia – sarebbe

stata un’altra. E in mezzo tre settimane a bordo della

Marianna. Tre settimane con gli Hartington-Davis. E

tre settimane di oceano: sconfinato, infinito e incollato

al cielo in tutte le direzioni.

Non c’era quasi nulla da fare a bordo. A Isobel questo

non dispiaceva: era abituata a non avere cose da fare.

Non c’era mai stato molto da fare a casa, a Steel’s Way.

Una volta, molto tempo prima, aveva avuto un’ayah

che le raccontava delle storie. Le piaceva. Ma quell’ayah

se ne andò quando lei aveva cinque anni, e l’ayah

successiva non raccontava storie. A Isobel piacevano

le storie di cose realmente accadute. Le piaceva sapere

tutto quello che succedeva veramente, ed era per questo

che aveva il suo taccuino.

Portava il taccuino ovunque e ci scriveva tutto. Tutto

quello che succedeva e tutto quello che aveva visto.

Isobel era una bambina molto perspicace: era brava a

notare le persone ed era ancora più brava a prendere

appunti su ciò che aveva visto. Le piaceva guardare

le cose e dar loro un nome; le piaceva osservare cosa

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faceva la gente e metterlo in parole. Le piaceva abbinare

le azioni delle persone alle parole per descriverle, era

un po’ come una partita a carte tra il mondo e la sua

descrizione: rendeva tutto più facile da capire.

In quel momento teneva il taccuino infilato sotto

il vestito. Sembrava più sicuro così, almeno finché

non fosse stata certa di che tipo di persone fossero gli

Hartington-Davis. Anzi, pensò, fino a quando non

sarebbe stata certa di che tipo di persone ci fossero a

bordo. A Steel’s Way non importava niente a nessuno,

ma a bordo della Marianna poteva importare a qualcuno.

Quello che voleva davvero era isolarsi e scrivere tutto

quello che riguardava la Marianna, ma le venne subito

in mente che sarebbe stato piuttosto difficile.

«Perché voi ragazze non andate a giocare?» chiese

la moglie del colonnello Hartington-Davis la prima

mattina.

«Io non gioco», disse Isobel.

«Tutti i bambini giocano», commentò la moglie del

colonnello.

«Io no», rispose Isobel. Erano nella cabina: uno

spogliatoio, come la chiamava la moglie del colonnello

Hartington-Davis. C’erano un oblò e due cuccette – una

per Letitia e una per Isobel – e una porta che dava sulla

stanza della moglie del colonnello, che condivideva con

Horace.

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La moglie del colonnello aveva pianto la notte prima

– Isobel l’aveva sentita – e quella mattina aveva già

un’emicrania, il che significava che non potevano salire

in sala da pranzo per la colazione.

Nemmeno la sera prima avevano cenato nella sala

da pranzo. Era molto irritante. Come faceva Isobel a

scoprire chi c’era a bordo se non andavano mai in sala

da pranzo? La sera prima si erano limitati a salire a

bordo e a consumare una cena leggera nella loro cabina,

e subito dopo la moglie del colonnello aveva detto loro

di mettersi in camicia da notte e andare a letto.

Era stata una seccatura terribile slacciarsi da sola

tutti i bottoni del vestito nuovo, e una seccatura ancora

peggiore richiuderli al mattino, ma ce l’aveva fatta. Era

piuttosto orgogliosa di sé.

«Letitia gioca, vero Lettie?» La moglie del colonnello,

che non aveva intenzione di lasciar cadere l’argomento,

stava finendo di fare la treccia a Letitia.

«Perché le fate i capelli?» chiese Isobel.

«Scusa, cara?», non stava davvero ascoltando Isobel.

«Perché non le sistema i capelli la sua ayah?»

«Cos’è un’ayah?» chiese Horace, dal pavimento.

«È la persona che ti sistema i capelli», disse Isobel a

Horace. «La persona che si occupa di te.»

«La mamma si occupa di me», rispose Letitia,

compiaciuta.

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«E di me», disse Horace.

«Lettie non ha un’ayah», disse la moglie del colonnello.

«Ora nemmeno io», disse Isobel. «È morta anche

lei.»

La moglie del colonnello le rivolse uno sguardo

allarmato. Pensa che io sia una creaturina buffa, rifletté

Isobel. O qualcosa di peggio.

«Volevi dire che è passata a miglior vita», credo», disse

la moglie del colonnello a Isobel.

«Passata a cosa?» chiese Isobel.

«L’ayah è passata a miglior vita», disse la moglie del

colonnello, con fermezza.

«Quale vita?» chiese Isobel.

«Isobel!», disse la moglie del colonnello. «Per favore,

non essere impertinente.»

«Non lo sono», disse Isobel. «Altro che miglior vita.

È semplicemente morta.»

«Non è molto educato dire che è morta», commentò

Letitia.

«Non ascoltarla, Letitia», disse la moglie del

colonnello Hartington-Davis. «Non ascoltarla, per

favore.»

«Non posso fare a meno di ascoltare», disse

giustamente Letitia.

«Morta come i pulcini quando il serpente li ha presi?»

chiese Horace, improvvisamente, dal pavimento.

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«Se è morta», disse Isobel, «perché non posso dire

che lo è?»

«Bambini», disse la moglie del colonnello. Finì di

sistemare il fiocchetto sulla treccia di Letitia e si portò

le mani alla fronte. Sembrava, pensò Isobel, che stesse

per piangere di nuovo. «Bambini. Mi sta venendo una

delle mie emicranie. Volete per favore andare tutti a

giocare? Ragazze, portate Horace con voi.»

Quasi tutto faceva venire un’emicrania alla moglie del

colonnello Hartington-Davis. Leggere. Argomentare. Il

profumo. Il sole.

«Ho detto che io non gioco», disse Isobel. «Non lo

faccio e basta.»

«Io non gioco con le femmine», disse Horace.

Ma Letitia intervenne: «Ci penso io, mamma. Li

porterò tutti e due sul ponte.»

«Non ho bisogno di essere portata da nessuna parte»,

disse Isobel, ma la moglie del colonnello Hartington-

Davis si era già sdraiata sulla branda di Letitia tenendosi

la mano sugli occhi.

Letitia prese la mano di Horace e lo condusse fuori

dalla cabina. Lui andò con lei abbastanza volentieri,

e Isobel li seguì trascinando i piedi. Aveva le gambe

calde, e le calze si erano raggrinzite intorno alle caviglie

in un modo davvero fastidioso.

«La mamma ha spesso delle emicranie», disse Letitia

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con aria matura. «È perché le manca papà. Anche a

me manca, ma lo rivedremo presto.» Lo disse come se

stesse ripetendo qualcosa che aveva già sentito.

«Io il mio non lo vedrò più», disse Isobel. «È morto

anche lui.» Voleva che Letitia si dispiacesse per questo,

ma Letitia sembrò a malapena accorgersene.

«Sono tutti morti quelli che conosci?» chiese Horace.

«Non conosco molte persone», disse Isobel.

«Ma quelli che conosci sono tutti morti?»

«Probabilmente», disse Isobel. «Tranne voi.»

«Sei mai stata su una nave?» chiese Letitia. Stava

cambiando argomento, Isobel lo sapeva, e anche questo

era un comportamento da persona adulta.

Isobel non disse nulla.

«Io ci sono stata quattro volte», disse Letitia. «Inclusa

questa. Sono stata in Inghilterra due volte, contando la

volta in cui ci sono nata. Tu no.»

«Non mi interessa», disse Isobel. Un po’ le interessava,

ma non sapeva bene perché.

«Non sei mai stata in Inghilterra nemmeno una

volta, nemmeno per nascere», disse Letitia. «Che cosa

straordinaria». Allungò molto l’ultima parola.

«Non sono mai stato in Inghilterra», disse Horace.

«Ma tu sei inglese», rispose Letitia. «Perché tu sei

mio fratello e io sono nata in Inghilterra, il che mi

rende inglese e ti rende inglese perché non puoi avere

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un fratello e una sorella che sono diversi. Lei invece non

lo è.»

«Non voglio essere inglese», disse Isobel, con orgoglio.

«Cosa sei allora?» chiese Letitia. «Sei una nativa?»

C’era improvvisamente qualcosa di sgradevole nella

voce di Letitia: qualcosa di duro e friabile, come lo

zucchero cotto troppo a lungo. Non sembrava affatto

la solita Letitia. Era, pensò di nuovo Isobel, come se

stesse scimmiottando qualcosa che aveva sentito dire

da qualcun altro.

Isobel arrossì. Il colore aveva un aspetto particolare

sulle sue guance scure e le dava improvvisamente una

vivacità che altrimenti non possedeva. «Non sono una

nativa.»

«I servi sono nativi», disse Letitia. «Forse sei una

specie di serva.»

«Non lo sono», rispose Isobel, con tono acceso.

Si sentiva sempre più arrabbiata. Sapeva di avere

un caratteraccio, ma cominciava a pensare che il suo

caratteraccio non sarebbe riuscito a intaccare la scorza

di Letitia. Non aveva mai dovuto discutere con una

persona della sua età. E Letitia poteva rappresentare un

caso speciale. Inoltre, non era del tutto sicura di questo

argomento.

Aveva incontrato solo nativi – indiani – che erano

servi: quella parte era vera. Era anche vero, naturalmente,

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che non aveva incontrato molte persone. La casa a un

piano sulle colline dove era cresciuta era molto lontana

da tutto, e nessuno portava i propri figli a giocare con lei.

Ma sua madre e suo padre avevano solo amici bianchi

– gli ufficiali e le loro mogli che venivano a cena – e

le candele e le danze erano tutte per i bianchi. Isobel

era abbastanza sicura che anche lei era una persona

bianca. Ed era vero che i servi nativi dovevano salutarla

e inchinarsi a lei e fare tutto quello che diceva. Era

semplicemente così che andava. Non era mai venuto

in mente a Isobel di mettere in dubbio tutto questo

prima, ma dopo le parole di Letitia, iniziò a sembrare

piuttosto sgradevole. Persino ingiusto.

Ma Isobel non conosceva nulla di diverso: era

questo il problema. Era sempre stato così, e questo

era il modo in cui tutti gli adulti avevano creato il mondo,

e non era mai venuto in mente a Isobel di metterlo in

discussione, nemmeno per un minuto, finché Letitia

non aveva cominciato a chiamare lei – Isobel – una

nativa! Non voleva essere una nativa. Non voleva essere

una serva. Ma venne colpita improvvisamente dal

pensiero che forse nemmeno i nativi volevano essere

servi, e questo le fece provare una sensazione particolare

alla bocca dello stomaco. La fece stare piuttosto male.

Pensò che potesse essere dovuto al movimento della

nave.

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Letitia riprese a salire le scale, con Horace che la

seguiva come un’ombra, poi si girò improvvisamente di

spalle. «Se non sei una nativa e non sei inglese, allora

cosa sei?»

Isobel non disse nulla.

«Devi pur essere qualcosa», disse Letitia. «Devi essere

qualcosa. Una cosa. Devi scegliere. Non sei inglese,

quindi cosa puoi essere?»

«Cosa puoi essere?» Gli fece eco Horace.

«Posso essere quello che voglio», disse Isobel, ma

sentiva che era una risposta piuttosto debole.

«Nessuno può esser ciò che vuole» disse Letitia con

sprezzo, come fosse un adulto. Lei e Horace salirono

le scale attraversando una pesante porta di metallo e

arrivarono sul ponte, dove il sole era molto luminoso.

Isobel li seguì e poi guardò a destra e a sinistra. Non

c’era nessun altro in giro, e Letitia e Horace non si

voltarono. Così Isobel scivolò via, attraverso i lunghi

corridoi che si biforcavano, nel ventre della nave.

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La caduta sembrò infinita. Non ci furono spruzzi, o

vennero inghiottiti dalle onde. Per un istante, Isobel

rimase come pietrificata, poi il suo buon senso prese il

sopravvento e la fece ritirare rapidamente nell’ombra.

A bordo della S.S. Marianna, Isobel Petty

è testimone di un fatto scioccante: qualcuno è stato gettato

in mare nel cuore della notte.

Il comandante insiste a dire che a bordo non manca

nessuno, così Isobel e i suoi nuovi amici sono chiamati a

risolvere due misteri – l’identità dell’assassino e quella

della vittima – prima che la nave raggiunga l’Inghilterra e il

colpevole possa far perdere le proprie tracce.

Un avvincente giallo storico scritto da una giovane

autrice al suo debutto nella narrativa per ragazzi.

ISBN 978-88-474-6100-0

e 10,00

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