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Nelle Valli Bolognesi N°64

Il numero dell'inverno del trimestrale su natura, cultura e tradizioni locali edito da Emil Banca e diffuso in abbinamento con il Resto del Carlino Bologna

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Nelle

NATURA, CULTURA, TRADIZIONI E TURISMO SLOW TRA LA MONTAGNA E LA PIANURA

Anno XVII - numero 65 - GENNAIO - FEBBRAIO - MARZO 2025

Speciale alluvione

Dai cammini

allo sport

l’Emilia si rialza

Non tutti sanno che

Fantasmi

e altre storie

in giro per la provincia

Portonovo

Nel paese di Giacomino

dove il tempo

si è fermato

INVERNO

I consigli per vivere la magia della neve, dal Corno Express ai percorsi più belli

È tempo di ciaspole


Abbiamo

i PIEDI

per terra.

La nostra priorità

è lo sviluppo sostenibile

del territorio e la tutela

delle comunità locali.

Ogni giorno scegliamo di favorire la crescita responsabile

e sostenibile del nostro territorio e di costruire insieme

il bene comune.

IL CUORE NEL TERRITORIO


SOMMARIO

Periodico edito da

Numero registrazione Tribunale

di Bologna - “Nelle Valli Bolognesi”

n° 7927 del 26 febbraio 2009

Direttore responsabile:

Filippo Benni

Hanno collaborato:

Stefano Lorenzi

William Vivarelli

Claudia Filipello

Katia Brentani

Gianluigi Zucchini

Claudio Evangelisti

Gian Paolo Borghi

Paolo Taranto

Guido Pedroni

Serena Bersani

Marco Tarozzi

Andrea Morisi

Francesca Biagi

Mario Chiarini

Veronica Righetti

Elenia Gubbellini

Fausto Carpani

Sandra Sazzini

Giuliano Musi

Alessio Atti

Giovanni Zati

Nadia Berti

Guido Pedroni

Elena Boni

Gianluigi Pagani

Valentina Fioresi

Gianfranco Bracci

Silvano Ventura

Francesco Nigro

Marco Vagnerini

Foto di:

William Vivarelli

Archivio Bertozzi

Archivi AppenninoSlow

eXtrabo e Bologna Welcome

Paolo Taranto

Guido Barbi e altri in pagina

Progetto Grafico:

Studio Artwork Grafica & Comunicazione

Roberta Ferri - 347.4230717

Pubblicità:

distribuzione.vallibolognesi@gmail.com

051 6758409 - 334 8334945

Rivista stampata su carta ecologica

da Rotopress International

Via Mattei, 106 - 40138 Bologna

Per scrivere alLA REDAZIONE:

vallibolognesi@emilbanca.it

Per abbonamenti e pubblicità contattare appenninoslow:

distribuzione.vallibolognesi@gmail.com - 051 6758409 - 334 8334945

Questa rivista

è un prOdotto editoriale

ideato e realizzato da

In collaborazione con

CITTÀ

METROPOLITANA

DI BOLOGNA

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Gli scatti di William Vivarelli

Falco pellegrino

Le foto dell’inverno

In dialetto si dice....

Falzinel e Bafiet

La nostra cucina

Aggiungi un pesto a tavola

Speciale prodotti locali

Io mangio De.Co.

Erbe di casa nostra

La zucca

Speciale Alluvione

Una città costruita sull’acqua

Quando il Navile si arrabbia

Le alluvioni e gli ecosistemi

Lo sport vuole rinascere

I cammini ripartono dopo la grande paura

La novità per l’inverno

La neve a portata di treno con il Corno Express

Itinerari

Con le ciaspole in Appennino

La nostra storia

Bologna, Pascoli e Matteotti

Il restauro - San Pietro in Casale

La Madonna del Rosario

In giro con eXtrabo

Dentro la Torre di Montorio

Non tutti sanno che

Non entrate in quella casa

Nella Bassa - Portonovo

Nel paese di Giacomino

In Appennino - Pianoro

Guerra e pace nella Montecassino del Nord

La macchina del tempo

Bologna nella Preistoria

Alle origini del vino

Bollicine alla bolognese

Questo la faccio io

Il prato biodiverso

Fotonaturalismo

Macro: le tecniche sul campo

Entomologia

Il maggiolino dei boschi appenninici

L’iniziativa

L’amore del Lions per i portici

Nelle valli segnala

La stagione del teatro di Casalecchio

La compagnia selvatica di Madreselva

Dialetto e altre storie con Carpani e Borghi


GLI SCATTI DI WILLIAM VIVARELLI

Falco pellegrino

(Falco peregrinus)

Ciò che semini oggi determina il tuo domani.

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“Informazioni chiave per l’aderente” e l’ulteriore set informativo disponibile gratuitamente presso i soggetti collocatori e sul sito internet www.bccrisparmioeprevidenza.it.

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L’ALFABETO di VIVARELLI

Il falco pellegrino è un rapace affascinante, temuto e ammirato in tutto il mondo. È

un rapace dalle forme solide ma filanti. Ha ali e coda squadrate, testa arrotondata

e un cappuccio grigio-metallico che continua in due grandi “mustacchi” neri. I

giovani si distinguono dagli adulti per le parti inferiori macchiettate anziché

barrate. Abita preferibilmente le aree più impervie e dirupate, nidificando sulle

pareti rocciose, in cenge e piccole cavità. Nelle aree urbane, non disdegna torri e

campanili. Durante l’accoppiamento, il maschio si esibisce in un corteggiamento

che prevede anche doni alla femmina, di prede catturate in volo. È velocissimo,

può raggiungere eccezionalmente i 300 km/h in picchiata. Il volo è agile e

potente. Si nutre quasi esclusivamente di altri uccelli, che caccia in aria, ma può

occasionalmente cibarsi anche di altri vertebrati ed insetti. Il falco pellegrino è

associato alle vette del cielo e agli astri, in particolare al Sole. Questo richiama la

mitologia egizia, che identificava in Horus, figlio di Osiride e Iside, il dio solare per

eccellenza. Le piume scure sotto agli occhi ricordano da vicino l’Occhio di Horus,

importante simbolo misterico legato a prosperità e sovranità. Può essere trovato

ovunque nel mondo, fatta eccezione per le regioni polari e le altitudini troppo

elevate. In provincia di Bologna, la

popolazione è incrementata da 9

coppie nel 1998 a 26 coppie nel

2014. Questo magnifico rapace

continua a ispirare e affascinare

gli appassionati di natura e

gli studiosi. La sua velocità,

la maestosità del volo e il suo

ruolo nella mitologia lo rendono

veramente un “re del cielo.

Tutte le foto sono state scattate

nel bolognese.

I PDF degli arretrati della rivista

si possono scaricare

da www.nellevalli.it.

Per altri scatti di William Vivarelli si può

consultare il sito: www.vivarelli.net

Nei numeri precedenti:

Albanella Autunno 2010

Allocco Inverno 2010

Assiolo Primavera 2011

Allodola Estate 2011

Airone cenerino Autunno 2011

Averla maggiore Inverno 2011

Averla piccola Primavera 2012

Aquila reale Estate 2012

Ballerina bianca Autunno 2012

Ballerina gialla Inverno 2012

Barbagianni Primavera 2013

Beccamoschino Estate 2013

Balestruccio Autunno 2013

Calandro Inverno 2013

Capriolo Primavera 2014

Capinera Estate 2014

Cervo Autunno 2014

Cinghiale Inverno 2014

Canapiglia Primavera 2015

Canapino Estate 2015

Cannaiola comune Autunno 2015

Canapino maggiore Inverno 2015

Cannareccione Primavera 2016

Cardellino Estate 2016

Cavaliere d’Italia Autunno 2016

Cinciallegra Inverno 2016

Cincia bigia Primavera 2017

Cincia dal ciuffo Estate 2017

Cincia mora Autunno 2017

Cinciarella Inverno 2017

Cesena Primavera 2018

Cicogna bianca Estate 2018

Civetta Autunno 2018

Cornacchia grigia Inverno 2018

Cormorano Primavera 2019

Codibugnolo Estate 2019

Codirosso comune Autunno 2019

Codirosso spazzacamino Inverno 2019

Colubro di Esculapio Primavera 2020

Coronella Girondica Estate 2020

Covo Imperiale Autunno 2020

Corriere piccolo Inverno 2020

Cuculo Primavera 2021

Culbianco Estate 2021

Cutrettola Autunno 2021

Daino Inverno 2022

Chirotteri Primavera 2022

Cinghiale Estate 2022

Cigno Autunno 2022

Canapiglia Inverno 2023

Uccello combattente Primavera 2023

Codirossone Estate 2023

Colombaccio Autunno 2023

Fagiano comune Inverno 2023

Faina Primavera 2024

Falco Cuculo Estate 2024

Falco di palude Autunno 2024

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LE FOTO DELL’INVERNO

Testo e foto di Paolo Taranto

MA DOVE AVEVO

NASCOSTO LE BIRRE?

Ovviamente gli animali, come questa Volpe,

non bevono alcolici (a parte rari casi...)

ma molte specie, predatori e non,

hanno l’abitudine di creare

dispense di cibo quando

questo è abbondante.

Quando una volpe trova una carcassa

da cui riesce a strappare pezzi di carne in

abbondanza li nasconde sotterrandoli

per poi recuperarli giorni dopo.

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TOPOGIGIO ESISTE

VERAMENTE!

Il topo domestico o topolino

delle case (Mus musculus)

è una specie comune ovunque

e spesso odiato dalle persone,

effettivamente non è bello averlo

dentro casa. Quella volta avevo

scoperto una colonia di topi

che viveano nella legnaia e ho

approfittato per fare qualche scatto

tra cui questo di un giovane.

7


VILLA PADRONALE IMOLA AD.ZE AUTODROMO

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In dialetto si dice...

LA FAUNA LOCALE NELLA TRADIZIONE

DELLA BASSA BOLOGNESE

Foto e testi a cura di Mario Chiarini

Mignattaio - FALZINEL

Il mignattaio è un trampoliere di grandi dimensioni con

collo e zampe abbastanza lunghe e becco di circa 12-13

cm, sottile, curvo verso il basso, “a falcetto” dice l’Imparati

nella sua opera Avifauna Ravennate. È un frequentatore

abituale delle aree umide del bolognese (anche se con

una presenza ridotta a pochi individui). Nei periodi di

passo, in particolare quello post riproduttivo, si ferma

nelle nostre zone qualche giorno per alimentarsi prima

di intraprendere il lungo viaggio migratorio verso l’Africa.

Presenta un piumaggio marrone-porpora scuro, ali verdi

brillanti. Ama le zone palustri con ricca vegetazione e

acque basse, diciamo pure fangose, che lo favoriscono

nella ricerca di cibo affondando il becco ricurvo nel limo,

nutrendosi di ogni sorta di insetti acquatici, di vermi,

piccoli pesci, molluschi. Per questa sua abitudine, in

antichità era considerato immondo in quanto “si nutriva di

piccoli animali nel fango, di carogne, di uova di serpenti:

cibi oltretutto indigesti che gli rendevano necessario

liberare frequentemente l’intestino”. Fatta questa doverosa

presentazione della specie, parliamo ora del suo nome

dialettale: falzinel. Per risalire alla etimologia del nome

dialettale dobbiamo andare indietro nel tempo e analizzare

brevemente le attività agricole che venivano svolte dai

Ascolta il suo canto !

Ascolta il suo canto!

contadini nelle nostre campagne. Parliamo ovviamente di

attività manuali in quanto la meccanizzazione era ancora

lontana e, tra i diversi strumenti utilizzati ve ne era di uso

comune: una piccola falce, detta falcetta o falcinella, con

manico corto, con lama di circa 30 cm, perpendicolare al

manico. Ora se pensate al lungo collo ed al lungo becco

ricurvo del mignattaio appare facile identificarlo con il

nostro antico strumento; e da qui il nome dialettale falzinel.

Basettino - BAFIET / DUTOUR

La specie che qui vedete fotografata è un Basettino,

raro visitatore delle aree umide della Bassa, ma che si

può incontrare durante gli erratismi autunnali quando

abbandona l’area riproduttiva, costituita da vasti canneti

ai margini di laghi, valli e paludi, come le valli di Argenta

dove è presente una discreta colonia nidificante. È un

piccolo uccello, che si arrampica agile su steli delle canne,

marron-giallastro, con lunga coda, il capo blu-grigio con

un lungo evidente mustacchio nero presente però solo

nel maschio; la femmina, senza mustacchio, presenta

colori più tenui e tendenzialmente tendenti al giallastro

camoscio. Nel dialetto bolognese viene oggi chiamato

bafiet, proprio in virtù dei lunghi mustacchi neri presenti

nel maschio. Al proposito, mi preme evidenziare come

alcuni illustri ornitologi, attivi a fine ‘800 e nella prima metà

del secolo scorso avessero assegnato a questo uccelletto

il nome dialettale di dutour o duturen sempre in virtù

degli evidenti mustacchi neri e questo perché, all’epoca,

evidenti e voluminosi baffi ornavano le facce di molti

illustri uomini politici, letterati e scienziati e in quanto tali

dottori. Anche la celebre maschera bolognese, al dutour

balanzon presenta, nella iconografia classica, un evidente

paio di grandi baffi e indossa l’abito tipico dei professori

dell’Università di Bologna. La foto che vedete allegata è

opera dell’amica, bravissima fotografa naturalista, Valeria

Marchioni che ringrazio sentitamente per la squisita

disponibilità nell’autorizzarmi la pubblicazione.

9


LA NOSTRA CUCINA

Curiosità, consigli e ricette

della tradizione

culinaria bolognese,

dalla Montagna alla Bassa

a cura di Katia Brentani

Il pesto deriva dalle “agliate” di

epoca Romana. In montagna in

tempo di vacche magre si preparava

la “ieda”, un trito di aglio e noci

con cui condire la pasta

AGGIUNGI UN PESTO A TAVOLA

Il pesto deriva, molto probabilmente,

da differenti tipi di “agliate” di epoca

Romana e Medioevale. Insieme al

classico pesto di basilico genovese si

sono sviluppate numerose alternative

quasi in ogni luogo della penisola

italica, secondo le disponibilità della

flora locale e delle stagioni.

Gli stessi Genovesi in mancanza di

basilico fresco anticamente usavano

anche maggiorana, prezzemolo e altre

erbe aromatiche o persino verdure come

biete o borraggine. Ciò che caratterizza

infatti quasi sempre tutte le varianti di

pesto è appunto la presenza di aglio,

oltre alla preparazione generalmente a

freddo, all’aggiunta di formaggi e alla

base grassa della salsa ottenuta con l’uso

dell’olio. La salsa di noci è senza dubbio

più antica del pesto classico, e con esso

uno dei principali sughi per pasta.

Pestare nel mortaio semi oleosi per

ottenere una salsa (dolce o salata) era

già tipico in epoca Romana e diffuso

nel Medioevo, con probabili origini

orientali.

Nell’Appennino Bolognese, in un

periodo in cui non c’era “nulla” o poco

più e ci si doveva arrabattare a mettere

in tavola un po’ di companatico, si

preparava la “ieda”, un trito di aglio

e noci con cui condire la pasta. Si

faceva una sfoglia al mattarello da cui

si ritagliavano larghe strisce da cuocersi

in acqua bollente. Una volta cotte si

condivano con un pesto di aglio e noci.

Per preparare la “ieda” si pestavano in un

mortaio l’aglio e le noci e si aggiungeva

l’acqua di cottura della pasta fino a

ottenere un pesto denso e cremoso

con cui si condiva la sfoglia. Le noci

fornivano calorie in quantità e l’aglio

schiariva il sangue e aiutava il cuore. Un

piatto che appesantiva l’alito, ma adatto a

gente abituata a fare grosse fatiche. Oggi

è possibile gustare questo piatto con

piccole variazioni in alcuni agriturismi

o trattorie dell’Appennino Bolognese.

Un altro pesto utilizzato in varie parti

d’Italia e il pesto con la borragine.

La borragine (Borago officinalis), è

una pianta annua o biennale, dalla cui

rosetta di foglie basali ovate e bollose si

innalzano i fusti fioriferi, alti 20-50 cm.

Si pensa sia stata introdotta nel Medioevo

dall’Africa, o dal bacino occidentale

del Mediterraneo, altre teorie fanno

risalire la sua origine alla Siria. I celti

la utilizzavano mischiandola al vino

prima delle battaglie, per infondere

forza e coraggio ai soldati. Anche i

romani ne facevano largo uso, i suoi

infusi allontanavano la malinconia,

ristabilendo il buonumore. Per questo

viene chiamata anche “l’erba del

coraggio”. Fiorisce tra febbraio e agosto

(a seconda delle zone geografiche) con

bei fiori stellati a cinque petali di colore

azzurro-violetto.

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Le RICETTE

RICETTA DELLA MONTAGNA

“IEDA” (SALSA DI NOCI)

Ingredienti per 500 grammi di

pasta:

200 gr di gherigli di noci, 1 spicchio

d’aglio, acqua, 2 cucchiai di

parmigiano reggiano grattugiato,

sale, pepe, olio evo

Procedimento - Per una perfetta

salsa di noci i gherigli di noce

andrebbero spellai, così da

togliere l’amaro, per farlo occorre

scottare i gherigli per 5 minuti in

acqua bollente, così sarà più facile

spellarli. Potete anche evitare

questo passaggio se usate noci

giovani e bianche, poco amare.

In un frullatore (e ancora meglio nel

mortaio) frullate i gherigli spellati, i

pinoli, l’aglio privato dell’anima, il

parmigiano e 1/2 bicchiere d’olio.

Aggiungete un po’ di acqua fino a

ottenere una bella crema densa,

aggiustare di sale e pepe.

La salsa alle noci può essere

utilizzata come condimento

per pasta semplice soprattutto

tagliatelle o lasagnette.

RICETTA DELLA PIANURA

Pesto di BORRAGGINE

Ingredienti per 500 grammi di

pasta:

1 mazzo borragine (20/25 foglie)

oppure di biete (bietole) o un misto

di entrambe, 1 spicchio d’aglio,

1/2 cucchiaio di noci, 2 cucchiai di

parmigiano grattugiato, 1 cucchiaio

di pecorino grattugiato. sale, pepe,

olio evo

Procedimento - Pulite e lavate

bene le foglie di borragine (e anche

i fiori se li avete), quindi buttatele

in acqua bollente salata per 4/5

minuti. (Se usate le bietole invece

la cottura dovrà essere di circa 10

minuti).

Scolate le foglie e passatele in una

Curiosità e ricette sono tratte

da ‘Aggiungi un pesto a tavola’

di Michele Cogni,

per I Quaderni del Loggione

ciotola con acqua fredda, quindi

strizzatele e fatele asciugare bene.

Frullate con un poco di olio lo

spicchio d’aglio pulito e privato

dell’anima, le noci, quindi

aggiungete le foglie di borragine (o

le bietole) e olio quanto basta.

In una ciotola mescolate il

composto ottenuto con i formaggi

grattugiati e altro olio, regolate di

sale e aggiungete una macinata di

pepe nero, fino a ottenere un pesto

morbido ma consistente, che andrà

poi allentato al momento dell’uso

con un poco di acqua bollente.

Il pesto di borragine ha un sapore

più tenue e delicato di quello di

basilico, può essere naturalmente

utilizzato per condire qualsiasi tipo

di pasta, specialmente gnocchi,

spaghetti e lasagnette, come salsa

su bruschette o panini e dona un

sapore extra aggiunto a cottura

quasi ultimata sugli umidi di

verdure.

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SPECIALE PRODOTTI LOCALI

Con gli Imbutini di Ozzano, l’olio dei Colli

Bolognesi e la patata di Castel d’Aiano

continua il viaggio alla scoperta dei 17

prodotti a Denominazione Comunale

Io mangio De.CO

A cura di Valentina Fioresi

Siamo alla seconda tappa del viaggio alla scoperta dei

prodotti tipici che vantano la Denominazione Comunale

(De.Co.) del comune di Bologna o di altri comuni della

Città Metropolitana. In questa puntata conosceremo l’olio

dei Colli Bolognesi, gli imbutini di Ozzano nell’Emilia e

la patata di Tolè. La De.Co. è un riconoscimento fornito

dai comuni a prodotti agroalimentari o attività tradizionali

specifiche che siano fortemente identitari di quel luogo.

Ad oggi sono 17 i prodotti tipici iscritti al registro De.Co,

mentre i saperi tradizionali sono 5.

GLI IMBUTINI DI OZZANO

Sembra incredibile che ai giorni nostri si possa creare un

nuovo formato di pasta, eppure una cittadina ozzanese

(Flavia Valentini) è riuscita nell’impresa. Tra tutti i tipi di

pasta fresca, insieme a tagliatelle, gramigna, trofie e altre

specialità, ora vanno annoverati anche gli imbutini di

Ozzano, letteralmente dei piccoli “imbuti”.

La signora Valentini racconta che ha creato gli imbutini in

seguito all’acquisto, nel 2013, di un attrezzo per tagliare

la pasta in piccoli dischi, che non pareva collegato a

nessun formato da lei conosciuto: il passaggio dai dischetti

ai piccoli coni è stato praticamente istintivo. Nel 2017 è

arrivata invece la produzione su scala più ampia, dopo

che una ditta di Argelato si è occupata di progettare una

macchina appositamente brevettata allo scopo: oggi a

Ozzano gli imbutini si trovano anche in vendita presso il

supermercato Conad.

Gli imbutini seguono un rigido disciplinare che ne

determina apporto calorico (306 kcal per 100g di prodotto),

dimensioni (si realizzano a partire da un dischetto di pasta

di 3,7 cm di diametro per 2 mm di spessore) e forma (un

cono leggermente piegato con una piccola apertura sulla

punta). La pasta stessa può essere aromatizzata in vari

modi: i classici imbutini sono gialli, ma vengono prodotti

anche verdi (la pasta viene colorata con gli spinaci), rosa

(alla barbabietola) e addirittura al gusto cacao.

Gli imbutini, piccoli e versatili, sono perfetti per raccogliere

e gustare qualsiasi tipo di condimento, possono incontrare

sia la tradizione che l’innovazione.

centro città o “Uliveto”, borgo vicino a Monteveglio).

Una lunga ondata di freddo nel ‘700 diede un forte stop

a queste coltivazioni, riprese all’inizio del 2000 a partire

da un progetto di mappatura delle piante secolari rimaste

e relative “cultivar”, cioè le varietà agricole della specie

(lo studio e la ricerca sono stati effettuati dal IBE CNR

Bologna). In questo modo è stato possibile recuperare

esattamente le tipologie utilizzate anticamente, le uniche

ammesse per la produzione dell’Olio Extra Vergine di Oliva

“Colli di Bologna”: Farneto, Montebudello, Montecapra,

Montecalvo e Oliveto.

Oggi sono centinaia gli ettari coltivati a ulivi sulle colline

intorno a Bologna, tanto che nel 2017 è nata la “Rete

di Imprese Olio Extravergine Felsineo”, costituita dai

produttori a sud della Via Emilia (10 aziende tra Imola e

Zola Predosa) al fine di tutelare l’olio.

Le aziende che fanno parte della Rete sono: Tenuta Cà

L’OLIO DEI COLLI BOLOGNESI

Pensando alla zona del bolognese il primo prodotto tipico

che viene alla mente non è di certo l’olio d’oliva. In realtà la

coltivazione degli ulivi e relativa produzione di olio hanno

radici molto antiche, tanto che le prime testimonianze

risalgono al Medioevo (sono rimasti fino ad oggi anche

alcuni toponimi legati all’ulivo, come “Via oleari” in

012


1331

De.Co.

Imbutini

Olio

Scarani (Bologna), Azienda Agricola Torre (Zola Predosa),

Azienda Agricola Bonazza (San Lazzaro di Savena), Società

Agricola 1977 (Montecalvo, Corara), Azienda Agricola

Nugareto (Sasso Marconi), Agrivar/Palazzo di Varignana

(Castel San Pietro Terme), Azienda Agricola Assirelli

“Cantina da Vittorio” (Dozza), Azienda Agricola Giovanni

Bettini (Borgo Tossignano), Frantoio Valsanterno (Imola),

Sorella Terra (Imola). La Rete al momento detiene il marchio

collettivo Olio Extravergine di Oliva dei Colli di Bologna

(regolato da un apposito disciplinare, dalla produzione

al confezionamento) dal 2021. Successivamente, con

l’obiettivo di ottenere la certificazione IGP, è stato

modificato il nome dell’associazione in “Rete Olio

Extravergine di Oliva Colli di Bologna”. Al momento,

dopo l’approvazione della Regione Emilia Romagna

e del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, il

procedimento di richiesta per l’IGP è all’esame della

Commissione Europea. Le zone di produzione legate

a questo marchio comprendono le aree collinari a sud

della via Emilia amministrate dalla città Metropolitana

di Bologna: in particolare le coltivazioni oggi si trovano

nei comuni di Bologna, Castel San Pietro Terme, Dozza,

Imola, Borgo Tossignano, Ozzano dell’Emilia, San Lazzaro

di Savena, Casalecchio di Reno, Sasso Marconi e Zola

Predosa, Valsamoggia.

Visti gli importanti riconoscimenti dell’Olio dei Colli di

Bologna è in via di sviluppo un progetto

che prevede di unire le aziende produttrici con una

ciclovia con partenza da Imola e arrivo a

Valsamoggia passando da San Lazzaro di Savena, che

recentemente ha aderito al circuito

“Città dell’Olio”.

LA PATATA DI CASTEL D’AIANO

Le patate sono considerate un prodotto piuttosto povero,

un ingrediente quasi scontato in cucina, poco “nobile”

nonostante la sua estrema versatilità. In montagna le

patate però sono state per decenni una delle basi della

dieta contadina, fatto che ha contribuito a farle entrare

di diritto nella lista dei prodotti tipici insieme a castagne

e derivati, formaggi e panificati come ad esempio le

crescentine. Vista questa lunga tradizione di coltivazione

e utilizzo alle patate raccolte nelle zone di Castel d’Aiano,

Montese, Zocca e Gaggio Montano è stata assegnata la

denominazione De.Co. Come gli altri prodotti che fanno

parte di questa “categoria” anche le patate devono seguire

un preciso disciplinare che regola il modo in cui devono

essere piantate, curate, raccolte e infine confezionate

e distribuite. Anche le cultivar (cioè l’insieme di piante

coltivate e selezionate in base a uno o più specifici

caratteri che si ripetono sempre uguali) sono definite nel

disciplinare, per assicurare che le patate mantengano

inalterate le caratteristiche che le contraddistinguono:

polpa giallo chiara o bianca, buccia bruna o rossastra,

aspetto esterno liscio e privo di aree verdi e avvallamenti.

Le patate devono inoltre crescere in terreni ricchi di sabbia

con elevate capacità drenanti, elemento che limita la

probabilità che si manifestino malattie fungine.

La patata di Castel d’Aiano si può acquistare in tutte le

zone di produzione e spesso anche durante le sagre

autunnali organizzate nelle stesse o in aree limitrofe.

Il tuo impegno è visibile

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precontrattuale di Trasparenza, tra cui le “Informazioni Generali sul Credito Immobiliare offerto ai Consumatori”, disponibili

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ai Consumatori, sono altresì a disposizione della clientela le “Informazioni Europee di Base sul Credito ai Consumatori”, disponibili

presso tutte le Filiali della Banca. La concessione dei Prodotti ESG è in ogni caso subordinata alla sussistenza dei necessari requisiti

in capo al cliente richiedente, nonché all’approvazione della Banca.


ERBE DI CASA NOSTRA

Con una naturopata

per conoscere le leggende,

gli usi medici e quelli tradizionali

delle piante della nostra provincia

Colorata, cremosa, dal gusto agrodolce,

è l’ortaggio dell’autunno e dell’inverno.

Nelle epoche antiche era considerato

cibo per poveri. È coltivata ovunque ma

ne esiste anche un tipo selvatico

La Zucca

Testo di Claudia Filipello - www.naturopatiabologna.it

È abitualmente coltivata ovunque, e fornisce un frutto

usato come alimento, ricco soprattutto in fibre, acqua,

minerali e vitamine. La zucca è considerata un ottimo

nutrimento, idoneo a convalescenti e per coloro che

hanno un insufficiente fuoco digestivo, cioè secondo la

naturopatia, una scarsa capacità di scindere gli elementi

complessi del cibo.

La zucca ha un fusto sdraiato, angoloso, ruvido, peloso

e con numerosi viticci, oltre a un fiore di colore bianco

verde o arancio-giallo candido con grandi foglie. Si

coltiva praticamente negli orti di tutta l’Italia.

Esiste anche un tipo di zucca selvatica conosciuta con

il nome di Zucca Bryonia dioica, sempre della famiglia

delle Cucurbitacee; in Italia vegeta nei luoghi incolti.

A scopo medicinale la tradizione popolare utilizza i semi

della zucca, ricchi in fitosteroli, tocoferolo, numerosi

minerali, proteine, pectina, acido salicilico, cucurbitina.

Quest’ultima è un aminoacido, presente in quantità

variabile, nelle diverse specie di zucca, dotato di attività

antielmintica: paralizza i vermi intestinali, quali tenia e

ascaridi, facendoli distaccare dalla parete intestinale.

In passato veniva consigliata l’assunzione di una pasta a

base di semi di zucca tritati per questo problema: 140 gr

di semi maturi, essiccati, sbucciati e pestati in un mortaio

con 60 gr di miele, fino a ridurli in una pasta omogenea,

aggiungendo acqua e limone. Era consigliata l’assunzione

di diversi cucchiai nella giornata o in più giornate a cui

seguiva poi la somministrazione di un lassativo drastico,

per permettere l’eliminazione completa dei vermi morti.

I moderni studi di farmacologia e di clinica hanno

confermato l’uso terapeutico dei semi di zucca per il motivo

sopraindicato, ma in olio estratto dai semi di zucca, ricco

in fitosteroli. L’olio è altrettanto terapeutico come rimedio

per l’infiammazione prostatica. L’attività antiproliferativa

nel tessuto prostatico, è mediata presumibilmente dalla

cucurbitina stessa, o come raccontano studi scientifici

farmacologici sperimentali recenti dai fitosteroli simili

a quelli presenti nella radice di Ortica e nel seme della

Serenoa (spinasterolo, stigmasterolo, campesterolo e

squalene). Il meccanismo d’azione consiste nel blocco

reversibile dei meccanismi biologici e biochimici

dell’infiammazione cronica a carico dei fibroblasti del

tessuto prostatico. Questo meccanismo non semplice è

stato dimostrato recentemente.

Studi clinici hanno posto attenzione e provato altresì la

sicurezza d’impiego e l’efficacia nel ridurre i sintomi

dell’ipertrofia prostatica con aumento del flusso urinario,

riduzione della frequenza delle minzioni notturne,

riduzione del volume vescicale residuo; a cui fa seguito

la riduzione di tutta la componente infiammatoria che

caratterizza questa disarmonia endocrina che riguarda la

prostata.

Ancora una volta, la scienza ripercorre e dimostra

l’uso ben fatto dell’antica fitoterapia. Altri rimedi molto

interessanti che utilizzano la zucca come ingrediente

principale attingono l’origine ad un tempo molto lontano.

Ad esempio: il decotto di zucca ha un’azione emolliente,

antibatterico intestinale ed è un un valido nutrimento nei

casi di dissenteria. La preparazione prevede di far bollire

in 1 litro di acqua, 100 gr di polpa di zucca a pezzetti,

fino a quando l’acqua si sarà ridotta della metà del suo

volume iniziale. Posologia: sorseggiare 2 tazze al giorno

oppure una dose doppia una volta al giorno; il succo

di zucca ha un’azione lassativa utile per la stitichezza

abituale. Si ottiene riducendo la zucca fresca in una

polpa cremosa a cui aggiungere del miele. Posologia: un

bicchiere a digiuno a giorni alternati per circa un mese;

il cataplasma: per scottature e contusioni. Pestare nel

mortaio una manciata di foglie di zucca fresche, dopo

averle lavate ed asciugate. Il succo che ne esce si applica

sulla zona dolorante.

La zucca è già medicina nelle varie preparazioni in cucina

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Zucca

casalinga, specialmente lessata in acqua e condita con

un poco di olio. È cibo benefico per i convalescenti, per

i dispeptici, per gli anziani e per chi soffre di stitichezza.

Non è indicata per chi soffre di disturbi intestinali come

il meteorismo. La zucca non ha controindicazioni

particolari, tranne nei casi di allergie specifiche, anche se

rare. I semi di zucca forniscono più calorie rispetto alla

polpa ma hanno un contenuto lipidico maggiore per cui

si consiglia di non abusarne.

La zucca colorata, cremosa, dal gusto agrodolce è un

ortaggio i cui colori caldi ed avvolgenti richiamano le

sfumature dell’autunno e dell’inverno, del tramonto e

delle lunghe sere fredde davanti al fuoco. Nelle epoche

antiche, in realtà, era considerato un ortaggio ed un cibo

di poco prestigio, comunemente utilizzata dai poveri.

Tuttavia, a causa delle lunghe carestie, i pregiudizi

lasciarono spazio ad un maggior riguardo verso la zucca

che iniziò ad essere apprezzata anche dalle classi sociali

più abbienti.

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SPECIALE ALLUVIONE

La convivenza di Bologna e dei bolognesi

con fiumi, canali e torrenti

Una città

costruita

sull’acqua

Testo di Francesco Nigro - Associazione Vitruvio

I fatti di cronaca attuale legati alla recente alluvione del

19 ottobre sono sotto gli occhi di tutti e non saremo noi

a parlarne nel dettaglio. Tuttavia la soluzione popolare

al problema non sempre mostra una comprensione

reale della più complessa natura di una città che è stata

costruita attorno all’acqua, questa un’esigenza primaria

per la crescita e il suo sviluppo di qualsiasi centro urbano.

Ci comportiamo come se l’acqua non ci dovesse essere o ci

dimentichiamo che c’è e ci può essere, per mille ragioni le

nostre vite si sviluppano indifferenti alla natura della città.

Una città che nella storia ha vantato il maggior numero di

motori idraulici entro mura con oltre trecentocinquanta

macchine mosse da una corrente virtuosa che, se bene

sfruttata, garantiva il funzionamento a catena di decine

di opifici, lavaggio, piccole attività artigianali, igiene

pubblico, irrigazione, acqua alle bestie, navigazione e in

ultimo, ma spesso primo elemento, la difesa militare.

Una città che si è adattata al territorio facendosi forte di

quanto questo consentiva, che ha preso acqua da due

canali le cui origini fra qualche decade si potranno dire

infine millenarie, che vede un acquedotto romano di

duemila anni solcare alla cieca i crinali dalla Val di Setta

fino a Bologna, che può vantare una storia vivace di porti

cittadini senza affacciarsi su mari o fiumi.

Bologna si è per secoli adattata come un guanto al

suo territorio, assecondando, resistendo e, talvolta,

Il Navile in piena al Sostegno del Battiferro.

forzandolo. Le rotte nelle pianure bolognesi testimoniate

da cronache storiche e recenti non si contano, i luoghi

dai nomi acquatici come Bagno, Bagnetto, Bagnarola ecc,

testimoniano la fragilità di un territorio uso alle alluvioni,

ma in buona parte legato nella sua vita e sussistenza a

specchi d’acqua. Un territorio conscio dei vantaggi e dei

rischi.

Più vicino alla città, una via, via Malvolta nel quartiere

Savena, ricorda probabilmente ancora la brutta ansa del

torrente Savena uso alle rotte. Un torrente, il Savena, che

buttava l’acqua nella grande Padusa a Nord della città

nelle terre di confine della Baricella, del “Bargello”, e fu

forzato nel 1776 nell’Idice liberando Bologna dalla morsa

delle acque.

Esiste un delicato equilibrio fra un continuo braccio di

ferro e un adattarsi alle acque.

Spesso ci si dimentica che prima della città c’è stato altro,

che le prime pietre di Bologna sono state in qualche modo

ragionate, che l’adattamento è partito proprio dalla forma

e dalla natura del territorio. Lo stesso impianto della

Bononia romana è stato orientato sull’asse di due corsi:

l’Aposa e il Vallescura.

La storia dei canali tombati in città non è breve e comincia

dalla più semplice e contingente delle ragioni, costruire

il più possibile senza ordine, così vediamo coprire nel

tempo il corso dell’Aposa in via dell’Inferno o inghiottiti

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016


1731

Dettaglio del Paraporto di via del Navile.

i rami che conducevano le acque del Savena. Si tomba

per evitare incidenti, si tomba per allontanare la gente

da acque pericolose e infette dopo anni di pandemie

ottocentesche, si tomba per aprire nuovi varchi e strade.

Si costruisce su letti dimenticati di fiumi, si costruisce su

torrenti inscatolati nel cemento, ci si mette una pietra

Canali e torrenti

sopra.

Già Kenzo Tange, fra i ricostruttori di Hiroshima, aveva

portato a Bologna un suo sogno di sviluppo fin troppo

utopico che sembra prevedesse nello sviluppo a nord

proprio una tombratura del Navile per assencordare l’asse

stradario verso Ferrara.

Oggi, giunti alla terza alluvione fuori scala, con oltre

tremila metri cubi di fango che dai rii e dalle vallecole

collinari hanno intasato il canale di Reno, con la terza

alluvione del Ravone in pochi mesi a ricalcare i fatti storici

di quella notte di uragano sulla prima pagina del Resto del

Carlino del 1932, con intere aree cittadine allagate che si

scoprono tali perché incapaci di drenare l’enorme quantità

d’acqua su superfici a maggior ragione impermeabilizzate

da cemento e asfalto e con una piena del Navile storica

che ha ingoiato il Sostegno del Battiferro, entrando nelle

case, per poi riversarsi a Corticella (con 4,99 m al Sostegno

di Corticella registrati dei tecnici regionali che superano i

4,88 m del 1982), si pongono nuove sfide idrauliche e di

consapevolezza.

Mappa di proprietà dell’Archivio Storico di Canali di Bologna. La mappa è dell’Ing. Giuseppe Tubertini e rappresenta la Chiavica

denominata Vicinanza delle Lamme a sinistra superiore marcata alla fronte del Canale di Reno. N. 27, non che li numeri 23,22, 21,20,

18 e 17 Chiaviche dell’Ospedale della Vita scolatizie nella suddetta vicnanza delle Lamme superiore; come pure le due chiaviche

del Signo Franchi marcate n.24 e 26 scolatizie nel chiavicotto maestro delle Lamme ed in ultimo la chiavica n.29 detta la Corsina

scolatizia essa pure nel Medesimo Chiavicotto.

IAT MONGHIDORO

iat@monghidoro.eu

331 4430004

www.bolognamontana.it

IAT-R SAN GIOVANNI IN PERSICETO

cultura.turismo@comunepersiceto.it

051 6812955

IAT-R SASSO MARCONI

info@infosasso.it

051 6758409

www.infosasso.it


SPECIALE ALLUVIONE

Il Ponte della Bionda è finito sott’acqua. A

rischio l’attività dell’Associazione che dal

2004 anima questa parte di città. E quanto

mancano i “Sostegni”...

Quando il Navile si

si arrabbia

Piena del 2008

Testo e foto di Fausto Carpani

Ho sempre considerato Bologna una città fortunata e

ciò perché il suo centro storico non è attraversato da

un fiume, come per esempio Firenze, Roma, Torino,

Verona, solo per fare alcuni esempi. Ricordo l’angoscia

provata nel novembre del ’66, alla vista dell’Arno che

straripava (oggi si dice esondava): il bellissimo Crocifisso

di Cimabue sfregiato dal fango, codici e incunaboli

divenuti blocchi compatti illeggibili, che passavano tra

le mani degli “Angeli del fango”.

Noi no. Il nostro Reno scorre lontano dal centro,

lambisce Borgo Panigale, passa sotto al Pontelungo, si

dirige verso la Bassa dove, in passato, ha fatto danni.

Ma in città, no. E poi non è navigabile come l’Arno o il

Tevere, a Firenze e a Roma, anche se nascono tutti dagli

Appennini, sia pure con diverse lunghezze (Tevere km.

405, Arno km. 241, Reno km. 211).

Il Reno “Italico”, da non confondere con l’altro

“germanico”, è un fiume a regime torrentizio, che gode

di una certa notorietà per il fatto che, nell’anno 43 a.

C., su una sua isola si incontrarono Ottaviano, Antonio

e Lepido, il famoso Triumvirato, la cui memoria rimane

nel toponimo della via che porta all’aeroporto Marconi

e a Calderara di Reno. Ma Bologna è lontana dal Reno,

che non può farvi danni.

Il Reno no, ma gli altri corsi d’acqua, naturali o artificiali,

sì: il rio Meloncello, che negli anni ’30 del secolo scorso

allagò tutta l’area prossima allo Stadio; il rio Vallescura,

i torrenti Ravone e Aposa, la Fossa Cavallina, il torrente

Savena, anche lui figlio di Appennino, e il canale che

da lui prende avvio e nome alla chiusa di San Ruffillo.

Un discorso a parte per il canale di Reno, antico

capolavoro idraulico che, partendo dalla chiusa di

Casalecchio, entra in città alla Grada, per diventare

lungo il suo corso canale delle Moline, Cavaticcio e

poi Navile.

Ecco, il Navile, al Navélli, per secoli e secoli tenuto

a bada dai sostegnaroli che, manovrando chiuse e

porte vinciane, ne regimentavano il corso, favorendo

altresì la navigazione. Poi, nel secolo scorso, tutto

finì: scomparsa la figura del sostegnarolo, che abitava

con la famiglia nelle case dei “Sostegni”; fuori uso i

I Sostegni lungo il Navile

Questi i “Sostegni” lungo il Navile, nel territorio Comunale: La

Bova (o Bua), il Battiferro, il Sostegno Torreggiani (il Sostegnino

o Sustgnén), il Sostegno Landi ( il Sostegnazzo o Sustgnâz),

il Sostegno Grassi (prossimo al Ponte Nuovo o Ponte della

Bionda), il Sostegno di Corticella e il Sostegno detto la

Chiusetta.

meccanismi di apertura e chiusura delle paratoie, il

Navile divenne un corso d’acqua incontrollabile, alla

mercé dei capricci atmosferici e dell’umana inciviltà,

che ne fece una comoda discarica abusiva a cielo

aperto.

L’Associazione Culturale IL PONTE DELLA BIONDA, di

cui mi onoro essere presidente, opera lungo il Navile fin

dal 2004, tagliando l’erba lungo la restara dal Battiferro

al Ponte della Bionda, svuotando i cestini di rifiuti e,

prima del grande straripamento del 19 ottobre scorso,

ha visto almeno altri due tentativi di allagamenti, che

ho documentato fotograficamente.

Ma il più recente si è rivelato anche il più devastante,

almeno per quanto riguarda la nostra sede: l’acqua e il

fango entrati prepotentemente nella golena in cui, oltre

a noi, vivono anche due famiglie, ha reso totalmente

inservibili le nostre attrezzature (elettrodomestici,

strumenti musicali, impianti di amplificazione,

018


1931

Piena del 2011 Piena del 2024

L’iniziativa di Emil Banca

Il Terzo settore riparte

col Crowdfunding

Gli organi di sollevamento della grata sul canale di Reno

trattori…), imbibendo irrimediabilmente i muri interni

dello stabile, a suo tempo nato dalla generosità di

un grande Uomo: Giorgio Ventura. Sappiamo bene

che quanto successo alla nostra sede non è neppure

paragonabile ai danni subiti da chi ha visto distrutte

le proprie case: noi, finito il lavoro di sgombero e

pulizia, torniamo alle nostre abitazioni, fortunatamente

preservate dalla furia degli elementi.

Per vent’anni, in estate, abbiamo ospitato migliaia di

bolognesi venuti ad ascoltare buona musica e a gustare

cibi semplici come la polenta e le crescentine. Ora

come ora non mi sento di garantire il prosieguo della

nostra attività di volontariato perché, anche se con la

generosità di tanti amici potremo tornare a dotarci di

quanto perduto, nessuno è in grado di garantire che il

Navile non decida di fare un bis…

Bisognava pensarci tanti anni fa, al tempo dei

sostegnaroli…

Per aiutare il territorio colpito dall’ennesima alluvione, Emil

Banca, ha deciso di sostenere tutte le realtà del Terzo

Settore danneggiate dalla forza dell’acqua. A polisportive,

parrocchie, associazioni e cooperative sociali delle

provincie di Bologna, Reggio, Modena, Parma, Piacenza

Ferrara e nel mantovano, clienti della Banca, la Bcc offre

la possibilità di attivare senza costi una raccolta fondi sul

portale Ideaginger.it e contribuirà ad ogni campagna di

crowdfunding avviata con un versamento di almeno 1000

euro ed eventuali successivi contributi da valutare in base

all’entità dei danni subiti. Alle realtà del Terzo settore che

richiederanno l’attivazione della campagna di raccolta

fondi verrà offerto anche un piccolo corso di formazione su

come portarla avanti in maniera efficace. “In un momento

così difficile dobbiamo fare fronte comune affinchè il

territorio possa rialzarsi da questa ennesima tragedia. Per

questo abbiamo deciso di concentrare i nostri sforzi verso

quelle realtà che ogni giorno si mettono al servizio degli altri

e del bene comune, cercando il modo migliore per reperire

il massimo delle risorse, in tempi brevi, coinvolgendo il

maggior numero di persone possibili”, ha commentato

il presidente Gian Luca Galletti, che ha aggiunto: “La

nostra esperienza ci insegna che per ogni euro investito,

grazie al crowdfunding se ne raccolgono almeno sette.

In questi anni, assieme a Ideaginger, abbiamo investito

per formare tante realtà che complessivamente hanno

promosso più di 230 campagne e raccolto oltre 2,6 milioni

di euro, tutti finalizzati a progetti sociali nelle comunità. In

più, l’accensione di campagne di raccolta fondi on line

permetterà a tutti di sostenere le realtà a loro più vicine

in maniera sicura e facile rendicontando ogni centesimo

raccolto”.


SPECIALE ALLUVIONE

Cosa succede ad habitat e

organismi quando straripa

un fiume?

LE ALLUVIONI

E GLI ECOSISTEMI

Testo di Andrea Morisi - Sustenia Srl

Non senza ragioni, la considerazione

dell’impatto sugli ecosistemi di

eventi alluvionali, come quelli

che in modo ricorrente stanno

interessando il territorio, non

rientra nella narrazione corrente.

Comprensibilmente l’attenzione è

rivolta ai danni al sistema sociale ed

economico, insediativo e produttivo.

Tenendo ben presente questa

legittima attenzione e lasciando

volutamente fuori dal ragionamento

sia l’evidenza della crisi climatica

globale, sia la ricerca di capri

espiatori locali (siano essi nutrie,

alberi o tombini), occorre rilevare che

l’impatto degli allagamenti si esplicita

anche sulle componenti ambientali

del territorio (suoli, ecosistemi,

organismi) che, però, raramente

sono oggetto di considerazione, sia

in forma di studio, sia in termini di

comunicazione.

Detto questo occorre fare alcune

premesse, che sarebbero scontate,

se non che basta un attimo per

venire incasellati in qualche -ismo

e attribuiti a qualche ideologia,

a cui non vogliamo sottrarci, ma

semplicemente non riteniamo questa

né la sede appropriata, né l’intento

dei ragionamenti che di seguito si

vanno a fare.

Partiamo, dunque, con il dire che

esiste la piena consapevolezza

dell’immenso impatto che i

disastri idraulici hanno recato alla

popolazione, alla vita delle persone,

alle loro case, al loro lavoro, nonché

al territorio abitato e utilizzato

dall’uomo. Rispetto a questi aspetti è

esplicita la vicinanza umana.

Un’altra precisazione riguarda

il fatto che ci si sta riferendo al

contesto della pianura, vale a

dire a un territorio ampiamente e

storicamente antropizzato, per cui

il richiamo a ipotetiche condizioni

“naturali” è tutt’al più un artificio

utilizzato per rendere meglio l’idea.

Rimane, in ogni caso, assolutamente

auspicabile che si possa presto

contare anche su ricerche e su

dati che rendano evidenza, sul

piano scientifico ed oggettivo,

di quello che qui tratteremo in

modo necessariamente generico e

colloquiale.

LA NATURA

CONTRO LA NATURA?

Cosa succede, dunque, quando

un fiume della pianura rompe gli

argini o li sormonta, in occasione

di fenomeni meteorologici estremi

come quelli che la crisi climatica ci

sta mettendo di fronte sempre più

frequentemente?

Il fiume costituisce il grande motore

geomorfologico che genera la

pianura. Ciò avviene da milioni di

anni e, banalmente, non staremmo

parlando della pianura bolognese

se non ci fosse stato un insieme di

corsi d’acqua, grossolanamente

dal Panaro all’Idice, che con il loro

divagare geologico nella Bassa

avessero spagliato le loro piene,

depositando ghiaie, sabbie, argille e

limi.

L’esondazione di un corso d’acqua

dal proprio alveo costituisce,

prettamente, un fenomeno naturale.

Come noto, i nostri fiumi sono stati

artificialmente inalveati, regimentati

ed arginati. I circa duemila anni, dalla

Centuriazione romana alle bonifiche

moderne, che hanno dovuto essere

impiegati per bloccare i tracciati

degli alvei fluviali e regimarne

le portate, sono molto pochi

rispetto ai tempi geologici naturali.

Inevitabilmente, l’esondazione di

un fiume contrappone la natura

all’uomo anche se, paradossalmente,

lo straripamento di un fiume

comporta un impatto anche nei

confronti degli elementi naturali o

almeno quelli ancora presenti nel

contesto artificializzato della pianura

attuale.

RISCHIO ECOLOGICO

Anche i campi coltivati sono

ecosistemi (agroecosistemi) e così

le aree abitate (ecosistemi urbani).

L’esondazione di un fiume comporta

quindi anche un rischio ecosistemico,

con l’impatto nei confronti della

componente fisica dell’ecosistema,

nonché di quella biologica.

Un sistema ecologico, di norma,

esprime una propria resilienza

alle perturbazioni che lo possono

interessare. Più l’ecosistema è

strutturato, maturo, diversificato

e più è capace di opporsi agli

impatti, ma, evidentemente, più gli

impatti avvengono repentinamente

e intensamente e meno risulta

resiliente.

Prendiamo il caso che stiamo

trattando. L’esondazione di un

fiume avviene, nella nostra pianura,

in seguito ad una piena che, a

causa degli argini, ha concentrato

020


2131

La Bassa bolognese nelle immagini dei Vigili del Fuoco

ingenti volumi d’acqua nell’alveo

e nelle golene, fino a quando, per

sormonto o rottura, l’acqua invade

un determinato territorio. Ciò

avviene dunque velocemente e in

modo ingente. Gli agroecosistemi e

gli ecosistemi urbani non sono, per

loro stessa natura, molto resilienti e

il danno apportato dall’esondazione

è molto forte. L’impatto diretto ha

luogo a causa della forza che l’acqua

esercita sul terreno uscendo dal

fiume, ma quello più significativo

è senz’altro caratterizzato

dall’annegamento di un numero

spropositato di organismi. Nel

primo caso si viene a determinare

l’erosione locale del suolo, la

creazione di buche e avvallamenti,

da un lato, e di accumuli del terreno

smosso dalla corrente, dall’altro. In

questo frangente possono nascere

repentinamente depressioni, essere

divelti alberi e ricoperte ampie

superfici con detriti. Habitat, nicchie

ecologiche e organismi vegetali ed

animali vengono quindi fisicamente

cancellati. Nel secondo caso

l’imbibizione del suolo e il formarsi di

un battente d’acqua, per quanto più

lenti, determinano l’annegamento di

tutti gli organismi che non riescono

a nuotare, galleggiare o allontanarsi

fortuitamente. Muoiono quindi gli

innumerevoli organismi del suolo, dai

lombrichi alle talpe, ma anche insetti,

chiocciole, ragni, topi, toporagni,

arvicole, lucertole, ramarri. Possono

essere impattate anche specie di

maggiori dimensioni, come ricci e

donnole e altri Vertebrati, compreso

i loro piccoli, se la stagione in cui

avviene l’esondazione è quella

riproduttiva. Il numero di animali che

subiscono gli effetti di un’alluvione

risulta probabilmente davvero

enorme e l’impatto locale per la

biodiversità conseguentemente

importante. Se l’acqua permane per

giorni dopo l’esondazione, l’asfissia

radicale può, poi, uccidere le piante,

sia erbacee sia legnose.

Se avviene la deposizione del limo

e degli altri solidi sospesi a formare

anche solo pochi centimetri sul

preesistente terreno, si verifica una

sorta di annullamento diffuso delle

comunità biologiche.

In condizioni davvero naturali, questa

fase catastrofica in realtà generebbe

fisicamente nuovi ecosistemi, che poi

ospiterebbero prima specie pioniere

e poi neoecosistemi, passando

per successioni che comportano,

in fondo, una diversificazione

spaziale ed un arricchimento della

biodiversità. Ma gli ecosistemi attuali,

che sopravvivono o sono stati ricreati

appositamente nella nostra pianura,

sono troppo pochi, frammentati e

deboli per potersi complessivamente

giovare dell’alluvione come motore

della diversificazione ambientale

e ciò comporta, di fatto, solo effetti

negativi.

Fenomeni di questo tipo possono

verosimilmente portare all’estinzione

locale di specie e alla scomparsa di

habitat, con ulteriore appesantimento

del bilancio.

Il post allagamento si può infine

configurare come il colpo di grazia,

con il disseccamento delle melme che

si sono depositate nelle aree allagate

e i successivi interventi di rimozione,

necessariamente impattanti a causa

dei movimenti terra, se l’uomo vi

cerca poi di intervenire.

ALTRI EFFETTI SULL’ECOSISTEMA

Ciò che resta localmente dopo

un’alluvione, dal punto di vista

ecosistemico, è dunque una sorta di

deserto a cui si aggiungono anche

altri impatti legati al mutamento

drastico che l’ambiente fisico

ha subito a causa del possibile

instaurarsi di micro-condizioni locali

diverse a causa della scomparsa

della copertura vegetale, della

variazione dell’umidità e del grado

di insolazione diretta. Probabilmente

gli effetti possono arrivare a

riverberarsi addirittura fino al livello

del microbioma fungino e batterico.

Va inoltre considerato che gli

effetti dell’alluvione possono

indirettamente portare ad alterazione

fisico-chimiche dei suoli a causa

dell’apporto di quanto trasportato

con l’acqua, fino al configurarsi di

inquinamento da sostanze chimiche,

oli e inquinanti vari che durante gli

eventi meteorologici così importanti

confluiscono nei corsi d’acqua.

Nello specifico, nel caso degli

agroecosistemi, oltre al danno

alle colture, si possono venire

a determinare fenomeni di

ruscellamento delle sostanze

utilizzate agronomicamente, come

concimi, diserbanti e pesticidi, con

la contestuale vanificazione degli

effetti per i quali erano stati utilizzati

ed il loro pernicioso trasporto altrove

con il ritiro delle acque.


SPECIALE ALLUVIONE

Gli impianti dopo l’alluvione: tra crowdfunding e tanti

dubbi sul futuro

LO SPORT

VUOLE RINASCERE

Testo e foto di Marco Tarozzi

È passato un mese e mezzo, ma le

ferite sono ancora aperte: l’alluvione

del 19 ottobre ha strappato alla vita

un ragazzo di vent’anni in Val di

Zena, dove ancora si ragiona di case

destinate all’abbandono, e questa

volta anche la città è stata colpita

in modo pesante. Anche il mondo

dello sport ha subìto il contraccolpo,

e in tutta la Città metropolitana

abbiamo registrato casi di società

in affanno, costrette a interrompere

l’attività che permette loro di

vivere offrendo occasioni di attività

motoria alle comunità in cui sono

inserite. Impianti sportivi all’aperto

distrutti, palestre da ristrutturare con

interventi urgenti ed economicamente

importanti.

CROWDFUNDING. C’è chi, per

forza di cose, ha dovuto affidarsi al

crowfunding. È il caso del Centro

Ippico Baldazzi di Botteghino di

Zocca, uno dei luoghi più colpiti,

nel cuore della Val di Zena.

La sottoscrizione aperta sulla

piattaforma Gofundme ha raccolto

finora 16.500 euro, un’inezia rispetto

ai danni subìti da un’azienda-gioiello.

«Ci dispiace molto dover arrivare al

punto di dover chiedere un aiuto ad

altre persone», spiega il titolare Ettore

Baldazzi, «ma in un mese abbiamo

subìto due alluvioni, e questa volta

non riusciamo a risolvere tutto da

soli. Gestiamo questa scuderia, che

conta su venti cavalli, dal 2015,

ma io la frequento dal 1990 e non

avevo mai vissuto una situazione del

genere. Abbiamo investito milioni di

euro in un progetto che valorizzava

il territorio, svolgeva un’importante

opera di socializzazione e

manteneva unita la nostra famiglia,

con le mie figlie istruttrici a cui sono

riuscito a trasmettere l’amore per

l’equitazione». L’idea è quella di

ripartire, ma niente sarà come prima.

«Certo, mi rimbocco le maniche

e riparto. Ma creerò un’area più

piccola, un maneggio coperto, con

cinque cavalli. Per gli altri serve un

campo ad ostacoli, riallestirlo in

fretta sarebbe complicato. Se dovessi

ripristinare tutto come era prima,

penso non basterebbe mezzo milione

di euro. Ma la domanda è proprio

questa: vale la pena risistemare

se non sappiamo cosa ci riserverà

il futuro? Abbiamo subìto danni

con l’alluvione del maggio 2023,

altri ancora il 18 settembre, infine

questa terza volta. E il problema

è ripresentato a dicembre. Non è

solo una questione di cambiamenti

climatici, ma anche di manutenzione

del territorio».

SAN MAMOLO. Ha già superato la

quota di 14mila euro di donazioni,

sulla stessa piattaforma, anche la

raccolta dedicata alla nuova palestra

della Polisportiva San Mamolo, sotto

la parrocchiale di Sant’Eugenio in

via del Ravone. C’era orgoglio per il

nuovo parquet in legno norvegese,

la cui stesura era terminata proprio

la mattina di quel sabato maledetto.

I corsi sono comunque ripartiti su

quel campo “rappezzato” che dovrà

essere sostituito. «L’attività con i soci

ci permette di mantenere viva la

polisportiva e di progettare il futuro»,

spiega il presidente Jacopo Mannini.

«Non potevamo permetterci di Palestra Masi a Casalecchio

022


2331

Campo Leoni - Fortitudo baseball Casteldebole

Baldazzi

restare fermi troppo a lungo. Ma

certamente siamo ripartiti da zero,

dopo un anno di lavoro».

SOFTBALL. Il torrente Savena ha

“graziato” il glorioso Gianni Falchi,

tempio del nostro baseball, ma

poche centinaia di metri più in là le

sue acque hanno distrutto l’ “Alfiero

Spisni” dove si allenano e giocano le

ragazze del New Bologna Softball. «Il

fiume ha rotto l’argine e sfondato in

due punti», spiega Davide Termanini,

manager della prima squadra. «Ha

completamente sepolto la terra

rossa, piegato parecchi metri di

rete e anche scavato vere e proprie

voragini sul campo: una misura

tre metri di larghezza e due di

profondità. L’alluvione di un anno

fa ci aveva risparmiati, il Savena

aveva solo lambito l’impianto e

invaso una strettissima striscia di

campo, una situazione risoltasi col

tempo. Stavolta la botta è stata dura,

risistemare significa ricostruire».

BASEBALL. Anche dalla parte opposta

della città il “batti e corri” è finito nel

mirino. Sul campo “Pietro Leoni” di

Casteldebole, “casa” del baseball per

un centinaio di bambini e ragazzi

delle giovanili della Fortitudo, oltre

che per i White Sox, la squadra che

affronta da primattrice il campionato

per non vedenti. Qui i danni più

ingenti li ha fatti, oltre alla pioggia,

non l’acqua del Reno che scorre poco

lontano, ma quella del rio Canalazzo

che con un percorso di sette chilometri

arriva da Zola Predosa. La parte che

ha sofferto maggiormente è il tunnel

coperto, necessario per portare avanti

l’attività invernale, con l’erba sintetica

da sostituire, l’impianto elettrico

da ripristinare e un gran numero di

costose attrezzature definitivamente

rovinate e da buttare. Nel magazzino

sono andate perdute persino le

mazze in legno e le oltre duecento

palline, insieme all’abbigliamento

societario. «Il contatto con il settore

Sport del Comune si è subito

attivato», ci racconta Roberto “Naso”

Franceschini, consigliere della

Fortitudo Baseball. «Ma siamo i primi

a dire che i nostri problemi vengono

dopo situazioni drammatiche che

hanno colpito la città, ci sarà tempo

per sederci a un tavolo, anche

per capire come intervenire sul

Canalazzo, perché non si ripresenti

una situazione simile a breve».

MASI. A Casalecchio i volontari

della Polisportiva Masi hanno

lavorato duro per liberare dal

fango la palestra Gimi Sport Club,

gioiello inaugurato nel 2015, e il

palazzetto Cabral. «Erano sommersi

sotto settantacinque centimetri

d’acqua», spiega sconsolato il

presidente Andrea Ventura. «Usciva

dai lavandini, dai sanitari, la sua

forza ha sfondato porte. Gli impianti

elettrici erano immersi e sono saltati,

il parquet ha subìto danni notevoli. Il

danno materiale è indefinito: dentro

la palestra c’erano macchinari,

attrezzature sportive, il materiale per

la ginnastica artistica: tutto da buttare

e sostituire».

SOSTEGNO. «Ho chiesto a tutte le

società, sia quelle che lavorano in

convenzione col Comune che quelle

che svolgono attività privata, di

segnalare le situazioni di difficoltà»,

spiega l’assessora allo Sport del

Comune, Roberta Li Calzi. «Ci

siamo attivati immediatamente per

sopralluoghi e primi interventi dove

esistevano situazioni di emergenza.

Ci siamo organizzati nell’attesa

che arrivino, contiamo in tempi

ragionevoli, risorse economiche per

il ripristino di terreni e locali. Ma

già ora, come molti hanno potuto

constatare, se c’è da dare una mano

io e il settore Sport siamo presenti:

non vogliamo lasciare indietro

nessuno».

Baldazzi


SPECIALE ALLUVIONE

Percorso per percorso, ecco la situazione

dei sentieri dell’Appennino

I CAMMINI

RIPARTONO

DOPO LA

GRANDE PAURA

Testo e foto di Valentina Fioresi

L’alluvione che ha ripetutamente colpito Bologna e le aree

circostanti in ottobre ha messo letteralmente in ginocchio

gran parte della popolazione residente. I danni sono stati

ingenti e molte zone continuano ancora a fare i conti con

le conseguenze dovute a esondazioni e frane.

Tra le aree più colpite troviamo nuovamente quella

compresa tra i fiumi Savena, Zena e Idice, con allagamenti

ingenti tra San Lazzaro di Savena, Pianoro e Botteghino

di Zocca. I problemi, oltre che nei centri abitati, si sono

manifestati anche nei boschi, coinvolgendo la rete

sentieristica.

Allo stato attuale i maggiori Cammini del bolognese sono

quasi tutti percorribili:

VIA DEGLI DEI

(BOLOGNA - FIRENZE)

La Via degli Dei non presenta particolari criticità dovute

all’alluvione. Naturalmente durante le giornate di allerta

meteo non è consigliabile partire, in quanto il tratto

iniziale della Via si snoda lungo il fiume Reno e potrebbe

essere soggetto a inondazione. Si sono verificati alcuni

piccoli smottamenti lungo il sentiero, ma le criticità sono

state risolte. Sul lato toscano della Via degli Dei non sono

state riscontrate problematiche.

VIA DELLA LANA E DELLA SETA

(BOLOGNA - PRATO)

La Via della Lana e della Seta in generale non ha subito

danni collegati all’alluvione di ottobre 2024.

VIA DEL FANTINI

(SAN LAZZARO DI SAVENA - MONTERENZIO)

La Via del Fantini purtroppo si snoda lungo una delle

aree più danneggiate dagli eventi atmosferici: la Val di

Zena. Non risulta quindi percorribile nella sua interezza,

i danni più gravi (frane, smottamenti) sono stati riscontrati

nella zona del Farneto, di Pianoro, Botteghino di Zocca,

Gorgognano, Monte delle Formiche e Monte Bibele.

La Via del Fantini era stata da poco ripristinata dopo

l’alluvione del maggio 2023, ma purtroppo la situazione

è di nuovo abbastanza critica.

VIA DEI BRENTATORI

(BOLOGNA - BAZZANO)

Per quanto riguarda la Via dei Brentatori si riscontrano

problemi di percorrenza nella zona di Zola Predosa:

qui non è possibile attraversare il torrente Lavino, ma è

possibile aggirarlo passando dal centro di Zola, per poi

raggiungere nuovamente il percorso segnalato.

024


2531

Cammini

VIA MATER DEI

(BOLOGNA - RIPOLI)

La Via Mater Dei, così come la Via del Fantini, attraversa

la Val di Zena (i due percorsi condividono alcuni tratti

sentieristici). Per questo motivo anche per la Mater Dei

valgono le indicazioni date per la Via del Fantini nelle

aree di Pianoro, Monte delle Formiche, Monte Bibele.

BOLOGNA MONTANA ART TRAIL

Il percorso Bologna Montana Art Trail è un anello

costellato di opere di land art (opere realizzate con

materiali naturali) che si sviluppa per circa 100 km tra

le aree di Loiano, Monzuno, Monterenzio, Monghidoro,

San Benedetto Val di Sambro e Firenzuola. Risulta quasi

tutto percorribile, con alcune criticità soprattutto nelle

aree di Loiano e Monterenzio.

Le tracce della Via degli Dei, Via della Lana e della Seta e

Bologna Montana Art Trail sono disponibili nel database

dell’app Walk+, grazie alla quale è possibile tenersi

aggiornati sullo stato di questi percorsi.


La novità

A sciare o a fare una ciaspolata ci si va in

treno e con la convenzione si risparmia

anche su alberghi e noleggi

La neve

a portata di treno

con il CORNO

EXPRESS

A cura di Valentina Fioresi

L’inverno è sicuramente il momento più magico per

godersi il fascino della montagna: la coltre nevosa che

ricopre boschi e cime altera il paesaggio, rendendolo

incredibilmente fiabesco.

Uno dei luoghi migliori per vivere la sensazione

rigenerante dell’aria di montagna è il Corno alle

Scale, la cima più alta dell’Appennino bolognese: qui

il comprensorio sciistico offre tantissime opportunità

per gli amanti della neve e del divertimento.

La stazione sciistica comprende 11 piste delle quali

5 blu (adatte per principianti o per chi è in fase di

avanzamento), 4 rosse (di media difficoltà, adatte a

sciatori che hanno già esperienza) e 2 nere (adatte a

sciatori esperti e con elevate capacità tecniche). Su

alcune di queste piste si sono allenati campioni come

Alberto Tomba (a cui sono intitolate due discese), oggi

testimonial della stazione che lo ha visto nascere.

Non mancano poi i sentieri percorribili anche in

inverno grazie all’ausilio delle ciaspole, un altro

strumento perfetto per scoprire la meraviglia delle

cime innevate. Oltre ai percorsi già fruibili saranno

presto realizzati un percorso dedicato esclusivamente

ai ciaspolatori (con partenza dall’area della Polla,

il centro della stazione sciistica) e una risalita per

praticare ski alp lungo il tracciato della vecchia

sciovia del Cupolino.

eXtraBO, grazie al rinnovato accordo con Trenitalia

Tper e Corno alle Scale srl, anche quest’anno offre

a tutti di poter raggiungere e fruire i servizi della

montagna a prezzi speciali.

Le offerte permettono di arrivare al comprensorio

sciistico del Corno alle Scale in modo semplice e

soprattutto ecologico, sfruttando la disponibilità di

mezzi pubblici che dalla città raggiungono anche

alcune delle zone più lontane dell’Appennino.

Grazie alle offerte del Corno Express sia che siate

amanti delle adrenaliniche discese in sci e snowboard

o appassionati di rigeneranti ciaspolate avrete la

possibilità di acquistare pacchetti convenienti in

un’unica soluzione.

Per il 2024/2025, infatti, sarà di nuovo disponibile

l’offerta giornaliera che include: biglietti del treno

andata e ritorno da Bologna a Porretta Terme (a

prezzi scontati), biglietti della corriera da Porretta

Terme al Corno alle Scale, skipass a prezzo

speciale, convenzione per pranzare nelle baite

direttamente sulle piste da sci! Il “pacchetto Corno

Express” dà anche la possibilità di aggiungere il

noleggio dell’attrezzatura direttamente in loco (sci o

snowboard, casco, scarponi) oppure una lezione di

sci o snowboard a prezzi agevolati. In più lo skipass

acquistato all’interno del pacchetto permette agli

utenti di poter attivare in anticipo la tessera, saltando

così la fila all’arrivo sulle piste. La grande novità di

quest’anno è che il pacchetto sarà disponibile anche

nel fine settimana e durante i giorni festivi.

Ma quest’inverno il Corno Express non si ferma qui. I

pacchetti saranno fruibili non più soltanto da sciatori

e snowboardisti, ma anche da coloro che preferiscono

la calma di un trekking con le ciaspole al brivido della

discesa.

Ogni mercoledì e ogni sabato, da dicembre fino a

chiusura impianti, i ciaspolatori potranno usufruire

degli stessi servizi del pacchetto base (trasporti,

noleggio attrezzatura a prezzo agevolato, buono

sconto per il pranzo) ed essere accompagnati alla

scoperta dei sentieri del Corno alle Scale da una guida

esperta.

Un’altra novità riguarda la possibilità di pernottare

nel comune di Lizzano in Belvedere (ai piedi del

Corno alle Scale) a prezzi agevolati: l’offerta è valida

sia per singoli/coppie che per gruppi. In questo

caso il pacchetto è valido durante la settimana

(pernottamento tra il lunedì e il giovedì), un momento

perfetto per sciare o rilassarsi lontani dalla folla

del fine settimana, vivendo un’esperienza montana

veramente immersiva.

Le offerte “Corno express” sono un’occasione

026


2731

PREZZI

perfetta per vivere la montagna in modo immersivo

e vantaggioso: le opzioni variegate e altamente

personalizzabili possono accontentare tutti gli amanti

del bianco e del turismo d’alta quota.

Il pacchetto è acquistabile presso il punto eXtraBO

(piazza Nettuno 1 a/b, Bologna) oppure on line su:

www.extrabo.com/it/corno-express/

“CORNO EXPRESS - SCI”:

pacchetto infrasettimanale che include trasporto

e sci:

Adulto: 40,00€

Junior: 35,00€

Child: 20,00€

“CORNO EXPRESS - CIASPOLE”:

pacchetto infrasettimanale che include trasporto

e ciaspolata con guida gae:

Adulto: 30,00€

Junior: 25,00€

“CORNO EXPRESS - Sci”

prezzo per il weekend e il periodo festivo:

Adulto: 55,00€

Junior: 50,00€

Child: 30,00€

“CORNO EXPRESS - Ciaspole”

prezzo per il weekend e il periodo festivo:

Adulto: 35,00€

Junior: 30,00€

ESPERIENZE SULLA NEVE

con pernottamento a partire da 100€

IL CUORE NEL TERRITORIO

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ITINERARI

Quattro percorsi nella montagna bolognese, bellissimi in ogni stagione dell’anno,

che con la neve diventano magici

Con le ciaspole in Appennino

Testo di Giovanni Zati

L’Appennino bolognese è una delle destinazioni più

affascinanti e variegate per gli amanti della montagna,

soprattutto durante l’inverno, quando i suoi crinali

si imbiancano e i paesaggi si trasformano in scenari

fiabeschi.

La montagna bolognese offre diverse opportunità per farsi

scoprire passo dopo passo, immergendoti in estese faggete

e dorsali spazzate dal vento. Vi proponiamo quattro luoghi

da esplorare con le ciaspole, per vivere un’esperienza

unica tra neve e natura. Ognuno di questi luoghi offre

una proposta diversa ma altrettanto entusiasmante per gli

appassionati delle escursioni invernali.

1. LAGO SCAFFAIOLO E CORNO ALLE SCALE:

TRA NATURA E STORIA

Il Lago Scaffaiolo, situato a circa 1.800 metri di altitudine,

è una delle mete più apprezzate per chi desidera

fare una ciaspolata ad alta quota. Il lago è un piccolo

gioiello incastonato tra i crinali del Corno alle Scale, la

vetta più alta dell’Appennino bolognese, che raggiunge

i 1.945 metri sul livello del mare. Durante l’inverno, il

lago Scaffaiolo si trasforma in un paesaggio suggestivo,

circondato da un manto di neve che riflette il cielo e i

crinali circostanti.

L’escursione che parte dal lago o dal rifugio Cavone

per salire al Corno alle Scale è una delle più belle

e panoramiche della zona. Il percorso è un’ottima

occasione per mettersi alla prova in un’escursione di

media difficoltà, adatta a chi ha una buona preparazione

fisica. Durante la salita si attraversano boschi di conifere,

faggete, radure e pendii ricoperti dalle nevicate.

Arrivati in cima al Corno alle Scale, il panorama è

mozzafiato: dalle vette più alte dell’Appennino fino a

scorgere nei giorni più fortunati, le Alpi Apuane e l’isola

di Gorgona all’orizzonte. Una volta giunti al rifugio Duca

degli Abruzzi in prossimità del lago, è possibile godersi

un meritato ristoro, magari assaporando un piatto tipico

della tradizione montanara.

Al Corno alle Scale - @Lab051

028


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L’Alpe di Monghidoro nelle foto di Lab051

2. CASCATE DEL DARDAGNA:

LA MAGIA DEL GHIACCIO

Le cascate del Dardagna, nel parco del Corno alle

Scale, sono una delle attrazioni naturali più suggestive

dell’Appennino bolognese. Questo luogo è perfetto per

una ciaspolata invernale. L’itinerario che porta alle cascate

parte dal rifugio Cavone ed è facilmente raggiungibile

sia in auto sia con i mezzi pubblici, prendendo prima

il treno fino a Porretta Terme e poi la linea 776 fino al

Cavone.

Il percorso per arrivare alle cascate è relativamente

facile ma bisogna prestare attenzione sia alla pendenza

che al fondo umido e scivoloso. Durante l’escursione

si attraversano boschi di faggi e abeti, con la neve che

rende il cammino ancora più magico; man mano che

ci si avvicina alla cascata, l’inverno mostra tutta la sua

bellezza.

3. SUVIANA E BRASIMONE:

ESCURSIONI E RELAX

I laghi di Suviana e Brasimone sono il territorio perfetto

per ciaspolare in un ambiente naturale ricco di boschi e

alture non troppo elevate. Entrambi i laghi, che si trovano

rispettivamente a 400 e 800 metri sul livello del mare,

offrono scenari di grande fascino, con le acque che si

alternano alla neve che copre le terre circostanti. Sebbene

non si tratti di escursioni particolarmente difficili, questi

percorsi permettono di godere di paesaggi suggestivi

e rilassanti, perfetti per una giornata di ciaspolate in

compagnia.

Il lago di Suviana, in particolare, è una meta ideale per

chi cerca una ciaspolata tranquilla, immersa nel silenzio

dei boschi tra i sentieri e le forestali che percorrono i suoi

monti. Il percorso che costeggia il lago offre bellissimi

scorci panoramici e si snoda tra i boschi, rendendo

l’atmosfera ancora più silenziosa e affascinante.

Il lago di Brasimone è un’altra meta da non perdere.

Entrambi i laghi ospitano ristoranti e punti sosta dove è

possibile riposarsi e gustare piatti tipici per concludere

al meglio una giornata sulle montagne innevate. Non

lontano, ci sono anche strutture turistiche e agriturismi

dove poter trascorrere la notte e godere di una sosta

rilassante in un ambiente montano.

4. ALPE DI MONGHIDORO:

TRA GRANDUCATO E STATO PONTIFICIO

L’Alpe di Monghidoro è il luogo ideale per chi cerca

un’esperienza che coniughi storia, tradizione e natura.

Situata a circa 1.000 metri di altitudine, l’Alpe è un

ampio altopiano che offre numerosi sentieri da percorrere

a piedi, con partenza dal paese di Monghidoro. Questo

percorso è adatto a escursionisti di tutti i livelli, con una

varietà di itinerari che vanno da quelli più facili a quelli

più impegnativi.

La zona è ricca di storia, poiché è stata una terra di

confine per secoli tra lo Stato Pontificio e il Granducato

di Toscana e nei dintorni possiamo trovare ancora la

vecchia dogana delle Filigare.

L’area è nota per i suoi panorami spettacolari, che

spaziano sulle valli sottostanti e sui monti circostanti,

ricoperti di boschi. L’itinerario che all’Alpe è

particolarmente suggestivo d’inverno quando le nevicate

creano un’atmosfera da fiaba.

E se volessimo anche qui provare i piatti della tradizione

culinaria appenninica emiliana? Nessun problema, vi

basterà recarvi nei ristoranti e trattorie presenti in quasi

ogni località del circondario per assaggiare i gustosi e

ricchi sapori della montagna bolognese.


La nostra storia

All’ombra delle Torri i punti di incontro non comuni tra

i due importanti esponenti della cultura e della società

tra fine Ottocento e primo Novecento

Bologna, PASCOLI

e MATTEOTTI

tra libri, documenti,

memorie

Testo di Gian Luigi Zucchini

Cos’abbia a che fare Giovanni Pascoli

con la figura dell’esponente socialista

Giacomo Matteotti non si spiegherebbe,

senonché si sono intrecciati in questi

ultimi tempi eventi e ricorrenze che

legano - tra fine Ottocento e prima

metà del Novecento - questi personaggi

ai primi sviluppi del movimento

socialista in città e conseguentemente

alla storia nazionale; oltre che alla

cultura politica, scientifica e letteraria

a Bologna e altrove.

Nell’anno appena trascorso, è stato

celebrato il primo centenerio della

L’ultima foto di Giacomo Matteotti

prima dell’assassinio.

morte di Giacomo Matteotti. Si sono

tenute in Italia diverse manifestazioni,

tra cui quelle importanti a Fratta

Polesine, località dove l’uomo politico

nacque il 22 maggio 1885 e visse

l’infanzia e la prima giovinezza.

Qui, la casa natale è diventata museo

nazionale, corredata da un centro di

documentazione utile per approfondire

ulteriormente la situazione economica,

culturale e politica, che - nel piccolo

paese quasi sperduto nella vasta pianura

tra il Po, Rovigo e Ferrara - vide sorgere

all’inizio del secolo XIX una delle

prime società carbonare, preludio di

una coscienza nazionale che troverà poi

ulteriore spazio e consolidamento nel

periodo Risorgimentale. Ricca pagina

di storia, dunque, quasi sconosciuta,

che potrebbe collegarsi agli eventi

bolognesi di quel periodo, (anch’essi

scarsamente conosciuti), in cui furono

giustiziati i giovano bolognesi Luigi

Zamboni e Giambattista De Rolandis.

Ma a Bologna possono essere ricondotti

pure eventi recenti, sempre relativi alla

figura di Matteotti: la lapide posta dal

Comune di Bologna presso la casa da

lui abitata da studente nel capoluogo

emiliano, in via Fondazza 32, pochi

metri prima della casa abitata da

Giorgio Morandi, che si trova nella

stessa via, al n.36; poi il grande

murale che raffigura il volto dell’uomo

politico, dipinto sulla facciata del liceo

Copernico, via Ferruccio Garavaglia,

Giovanni Pascoli

11, inaugurata il 10 giugno 2024, a

cento anni esatti dalla morte dell’uomo

politico. Infine l’importante mostra Di

intelligenza eletta e di animo buono.

Matteotti studente all’Università di

Bologna, inaugurata il 7 novembre

dello stesso anno , ricorrenza della

laurea in legge di Matteotti, e in

corso fino al 3 gennaio 2025, a cento

anni dallo sprezzante discorso che

Mussolini fece in Parlamento relativo

al delitto dell’esponente socialista. La

mostra è stata allestita presso il Museo

Europeo degli Studenti, in via Zamboni

33, luogo che, indipendentemente

dalla mostra, meriterebbe almeno

una visita per gli interessanti oggetti

e i documenti scritti e visivi che vi si

conservano.

Quindi l’Alma Mater Studiorum

Bononiensis, l’Università più antica

dell’intero mondo occidentale , si

trova al centro della formazione di

Matteotti, come lo fu per Giovanni

Pascoli. E per entrambi questo intreccio

fu consolidato da un interesse e una

militanza politica, che si svolse per

il poeta negli anni della giovinezza,

durante la vita universitaria, e per

Matteotti lungo tutta la sua purtroppo

breve esistenza, fino all’assassinio

avvenuto il 10 giugno 1924.

Del Pascoli politico si sa pochissimo,

mentre invece per lui è un periodo

di formazione e di consapevolezza

sociale. Sono soprattutto intensi gli

30


Bologna

Pascoli da giovane docente

anni giovanili, in cui il futuro poeta fu

attirato dalle urgenze di giustizia che

nel tempo cominciavano ad emergere

con forza, e in diversi casi anche in

modo violento. Le spinte anarchiche,

a quei tempi, erano presenti in alcune

frange del movimento socialista,

specialmente in Romagna e in molte

zone della pianura bolognese-emiliana,

insieme ad altre componenti che si

ispiravano all’ideologia della Russia

già sovietica, prima della scissione

comunista di Livorno avvenuta nel

1921. Inoltre permaneva una forte

corrente di ispirazione moderata e

più decisamente democratica, a cui

apparteneva Matteotti, in disaccordo

profondo con le altre correnti più

oltranziste e violente.

Pascoli, già inasprito per l’assassinio

impunito del padre, frustrato per le

proprie condizioni di povertà e per

la diffusa ingiustizia sociale, militava

durante i primi anni della sua vita

universitaria nelle file socialiste.

Estremista e ribelle in un primo

tempo, maturò poi una più razionale e

calibrata visione politica, seguendo il

progetto più concreto e meno eversivo

di Andrea Costa, Filippo Turati ed altri,

come pure – più tardi - Matteotti,

esponente, come si è detto, di una

visione democratica, attenta agli aspetti

sociali degli ultimi e più reietti della

società, in equilibrato dialogo con la

borghesia più illuminata.

Un libro decisamente interessante,

uscito di recente, mette in luce i vari

aspetti della personalità del poeta

attraverso i vari luoghi da lui abitati

in Italia; e Bologna fu senz’altro uno

dei più importanti (si veda il mio

articolo su “Le Valli bolognesi” dell’1

ottobre 2019). Un ampio saggio di

Elisabetta Graziosi, già docente presso

l’Università bolognese, riprende ora

ampiamente questo periodo, cercando

di completare un quadro ancora

impreciso di una vita controversa,

ambigua e mai concretamente accettata

(Pascoli e Bologna: tre incontri, in

Giovanni Pascoli, Viaggio in Italia, a

cura di R. Boschetti e G. Miro Gori,

pp. 341, ed. Il Ponte Vecchio, Cesena,

2014, 18 € ).

Così la vita di due importanti esponenti

della cultura e della società tra fine

Ottocento e primo Novecento,

apparentemente lontanissimi tra loro,

presenta, per sviluppo di ricerche

e ricorrenze, punti di incontro non

comuni proprio nella nostra città di

Bologna.

Ci è sembrato utile ricordarlo.

Giacomo Matteotti

I romanzi e i volumi di ZUcchini

Sono diversi i libri di Gian Luigi Zucchini attualmente disponibili. L’ultimo è il romanzo pubblicato

da Edizioni Efesto, “Verso l’altra parte del cielo”. Vittoria è una donna del popolo - si legge nella

sinossi - nasce in una famiglia molto povera in un antico vicolo del centro storico di Bologna, città

dove si svolge il racconto. Insieme a Vittoria ci sono tanti altri personaggi, con le loro microstorie:

dalla nonna Marianna, ai genitori, alle vicine di casa, alle amiche d’infanzia, al marito; tutti

coinvolti in questo suggestivo romanzo corale che, attraverso la vita della protagonista, ripercorre

in sintesi gli eventi lieti e drammatici dell’ultimo secolo, dall’inizio del Novecento fino alla partenza

di lei per la terra d’Israele, evento con cui si chiude il romanzo. Per il Gruppo Studi Savena Setta

Sambro, ha invece scritto “Una scuola e 50 bambini tra macerie e speranze”, un libro di ricordi

sull’esperienza da maestro di scuola elementare dello stesso Zucchini, e “L’Appennino: una

stagione ritrovata – Avventure e disavventure letterarie”. Per Pendragon ha pubblicato “Antiche

storie di libri e di vita”.

INFO: gianluigizucchini34@gmail.com

31


> INSERZIONE PUBBLICITARIA

In cammino tra Bologna, Prato e Firenze

con soste rigeneranti da veri dei!

Lungo le più famose Vie che uniscono

le tre città d’arte tra Emilia

e Toscana, dopo una bella giornata

di cammino o nella pausa pranzo di

una tappa che sfida il freddo invernale,

ecco che arrivano in soccorso

ristoranti, circoli, alimentari, bar

pasticcerie e chioschi dove trovare

tutto il necessario per ricaricarsi

di energie. Presso questi esercizi

commerciali potrete anche timbrare

la vostra credenziale della

Via degli Dei o della Via della Lana

e della Seta e gustare piatti tipici

emiliani e toscani con una particolare

attenzione ai prodotti che

offrono i loro spettacolari territori.

Pasticceria Saragozza 157

Pasticceria Saragozza 157 è aperta

fin dalle prime ore del mattino con

la sua pasticceria mignon e da passeggio,

con colazioni che spaziano

dal cornetto lievito madre all'italiana

al vegano e a i prodotti per chi è intollerante

al lattosio, con prodotti da

forno salati e dolci.

Saragozza 157 Pasticceria Gourmet

Caffetteria

Via Saragozza, 157/a - Bologna

Tel. 347 6699733

Mail: saragozza157@hotmail.com

www.viadeglidei.it/bologna/saragozza-157-pasticceria-gourmet-caffetteria

Tigelleria artigianale "Le Squisite"

Nella stessa Via Saragozza ma al numero

101/b, un altro punto sosta con

il prodotto più noto del territorio: la

tigella è la protagonista assoluta al

negozio di Giorgia e Francesca che

nella loro Tigelleria artigianale "Le

Squisite" producono a mano tigelle,

spianate e ciacci, tipici dell’appennino

bolognese, preparati con lievito

naturale, lavorati a mano.

Qui la passione per l'artigianato e la

dedizione di una famiglia che ha fatto

della sua attività un vero e proprio

stile di vita, riesce a preservare, oltre

al gusto più genuino e autentico,

anche gli usi, le modalità ed i tempi

di preparazione che ci sono stati tramandati

dalle generazioni passate.

Tigelleria artigianale "Le Squisite"

di via Saragozza

Via Saragozza, 101/b - Bologna

Tel. 351 8218241

Mail: lesquisite.saragozza@libero.it

www.viadeglidei.it/bologna/tigelleria-artigianale-%22le-squisite%22-di-via-saragozza


Paradiso Gluten Free

Per chi deve evitare totalmente i prodotti

con glutine, può fermarsi a Casalecchio

dove, a 500 metri dal percorso

della Via degli Dei, vi aspetta

il Paradiso Gluten Free, un negozio

specializzato in alimenti senza glutine

in gran varietà: prodotti confezionati,

surgelati e da frigo, prodotti da

forno e di pasticceria freschi, e potete

anche chiamare in anticipo per

un’ordinazione “su misura” che può

includere anche prodotti vegan, senza

lattosio, senza zucchero ed altre

esigenze alimentari.

Paradiso Gluten Free

Via Porrettana 179

40033 Casalecchio di Reno (BO)

(+39)3494773239

paradisoglutenfree@gmail.com

www.viadeglidei.it/casalecchio-di-reno/paradiso-gluten-free

Forno Fratelli Gasperini

Se siete in gruppo e volete avere più

scelta per esigenze diverse, a Casalecchio

trovate un piccolo forno artigianale,

il Forno Fratelli Gasperini,

di Matteo e Michele, che per i viandanti

propongono pizze e focacce

farcite e semplici, panini anche da

creare sul momento con i prodotti

della zona, una sana colazione oppure

una bella pagnotta da portare

con sé!

Anche qui si utilizzano materie prime

accuratamente selezionate e lievito

madre per i propri prodotti, buoni e

digeribili, fatti solo con grani italiani,

prevalentemente marchigiani ed

emiliani (Loiano e Sasso Marconi).

Forno Fratelli Gasperini

Via Porrettana, 215 - Casalecchio di

Reno (BO)

Tel. 347 9639788

Mail: forno.gasperini@gmail.com

www.viadeglidei.it/casalecchio-di-reno/forno-fratelli-gasperini

Chiosco Da Spartaco

All’altro capo della Via degli Dei, prima

di concludere l’ultima tappa, si

può fare una bella sosta a Fiesole

dove troviamo due punti ristoro molto

apprezzati dai camminatori.

Da marzo a ottobre, in Piazza Mino vicino

alla fontana pubblica, al fresco

degli alberi, si trova lo storico Chiosco

da Spartaco. Per una sosta pratica,

veloce e gustosa Spartaco sarà

in grado di consigliarvi e prepararvi

generosi panini, schiacciate o piadine

tutti farciti con prodotti di ottima

qualità, del territorio e a filiera corta.

Chiosco da Spartaco

P.zza Mino - Fiesole (FI)

Tel. 335 6123456

Mail: torronetoscano@alice.it

www.viadeglidei.it/fiesole/chiosco-da-spartaco

Fornaio di Fiesole

Il Fornaio di Fiesole, nella meravigliosa

cornice di Piazza Garibaldi

per una golosa sosta con prodotti di

prima qualità, con ingredienti scelti,

ricette tramandate e tanta varietà e

passione!

Il Fornaio di Fiesole

Piazza Garibaldi, 7/r - Fiesole (FI)

Tel. 05559192 / 3346191811

Mail: ilfornaio.fiesole@gmail.com

www.viadeglidei.it/fiesole/il-fornaio-di-fiesole

Truck Food Agricolo"

Orto dell’Olmo

Per chi invece preferisce freschi

prodotti dell’orto, può essersi fermato

un po’ più su, sempre sulla

Via degli Dei, ma in località Olmo,

al "Truck Food Agricolo" Orto

dell’Olmo, che offre ai camminatori

non solo verdura e frutta fresca

della propria azienda agricola

ma anche panini e freschi spuntini.

Orto dell'Olmo

Via dei Bosconi - Loc. Olmo

Fiesole (FI)

Tel. 353 4123265

Mail: info@ortodellolmo.it

www.viadeglidei.it/olmo/orto-dell'olmo

Giova Negozio Alimentari

Arrivati finalmente a Firenze, non si

può non fermarsi da Giova Alimentari,

un negozio storico, proprio in

una delle strette vie intorno a Piazza

Signoria, con ortofrutta e prodotti

alimentari. Visto che ormai il cammino

è giunto alla fine, qui potete

anche acquistare i prodotti tipici gustati

lungo la via, come l’olio e il vino

toscani, ma anche miele, formaggi e

salumi.

Giova Negozio Alimentari

Via Calimaruzza 13/r - Firenze

Tel. 055 210822

giovannicampolmi@hotmail.it

www.viadeglidei.it/firenze/giova-negozio-alimentari

aTipico bottega degusteria

Per chi ha invece percorso la Via della

Lana e della Seta, quando giunge a

Prato, il luogo ideale sia per una pausa

ristorativa che per fare la spesa, è situato

in centro vicino all’arrivo in Piazza

Duomo. Nato come punto vendita

della Strada dei vini di Carmignano

e poi vetrina dei prodotti del paniere

EatPrato, dal 2012 Stefano e Mirko

hanno trasformato aTipico nella bottega

e degusteria dei prodotti tipici

pratesi. Vi invitiamo a seguirli sui loro

social, impossibile racchiudere qui

tutte le loro attività. Intanto gustatevi

da loro i celebri biscotti di Prato, i

vini di Carmignano e le birre artigianali,

salumi e insaccati di zona, miele,

marmellate, salse e ragù e tanto altro.

aTipico bottega degusteria

Via Benedetto Cairoli, 14 - Prato

Tel. 388 5884804

Mail: info@atipicoshop.it

www.viadellalanaedellaseta.com/prato-atipico

Appennino Gnam

Nella tappa centrale della Via degli

Dei, a Madonna dei Fornelli, ecco

un punto sosta diventato ormai un

must, dove poter anche acquistare

gadget della Via: siamo al negozio di

alimentari Appennino Gnam, per i vostri

spuntini e pranzi al sacco durante

il trekking, dove Laura Musolesi può

fornirvi pane fresco, panini con affettati

locali e formaggi, frutta, verdura e

prodotti bio, e, dulcis in fundo... prodotti

dolci da forno!

Appennino Gnam

Piazza Madonna della Neve 5

Madonna dei Fornelli

San Benedetto V. di S. (Bo)

+39 338 9667498

lauramusolesi@gmail.com

www.viadeglidei.it/madonna-dei-fornelli/appennino-gnam


IL RESTAURO

Dopo il restauro dell’opera contenuta nella Parrocchia

di Sant’Alberto, a San Pietro in Casale, si è scoperto

che l’affresco risale alla fine del ‘500. Probabilmente è

di Scuola Ferrarese

La Madonna

del Rosario

svela i suoi misteri

Testo di Agostino Querzoli

Sagrista della chiesa di Sant’Alberto di San Pietro in Casale

La chiesa di Sant’Aberto

a San Pietro in Casale

In provincia di Bologna, a metà strada

tra Bologna e Ferrara, si trova il comune

di San Pietro in Casale. La Parrocchia

di Sant’Alberto è nelle vicinanze,

a due chilometri dal Paese. È una

piccola frazione di circa 300 abitanti

nella campagna della pianura padana.

La chiesa è stata costruita nel 1777

dal parroco don Ercole Calori in stile

toscano, dopo aver demolito la chiesa

preesistente e cambiato l’orientamento

della facciata, non più verso ovest

ma verso est, prospiciente la strada

principale. Il patrono è Sant’Alberto

degli Abbati, carmelitano, vissuto

nel 1200. A lui è dedicata la bella

pala d’altare del pittore bolognese

Alessandro Calvi detto “Il Sordino”.

Il terremoto del 2012 ha danneggiato

in parte l’edificio e la vicina canonica,

che sono state ristrutturate nel 2021

con riapertura della chiesa nel 2022.

La seconda cappella laterale a destra

è dedicata alla Beata Vergine del

Rosario; sopra l’altare c’è un dipinto su

muro con l’immagine della Madonna

in trono con Gesù bambino e con i

santi Domenico e Rosa; attorno al

dipinto, in una cornice rettangolare,

sono raffigurati i 15 misteri del rosario.

Il dipinto era già stato classificato

dalla Soprintendenza come pittura ad

olio risalente a fine ‘500 o inizi ‘600

per la parte superiore, mentre al ‘700

risalirebbero i due Santi dipinti nella

parte inferiore. Più incerta la datazione

dei Misteri del rosario.

Da tempo il dipinto necessitava di

essere restaurato perché in cattivo stato

di conservazione; il volto della Vergine

e quello del bambino non erano

quasi più visibili. Messo in sicurezza

l’edificio dopo il terremoto del 2012,

si è pensato fosse giunto il momento di

restaurare il dipinto. È stata effettuata

una raccolta fondi per far fronte alla

non piccola spesa. È stato scelto, di

comune accordo con l’ufficio Beni

Artistici della Curia, il Laboratorio di

Restauro Ottorino Nonfarmale di San

Lazzaro.

“La raffigurazione centrale che vediamo

è eseguita a olio su muro e con ogni

probabilità corrisponde ad un ripristino

decorativo ottocentesco per colmare

forse lacune e/o fenomeni di degrado

presenti - è stato rilevato dai primi

esami - Le due figure alla base sono state

realizzate su un intonaco molto ruvido

molto difforme da quello superiore.

Prove di pulitura già presenti ed

eseguite in precedenza evidenziano la

presenza di una policromia sottostante

con notevoli difformità cromatiche

rispetto a quelle attuali. Su tutta la

superficie modanata dell’altare è stata

poi applicata nel tempo una vernice

protettiva trasparente fortemente

ingiallita e annerita dal fumo di

candele. Sulla cornice perimetrale dove

sono raffigurate

le piccole scene (15 misteri del rosario)

e sull’intero altare sono presenti anche

ridipinture eseguite a tempera sempre

frutto di ripristini e manutenzioni.

Possiamo affermare con certezza che

l’impianto decorativo originale e più

antico fosse realizzato ad affresco e dal

punto di vista cromatico difforme da

quello presente; le due figure alla base

sono state realizzate successivamente

con una tecnica pittorica ad olio

su muro molto modesta così come

la riproposizione e adeguamento

cromatico realizzato nella parte

superiore e sulla Madonna.”

È emerso subito che necessitava il

parere autorizzativo per sapere come

procedere: restaurare l’esistente o

cercare altri elementi. In accordo

con la direzione lavori si è deciso

“un intervento selettivo finalizzato al

recupero della raffigurazione eseguita

in tempi diversi, riportando alla luce

l’affresco più antico circondato da un

apparato decorativo più tardo con i

Santi Domenico e Rosa e i Misteri del

Rosario con l’obbiettivo di mantenere

un equilibrio formale e cromatico”.

In accordo con il funzionario della

Soprintendenza, si è deciso di verificare

lo stato del dipinto sottostante.

Terminate le fasi di pulitura sono state

realizzate le stuccature delle lacune,

34


San Pietro in Casale

per poi procedere all’applicazione

di un fissativo di tipo acrilico che

ha permesso di eseguire il ritocco

pittorico con colori a tempera, con

velature ad acquerelli sulla parte

affrescata e con colori a vernice

sulle zone realizzare con tecnica a

olio su muro. È stato realizzato un

intervento selettivo finalizzato al

recupero della raffigurazione eseguita

in tempi diversi, riportando alla luce

“l’affresco” più antico circondato da

un apparato decorativo più tardo con i

Santi Domenico e Rosa e i Misteri del

Rosario con l’obbiettivo di mantenere

un equilibrio formale e cromatico.

Dopo i lavori, si è scoperto che la parte

superiore raffigurante la Madonna

in trono con Gesù Bambino non è

una pittura ad olio, ma un affresco

di fine 1500 – inizi 1600, forse di

scuola ferrarese. La parte inferiore

raffigurante San Domenico e Santa

Rosa (aggiunta all’affresco nel 1695

dal pittore bolognese Antonio Dardani)

è stata rimaneggiata più volte. Ci

sono annotazioni di spese nel 1729

e nel 1779 per questo altare della

Beata Vergine del Rosario. I misteri

del rosario sono stati dipinti ad olio

nel 1779. Probabilmente, in questa

occasione, la parte in alto del dipinto

originale è stata coperta dalla cornice

che contiene i misteri, per cui i due

“putti” che reggono rami di ulivo

risultano senza testa. Forse per questo

motivo la parte alta del dipinto è stata

in parte ricoperta con colore scuro e

per evitare il contrasto con la pittura

dei due santi in basso. Il volto della

Madonna e di Gesù Bambino sono di

una tenerezza e dolcezza inusuali ma

nulla si sa sul suo autore.

Questo dipinto, appartiene alla

“vecchia” chiesa demolita, è stato

tagliato, tolto e trasportato nella

“nuova” chiesa costruita nel 1777 a

cura e spese del parroco don Ercole

Calori. Non si conoscono le origini

della pittura, i più vecchi documenti

d’archivio risalgono alla metà del

1600.

È documentata l’esistenza fin dal 1526

di un palazzo, residenza di campagna,

di proprietà di una nobile e facoltosa

famiglia bolognese: i Bottrigari. Presso

il palazzo vi era la cappella dedicata

alla Vergine addolorata. Nel 1724 in

altro inventario è indicato: “separata

dal detto Palazzo, una Cappellina o sia

Oratorio per celebrarvi la S. Messa …”

dedicata alla B.V. Addolorata “ che era

effigiata nella pala d’altare, circondata

da puttini, dal Santo Sudario e

Istrumenti della Passione”.

Di tutto questo non esiste più nulla.

Non si conosce il motivo per cui

nel 1788 lo si fece demolire dalle

fondamenta.

Rimase in piedi, per qualche tempo

ancora, solo il modesto oratorio (che

nel 1785 era già sconsacrato) almeno

fintanto che i beni dei Bottrigari a S.

Alberto non entrarono nel patrimonio

fondiario di Antonio Aldini, poi del

Demanio Napoleonico e vennero a

costituire il vasto Ducato di Galliera.

Nella chiesa parrocchiale, l’altare dove

è collocata l’immagine della Vergine

con Bambino, era la cappella dei

Bottrigari. A questa famiglia competeva

la cura e il decoro della cappella. La

cura della cappella è terminata alla

fine del 1700.

È ipotizzabile che l’affresco della

Madonna del S.S. Rosario nella chiesa,

sia stato commissionato da questa

famiglia sul finire del 1500 per la

cappella della famiglia.

Riteniamo che la Chiesa di Sant’Alberto

possieda una piccola opera d’arte che,

a quanto ci risulta, non abbia uguali

nel nostro territorio.

35


IN GIRO CON EXTRABO

Le visite guidate al “castello” che

domina le valli del Setta e del Sambro

che durante il Risorgimento fece da

rifugio a patrioti e combattenti in fuga

verso la Toscana. Nella Seconda Guerra

Mondiale fu requisito per diventare il

quartier generale delle SS

Dentro

la torre

di montorio

Testi di Veronica Righetti e Elenia Gubbelini

Foto di Giovanni Zati

L’Appennino bolognese custodisce luoghi in cui il

tempo sembra essersi fermato. Uno di questi è la Torre

di Montorio, che svetta maestosa sulla rupe che domina

le valli del Setta e del Sambro. Inserita tra le tappe della

rassegna “Ville e Castelli” di eXtraBo, questa visita regala

l’emozione di un viaggio indietro nei secoli, a quando i

crinali erano confini tra imperi e teatro di battaglie epiche.

Difficile non rimanere affascinati dalla Torre di Montorio:

con le sue mura in pietra e l’imponenza che si staglia

contro il cielo, ha custodito per secoli segreti, leggende

e storie di uomini e donne che vi hanno vissuto o

combattuto intorno. Costruita su uno sperone roccioso,

si erge come un baluardo medievale che conserva il suo

fascino fiabesco, mescolando passato e presente in un

racconto che attraversa mille anni di storia.

La Torre affonda le sue radici in un’epoca lontana,

quando i Longobardi e l’Esarcato di Ravenna si

contendevano il dominio del territorio appenninico.

Gli scavi archeologici recenti suggeriscono che il primo

nucleo della costruzione risalga addirittura al VIII secolo,

ai tempi del re longobardo Liutprando. Proprio lungo i

crinali del Setta e del Sambro correva, forse, il confine

tra due poteri opposti: da un lato il dominio longobardo,

dall’altro le terre sotto il controllo bizantino.

Dopo un lungo periodo di silenzio, la Torre ricompare

nei documenti nel XII secolo, rivelandosi come una

fortezza con mura e cassero. Era un luogo strategico,

punto di vedetta e roccaforte inespugnabile, teatro di

scontri fra i guelfi conti di Monzuno e i ghibellini conti di

Panico. Questi scontri, che segnarono l’epoca medievale

bolognese, riecheggiano ancora oggi tra le pietre della

Torre, che si erge a testimone del passare dei secoli.

Pur chiamata “Torre”, la struttura appare ai visitatori più

come un castello. Le sue mura massicce, la merlatura

CALENDARIO E PRENOTAZIONI

Per partecipare alle visite di “Ville e castelli” e conoscere il

calendario completo delle esperienze consulta:

www.extrabo.it/attivita/alla-scoperta-di-ville-e-castelli/.

Per maggiori informazioni è possibile

contattare eXtraBO (Piazza Nettuno 1 a/b, Bologna):

extrabo@bolognawelcome.it |051 6583109

guelfa originaria e le balestriere ancora visibili raccontano

di un edificio pensato per la difesa e per il controllo del

territorio. Nei secoli successivi, con la fine delle guerre

e il tramonto dell’epoca medievale, Montorio cambia

volto e funzione: da presidio militare diventa residenza

privata. Nel Cinquecento, con le conquiste bolognesi

di Giulio II della Rovere, la Torre perde la sua funzione

strategica. Cambia più volte proprietà e subisce modifiche

significative, assumendo l’aspetto attuale grazie agli

interventi ottocenteschi della famiglia Berti, che ancora

oggi ne è custode.

Le vicende della Torre di Montorio si intrecciano anche

con la storia moderna. Durante il Risorgimento, la Torre

divenne un rifugio per patrioti e combattenti in fuga verso

la Toscana. Ma è nella Seconda Guerra Mondiale che

questo luogo vive giorni drammatici: nel settembre del

1944, la Torre fu requisita come quartier generale della

sedicesima divisione Panzer Grenadieren SS, comandata

dal tristemente noto Walter Reder, protagonista degli

eccidi di Marzabotto. Poco dopo, gli Alleati presero

possesso della struttura, che divenne base per la 24ª

Brigata Guardie britannica durante l’inverno del ’44-

’45. Nel 1985, alcuni veterani britannici tornarono a

Montorio per commemorare il loro servizio con una

targa, simbolo di una memoria condivisa che lega questa

antica costruzione a momenti cruciali del nostro passato.

Oggi, visitare la Torre di Montorio significa immergersi in

un’atmosfera unica, in cui le pietre e i panorami sembrano

raccontare la storia. La struttura, che si sviluppa in più

livelli, conserva dettagli architettonici di grande pregio:

dal portale d’accesso alle stanze interne, ben curate e

36


Ville e castelli

animate dai racconti della famiglia Berti, che narra con

passione la storia del luogo e delle persone che lo hanno

abitato. Durante la visita, si ha l’impressione di essere

sospesi nel tempo: dalle balestriere che affacciano sulla

valle al salone che custodisce cimeli di famiglia, ogni

angolo della Torre di Montorio svela una pagina di storia.

Chi ha già partecipato sottolinea la qualità del racconto

storico, capace di unire vicende locali a grandi eventi

internazionali, rendendo questo luogo un vero e proprio

scrigno della memoria. Camminare tra gli ambienti

interni, osservare gli elementi originali ancora conservati

e ascoltare le storie raccontate con entusiasmo dai

proprietari significa vivere un’esperienza che va oltre la

semplice visita: percepire il respiro del tempo e lasciarsi

avvolgere dal fascino eterno della storia.

IN PIANURA - L’Accademia dei Notturni a Budrio

UN SALOTTO SENZA TEMPO

Le visite si spostano anche nell’area della Pianura

bolognese che, così come la montagna, è ricca di edifici

storici a cui si accostano anche numerosi palazzi signorili

e ville storiche: una di queste meraviglie è sicuramente

l’Accademia dei Notturni, una dimora settecentesca sorta

dall’antica Villa Ranuzzi Cospi, in località Bagnarola di

Budrio.

Grazie alla rassegna di eXtraBo sarà possibile visitare

questa dimora in esclusiva: un’occasione unica per rivivere

i fasti di un tempo, partecipando alla visita guidata e

lasciandosi incantare dalla storia.

Centro della mondanità intellettuale dell’epoca, Villa

Ranuzzi Cospi fa parte del complesso delle Ville di

Bagnarola, formato da tre diverse proprietà: un castello a

quattro torri della famiglia Bentivoglio (risalente al ‘500),

il Casino d’Aurelio (costruito nel ‘500-‘600) e il Floriano

del ‘700-800 (così chiamato da monsignor Floriano dei

Malvezzi-Campeggi) e infine proprio villa Ranuzzi-Cospi

del ‘700.

Osservando la planimetria originaria si può notare come

tutte le ville si integrino armoniosamente nel paesaggio

circostante, formando un complesso unitario unico nel

bolognese, nonostante appartengano a epoche e a

proprietari diversi. La perdita dei giardini e il deterioramento

degli edifici ci impediscono purtroppo di cogliere appieno

la bellezza del complesso, che mantiene però inalterata la

sua maestosità. Fortunatamente è ancora ben conservato

lo splendore di Villa Ranuzzi Cospi, che conserva intatta

una loggia a tre arcate affrescate che completa la facciata.

Ai lati dell’edificio si possono ancora osservare due edifici

un tempo dedicati ai servizi, la “conserva” (ghiacciaia) e

una piccola chiesa.

Oggi la villa ospita il ristorante di proprietà di Giovanni

Tamburini, erede dell’antica salsamenteria (salumeria)

Benni, un’istituzione della gastronomia bolognese.

Il Tamburini acquistò la villa con l’ambizioso progetto di

creare un luogo di convivialità e celebrazione dei sapori

locali, in perfetta armonia tra tradizione e contemporaneità.

La scelta del nome, “Accademia dei Notturni” non fu

casuale: si tratta di un omaggio alla società culturale fondata

alla fine del Settecento da Prospero Ranuzzi Cospi, che

proprio in questa villa teneva le sue riunioni. Nei primi del

‘700 il Conte Vincenzo Ferdinando Ranuzzi Cospi sostituì

la vecchia dimora con l’attuale villa, caratterizzata da un

vasto giardino e una magnifica facciata con loggia a tre

arcate, adorna di affreschi entro cornici di stucco. In questo

luogo, un tempo “si davano convegno dame e cavalieri,

abati e cardinali, tanti fiori bordavano i prati, riempivano

i giardini e il verde delle cinture di piante e lo svettare dei

cipressi, aggiungevano tinte liete alle pietre e vivacità alle

statue, allegro scrosciare alle fontane” (Beseghi).

Info: www.extrabo.it | www.accademiadeinotturni.it/

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NON TUTTI SANNO CHE

Tra Bassa e Appennino, un giro nelle

vecchie dimore in abbandono, disabitate

ma infestate da oscure presenze

Non entraTe

in quella casa

Testi di Serena Bersani

Non entrate in quella casa. No, non siamo sul set di

un b-movie del mistero, ma nelle campagne bolognesi,

sull’Appennino o, addirittura, ai margini della città, dove

sopravvivono (è proprio il caso di dire) vecchie dimore

in abbandono, castelli diroccati, magioni disabitate ma

infestate da oscure presenze. Attorno ad esse sono sorte

inquietanti leggende alimentate soprattutto dallo stato di

degrado in cui versano da decenni. Ne abbiamo censite

alcune per gli appassionati di luoghi abbandonati (per lo

meno dai vivi).

VILLA CLARA - TREBBO DI RENO

In via Zanardi 449, in zona Trebbo di Reno, sorge quella

che è conosciuta oggi come Villa Clara, in realtà Villa

Malvasia in quanto fu la casa di campagna del noto

storiografo dell’arte Cesare Malvasia che vi villeggiava

negli ultimi decenni del Seicento. Il luogo sarebbe abitato

dal fantasma di una bambina, Clara appunto, figlia di uno

degli ultimi proprietari a inizi Novecento, che sarebbe stata

rinchiusa o, addirittura, murata viva nella casa dal padre

intimorito dai poteri di chiaroveggenza della ragazzina.

Una versione alternativa parla di una fanciulla, figliastra

di un proprietario della dimora, sorpresa ad amoreggiare

con uno stalliere e per questo fatta sopprimere dal padre.

Su un punto le versioni concordano: la povera Clara

continuerebbe ad aggirarsi per la villa piangendo e

lamentandosi.

Villino Anna - Facebook/Casalecchioinvolo

Villino Anna - Facebook/@TesoriAbbandonati

VILLA FLORA - BORGO PANIGALE

A volte i fantasmi sono semplicemente l’effetto del

degrado, della decadenza, dell’abbandono di luoghi che

hanno avuto un passato glorioso, importante, di spicco

rispetto agli spazi circostanti molto più modesti. È il caso

di Villa Flora o Villa Gina, una palazzina in stile liberty

costruita a inizio Novecento in via della Salute, nel cuore

di un quartiere operaio come Borgo Panigale. La volle

il conte Cosimo Pennazzi, principe vassallo dell’Impero

Ottomano di stanza per lo più ad Alessandria d’Egitto,

per la moglie Virginia Lisi. In seguito, cambiò più volte

destinazione d’uso, da asilo a casa di cura per malati

psichiatrici, a rifugio per sfollati durante la Seconda guerra

mondiale. Ora non si sa nemmeno più di chi sia, se delle

Opere Pie o di un ente pubblico. L’ingente investimento

che richiederebbe per essere ristrutturata e destinata a

spazio per gli abitanti del quartiere la rende persino priva

di un proprietario. Ad approfittare dello stato di rovina e

decadenza della struttura fu, nel 1983, il regista Pupi Avati

per girarci le scene iniziali del suo film “Zeder”. Anche

per le suggestioni horror della pellicola sono forse nate

le leggende su inquietanti presenze all’interno della villa.

La location è stata inserita dal Fai tra i “Luoghi del cuore”,

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Ville infestate

Villa Clara - @ Claudio Evangelisti

ma certo occorre un cuore ben temprato per affrontarne

l’odierno degrado.

VILLINO ANNA - CASALECCHIO

In pieno centro a Casalecchio, in via Garibaldi 54, c’è una

casa dalla struttura di villino svizzero, con i tetti spioventi,

che sembra uscita dalla favola di Hansel e Gretel. Non

a caso da tanti è chiamata “la casa stregata”, anche se

più banalmente si chiama Villino Anna. Disabitata

da almeno tre decenni, porta il nome della moglie del

libraio bolognese Luigi Beltrami che vi abitava negli anni

Trenta del secolo scorso. Lo stato di decadenza in cui

versa, pur risultando avere ancora legittimi proprietari,

la rende spettrale. La presenza di ospiti invisibili è

comunque del tutto ipotetica, anche perché i riferimenti

ad eventi spiacevoli che vi sarebbero accaduti e che ne

legittimerebbero in qualche modo la comparsa, sono del

tutto privi di fondamento. Ma parlare dei costi spaventosi

delle ristrutturazioni di immobili tanto grandi non ha certo

il fascino del racconto di oscure presenze che ne tengono

alla larga i possibili abitanti.

VILLA SAMANTHA - SASSO MARCONI

Spostandoci lungo la Porrettana, a Sasso Marconi,

in località Nugareto si trova un edificio cadente,

comprendente anche un’ex chiesa sconsacrata. Chiamata

impropriamente Villa Samantha, venne abbandonata

alla rovina nel dopoguerra in seguito a uno scandalo

che avrebbe coinvolto l’ultimo parroco e una giovane

donna che gli faceva da perpetua, di cui avrebbe abusato.

Nonostante la sua fama di luogo infestato, la casa è oggetto

di visite di curiosi e appassionati di paranormale, anche

se non è facilmente accessibile per motivi di sicurezza.

Tuttavia, la sua fama cresce ogni anno, attirando chi è in

cerca di emozioni forti o di esperienze fuori dall’ordinario.

La vicina presenza di un piccolo vecchio cimitero ha

attratto in passato satanisti e balordi profanatori delle

tombe di vittime dei bombardamenti della Seconda guerra

mondiale, ormai dimenticate da tutti.

CASTELLO DI SERRAVALLE - VALSAMOGGIA

Ovunque ci sia un castello, è pressoché d’obbligo ci

sia un fantasma. All’interno del Castello di Serravalle

in Valsamoggia, ad esempio, vagherebbero senza pace

le dodici mogli di uno dei discendenti della famiglia

Boccadiferro, che fu proprietaria del maniero dal XIV

al XIX secolo, uccise una dopo l’altra dal marito, che

sarebbe a sua volta tra le anime in pena nel castello dopo

essere rimasto vittima, per contrappasso, della tredicesima

consorte. E ovunque ci sia un borgo abbandonato

da decenni nasce la suggestione che vi si aggirino

oscure presenze. Lo spopolamento di alcune località

appenniniche ben si presta ad alimentare le leggende in

tal senso.

CASE BANDITELLI - CASE LAZZARONI ALTO RENO

Nella zona dell’Alto Reno, percorrendo un’impervia

salita, si arriva nel borgo fantasma di Case Banditelli, non

più abitato fin dagli anni della Seconda guerra mondiale.

Nei decenni, la natura sta riprendendo il sopravvento

sui ruderi, che mantengono un loro fascino non privo

d’inquietudine. Luogo in cui di fatto doveva essere

impossibile vivere anche nei secoli passati, in quanto

privo d’acqua ma che, come il vicino borgo di Case

Lazzaroni, doveva rappresentare più che altro un rifugio

nella macchia appenninica per malfattori e briganti (come

suggeriscono i nomi), in zona strategica sul confine tra lo

Stato Pontificio e il Granducato di Toscana.

CASTELLO D’AFFRICO - GAGGIO MONTANO

Restando in zona, un’altra inquietante dimora è il Castello

d’Affrico, a Gaggio Montano, che sarebbe abitato da una

presenza femminile senza pace, la figlia del castellano

morta suicida per non sposare l’uomo scelto dal padre.

Una parte del castello – fantasma compreso – è attualmente

in vendita. L’intermediazione è affidata a una singolare

agenzia immobiliare, specializzata in case con storie di

crime o di mistero alle spalle, in cui le energie accumulate

nel luogo attraverso i decenni si manifestano ancora in

maniera bizzarra o inquietante. Fiorenza Renda, la titolare

della “Ghost House” – unica in Italia e probabilmente in

Europa, con sede a Bologna – assicura che c’è un mercato

fiorente, soprattutto sul fronte della domanda. In trent’anni

di carriera si è occupata di diversi immobili che erano stati

teatro di fattacci o che risultavano già fin troppo abitati.

«All’inizio, quando scoprivo ciò che era accaduto o le

manifestazioni che si verificavano, mi facevo scrupolo

di avvisare gli acquirenti proponendo loro di restituire

la caparra senza penali, ma in realtà ho sempre trovato

persone già consapevoli dell’accaduto e molto disponibili

a completare l’affare», racconta l’immobiliarista. Si tratta

di un settore di nicchia (non è certo la prima casa da

comperare con il mutuo), destinato a persone in grado

di fare investimenti sostanziosi. “Quello che frena il

mercato – sospira Renda – è il costoso esagerato delle

ristrutturazioni, che superano di gran lunga il prezzo

d’acquisto”.

Intanto il tempo fa crudelmente il suo lavoro e, se gli

edifici saranno destinati al crollo, anche le anime in

pena saranno costrette a sloggiare. Per i ghostbusters

alla bolognese il consiglio resta, dunque, quello iniziale:

non entrate in quella casa. Non tanto per la possibilità di

incontrare un fantasma, quanto per il rischio che vi cada

una trave in testa.

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NELLA BASSA

Viaggio nel borgo che ha dato i natali

a Bulgarelli, il “porto nuovo” fondato

nel Trecento che sembra uscito da un

racconto di Guareschi

Nel PAESE

DI GIACOMINO

Testi di Marco Tarozzi

“A Portonovo ci sono le zanzare, a Bologna c’è la nebbia

e molto freddo. Eppure non c’è altra campagna al di fuori

di Portonovo dove io vorrei stare, e non c’è altra città oltre

a Bologna dove vorrei andare”.

Parole piene di poesia uscite dal cuore di Giacomo

Bulgarelli, bandiera mai ammainata del Bologna, capitano

nella storia e nella memoria. Dedicate alla città da cui

non se ne è mai voluto andare quando era un signore

del calcio italiano, e Rocco e Rivera avrebbero fatto carte

false per portarlo al Milan. Ma soprattutto dedicate a

quel piccolo posto apparentemente fuori dal mondo che

gli ha dato i natali nel 1940, e in cui ha sempre trovato

occasione di tornare.

GIGANTE. Benvenuti a Portonovo, quindici chilometri

da Medicina, un punto smarrito nella Bassa dove è nato

l’ultimo gigante rossoblù. Senza dubbio, Bulgarelli è il

personaggio illustre di cui qui tutti possono raccontare

qualcosa: un saluto, una chiacchierata, una conoscenza

profonda, addirittura un’amicizia. Sulla sua casa natale

da quest’anno è stata posta una targa, accanto c’è la

piazza che porta il suo nome. A pensarci, questa è una

terra fertile per il calcio: ci è nato e vissuto anche Youssef

Maleh, ventiseienne centrocampista dell’Empoli, che non

ha conosciuto l’Onorevole Giacomino ma ne parla con

profondo rispetto.

ARIA DI FESTA. Qui si entra in una dimensione diversa,

si respira un senso di comunione e solidarietà che spiega

tanto dell’attaccamento del campione alla sua terra.

Chi vive qui lo fa con orgoglio: quest’anno, Portonovo

partecipa al concorso “I luoghi del cuore” di FAI, il Fondo

per l’Ambiente Italiano. Difficilmente vincerà, ma c’è

da scommettere che di qui alla scadenza raccoglierà il

voto di tutti i suoi trecentocinquanta abitanti, e di tutti

quelli che arrivano per respirare il clima delle feste di

paese, che si susseguono in ogni stagione dell’anno,

perché questa è una comunità che ama sentirsi viva. In

cucina, quando le luci si accendono, è un trionfo di primi

piatti fatti in casa, dal tortellone alla tagliatella al ragù di

cipolla, e del “friggione”, che da queste parti è un piacere

del gusto di cui è difficile privarsi. Chi viene da Bologna

deve sobbarcarsi un’ottantina di chilometri tra andata e

ritorno, per assaggiarlo. Ma se lo fa, significa che ne vale

Il Bar trattoria dello zio e la casa di Giacomo Bulgarelli

la pena.

MONDO PICCOLO. Portonovo ha un cuore antico.

Fu fondata nel 1334, quando fu costruito il “Canale di

Trecenta”, il tratto navigabile di Buda che portava le

merci verso Ferrara e Modena. Un porto nuovo, appunto:

per questo la strada che arriva dentro al paese è una

sottile linea grigia: dalla San Vitale quattro chilometri

dritti verso Buda, una curva ad angolo retto verso destra,

qualche centinaio di metri, un’altra curva secca a sinistra

e di nuovo giù, altri cinque chilometri in linea retta che si

perdono nel nulla. “E’ impossibile non trovare la piazza

con il bar-trattoria”, dice sorridendo Romina Gurioli,

presidente dell’associazione Pro Portonovi’s. “Prima che

la strada faccia una leggera deviazione a sinistra e poi

prosegua verso il Sillaro, ci sbatti contro”. La grande casa

dove sorge il bar, con la trattoria ancora a pieno regime,

è quella in cui è nato Giacomo. L’esercizio era gestito

da suo zio, a fianco c’era il negozio di alimentari di

papà Leandro, nell’edificio accanto la latteria della zia.

Un mondo piccolo, guareschiano, da cui quel ragazzo

gracile che ci sapeva fare col pallone partì appena

dodicenne per andare a frequentare il collegio San Luigi

a Bologna. Senza mai perdere il legame con le radici.

Questo era davvero il porto nascosto, per lui. La pace e il

silenzio in cui immergersi dopo le mille sfide del calcio.

GIOIELLO. Sul sito del FAI il paese è presentato come

“borgo di Portonovo, città ideale del ‘700”, perché

l’abitato risale a un preciso progetto architettonico

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Portonovo

A sinistra, Giacomo ragazzo con amici

Sotto, Giacomo al bar con lo zio

della Comunità di Medicina, che a partire dal 1730

costituì qui il centro dell’azienda consortile, l’anima

della Partecipanza comunale. Sulla strada, tra edifici

settecenteschi, venendo da Bologna si nota sulla destra

la “casa degli agenti” con il “palazzetto” che era la sede

di rappresentanza e di soggiorno degli amministratori

comunali. A sinistra il complesso parrocchiale di Santa

Croce e San Michele Arcangelo, disegnato da Alfonso

Torreggiani, che conserva un apparato iconografico e

di arredo di grande interesse, tra cui spiccano la pala

dell’altare, raro dipinto di Ercole Lelli, del 1730, e le tele

del Seicento di Giovanni Battista Bolognini e Domenico

Viani.

TERRA FERTILE. C’è un altro dettaglio che rende unico

il paese. I terreni facevano parte della Partecipanza

di Medicina, ma dopo il dissesto economico del 1892

divennero proprietà di un certo cavalier Benelli, che

poi li cedette alla famiglia Tamba. Nel 1933 arrivarono

le Assicurazioni Generali di Trieste e acquistarono tutto:

terreni, case antiche e nuove, in un certo senso anche chi

ci viveva dentro, perché la mano d’opera per i lavori nelle

immense proprietà veniva scelta sul posto. Un ambiente

di operai della terra, in cui la famiglia Bulgarelli spiccava

per quello status di borghesia che può permettere una

attività commerciale ben avviata. Insomma, la famiglia

“stava bene”,

BANDIERA. Qui tutto è a due passi. Lo stadio, indicato

così anche da un cartello stradale in tutto e per tutto

simile a quelli dei grandi centri urbani, è a duecento metri

dalla piazza principale. Inaugurato nel 1976, ci gioca il

Portonovo, fin dalle origini nella categoria Amatori. Per

decenni la società è stata presieduta da Valeriano Brusa,

poi da Secondo Selva e oggi da Giuseppe Astorino.

L’impianto è un gioiello, ci vengono a giocare da tutto

il circondario e anche dalla Romagna. Il Primo Maggio

è ormai tradizione mettere in cartellone il torneo “O

la va o la spacca”, dedicato alle categorie giovanili.

Ci ha portato i suoi ragazzi anche il Bologna. Il nome

non è stato scelto a caso: da sempre, si chiama così la

formazione giovanile del Portonovo, proprio quella in cui

ha militato Bulgarelli prima di partire per Bologna. Ma

pochi sanno che il campione è tornato a indossare questa

maglia a fine carriera. Per due anni è stato regolarmente

tesserato tra gli amatori del Portonovo, e con lui c’era

anche Giuseppe Vavassori, portierone rossoblù degli anni

Settanta, prematuramente scomparso. Ma “Vava” qui

aveva fatto un patto: niente guanti da portiere, giocava

centrocampista. Su questo campo, Bulgarelli portava

anche gli amici delle amichevoli domenicali: Giorgio

Comaschi, Fio Zanotti, Andrea Mingardi, Jimmy Villotti,

e poi Colomba, Pecci, Massimelli. Erano i giorni in cui

Portonovo, la piccola Portonovo, si sentiva al centro del

mondo.

AL CINEMA! Dall’altra parte della strada, proprio di

fronte al bar trattoria, c’è un cinema che va verso il secolo

di vita. Fu costruito proprio quando le Generali presero

possesso del paese, nel 1933. Fu lì che in una sera di

ottobre del 1976 Sandro Ciotti venne a presentare in

prima assoluta “Il profeta del gol”, film su Johann Cruijff

di cui era regista. Lo portò Bulgarelli, naturalmente, e con

lui Pesaola, tanti giocatori e tanti giornalisti. Finì tutto con

la leggendaria “Rustida a Newport”, con Ciotti virtuoso

della fisarmonica, chili di pesce sulla griglia e fiumi di

buon vino della campagna.

Portonovo, insomma, è sempre stato un posto al centro

del mondo dove un tempo c’era tutto, il pallone, la

scuola, il cinema, i negozi. Eppure, anche un posto

lontano da tutto. Per questo, forse, Giacomino sentiva

sempre il bisogno di tornare.

Caseggiato Generali


La nostra STORIA

Ottant’anni fa la Linea Gotica divise in

due la Valle del Savena. Pianoro restò

nella terra di nessuno per un inverno

intero

Guerra e pace

nella Montecassino

del nord

Testi di Gianluigi Pagani

Livergnano nella Seconda guerra mondiale

Villa Morra a Montecalvo

bombardata durante la guerra

Durante la recente visita dell’Arcivescovo di Bologna

Matteo Zuppi alla Zona Pastorale di Pianoro, una parola

è risuonata più volte nei suoi discorsi, ripensando proprio

a questo territorio, definito la ‘Montecassino del nord’

distrutta per il 98% dalla guerra: “…giovani costruite la

Pace! Prendiamo i semi della pace nelle nostre mani e

seminiamoli nei cuori, perché siano carezze di quel bene

che, fatto, ricevuto e accolto, possa essere custodito

e fatto crescere, affinché possa portare tanto bene!”.

Nel 2024/2025 ricordiamo gli 80 anni del passaggio

della Linea Gotica nella Valle del Savena. Questi i

più importanti avvenimenti storici di quei mesi della

Seconda guerra mondiale. La 91° divisione americana,

protagonista dei combattimenti al Passo del Giogo, e dopo

aver oltrepassato il Passo della Raticosa, ha attaccato le

difese tedesche a Monghidoro all’alba del 1 ottobre 1944.

Dopo duri combattimenti, il giorno successivo, gli alleati

sono entrati nel paese passando dalla Crocetta, mentre i

tedeschi della 4° e della 362° divisione si sono ritirati nei

pressi di Loiano. Monzuno è stata liberata fra il 4 e il 5

ottobre 1944 dalle truppe della 34° divisione americana

Red Bull, anche se i primi militari alleati che arrivano

in paese sono stati i soldati della 6° divisione corazzata

sudafricana. Buona parte del territorio comunale è rimasto

in mano dei tedeschi fino alla primavera successiva,

come ad esempio Monterumici liberata soltanto il 18

aprile 1945 dai Diavoli Blu del 350° reggimento dell’88°

divisione americana. Il comune di Loiano è stato liberato

dagli uomini del 362° reggimento della 91° divisione

all’alba del 5 ottobre 1944, dopo un violento attacco dei

bombardieri e dell’artiglieria. Quando si visita il Museo

storico etnografico Linea Gotica di Bruscoli si legge che

molti dei materiali ivi contenuti sono stati lasciati dagli

alleati, che in quel luogo li gestivano i rifornimenti dalle

retrovie.

Purtroppo per noi, invece, da Pianoro in avanti c’è

sempre stato solo il fronte. L’avanzata degli Alleati si è

infatti fermata davanti a Livergnano (nella foto), frazione

del comune di Pianoro, incastonata anch’essa su uno

sperone roccioso del Contrafforte Pliocenico, con la

strada statale 65 costretta a passare in una strettoia. Dal

9 ottobre 1944, per tre giorni di seguito, aviazione e

artiglieria alleate hanno tempestato le postazioni tedesche

posizionate sullo sperone, finché il giorno 14 ottobre i

tedeschi hanno abbandonato Livergnano, attestandosi

più a nord su Belmonte, sopra Pianoro, dove, nei giorni

successivi, l’avanzata si è fermata per tutto l’inverno

1944/1945, fino alla primavera successiva. Livergnano

è stata espugnata il giorno 14, passando dalla Valle di

Zena, Bigallo, Casola e Bortignano. Gli alleati hanno

cercato di sfondare la Linea Gotica nella zona di Pianoro,

creando un cuneo, definito dagli alleati “Winter Line”

ossia “La Linea d’inverno” (lo stesso nome del museo

sulla Seconda guerra mondiale situato a Livergnano,

fondato da Umberto Magnani) e dai tedeschi la “Caesar

line”, per arrivare presto a Bologna, per poi conquistare

la Pianura Padana. Gli americani volevano arrivare presto

in Germania. Invece il primo ministro inglese Winston

Churchill voleva conquistare l’Europa centrale attraverso

Trieste ed il valico di Lubiana per salvare i paesi dell’Est

dall’altrettanto feroce dittatura comunista. Quante storie

ci sarebbero ancora da ricordare: la liberazione di San

Benedetto Val di Sambro il 4 ottobre; i sudafricani che

il 6 ottobre riescono a conquistare Monte Vigese e

Montovolo; gli americani che il 10 ottobre liberano

Monte delle Formiche, il 13 ottobre Monterenzio, e poi

il 16/19 ottobre combattono sopra Pianoro e conquistano

Zena, il Monte della Vigna e il Monte Fano; il sottotenente

pilota brasiliano John Richardson Cordeiro e Silva che

muore vicino a Livergnano, abbattuto con il suo aereo

42


4331

Pianoro

Natale 1943, militari USA del 361°

Reggimento in Italia

Natale 1944 nella zona di Monghidoro e Loiano

lungo la Statale 65 della Futa verso Bologna, il parroco

di Musiano don Cesare Guidi risale la stessa strada in

bicicletta, passando vicino ai carri armati USA, per

ritornare nella parrocchia a svolgere il proprio ministero

e a ricostruire un paese distrutto. Lo stesso don Cesare

che si era rifiutato di festeggiare il passaggio trionfante di

Hitler lungo la Direttissima mentre in treno raggiungeva

Mussolini a Roma, subendo angherie dai fascisti.

E quando gli alleati passano per Rastignano, a salutarli

davanti alla chiesa di San Pietro e Girolamo, crivellata

dai colpi di mitragliatrice dei tedeschi, trovano don

Giorgio Serra, che non ha mai abbandonato la propria

comunità, nascondendosi negli ultimi mesi del conflitto

nelle grotte della Croara, insieme alle sorelle e ad alcuni

parrocchiani. Proprio sulle colline sopra Rastignano vi

è l’Altare Materpacis (nella foto) in ricordo dei caduti

di tutte le guerre, vicino a Villa Morra (nella foto)

parzialmente distrutta dalla guerra. E poi don Giovanni

Sfondrini, novello parroco di Livergnano, che è rimasto

nel territorio, senza avere nulla da mangiare… se non

grossi topi (molto interessante il diario che ci ha lasciato

su quel periodo, dal titolo “Livergnano 1944/1945”). Tre

importanti sacerdoti, punti di riferimento della comunità.

In conclusione vi consiglio un volume per approfondire

questi avvenimenti, “North Apennines – The U.S. Army

Compaigns of World War II”, del Centro di Storia Militare

dell’esercito statunitense di Dwight D. Oland, con

prefazione di John W. Mountcastle, Brigadier General

USA, che è il resoconto quasi giornaliero di quel periodo

storico, con gli avvenimenti nell’Appennino settentrionale

dal 10 settembre 1944 al 4 aprile 1945.

Thunderbolti P47 dalla contraerea tedesca il 6 novembre

1944. A Livergnano possiamo ancora oggi ricordare tutti

questi avvenimenti, fermandoci davanti al monumento

ai caduti del 361° reggimento della 91° divisione che

strapparono ai tedeschi lo sperone roccioso (presente una

statua in bronzo, opera dello scultore Luigi Enzo Mattei),

e alla targa in memoria del pilota brasiliano (alcuni resti

del suo aereo sono ancora conservati presso il Museo

Winter Line, poco distante). A partire da fine ottobre le

forti piogge e la scarsità di mezzi costringono gli alleati

a sospendere le operazioni sulla Gotica per un mese,

e poi dal 13 novembre la radio trasmette il “Proclama

Alexander” dove il generale, comandante delle forze

alleate in Italia, rende pubblica la definitiva sospensione

delle operazioni. Per tutto l’inverno, uno dei più freddi

che la popolazione ricorda, il fronte rimane fermo,

anche sulle montagne sopra Pianoro. L’offensiva alleata

sulla Linea Gotica riprende solo nel febbraio 1945 con

la “Operazione Encore”, e con la grande offensiva di

primavera quando, ad aprile, tutto il fronte si è mosso,

prima nelle pianure della Romagna e poi fra le montagne

dell’Emilia, mentre in Europa i russi arrivano a Vienna

e gli angloamericani entrano in Germania. Il 21 aprile

Bologna, insorta e libera dai tedeschi, vede l’ingresso

dei polacchi dalla zona di San Lazzaro di Savena. È la

fine della guerra anche nella nostra vallata del Savena ed

il 2 maggio cessano le ostilità su tutto il fronte italiano.

Ed è bello ricordare che mentre gli alleati scendono


La macchina del tempo

Dal dente di elefante

scoperto alla Croara a

Luigi Fantini: personaggi,

luoghi e laboratori per

un giorno da archeologi

Bologna

nella preistoria

Testi e foto di Elena Boni

Il sistema dei Musei universitari offre un ampio catalogo di visite guidate e

laboratori per scuole e famiglie (a cura di Le Macchine Celibi). Tra queste,

VertebrArto, Dinosauri da racconto, I padroni della zanna, Paleopictionary

e l’edizione natalizia di Jurassic hunt. Info: www.sma.unibo.it

La preistoria a Bologna cominciò…

nell’Ottocento. Risalgono al XIX secolo,

infatti, le prime importanti scoperte

relative sia alla paleontologia sia

all’archeologia preistorica nel territorio

bolognese.

Nel 1834 sull’altopiano gessoso della

Croara, alle spalle di San Lazzaro,

alcuni contadini raccolsero un dente

di elefante; altri reperti simili furono

trovati negli anni successivi. Queste

scoperte diedero impulso agli scavi e

a ulteriori ricerche: Francesco Orsoni

esplorò la grotta del Farneto e vi trovò

moltissimi reperti lasciati da animali e

uomini preistorici, tanto da dedicare

alle ricerche tutta la sua vita e le sue

fortune. Nel 1871 Giovanni Capellini,

docente di geologia all’Università,

pubblicò la memoria “Armi e utensili

di pietra del Bolognese” in cui riportava

il rinvenimento, fra Monte Donato

e la Croara, di antichi manufatti

realizzati dall’uomo e di ossa di grandi

mammiferi estinti da millenni. Nel

corso dell’Ottocento nacquero o si

consolidarono anche i principali musei

cittadini, che tuttora costituiscono

il luogo privilegiato per studiare la

preistoria a Bologna e ammirarne i

reperti.

Il Novecento fu caratterizzato

soprattutto dalla figura di Luigi Fantini,

speleologo e archeologo autodidatta

che operò “sul campo” tra le valli

del Savena, dello Zena e dell’Idice,

compiendo importantissime scoperte

e regalando ai Bolognesi una quantità

impressionante di reperti. Tuttora le

campagne di scavo preistorico nella

zona appenninica sono compiute da

archeologi in collaborazione con i

gruppi speleologici attivi sul territorio,

mentre nella pianura a nord della Via

Emilia si svolgono campagne di scavo

con metodi archeologici più “classici”

che hanno portato a numerose scoperte

e anche alla nascita di piccoli musei

locali.

I MUSEI UNIVERSITARI

I nostri musei universitari sono fra

i più antichi e prestigiosi d’Italia.

Particolarmente famoso e amato è il

“Museo del dinosauro”: questo il nome

con cui affettuosamente i bambini

chiamano la Collezione di Geologia

Giovanni Capellini dove è conservato

il gigantesco scheletro di diplodoco

che affascina gli scolari bolognesi dal

1909. In tale anno, infatti, fu portata

in città la riproduzione dello scheletro

di dinosauro trovato negli Stati Uniti,

lunga 26 metri. La Collezione, che

fa parte del Sistema museale di

Ateneo (SMA), comprende anche

numerosissimi altri reperti e fossili di

animali e piante preistoriche, tra cui i

pesci fossili del Monte Bolca (VR). Si

trova in via Zamboni 63.

Rimanendo in ambito universitario

è imprescindibile visitare la grande

sede espositiva di Via Selmi 3. La

Collezione di Zoologia espone

moltissimi animali impagliati, scheletri,

ricostruzioni e materiali di studio

sia del presente, sia del passato: vi si

può seguire l’evoluzione delle specie

e ammirare animali oggi scomparsi,

come il dodo, ma anche rettili antichi

e altri “fossili viventi”, eredi biologici

degli animali preistorici. L’evoluzione

anatomica fa da padrona al piano

superiore dell’edificio nella Collezione

di Anatomia Comparata, una delle più

complete a livello internazionale. Qui

il visitatore può ammirare, e persino

toccare, il modo in cui gli animali e

gli uomini hanno modificato le proprie

caratteristiche: denti, ossa, postura… in

relazione alle esigenze di sopravvivenza.

Accanto ad essa si trova la meno

nota Collezione di Antropologia. Qui

l’attenzione si focalizza sugli uomini:

della nostra specie viene illustrata

l’origine, ma anche l’evoluzione

tecnologica, culturale e sociale a partire

dallo studio delle civiltà tradizionali. Per

il visitatore dell’era 3.0 è interessante

vedere come ancora pochi decenni fa

le spedizioni degli antropologi abbiano

potuto rinvenire usanze e tecnologie

“primitive” in remote parti del mondo,

oggi quasi completamente globalizzate.

IL MUSEO ARCHEOLOGICO

Al Comune di Bologna appartiene

invece il Museo Civico Archeologico

(via dell’Archiginnasio 2). Inaugurato

nel 1881, contiene antiche collezioni

universitarie e comunali e soprattutto

l’enorme quantità di rinvenimenti

archeologici venuti alla luce nel

territorio bolognese nel corso

dell’Ottocento e poi del Novecento.

La sezione preistorica copre un arco

cronologico dal paleolitico all’età

dei metalli, con fossili, resti animali,

manufatti dell’uomo, sepolture

preistoriche e così via. Particolarmente

44


4531

Bologna

curate le schede didattiche, le visite, le

pubblicazioni divulgative e la sezione

delle “Collezioni online”: pensate

per le scuole, offrono informazioni e

conoscenze preziose anche per tutti i

cittadini e per i curiosi di ogni età.

La preistoria fuori porta

L’altro sito imprescindibile per chi voglia

conoscere la preistoria bolognese è il

Museo della Preistoria a San Lazzaro

di Savena. Il museo è dedicato a Luigi

Donini, ricercatore sanlazzarese morto

a soli 24 anni nel tentativo di salvare

alcuni speleologi intrappolati in una

grotta. Le sale interne offrono una

vasta collezione di reperti rinvenuti

prevalentemente nelle vicine valli

appenniniche, ma anche ricostruzioni e

diorami utili a immaginare “dal vivo” le

creature e le situazioni di cui vediamo

i resti nelle teche. In questo museo

le ricerche storiche e archeologiche

dialogano con la conoscenza e l’amore

per il territorio: è infatti concepito

come un’esperienza immersiva nella

preistoria. L’edificio è circondato da un

piccolo parco archeologico in cui sono

riscostruiti a grandezza naturale alcuni

animali preistorici, come una tigre dai

denti a sciabola e il grande mammut.

Vale davvero la pena entrare nel parco,

magari dopo una nevicata, per vivere

l’atmosfera del cartone “L’Era Glaciale”

e scattare una foto con Manny e Diego,

o per partecipare ai divertenti laboratori

per scuole e famiglie. Per chi volesse

approfondire, una ricca sezione di

schede storico/didattiche è scaricabile

gratuitamente dal sito: https://www.

museodellapreistoria.it/pillole.html

Diversi Comuni della provincia

bolognese hanno istituito musei piccoli

o grandi per illustrare la storia del proprio

È tornata al parco della Resistenza di

San Lazzaro la spettacolare mostra

“Dinosauri in Carne e Ossa” che

propone 38 modelli di diversi animali

preistorici a grandezza naturale. La visita

costituisce per adulti e bambini un felice

completamento dei percorsi espositivi e

didattici del museo Donini.

INFO: www.dinosauricarneossa.it

territorio, e molti di questi cominciano

proprio dalla preistoria. Li elenchiamo

brevemente, anche se meriterebbero più

spazio: il Museo Civico Archeologico e

Paleoambientale “E. Silvestri” di Budrio,

la sezione archeologica del Museo

civico e Pinacoteca “A. Borgonzoni” di

Medicina, il Museo Civico Archeologico

“A. Crespellani” di Bazzano, la “Sala

della terra” e la “Sala delle origini” al

Centro di Cultura “Paolo Guidotti” di

Castiglion de’ Pepoli.

ARTE PREISTORICA in giro per la città

Passeggiando ai Giardini Margherita è possibile imbattersi in uno strano monolite

nero che ricorda un manufatto preistorico. Si tratta della scultura “Madre” dell’artista

Guy Lydster, di origine neozelandese ma da tempo residente a Bologna. È stata

installata nel 2018 e da allora attira la curiosità di bambini e adulti soprattutto per i

graffiti dal sapore preistorico.

Alle pitture rupestri della preistoria si rifà esplicitamente il pittore bolognese Andrea

Benetti con le collezioni Omaggio alla pittura rupestre, Opere con pigmenti del

paloeolitico o Disegni neorupestri. Per ammirare le collezioni prodotte da questo

Primitivo nel terzo millennio si può visitare il sito: www.andreabenetti.com

Infine per cimentarsi direttamente con l’arte preistorica i più giovani possono seguire

i laboratori ad essa dedicati, rispettivamente, presso i Musei Universitari (Pitture

rupestri e Dipingiamo la preistoria) e il Museo Donini di S. Lazzaro (Una scultura

bestiale, Ombre e figure sulle grotte, Dipingiamo gli animali, Esperimenti con l’argilla,

Paleoartisti).


Sei in buone

MANI.

Vogliamo accompagnarti

in ogni tuo progetto.

Affianchiamo le persone nelle loro scelte offrendo

prodotti e servizi capaci di rispondere in modo corretto

e trasparente alle esigenze in continua evoluzione.

IL CUORE NEL TERRITORIO


ALLE ORIGINI DEL VINO

La storia

dei vitigni

dei Colli Bolognesi

Metodo Classico, Charmat e Ancestrale

trovano nuove dimore sui dolci

pendii felsinei

bollicine

alla bolognese

Testo di Alessio Atti

Sulle nostre colline, è da qualche decennio, non molti in

realtà, che si producono vini di sempre più alta qualità, grazie

alla rinnovata consapevolezza dei nostri vignaioli e di tecniche

di vinificazione sempre più all’avanguardia. Oramai il ricordo

dei vini approssimativi del territorio bolognese è sempre più

lontano anche se, una vena di nostalgia, resta sempre.

Restano le idee di genuinità, di sapere antico e le attuali

tendenze ripercorrono queste considerazioni raccogliendole

in nuove filosofie produttive, proponendo vini possibilmente

meno artefatti.

Stanno ritrovando spazio vitigni ormai quasi scomparsi e

alcuni attenti vigneron danno loro la possibilità di riproporsi,

mostrando quello che valgono.

Storicamente, sulle nostre tavole, il vino frizzante era

sicuramente il benvenuto, che sia stato voluto o meno, la gente

felsinea ha dimestichezza con le bolle, quasi fossero parte

del proprio DNA. Sempre un tantino grossolane ma sempre

apprezzate.

Di certo, la tecnologia in cantina, ha raggiunto qualche tempo

fa anche i nostri Colli, spingendo i produttori a prendere in

considerazione l’imbottigliamento di pregiate bottiglie di

bollicine più fini, più eleganti.

Sfruttando qualità di vite adatta ad una corretta

spumantizzazione come i nostri Trebbiano, Pignoletto e

Barbera, con il forestiero Chardonnay si è raggiunta l’intesa

enoica per tale produzione.

Metodo Classico, Charmat e Ancestrale trovano nuove dimore

sui dolci pendii felsinei. Con il Metodo Classico, stessa tecnica

di produzione dello Champagne, per intenderci, possiamo

individuare vini che sostano sui lieviti diversi anni, anche più

di 5, regalandoci bollicine finissime, cremose e persistenti,

con sentori complessi ed eleganti, rappresentano il fiore

all’occhiello della spumantizzazione bolognese. Da stappare

non solo per le feste o le ricorrenze, i Metodi Classici dei Colli

Bolognesi si accostano egregiamente a molti piatti tradizionali.

Il più grande numero di bottiglie di spumante dei nostri Colli

viene prodotto con il Metodo Charmat, stessa tecnica della

produzione del celebre Prosecco, donandoci vini pronti e

giovani per aperitivi e tutto pasto. Si producono così anche i

famosi Pignoletto o Barbera Frizzante che riempiono i nostri

calici e prendono posto da tempo immemore sulle tovaglie di

ogni bolognese.

Con il Metodo Ancestrale si è riaperta sul vino petroniano

una nuova via che ha comunque radici antiche, i famosi

“rifermentati in bottiglia” stanno mietendo numerosi

riconoscimenti e si posizionano come vino da aperitivo,

fresco e gagliardo, pronto ad essere abbinato a taglieri di

ottimi salumi, formaggi freschi ma anche ad alcuni nostri

grandi piatti.

Da gustare limpidi o, agitando lievemente la bottiglia con

i lieviti in sospensione, ci regalano sensazioni piacevoli ed

intriganti, bollicine vispe e fini accarezzeranno il palato

rimandando la mente a sapori dimenticati.

Le caratteristiche dei nostri terreni, il clima e la qualità delle

uve creano enormi potenzialità per l’ulteriore innalzamento

della qualità di queste produzioni, particolari e mai fuori

moda.

Del resto i vini spumanti rappresentano sempre il culmine

di un momento festoso, celebrativo, anche solenne. Sovente

si vanno a ricercare bolle lontane o straniere, ricche di

blasone, di bella critica e paillettes ma basta guardare dietro

l’angolo, appena qui, sui nostri Colli Bolognesi, per scovare

ragguardevoli bottiglie, eccellenti bollicine che di certo

sorprenderanno e sapranno accontentare i palati più raffinati.

A proposito, attenzione ad un antico vitigno felsineo che

qualche eroico vignaiolo sta recuperando e sta proponendo in

versione spumantizzata. Sia in purezza che in assemblaggio

con altre qualità di vite, poniamo il nostro calice a raccogliere

l’Alionza.

Una scommessa che pare affascinare il mondo enoico della

città turrita. Cin!

47


QUESTO LO FACCIO IO

Azioni e comportamenti

per la tutela

della biodiversità

a cura di Andrea Morisi

(Sustenia srl)

Un modo differente di tagliare

l’erba per aiutare piante, insetti

e animali

Prato a Daucus carota,

Cichorium intybus e Amaranthus

IL PRATO BIODIVERSO

Eccoci qua per un’altra azione molto

concreta e facilmente praticabile da chi

intenda fare la propria parte per dare

una mano alla biodiversità, l’insieme

di animali, vegetali, funghi e tutti gli

organismi che popolano gli stessi

luoghi in cui viviamo noi. O, meglio,

li popolerebbero, fornendoci grandi

vantaggi e grande bellezza al mondo che

ci circonda, se non li avessimo sino ad

ora allontanati, avvelenati, estinti.

Nelle puntate precedenti abbiamo

visto cinque diversi modi per ricreare

nicchie ecologiche e habitat nel nostro

giardino o tra i nostri campi, una sesta

via è rappresentata dalla creazione

dell’ecosistema prativo.

UN AMBIENTE PARTICOLARE

Parlando della pianura, i prati, alle

nostre latitudini, con i nostri suoli e con

le nostre condizioni climatiche, non

costituiscono, di regola, degli ecosistemi

naturali ovvero che si generano e si

mantengono spontaneamente. Salvo rare

e particolari eccezioni, l’origine delle

aree a prato e la loro conservazione

nel tempo sono collegate alle attività

umane: i prati esistono là dove viene

mantenuta tagliata la vegetazione

erbacea presente, che sia per fare fieno,

per fare pascolare animali domestici

oppure per altri scopi decisamente di

tipo artificiale, come aree prative per

finalità estetiche o per rendere possibile

l’ispezione (in corrispondenza di argini,

di manufatti, ecc.).

In condizioni naturali un’area prativa,

magari originatasi perché un bosco è

bruciato completamente oppure un

fiume è esondato ricoprendo di limo

il suolo, non rimane stabile a lungo.

Il pascolo di animali può rallentare la

comparsa di arbusti e poi di alberi, ma il

prato in natura è destinato ad evolversi,

nel tempo, necessariamente a bosco.

Nel nostro caso nel bosco a latifoglie

dominato dalla quercia farnia. Quindi

la maggior parte dei prati che potete

vedere esistono e rimangono perché

l’essere umano taglia periodicamente

l’erba.

Barra falciante per uso domestico

PER FARE UN PRATO

Oggi l’azione di taglio di un prato si

concretizza, di norma, nella trinciatura

dell’erba. Di solito con un trituratore

meccanico o con il rasaerba domestico,

ma in ogni caso significa che la porzione

aerea delle erbe viene sminuzzata da lame

rotanti o da martelletti che ne frantumano

completamente i fusti che rimangono sul

posto in forma di pacciame. Nel caso

dei trituratori meccanici, l’attrezzo può

tranquillamente toccare anche il terreno

senza danneggiarsi, per cui il prato

viene effettivamente rasato alla base.

La triturazione costituisce un’azione

di significativo impatto sulla comunità

del prato. Le erbe vengono ovviamente

tagliate e si ottiene in poco tempo una

netta selezione in quanto quelle che

sopravvivono sono le specie che non

solo sopportano il taglio, ma che sono in

grado di ricacciare rapidamente le foglie

e fiorire in tempi ridotti (per esempio le

margherite pratoline oppure i trifogli o i

denti di leone) oppure che si riproducono

per via vegetativa, cioè non tramite i fiori

e i semi (per esempio la gramigna). Chi

ha la peggio (e scompare rapidamente)

sono le erbe che invece hanno bisogno

di tempo per produrre uno stelo alto che

porti i fiori e poi i semi. Inoltre anche il

continuo apporto di sostanza organica

nel terreno, derivante dall’erba trinciata,

seleziona le specie erbacee presenti,

favorendo quelle più nitrofile e amanti

di terreni ricchi di nutrienti. Un prato,

un parco, un argine frequentemente

triturato non si evolve dunque secondo

la successione ecologica che la natura

riserverebbe alle aree prative, cioè prima

arbusteti e poi bosco.

48


Ambiente e territorio

Cardo dei lanaioli

(Dipsacus fullonum)

con semi

E LA BIODIVERSITÀ?

I risultati per la biodiversità sono

facilmente riscontrabili in modo diffuso:

tutti i prati, di solito, si assomigliano come

composizione floristica, abbondando

di specie diffuse e banali. E anche gli

animali subiscono un impatto diretto in

quanto la triturazione non dà scampo

a qualsiasi organismo entri nel raggio

d’azione del rasaerba o del trincia, che

si tratti di un bruco di farfalla, di una

cavalletta, di un ragno, di una mantide

religiosa, di una chiocciola, di un

bombo intento a succhiare il nettare, ma

anche di un ramarro, di una lucertola

che non si riesca ad allontanare in

modo sufficientemente veloce. Più la

trinciatura è frequente e viene condotta

velocemente, maggiori sono gli effetti

negativi sulla biodiversità del prato.

Come possono salvarsi le specie di

uccelli che nidificano al suolo? E, infatti,

dove sono finite le quaglie, le allodole,

i saltimpalo, le cutrettole, le pispole e le

altre specie di uccelli che, prima della

diffusione della triturazione meccanica

dell’erba, popolavano le aree coltivate?

alta rispetto al suolo, lasciando una

possibilità di scampo. L’esecuzione

del taglio avviene dunque avanti

nella stagione consentendo spesso la

riproduzione di molti animali. La stessa

barra falciante può poi essere provvista

di cosiddetti dispostivi d’involo

(anche semplicemente delle catene

pencolanti) posizionati davanti, in

modo da allertare in anticipo eventuali

animali presenti e farli allontanare o

involare per tempo. Dato poi che il

fieno viene raccolto e allontanato, non

si verifica l’arricchimento continuo del

prato in sostanza organica e risultano

così più competitive le piante erbacee

più adatte a terreni meno ricchi, come

per esempio le orchidee.

UN PRATO PER LA BIODIVERSITÀ

Abbiamo dunque capito che dietro

ad un prato denso di fioriture gialle di

tarassaco o bianco di pratoline possono

esserci problemi per la conservazione

della biodiversità e che ciò che fa la

differenza, sia per le piante, sia per

gli animali, sono le modalità con cui

tagliamo l’erba (triturazione vs. sfalcio),

la raccolta e allontanamento dell’erba

tagliata, la velocità con cui viene

eseguito il taglio e le accortezze che

possono essere prese (attenzione al

periodo di taglio, posizionamento di

catene di involo, andamento centrifugo

e non centripeto del taglio per lasciare

via di fuga agli organismi). Quindi un

prato biodiversificato, con fioriture per

gli impollinatori distribuite nell’arco

della stagione, erbe nutrici dei bruchi

e nettarifere per le farfalle, semi che

rimangono sul fusto a disposizione

degli uccelli granivori in inverno

(anche i cardellini e i passeri stanno

scomparendo), varietà di specie

erbacee (tra cui le meravigliose

orchidee, ma anche i cardi, le carote

selvatiche, le piante bienni), lo si ottiene

regolando proprio il modo con cui lo

gestiamo. Quindi molto può dipendere

da noi. L’erba alta viene spesso

collegata all’abbandono di un luogo, al

“disordine”, alla produzione di zanzare.

I canoni dell’estetica e della bellezza,

come sappiamo, sono molto personali,

ma se anche si preferisse il cosiddetto (e

anonimo!) “prato all’inglese”, un angolo

lasciato allo sviluppo spontaneo del

prato ci regalerebbe sorprese continue

fatte di fiori, colori stagionali, animali di

tantissime specie diverse. E, a proposito,

le zanzare nascono nell’acqua, non

nell’erba…

Per dire che “anche quest’azione per

favorire la biodiversità l’ho fatta io!”

basta poco: diminuiamo i tagli del

prato, lasciamo fiorire e fruttificare

le erbe, usiamo la barra falciante

invece del trituratore, tagliamo l’erba

in modo diversificato, lasciando aree

che tagliamo solo una volta all’anno

(o anche una volta ogni due anni,

per fare sopravvivere anche le piante

bienni, come i bellissimi verbaschi,

per esempio). Se, poi, volete divertirvi,

provate a gestire un’area a prato in

condizioni diverse: in pieno sole o

all’ombra oppure in una zona secca o

più umida: le erbe, i fiori, gli animali

cambieranno e ancora una volta la

natura vi stupirà.

Per fortuna sempre più frequentemente,

anche per risparmiare un po’ i

costi della manutenzione, stanno

aumentando le aree pubbliche e private

in cui si diminuisce l’intensità del

taglio e vengono lasciate parti per la

biodiversità. Spesso anche con la gioia

delle nostre orecchie che non sentono

il rombare di trattorini e rasaerba e del

non dover annusare la puzza dei loro

scarichi anziché il profumo dei fiori del

prato.

L’ALTERNATIVA DELLO SFALCIO

Diverso è il discorso che riguarda lo

sfalcio dell’erba, come quello che

avviene nei prati per la produzione del

fieno. In questo caso il taglio avviene

quando l’erba è già alta (e magari è

già risuscita a fiorire e fruttificare) e

l’impatto diretto con gli organismi

animali è costituito dalla sola linea

rappresentata dalla lama della barra

falciante, riducendo moltissimo le

uccisioni di insetti, artropodi e altra

fauna, anche perché, necessariamente,

la barra falciante deve essere tenuta

Fiore di Dipsacus fullonum visitato da un bombo

49


FOTONATURALISMO

La tredicesima puntata

di un piccolo corso

sui segreti

del fotografo

naturalista

WildWatching

Macro:

Una foto ottenuta col flash integrato della fotocamera non

perfettamente bilanciato che la rende molto artificiale.

le tecniche sul campo

Testi e foto di Paolo Taranto

Negli articoli precedenti abbiamo

già visto le attrezzature utilizzate

per documentare piccoli soggetti,

tecnica detta fotografia macro (o

macrofotografia o fotografia closeup).

In queste pagine vedremo come

usare queste attrezzature al meglio per

ottenere foto di buona qualità.

Impostazioni

Il problema principale nella fotografia

macro è la profondità di campo,

detta PDC per comodità; questa

diminuisce al diminuire della distanza

di messa a fuoco e avendo a che fare

con soggetti piccoli da fotografare a

distanza ravvicinata la PDC si abbassa

notevolmente, quindi nelle foto macro

molto spesso solo una parte del soggetto

è a fuoco mentre il resto risulta fuori

fuoco, il che le rende poco gradevoli.

Come si risolve il problema della

profondità di campo?

Innanzitutto si lavora con le

impostazioni di scatto; per aumentare

la profondità di campo si opera sul

diaframma, chiudendolo (numeri più

alti); generalmente si opera tra F9 ed F11

(in funzione della qualità dell’obiettivo

che si usa si può arrivare anche ad

F16), chiuderlo di più porterebbe alla

“diffrazione” un effetto ottico che

rovina la qualità delle foto. Chiudendo

il diaframma però l’immagine diventerà

più buia, considerando anche il fatto

che spesso si opera all’alba con poca

luce, dunque bisognerà operare sugli

altri parametri per avere una corretta

esposizione: iso e tempo di esposizione.

Anche con gli iso però non bisogna

esagerare, aumentarli troppo può

rovinare la foto, bisogna dunque fermarsi

su un valore intermedio che consenta di

guadagnare luce senza creare disturbo

digitale che rovinerebbe la foto; nelle

moderne fotocamere reflex o mirrorless,

soprattutto se full-frame, la tenuta agli

iso alti è aumentata molto e ciò facilita

le cose sicuramente ma nel resto delle

altre fotocamere è bene tenere gli iso a

valori quanto più bassi possibile.

L’altro parametro su cui poter operare

per guadagnare luce senza rovinare

Fig 1: una fotografia macro “classica”

con il primo piano di un piccolo

soggetto (una farfalla della famiglia

Licenidi); si può notare che non

tutte le parti del corpo sono a fuoco

a causa della ridotta profondità di

campo (foto scattata a 100 mm e F

4.0, tempo di scatto 1/100).

Fig 2: lo stesso soggetto della foto

precedente questa volta fotografato a F

11; la chiusura maggiore del diaframma

aumenta la profondità di campo infatti ora

a parte un’antenna tutto il resto del corpo

del soggetto è a fuoco anche se il tempo di

scatto è diminuito molto (100 mm, F 11,

tempo di scatto 1/50)

Fig 3: una maggiore chiusura

del diaframma (F 16) rende

lo sfondo meno sfuocato

e dunque meno piacevole.

Per ottenere un buono

sfuocato con diaframmi chiusi

bisognerà allontanarsi ancora

di più dallo sfondo.

50


WildWatching

In questa foto invece il flash è stato gestito in modo più corretto bilanciandolo

meglio così da renderlo meno invasivo e più integrato con la luce naturale del

tramonto, la foto risulta più piacevole.

la qualità dell’immagine è il tempo di

esposizione che andrà allungato; il lato

negativo di questo parametro è che si

arriva spesso a tempi di esposizione

piuttosto lunghi (ad es da 1/20 a 1’’

o anche più) e ciò può provocare

problemi di mosso e micromosso; per

questo è fondamentale operare tenendo

la fotocamera su un cavalletto ben

stabile; il micromosso viene provocato

dalla più piccola vibrazione ad esempio

camminare vicino al treppiedi, un

filo di vento o anche solo la pressione

che si esercita sul pulsante di scatto;

un buon trucco per evitare questi

problemi è quello di scattare con un

comando remoto (telecomando con

cavo o wireless o sfruttando il wifi della

fotocamera con l’apposita app); se non

si dispone di questi sistemi è possibile

scattare con il timer impostato a 5 o 10

secondi in questo modo la fotocamera

si stabilizzerà prima dello scatto vero e

proprio.

Purtroppo le vibrazioni causate dal

vento invece sono le più difficili da

risolvere: ci si può posizionare in un

punto più coperto e meno esposto al

vento e in alcuni casi si possono usare

pannelli riflettenti o diffusori o altri tipi

di materiale (basta anche del normale

cartone) per “proteggere” il soggetto dal

vento.

Lo sfondo

Per ottenere uno sfondo perfettamente

sfuocato in modo uniforme è necessario

che esso sia posto ad una certa distanza

in funzione del diaframma utilizzato;

con diaframmi aperti (F 2.8 o F 4) già

uno sfondo a qualche metro di distanza

può risultare perfettamente sfuocato ma

se si chiude il diaframma per ottenere

maggiore PDC a questa distanza la

sfuocatura non sarà perfetta; l’unico

modo per risolvere questo problema,

quando si usa un diaframma più chiuso,

è quello di posizionarsi in modo tale da

avere uno sfondo ancora più distante.

Il parallelismo

Molto spesso però questa chiusura del

diaframma non è ancora sufficiente

a risolvere il problema. Per questo il

parallelismo della fotocamera rispetto al

soggetto è molto importante; in tal modo

si riesce ad avere a fuoco ogni parte del

soggetto a volte anche senza bisogno

di chiudere troppo il diaframma.

Fotografare una farfalla poggiata su

un fiore posizionando la fotocamera

perfettamente parallela alla superficie

delle sue ali consente di avere tutto il

soggetto a fuoco anche con diaframmi

non troppo chiusi.

Quando la profondità di campo non

basta

Nonostante questi accorgimenti non

sempre è possibile avere tutto il soggetto

a fuoco, in questi casi si può operare in

due modi: scattare più foto con diversa

messa a fuoco e fonderle successivamente

in post produzione (Focus-stacking) per

ottenere una foto con tutto il soggetto

a fuoco; questa tecnica può essere

applicata anche direttamente con una

funzione interna delle fotocamere più

moderne, ci penserà il software della

fotocamera stessa a scattare le diverse

foto cambiando il fuoco.

Oppure scegliere un punto principale

da mettere a fuoco, solitamente la

testa o gli occhi, lasciando le altre parti

leggermente fuori fuoco.

Esposizione

Generalmente si usa la fotocamera in

Av (priorità di apertura) eseguendo

degli scatti di controllo per verificare

che l’esposizione calcolata dalla

fotocamera sia corretta, in caso

negativo si interviene con la rotellina

di compensazione dell’esposizione per

correggerla. Negli scatti macro molto

spesso è comunque utile sovraesporre

leggermente le foto, rendendole più

luminose, questo ne aumenta molto

la piacevolezza e l’estetica ma è utile

anche per ridurre il disturbo provocato

da iso alti.

La luce artificiale

Se si vogliono eliminare i problemi

dei tempi lenti discussi nel paragrafo

precedente ci si può far aiutare da fonti

di luce artificiale come flash o led a

luce continua; in questo caso la luce

aggiuntiva da essi forniti consentirà di

abbreviare i tempi di scatto eliminando

i problemi di mosso e micromosso e

consentendo addirittura di scattare

anche a mano libera senza il treppiedi.

Unico aspetto negativo della luce

artificiale è che molto spesso questa si

nota molto e rende le foto stesse molto

“artificiali”; per ottenere buoni scatti

il fotografo deve dunque imparare

a rendere meno invasiva possibile

l’illuminazione artificiale mescolandola

con la luce naturale.

Tecnica sul campo

Dove

Un aspetto molto interessante della

fotografia macro è che può essere

praticata ovunque, non solo andando

in giro per natura nei campi o nei

boschi ma anche in un parco urbano,

nel proprio giardino o persino in un

semplice vaso di fiori sul balcone;

basta infatti letteralmente un piccolo

“fazzoletto” di terreno per dare origine

a interi ecosistemi abitati da minuscoli

esseri viventi, vegetali e animali.

Dunque tutti gli ambienti sono adatti

alla fotografia macro, in ciascuno si

troveranno specie comuni a tutti gli

ambienti ma anche specie specifiche di

ciascun ambiente e questo vale sia per i

vegetali che per gli animali. Il bosco o i

campi incolti sono esempi dei principali

ambienti dove si pratica la fotografia

macro, vista la grande abbondanza di

soggetti in essi presenti.

Quando

I periodi in cui poter praticare la

51


FOTONATURALISMO

macrofotografia sono invece più

limitati; soprattutto per quanto riguarda

gli insetti e gli invertebrati in generale le

stagioni migliori sono quelle più o meno

calde dunque la primavera, l’estate e

l’autunno. La stagione invernale invece

presenta più difficoltà in quanto è

difficile, alle nostre latitudini, trovare

abbondanza di insetti in questa stagione;

dunque il fotografo appassionato

di macro può prendersi una pausa

oppure può cercare di lavorare con la

propria fantasia e scoprire altri soggetti

del micromondo che possono essere

fotografati ad esempio:

-Dettagli del ghiaccio, neve, brina

-Funghi

-Muschi, licheni

-Fioriture invernali (di solito si hanno

verso la fine dell’inverno)

-Invertebrati invernali: chiocciole,

lumache, insetti casalinghi

Orari

Nella fotografia l’orario è molto

importante perché solo in certe ore del

giorno si può avere una buona luce

naturale se non si vogliono usare luci

artificiali. Le ore migliori sono quelle

in cui il sole è basso, ad esempio l’alba

e il tramonto, quando è invece alto si

creerà una luce “dura” che genererà

foto eccessivamente contrastate e piene

di ombre. Anche la temperatura della

luce può essere importante, negli orari

migliori come l’alba e il tramonto si

ha una luce “calda” molto adatta alla

fotografia.

In fotografia naturalistica però gli orari

in cui si opera dipendono anche dalle

abitudini dei soggetti che si vogliono

fotografare, questi possono essere

infatti più o meno attivi in determinate

ore del giorno. Gli insetti in generale

sono soggetti spesso ostici in quanto

raramente si lasciano avvicinare

permettendo di comporre la foto con

calma e usando il treppiedi, per questo il

principale segreto della fotografia macro

è quello di uscire in cerca dei soggetti al

mattino presto, si parte quando è ancora

buio per arrivare sul campo nelle prime

ore di luce, in questi orari, a parte le

caldissime giornate estive, all’alba fa

ancora freddo, il che costringe gli insetti

a rimanere dormienti fin quando il sole

non riscalderà l’ambiente e solo in quel

momento potranno risvegliarsi e iniziare

le attività giornaliere. Farfalle, Libellule,

Ditteri che generalmente durante il

giorno sono sempre molto attivi, nelle

prime ore del mattino possono essere

quindi trovati praticamente immobili

e a volte coperti da rugiada; in questa

situazione è facile applicare le tecniche

precedentemente descritte per ottenere

delle fotografie macro perfette e

dettagliate anche con l’uso di tempi lenti

e cavalletto.

Tipi di macro

Durante il giorno è comunque possibile

fare foto macro in altri modi:

Macro d’azione: si cerca di fotografare

gli insetti in volo. In questo caso

bisogna trovare dei punti ben precisi

come ad esempio dei fiori che attirano

gli insetti o dei posatoi (tipici delle

libellule); si inquadra il posatoio

lasciando spazio nella zona in cui

solitamente arriva l’insetto in volo, si

chiude il diaframma e si usano tempi

veloci, il che costringerà a spingere

molto gli iso, e si scatta a raffica ogni

volta che si vede arrivare l’insetto in

volo.

Macro creativa: proprio perché gli

insetti sono molto attivi e spesso non

vi lasciano avvicinare a distanze

sufficienti per scattare un ritratto

tipico della macro classica né vi

lasciano la possibilità di usare tempi

lenti, diaframmi chiusi e comporre

adeguatamente l’inquadratura, è

possibile fare delle foto mantenendo

una distanza maggiore, quindi con

l’insetto che occupa solo una piccola

parte del fotogramma e lavorando

più sugli sfondi, cercando situazioni

che possano creare sfondi colorati e

variegati o con sfocatura “immersiva”

anteriore e posteriore (soprattutto

con diaframmi molto aperti) e spesso

sfruttando il controluce e la luce del

tramonto/alba.

Soggetti fermi: tra i soggetti della

macrofotografia vi sono anche i

vegetali (ad es fioriture e funghi) che

non presentano problemi dal punto di

vista della mobilità; ma vi sono anche

invertebrati non iper-attivi durante il

giorno, tante specie sono relativamente

“calme” e dunque facilmente

fotografabili, ne sono un esempio i

coleotteri, le mantidi, i ragni.

Inquadratura e composizione

Abbiamo già detto di quanto sia

importante il parallelismo, questa

regola va sempre rispettata. Per il resto

All’alba è facile trovare i soggetti

ricoperti dalla rugiada.

Un tipico esempio di foto macro

d’azione, le libellule sono soggetti

estremamente attivi e quasi

sempre in volo durante il giorno.

Un esempio di foto creativa

in controluce e con diaframma

aperto a F 2.8

Argiope bruennichi, il comune

ragno vespa, uno dei soggetti

che possono essere fotografati

anche in pieno giorno

52


WildWatching

La regola dei terzi. Si pone il soggetto su un terzo a

sinistra o a destra dell’immagine, soprattutto se il soggetto

guarda verso un lato sul quale si lascerà più spazio.

le regole di composizione

sono uguali a quelle

applicate nelle altre

tecniche fotografiche: è

utile per esempio sfruttare

la regola dei terzi così

come porre attenzione

a non tagliare parti del

soggetto (ali, antenne

etc). A volte è anche

utile sfruttare le diagonali

soprattutto nella fotografia

macro creativa dove il

soggetto è piccolo rispetto

al fotogramma.

CALENDARIO NATURALISTICO 2025

53


STILI DI VITA

PER UN MONDO

PIÙ SANO

A cura di

Bio&Sostenibile

46

Contro chi nega che sia ancora

possibile fare qualcosa per

affrontare i cambiamenti climatici

Agire e pensare positivo,

per vincere l’ecoansia

Testo di Silvano Ventura - silvano.ventura@gmail.com

Il nostro Pianeta, sta cambiando

rapidamente.

L’umanità, sembra accorgersene

poco, se non quando è travolta

da cataclismi, ma agire e pensare

positivamente, è l’unica realistica

opzione che abbiamo per dare a

tutti un futuro. Rassegnarci che il

mondo stia andando a rotoli, è un

modo ormai molto diffuso, di tirare

a campare e vivere alla giornata.

Questo modo di pensare e di

non agire, mi sembra si stia

rapidamente diffondendo anche

tra noi ambientalisti, transizionisti,

consumatori consapevoli, persone

attente e sensibili, ecc...

Potrà sembrarvi un po’ forte, ma

credo che questo atteggiamento

rassegnato, oltre a essere utile

ai negazionisti del clima e ai

politici superficiali e ignoranti,

contribuisca negativamente al

nostro futuro collettivo.

Intendiamoci, ci sono molti

validi motivi per essere stanchi,

rassegnati e arrabbiati.

Dopo la pausa dovuta al covid,

e a seguito delle conseguenze di

una guerra voluta in Europa da

chi gestisce e specula sull’energia

(fiancheggiatori e fomentatori di

entrambe le parti in guerra), in

tutto il mondo è ripartita la corsa

all’uso dei combustibili fossili.

Rispolverando anche il peggiore

di tutti: il carbone. Cina, India, e

molti altri paesi in via di sviluppo,

hanno guidato la nuova corsa al

carbone, per sostenere le proprie

arrembanti economie.

Ma di certo le economie forti,

non vogliono perdere posizioni

in questa assurda guerra delle

risorse e così il Fondo Monetario

Internazionale ha calcolato che

i combustibili fossili nel 2022

hanno ricevuto sussidi complessivi

per 71mila miliardi di dollari

pari a 13 milioni al minuto. Tutto

questo nonostante le promesse

di abbattere le emissioni che

producono gas serra e di favorire

le energie rinnovabili.

Ora il vero rischio riguarda

l’impatto psicologico che le notizie

sugli eventi estremi, conseguenti

al cambiamento climatico, unite

alle notizie di un mondo fatto di

uomini e nazioni, costantemente

in guerra o in competizione e

per nulla disposti a collaborare

per affrontare e risolvere le sfide

che il cambiamento climatico ci

pone, si traduca in una rinuncia

a impegnarsi, in un richiudersi

in se stessi e nel proprio piccolo

mondo, vivendo alla giornata,

perché tanto non c’è più niente da

fare, lasciando che tutto il resto del

mondo vada a rotoli.

Una nuova forma di depressione:

l’ecoansia.

Un negazionismo che non nega la

crisi climatica e le sue cause, ma

nega che sia ancora possibile fare

qualcosa per affrontarla.

La buona notizia è che la

transizione energetica è in atto!

Gli investimenti per attivare

fonti energetiche non inquinanti

rinnovabili sono in costante

aumento in tutto il mondo. Le

emissioni sono ancora in aumento,

ma tutti possiamo adottare

comportamenti sempre più

efficienti e consumi sempre più

attenti e sostenibili.

Dobbiamo essere consapevoli,

che ridurre i nostri consumi,

oltre ad essere un modello di vita

più leggero e virtuoso, significa

essere più felici liberandoci dalla

schiavitù dell’iperconsumo e dello

spreco.

Non si tratta di fare sacrifici, ma

di rinunciare consapevolmente, al

superfluo.

Media e pubblicità, spesso

enfatizzano quelle notizie che

servono a vendere di più.

In questo modo, è facile che la

nostra mente si faccia condizionare

dalle paure che ci vengono indotte.

Possiamo però avere una visione

ottimista e agire di conseguenza

ogni giorno, nei nostri ambiti

personali e sociali.

54


ENTOMOLOGIA

Un viaggio nel territorio

per conoscere la diversità

biologica che rende unico

il nostro ecosistema

Lento e paziente, il Melolontha

melolontha è un coleottero che

vive in tutta Europa

Melolontha melolontha

(Foto di Hans Hillewaert)

Il maggiolino dei boschi appenninici

Testi di Guido Pedroni - GRN Gruppo di Ricerca Naturalistica “Charles Darwin” - Bologna

Nei boschi dell’Appennino settentrionale,

comprese le valli bolognesi, sono

presenti numerosissime specie di vari

gruppi animali, soprattutto invertebrati,

tra i quali gli Insetti. Più volte su questa

stessa rivista abbiamo trattato di Insetti

Coleotteri; in questa occasione parliamo

del maggiolino comune, che la scienza

chiama Melolontha melolontha, descritto

per la prima volta da Linnaeus nel lontano

1758. Questa specie appartiene alla

famiglia degli Scarabei (Scarabaeidae). Gli

Scarabei sono formati da un gran numero

di specie, oltre 20.000. Quello più

affine è Melolontha hippocastani; le due

specie possono essere facilmente confuse

l’una con l’altra ad una osservazione

superficiale.

La specie che stiamo considerando vive

nei boschi di quasi tutta Europa, presente

nella porzione più settentrionale della

Spagna fino alla Svezia meridionale

e Scozia, raggiungendo l’Ucraina e la

Russia meridionale, fino alle montagne

del Caucaso. Le sue piante ospiti sono

numerose, interessando alberi e arbusti

a coltivazione agraria, piante forestali e

anche ornamentali.

Melolontha melolontha ha un ciclo di

vita poliennale, cioè passano vari anni

dalla deposizione dell’uovo fino alla

metamorfosi e al termine della sua vita;

l’adulto vive fino ad un massimo di due

mesi. Gli adulti si nutrono delle parti

verdi delle piante ospiti (arbusti e alberi),

soprattutto latifoglie, entrando in azione

al crepuscolo. Le larve invece si nutrono

delle radici di varie specie di piante,

vivendo sottoterra per circa tre o quattro

anni.

Le dimensioni dell’insetto adulto possono

arrivare ai 3 centimetri di lunghezza,

mentre la larva può arrivare a 4 centimetri.

Per evitare infestazioni di questa specie, o

di altre del genere, che possono provocare

vari danni alle piante coltivate, è opportuno

sistemare a copertura del suolo un sistema

di reti a maglie strette per evitare la

deposizione delle uova nel terreno. Fra i

loro predatori naturali troviamo le talpe.

Come tante altre specie di Coleotteri,

dalle forme e dai colori più incredibili,

anche questa specie può attirare la

nostra curiosità per alcuni aspetti della

sua morfologia particolarmente curiosi

e interessanti. Hanno un corpo diviso

in tre parti (capo, torace, addome), con

le elitre che ricoprono le ali e l’addome

sottostante, di colore rosso bruno. La parte

finale dell’addome è di forma triangolare

ed è caratterizzata da una specie di “coda”

chiamata pigidio, di forma leggermente

allungata e sottile, ma ben evidente.

Lateralmente spunta un peluria biancogrigiastra

che fascia l’animale, costituita

da lunghi peli. Le antenne hanno una

articolazione a ginocchio e la loro parte

apicale è formata da un funicolo che

porta una sorta di ventaglio, costituito da

un numero diverso di articoli. L’apparato

boccale molto sviluppato e grande, rispetto

alle dimensioni della testa. Una volta molto

comune nei boschi di collina e montagna,

attualmente sembra in via di rarefazione.

Se avremo la fortuna di imbatterci in

un esemplare adulto di questa specie

potrebbe essere molto interessante fermarsi

ad osservare i movimenti lenti del suo

comportamento; per nulla impressionabile

e armato di grande pazienza, l’insetto

adulto tende a frequentare sempre le

stesse piante e a spostarsi con volo lento e

pesante, accostando il suo modo di volare

a quello di un bombo.

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IL TUO STILE DI VITA!

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55


L’iniziativa con confguide

Il Comitato Portici di Bologna ha

stipulato un patto di collaborazione

con il Quartiere Porto Saragozza per il

recupero del tratto più degradato di via

Galliera. Nel 2025 si impegnerà anche

per Piazza XX settembre assieme ad

Ascom ed Emil Banca

L’amore

del Lions

per i Portici

Testi di Marco Vagnerini

Coordinatore Comitato Lions I Portici di Bologna

Quando nel 1981 sono arrivato a Bologna all’età di 18

anni, quello che mi ha colpito di più della città sono

stati i suoi portici.

Per un bolognese queste storiche arcate sono una

costante, fanno parte del suo panorama quotidiano,

come il mare per chi vive sulla sua riva. Ma a me

ancora adolescente, che venivo da Ravenna, sembrava

una cosa strana e magnifica.

“A Bologna se piove non serve l’ombrello”, era la

risposta ricorrente e scherzosa alla mia domanda del

perché a Bologna ci sono tanti portici.

Al di là di questa indiscutibile constatazione, in effetti

fino agli anni ’90 non c’erano stati studi approfonditi

sulle radici dello straordinario patrimonio architettonico

e urbanistico della nostra città.

Grazie in particolare all’opera della professoressa

Bocchi, si sono chiarite le ragioni storiche che hanno

permesso di sviluppare e mantenere nei secoli la rete

dei portici di Bologna.

Sono stati infatti i decreti municipali emessi dalla

fine del 1200 a stabilire un principio di straordinaria

modernità: l’obbligo per tutti gli edifici privati di

dedicare uno spazio adibito a portico di uso pubblico.

Ancora prima del “boom immobiliare” dell’espansione

universitaria, i portici sono stati spazio di commercio,

produzione artigianale, luogo di stipula notarile e di

incontro fra cittadini e “forestieri”.

Per questo l’Unesco ha riconosciuto i portici di

Bologna come patrimonio universale non solo per

l’unicità della sua rete di 42 km, ma come esempio

di un “importante interscambio di valori umani in un

lungo arco temporale”.

Il riconoscimento del 2021 è arrivato dopo un

PER CHI VUOLE DARE UNA MANO

Chi fosse interessato a collaborare con i Lions in

queste iniziative, anche “mettendo le mani nella

vernice”, può scrivere a marco.vagnerini@gmail.com.

percorso lungo e complesso ed è soggetto a verifiche

periodiche da parte dell’ICOMOS, l’ente certificatore

che ha svolto le visite per la candidatura nel settembre

2020. Va detto che, proprio per le sue caratteristiche,

la rete dei Portici è un bene difficile da tutelare.

L’amministrazione comunale negli ultimi anni ha

stanziato risorse importanti per la lotta al vandalismo

grafico, ma occorre una maggior consapevolezza e

civismo da parte di chi vive, lavora e studia a Bologna.

Per questo, il piano di gestione del dossier Unesco

prevede lo strumento dei patti di collaborazione, con

la sinergia tra associazioni e comitati di volontari

che prestano la loro opera nella lotta al grafitismo e

l’amministrazione che fornisce il materiale necessario.

Da ormai 10 anni anche i Lions di Bologna hanno

voluto dare il loro contributo.

La Lions International Association è nata 107 anni

fa ed è presente in oltre 200 Paesi, con l’obiettivo di

“servire” le comunità locali in cui opera. Con questo

spirito abbiamo iniziato a supportare la candidatura

Unesco quando ancora il risultato sembrava lontano

da raggiungere, con iniziative di lotta al degrado e

sensibilizzazione nelle scuole.

In particolare, il Comitato Lions Portici di Bologna, che

raccoglie tutti i Club dell’area bolognese, ha stipulato

nella primavera del 2023 un patto di collaborazione

con il Quartiere Porto Saragozza, per il recupero

del tratto più degradato di via Galliera. Da questi

interventi, che hanno visto la crescente collaborazione

dei residenti, è nato un Comitato che conta oggi più di

150 aderenti.

Oltre alla lotta contro il vandalismo grafico, il Comitato

Galliera si è attivato per una più complessiva opera

56


Bologna

GLI INTERVENTI PER I PORTICI

Sopra, l’intervento che il Comitato Portici di Bologna

del Lions ha effettuato nel 2018 in via Cartolerie.

A sinistra, quello del 2024 in via Galliera.

di contrasto al degrado della zona, collaborando con

le forze dell’ordine, Hera e altri comitati come quello

di via Polese. Assieme a Confguide abbiamo poi

realizzato visite guidate con gli alunni della scuola

De Amicis a supporto di un percorso didattico sulla

storia dei portici e sono in programma altre iniziative

di valorizzazione dei nostro patrimonio.

Oggi il Comitato Galliera intende impegnarsi nel

percorso di recupero e riqualificazione di piazza XX

settembre, in collaborazione con l’amministrazione e

le altre realtà coinvolte, tra cui Ascom ed Emil Banca

(progetto “Piazzapulita”).

Nel frattempo, sono in corso contatti con i quartieri

Porto Saragozza e Santo Stefano per ampliare il

perimetro dei patti collaborazione nel 2025.

LIONS CLUB INTERNATIONAL

Con oltre 1,4 milioni di soci, Lions Clubs International

è la più grande organizzazione di servizio umanitario

del mondo. Da oltre 100 anni si dedica all’aiuto dei

bisognosi. Tra gli scopi dell’organizzazione rientrano il

“Creare e stimolare uno spirito di comprensione fra i popoli

del mondo, “Promuovere i principi di buon governo e di

buona cittadinanza” e “Prendere attivo interesse al bene

civico, culturale, sociale e morale della comunità”.

Info: www.lionsclubbologna.it

57


Nelle Valli segnala

I prossimi appuntamenti al teatro di Casalecchio di

Reno gestito da Ater

La stagione del Laura Betti

Dieci gli spettacoli per la nuova

stagione del Teatro Laura Betti di

Casalecchio di Reno, affidata alla

cura di ATER Fondazione. Una

proposta che si distingue per la

multidisciplinarità, con l’obiettivo

di arrivare al grande pubblico ma

anche a chi è interessato a temi di

attualità e a nuovi linguaggi. Con

ben 5 prime regionali, nella nuova

stagione convergono il teatro civile,

i grandi nomi della scena, la musica,

la prosa, il circo contemporaneo, la

danza: così, il Teatro Laura Betti si

conferma, ancora una volta, come

luogo di incontro e confronto tra

sguardi diversi, scintilla di quel senso

di comunità che solo l’esperienza

della scena riesce a ricreare.

Dopo la partenza della stagione

con grande successo di pubblico,

il cartellone prosegue giovedì 23

e venerdì 24 gennaio con uno

spettacolo di teatro civile, Impronte

dell’anima. Una testimonianza sullo

sterminio delle persone disabili nel

periodo nazista, raccontata dagli

attori-di-versi della Compagnia

Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt.

Venerdì 28 febbraio appuntamento

con Circo El Grito, la compagnia

pioniera del circo contemporaneo

presenta in prima regionale Luz de

la luna, un appassionante viaggio

onirico in cui musica, circo e volo si

fondono per donare allo spettatore

uno sguardo nuovo verso ignoti

stati di coscienza. Uno spettacolo

entusiasmante e per tutta la famiglia,

a partire dai 6 anni.

Si passa alla danza giovedì 6 marzo:

sul palcoscenico, in prima regionale,

Danse Macabre! del coreografo

Jacopo Jenna. Punto di partenza è

la tradizione tardo-medievale della

danza macabra – la danza dei morti

– tematica iconografica molto diffusa

nella storia dell’arte occidentale che

deriva dal concetto più generale che

ogni movimento sopramondano e

dell’aldilà sia danza. Prende così

forma un invito austero a danzare

verso l’ignoto, legando e affermando

relazioni con il mondo attuale.

Non potevano mancare i grandi

protagonisti della musica nel

cartellone del Betti: venerdì 14 marzo

va in scena Il cielo è pieno di stelle,

l’omaggio a Pino Daniele di Fabrizio

Bosso e Julian Oliver Mazzariello.

Il progetto nasce nell’ambito di una

rassegna dedicata ai grandi autori

italiani organizzata dal Museo Maxxi

di Roma e curata da Ernesto Assante:

fu proprio il giornalista ad affidare

a Fabrizio il compito di rendere

omaggio al grande cantautore

partenopeo.

Giovedì 27 marzo la compagnia Muta

imago si confronta con un classico

della drammaturgia teatrale, in prima

regionale sul palcoscenico del Betti:

Tre sorelle di Cechov. La compagnia

romana, da anni impegnata in un

percorso di ricerca sulla percezione

del tempo e sulle possibilità che

il teatro ha di indagarlo, affronta

questo classico per rispondere a una

semplice domanda, che non a caso

apre il dramma di Cechov: “Perché

ricordare?”.

A chiudere la stagione 24-25 del

Betti un’altra prima regionale:

martedì 8 aprile, Arturo Cirillo porta

in scena Ferdinando, capolavoro

dello scrittore e regista napoletano

Annibale Ruccello scomparso

prematuramente nel 1986. Scritto per

Isa Danieli, Ferdinando rappresenta

uno dei punti più alti della

drammaturgia italiana degli anni ‘80.

Sono previste diverse

formule di abbonamento.

Per info: 051 570977 -

biglietteria@teatrocasalecchio.it

Maggiori informazioni

su www.teatrocasalecchio.it

e www.ater.emr.it.

Vendita anche su Vivaticket.com

La scena è ambientata nell’agosto

1870, alla caduta del Regno delle

Due Sicilie: gli eventi storici vengono

riletti dall’angolazione tutta privata

e familiare di una ormai decadente

classe borghese, lasciando affiorare

la totale assenza di valori morali

nella società e i grandi cambiamenti

in arrivo.

Il Teatro propone inoltre, una

programmazione dedicata al

pubblico dei più piccoli e delle

famiglie aderendo a Sciroppo di

teatro, il progetto promosso da ATER

Fondazione, in rete con gli assessorati

alla Cultura, al Welfare e alla Sanità

della Regione Emilia-Romagna, che

porta bambini e famiglie a teatro con

la “ricetta” del pediatra.

58


5931

Nelle Valli segnala

Dal 2020 il progetto della cooperativa

Madreselva coinvolge giovani dai

13 ai 17 anni in escursioni lungo i

sentieri d’Appennino per camminare e

conoscersi

La compagnia

selvatica

Testi di Eugenia Marzi

Foto di Tommaso Pignedoli - Coop Madreselva

Un gruppo di giovani in cammino,

uniti dalle avventure vissute e dai

chilometri percorsi.

Nel 2020 nasce con Cooperativa

Madreselva La Compagnia Selvatica,

un progetto che coinvolge giovani

dai 13 ai 17 anni in escursioni

lungo i sentieri d’Appennino. Ragazzi

e ragazze provenienti da varie

parti della provincia di Bologna

si ritrovano a cadenza mensile tra i

boschi, borghi e crinali insieme ad

educatori e guide ambientali escursionistiche.

Condividono ogni mese

un’esperienza diversa, imparano

a leggere le mappe cartografiche,

a riconoscere i luoghi, incontrano

persone locali che raccontano loro

storie e saperi e sperimentano con il

tempo la connessione con il mondo

naturale, la cura per i luoghi, per le

relazioni e il legame con il territorio.

Una piccola famiglia selvatica, aperta

a nuovi partecipanti che cresce

“La natura mi fa sentire libera come un uccello che vola nel

cielo. Così come me tanti altri ragazzi si sentono a proprio agio

camminando nei sentieri montani, ammirando il magnifico

paesaggio e ascoltando i suoni della natura. Passano i giorni e

iniziamo a conoscerci, vorrei che quelle giornate non finissero mai.”

negli anni per condividere un gesto

semplice, trasformativo e rivoluzionario:

il camminare insieme. Una

pratica a cui oggi il gruppo è affezionato

e di cui sente il bisogno.

Tanti i luoghi attraversati e conosciuti,

dal Corno alle Scale a Piazza

Maggiore, e così nell’estate 2024 La

Compagnia Selvatica ha raccontato

attraverso una mostra fotografica gli

anni di cammino: “Gli occhi delle

montagne – lo sguardo delle ragazze

e dei ragazzi sull’Appennino e oltre”

è stata presentata dal gruppo a Pianaccio

e a Monteacuto delle Alpi in

occasione di alcuni festival.

Da ottobre 2024, inoltre, La Compagnia

Selvatica partecipa come gruppo

locale ad un innovativo progetto

nato dalla sinergie e dalle visioni

comuni di tre realtà legate a tre luo-

– Elsa

ghi dell’Appennino Emiliano Romagnolo,

posizionate proprio sull’Alta

Via dei Parchi, ed è per questo che

parte l’Alta Via dei Giovani. Berceto,

con l’Appennino Ritrovato, e

Pennabilli, con Selvatica, insieme al

gruppo bolognese della Compagnia

Selvatica saranno collegati da azioni

comuni incentrate su attività avventurose

all’aperto, in cui i giovani

che partecipano ai tre gruppi locali

si incontreranno e intrecceranno le

loro storie comuni, per concludere a

giugno con un trekking sull’Alta Via

dei Parchi! Si tratta di un progetto di

adventure education dedicato agli

adolescenti legati alle aree interne

dell’Emilia Romagna: trekking, arrampicata,

canyoning e speleologia

e altre avventure. Un progetto che

vuole promuovere l’inclusione dei

ragazzi e delle ragazze nelle aree

interne, lo sviluppo di competenze

trasversali e per la vita e rendere i

giovani ambasciatori di valori ecologici

profondi, costruttori di futuri

possibili.

Con i nostri progetti cerchiamo di

stimolare nei giovani un senso di

Appartenenza al territorio per generare

partecipazione, per formare e

formarci come cittadini attivi, consapevoli

e capaci di interagire nel

fondamentale dialogo intergenerazionale,

tra le istanze ambientali e

nell’approccio al territorio.

Info: educazioneambientale@

coopmadreselva.it


SUCCEDE SOLO A BOLOGNA

Torna a gennaio il corso/laboratorio di

dialetto bolognese .

DÎL MÒ TÉ

IN BULGNAIṠ

Si chiama “Dîl mò té in bulgnaiṡ”

e porta appassionati di ogni età e

provenienza alla scoperta del dialetto

bolognese. Succede solo a Bologna

propone, infatti, per il quarto anno un

laboratorio di dialetto per imparare

a leggere e scrivere correttamente

il Bolognese. Da gennaio 2025 sarà

così nuovamente possibile tornare

a studiare e riscoprire questa lingua

che a tutti gli effetti fa parte della

storia di Bologna e dei suoi cittadini.

La sede di questa speciale scuola

sarà anche quest’anno il Teatro

Mazzacorati 1763 di Bologna (via

Toscana 19). Qui, immersi nella

bellezza di affreschi e cariatidi di

questo gioiello settecentesco, gli

iscritti si cimenteranno nell’imparare

nuove regole di grammatica,

fraseologia e scrittura. Il laboratorio,

come da tradizione tenuto dal

professor Roberto Serra, prevede

tre moduli da sei lezioni ciascuno.

Si comincia con la prima parte,

dedicata alla grammatica, dal 13

gennaio al 17 febbraio, ogni lunedì

alle 21. Nei mesi successivi sarà

invece possibile iscriversi agli altri

due moduli, dedicati rispettivamente

a fraseologia e a lettura e scrittura.

Tutte le informazioni sulle

iscrizioni sono pubblicate su www.

succedesoloabologna.it. Tutti i

moduli sono autoconclusivi e non

collegati tra loro.

Fin dalla sua prima edizione, nel

2021, il laboratorio di dialetto ha

riscosso grande partecipazione,

basti pensare che quattro anni fa

le iscrizioni furono addirittura più

di 300, provenienti da ogni parte

del mondo (qualcuno si collegava

addirittura da Seattle e New York!). I

primi due anni i corsi si sono svolti

da remoto a causa della pandemia,

ma dal 2023 hanno preso il via le

lezioni finalmente in presenza, che

caratterizzeranno anche questa

edizione.

Succede solo a Bologna propone così

una nuova occasione per promuovere

e valorizzare una parte fondamentale

della storia della città come il

dialetto. Per mettere in pratica ciò

che si è imparato al laboratorio – o

anche solo per non rinunciare a una

buona dose settimanale di Bolognese

– ci sono poi le visite guidate gratuite

in dialetto, in programma ogni

mercoledì sera con decine di itinerari

diversi. Un’occasione per immergersi

nel dialetto e nella bellezza di tante

perle del territorio bolognese. I tour

dialettali di Succede solo a Bologna,

infatti, escono anche dai confini

cittadini per toccare diversi comuni

della provincia, da San Giovanni

in Persiceto a San Giorgio di Piano,

da Budrio a Monteveglio, passando

per Minerbio, Sala Bolognese e

Bentivoglio. A completare l’offerta

dedicata al Bolognese, ci sono poi

gli spettacoli gratuiti in dialetto al

Teatro Mazzacorati 1763 o alla Badia

del Lavino di Monte San Pietro,

dedicati ad alcuni grandi classici

della letteratura bolognese, come

“La Flèvia” e “Al Ricât”. Il calendario

completo è disponibile sul sito www.

succedesoloabologna.it.

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Il racconto di Fausto Carpani e i disegni di matitaccia

Turciadûra

In realtà si chiamava Armando, ma

per tutti era Turciadûra, (torchiatura,

spremitura dei graspi d’uva). Questo dà

l’idea dell’affezione particolare che il

nostro ebbe sempre per il divino nettare,

bianco o rosso, dolce o secco che

fosse. Se dovessi dire che era un etilista

- come si definisce oggi chi un tempo

qui a Bologna veniva detto inbariagòt

o, meglio ancora, casarôl – non gli

renderei giustizia: beveva, sì, ma non

l’ho mai visto in preda ai fumi dell’alcol,

mai che avesse dato fastidio a nessuno.

Se c’era da stare in compagnia, magari

davanti a un pistån di quello buono, non

si tirava certo indietro.

Era anche un uomo da favori. Quando

c’era da spostare le damigiane in tempo

di travaso, si poteva star tranquilli che

il buon Turciadûra era di corvèe in

qualche cantina.

Capitò una volta che, dopo aver spillato

il vino dal tino e riempite le damigiane

di un amico, nel bigoncio vi era rimasto

del fondo piuttosto torbidiccio, una

brodaglia imbevibile ma non per lui.

Siccome si era già fatta mezzanotte,

decisero di riprendere il lavoro il giorno

dopo. La sera seguente, appena aperto

l’uscio di cantina, l’amico fece un salto

indietro:

- Ai è una pånndga! 1

– Mo in dóvv? 2– gli fece eco Turciadûra,

sorpreso ma per nulla spaventato.

– Lé, lé… int al bigånz! 3 – disse l’amico

facendo l’atto di fuggire.

Turciadûra si avvicinò al recipiente,

allungò una mano sollevando per la coda

una pundgâza morta che galleggiava nel

vino.

– Và là che lî qué l’à fât una bèla môrt!

Anca mé a vrêv murîr andghè int al vén! 4

Gettò la topaccia nel bidone del rusco

e poi, senza fare una piega, prese un

bicchiere e lo affondò nel bigoncio.

Quando lo sollevò, controllò il colore

e la trasparenza del vino davanti alla

lampadina e poi prese a sorseggiarlo

lentamente.

– Vàddet – disse facendo schioccare la

lingua – la smôrcia la s è bèle depositè

e al vén al s è s-ciaré! 5

E l’amico, come in trance:

- Mo… al bàvvet? E la pånndga? 6

– La pånndga l’è stè tròp ingåurda! –

sentenziò Turciadûra – L’à vló bàvver

tótt int una vôlta e acsé la i é vanzè!

Mé invêzi a m al båvv pianén pianén.

In tótt i quî ai vôl sänper moderaziån!

7

Traduzione

1 – C’è un topo!

2 - Ma dove?

3 - Lì, lì nel bigoncio!

4 – Va là che questa qui ha fatto una

bella morte! Anch’io vorrei morire

annegato nel vino!

5 - Vedi, la feccia si è già depositata e

il vino si è schiarito!

6 – Ma… lo bevi? E la topa?

7 – La topa è stata troppo ingorda! Ha

voluto bere tutto d’un fiato e così c’è

rimasta! Io invece me lo bevo piano

piano. In tutte le cose ci vuole sempre

moderazione!

61



IL NONNO DELLA BASSA RACCONTA

Acqua e sviluppo

nella Bassa

padana

Lo studioso e ricercatore ferrarese

di storia delle bonifiche,

Corrado Pocaterra, ha dato alle

stampe un corposo volume dal

titolo Le strade mutevoli. Il sottotitolo

esplicita ulteriormente

questa sua interessante esperienza

bibliografico-archivistica,

curata dalle Edizioni Festina

Lente di Ferrara: Appunti

per una storia di Ferrara e della

bassa pianura padana attraverso

le vie d’acqua. L’approfondito

studio riguarda anche

il territorio bolognese di pianura

in quel secolare processo

di governo delle acque che ha

caratterizzato la Valle Padana

fin quasi ai nostri giorni e che

si ripropone oggi alla luce dei

recenti fenomenai alluvionali.

Il quadro che emerge da questo

suo lavoro è una lucida delineazione

storica, in un più che

vasto arco temporale, delle vicende

di quelle strade d’acqua

mutevoli, caratterizzanti l’esistenza

di generazioni e generazioni

di genti che hanno vissuto

e operato in questi luoghi

e che hanno conservato una

persistenza della memoria che

alluvioni, guerre e altre calamità

non hanno cancellato.

Supportato da un’ampia bibliografia

e da un altrettanto

efficace apparato documentario,

il libro percorre un lungo

itinerario storico in secoli nei

quali la ricerca di gestione

Corrado Pocaterra

Le strade mutevoli. Appunti per una

storia di Ferrara

e della bassa pianura padana attraverso

le vie d’acqua,

Festina Lente, Ferrara, 2022, pp. 395

dell’assetto idrografico ha dominato

la scena economica

e sociale padana. E proprio

dalla formazione di questa significativa

fascia territoriale

si fonda questo lavoro, i cui

sviluppi storici e territoriali si

estendono dall’Emilia all’area

veneta, con particolare attenzione

al Po, al Reno, all’Adige

e agli altri fiumi veneti.

Seguendo una metodologia

rigorosa e nello stesso tempo

divulgativa, i capitoli si articolano

in un crescendo che af-

Gian Paolo Borghi

Le tradizioni popolari

della pianura

bolognese tra fede,

storia e dialetto

fronta il periodo intercorrente

dalle terramare a Spina, passando

quindi all’insediamento

romano, all’Impero romano

d’Occidente, alle invasioni

barbariche e a tante altre importanti

scansioni storiche,

sino a giungere al periodo

pontificio, non tralasciando

peraltro di affrontare gli aspetti

commerciali nel bacino del

Mediterraneo e lungo l’asta

del Po. Di pari interesse si rivelano

inoltre i puntuali dati

riguardanti le gestioni dei boschi

deltizi, la metallurgia e i

viaggiatori dell’epoca, dai trovatori

ai pellegrini, da Dante a

Petrarca.

Un sostanziale contributo alla

storia della cultura del lavoro

padano è dedicato inoltre agli

antichi mestieri delle acque,

che hanno scandito secoli di

attività fra terra e acque: barcaioli

e paroni (e loro imbarcazioni),

traghettatori, cordai,

facchini, falegnami e calatafari,

mulini e mugnai, pescatori,

salinari, acquaioli ecc. Si

legge, ad esempio, per quanto

riguarda i mulini e i mugnai:

la grande produzione di granaglie

nell’area padana comportava

anche la necessità di

disporre di mulini, per ridurre

i volumi di trasporto sfruttando

la forza motrice della corrente

nel grande fiume o i salti di

quota nelle acque interne.

63


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